Libertà e volontà, nell`azione sindacale

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Capitolo I
Libertà e volontà, nell’azione sindacale
SOMMARIO: 1. Un percorso per definire la libera azione sindacale attraverso i suoi
fattori primi: libertà e volontà. – 2. Idee-valore e fine concreto delle relazioni: sulla
complementarità fra regole naturali e regole positive in un libero agire. – 3. La libertà come problema giuridico e gli equivoci «metodologici» nella ricerca dell’«idea
della libertà». – 4. Il binomio libertà-dignità umana: l’«impegno ontologico» della
persona verso una libertà sociale universale. – 5. La volontà come problema giuridico. Volontà del potere pubblico e volontà della società civile fra contrapposizione e
correlazione. – 6. Il rilievo della volontà nella legge e nel negozio; il «dover essere» e
l’«essere» fra efficacia e validità delle regole. – 7. Sulla ricerca della rilevanza giuridica della volontà nei comportamenti umani. – 8. Volontà e sua manifestazione. – 9.
Volontà, contenuto e interesse: la centralità dell’interpretazione. – 10. Libertà e volontà nell’azione. – 11. L’agire ed il tempo. – 12. Il paradigma della libera e consapevole azione sindacale e sua rappresentazione.
1. Un percorso per definire la libera azione sindacale attraverso i
suoi fattori primi: libertà e volontà.
L’azione sindacale, concetto di rilevanza giuridica e prima ancora sociale, alla cui definizione tende questo primo capitolo, pur essendo un agire
collettivamente organizzato, trae la sua forza vitale e dinamica dall’uomo,
1
non solo individuo ma persona , che si confronta con gli altri uomini, nella
realtà sociale cui tutti concorrono.
1
D’altra parte, il diritto del lavoro è disciplina sostanziale tutta ordinata «caratteristicamente a questo fine, alla tutela della libertà, anzi della stessa personalità umana del lavoratore» (F.
SANTORO PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1991, XXXV ed., p. 17, quella su
cui chi scrive ha studiato per la prima volta la materia) e, potrebbe aggiungersi, dei lavoratori,
cogliendo in ciò l’attitudine del lavoro ad aggregare, arricchendole, quelle personalità, nonché
considerando come «il diritto del lavoro nasce quando si trova consenso sul fatto che non esiste
il lavoro in sé, ma esistono le persone che lavorano» (M. NAPOLI, La filosofia del diritto del lavoro, in P. TULLINI (a cura di), Il lavoro: valore, significato, identità, regole, Bologna, 2009, p. 57).
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La funzione negoziale nell’azione sindacale
Nel procedere, dunque, all’analisi dell’azione sindacale, come per qualsiasi altra manifestazione dell’agire umano, ci si chiede in primo luogo che
cosa muova quell’agire.
Si tratta, in altre parole, di avventurarsi nel complesso concatenarsi dei
fattori dell’azione; fattori, che a ben vedere, possono dirsi necessari all’azione stessa: la volontà di agire, la libertà di agire, la complementarità fra
dette volontà e libertà che, insieme, generano l’azione, libera e consapevole, appunto.
Ci si vuole soffermare fin dall’inizio, e con il necessario approfondimento, su concetti fondamentali dell’elaborazione giuridica quali quelli della
libertà, della volontà e dell’azione non solo perché essi svolgono un ruolo
fondante del diritto che nasce dall’agire dell’uomo e non solo per prendere
posizione rispetto al modo di «concepire» gli stessi, ma, soprattutto, per
gettare le basi, di una definizione di quella particolare manifestazione della
persona che è l’azione sindacale oggetto, appunto, di questa trattazione.
È noto come la dottrina, prima, e il diritto positivo, poi, abbiano attribuito all’azione sindacale una specifica accezione di libertà che ne caratterizza la sua stessa entità: la libertà sindacale.
Non si vogliano qui ripercorrere le ben note vicende storiche che hanno
portato ad individuare il concetto di libertà sindacale come concetto distinto dalla libertà individuale, a negarlo poi da parte dell’ordinamento, a
riaffermarlo e a rinnovarlo, quindi, nell’ordinamento stesso al suo massimo
livello positivo (art. 39 Cost.). Né si ritiene necessario, giacché altrettanto
note, ripetere quante e quali siano state le elaborazioni dottrinali e le interpretazioni giurisprudenziali che hanno articolato fino ad oggi il concetto di
libertà sindacale.
Vale notare invece come le varie elaborazioni, sia teoriche che dogmatiche, del concetto di libertà sindacale abbiano visto lo stesso altalenante tra
la dimensione del principio o del valore, del valore universale, del valore
fondamentale, della norma programmatica, della norma immediatamente
imperativa o «super imperativa» proprio a seconda del modo in cui il concetto – (per noi) valore di libertà – è servito a rappresentare le modalità
nelle quali dovessero svolgersi le relazioni sindacali.
In altre parole la variabilità dell’incidenza del valore della libertà sindacale rispetto all’ordinamento positivo, ovvero alla più ampia fenomenologia storica delle relazioni, nonché la qualificazione della sua stessa natura
giuridica, sono dipese, e dipendono, dall’atteggiarsi dei soggetti che rivendicano quella libertà e che alla stessa informano il loro agire.
Ciò evidenzia la necessità, a nostro avviso, di una previa articolata indagine di carattere filosofico-giuridico, che nell’economia di questo lavoro è
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fondante, su elementi pre-giuridici – e non per questo non-giuridici – quali
la libertà come valore universale e la volontà, presupposto dell’azione, i cui
significati e le cui incidenze rispetto ai connotati dell’azione sindacale si ritiene non possano essere dati per scontati.
È, infatti, nostra primaria preoccupazione quella di individuare, anzitutto, punti di riferimento che garantiscano l’organicità della trattazione laddove l’avvertita esigenza di indagare sul dato concreto potrebbe condurre
a involute variazioni sul metodo e sul punto di vista.
Ad esito di tale indagine, libertà e volontà, ed il loro fondersi nell’agire,
potranno essere declinate per una definizione dell’azione sindacale utile a
consentire quella sistemazione unitaria verso la quale quella stessa azione,
superando le ideologie che spesso la caratterizzano, mostra di tendere costantemente.
Il rapporto fra questi due fattori dell’azione, la libertà e la volontà, è,
comunque, di una tale coessenzialità da far dubitare sulla necessità del
procedere all’esame di ciascuno di essi separatamente.
Si vedrà, invece, come un siffatto approccio sia utile a risolvere la questione funzionale alla definizione del concetto di azione sindacale, cioè a
distinguere la diversa rilevanza che in tale concetto assumono gli elementifattori, «libertà-volontà», che ne determinano il contenuto.
La prima questione che si pone nell’analizzare, dunque, il complesso
rapporto fra la volontà, libertà e azione, è l’individuazione dell’opportuno
ordine logico tra detti fattori.
Non può esservi azione senza volontà che la determini. Dunque, fra i
due termini considerati la volontà si presenta per prima all’esame.
Meno determinante potrebbe essere lo stabilire un ordine di precedenza fra fattori nel rapporto fra la volontà e la libertà, se non fosse che il contesto del discorso che si sta conducendo lo impone.
Analogo il rapporto tra volontà e libertà, confluenti nell’azione: se non
vi è volontà non vi è libertà; se non si vuole essere liberi non lo si è.
Ma qui il problema è più complesso di quanto non appaia a prima vista;
si potrebbe replicare, infatti, che non è possibile volere la libertà se non si
è liberi di poterlo fare.
Questa osservazione consente immediatamente l’approccio giuridico al
problema in esame. Argomentare, infatti, che la volontà espressa dagli agenti potrebbe essere condizionata dalla libertà di esprimerla, vuol dire affrontare la questione sotto il profilo del riconoscimento – cui consegue la
validità, ma anche la valenza – che quella volontà può assumere presso i
destinatari della stessa, ovvero presso i terzi.
Tuttavia, sempre sotto il profilo teleologico, va evidenziato ancora come
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l’approccio giuridico, o del riconoscimento, sia preminente anche rispetto
a concezioni puramente volontaristiche del rilievo della volontà: per poter
affermare che la volontà ha una propria forza normativa, ed ha una propria
rilevanza giuridica, bisogna necessariamente verificare se l’ordinamento
giuridico voglia coincidere, sotto questo profilo, con quello materiale; e
cioè individuare la rilevanza dell’interna forza della volontà rispetto, non
solo alle modificazioni fattuali, ma anche a quelle giuridiche.
Avvertendo fin d’ora che il problema del riconoscimento costituirà il filo conduttore di tutta la ricerca, converrà giungere «induttivamente» alla
soluzione, passando prima per l’analisi di quegli elementi-fattori considerati i principali componenti del concetto di azione sindacale. Come pocanzi
si accennava l’analisi che risulta più agevole e più utile svolgere è quella
che affronta singolarmente detti fattori per poi ricondurre gli stessi ad unità nel concetto di coessenzialità.
2. Idee-valore e fine concreto delle relazioni: sulla complementarità fra regole naturali e regole positive in un libero agire.
Secondo l’approccio scelto in questo primo capitolo, che rappresenta la
sistemazione di principi fondamentali della ricerca, la prima analisi che si
vuole affrontare è quella della libertà come fattore primo e come idea a
fortissimo contenuto valoriale soggetta, però, a molteplici equivoci metodologici (v. § 3).
Ma prima di tentare di liberare quest’idea da tali equivoci, viene subito
da chiedersi se sia corretto l’approccio descritto nel precedente paragrafo,
non solo dal più generale punto di vista naturale, ma anche dal più particolare punto di vista giuridico.
Ed il necessario interrogativo di approccio alla trattazione della problematica del rapporto libertà ed azione induce ad una ulteriore considerazione cui va preliminarmente prestata attenzione: è evidente come un
tema quale quello della libertà in rapporto all’azione, coinvolga il dibattito,
in verità mai sopito, del rapporto fra il cosiddetto diritto naturale ed il cosiddetto diritto positivo o, se si vuole, fra le due correnti del pensiero filosofico, oltreché giuridico, del giusnaturalismo e del giuspositivismo.
L’idea della libertà, infatti, pur promanando dall’iperuranea sede delle
idee, discende, attraverso le sue declinazioni, sul piano della vita concreta
delle relazioni fra gli uomini che, però, sempre ad un fine ideale aspirano e,
dunque, sempre alle idee si rifanno.
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In altre parole la rilevanza pre-giuridica dell’idea della libertà assume
una sua precisa rilevanza giuridica, cioè una rilevanza cogente rispetto a
quelle relazioni fra uomini, regolandole.
La difficoltà dell’analisi si acuisce proprio nel momento della verifica di
quel transitare delle idee verso il mondo dei valori a rilevanza giuridica, e
della permanenza o meno, in siffatti valori, delle caratteristiche trascendenti di quelle idee.
Si tratta di una verifica la cui necessità, a ben vedere, resta sempre attuale; il dibattito, forse non del tutto così antitetico, fra giusnaturalisti e giuspositivisti non può dirsi tramontato, neanche considerando le elaborazioni dello storicismo filosofico che, proprio in chiave contestualista, vede risolvere la disputa definitivamente a favore del positivismo giuridico limitando l’analisi della stessa al più circoscritto campo della scienza giuridica.
Infatti, dove quel campo lo si consideri, come deve essere, nel più ampio ambito filosofico – anche quello della sua specie del positivismo filosofico, pur contrario al giusnaturalismo metafisico – la disputa, o meglio, il
dibattito in questione può considerarsi aperto e sempre attuale; ciò soprattutto oggi quando l’involuzione determinata da una carenza spirituale della
società – al cui sviluppo spirituale ci chiama, col lavoro, la stessa Carta costituzionale (art. 4, comma 2) – fa riemergere provvidenzialmente l’esigenza di riacquisire una dimensione spirituale del lavoro stesso.
Sebbene correnti neopositivistiche e analitiche ritengano di aver dissolto,
quale «fallacia naturalistica» la derivazione del dover essere dall’essere, del
valore dal fatto, rapporti che costituirebbero il nucleo essenziale del giusna2
3
turalismo , l’approccio giusnaturalista trova spazio per un suo ritorno .
Anzitutto bisogna rilevare che, per quanto una critica teoretica del diritto naturale possa sembrare valida, detta critica non può giungere fino a disconoscere l’importanza storica, morale e sociale del giusnaturalismo, così
largamente presente nel corso del pensiero umano.
A tal proposito, e per inciso, non può dimenticarsi che ancora oggi il discorso del giurista si avvale, più o meno consapevolmente, di una serie di
principi o concetti elaborati dal giusnaturalismo (ad esempio, pacta sunt
servanda, la coerenza e la certezza del diritto, la irretroattività della legge,
la completezza o la completabilità dell’ordinamento, il principio di uguaglianza, quello di legalità, ecc.).
2
Critica ampiamente questa tesi G. CARCATERRA, Il problema della fallacia naturalistica. La
derivazione del dover essere dall’essere, Milano, 1969.
3
Cfr. G. AMBROSETTI, L’eterno ritorno del diritto naturale, Roma, 1965.
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Ma non è sul piano storico che, come si è detto, va affrontato il dibattito fra le due correnti filosofico giuridiche, giacché, contestualizzando i valori giuridici, ci si espone sempre al rischio di negare loro ogni valenza universale; peraltro, la stessa analisi storiografica evidenzia come quel dibattito abbia caratterizzato non solo l’elaborazione dottrinale degli ultimi tre
secoli ma, soprattutto, l’evoluzione dei contenuti normativi delle codifica4
zioni che durante questo periodo si sono succedute .
Certo non va respinta aprioristicamente la lezione critica dello storicismo rispetto al giusnaturalismo ma risulterebbe sterile un ulteriore dibattito che si innesti su quello già complesso in argomento; il dibattito cioè se
un ritorno del giusnaturalismo rispetto al pensiero moderno sia da leggere
in chiave di compossibilità o meno, in altre parole, se il giusnaturalismo sia
moderno o meno.
La discussione su ciò che sia o non sia moderno apparirebbe inestricabile considerando la spiccata impronta personale e la forte carica assiologica che rivela ogni periodizzazione della storia del pensiero. Basti qui rilevare che orientamenti giusnaturalisti hanno continuato a manifestarsi anche
nell’ambito di analisi filosofiche, antropologiche, psicoanalitiche, filosofico-giuridiche che potevano a prima vista apparire come escludenti siffatti
5
orientamenti .
Quello che senz’altro può cogliersi dalla lezione storica è il rilievo di
una complessiva unità di funzione del giusnaturalismo, in tutto il corso
della storia umana. Precisamente, la funzione di intervenire con correttivi
sul potere del legislatore positivo e più in generale dello Stato.
Non si è qui a giudicare se quegli interventi siano nel senso di una limitazione di quel potere ovvero di una sua legittimazione o, più spesso, giustificazione; si esprime però la preferenza verso il primo.
Al di là dell’inciso appena formulato – che non fa altro che dimostrare
come la valutazione di valore circa gli interventi del giusnaturalismo dipenda dall’orientamento personale – emerge, ancora, dalla valutazione storica una «storia perfettamente continua» del giusnaturalismo, pur fra le rilevabili differenze di posizione dei suoi sostenitori. Ma codeste differenze,
in verità, sono soltanto apparenti poiché tutte sono tese a dare rilievo al
principio fondante del pensiero in questione e cioè della natura dell’uomo
4
Per una analisi in chiave storiografica del dibattito fra giusnaturalismo e giuspositivismo
cfr. S. COTTA, voce Giusnaturalismo, in Enc. dir., vol. XIX, Milano, 1970, p. 510.
5
Si pensi all’esistenzialismo di Jasper o di Heidegger, ai contesti della filosofia marxista descritti da Bloch, ai contributi dell’analisi filosofica del diritto di Hart o del Passerin d’Entreves.
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quale essere razionale e sociale il che è, o dovrebbe essere, la giustificazio6
ne di ogni forma di diritto positivo .
È noto, tuttavia, come il giusnaturalismo continui ad essere considerato
una corrente filosofico-giuridica contrapposta, o da contrapporre, al giuspositivismo.
Secondo la posizione giusnaturalista, in estrema brevità, il diritto promana direttamente dalla natura, poiché è la natura stessa ad avere forza
propria nel porre i precetti cogenti, capaci di regolare le relazioni interpersonali e di disciplinare l’agire dell’uomo, nei suoi processi di aggregazione
in formazioni sociali, anche in quelle sovraordinate quali lo Stato (questa
almeno la posizione più radicale del pensiero giusnaturalista).
È stato, d’altro canto, sostenuto, che la funzione generale del giusnaturalismo è stata, ed è, quella di educare alla ragione, alla razionale organiz7
zazione della convivenza umana ; questo è l’elemento di maggior rilievo
nel processo di riconsiderazione della portata del giusnaturalismo anche
rispetto al giuspositivismo.
Quanto al giuspositivismo, sempre in estrema sintesi, il diritto è soltanto
8
quello «positivo», quello che, da un punto di vista logico , è «affermativo»,
nel senso che «afferma» e, dunque, «pone» la regola; il diritto, pertanto, è
il risultato di un atto di posizione, cioè, di creazione da parte di chi ha
l’autorità per farlo; per i giuspositivisti, dunque, quello positivo è l’unico
diritto in quanto è l’unico ad essere effettivo, cioè certo, sicuro, riconoscibile. Secondo la nota formula hegeliana esso è, al tempo stesso, strumento
e risultato dell’attuazione della libertà e della volontà.
Il diritto, considerato in senso giuspositivista, è, dunque, un processo di
autofondazione o autoproduzione cosciente e volontaria: lo Stato si autolimita soggiacendo alle regole da esso stesso poste.
Quella giuspositivista è, dunque, una posizione che necessariamente rifiuta la riduzione a fattore comune di diverse e varie concezioni del diritto
che ciascun ordinamento può darsi; l’autofondazione e l’autoproduzione
di cui si diceva dipendono, infatti, dall’autoriconoscimento dell’autorità
che ha il potere di fondare l’ordinamento e produrne le regole.
6
Cfr. in questo senso, fra i più lucidi, F. POLLOK, The history of the Law of Nature (1900),
ora in Jurisprudence and Legal Eessays, London, 1961, p. 124 ss.
7
FASSÒ G., Storia della filosofia del diritto – vol. II: L’età moderna, Roma-Bari, 2006.
8
Vale forse la pena di evidenziare che in ambito giuridico, quello cioè dove si riconosce la
regola dall’opinio iuris ac neccessitatis, il punto di vista dell’osservatore logico dal quale la regola
viene individuata non può prescindere, a meno di non negare se stesso, dall’intuizione del «trascendente intelletto attivo» aristotelico che consente la formazione di quella opinio cioè di una
convinzione pre-giuridica e non per questo non-giuridica.
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Si conclude, pertanto, che è diritto soltanto quello che nelle varie società umane si presenta ed effettivamente si manifesta come insieme, tendenzialmente sistematico, delle norme in esse vigenti e non già come aspirazione, tentativo, speranza di attingere una maggior bontà o giustizia per i
contenuti di queste norme e di raggiungere quindi una migliore giustifica9
zione del sistema .
Vien da chiedersi, però, a che cosa serva e, comunque, come sopravviva
un diritto, o meglio un ordinamento, che non aspiri a ciò.
E quest’ultimo interrogativo esistenziale – ma che poniamo senza una
vera angoscia esistenzialista, consci che il giuspositivismo, da solo, non basta – è tanto più retorico quando si guarda al concreto atteggiarsi dell’ordinamento sindacale, sia che si ponga la sua fondazione sull’interesse collettivo, sia che promani da un’autorità originaria «intersindacale».
Infatti, l’osservazione, a prima vista forte, che solitamente si pone a sostegno delle tesi giuspositiviste, non è che un’autocensura; l’osservazione in
parola è quella per la quale muovendo dall’assunto metodologico che eviti
di scambiare l’esistente con l’auspicabile, la realtà con l’idealità, può consentirsi un proficuo incontro e confronto fra i vari sistemi socio normativi e
può persino favorirsi la tendenza verso il superamento delle differenze e
delle contraddizioni.
È innegabile che la forza di tale argomentazione sia proporzionale, nelle
varie epoche storiche, alla qualità dei rapporti fra diversi ordinamenti giuridici e fra gli Stati di diversa derivazione sociologica.
Inoltre, ciò vale fin tanto che oggetto del confronto siano i singoli prodotti delle diverse culture, in specie quelli suscettibili di valutazione economica, che consentano all’analisi di svolgersi sui piani di omogeneità che
quei prodotti, pur diversi fra loro, possono presentare (i beni materiali ed i
loro mercato, i diritti connessi con la circolazione di detti beni, l’organizzazione di impresa).
Ma quando a confronto, procedendo per astrazioni via via crescenti,
vengano poste identità di carattere superiore come le civiltà, diviene inevitabile l’analisi valoriale delle stesse.
Il confronto a questo punto non può più restare di carattere particolare
e relativo ma deve coinvolgere direttamente l’interprete nella domanda,
che si pone in chiave problematica, su cosa sia e perché esista il diritto.
L’analisi giuspositivista non è volta a dare risposta a tale domanda, e sicuramente non è in grado di farlo rispetto all’analisi di ordinamenti giuri9
Cfr. F. MODUGNO, voce Positivismo giuridico, in Enc. dir., vol. XXXIV, Milano, 1985, p.
448 ss., in part. p. 451.
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dici che traggono origine da civiltà diverse, giacché mai si svolge attraverso
il ricorso a meta-riferimenti, quali sono i valori, che non siano esattamente
codificati o riconosciuti come norme cogenti dall’ordinamento positivo.
Anzi, il pensiero giuspositivista, muovendo dall’assunto della non compossibilità di tutti i valori – nel senso che esiste sempre una circostanza in
cui perseguire un valore è incompatibile con il perseguirne un altro – giunge alla (non) soluzione della incommensurabilità delle civiltà o delle teorie,
eliminando dal ragionamento ogni riferimento ulteriore al piano positivo
qual è il riferimento a valori metagiuridici che, comunque, caratterizzino le
culture.
È, come si diceva, una contestualizzazione dei contenuti dei principi e
dei relativi criteri di giudizio degli stessi, a questo punto intesi come non
separabili dai primi; è una autocensura giacché quel meta-riferimento, pur
avvertito come necessario per la miglior completezza e bontà del ragionamento, si preferisce eluderlo pretendendo, per di più, che questa sia proprio la tecnica che consente di dimostrare la non necessità di un riferimento ulteriore rispetto al piano di diritto positivo in quanto esso sarebbe di
per sé esaustivo.
È una tecnica tautologica che giunge proprio a quel dogmatismo che il
giuspositivismo voleva evitare.
Ma può esservi una soluzione diversa.
Il giuspositivismo nasce storicamente come antigiusnaturalismo, ma riconsiderando le finalità dell’una e dell’altra scuola di pensiero è forse possibile trovare una loro complementarità.
Si è già accennato come il giusnaturalismo abbia una propria finalità,
forse non genetica della corrente di pensiero ma sicuramente individuata
come caratterizzante la stessa, che è quella di dare completa risposta sul
perché del diritto.
Ma poiché a ciò è possibile rispondere senza ricorrere in alcun modo al
concetto di natura (ed è proprio ciò che fanno i giuspositivisti), è, dunque,
necessario un secondo atto nella rappresentazione del giusnaturalismo,
quello, cioè, di una risposta caratterizzante.
La risposta giusnaturalista è nota: il diritto ha il suo fondamento nella
natura e anche se questa può essere intesa in maniera diversa dai vari interpreti ciò non confuta comunque l’unicità e l’univocità della determinazione di un comune campo dove situare l’origine del diritto.
Giungere a questa risposta potrebbe non essere tuttavia sufficiente; la
rappresentazione si prolunga, quindi, in un terzo atto nel quale si crede
possa rinvenirsi quel punto di contatto fra il diritto naturale e il diritto umano o positivo: determinare se tutto il diritto sia derivante dalla natura
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ovvero se questa lasci un qualche spazio ad un altro tipo di diritto, quello
positivo, appunto, e, in caso affermativo, quale sia il rapporto intercorrente
fra i due diritti sul piano fattuale (della necessità) e su quello del valore
(della obbligatorietà).
10
In verità, l’idea non è nuova ; ma questo passaggio potrebbe anche essere riconsiderato in chiave di «specificazione» del diritto naturale.
Superando posizioni radicali per le quali tutto è diritto naturale, anche
quello positivo, il quale quindi, è solo apparentemente posto dalla libera
volontà del legislatore umano, si può invece affermare che il diritto naturale, pur nella sua completezza e perfezione, necessita sul piano fattuale di
un diritto degli uomini che da quello naturale tragga fondamento e che, riferendosi a quel diritto naturale, ne specifichi, articolandolo in norme giuridiche, la portata secondo la comprensione che gli uomini possono avere
del diritto naturale stesso. Si dà così risposta, anche sul piano valoriale
(primariamente quello dell’obbligatorietà), all’interrogativo su che cosa sia
il diritto e a cosa serva.
La risposta che ne dà il diritto naturale, nella complessità delle sue manifestazioni, specificata come detto dal diritto positivo, si ritiene possa essere lo spunto per la più completa rappresentazione dell’atteggiarsi della
natura umana rispetto al problema del perché individuare e rispettare regole, nonché rispetto a quello della libertà, apparentemente residuale rispetto a quelle regole ma che, invece, come vedremo, ne è a giuridico fondamento.
3. La libertà come problema giuridico e gli equivoci «metodologici» nella ricerca dell’«idea della libertà».
La libertà è stata, dunque, ed è, oggetto di controversie in campo filosofico che si esauriscono senza vincitori né vinti; la libertà è al tempo stesso
elemento del ragionamento giuridico. è essenziale ammonire fin da subito
che la distinzione fra il campo filosofico e quello giuridico si ritiene, rispetto al fattore libertà, inopportuna giacché nella gran parte delle analisi sul
tema è stata proprio quella distinzione (in chiave di separazione) a genera10
Si pensi alla complessa elaborazione giusnaturalista di Hobbes che dall’egoismo sopraffattore della natura umana giunge a considerare il diritto positivo come necessaria correzione del
diritto naturale. Esamina, in chiave giuspositivista, il giusnaturalismo di Hobbes, fino a definirlo
un giusnaturalista a modo suo, N. BOBBIO, Da Hobbes a Marx, Napoli, 1965, pp. 11-74.
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re le conseguenze, forse inevitabili, di un problema mal posto nello scontro
tra giusnaturalisti e giuspositivisti, fra le difficoltà teoretiche di trovare un
fondamento adeguato al diritto naturale e le difficoltà etiche di fondare,
unicamente, sul diritto positivo tutto il complesso mondo dei valori che al
11
diritto afferiscono .
In effetti quello della libertà è un problema che coinvolge la integrale
dimensione dell’essere, anche dunque la sua razionalità; coinvolge direttamente anche il diritto, espressione dell’essere razionale.
Ad arricchire, la questione vi è la constatazione che ogni atto di libertà
ed ogni esercizio della stessa coinvolgono l’uomo in un «impegno ontolo12
gico» , lo impegnano cioè, a quel difficile passaggio dal livello ontico a
quello, appunto, ontologico, passaggio che avviene non soltanto attraverso
una riflessione logica ma, principalmente, attraverso un impegno morale;
una cosa, infatti, è dedurre, sul piano ontico, che si può essere liberi, ben
altra è, invece, riconoscere che l’altro è, ontologicamente, libero.
13
L’«idea della libertà» è universalmente accettata come polisensa e,
quindi, soggetta ad equivoci.
Ad esempio, nella storiografia della sua interpretazione essa è stata intesa
come l’assenza totale di ogni potere esterno e di ogni condizionamento nei
confronti della volontà; in senso diametralmente opposto, come l’adattamento
consapevole, dunque volontario, dell’individuo all’ordine universale; altresì,
come libertà da qualsiasi norma, nel senso del non assoggettamento dell’individuo a norme diverse da quelle che costituiscano il suo essere assolutamente
libero, ovvero come sottoposizione alle sole norme «giuste» o «razionali». Da
qui la libertà intesa come libera attività di partecipazione alla vita politica, cui
si contrappone la libertà come eremo, cioè come rifugio nel proprio «io»; come fondamento del diritto, ma anche come antitesi dello stesso.
Ancora, in tema di equivoci, c’è chi, constatando la molteplicità di significati e la connessa molteplicità di valutazioni, intende la libertà come
un concetto caratterizzato, molto più di altri, da un «sovraccarico» metafisico e ideologico, dal quale, è ragionevole pensare, non possa mai essere
14
depurato completamente .
11
Fra chi considera tuttora attuale l’approccio giusnaturalista, in chiave moderna, cfr.
l’interessante contributo di F. D’AGOSTINO, Ancora sulla razionalità dei diritti dell’uomo, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1982, p. 919.
12
Cfr. A. RIGOBELLO, Impegno ontologico, Roma, 1977.
13
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817), trad. it., Bari, 1967, § 482, p. 442.
14
A. BALDASSARRE, voce Libertà, I, Problemi generali, in Enc. giur. Treccani, vol. XIX, Roma, 1993, p. 1.
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Contribuisce al rilevato equivoco l’approccio storicista e contestualista
che spesso si dà all’analisi di temi fondamentali, classici (cioè capaci di rimanere pregevoli e durevoli nel tempo), che, non per nulla, sono altrettan15
to universalmente definiti «valori» .
E per questa via si ritiene che rispetto all’idea della libertà la contestualizzazione della stessa, in chiave storica, dia maggior ragione alla pretesa
relatività del concetto, giacché, si dice, proprio la maggiore o minore libertà dipende da come su quell’idea si riflettano le linee di pensiero dominanti in determinate epoche, comprese le convinzioni di ordine metafisico o
ideologico che di volta in volta vi ineriscono.
Infine, si è già visto (§ 2) come alla categoria degli equivoci debba essere ricondotta la tradizionale pretesa reciproca negazione fra la libertà in
16
senso «naturale» e la legge.
4. Il binomio libertà-dignità umana: l’«impegno ontologico» della
persona verso una libertà sociale universale.
Il punto di contatto – o, meglio, la complementarità – proposto quale
17
formula di una distinzione giustificata (e non di separazione ) fra diritto
naturale e diritto positivo, giustifica a sua volta la conclusione che segue
circa l’idea della libertà, ed essa rappresenta, poi, uno dei fili conduttori di
questa ricerca.
L’idea di libertà, nella accezione di valore universale, è un elemento
15
Si noti come il termine «valore» viene utilizzato sostanzialmente con la stessa valenza di
«riferimento» tanto dai filosofi naturalisti quanto dai giuristi positivisti.
16
Ci si riferisce qui alla c.d. «libertà naturale», all’accezione cioè di libertà come un vacuum,
«spazio vuoto di diritto» nel quale vige la negazione o l’assenza del potere della collettività generale dello Stato, cioè delle relazioni giuridiche e del diritto imperativo. Cfr. fra gli altri K.
BERGBOHM, Jurisprudenz und Rechtphilosophie, I, Leipzig, 1892, p. 375 ss.
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Cfr. G. TRAVERSA, Identità etica, Roma, 2008, p. 55 ss., in particolare p. 58, argomenta –
con acuta riflessione filosofica sui limiti di una pretesa circolarità di rapporto fra legge morale
(quale ratio cognoscendi della libertà) e libertà (quale ratio essendi della legge morale), evidenziando come in tal modo i due termini del rapporto restino separati e non, appunto, in rapporto
fra loro; in altre parole, nessuno dei due può giustificare dell’altro la distinzione rispetto a sé
perché ciascuno si assume a priori come esistente rispetto all’altro; ne consegue che quella reciproca distinzione resta senza giustificazione e, quindi, muta in separazione.
L’ideale trascendentale (la legge naturale dell’idea della libertà) essendo completamente determinato, non può giustificare alcuna distinzione e può solo accompagnare, regolandola, la
conoscenza dell’esistente.
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