Il destino dei BRICs: più differenze e meno crescita

Emilio Rossi
Il destino dei BRICs:
più differenze e meno
crescita
Le economie emergenti sono assai diverse tra loro. Continueranno a modificare gli equilibri mondiali anche nei prossimi anni,
in cui vedranno comunque tassi di crescita meno tumultuosi.
Rispetto agli altri giganti (Russia, India, Cina, che pure hanno
gravi problemi di stabilità interna) il Brasile deve varare riforme importanti per sfruttare il suo potenziale. Il sistema politico
è quindi una variabile decisiva.
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L’acronimo bric fu coniato da Jim O’Neill della Goldman Sachs in un paper
pubblicato il 30 novembre 2001 intitolato “Building Better Global Economic brics”. Da allora, nell’immaginario collettivo, i brics hanno rappresentato la forza emergente di paesi fino ad allora considerati “in via di sviluppo” e quindi ai margini del progresso economico e della rilevanza politica.
L’analisi di O’Neill fu pubblicata nel pieno della crisi seguente all’attentato
alle torri gemelle e molti allora lo interpretarono solo un modo intelligente
da parte di Goldman Sachs di attrarre l’attenzione su nuovi temi di investimento. Qualsiasi fosse l’intenzione degli autori, da allora la definizione bric
è entrata nell’uso quotidiano
di economisti e politologi
Emilio Rossi è presidente di EconPartners e senior
advisor alla Oxford Economics, a Roma.
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e ha certamente contribuito ad attrarre l’attenzione del mondo sui quattro
grandi paesi emergenti: Brasile, Russia, India e Cina.
Il tema fondamentale sintetizzato nell’acronimo bric è la percezione del potenziale economico e politico rappresentato dai quattro paesi – e per estensione dall’intero mondo emergente. Dopo oltre un (tumultuoso) decennio, è
legittimo chiedersi: in che misura questa percezione si è fondata su solide
basi, e come evolverà il potenziale espresso dai bric e dai paesi emergenti
in generale?
La prima riflessione da fare è che al di là della visione immaginifica della
forza di un mondo fino ad allora vissuto ai margini del benessere, la sigla
non è rappresentativa dell’insieme dei paesi emergenti. I quattro paesi
sono inoltre profondamente diversi tra loro, per storia, cultura, e anche per
struttura economica. Tuttavia, essi trovano nell’elemento dimensionale, sia
Figura 1 • PIL a prezzi costanti
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bric
4500
4000
3500
3000
2500
2000
1500
1000
500
0
1980
1985
1990
Cina
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1995
2000
India
2005
Brasile
2010
2015
2020
Russia
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in senso geografico che demografico, una caratteristica comune che li ha posti giustamente all’attenzione del mondo in un momento storico di passaggio.
RADIOGRAFIA DI QUATTRO ECONOMIE MOLTO DIVERSE. I bric
sono i quattro paesi non-ocse più grandi per dimensione geografica, e comprendono oltre un quarto della terraferma. Inoltre, secondo i dati della Banca mondiale riferiti al 2012 (ultimo anno disponibile), i bric rappresentano
circa il 42,4% della popolazione mondiale, con Cina (1.370 milioni di abitanti) e India (1.248 milioni) a fare la parte del leone – ognuno dei due paesi
ha una popolazione maggiore di quella dell’intera area
ocse.
I “quattro”
possono contare anche su ingenti risorse naturali, materie prime e materiali
hanno un
pil
pari al 27% di quello mondiale (calcolato a parità di potere
d’acquisto) e la loro quota nel commercio mondiale costituisce circa il 16%
del totale. Questi paesi beneficiano anche della presenza di elevate risorse
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terre coltivabili; detengono quasi il 40% delle riserve valutarie e in oro;
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un quinto della produzione mondiale di petrolio; possiedono un terzo delle
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rari; detengono quasi un quarto della produzione di gas a livello globale e
intellettuali e di un enorme serbatoio di lavoro a buon mercato.
Come si vede, si tratta di situazioni e numeri oggettivamente molto rilevanti,
e il peso politico che ne consegue sulla scena mondiale ha iniziato a manifestarsi in maniera significativa nei primi anni del nuovo secolo. Il paesaggio
economico-finanziario globale era cambiato in maniera sostanziale, con la
fine della guerra fredda e anche grazie alla crescita dei grandi stati con
economia in transizione verso modelli di mercato (Russia e Cina in primis).
In questo contesto, lo schema di regolamentazione globale (wto, Doha/Bali
Round, Kyoto Protocol, ecc.) ha iniziato a mostrare sempre più spesso dei
gravi limiti di funzionamento. Coscienti di essere portatori di esigenze diverse da quelle del mondo occidentale ma anche in risposta a queste lacune
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nella cooperazione internazionale, i bric decisero di avviare un processo di
cooperazione politica ed economica. Inizialmente, fu la Russia a promuovere nel 2002 la cooperazione con India e Cina – ma un’alleanza fondamentalmente asiatica non era in grado di porsi come polo alternativo all’egemonia
occidentale e si rendeva opportuna l’aggregazione di potenze di altri continenti. La prima fu il Brasile, maggior paese del continente sudamericano,
e in seguito il Sud Africa (su pressione della Cina, che aveva nel frattempo
realizzato una forte penetrazione economica e diplomatica in Africa).
Dal 2006 il processo si concretizzò in incontri dei ministri degli Esteri,
seguiti da regolari incontri dei ministri delle Finanze e di quelli dell’Agricoltura. All’incontro dei ministri degli Esteri a Ekaterinburg del 16 maggio
diritto internazionale, ricostruzione del sistema economico-finanziario mondiale, sicurezza globale nel campo degli armamenti, clima, energia, generi
alimentari, antiterrorismo. Due anni dopo, il 16 giugno 2009, di nuovo a
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bric:
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del 2008 furono tracciate le direttrici della collaborazione dei paesi
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Ekaterinburg si tenne il primo vertice ufficiale dei bric tra i leader dei quattro paesi: Luiz Inácio Lula da Silva, Dmitry Medvedev, Manmohan Singh e
Hu Jintao. Oltre a svolgere un ruolo sempre più marcato nella lotta alle conseguenze della crisi finanziaria nell’ambito del G20, i “quattro” hanno preso
la prima posizione comune rilevante in sede internazionale con l’astensione
in Consiglio di Sicurezza sulla Libia nel marzo 2011.
Tutto questo ha permesso al gruppo di acquisire un maggiore peso geopolitico, accentuandone il carattere dinamico e multipolare, ma non sarebbe
corretto interpretare i
bric
come un blocco omogeneo. Come sottolineano
vari studi e analisi, infatti, vi sono importanti fattori di tensione tra alcuni
di questi paesi: la Russia è una ex-superpotenza con forti ambizioni in Asia
centrale e in certa misura nel Pacifico, come anche in Medio Oriente; Cina
e India sono potenze con aspirazioni competitive sia nell’Asia continentale
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che lungo le coste e le gradi rotte oceaniche, e sono alla ricerca costante
di risorse naturali e opportunità economiche in Africa, con forti interessi
anche in Medio Oriente e nel Golfo Persico.
In un contesto economico globale debole, come quello che appare molto
probabile nell’intero prossimo decennio, questi fattori di tensione potrebbero acuirsi e la cooperazione subire delle battute d’arresto. È lecito quindi
domandarsi se un rallentamento nei tassi della crescita economica sia inevitabile per ognuno dei bric. Le diversità tra i quattro paesi sono profonde
e l’analisi di tali diversità consente di valutare quali siano gli sviluppi, le
sfide e i rischi per ognuno di essi.
Prima di tutto, è bene rimarcare la differenza sostanziale in termini di cre-
di
pil
reale si stacca significativamente e a passo sempre più rapido da
quella degli altri tre paesi. Oggi l’economia cinese pesa per circa il 57% del
pil del gruppo bric, è più grande di oltre due volte e mezza quella indiana, e
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re dal grafico, a partire dai primi anni novanta la crescita cinese in termini
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molto più dinamico, quasi tumultuoso, rispetto agli altri. Come si può vede-
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scita economica. Il processo di sviluppo economico cinese è infatti stato
di oltre cinque volte quella russa o brasiliana (a parità di potere d’acquisto).
Anche l’India, pur distanziata ampiamente dalla Cina, ha avuto comunque
la capacità di ampliare la propria economia a tassi molto più rapidi di Brasile e Russia. Tuttavia, date le differenze nella dimensione della popolazione,
il pil pro capite presenta ancora oggi un gap considerevole in favore di Russia e Brasile – con la Cina e l’India, rispettivamente, a poco più della metà
e a circa un quarto del reddito pro capite russo. Queste differenze così rilevanti nel pil pro capite implicano (a parità di altre condizioni) un potenziale
più favorevole per la crescita futura di India e Cina, e altresì una maggiore
urgenza per i policy makers indiani e cinesi di sostenere e riformare le loro
economie al fine di evitare scontri sociali.
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La Cina, che alcuni definiscono un’economia a “comunismo di mercato”
(esperimento storicamente unico), ha al suo attivo oltre due decenni di
crescita elevatissima basata sulle esportazioni e sugli investimenti – sia
pubblici, sia diretti dall’estero. I fattori che hanno reso possibile questa
performance sono la vasta disponibilità di mano d’opera a bassissimo costo
(nel manifatturiero, il costo è tra un settimo e un decimo dei paesi avanzati),
tassi di urbanizzazione in forte aumento (dal 20% del 1980 a oltre il 50%
del 2012), una classe media in rapida ascesa numerica, l’elevata e crescente scolarizzazione e specializzazione della forza lavoro. Inoltre, dopo circa
vent’anni di surplus nelle partite correnti, la Cina ha accumulato quasi 3,5
trilioni di dollari di riserve valutarie ed è diventata il maggior possessore
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difficoltà oggettive di gestire una crescita così tumultuosa.
Il terzo Plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese, nel no-
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creando delle criticità di notevole rilievo, alcune (ma non tutte) legate alle
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di buoni del Tesoro americani. Nel corso degli anni tuttavia si sono venute
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vembre scorso, ha individuato alcune sfide per il prossimo quinquennio,
seppur in continuità con la linea espressa dai precedenti Plenum: lotta alla
crescente disuguaglianza sociale, perseguimento di un modello economico
più sostenibile nel lungo termine, miglioramento delle infrastrutture, più
mercato e meno Stato, urbanizzazione, riduzione delle emissioni di gas serra. Ma gli investitori internazionali guardano anche agli elementi di rischio:
la bolla dei prezzi nel settore immobiliare (sostenuta dal settore bancario),
da molti temuta come possibile preludio a una crisi grave, il debito accumulato dai governi locali (circa tre trilioni di dollari, il 30% del
pil,
secondo
il China’s National Audit Office) che potrebbe finire per minare la stabilità
del settore bancario, la incessante pressione dalle campagne sulle città con
i conseguenti rischi per la stabilità sociale. Anche per prevenire la degenerazione di questi rischi, i policy makers cinesi hanno avviato un percorso di
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transizione a un modello economico più basato sui consumi privati e meno
dipendente dagli investimenti (oggi quasi il 45% del pil, un ritmo non sostenibile) e dalle esportazioni. Questo passaggio avrà come conseguenza
un rallentamento dei tassi di crescita del paese, essendo abbastanza agevole frenare gli investimenti ma molto più complesso accelerare i consumi.
Considerando inoltre che tassi di crescita superiori all’11% sono fisiologicamente insostenibili nel lungo termine, il rallentamento medio della velocità di crescita dell’economia cinese nel prossimo decennio sarà intorno ai
quattro punti percentuali (rispetto al decennio precedente), portando il pil
a tassi di crescita medi annui di circa il 6,5%.
In India, gli anni 2000 hanno visto una forte accelerazione del tasso di in-
quelle di merci dall’8,5% al 14,5%, soprattutto grazie agli investimenti diretti dall’estero. Come per la Cina, la forza principale dell’export dell’India
risiede nel costo orario del lavoro, contenuto e di poco superiore a quello
cinese – ma, come in Cina, anche il contenuto tecnologico dei prodotti è in
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dal 2,2% nel 1997 all’8,2% nel 2012 e
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pil
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sono cresciute come quota del
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tegrazione dell’economia con il resto del mondo: le esportazioni di servizi
costante aumento. Inoltre, la forte crescita dell’economia ha consentito un
rapido miglioramento del deficit di bilancio pubblico dal 2002 (6% del pil)
fino al 2008 (2,5%), mentre lo sviluppo del settore dei servizi (ormai oltre il
60% dell’economia) è stato funzionale alla creazione di un ampio ceto medio che secondo alcune stime consterebbe di circa 300 milioni di persone.
Gli investimenti fissi lordi rappresentano circa il 30% del
pil,
una quota
molto alta ma giustificata dal fabbisogno di infrastrutture, e che porta come
conseguenza benigna l’innalzamento dell’output potenziale.
Purtroppo però la frammentazione del sistema politico indiano ha portato
il paese a lasciar scorrere il boom economico degli ultimi dieci anni senza
davvero approfittarne, perdendo un’occasione unica per introdurre riforme
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profonde. E così, non avendo ampliato nel momento giusto la base fiscale, la
natura ciclica del miglioramento delle finanze pubbliche ha avuto modo di
mostrarsi non appena il pil ha rallentato da quasi il 10% a “solo” il 6,5% tra il
2008 e il 2009, riportando in pochi anni il deficit pubblico a livelli anche peggiori di quelli del 2002. I seri problemi strutturali del paese hanno contribuito
in misura significativa a ridurre il tasso di crescita negli ultimi due anni: l’inadeguatezza delle infrastrutture in settori chiave come l’elettricità e i trasporti
che non ha consentito all’offerta di aumentare in linea con la domanda, le
barriere all’entrata in alcuni settori che hanno limitato gli investimenti diretti
dall’estero, l’ampiezza dei sussidi che, oltre a pesare sulle finanze pubbliche,
ha ostacolato il miglioramento della competitività – – non a caso l’India è
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stessi innescato, hanno esposto il paese al deterioramento delle condizioni
esterne, dando luogo a un sensibile deficit delle partite correnti, salito fino al
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mondiale. Negli ultimi anni questi fattori, insieme al contesto inflattivo da loro
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ancora al 134° posto nella classifica di “Ease of Doing Business” della Banca
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5% del pil nel 2012 e ancora intorno al 4% nel 2013, e a un assottigliamento
delle riserve internazionali. Nel momento in cui gli investitori internazionali
hanno spostato la loro liquidità verso paesi a più basso rischio (dal maggio
2013, con l’annuncio della Federal Reserve sulla politica monetaria americana, cioè il rientro del programma di quantitative easing negli Stati Uniti, o
tapering) l’inasprimento della politica monetaria e la svalutazione della rupia
sono state inevitabili. La difficoltà del quadro politico e l’avvicinarsi delle
elezioni politiche del 2014 diventano fattori decisivi, considerato che le riforme strutturali richiederebbero tempi lunghi di implementazione (e ancor più
lunghi per coglierne i frutti); intanto, la crescita globale continuerà a essere
poco propulsiva. Dunque, ci si può attendere una crescita per il pil indiano
nel prossimo decennio minore di almeno un paio di punti percentuali che nel
decennio precedente (5,5% versus 7,5%).
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La Russia è, tra i quattro bric, il paese a più elevato reddito pro capite, sebbene esso non arrivi a un terzo di quello degli Stati Uniti. È anche il paese
più grande al mondo per estensione geografica e viene da un passato non
lontano di potenza politico-militare globale, caratterizzata da un sistema
economico rigidamente statalista. La transizione iniziata negli anni ottanta
verso l’economia di mercato non può ancora oggi considerarsi conclusa,
data la forte presenza dello stato non solo nell’energia ma in molti settori
produttivi (automobilistico, ingegneristico, aeronautico, ecc.). Nel periodo
intercorso tra il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 e la fine della pesante crisi finanziaria del 1998, l’economia russa si è contratta di circa il
40%, mentre la popolazione si è ridotta di 5,5 milioni. Ma la successiva
vello complessivo di ricchezza, sia il riemergere dell’influenza politica della
Federazione Russa nel mondo. L’economia russa, dopo aver vissuto un boom
storico nel periodo 2000-2007, ha scoperto con la crisi di essere troppo di-
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secondo per riserve di carbone) ha consentito sia un ampio recupero nel li-
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giore produttore di petrolio e gas al mondo, maggiore esportatore di gas e
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affermazione della Russia come superpotenza nel settore energetico (mag-
pendente dal settore del petrolio e del gas (circa il 15% del pil e il 65% del
valore delle esportazioni) – e quindi altrettanto dipendente dagli andamenti
altalenanti dei loro prezzi.
A risentire negativamente di questa forza del settore energetico sono stati
i settori non-energetici, su cui ha pesato il cambio reale forte nella media
dell’ultimo decennio (fino al già ricordato annuncio della Fed del maggio
2013), e un costo del lavoro per unità di prodotto in termini reali cresciuto
a ritmi multipli di quelli degli altri bric e di tutta l’area ocse. A fronte di
tassi di crescita molto modesti negli ultimi due anni (una media di circa
il 2%), la Federazione Russa si trova oggi a combattere con una inflazione testardamente elevata (oltre il 10% annuo fino al 2010, oggi intorno al
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dollari
Figura 2 • Costo orario del lavoro
4000
3500
3000
2500
2000
1500
1000
500
0
UE
USA
Giappone
Corea
Brasile
Cina
India
Russia
6,5%), che limita lo spazio di manovra in direzione di un allentamento della
politica monetaria da parte della Banca centrale, il cui nuovo governatore
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marzo
Fonte: Oxford Economics/Haver Analytics.
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Elvira Nabiullina ha peraltro preso posizioni rigidamente ispirate alla lotta
all’inflazione. Se da un lato la spirale salari-prezzi è politicamente difficile
da domare in un’economia emergente (o comunque in transizione) dall’altro
il livello di corruzione nel sistema politico-amministrativo appare decisamente alto, concorrendo alla riduzione dell’efficienza complessiva del paese. Secondo Transparency International il livello di corruzione in Russia è
tra i più alti dei paesi emergenti e decisamente il più alto tra i bric, mentre
la Banca mondiale riporta un risultato analogo anche per il rispetto della
rule of law. Questi fattori appaiono di improbabile soluzione nel breve termine. Peraltro il prezzo degli idrocarburi è previsto fiacco nei prossimi anni,
sia per la debolezza della domanda globale (intaccata dalla bassa crescita
economica e dal ricorso a fonti energetiche alternative) sia, e soprattutto,
per gli elevati livelli di produzione di shale oil e shale gas attesi negli usa e
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forse anche in altri paesi. La somma di questi fattori fa ritenere che anche
per la Russia ci sia da attendersi tassi di crescita non elevati nel prossimo
decennio (intorno al 3%), almeno in confronto a quelli del quinquennio precrisi (oltre il 7%).
Il Brasile è oggi la settima economia del pianeta, dietro al Regno Unito e
davanti a Russia, Italia e India (in base al pil nominale in dollari a tassi di
cambio correnti). Negli ultimi decenni del secolo scorso, il Brasile ha avuto
una storia economica travagliata, segnata da crisi ricorrenti e caratterizzata
da iperinflazione. Dal 1990 ha perseguito una strategia di crescita orientata
all’apertura al commercio estero (il totale degli scambi con l’estero è passato
dal 14% al 28% del pil) e, a partire dal 2002, ha maturato una disciplina
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fiscale più rigorosa che nel passato. Pur non ostentando tassi di crescita del
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Figura 3 • Andamento
2000 Q1 = 100
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900
780
660
540
420
300
180
60
2000
2002
2004
USA
Cina
2006
Brasile
2008
Germania
2010
Russia
2012
India
Fonte: Oxford Economics.
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pil
paragonabili a quelli di Cina, India o anche Russia, dal 2002 al 2010
ha attraversato un periodo di brillantezza dell’economia (con l’eccezione del
2009, a causa della crisi globale). In questa fase ha beneficiato del recupero
di credibilità interna e internazionale ottenuto durante la presidenza Lula,
degli alti prezzi delle commodities e dell’andamento positivo dei consumi
interni, sostenuti dalla disponibilità di credito.
Tuttavia, l’attività economica del Brasile è rallentata durante il 2013. In
maggio, l’annuncio del presidente della Fed, Ben Bernanke, sulla politica
monetaria americana, ha messo il real sotto pressione, aggravando l’inflazione attraverso il deprezzamento della valuta. La conseguente stretta monetaria della banca centrale brasiliana si è sommata a un rallentamento econo2014
il 25% del suo valore in poche settimane riflettendo le vulnerabilità più evidenti del paese: squilibri nei conti con l’estero, alta inflazione e elevato rap-
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il più colpito dalla dichiarazione di Bernanke. Il real ha perso tra il 20% e
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mico già in corso. Tra i “quattro” bric, il Brasile (insieme all’India) è stato
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porto deficit pubblico/pil. Questo andamento della moneta brasiliana è stato
analogo a quello della rupia indiana, la quale presentava sostanzialmente
le stesse debolezze. Come in India, peraltro, anche in Brasile la politica è
apparsa titubante e poco propensa (anche in vista delle elezioni di ottobre
2014) ad avviare riforme che ristabiliscano la fiducia di imprese, consumatori e investitori stranieri. Al contrario, le decisioni di politica economica e
di bilancio più recenti sono state all’insegna degli “aggiustamenti” di breve
periodo: blocco dei prezzi amministrati, contabilità creativa (soprattutto sulle spese delle amministrazioni locali), incentivi fiscali per l’acquisto di beni
di consumo durevole, uso delle banche pubbliche per accordare credito. In
sintesi, anche per il Brasile si evidenzia una combinazione di fattori che
spinge a una revisione verso il basso della crescita attesa, nonostante la
spinta iniziale alle esportazioni legata alla svalutazione recente. Ma, in par-
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te come conseguenza dei più bassi tassi di crescita del pil ottenuti nell’ultimo decennio, il rallentamento della crescita brasiliana sarà probabilmente
di entità inferiore rispetto a quello degli altri bric, e solamente di un punto
percentuale nella media del prossimo decennio (con la crescita media del
pil
che da circa il 4% scenderà al 3%).
In sintesi, il rallentamento dei bric è inevitabile, ma essi continueranno a
costituire un motore dell’economia mondiale grazie a tassi di crescita comunque sostenuti e impensabili per economie mature. In funzione della
loro capacità di guadagnare maggiore rilevanza geopolitica a livello globale,
diventerà inevitabile anche rivedere la composizione e la governance degli
organismi internazionali, come il Consiglio di Sicurezza dell’onu, la Banca
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mondiale, il Fondo monetario internazionale, il wto.
Le opinioni espresse sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di
Oxford Economics.
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