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Quaderni Sanitari piacentini
Atti dei Convegni Medici realizzati nell’anno 2002
A cura del Comitato Coordinatore Attività Convegnistiche e Seminariali:
Responsabile: prof. Giancarlo Carrara
Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Piacenza
Ordine Provinciale dei Veterinari di Piacenza
Medici di Medicina Generale e Pediatri di libera scelta
Veterinari dell’Azienda USL di Piacenza
Coordinamento e Segreteria organizzativa:
U.O. Comunicazione e Marketing - Responsabile dott.ssa Rossana Ferrante
Segreteria scientifica e revisione testi: dr.ssa Rosanna Cesena
Progetto grafico: Gianni Battini
Hanno collaborato: Gloria Trentin, Emanuela Ugaglia
Impaginazione e stampa: Grafiche Lama
Tiratura complessiva 500 copie
Distribuzione gratuita a cura dell’Azienda USL di Piacenza
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Sommario
Prefazione
Pag.
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CONVEGNO DEL 26 GENNAIO 2002 "APPLICAZIONI
DELL'IMAGING NUCLEARE AI PROCESSI INFETTIVI
IN AMBITO CHIRURGICO"
M. Sisti - Inquadramento clinico dei processi infettivi in ambito chirurgico
B. Bagni - L'utilizzazione della Medicina Nucleare nelle infezioni
M.F. Borghi - Tecniche di marcatura
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CONVEGNO DEL 2 FEBBRAIO 2002
LE CURE DOMICILIARI NELL'AZIENDA USL DI PIACENZA"
E. Pisati - Il riordino delle cure domiciliari
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CONVEGNO DEL 18 MAGGIO 2002 "AGGIORNAMENTI IN EPATOLOGIA"
G. Carrara - Ruolo della ferrodeplezione nella terapia dell'epatite cronica C
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G. Carrara - Aggiornamenti in Epatologia
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CONVEGNO DEI GIORNI 11 - 12 APRILE 2002
"ECOGRAFIA IN GASTROENTEROLOGIA"
F. Fornari - Epatocarcinoma: diagnosi morfologica e rilievi eco-color doppler
F. Giangregorio - L'apporto della diagnostica US
nell'appendicite ed in altre patologie acute del tubo gastroenterico
CONVEGNO DEL 20 APRILE 2002
"I PROBLEMI ALCOOL CORRELATI NELL'AMBULATORIO
DEI MEDICI DI MEDICINA GENERALE"
A. Mosti - L'alcoolismo "sotto soglia"
M. Buono - La dipendenza patologica: correlati bio- psico- sociali
G. Calandra, A. Mosti - Sert e Medici di base: sperimentazione
di un modello di intervento per la prevenzione
e individuazione di comportamenti legati al consumo e all'abuso alcoolico
CONVEGNO DEL 4 MAGGIO 2002
"INCONTRO INTERNAZIONALE DI FLEBOLOGIA
STRATEGIE TERAPEUTICHE E NUOVE TECNOLOGIE"
S. Ricci - La flebectomia ambulatoriale
Tecnica di Muller o associazione alla chirurgia tradizionale
G. Masera - Aspetti psicologici nel decorso post- operatorio
in relazione all'intervento di varici agli arti inferiori
eseguito in Day Surgery
A. Frullini - La scleroterapia ecoguidata
A. Cavezzi - Short Saphenous Vein Surgery: Lights and shadows
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C. Cagnoni, D. Pancotti, G. Carrara - Nuove tecniche diagnostiche
per l'epatocarcinoma
C. CAGNONI, D. PANCOTTI, G. CARRARA
Terapia del carcinoma epatico primitivo
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CONVEGNO DEL 18 MAGGIO 2002
"CONVEGNO DELLA SOCIETA' ITALIANA DI PEDIATRIA
SEZIONE EMILIANO ROMAGNOLA"
G. Biasucci - Il divezzamento
S. Amarri, L.Viola, F. Balli - Difficoltà alimentari ed insufficienza intestinale
G. Calabrese - Gli inquinanti alimentari
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CONVEGNO DEL 25 MAGGIO 2002 "ASMA BRONCHIALE"
P. Bottrighi - Asma bronchiale
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CONVEGNO DEL 1 ° GIUGNO 2002
"AGGIORNAMENTI E CONTROVERSIE IN PATOLOGIA
NODULARE TIROIDEA"
A. Castelli - Trattamento della patologia nodulare tiroidea con L-tiroxina:
R. Lampugnani, R. Delfrate - La chirurgia della tiroide in day-surgery
A. Frasoldati, R. Valcavi - Diagnostica del nodulo tiroideo
D. Pancotti - Ormoni tiroidei e metabolismo minerale osseo
E. Banchini, P. Capelli, C. Negri
Terapia chirurgica della patologia nodulare tiroidea
R. Minelli, R. Delsignore
Trattamento della patologia nodulare con L-Tiroxina: pro e contro
CONVEGNO DEL 5 OTTOBRE 2002
"LA RINOPLASTICA : MORFODINAMICA FUNZIONALE TRADIZIONALE"
V. Micheli Pellegrini - Lezione Magistrale:
Nozioni generali sulla rinoplastica
A. Scattolin - Indicazioni alle tecniche chirurgiche di correzione
della punta del naso durante la rinoplastica
CONVEGNO DEL 9 NOVEMBRE 2002
"LA RESPONSABILITA' PROFESSIONALE DEL MEDICO DI FAMIGLIA"
F. Buzzi - I nuovi profili operativi sui quali si proietta la responsabilità
del medico di famiglia
CONVEGNO DEL 19 OTTOBRE 2002
"ALLERGIE. GESTIONE DEL PAZIENTE ALLERGICO. LINEE GUIDA"
G. Busti, G. Biasucci - Proposte di linee guida nel paziente
in età pediatrica per patologie cutanee e respiratorie
E. Savi - Definizione di ipersensibilizzazione allergica:
nuova nomenclatura dell'allergia secondo EAACI
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E. Savi - Diagnostica allergologica
U. Gandi, E. Savi - Proposta di Linee Guida per pazienti in età adulta
M.T. Costantino - Un'emergenza medica: lo shock anafilattico
I. Cacciatori - Aspetti psicologici nell'eziopatogenesi
e nel trattamento della patologia allergica
R. Sacchetti
Linee Guida per la richiesta di consulenza allergologica in pediatria
CONVEGNO DEL 26 OTTOBRE 2002
"ESPERIENZE CLINICHE IN MEDICINA INTERNA"
P. Mannucci - Lettura Magistrale:
L'iperomocisteinemia è un fattore di rischio di aterotrombosi?
D. Imberti, A. Ghirarduzzi, C. Prati, G. Scannapieco, A. Nicolini,
S. Villalta, M. Silingardi, E. Sverzellati, P. Cavallotti, I. Iori
La trombosi venosa viscerale"idiopatica" all'esordio:
correlazioni diagnostico-terapeutiche su 29 casi
CONVEGNO DEL 15 NOVEMBRE 2002
"SCHIZOFRENIA. DALLA RICERCA AGLI INTERVENTI EFFICACI"
R. Warner, M.B., D.P.M. -The Prevention of Schizophrenia
G. Harrison - First episode schizophrenia
G. De Girolamo - I trattamenti farmacologici e psicosociali
della schizofrenia: evidenze ed illusioni
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CONVEGNO DEL 16 NOVEMBRE 2002 "LA INSUFFICIENZA RESPIRATORIA:
RECENTI ACQUISIZIONI PATOGENETICHE,
NUOVE TECNICHE TERAPEUTICHE"
B. Ajolfi - Epidemiologia dell'insufficienza respiratoria.
Incidenza in Val D'Arda
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M. Confalonieri - Ruolo della ventilazione meccanica
non invasiva nel paziente ospedalizzato e domiciliare
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P. Bottrighi - Corretto utilizzo della ossigenoterapia
a lungo termine secondo le recenti linee guida
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CONVEGNO DEL 23 NOVEMBRE 2002
"1° GIORNATA DI AGGIORNAMENTO IN SENOLOGIA"
G. Macellari - La chirurgia oncologica della mammella con degenza breve
N. Orsi - Il referto dell'anatomopatologo: quali requisiti?
L. Cavanna - Carcinoma della mammella, trattamento della malattia avanzata
CONVEGNO DEL 23 NOVEMBRE 2002
"LA REUMATOLOGIA NELLA PRATICA CLINICA"
C. Concesi - Significato clinico del fenomeno di Raynaud
C. Buzio - Inquadramento clinico delle vasculiti sistemiche
R. Corinaldesi, E. Fustini, R. De Giorgio
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Gastrolesività da farmaci anti-infiammatori non steroidei:
aspetti clinici e fisiopatologici
L. Cristinelli - Interessamento renale nelle malattie reumatiche
P. Manganelli - Osteoporosi steroidea: prevenzione e terapia
P. Macchioni - Polimialgia reumatica
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CONVEGNO DEL 7 DICEMBRE 2002
"L'ATTUALE APPROCCIO DEL MEDICO
DI MEDICINA GENERALE NELLE DEMENZE SENILI"
M. Bonomini - L'attuale approccio del Medico di medicina
generale nelle demenze senili. Abstract
F. Nonino - Efficacia e sicurezza delle terapie farmacologiche
nelle demenze senili
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CONVEGNO DEL 14 DICEMBRE 2002
"SCOMPENSO CARDIACO. LINEE GUIDA"
A. Capucci - Abstract su Hub&Spoke
M. Piepoli - Scompenso cardiaco
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Prefazione
Il rapporto medico-paziente costituisce il fattore di gran lunga più importante per la
qualificazione dell’assistenza sanitaria. Questo rapporto cardine di ogni atto medico,
da Ippocrate e per diversi millenni, si è molto deteriorato negli ultimi 50 anni.
Da quando le forme croniche di patologia sono diventate molto frequenti fino a rappresentare la parte più laboriosa dell’impegno medico, il problema più preoccupante
e più importante è stato quello di trovare adeguate risorse economiche.
Se il Medico ha smesso un atteggiamento paternalistico non più adatto ai tempi, il
paziente ha conosciuto una minore attenzione da parte del Sanitario alla sua necessità di essere aiutato a decidere per il meglio.
La mancanza di tempo che sempre più attanaglia il Medico e la esagerata attesa nella risposta dell’esito delle indagini strumentali e di laboratorio, più spesso che nella
normale interpretazione hanno grandemente disorientato il malato.
Più o meno consciamente il paziente avverte di non aver ricevuto nella giusta misura quell’aiuto che egli pensava di ottenere rivolgendosi al suo curante.
Le cause che hanno condotto a questa situazione sono assai diverse: tra queste la
mancanza di adeguata informazione, anzi troppo spesso la disinformazione del paziente è uno dei momenti determinanti. Tanto importanti che in altri paesi, ed in
particolare negli Stati Uniti, vengono preparati opuscoli per quasi ogni forma di patologia cronica. Opuscoli non solo capaci di informare sulla malattia nei suoi aspetti
diagnostici e terapeutici ma anche preventivi. Questi opuscoli rappresentano da tempo un mezzo collaudato per aiutare il Medico nel suo rapporto con il paziente.
Dell’importanza di questi incontri di aggiornamento per i Medici di Medicina Generale si è detto chiaramente in tante altre occasioni.
Questa breve raccolta di contributi che in maniera semplice ma corretta, breve ma
efficace, ed in uno stile accattivante, informa ampiamente il Medico nella sua attività
giornaliera. Consente loro di apprendere tutta una serie di problematiche che ben
difficilmente troverebbe il tempo per verificarli e approfondirli.
La lettura di questi incontri pone il Medico nella favorevole condizione di procedere
in maniera motivata sapendo il perché e i limiti di ogni decisione.
La pubblicazione può essere letta, e la realizzazione editoriale invita a farlo, in maniera più estesa o più ristretta a seconda della propensione del Medico ad approfondire l’argomento.
Abbiamo pensato per il futuro alcuni iniziative. Vorremmo raccogliere anche contributi direttamente da Colleghi che vogliono inviare dattiloscritti sulla loro esperienza o
ricerche, soprattutto dai giovani medici che desiderano farsi conoscere o partecipare
in prima persona all’aggiornamento culturale di tutta la classe sanitaria.
Dr. Prof. Giancarlo Carrara
Direttore Dipartimento Ospedaliero di Medicina Generale
Azienda USL di Piacenza
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Convegno 26 gennaio 2002: “Applicazioni dell’Imaging nucleare ai processi infettivi in ambito chirurgico”
Inquadramento clinico dei processi infettivi in ambito chirurgico
Marzio Sisti
Dirigente Medico U.O. Malattie Infettive
AUSL Piacenza
Per infezioni chirurgiche si devono intendere i processi infettivi con competenza all’ambito chirurgico. Una prima grande distinzione va fatta tra i processi infettivi che
richiedono o possono richiedere un intervento chirurgico per la risoluzione della patologia, in aggiunta alla terapia antibiotica, e i processi infettivi che insorgono in correlazione all’intervento chirurgico (infezioni “crociate” ospedaliere).
Queste ultime sono secondarie all’intervento stesso, con il quale hanno, in modo più
o meno chiaro, un nesso di causalità. Il trattamento di queste infezioni “crociate” postchirugiche può essere ancora solo chirurgico, solo medico mediante terapia antibiotica o, come più spesso accadde, la combinazione di questi due atteggiamenti.
Le infezioni postchirurgiche restano la prima e più frequente causa di fallimento dell’intervento chirurgico, rappresentano circa il 40% di tutte le infezioni “hospital acquired”, provocano morbidità aggiunta ed, in alcuni casi, mortalità, con un aumento
dei costi quantificabile, per ogni caso, di circa € 10.000- 13.000.
Numerosi sono gli studi che hanno permesso di evidenziare tale patologia ospedaliera, ma diversi sono i parametri utilizzati, i criteri di definizione dell’infezione, i tempi di osservazione. Lo Studio Multicentrico sulle Infezioni Ospedaliere in ambito chirurgico, realizzato presso le Strutture Sanitarie della Regione Emilia Romagna nel corso del 2000, ha dimostrato una incidenza “over all” (per tutte le infezioni) pari al
6,5% (397 infezioni su 6167 interventi chirurgici sorvegliati nel corso di un mese). Gli
eventi rilevati, ripartiti per localizzazione, sono, nel 71% infezioni del sito chirurgico;
nel 14% infezioni delle vie urinarie; nel 7,7% infezioni dell’apparato respiratorio e
nel 7,7% sepsi. La percentuale di infezione rilevata, suddivisa per tipologia di intervento, secondo la classificazione del National Research Council del 1964 (Tabella 1),
dimostra una netta correlazione tra il rischio di infezione e il grado di contaminazione di base; ma è da considerare che, numericamente, gli interventi di classe 1 (puliti)
e classe 2 (puliti contaminati) sono nettamente i più frequenti e, quindi, contribuiscono, per valori assoluti, alla maggior parte delle infezioni postchirurgiche.
TABELLA 1
Tipo di intervento e rischio di infezione
1)Pulito:
0,5 - 3%
2)Pulito- cont.: 2 - 5%
3)Contaminato: 8 - 12%
4)Sporco:
5 - 40%
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Rimanendo all’ambito delle infezioni postchirurgiche, occorre osservare come l’insorgenza di tali infezioni è correlabile ad una semplice equazione:
carica infettiva X virulenza dell’agente infettivo
difese dell’ospite
Questa equazione, individuata da Alteimer nel 1964, rende spiegazione di come
non tutte le infezioni hanno la stessa espressività clinica e come l’ambiente chirurgico, inteso come insieme di tutti gli atteggiamenti e manovre eseguite in corrispondenza dell’intervento, incide sul rischio infettivo.
La maggior parte delle infezioni postchirurgiche ha il suo inizio al momento dell’intervento chirurgico (inoculo intraoperatorio).
Una volta che l’agente infettivo è arrivato al sito chirurgico, la permanenza e il successivo sviluppo dell’infezione, con potenziale espressività clinica, dipendono dalla
capacità del sistema immunitario di impedire l’adesione del battere alle strutture
“hardware” del sito chirurgico (ad esempio i punti di sutura).
Altri ed importanti esempi di “hardware” chirurgico sono le protesi (vascolari, ortopediche, oculari, urologiche etc.) .
La vittoria dell’agente infettivo nella “corsa alla superficie” è il miglior presupposto
per una potenziale patologia infettiva del sito chirurgico, soprattutto se l’agente infettivo ha il tempo e la possibilità di crearsi una nicchia ecologica, il cui più tipico esempio è lo “slime” (chiamato anche “glicocalice”), sostanza esopolisaccaridica, prodotta
da alcuni agenti infettivi (uno su tutti: Stafilococco).
Lo “slime” rende l’agente infettivo quasi inattaccabile dai farmaci antibiotici e dalla
cellule dell’immunità; questo spiega la rilevante necessità di espiantare le protesi o di
“riaprire” la ferita chirurgica.
L’espressività clinica dipende dalle difese immunitarie, dallo status nutrizionale, dalla
concomitante presenza di altre patologie (diabete, cirrosi, tumori, insufficienza renale…) o di trattamenti farmacologici ad azione immunodeprimente ( steroidi, ciclosporina …).
TABELLA 2
Diagnostica Multimediale
-esame obiettivo
-ematologia biochimica
-microbiologia
-imaging
La diagnosi delle infezioni chirurgiche è estremamente difficile, poiché manca un
univoco “marcatore” sensibile e specifico. Per definire la presenza di infezione, la localizzazione, l’estensione, l’etiologia microbiologica, l’evoluzione e l’eventuale guarigione occorre mettere in campo una diagnostica “multimediale” coinvolgente vari
approcci (Tabella 2). Partendo dalla sintomatologia riferita dal paziente e passando
all’esame obiettivo al letto del malato, possiamo già avere nozioni per porre, con
sufficiente certezza, la diagnosi di infezione.
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La comparsa di secrezione (più o meno purulenta) dalla ferita, il dolore locale, il
gonfiore, l’edema, il rossore, la febbre, la compromissione delle condizioni generali
sono, a vario titolo, spie importanti di un processo settico.
Occorre ricordare che, se è vero che non tutte le infezioni della ferita si trasformano
in infezioni del sito chirurgico e in infezioni sistemiche, è pur altrettanto vero che tutte le infezioni del sito chirurgico (e la grande maggioranza delle infezioni postchirurgiche) nascono da una infezione della ferita.
Ulteriori indicatori di infezione sono i parametri ematologici, in particolare alcuni
indicatori di flogosi che, se pur non molto specifici, sono comunque utili a indicare e
sorvegliare l’infezione. Tra i più importanti ricordiamo l’esame emocromocitometrico
(leucocitosi !!!!), la Velocità di Eritrosedimentazione, la proteina C reattiva.
Questi esami rivestono una rilevante importanza se eseguiti in modalità seriata, con
prelievi settimanali per valutazione della curva pre e postoperatoria e durante l’eventuale trattamento antibiotico.
Fondamentale importanza, nell’inquadrare una patologia infettivologica, riveste l’esame microbiologico. L’isolamento di un agente infettivo, la sua tipizzazione, la determinazione della sensibilità agli antibiotici mediante l’Antibiogramma sono molto
utili per strutturare una adeguata terapia antibiotica, efficace e mirata.
Purtroppo a tale importanza non corrisponde altrettanta facilità.
Il già citato Studio di Sorveglianza (Regione Emilia Romagna anno 2000) segnala che
solo nel 21% delle infezioni del sito chirurgico è stato effettuato un esame colturale,
con riscontro di un agente infettivo nel 86% dei casi.
La scarsa propensione ad eseguire l’esame microbiologico è ulteriormente complicato
dalle difficoltà intrinseche delle metodiche di raccolta, conservazione, trasporto e semina dei materiali biologici da sottoporre ad esame batteriologico diretto e colturale.
Le modalità di raccolta del campione (dalla ferita: tampone superficiale, profondo,
agoaspirato; dal circolo ematico: timing rispetto alla febbre, rispetto delle norme di
asepsi; da drenaggi, cateteri venosi centrali o periferici, da cateteri vescicali etc. etc
...); le modalità di conservazione e di invio al Laboratorio (timing rispetto al momento del prelievo, temperatura, mezzo di trasporto etc.); le modalità di trattamento in
Laboratorio (semina, arricchimento, lettura delle piastre etc..) incidono fortemente
sulla accuratezza dell’esame e rendono non sempre possibile l’adeguato riconoscimento della specie batterica coinvolta.
Da varie esperienze la percentuale di isolamenti non corretti (falsi positivi per contaminazione di flora saprofita o falsi negativi per non corretta modalità di raccolta e di
conservazione) sono tra il 20-30%.
L’esempio più classico si riscontra con il bassissimo numero di isolamenti di agenti
infettivi anaerobi, nonostante moltissimi AA (e la stessa fisiopatologia dell’infezione
chirurgica) portano a supporre che tali agenti infettivi siano tra i principali responsabili di molte infezioni chirurgiche .
La difficoltà dell’isolamento degli Anaerobi dipende dal fatto che tali agenti infettivi,
al di fuori delle condizioni di anaerobiosi in cui vivono (raccolte profonde, ascessi,
sangue venoso etc), non crescono, per cui, a meno di mettere in atto opportuni provvedimenti (raccolta in anaerobiosi, terreni di trasporto appositi …) non si riesce ad
ottenere un riscontro microbiologico.
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L’isolamento microbiologico è molto importante per la ricerca di Stafilococco Aureo
Meticillino Resistente (MRSA), attraverso la definizione del pattern di sensibilità agli
antibiotici.
La Meticillino Resistenza (dimostrabile come resistenza alla oxacillina) rimane uno
dei più grandi problemi della farmacologia moderna, poiché tale assetto restringe
enormemente l’arco di molecole utilizzabili.
L’Imaging rappresenta una altra grande risorsa nella Diagnostica Multimediale delle
Infezioni Chirurgiche.
L’insieme delle metodiche ( Tabella 3) utilizzabili dimostra la difficoltà della scelta.
TABELLA 3
Imaging
Rx tradizionale
Fistolografia
Ecografia
TC senza e con mdc
RMN
Scintigrafia
Spesso l’utilizzo di una metodica è derivato da una “abitudine”, in alcuni casi tramandata per anni, per cui non sempre si affrontano con il dovuto entusiasmo metodiche diverse o nuove.
Tra gli ortopedici è imperante la Radiologia tradizionale mediante Rx.
Tale approccio, sicuramente a basso costo e facilmente disponibile, è molto importante nella patologia ossea, benchè poco sensibile nella diagnostica infettivologica e
scarsamente valido nelle infezioni dei tessuti molli.
Viceversa un ruolo sempre più importante sta assumendo l’ecografia, sia in campo addominale (per le infezioni intraddominali) che in campo tessuti molli e periarticolare.
I vantaggi dell’ecografia sono caratterizzati dalla facile disponibilità, dall’assenza di
tossicità, dal basso costo, dalla grande sensibilità per segni di lesione, e soprattutto
per essere l’unica diagnostica per immagini veramente “near patient” (al letto del paziente).
La TC rappresenta una metodica di indubbia utilità, molto cara ai chirurghi. E’ molto
utile per avere un “planning” anatomico e, soprattutto in previsione di un intervento
, fornisce valide notizie. In campo infettivologico non fornisce sostanziali ulteriori notizie oltre quanto detto dalla Ecografia.
La RMN è una metodica in fase di esplorazione, sicuramente con grande potenzialità. Il suo ruolo nell’infettivologia è ancora in fase di valutazione e, considerando l’attuale alto costo e difficoltà di accesso, rimane una metodica di secondo livello.
La Scintigrafia è una metodica di vecchia data, ma la cui potenzialità non è ancora
stata completamente espressa. In campo infettivologico l’applicazione della metodica
con i Leucociti marcati o con gli anticorpi monoclonali anti granulociti (SulesomabLeukoscan() permette, almeno in via teorica, una diagnosi funzionale, basandosi sulla
fisiopatologia dell’infezione (ove c’è un agente infettivo ci deve essere una cellula immunitaria della serie bianca).
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Naturalmente vi sono alcune problematiche collegate all’uso della Scintigrafia (il timing con l’evento acuto, il timing con l’uso di antibiotici, le interferenza con i materiali protesici, con il polietilene, con i cementi, con le zone di granulomatosi etc. etc.)
che contribuiscono a dare alcuni falsi positivi e (rari) falsi negativi. La combinazione
della metodica con i Leucociti marcati alla Scintigrafia con MDP e con il Solfocolloide, la valutazione delle fasi di flusso e di pooling, i controlli ritardati (fino a 24 ore)
permettono di diminuire al massimo gli errori di diagnosi.
E’ compito del Medico Nucleare utilizzare i vari approcci Scintigrafici, basandosi sul
quesito diagnostico e sull’ anamnesi del paziente.
La terapia delle infezioni in ambito chirurgico si basa sulla stretta interazione tra competenza chirurgica e competenza infettivologica. L’alternarsi, spesso nello stesso paziente, di approcci interventistici ad approcci di trattamento antibiotico rende fondamentale la realizzazione di una adeguato “planning “ temporale terapeutico.
Spesso la terapia antibiotica si prolunga per parecchi mesi (anche 8-10), con la necessità di avere a disposizione degli strumenti assistenziali che vadano oltre il classico ricovero ospedaliero.
Esperienze di vari AA indicano nell’alternanza tra i Day Hospital chirurgici e infettivologici, la Lungodegenza e l’ Assistenza domiciliare la via per permettere e completare
il lungo iter terapeutico che, purtroppo, spesso accompagna la guarigione dalle infezione chirurgiche, in particolare se con innesto di protesi.
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L’utilizzazione della Medicina Nucleare nelle infezioni
Bruno Bagni
Direttore dell’Unità Operativa di Medicina Nucleare del Policlinico di Modena
Direttore della Cattedra di Medicina Nucleare
dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
La localizzazione è un prerequisito essenziale per trattare con successo le infezioni
focali.
Storicamente sono stati utilizzati numerosi radionuclidi per la localizzazione delle infezioni però il vero passo avanti si è fatto con la scoperta della marcatura in vitro dei
leucociti autologhi con radionuclidi.
Sono stati utilizzati il Ga67 citrato, Il Tl201,l’albumina umana marcata con 99mTc ed
altri radiofarmaci man mano abbandonati od utilizzati in modo più specialistico per
particolari siti di infezione e per problemi particolari come il reperimeno della pneumocisti carinii nell’AIDS. Il Ga67 citrato per esempio, viene utilizzato per il follow-up
dei linfomi e per le coniosi.
I radiofarmaci più utilizzati per la marcatura dei leucociti e dei granulociti sono
l’In111-8-hydroxychinolina (oxine) e il 99mTc -HMPAo composto liofilo che viene
utilizzato per la scintigrafia cerebrale di flusso in quanto penetra la barriera emato encefalica e si distribuisce proporzialmente al flusso
ematico.
Durante le procedure di marcatura l’HMPAO (Hexamethilpropylene amine oxime)
penetra nella membrana cellulare in quanto liofilo e rimane segregato nel citoplasma
delle cellule della sostanza grigia cerebrale. La distribuzione risulta proporzionale al
gradiente chimico ed al flusso ematico.
Da molti anni si marcano i leucociti (globuli bianchi compresi linfociti e piastrine) con
la tecnica dell ‘ HMPAO utilizzando una semplice separazione per gravitazione del
sangue. La marcatura prevede la separazione dei leucociti, una serie di lavaggi con
plasma del paziente ed infine una marcatura per contatto con soluzione a media attività di HMPAO-99mTc.
Questa metodica invero semplice e molto rapida ci consente di ottenere rese di marcatura dell’ordine dell’80% ma nel prodotto finale marcato si trovano, piastrine, linfociti e granulociti. E’ ovvio che tale miscela presenta lo svantaggio di una marcatura
spuria la cui sensibilità per le infezioni batteriche non è certo ideale; infatti le piastrine comportano effetti di accumulo perifocale dando luogo a falsi positivi ed inoltre
accumulano nei coaguli e nelle trombosi, i linfociti possono variare il loro patrimonio
genetico, probabilmente trasmettendo pericolose mutazioni geniche da radiazioni.
Per questi motivi molti gruppi scelgono la marcatura dei granulociti autologhi.
La tecnica è molto lunga ed elaborata e richiede la separazione per sedimentazione
e successiva centrifugazione zonale in gradiente di sucrosio ed una serie di lavaggi.
La procedura richiede notevole sensibilità da parte dell’operatore che deve ricono16
scere l’anello di sedimentazione, ove sono raccolti i granulociti, separarlo e porlo nel
reattore che contiene per ogni dose la quantità di circa 1500 MBq di 99mTc . La resa di marcatura è molto bassa e la dose iniettata nel paziente non supera mai i
400MBq.
Con la nostra tecnica standardizzata è prevedibile che una marcatura superiore ad
370 MBQ corrisponda ad un’infezione batterica in atto.
La tecnica di iniezione prevede la somministrazione lenta con tre vie attraverso fleboclisi di fisiologica ( 100ml) del radiofarmaco diluito con plasma del paziente in un volume globale di 8 m.
Dopo la somministrazione viene effettuata una prima ripresa con gamma camera a
due teste nelle proiezione AP e PA della fase cosiddetta di POOL ematico per verificare la distribuzione plasmatica del farmaco.
Segue una determinazione piana a circa 1.5 - 2 ore nelle infezioni intestinali o nei
graft, mentre sono necessarie acquisizioni tardive in caso di osteomielite. L’indagine
SPECT ci permette di localizzare con grande precisione il tratto interessato evitando
l’interferenza di altre strutture sovrapposte. Le tabelle che seguono, tratte da
Chianelli e collaboratori, riassumono i campi di applicazione della Medicina Nucleare nelle infezioni ed i mezzi diagnostici utilizzati.
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Tecniche di marcatura
Maria Francesca Borghi
U.O. Medicina Nucleare - Dipartimento Radiologia
Ospedale “G. da Saliceto” Piacenza
MARCATURE CELLULARI
1) VIVO (ES. IMMUNOSCINTIGRAFIA USANDO FRAMMENTI Fab’ ANTIGRANULOCITI)
2) VITRO (MARCATURA DI LEUCOCITI AUTOLOGHI)
TECNICHE DI MARCATURA DI LEUCOCITI AUTOLOGHI
Un reale punto di partenza per le marcature dei leucociti e' stato dato da McAfee e
Thakur nel 1976 quando una varieta' di componenti solubili e particelle radioattive
erano esaminate quali possibili agenti marcanti per leucociti. Si e' posta l'attenzione
in particolare su uno di questi agenti chelanti, l'OXINA (8-IDROSSICHINOLINA) che
formava un complesso lipofilico con 111In e penetrava attraverso la membrana cellulare. Il complesso 111In-OXINA si dissocia lasciando l'Indio saldamente legato intracellularmente con le proteine nucleari e citoplasmatiche con un legame stabile per
almeno 24 ore.
L'OXINA e' un agente batteriostatico che e' stato usato come antisettico. A causa della piu' alta affinita' dell'111Indio per la transferrina comparata con l'OXINA il plasma
deve essere rimosso dalla preparazione leucocitaria prima della marcatura. Infatti studi hanno mostrato la distribuzione dell'111Indio-OXINA nel sangue in toto: 90% e'
legato alla transferrina e meno del 5% e' dentro ai leucociti. All'interno dei leucociti
l'111Indio si distribuisce in questo modo: 80%legato ai neutrofili, 15% ai linfociti e
5% ai G.R. Essendo l'111In-OXINA un marcatore cellulare indiscriminato legando
tanto i granulociti, linfociti, monociti ed eosinofili quanto le piastrine ed i G.R. e' necessaria una separazione cellulare.
PROTOCOLLO MARCATURA G.B. CON 111In-OXINA
Tutte le operazioni devono essere effettuate sotto cappa sterile a flusso laminare orizzontale
La manutenzione della cappa a flusso laminare viene eseguita da una ditta specializzata cambiando i filtri una volta ogni 6 mesi. Le prove di sterilita' vengono eseguite
da noi una volta al mese lasciando, alla fine della procedura di marcatura, una piastra
di Agar sangue di montone al 5% all'interno della cappa per 18 ore e quindi incubando la stessa a 37°C per 18 ore. Abbiamo eseguito diverse prove di sterilita' senza alcun sviluppo microbico.
1) Si prelevano 16ml x 2 di sangue con ACD-A
2) Come agente separante usiamo 4Ml HAES-STERIL
3) Si lavano due volte le cellule con soluzione fisiologica ed una volta con PBS
4) Marcare con 800-1000 (Ci di 111In-OXINA (pH7.6)
5) Centrifugare 10' a 200g. Tenere il surnatante che serve per la resa di marcatura
6) Risospendere il fondello di leucociti marcati aggiungendo 10 ML di soluzione fisiologica ed iniettare rapidamente (entro 5-10 minuti)
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RESA DI MARCATURA: (Ci G.B. / (Ci G.B.+ (Ci plasma
Rispetto alla metodica originale abbiamo dovuto sostituire l'HESPAN con PLASMA
STERIL (idrossietilamido 6%) come agente separante in quanto l'HESPAN era stato ritirato dal commercio. Dall'inizio del 2001 non eravamo piu' in grado di usare il PLASMASTERIL . In alternativa potevamo usare come agente separante una preparazione
sterile di metilcellulosa al 2% in soluzione fisiologica 0.9%, ma abbiamo optato per
l'adozione di HAES-STERIL come agente separante anche perche' era gia' utilizzato
dal Reparto di Rianimazione del nostro Ospedale. L'HAES-STERIL esiste in concentrazione 6% e 10%. Abbiamo utilizzato il 10% in quanto l'HAES-STERIL ha un peso
molecolare che e' circa la meta' del plasmasteril. Usando 4ML di HAES-STERIL si ottiene una separazione netta gia' dopo 30 minuti. Ci siamo chiesti se questa veloce separazione poteva in qualche maniera produrre una diminuzione della resa di marcatura visto che questa dipende dalla conta leucocitaria del paziente ed e' funzione
del volume di sangue iniziale. Considerato che il volume di sangue utilizzato e' stato
sempre lo stesso da quando abbiamo iniziato ad utilizzare questa metodica (non abbiamo avuto pazienti pediatrici o pazienti per cui fosse un problema prelevare 120
ML di sangue) abbiamo voluto correlare le rese di marcatura di un gruppo di pazienti in cui come agente separante era stato usato plasmasteril con un altro gruppo in cui
e' stato usato haes-steril. L'unica condizione era che avessero conte leucocitarie tra
loro analoghe. Non esiste differenza statisticamente significativa tra i due gruppi la
qual cosa ci ha ulteriormente convinti a continuare ad utilizzare haes-steril..
L'OXINA (8-IDROSSICHINOLINA) e' un reagente tossico per la cellula e a concentrazioni elevate riduce la fagocitosi e la chemiotassi mentre un basso quantitativo viene
scarsamente incorporato all'interno delle cellule. La concentrazione di OXINA che
non altera le funzioni cellulari e permette una soddisfacente incorporazione del radioisotopo e' di 10 (g / 107cellule.
Altra fonte di danno cellulare puo' essere la presenza di contaminanti sotto forma di
ioni metallici (in particolare CADMIO). Il prodotto deve essere carrier-free cioe' deve
essere preparato in modo tale da non essere, se non minimamente, contaminato da
ioni metallici. Le preparazioni commerciali dovrebbero garantire meno di 0.5 (g /ml
di cadmio e l'assenza di altri contaminanti metallici.
La piu' lunga emivita e la piu' grande stabilita' di 111In-oxina (2.8 giorni di emivita e
173-247 KeV di energia gamma) rispetto a 99mTc-HMPAO puo' consentire migliori
rilevazioni tardive (alla 24a ora ed eventualmente alla 48a ora).
Correlazione tra G.B. e resa di marcatura in 12 pazienti che hanno effettuato l'esame
con 111In-oxina.
Nell'ottica di provare ad utilizzare altri agenti chelanti che fossero meno tossici per la
cellula sono stati fatti studi su 111In-TROPOLONE. L'111In-Tropolone sembra avere un
effetto meno deleterio sulla vitalita' dei leucociti, ma non tutti gli studi concordano.
Comunque studi in vitro sull'effetto dell'111In-OXINA sui leucociti hanno dato risultati contrastanti. Alcuni studi hanno riportato che la marcatura con 111In-OXINA non
provoca misurabili effetti sulla vitalita', chemiotassi, capacita' battericida o sulla ultrastruttura dei G.B. mentre altri studi hanno riportato che l'OXINA riduce la chemiotassi del 50%.
Questo e' il nostro protocollo leggermente modificato di MARCATURA DEI G.B.
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CON 99mTc-HMPAO
1 Prelevare 51MLx2 di sangue in 9MLx2 di ACD-A
2 Come agente separante usiamo HAES-ESTERIL 10%
3 Servira' rispetto alla metodica con 111In una provetta senza HAES-STERIL e centrifugata a 2000g in modo da avere plasma libero da cellule (CFP1). Il contenuto
di questa provetta con ACD ma non HAES-STERIL servira' come mezzo per mantenere il naturale ambiente fisiologico per la riiniezione dei G.B. marcati
4 Prelevare il surnatante e centrifugare a 150g per 10' (PRP e un pellet di G.B.). Velocita' superiori a 150g (es.250g) producono si' una piu' alta concentrazione di leucociti, ma anche una piu' alta contaminazione con piastrine.
5 Prelevare il surnatante e centrifugarlo a 2000g per 10' (CFP2 che servira' per lavare i G.B. dopo la marcatura)
6 Preparare 40 mCi di 99mTc-HMPAO in 2 ML di fisiologica
7 Aggiungerlo subito al fondello di leucociti dopo averli ridotti in un'unica provetta
ed aver aggiunto 1 ML di CFP1
8 Prelevare il surnatante che serve per calcolare l'efficienza di marcatura
9 Risospendere il fondello con 5 ML di CFP1 ed iniettare rapidamente.
RESA DI MARCATURA:mCi leucociti / mCi leucociti + mCi plasma X100
Il 99mTc-HMPAO (esametilpropilenamminoossima) e' un complesso lipofilico che
quindi puo' penetrare nelle cellule. Dopo che e' entrato nelle cellule, il complesso diventa idrofilico ed e' in questa forma che e' intrappolato nella cellula. Tecnicamente il
principio e' identico alla marcatura con 111Indio cioe' e' richiesta la separazione dei
leucociti dal sangue in toto seguita dall'esposizione al complesso.
L'HMPAO (esametilpropilenamminoossima) forma un complesso con 99mTc mediante riduzione con sali di Sn++. La specie chimica HMPAO puo' esistere in due
forme stereoisometriche : d,l HMPAO e meso HMPAO. La forma chimica d,l,HMPAO possiede una elevata captazione cerebrale a differenza della forma meso che
deve essere eliminata.. Il kit e' costituito da un prodotto liofilizzato contenente d,l
HMPAO e SnCl2. Viene ricostituito mediante aggiunta di una soluzione fresca di
99mTcO4-. Lo ione stannoso riduce il Tc del pertecnetato ad uno stato di ossidazione piu' basso ed in seguito l'agente complessante lega il Tc ridotto dando origine al
composto finale. Si devono rispettare alcune precauzioni al fine di ottenere una buona resa di marcatura : in particolare il pertecnetato deve essere stato ottenuto da una
eluizione del generatore non piu' vecchia di 2 ore ed il generatore deve essere stato
eluito nelle 24 ore precedenti. Inoltre la stabilita' nel tempo del prodotto ricostituito
e' scarsa , pertanto e' indispensabile che esso venga somministrato entro 30 minuti
dalla preparazione.
Visto che la resa di marcatura dipende dalla conta leucocitaria abbiamo voluto correlare l'efficienza di marcatura con il numero di leucociti/(litro.
Una modificazione della metodica di marcatura dei G.B. con 99mTc-HMPAO e' la rimozione dei linfociti dalla preparazione leucocitaria allo scopo di prevenire l'irradiazione dei linfociti. Questa modifica potrebbe essere particolarmente utile nel caso di
pazienti pediatrici. La sola modifica rispetto al protocollo di marcatura dei leucociti,
al fine di ottenere i granulociti, e' la stratificazione del plasma ricco di leucociti su
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gradiente di Ficoll a 20°C. Le cellule recuperate devono essere poi lavate in PBS e
marcate come descritto in precedenza. Questa metodica comporta un aumento di
circa 40 minuti rispetto alla procedura di marcatura dei leucociti
PROBLEMA RADIOBIOLOGICO
Ci sono due tipi di irradiazioni che influiscono sulle cellule: esterna ed interna.
La irradiazione esterna e' assorbita dai leucociti durante il processo di marcatura ed e'
dovuta alla radioattivita' nel fluido circostante le cellule. La dose e' formata da fotoni
gamma e raggi X caratteristici e contribuiscono poco all'irradiazione della cellula perche' essendo a lungo raggio, comparato al diametro cellulare, non interagiscono con
essa. La seconda e piu' importante irradiazione e' quella interna e deriva per esempio da 111In incorporato nelle cellule stesse ed ha una energia a corto raggio (elettroni Auger a bassa energia il cui raggio e' considerevolmente piu' piccolo del diametro cellulare).
Fortunatamente i granulociti sono relativamente resistenti. Leucociti marcati con dosi
di 111In sei volte superiori a quelle normalmente usate non hanno mostrato un effetto deleterio sulla migrazione e sulla chemiotassi.
Purtroppo i linfociti (circa il 30% del totale dei leucociti) sono piu' radiosensibili degli
altri leucociti anche perche' alcuni linfociti hanno una vita media anche di qualche
anno.
Nonostante questo c'e' una significativa evidenza che quando un pool di popolazione leucocitaria e' marcata con 500 (Ci o piu' di 111In-oxina il rischio oncogenico per il paziente e' estremamente basso. Infatti quando 30x106 di linfociti sono
iniettati essi si disperdono in un pool di linfociti di 1017 Quindi la percentuale di
linfociti esposti e' approssimativamente di 0.003%. Anche se, ipoteticamente, tutti i
30 x106 linfociti subissero aberrazioni cromosomiche, questo numero determinerebbe un incremento trascurabile rispetto al 3%-14% di linfociti che naturalmente
mostrano danni cromosomici.
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Convegno 2 febbraio 2002: “Le cure domiciliari nell’azienda USL di Piacenza”
AZIENDA UNITA’ SANITARIA DI PIACENZA
“PROGETTO”
Il riordino delle cure domiciliari
Enzo Pisati
Direttore Dipartimento Cure Primarie del Distretto Urbano
Azienda USL - Piacenza
PREMESSA
La nuova società sta sempre più maturando un printing orientato verso la consapevolezza che, in ambito sanitario, la civilizzazione passa attraverso la piena umanizzazione della condizione di malattia.
Negli ultimi anni, pur in presenza di spinte contraddittorie e non sempre positive, sta
crescendo la consapevolezza dei diritti del malato, orientata e tradotta in alcuni casi,
alla messa in campo di interventi strutturati a dare concreta attuazione al rispetto di
questa nuova coscienza sanitaria.
Il prolungamento della vita espone al rischio di dilatazione della malattia e la sensibilità al tema dei diritti umani, costituisce la ragione di una nuova svolta che ha originato molteplici esperienze tra le quali una (non certo la meno importante) è stata il
ridimensionamento dell’ospedalizzazione per far spazio all’assistenza e alla cura del
malato a domicilio.
Si tratta di una pratica in via di sviluppo e di potenziamento, oggetto di continue revisioni ed implementazioni che riveste un alto significato non solo terapeutico ma anche etico.
E’ una nuova forma di assistenza in cui si fondono i concetti di cura con prendersi
cura che implica farsi carico della persona, del malato, permettendo che lo stesso sviluppi la sua piena identità soggettiva e relazionale, usufruendo in tal modo di una vita qualitativamente umana.
Il perché investire in questo progetto deve tener conto delle ragioni che stanno alla
base di tale scelta, focalizzando nel contempo le condizioni imprescindibili per il suo
corretto esercizio orientando il tutto verso un rinnovato clima culturale improntato alla crescita di una autentica solidarietà sociale.
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1. LE RAGIONI DELLA SCELTA
Occorre innanzitutto fare una premessa che possiamo considerare un assioma: ospedalizzazione e cure domiciliari non sono tra loro in antitesi.
In alcuni casi il ricorso al ricovero ospedaliero è assolutamente necessario.
Esistono però situazioni (oggi frequenti) in cui, per il cronicizzarsi delle malattie, il ricovero non solo risulta superfluo ma anche dannoso.
Infatti, uno dei limiti della ospedalizzazione è il costituire un evento traumatico che si
somma a quello della perdita dello stato di salute.
Dobbiamo considerare che la malattia accanto alla debilitazione fisica, origina stati di
prostrazione psicologica e di emarginazione sociale.
Basti pensare, nel prevalere dei criteri utilitaristici e produttivi della società attuale, all’insicurezza esistenziale dovuta alla perdita dell’efficienza che accentua il senso di
inutilità.
Possiamo definire la vita di un malato come una esperienza di malessere autologico,
uno stato cioè di frustrazione e di disagio che coinvolge tutti gli strati della personalità.
Diventa uno scacco esistenziale e una privazione degli orizzonti di senso.
L’attuale regime di ospedalizzazione accentua questa esperienza.
Il malato associa alla sottrazione al proprio habitat, elementi quali la socializzazione
forzata e la dipendenza da sconosciuti cui affidarsi in ragione delle competenze, che
contribuiscono ad alimentare la percezione della propria espropriazione.
Infatti, la casa (l’ambiente di vita) non è solo il luogo fisico di appartenenza ma è il
luogo delle memorie e degli affetti; è l’ambito entro il quale si esplicitano le relazioni
umane sulle quali si costituisce la propria identità e attraverso le quali si risponde alle
domande di senso.
L’importanza delle cure domiciliari sta proprio nell’offrire queste possibilità che determinano direttamente il miglioramento qualitativo della vita.
Dobbiamo capire che la cura non implica solo attenzione all’aspetto patologico di
carattere fisico ma anche e soprattutto alla globalità della persona, all’integralità del
suo essere personale.
Come dice l’O.M.S., faticosamente si sta facendo strada il concetto olistico della medicina quale benessere complessivo fisico, psichico e sociale.
Le cure domiciliari hanno questa grande opportunità rispettando appieno questa esigenza.
L’habitat famigliare favorisce le dinamiche psicologiche e di socializzazione che, oltre
ad avere un effetto terapeutico, creano le basi per una vita piena e serena.
Queste considerazioni risultano strategiche laddove per patologie infauste riescono a
rendere meno drammatico l’avvicinamento della morte.
Il diritto alla vita deve originare un contesto umano che consenta di elaborare positivamente la propria situazione in modo da consentire dignità alla morte attraverso
non solo prestazioni mediche adeguate ma anche l’attenzione alle dimensioni qualitative del vivere.
Dare priorità alle cure domiciliari diventa una visione più articolata del concetto di
salute e dell’esigenza di strutture adeguate ai bisogni, attraverso l’offerta di pluralità
di servizi che rispondono alle diverse condizioni dei malati.
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L’ultimo anello di questo assioma è che una siffatta cultura sanitaria originerà una rimodulazione della rete ospedaliera orientata ai bisogni e integrata con i servizi territoriali.
2. LE CONDIZIONI PER UN CORRETTO ESERCIZIO
Condizione essenziale perché la cura domiciliare si eserciti correttamente è rappresentata dalla libera scelta della famiglia.
Non è una imposizione ma neanche un atto dovuto, deve essere il frutto di una vera
disponibilità dei famigliari che al loro interno devono avere la capacità di sostenere
un onere (non economico) in alcuni casi molto gravoso.
Il malato in casa costringe ad una assunzione di responsabilità che va seriamente
ponderato anche con l’aiuto di persone esperte.
Oggi questo costituisce il limite alla pienezza delle cure domiciliari perché le condizioni delle famiglie attuali non sono sempre idonee.
La restrizione degli spazi abitativi, le esigenze di lavoro e l’impreparazione a far fronte a situazioni complesse sono fattori che generano gravi difficoltà.
Un altro fattore di rischio è dato dal peso psichico del malato sui componenti famigliari che può originare situazioni di conflitto e di lacerazioni che abbisognano, per
essere superate, di persone capaci di aiutare la famiglia ed elaborare il carico di ansia
e di angoscia, altrimenti fortemente negativo non solo per i famigliari ma anche per
lo stesso malato.
Tutto ciò rende indispensabile l’offerta di un servizio pubblico che non si riduca solo
a cure mediche, per quanto essenziali, ma richieda anche l’assistenza psicologica e
sociale sia verso il malato che ai famigliari.
Dobbiamo avere come obiettivo il farsi carico globale della situazione della famiglia.
In questo contesto trovano pienezza di esistere certe strutture assistenziali in grado di
garantire pause di riposo alla famiglia consentendo al malato una verifica dello stato
di malattia in vista anche di un migliore adeguamento delle cure.
Nello scenario descritto un ruolo ed una funzione importante viene rivestito dal volontariato.
Il volontariato favorisce forme di socializzazione allargata che hanno un effetto altamente positivo per la qualità della vita del malato e tempo ed energie degli altri, vengono dedicate a noi, è un modo per uscire dall’isolamento, una gratificazione personale che risponde al desiderio dell’essere messo nelle condizioni di sviluppare relazioni anche nei momenti più duri dell’esistenza.
3. LA NECESSITA’ DI UNA NUOVA SOLIDARIETA’ SOCIALE
Le cure domiciliari abbisognano della disponibilità delle famiglie e di servizi adeguati
delle istituzioni pubbliche.
Detto questo risulteranno insufficienti e destinate a fallire se non saranno accompagnate e supportate dalla crescita della coscienza partecipativa.
La carenza e le crisi istituzionali non sono addebitabili solo a negligenza o cattiva amministrazione, ma anche all’assenza di impegno responsabile dei cittadini.
Quando il cittadino accede al pubblico servizio si rivendicano diritti senza mai assumere i corrispondenti doveri rendendosi colpevole della sua deriva.
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E’ giusto lamentarsi del clientelismo e della burocratizzazione, ma è doveroso interrogarsi sulle complicità derivanti dal non partecipare alla vita collettiva.
Senza dubbio la riforma dello “Stato Sociale” implica l’attuazione di nuovi processi
strutturali basati su efficienza e decentramento ma implica anche lo sviluppo di una
coscienza partecipativa per originare un proficuo rapporto tra soggettività sociale ed
istituzioni pubbliche.
Di fondo necessita attivare una cultura della solidarietà che contrasti ed arresti i processi di massificazione e di omologazione culturale caratteristici della società attuale.
Il buon funzionamento delle cure domiciliari è legato al ricrearsi di un tessuto sociale
capace di integrare in se stesso le situazioni difficili con l’offerta di prestazioni che
rompono con la logica dell’isolamento garantendo alla famiglia e ai servizi sociali il
supporto necessario per l’umanizzazione della condizione del malato.
La solidarietà di vicinato è la prima forma di solidarietà da esercitare. Educa all’assunzione di altre forme di solidarietà portando allo sviluppo di una nuova coscienza in
grado di determinare un processo di reale miglioramento della qualità di vita di tutti,
soprattutto dei malati fatti oggetto di pesanti emarginazioni sociali.
LE CURE DOMICILIARI
Citiamo il documento conclusivo assemblea mondiale dell’ONU sull’invecchiamento
del 1982 a Vienna:
“Occorre ampliare l’assistenza a domicilio per assicurare servizi socio-sanitari di buon
livello ed in qualità sufficiente perché le persone anziane possano abitare nelle loro
comunità di origine e vivere autonomamente il più possibile con l’impiego di risorse
finalizzate al procrastinarsi dell’ospedalizzazione” (nonché evitare rericoveri o ricoveri impropri).
Nella ricerca di soluzioni che consentano di far fronte all’aumento della popolazione
anziana, l’assistenza domiciliare rappresenta in molti casi una delle soluzioni più convenienti dal punto di vista dell’efficacia (risultato in termini di salute) e dell’efficienza
(rapporto tra efficacia e risorse impiegate).
L’ADI, che va inserita in un sistema complesso di servizi in rete, ha come obiettivo la
cura centrata sulla visione integrale dell’uomo; la sfida consiste nel mettere in campo
tutte le risorse in grado di provvedere alla salute dell’uomo senza sottrarlo al suo ambiente e ai suoi famigliari.
Questo tipo di assistenza basa la sua genesi principalmente sulla constatazione che
l’autonomia della persona, sinonimo di dignità, si mantiene ed aumenta nel proprio
ambiente di vita, evitando l’istituzionalizzazione.
Per arrivare a questi risultati necessita sostenere le famiglie ad affrontare le situazioni
complesse generate dal tenere il malato a casa.
In tal modo dobbiamo vedere l’ADI come struttura che si compone di diversi interventi di tipo, preventivo, diagnostico, terapeutico, riabilitativo e di mantenimento a
lungo termine; tali interventi devono essere svolti da diverse figure professionali,
coordinate ed integrate tra loro in vista di ottimizzare i risultati.
Il raggiungimento di questa integrazione prevede tuttavia la realizzazione di due condizioni fondamentali:
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• il superamento della tradizionale cultura “libero professionale” da parte del Medico
di Medicina Generale a vantaggio di una metodologia di lavoro in equipe;
• la determinazione dell’Azienda a garantire condizioni operative e risorse adeguate
alla realizzazione di una assistenza medico-infermieristica e socio assistenziale tutelare di qualità.
Caratteristiche peculiari dell’ADI possono essere così individuate:
1. Le cure a casa come alternativa all’istituzionalizzazione, sia essa in ospedale, in casa di cura, che in residenze assistenziali. Il concetto di alternativa non è assoluto
talora può capitare di dover ospedalizzare un paziente per un periodo di massima
acuzie, limitato nel tempo, per riprendere successivamente l’assistenza al domicilio, al fine di evitare l’istituzionalizzazione definitiva ottenendo in tal caso un vantaggio sia per la sanità pubblica che per il paziente;
2. La visione dell’assistenza come percorso di cura che prende in considerazione intensità variabili di bisogno da momenti che necessitano di tecnologie/professionalità/assistenza di livello basso e medio basso, a momenti che implicano un impegno maggiore, differenziato e specifico. Il percorso è graduale, dinamico, con possibilità di incremento e riduzione di complessità sia nello stesso paziente che nella
popolazione assistita, da uno stadio minimale fino alla morte.
3. Lo sviluppo della coscienza e quindi di gestione della malattia da parte del paziente e della famiglia il supporto fornito a casa non è limitato alla prestazione sanitaria in senso stretto, ma comporta una serie di aspetti relazionali e pedagogici
finalizzati allo sviluppo dell’autonomia residua da parte del malato, ma soprattutto
lo sviluppo della responsabilizzazione del paziente e del famigliare alla condizione
del proprio stato, attraverso processi educativi in termini di addestramento a tecniche, ma anche e soprattutto alla comprensione, all’accettazione, all’autorecupero psicofisico possibile;
4. La visione multifattoriale della persona, oltre alla sua malattia, che implica una
cultura a tutto campo delle professioni sanitarie e non. Non bastano professionisti
preparati, occorre sviluppare capacità di analisi di insieme (clinica, assistenziale,
sociale, culturale, valoriale, ambientale, etc); è necessario saper lavorare in equipe, sviluppando capacità relazionali con il paziente, con la sua famiglia, con i colleghi e gli operatori di professionalità diverse.
5. La creazione di un progetto assistenziale individualizzato per ciascun paziente, necessario per una conduzione a "più mani", per rendere coerente ed efficace un
piano specifico nel rispetto della persona e delle sue consuetudini;
6. L'espressione della creatività che si esprime anche nei rapporti, nelle situazioni imprevedibili e più disparate che si verificano in ambienti variegati.
Tutti questi aspetti dell'ADI presentano un prevalente printing sanitario e lasciano
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aperta tutta la problematica dell'integrazione con l’ambito socio-assistenziale, oggi
ancora critico, ma sempre più cogente.
L'incremento della popolazione anziana, spesso sola, induce bisogni non solo sanitari e, senza la collaborazione del servizio socio assistenziale, difficilmente si riesce
a mantenere il paziente al proprio domicilio.
Probabilmente ciò è dovuto alla definizione dei ruoli che spesso portano a conflittualità tali che prevaricano l'integrazione che, come già affermato, è governare la
conflittualità di più persone orientando le loro azioni verso un fine comune.
Purtroppo i ruoli restano e devono essere definiti; non vanno pesati ne soprattutto
dequalificati, ma valorizzati nel loro essere congiunto con culture e formazioni diverse che devono integrarsi lungo il divenire del percorso assistenziale che può
prevedere passaggi tra sociale, infermieristico e sanitario, con il fine comune di
adottare una visione globale del malato.
Il responsabile del caso deve essere visto come team leader del momento, che
mette in campo la sua formazione relazionandola con gli altri attori meno coinvolti
nella gestione del caso ma che con lo stesso relazionano abbattendo le conflittualità d'insieme.
Da quanto finora affermato possiamo, pertanto, definire l’assistenza domiciliare integrata come il processo assistenziale dove diverse professionalità sanitarie e/o sociali collaborano alla realizzazione di progetti unitari rivolti a soddisfare bisogni di
salute per i soggetti di qualsiasi età aventi necessità assistenziali in modo continuativo o limitato nel tempo.
Sono da considerarsi per contro prestazioni domiciliari che non necessitano di integrazione e di coordinamento se erogate in forma singola:
• Assistenza Domiciliare Programmata (ADP)
• Assistenza infermieristica per cicli di terapie o per singole prestazioni
• Le cure, a carico del Comune, di tipo tutelare: aiuto domestico-aiuto alla personasegretariato sociale.
Obiettivi dell’assistenza domiciliare integrata:
• Evitare, quando possibile, il ricovero ospedaliero od in altra struttura residenziale,
assicurando nel contempo la continuità assistenziale
• Mantenere la persona non autosufficiente nel proprio ambito familiare
• Favorire il recupero delle autonomie e delle capacità relazionali residue
• Supportare i familiari
• Facilitare l’accesso all’erogazione dei servizi
Destinatari dell’assistenza domiciliare integrata:
• bambini, adulti, anziani :
• portatori di gravi disabilità
• con pluripatologie croniche in fase di riacutizzazione
• con patologie in fase terminale
• in fase di dimissione protetta
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A.D.I. STANDARD E PERCORSI
• SEGNALAZIONE
• RICHIESTA
• VALUTAZIONE DEL CASO
• PRESA IN CARICO E PIANO ASSISTENZIALE
• CARTELLA CLINICA
• CONSULENZE SPECIALISTICHE
A. SEGNALAZIONE
• La segnalazione avviene a cura del Medico di Medicina Generale;
• La segnalazione può avvenire anche dall'assistente sociale, dai famigliari o dai vicini
di casa. In questo caso il ROAD distrettuale contatta il MMG per verificare congiuntamente la possibilità di attivazione;
• La segnalazione può avvenire da una struttura (H-RSA-CP-Altro). Questa deve avvenire con debito preavviso di almeno 48 h., antecedente la dimissione (festivi esclusi) al centro unico per le cure domiciliari. Il MMG dovrebbe essere avvertito dall'Unità Operativa della struttura (H-RSA-CP-Altro).
B. LA RICHIESTA
Presenza di una richiesta scritta e motivata del MMG nella quale devono necessariamente essere indicati:
• patologia
• necessità assistenziali
• durata prevista
C. VALUTAZIONE DEL CASO
In base ai criteri di eleggibilità forniti dalla Commissione Professionale per le cure domiciliari (CPD), istituita ai sensi della delibera regionale, ne consegue l’approvazione
da parte del ROAD distrettuale.
Il caso viene trasmesso al Responsabile dei Servizi Sociali del Comune di appartenenza per pazienti di età < 65 anni perché attivino l'assistente sociale, e alla responsabile del Servizio infermieristico distrettuale perché attivi l'U.O. infermieristica territoriale. Congiuntamente il ROAD distrettuale attiva il MMG in modo tale che con le figure prime citate si costituisca l'unità di valutazione di 1° livello che deve provvedere alla visita entro 48 h.
Le domande di pazienti >65 anni, vistate dal ROAD, vengono inoltrate alla Responsabile del Servizio Infermieristico distrettuale ed al S.A.A. perché attivino le figure
preposte con il MMG alla costituzione dell'Unità di Valutazione di 1° livello.
Postulato a parte va fatto per quei casi nei quali si evince un intervento infermieristico immediato, quale continuità assistenziale, per cui la responsabile infermieristica
attiva immediatamente l'U.O. infermieristica territoriale quale impronta di efficienza
del Servizio. A questa procedura fa seguito il percorso sopra menzionato.
Una ulteriore possibilità è costituita dalla complessità del caso per cui, pur attivando i
servizi essenziali, segue una ulteriore valutazione da parte dell'U.V.M. di 2° livello
che può anche entrare in campo in prima battuta, quando dalla documentazione si
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evince che il caso è complesso all'origine.
L'Unità di valutazione multidimensionale di 2° livello risulta costituita da: Assistente
Sociale - I.P. - Geriatra per pazienti > 65 o specialista del caso per pazienti < 65 anni e dal MMG.
Ulteriori componenti a seconda della complessità del caso (cardiologo - endocrinologo - oncologo etc.) vengono attivati dal ROAD distrettuale quale garanzia per l’appropriatezza del percorso e della risposta assistenziale.
D. LA PRESA IN CARICO ED IL PIANO ASSISTENZIALE
La presa in carico deve essere effettuata congiuntamente tra il MMG, l'U.O. infermieristica territoriale, la responsabile del Servizio Socio Assistenziale (o delegata-Assistente sociale) e, nel peso valutativo precedentemente definito, il ROAD distrettuale definisce il responsabile del Caso che va annotato nella cartella assistenziale con le relative reperibilità telefoniche .
La presa in carico deve necessariamente tener conto, come centralità, della presenza
o meno di un famigliare, o di un parente o di un vicino come persona di riferimento
che deve tenere i contatti con il Distretto ed il MMG.
Ogni presa in carico presuppone la stesura di un Piano Assistenziale dove devono essere esplicitati:
• obiettivi dell'assistenza,
• durata concordata,
• eventuali consulenze specialistiche richieste,
• cadenza indicativa minima degli accessi medici, infermieristici, e del personale socio-assistenziale,
• materiale integrativo e protesico necessario e fornibile.
Il PAI va firmato dal MMG, dal ROAD, nonché dal paziente o da un suo famigliare,
per il necessario consenso informato ai trattamenti previsti.
Alla presa in carico corrisponde l'adeguata attivazione della procedura di approvvigionamento di materiale sanitario, farmaceutico e specialistico necessario al caso.
E. VERIFICA
Al termine del periodo concordato nel PAI è prevista la verifica del caso da parte dell'equipe di presa in carico. Le risultanze di tale verifica vanno notificate al ROAD ed i
possibili percorsi sono: la chiusura, la continuità assistenziale, la variazione del PAI e
l'inserimento nelle strutture della rete.
La verifica può essere attivata in qualunque momento da parte degli operatori dell'equipe di presa in carico quando si evince una variazione del bisogno assistenziale. Va
inviata al ROAD che, a seconda del bisogno, attiva i percorsi necessari.
F. LA CARTELLA CLINICA
Ad ogni caso ADI deve corrispondere una cartella clinica numerata, semplice ma nel
contempo completa, su cui le varie figure professionali (compreso, ove presente, il volontariato) devono annotare gli interventi effettuati e gli esiti delle consulenze specialistiche richieste, nonché allegare gli eventuali esami di laboratorio o strumentali effettuati.
29
Va mantenuta al domicilio del paziente sotto la responsabilità del famigliare o di chi per esso.
Alla cartella, ove necessario, va allegato il piano di riabilitazione fisiatrico.
Alla chiusura del caso ADI, per qualsiasi motivazione, la cartella va riconsegnata al ROAD
distrettuale per essere archiviata ai fini epidemiologici e medico legali.
La consulenza ospedaliera, il DH, il Day Surgery non chiudono l'ADI ma vanno annotate
in cartella clinica che deve accompagnare il malato in questo percorso.
Il ricovero presso strutture pubbliche o private sia ospedaliero che strutture residenziali fa
cessare l'ADI con contestuale chiusura della cartella che può essere riaperta qualora il paziente ritornasse al proprio domicilio in condizioni di bisogno di cure domiciliari.
Alla chiusura del caso, la cartella clinica va archiviata presso il Centro Unico delle Cure
domiciliari con tutta la documentazione specialistica nel rispetto delle normative di legge.
G. CONSULENZE SPECIALISTICHE
Originano da accordi aziendali con gli specialisti ambulatoriali o le unità operative
ospedaliere e sono coordinate da ROAD distrettuale che, nel rispetto dei PAI, dispone le visite secondo le cadenze previste e prestabilite.
INDICATORI DI VERIFICA
Per potere omogeneizzare i dati dei flussi informativi relativi alle cure domiciliari, superando i flussi informativi per singole categorie di pazienti è necessario costruire
flussi informativi specifici, idonei a descrivere l'attività delle cure domiciliari e a verificarne il raggiungimento rispetto agli obiettivi attesi.
DATI DI ATTIVITA' PER LIVELLO DI ASSISTENZA
1. N° di pazienti presi in carico in un anno;
2. N° delle giornate di effettiva assistenza
(giornata di effettiva assistenza = presenza di almeno un operatore dell'equipe assistenziale);
3. N° di accessi per tipologia di operatori.
INDICATORI DI VERIFICA
1. Intensità assistenziale
n° di giorni di effettiva assistenza ( n° accessi )
= ----------------------------------------------------------n° di giorni di presa in carico
2. Durata media della presa in carico
n° di giorni di presa in carico
= -------------------------------------n° di pazienti assistiti
3. Durata media di effettiva assistenza
n° di giorni di effettiva assistenza
= ------------------------------------------n° di pazienti assistiti
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4. N° di accessi medi per paziente
n° totale di accessi
= -----------------------------n° di pazienti assistiti
INDICATORI DI STRUTTURA
1. N° di Nuclei di Cure Primarie attivati;
2. N° giorni di apertura dei Nuclei di Cure Primarie attivati;
3. N° di ore di apertura dei Nuclei di Cure Primarie attivati.
INDICATORI DI ACCESSIBILITA'
1.
Centro Unico delle Cure Domiciliari
2.
Tempo intercorso tra la segnalazione e la valutazione
3.
Tempo intercorso tra la segnalazione e la presa in carico.
31
➀
➁
➂
Immagini dei primi del novecento tratte dall’archivio storico dell’Ospedale di Piacenza.
1. Camera operatoria, seduta
chirurgica.
2. Stanza di degenza chirurgica
3. Camera operatoria, addette
alla pulizia.
32
Convegno 11-12 aprile 2002: “Ecografia in gastroenterologia
Epatocarcinoma:
diagnosi morfologica e rilievi eco-color doppler
Fabio Fornari
Dirigente Responsabile U.O. Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva
Ospedale G. da Saliceto - Piacenza
La sensibilità dell’ecografia ( US) nell’identificazione di un epatocarcinoma ( HCC) è elevata
raggiungendo, in alcune casistiche, percentuali superiori al 90% . I fattori che maggiormente
condizionano tale resa diagnostica sono i seguenti: tecnologia dell’apparecchiatura utilizzata;
esperienza dell’operatore; pattern US del nodulo tumorale e sue variazioni rispetto al parenchima circostante; dimensioni dell’HCC e sua localizzazione intraepatica ; tipologia della popolazione di pazienti in studio.
I parametri valutabili con l’US per la caratterizzazione del nodulo di HCC sono costituiti da :
caratteristiche ultrastrutturali morfologiche e patterns US-Doppler . Tali parametri possono essere correlati agli aspetti cito-istologici . L’HCC , in rapporto al tessuto epatico circostante, può
presentare un pattern ipoecogeno , isoecogeno , iperecogeno o ecostruttura mista. Nella variante iperecogena prevale la presenza di abbondanti depositi di lipidi nelle celllule neoplastiche mentre nel pattern ad ecostruttura mista si alternano, all’interno del nodulo, cloni cellulari differenti e setti fibrosi o più noduli capsulati adiacenti. I noduli di HCC possono essere demarcati dal tessuto epatico circostante da un alone ipoecogeno che conferisce il caratteristico “
aspetto a bersaglio” e che corrisponde alla presenza di una capsula fibrosa; altre caratteristiche
US rilevabili nei noduli di HCC sono la presenza di coni d’ombra laterali e rinforzo acustico
posteriore. La prevalenza dei vari patterns US descritti varia in relazione alla dimensione dei
noduli: nei tumori di diametro < 3 cm il pattern più frequente è quello ipoecogeno mentre in
quelli > 3 cm prevale il pattern ad ecostruttura mista; all’interno dei noduli di grandi dimensioni possono comparire aree ipoecogene per la comparsa di cellule neoplastiche a scarsa differenziazione ( nodo intranodo) o per la presenza di fenomeni necrotici o emorragici.
Recentemente l’US Doppler è entrato nella pratica clinica per la caratterizzazione dei noduli
HCC vista la particolare vascolarizzazione di tali neoplasia che è di tipo prevalentemente arterioso. All’US Color Doppler sono stati identificati come caratteristici per l’HCC il pattern a canestro e il pattern di vascolarizzazione intranodale. L’analisi spettrale ha dimostrato flussi pulsatili di tipo arterioso con elevati valori di velocità di picco sistolico ( si tratta di rilievi dotati di
elevata specificità, variabile dal 76 al 100% per la diagnosi di HCC) . L’avvento dell’US power
Doppler, della seconda armonica tissutale e dei mezzi di contrasto ecografici ha consentito di
incrementare ulteriormente la sensibilità e specificità della diagnostica US soprattutto nei noduli di piccole dimensioni e nella differenziazione con i noduli displastici. Infine, l’US ha un ruolo rilevante nella stadiazione dell’HCC poiché è in grado di valutare l’estensione intraepatica
della neoplasia , la diffusione ad altre strutture ed in particolare l’identificazione della trombosi
neoplastica portale oltre all’invasione delle vene sovraepatiche e delle vie biliari.
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L’apporto della diagnostica US nell’appendicite
ed in altre patologie acute del tubo gastroenterico
Francesco Giangregorio
Unità Operativa di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva,
Ospedale Civile “Guglielmo da Saliceto” di Piacenza
L’appendicite acuta rappresenta l’emergenza chirurgica più frequente in tutto il mondo. In circa il 30% dei casi, la sua clinica d’esordio appare sfuggevole ed una diagnosi tempestiva e certa appare impellente per evitare inutili laparotomie. Attualmente gli
ultrasuoni (US) sono, insieme alla TAC spirale (mirata senza Mdc, addominale con
MdC endovena, mirata con MdC per via rettale) le metodiche d’imaging di supporto
per la diagnosi precoce di appendicite acuta. La metodica ecografica classica per lo
studio dell’appendice è quella della “Compressione graduata” (introdotta da Puylaert). La compressione viene eseguita delicatamente e progressivamente a livello della fossa iliaca destra, utilizzando una sonda ad elevata frequenza (da 5 o da 7,5
MHz). L’esame è condotto con il paziente in posizione supina, e, mediante la sonda, si applica una compressione graduale ma profonda in fossa iliaca destra con entrambe le mani “nello stesso modo con cui si palpa un addome“. Tale tecnica consente di avvicinare gli strati cutanei all’appendice infiammata e di “superficializzare”
la medesima, consentendone uno studio preciso con la sonda ad alta frequenza. In
questo modo le anse intestinali vengono compresse e l’aria intestinale viene allontanata, permettendo la visualizzazione di strutture retroperitoneali, quali il muscolo
ileo-psoas ed i vasi iliaci. L’esame è facilitato se si chiede al paziente di indicare il
punto di massima tensione addominale. Un’altra metodica d’indagine ecografica, recentemente proposta nell’uso pediatrico, visualizza l’appendice senza eseguire la
compressione della fossa iliaca destra. L’esame consiste nel valutare la regione retrocecale attraverso il fianco destro, e attraverso la finestra acustica offerta dalla vescica
piena, la pelvi per via sovrapubica e la fossa iliaca destra. In scansione trasversa, l’appendice normale appare come un bersaglio (tarket-like) o ad occhio di bue (bull-eye),
con diametro esterno massimo inferiore ai 6 mm; le pareti presentano uno spessore
inferiore ai 3 mm; rispetto alle anse ileali l’appendice appare incomprimibile e priva
di peristalsi. La scansione obliqua della fossa iliaca destra rende visibile l’appendice
lungo il suo asse longitudinale come un’ansa a “cul di sacco”; Nelle medesime scansioni, una calibro massimo superiore a 6 mm e pareti di diametro superiore a 3 mm
consentono diagnosi di appendicite acuta; talora è possibile visualizzare anche l’eventuale appendicolita alla base. Lo studio colore dimostra la vascolarizzazione di parete; la valutazione velocimetrica con doppler pulsato dimostra un flusso arterioso di
tipo “parenchimale” con flusso diastolico ben evidente. La presenza di versamento libero in fossa iliaca destra depone per un’ascesso appendicolare o un’appendicite
perforata: nel primo caso l’appendice sarà visualizzabile come una “massa”, priva di
flusso arterioso di parete; nel secondo caso sarà presente flusso di parete.
Gli US sono anche in grado di diagnosticare, ancora prima dei raggi X, un quadro di
34
occlusione intestinale, soprattutto quando questo non sia clinicamente manifesto.
La dilatazione liquida delle anse, la valutazione “real time” della peristalsi, la presenza di versamento libero in peritoneo, la possibile visualizzazione della causa di occlusione (uno pseudokidney intestinale, per esempio, o un ispessimento dell’ultima ansa
ileale nel morbo di Crohn) sono i principali criteri US nella diagnosi di patologie acute del tubo gastroenterico.
Bibliografia
1. Giangregorio F, Fornari F. Malattie dell’appendice in ECOGRAFIA CLINICA DEL
TRATTO GASTROENTERICO. Ed. Athena Audiovisuals, 1999
2. Puylaert JB. Acute appendicitis: US evaluation using graded compression. Radiology 1986; 158:355-360
3. Wise SW, Labusky MR, Kasales C et al. Comparative Assessment of CT and Sonographic Techniques for Appendiceal Imaging AJR 2001; 176:933-941
4. Baldisserotto M and Marchiori E. Accuracy of non compressive sonography of
children with appendicitis according to the potential position of the appendix.
Am J Roentgenology 2000, (175), 1387-1392
5. Patriquin HB, Garcier JM et al. Appendicitis in children and young adults: Doppler sonographic-pathologic correlation. AJR Am J Roentgenol 1996 Mar 166:3
629-33
6. Lim HK, Lee WJ et al. Appendicitis: usefulness of color Doppler US. Radiology
1996 Oct 201:1 221-5
7. Cammarota T, Frigerio L, Giangregorio F. Flogosi Intestinali Acute in ECOGRAFIA
ADDOMINALE IN EPATO-GASTROENTEROLOGIA. POLETTO editore, 2001.
35
➀
➁
➂
Immagini dei primi del novecento tratte dall’archivio storico dell’Ospedale di Piacenza.
1. Le cucine dell’Ospedale.
2. Il guardaroba.
3. La lavanderia.
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Convegno 20 aprile 2002: “I problemi alcool correlati nell’ambulatorio dei medici di medicina generale”
L’Alcolismo “sotto soglia”
Antonio Mosti
Dirigente Medico
Responsabile Ser.T AUSL Piacenza
La prognosi di molte patologie fino a pochi anni fa precocemente invalidanti se non a
decorso rapidamente mortale, è decisamente migliorata anche grazie alla capacità di
effettuare diagnosi precoci che hanno permesso tempestivi interventi terapeutici, talvolta risolutivi (si pensi per esempio al c.a. mammario o dell’utero, all’ipertensione).
La possibilità di diagnosticare precocemente una patologia è in molti casi affidata non
solo alla disponibilità di tecnologie raffinate, ma anche alla perizia di cogliere ele menti iniziali di malattia se non addirittura fattori predittivi.
I migliori risultati si sono ottenuti quando all’interno della relazione medico-paziente.
si è sviluppata una camunicazione che ha permesso al primo di saper ascoltare ciò
che in un rapporto fiduciario, il secondo gli rivelava.
Soprattutto quando, proprio in virtù di tale rapporto, il medico ha potuto trasmettere
al proprio assistito informazioni utili ad osservare il proprio comportamento, ad
esplorare il proprio corpo, ad ascoltare le proprie emozioni e ad autovalutarne le modificazioni. (un esempio per tutti l’autopalpazione del seno)
Ciò ha portato in molti casi a cambiamenti orientati a migliori condizioni di salute e,
comunque, ha favorito la spontanea segnalazione al medico di quelle informazioni
necessarie per poter giungere tempestivamente ad una diagnosi e ad un trattamento
efficace.
Non a caso si sono sviluppati programmi di massa per la prevenzione e la diagnosi
precoce che hanno portato ad una riduzione significativa del tasso di mortalità legato
a quelle patologie.
Negli ultimi tempi si sono sviluppate ampie campagne centrate sulla prevenzione dei
danni provocati dal fumo ed è’ pressoché accettata culturalmente l’associazione tra il
consumo di tabacco e una serie di patologie ad esso correlate.
Nel caso delle patologie derivanti dall’uso di alcool il discorso è decisamente più
complesso.
Le bevande alcoliche fanno infatti parte da sempre della nostra tradizione.
Il vino e più recentemente la birra occupano posti strategici nella nostra quotidianità
e ci accompagnano nelle varie fasi della nostra vita.
In particolare nella realtà piacentina, le tradizioni vitivinicole secolari e radicate delineano un contesto di forte legittimazione dell’uso alcolico e di “ normalità “ culturale
del bere talvolta anche eccessivo, che spesso è difficilmente inquadrabile solo nell’ambito del disagio.
Non è possibile prescindere da questo: la stragrande maggioranza di noi non disdegna un buon bicchiere nelle occasioni di convivialità!
37
E’ d’altra parte vero che il Medico è chiamato spesso ad affrontare situazioni problematiche portate il più delle volte dai familiari di bevitori eccessivi e si trova a diagnosticare patologie francamente correlabili all’uso di alcool in pazienti che apparentemente non avevano mai manifestato comportamenti “sospetti” in relazione al bere.
E’ ormai accettato che lo stato di ebbrezza alcolica di per sé non identifica una situazione di Alcolismo (inteso secondo i criteri diagnostici del D.S.M. IV) e per contro è
frequente l’instaurarsi di Alcoldipendenza in soggetti che non presentano attuali comportamenti socialmente disturbanti.
L’alcool quindi si presenta, come sempre, con la sua duplice faccia: è da una parte il
facilitatore dei rapporti sociali e dall’altra ne è il potenziale disgregatore. Ben lungi
dal porci in una sterile prospettiva censoria o moralistica, come Medici siamo tuttavia
chiamati a tutelare la salute dei nostri pazienti.
Da qui, quindi, nasce la assoluta necessità di formulare, al pari di altre patologie altamente invalidanti, una diagnosi precoce.
Viene quindi proposto un percorso di interazione tra il Servizio specialistico (Centro
di Alcologia_SERT di Piacenza) e Medico di Famiglia.
Si ritiene infatti che proprio il Medico di Famiglia, più di ogni altro, ha la possibilità di
accedere agli elementi attraverso i quali monitorare lo stato di salute dei propri assistiti e conseguentemente di indicare le necessarie misure di tutela al fine di prevenire
lo sviluppo della patologia alcolica.
L’ipotesi è quella di strutturare un incontro di formazione scientifica non tanto sull’alcolismo come patologia conclamata, ma sull’identificazione di segni e sintomi (diretti ed
indiretti) che nell’ambito dell’incontro Medico-Paziente permettano un orientamento
diagnostico attuale e la gestione precoce di eventuali Problemi Alcool Correlati.
E’ ciò che possiamo definire “alcolismo sotto-soglia”, quella situazione cioè che si
manifesta non con i caratteri dell’emergenza, ma che è destinata a sfociare in numerose e ripetute richieste al Medico di Famiglia, talvolta ponendolo in situazioni di grave disagio.
38
La Dipendenza Patologica: correlati bio psico sociali.
Manuela Buono
SERT- AUSL - Piacenza
La Dipendenza da sostanze (tutte le sostanze, non solo l’eroina), è caratterizzata principalmente dalla tolleranza nei confronti della sostanza d’abuso (la necessità di aumentare il dosaggio per ottenere lo stesso effetto) e dalla sindrome da astinenza alla
sospensione della sostanza stessa (o anche all’assunzione di un dosaggio ormai non
più sufficiente) che configurano il quadro di quella che un tempo veniva definita la
“dipendenza fisica”; una sintomatologia così acuta da costringere il soggetto ad assumere la sostanza non più per provarne gli effetti gradevoli, ma esclusivamente per
non stare male. Un terzo elemento della Dipendenza da sostanze, per lungo tempo
sottovalutato, ma fondamentale per comprendere l’evoluzione della malattia, è il cra ving cioè il bisogno compulsivo della sostanza, un desiderio irresistibile e intrusivo
che comporta la perdita di controllo e una serie di azioni tese al suo soddisfacimento.
La qualità compulsiva del craving lo pone in stretta relazione con altri disturbi psicopatologici come il Disturbo Ossessivo-Compulsivo e Disturbi del Controllo degli Impulsi come il Gioco d’ azzardo patologico. Tutti accomunati- a quanto sembra- da
un’alterazione degli stessi neuromodulatori del SNC.
E’ dimostrato, infatti, che quando una persona assume ripetutamente una sostanza
psicotropa (che agisce cioè a livello del Sistema Nervoso Centrale) e ne diventa dipendente, avvengono modificazioni significative nell’attività dei neuroni del suo SNC,
e il ripristino funzionale non è scontato, né tanto meno immediato, alla sospensione
della sostanza. Ciò rende ragione di quella che viene definita “Astinenza secondaria”
cioè la ricomparsa del craving (anche dopo un lungo periodo drug-free) responsabile
delle ricadute.
La Dipendenza da Sostanze è infatti – secondo la definizione recepita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – una malattia cronica ad andamento recidivante. E si
parla di Dipendenza da Sostanze, in quanto sempre più frequente è il riscontro della
risoluzione della dipendenza da una sostanza (ad esempio l’eroina) per passare ad
un’altra Dipendenza (ad esempio da alcool o da cocaina).
Dal punto di vista biologico la dipendenza da oppiacei è stata per lungo tempo la più
studiata. Tuttavia gli ultimi studi stanno sempre più evidenziando aspetti neurobiologici a sostegno di una particolare predisposizione allo sviluppo della Dipendenza da
Sostanze indipendentemente dal tipo di sostanza che l’ha indotta. La scelta della sostanza (con effetti prevalentemente “stimolanti” o viceversa “narcotici”) sarebbe invece correlata a tratti personologici o alla coesistenza di altri Disturbi Psicopatologici
concomitanti. Le modalità di consumo –da soli, o in gruppo- e la via di assunzione
–orale, inalatoria, endovena…- tenderebbero, infine, a differenziarsi a seconda che si
configuri il quadro di Dipendenza o quello di Abuso (che si riscontra nei consumatori del sabato sera).
La Dipendenza più facilmente condiziona l’instaurarsi di un particolare “stile di vita”
che sembra annullare tutte le infinite storie individuali, per appiattirle in un unico vis39
suto quotidiano, prevedibile e reiterato di cui lo stereotipo più noto è quello dell’
eroinomane che vive di espedienti. Tuttavia, quadri di dipendenza clinicamente altrettanto gravi si riscontrano anche per sostanze diverse, spesso culturalmente più accettate, e in persone che per lungo tempo riescono a mantenere un’ apparente buona integrazione sociale.
D’altro canto, anche l’Abuso di alcune Sostanze (soprattutto nel week end), che sembra meglio conciliarsi con il mantenimento delle “consuete attività feriali” (studio, lavoro,…), in realtà rivela, oltre al rischio immediato correlato alle alterazioni percettive che compromettono l’efficienza ad esempio nella guida, una tendenza a “memorizzarsi” a livello del Sistema Nervoso Centrale lasciando un’ impronta neurobiologica
in grado di comprometterne indefinitamente il funzionamento.
40
Sert e medici di base:
sperimentazione di un modello di intervento
per la prevenzione e individuazione di comportamenti
legati al consumo e all’abuso alcolico
Giovanna Calandra , Antonio Mosti
CENTRO DI ALCOLOGIA - SERT - Distretto UrbanoAZIENDA USL di PIACENZA
Il tema della “promozione alla salute” ha ricevuto nell’ultimo decennio un’attenzione
crescente grazie soprattutto alla elaborazione e diffusione fatta dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità attraverso programmi mirati e incentivazioni all’adozione di
azioni concrete.
Gli orientamenti preventivi di cui si parlava negli anni ‘70, devono essere contestualizzati in un ambito più ampio, facendo sì che la prevenzione attraverso l’educazione
sanitaria arrivi a stimolare i comportamenti sani nella popolazione per ridurre la morbilità e il rischio per la salute.
Tale impostazione si coniuga con i progetti e le linee di indirizzo Regionali dal 1992
ad oggi che, da una parte, evidenziano quanto sia sottovalutato il fenomeno legato
all’assunzione dell’alcool e ai problemi alcolcorrelati nella nostra società e, dall’altra,
si pongono nell’ottica di favorire la presa di coscienza di tale fenomeno: tra gli altri
strumenti viene individuata la necessità di “programmi più specifici di valutazione nel
tempo sul consumo individuale e familiare da attuarsi da parte dei Medici di Base in
contatto coi Ser.T” (“Linee di indirizzo della Regione Emilia Romagna sugli interventi
per la prevenzione, la cura e la riabilitazione dall’alcoolismo e dei P.A.C.”).
Questo suggerimento porta con sé varie implicazioni.
Individua nella Medicina di Base un ambito elettivo di indagine, ambito in cui vaste
porzioni della popolazione possono essere aiutate a farsi carico della propria salute .
Il Centro di Alcologia del Ser.T di Piacenza ha sperimentato un percorso che partendo da una prima indagine sulla popolazione ( “Indagine preliminare sull’utilizzo di
bevande alcoliche, in alcuni Comuni della Provincia di Piacenza” ) , ha proseguito
con la raccolta, attraverso un questionario, di informazioni sulla percezione del fenomeno tra i Medici di Base (“Medici di Base ed alcolismo”) , per arrivare a proporre ai
medici stessi uno strumento per l’individuazione dei problemi e delle patologie alcolcorrelate.
In sede di valutazione di una nostra precedente ricerca sul territorio piacentino (“Medici di Base ed alcolismo” ) é emersa la necessità da parte dei medici di avere maggiori informazioni sull’alcolismo e sul bere problematico, oltre che un supporto sia
nell’approccio che nella presa in carico del paziente alcolista. Tra le altre cose, si
potè dedurre come il MdB possa sentirsi impotente nella gestione di tali pazienti, con
la possibile attivazione di atteggiamenti molto simili a quelli già messi in opera da familiari o da persone dell’ambito lavorativo del soggetto.
Può avvenire così che i medici assumano atteggiamenti o estremamente tolleranti e
41
comprensivi col bere dei propri pazienti o, all’opposto, rigidi ed escludenti o, ancora,
timorosi nell’esprimere una diagnosi legata all’assunzione di alcol. Tutto ciò non può
essere che considerato come poco scientifico ma più legato al giudizio morale o a
problemi personali ad affrontare col paziente il problema alcol.
IPOTESI
L’ipotesi centrale rimane quella che una reale diminuzione dell’uso di alcol possa essere raggiunta mediante interventi capillari che possano incidere sulla “cultura” del
bere. Un possibile ambito in tal senso, crediamo possa essere quello offerto dalla Assistenza Medica di Base.
OBIETTIVI
In virtù delle indagini sopra citate, abbiamo pensato che nella realtà piacentina potesse essere indicato uno strumento concreto che potesse permettere di:
• garantire una formazione e uno stimolo alla riflessione sul comportamento e cultura del bere rivolto ai Medici di Base;
• funzionare da mediatore tra il Medico di Base e la popolazione degli utenti, sia a
livello preventivo che di approccio e di presa in carico del paziente alcolista o forte
bevitore;
• funzionare da tramite e collegamento tra i Medici di base e il Ser.T;
• ottenere una conoscenza più approfondita dell’uso e abuso di alcol nella popolazione.
STRUMENTO
Lo strumento individuato, già sperimentato ed utilizzato dalla AUSL 29 di Bergamo
all’interno di un programma di sensibilizzazione per la riduzione dei consumi di alcol
nella comunità, denominato “Felici di Non Bere” (G. Venturi, R. Alfieri, M. Meroli, A.
Noventa, 1991), e per il quale abbiamo ottenuta l’autorizzazione alla riedizione, è
composto da due opuscoli: uno indirizzato ai MdB, l’altro ai loro utenti, che contiene in appendice il “Questionario della Salute” di Paul Wallace (“Health Questionnaire”, 1984, dr. P. Wallace, Departement of General Practice, St. Mary’s Hospital
Medical School, London).
42
Convegno 4 maggio 2002: “Incontro Internazionale di flebologia - Strategie terapeutiche e nuove tecnologie”
La Flebectomia Ambulatoriale.
Tecnica di Muller o associazione alla chirurgia tradizionale
Stefano Ricci - Ambulatorio Flebologico “Ricci”
Roma
A partire dal 1956 Robert Muller concepisce e sviluppa una tecnica chirurgica rivoluzionaria che consente di eliminare varici di tutti i calibri (ad esclusione della safena
prossimale e della crosse safenica) senza ospedalizzazione, proponendo una alternativa efficace alla scleroterapia ed alla chirurgia tradizionale, ottenendo risultati funzionalmente ed esteticamente migliori.
In realtà tale tecnica non possiede valenze realmente rivoluzionarie nei confronti della chirurgia tradizionale, se non per il ricorso all’anestesia locale ed a mini incisioni
che consentono di trattare sia i grossi tronchi che le vene reticolari (in genere trascurate dal chirurgo ).
La vera rivoluzione consiste nella sdrammatizzazione dell’intervento sulle varici, ottenuta eliminando ricovero, anestesia generale, suture ( e cicatrici), costi, ed il ricorso
quasi obbligato alla scleroterapia di “finissage” delle varici tralasciate.
Nel 1960 la tecnica è completamente operativa grazie alla collaborazione con JeanPierre Crossetti ( non è un nome d’arte!!) , che mette a punto una tecnica ambulatoriale per la safenectomia corta basata sull’utilizzo dello stripper esterno di Mayo, e
che permette quindi di completare il trattamento delle varici in ambito prettamente
ambulatoriale.
Dal 1971 la flebectomia secondo Muller viene praticata correntemente nell’Ambulatorio “Ricci”, a Roma.
Da tale data, la tecnica ha subito naturalmente una serie di variazioni ed adattamenti legati al tentativo di rendere l’anestesia locale sempre più sicura ed indolore, le incisioni chirurgiche meno traumatiche, e quindi, meno visibili, la compressione post
operatoria più comoda e compatibile con esigenze estetiche. L’avvento, poi, della
diagnostica ad ultrasuoni, in particolare dell’eco-doppler, ha contribuito a migliorare
le indicazioni ed a ridurre gli errori di strategia.
Tuttavia, lo spirito della prima idea, sintetizzato dalla frase di Muller: “Guarire senza
rischi, migliorandone l’aspetto, i pazienti varicosi di tutte le condizioni sociali”, permane tuttora, avendo come traguardo appunto l’efficacia, la sicurezza, l’estetica, il risparmio. Al di là di questo, potremmo aggiungere anche il salvataggio del capitale venoso recuperabile e la facile ripresa di eventuali recidive od evoluzioni.
In pratica, tutta la chirurgia delle varici, tranne precise eccezioni (cavernomi), viene da
noi eseguita in ambulatorio in sedute della durata media di un’ora, con deambulazione post-operatoria immediata e dimissione precoce. Nei pazienti portatori di varici
molto dilatate e diffuse con incompetenza della Grande Safena il trattamento viene
43
eseguito in sedute multiple ( due o più ) distanziate di 48 ore almeno. In questi casi
vengono eliminate inizialmente le varici di gamba e coscia ( in genere fin sopra al ginocchio ) con la flebectomia secondo Muller, affidando lo stripping della Safena prossimale ad una ultima seduta. Come per la flebectomia, anche per la crossectomia e lo
stripping viene utilizzata una anestesia locale per infiltrazione. La Safena viene isolata,
sezionata e legata prossimalmente, mentre la sua parte distale viene passata attraverso
l’anello di uno stripper di Mayo, liberata fino al punto in cui era stata sezionata in precedenza ed estratta attraverso una unica incisione inguinale. Un adeguato bendaggio
compressivo consente al paziente una immediata deambulazione.
Troviamo vantaggioso questo tipo di tattica operatoria perché l’asportazione delle vene della gamba e la fasciatura compressiva conseguente “preparano” la gamba stessa
in maniera ottimale all’ultimo tempo operatorio e lo rendono più semplice; infatti le
varici residue hanno un calibro ridotto, il volume di sangue nella gamba è minore, le
anastomosi sono inattive, e quindi vi è minor sanguinamento. Da un punto di vista
psicologico, infine, (fondamentale nella chirurgia in anestesia locale ) è vantaggioso
per il paziente e per il chirurgo affrontare l’intervento più impegnativo quando si è
già instaurato un buon rapporto di fiducia nel corso delle sedute precedenti.
Questa tattica operatoria, sviluppata in 25 anni di attività su una media di 300 pazienti all’anno, il 50 %, circa, dei quali portatore di insufficienza safenica, si è dimostrata estremamente efficace nei risultati e raccomandabile per l’assenza di complicazioni e la scarsità di inconvenienti.
Non si pone in alternativa al Day-Hospital, in cui la tecnica di Muller trova comunque terreno fertile, ma è sicuramente più economica perchè, pur richiedendo tutte le
risorse necessarie ad un intervento operatorio, necessita di strutture più semplici, non
richiede la presenza attiva di un anestesista, è psicologicamente molto ben accettata,
non intasa le sale operatorie.
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Aspetti psicologici nel decorso post-operatorio
in relazione all’intervento di varici agli arti inferiori
eseguito in Day Surgery.
Giuliana Masera
Comparto Operatorio
Ospedale di Fiorenzuola D’Arda - Piacenza
La rapida espansione della Day Surgery nel mondo e la sua attuale progressiva diffusione nel nostro Paese, giustificano pienamente l’esigenza di prendere coscienza di
tutto quello che può accadere ad un paziente operato in tale regime e pertanto rapidamente dimesso.
Gli interventi eseguiti in Day Surgery rappresentano una conquista dei nostri tempi
ed una grande realizzazione in campo chirurgico e sociale, ma solo se accompagnati
da uno stretto controllo post-operatorio. Soltanto questo, può rassicurare pienamente
il paziente operato che, ritornato al proprio domicilio, dopo il breve periodo trascorso nella struttura protetta deve essere messo in condizione di affrontare le ore notturne e i giorni successivi, senza timori di complicazioni e senza l’ansia di rimanere
solo, senza una sufficiente garanzia.
Il tentativo che cercherò di realizzare attraverso questa indagine è proprio quello di
verificare quanta informazione possieda il paziente a proposito della chirurgia eseguita in Day Surgery ed in particolare quali gli aspetti psicologici ed i problemi prevalenti nel trascorrere il decorso post-operatorio, al di fuori della struttura ospedaliera.
La ricerca si è confrontata con alcuni studi anglosassoni in merito al tema della Day
Surgery, in particolare con: Avis, Mark, Choice cuts: an exploratory study of patients
views about participation in decision making in a day surgery unit, tratto da International Journal of Nursing Studies, 1994, Jun. Vol 31 (3).
METODO DI LAVORO CHE UTILIZZERO’ PER LA RICERCA
Ipotesi analitica: La Day Surgery provoca riducendo i tempi di degenza un impatto
emotivo positivo sui pazienti, rispetto alla chirurgia tradizionale.
Obiettivo:
Rilevare il grado di consapevolezza che il paziente ha del ricovero in regime di Day
Surgery.
Approfondire, in particolare, la ricerca sul periodo del post-ricovero per capire i problemi, le difficoltà, ma anche le possibilità che questa situazione, vissuta al di fuori
della struttura ospedaliera, comporta.
Metodologia:
Il campione utilizzato comprenderà soggetti per età, sesso e che subiranno un intervento di Chirurgia vascolare Flebologica agli arti inferiori. L’indagine, si realizzerà attraverso
un questionario che verrà distribuito al momento della dimissione ospedaliera e restituito alla prima visita di controllo. Analisi dei dati. Discussione e conclusioni.
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LETTERA DI PRESENTAZIONE DEL QUESTIONARIO
Gentile signore/a le chiediamo cortesemente di rispondere a queste domande inerenti al suo intervento chirurgico. Il questionario compilato in forma anonima verrà
utilizzato come strumento di ricerca al fine di fornire un servizio più efficiente ed
attento alle esigenze del paziente.
La invitiamo quindi a restituire il questionario compilato durante la prima visita di
controllo dopo l’intervento chirurgico.
Grazie per la collaborazione
QUESTIONARIO
Età .................
Sesso
❑
m
❑
f
1. Per quale motivo si è rivolta al chirurgo che in seguito alla visita le ha consigliato
l’intervento?
❑ Motivi estetici
❑ Dolore agli arti inferiori
❑ Affaticamento agli arti inferiori
❑ Altro
2. L’opuscolo informativo che le è stato consegnato prima dell’intervento si è rivelato
utile per comprendere meglio l’intervento che ha affrontato?
❑ Molto
❑ Abbastanza
❑ Poco
3. Al momento della dimissione ospedaliera quali sono state le sensazioni provate?
❑ Serenità
❑ Fiducia nei confronti dell’istituzione ospedaliera che rimane punto di riferimento
costante nel periodo di degenza
❑ Ansia ed inquietudine legati alla paura di non saper affrontare la degenza nel luogo abitativo
4. Ritiene che le informazioni fornite dal personale medico ed infermieristico sui possibili problemi legati al dopo intervento siano state esaurienti? (per esempio possibilità di comparsa di febbre, dolore alla ferita, secrezione dalla ferita ecc.).
❑ Molto
❑ Abbastanza
❑ Poco
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5. Il fatto che la degenza si stia realizzando nel suo luogo abitativo la fa sentire:
❑ Serena
❑ Preoccupata
❑ Indifferente
6. Si sente sufficientemente assistito dalla struttura ospedaliera trascorrendo il periodo di degenza nella sua abitazione?
❑ Molto
❑ Abbastanza
❑ Poco
7. Nei primi giorni dopo l’intervento chirurgico quali disturbi le hanno creato maggiori problemi?
❑ Dolore
❑ Difficoltà nel sopportare la calza elastica
❑ Febbre
❑ Altro
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La scleroterapia ecoguidata
Alessandro Frullini
Studio Flebologico – Incisa Valdarno
Firenze
La terapia delle varici degli arti inferiori si basa tradizionalmente su due opzioni: la
chirurgia e la scleroterapia. La prima si rivolge alle situazioni che comprendono l’interessamento di un asse safenico o di un ramo collaterale di grosse dimensioni (rispettivamente con lo stripping o con la flebectomia secondo Muller), la scleroterapia viene
invece impiegata nelle varici minori e nel trattamento di vene reticolari e di telangectasie, anche se da taluni viene utilizzata anche nel trattamento delle varici di diametro maggiore ma, sia per i rischi di un’iniezione alla cieca che per i risultati incostanti,
il trattamento scleroterapico della safena non ha avuto la grande diffusione che invece si è avuta per la terapia chirurgica.
La sclerosi ecoguidata o ecosclerosi (ES) è un nuovo trattamento che comprende la
sclerosi sotto la guida ecodoppler o ecocolordoppler. Questo permette di controllare
esattamente il sito d’iniezione minimizzando la possibilità di stravaso o di iniezione
intra-arteriosa, rende possibile controllare la distribuzione dell’agente sclerosante durante l’iniezione e permette di indurre uno spasmo venoso con opportune manovre
rendendo in definitiva il trattamento più efficace.
L’ecosclerosi si è rivelata efficace soprattutto nel trattamento della vena piccola safena e nelle varici recidive dopo intervento chirurgico ma numerose sono anche le
esperienze nel trattamento delle varici della grande safena.
Una situazione nella quale l’ecosclerosi rappresenta un progresso significativo è il
trattamento delle varici associate a ulcera venosa.
Questa situazione si ritrova frequentemente in pazienti anziani, a volte con varici recidive e quindi in soggetti che non sono buoni candidati alla chirurgia. Il trattamento
ecoscleroterapico permette in questi casi l’eliminazione dell’insufficienza venosa superficiale con poche sedute ambulatoriali di trattamento. Il paziente deve necessariamente deambulare subito dopo la sclerosi che viene effettuata sotto guida diretta
dell’ecocolordoppler che permette la visualizzazione contemporanea della vena da
trattare e dell’ago che può quindi venire posizionato nel modo più corretto possibile.
L’utilizzo poi di particolari agenti sclerosanti in forma schiumosa, rende possibile la
visualizzazione dello sclerosante all’ecodoppler. In questo modo è possibile direzionare l’agente con opportune manovre di compressione.
Dal 1995 a oggi abbiamo trattato 800 distretti venosi con ecosclerosi eseguita impiegando del polidocanolo al 3-4% o del sodiotetradecilsolfato 3%.
La percentuale di successo immediato è risultata dal 79 all’97% a seconda della tipologia di vaso trattata.
Non si sono registrate complicazioni maggiori e si sono ottenuti buoni risultati funzionali ed estetici.
La chiusura dell’ulcera si è ottenuta in tutti i casi nei quali il circolo superficiale è stato trattato mediante ecosclerosi.
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Short Saphenous Vein Surgery: Lights and shadows
Attilio Cavezzi
S.Benedetto del Tronto (AP), Italy
Introduction
Short saphenous vein (SSV) surgery has always been regarded as a complex treatment, both for its possible complications and for its quite high rate of recurrence.
In 1990 we started to perform surgery of varicose veins (VV) on an outpatient basis
and similarly SSV surgery has always been performed with the use of the single local
anesthesia (LA); after one year of Doppler device usage, since 1991 we have extensively used duplex or colour-duplex imaging (CDI) to peri-operatively assess the varicose limbs. Here is reported the author’s last 5 year experience about SSV surgery
managed in LA and with CDI guide.
Patients and Methods:
from January 1996 to June 2001, about 150 limbs (mainly female and mean age 57
years) were operated on for VV related to SSV incompetence. LA was the only anaesthesiologic technique used in all the cases, and pre-operative CDI, as well as CDI
guided skin marking were performed. The vast majority of the patients had primary
VV. As far as LA is concerned, buffered mepivacaine 0.4-0.25% has been used; a
popliteal 2-3 cm incision has been usually performed for the junction treatment;
when facing a common junction with gastrocnemius venous trunk (GVT), the flush
ligation was put at the confluence with the GVT. SSV stem was avulsed by means of
inverted segmental stripping by means of invagination technique on a plastic stripper.
Mini-incisions (1-2 mm) phlebectomy of VV (e.g. the tributaries) completed the procedure. All the patients had an eccentric positive multi-layer compression by means
of 35 mmHg anti-thromboembolic elastic stocking, or by means of elastic adhesive
bandage. Antibiotics or heparin were peri-operatively very selectively administered. 7
and 30 days after the operation, clinical and CDI control has been performed.
Results
pre-operative CDI investigation has elucidated a few main findings: a) total SSV incompetence only in 6% of the cases, b) specific role for terminal and pre-terminal
valve at the SSV junction, c) the re-entry role (not pathological) for the vast majority
of the PV located in the lower part of the leg, d) the presence of systolic reflux in SSV
junction in cases of constriction of the popliteal-femoral axis, e) connection between
GVT and SSV in about 30% of the cases, f) the nearly systematic disappearance of the
pre-operative retrograde flow in the deep veins (femoro-popliteal) after SSV surgery.
A total amount of 100-160 cc of LA was used per intervention and no patient required additional anaesthesiologic procedure; deambulation was possible after 60
minutes in 98% of the cases; discharge of all the patients was possible in 3-6 hours.
CDI use permitted to avoid venography in all the cases, as well as a shorter popliteal
incision was performed and a tailored surgical procedure has been possible (no
popliteal-to-ankle SSV stripping and no ligation of perforators have been necessary).
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The main complications were 1 slight lymphedema, 4 sensitive neurologic troubles
and 1 common peroneal nerve damage (in a re-intervention ), 2 GVT limited thromboses. Costs of this kind of operation were very low, and patients’ compliance was
very good. Two cases of early (1-3 months follow-up) recurrence has been detected
due to systolic reflux from popliteal PVs.
Conclusion
SSV surgery is a demanding and complex procedure, but the usage of CDI and LA
may help minimizing complications, and to reduce recurrences and excessive venous
avulsion; this approach can result in a radical excision as well as in good cosmetic
outcomes and in a major economic and ergonomic advantage. Complications still
persist and sapheno-popliteal haemodynamic may possibly create post-operative recurrences.
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Convegno 18 maggio 2002: “Aggiornamenti in Epatologia”
Ruolo della ferrodeplezione nella terapia dell’epatite cronica C
Prof. Giancarlo Carrara
Direttore Dipartimento Medicina Interna AUSL di Piacenza
E’ nota da tempo la rilevanza del sovraccarico di ferro quale fattore prognostico sfavorevole nella storia naturale dell’epatite cronica C e, in particolare, nella risposta al
trattamento con alfa-interferone (IFN). D’altra parte, alcune segnalazioni negano che
la correzione del sovraccarico marziale costituisca un significativo vantaggio per il paziente affetto da epatite cronica C candidato a terapia con IFN.
Abbiamo condotto questo studio clinico al fine di verificare l’effetto della ferrodeplezione di per sé su: 1) profilo biochimico; 2) livelli sierici di HCV-RNA; 3) risposta alla
successiva terapia con IFN.
Pazienti e metodi. Sono stati inclusi nel presente studio 72 pazienti consecutivi caratterizzati da: infezione cronica da HCV (non precedentemente trattata) con positività
di HCV-RNA sierico (b-DNA); GPT eccedente i valori normali di almeno il 50% da oltre 6 mesi; ferritina sierica > 400 ng/ml negli uomini e > 300 ng/ml nelle donne; evidenza istologica di epatite cronica con depositi epatici di ferro documentabili all’indagine istochimica (Perls’ Prussian Blu). Lo schema di terapia è stato il seguente: IFN ricombinante (alfa-2a o alfa-2b) alla posologia di 6 MU a giorni alterni per 6 mesi, indi
3MU a giorni alterni per altri 6 mesi. Consideriamo risposta completa la normalizzazione di GPT e la negativizzazione di HCV-RNA (PCR) durante la terapia e per almeno un anno dopo la sospensione del trattamento IFN. Abbiamo suddiviso questa popolazione in due gruppi omogenei per età, sesso, profilo istologico, valori di viremia e
genotipo virale, valori medi di GPT, gammaGT, ALP, CHE, bilirubinemia, ferritinemia.
In un primo gruppo (A) di 42 pazienti è stata ottenuta preventivamente ferrodeplezione mediante salassi ripetuti (300 ml ogni 10-15 giorni, per un totale medio di 8 sedute) fino ad ottenere valori di ferritinemia < 50 ng/ml. Un secondo gruppo (B) comprende 30 pazienti che sono stati avviati al trattamento con IFN senza preventiva ferrodeplezione.
Risultati
Benchè non fosse rilevabile, nella popolazione esaminata (A+B), una correlazione significativa fra ferritinemia e valori pretrattamento di GPT (p=0.06) e di HCV-RNA sierico (p=0.08), in tutti i pazienti sottoposti a ferrodeplezione (A) abbiamo constatato
una riduzione significativa (p<0.01) dei valori sierici di GPT: da 145 U/L (con range
65-293 U/L) a 67 U/L (con range 27-158 U/L). In 5 casi (12%) si è verificata una normalizzazione di GPT che perdura durante il follow-up (media di 12 mesi) in assenza
di altra terapia. I valori di HCV-RNA sierico non sono stati modificati significativamente dalla ferrodeplezione (anche nei 5 casi nei quali GPT risultava persistentemente
normalizzata). I 5 pazienti del gruppo A con GPT normalizzate hanno proseguito il
51
follow up e non hanno ricevuto IFN; i restanti 67 pazienti hanno iniziato il trattamento IFN. Fra questi, 8 non hanno completato il previsto trattamento per comparsa di
intolleranza (3 dal gruppo A, 5 dal gruppo B). Una risposta completa (biochimica e
virologica) si è ottenuta in 13/34 casi nel gruppo A e in 6/25 casi nel gruppo B
(p<0.05).
Conclusioni. Nella nostra esperienza, la ferrodeplezione praticata nei pazienti affetti
da epatite cronica C con segni biochimici ed istologici di sovraccarico di ferro induce
una significativa riduzione dell’attività citolitica (in 7/42 casi, normalizzazione persistente di GPT); tale risultato prescinde da variazioni della carica viremica (HCV-RNA
sierico immodificato); la risposta al successivo trattamento con IFN risulta migliore
(sono comunque prevalenti i vantaggi sul piano biochimico piuttosto che virologico).
52
Aggiornamenti in Epatologia
Piacenza 18 maggio 2002
Razionale
Prof. Giancarlo Carrara
Direttore Dipartimento Medicina Interna AUSL di Piacenza
All’identificazione del genoma di HCV e all’acquisizione del ruolo sostenuto da tale
agente eziologico nell’epatite non-A, non-B ha fatto seguito un rapido incremento
delle nostre conoscenze su biologia, epidemiologia e ruolo eziopatogenetico dell’HCV nel determinismo di un ampio spettro di patologie epatiche, che si estende da
alterazioni istologiche minime, a forme di epatite cronica con vario grado di aggressività, alla cirrosi, fino all’epatocarcinoma.
Accanto a questo, si sono andate acquisendo crescenti evidenze circa il coinvolgimento dell’infezione cronica da HCV nella patogenesi di un ampio spettro di patologie extra-epatiche, quali i disturbi linoproliferativi, la crioglubulinemia di tipo II, la
glomerulonefrite membranoproliferativa, la sialoadenite linfocitica focale ecc.
Conseguentemente, nel momento stesso in cui un così ampio spettro di problematiche cliniche trova un elemento patogenetico comune nell’infezione cronica da HCV,
quest’ultima diventa sempre più l’esempio paradigmatico della molteplicità di competenze richieste all’Internista nella pratica clinica quotidiana.
L’infezione da HCV trova nell’elevata percentuale di persistenza e nella capacità di
indurre una patologia cronicizzate del fegato i suoi aspetti più importanti e preoccupanti, che ne fanno un problema rilevante, nel nostro Pese, come nel mondo, sia sul
piano epidemiologico-clinico, sia sotto il profilo socioeconomico.
L’obiettivo ideale dell’eradicazione dell’HCV in una fase precoce della malattia, al fine di ostacolare la progressione verso l’epatopatia evolutiva resta per ora sostanzialmente irrealistico e le attuali applicazioni terapeutiche si prefiggono di interferire con
la replicazione virale e di modificare la risposta immunologia dell’ospite.
Gli interferoni, il cui impiego ha addirittura preceduto l’dentificazione stessa dell’HCV, costituiscono tuttora la risorsa terapeutica fondamentale nel trattamento dei
pazienti affetti da epatite cronica HCV-correlata. L’esperienza clinica nella gestione
della terapia a base di interferoni si è andata rapidamente arricchendo negli ultimi anni, consentendo attualmente una apprezzabile conoscenza dei limiti di efficacia della
terapia stessa, degli effetti indesiderati ad essa correlati, degli indici prognostici relativi
alla risposta in termini biochimici e virologici.
Sono stati descritti effetti vantaggiosi dell’associazione di interferone con svariati agenti farmacologici: particolarmente convincenti risultano, allo stato attuale, gli effetti sinergici della ribavirina associata ad interferone.
Se gli schemi terapeutici “aggressivi” e le associazioni farmacologiche forniscono qualche spunto migliorativo sul versante della efficacia terapeutica, un problema clinico
tuttora aperto e, per certi aspetti, enfatizzato dai più recenti orientamenti posologici
nella gestione della terapia interferonica, è quello connesso agli effetti indesiderati
dell’interferone.
53
D’altra parte, una compiuta valutazione del reale impatto della terapia antivirale sul
piano clinico-applicativo non può prescindere dalla intima comprensione dei meccanismi patogenetici del danno d’organo (e la malattia epatica HCV-correlata mantiene la
sua predominanza) e della progressione del danno stesso. In questo senso una rilevanza
cruciale riveste lo studio della storia naturale dell’epatopatia cronica HCV-correlata (fino alle implicazioni più gravi e problematiche quali la cirrosi scompensata e l’epatocarcinoma) dalla quale discende una corretta impostazione clinico-terapeutica.
Ma i progressi nell’ambito della terapia antivirale, costituiscono soltanto un aspetto
delle problematiche epatologiche più attuali: spunti di grande interesse provengono
dalle più recenti acquisizioni in tema di trattamento dell’ipertensione portale e delle
sue complicanze, in tema di terapia medica della sindrome ascitica, nonché in tema
di trattamento precutaneo dell’epatocarcinoma.
Si tratta di applicazioni e procedure di elevato contenuto tecnico-conoscitivo entrate
nella quotidianità della pratica epatologica che hanno stimolato una diffusa crescita
qualitativa della condotta terapeutica: sempre più spesso l’Internista e il Medico di
Medicina Generale sono coinvolti nella gestione di persorsi diagnostici e terapeutici
complessi, che impongono un elevato costo in termini di impegno professionale oltre
che finanziario per la comunità.
E’ anche da questa consapevolezza, oltre che dal desiderio di confrontare le esperienze maturate nella nostra realtà piacentina con quella di autorevoli Esponenti della Comunità Medico-Scientifica nazionale, che nasce l’iniziativa di una giornata di lavori avente per oggetto l’Aggiornamento in tema di Epatologia.
Il programma dei lavori prevede la trattazione di alcuni fra i principali temi di interesse epatologico, con particolare riguardo agli aspetti clinico-applicativi che costituiscono, da un lato, il terreno di lavoro quotidiano del Medico, dall’altro, l’ambito in cui
fa confluire l’impegno di tutti a favore del malato e della sua qualità di vita.
La Società Italiana di Medicina Interna – Sezione Interregionale Emilia Romagna-Marche ha fornito il proprio patrocinio per la riunione scientifica da noi proposta, comprovando un interesse per questa iniziativa che ci incoraggia particolarmente e che
prefigura un’ampia partecipazione di Specialisti.
Motivo di soddisfazione non minore per gli organizzatori è rappresentato dall’appoggio fornito all’iniziativa dall’Azienda USL e dall’Ordine dei Medici di Piacenza che
anche in questa occasione perseguono l’integrazione fra Competenze Ospedaliere e
Medicina Generale che sempre più si afferma come requisito irrinunciabile per una
“buona Sanità”.
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Nuove tecniche diagnostiche per l’epatocarcinoma
Carlo Cagnoni, Daniela Pancotti, Giancarlo Carrara
2° Unità Operativa di Medicina Interna – Azienda USL di Piacenza
L’epatocarcinoma (HCC) in genere si sviluppa su fegato cirrotico e le epatopatie croniche sono quindi considerare condizioni preneoplastiche indipendentemente dalla
loro eziologia. Le innovazioni nella diagnostica per immagini del fegato hanno facilitato la diagnosi precoce di HCC, garantendo inoltre la possibilità di una diagnosi non
invasiva (senza biopsia), soprattutto per quanto riguarda i tumori di meno di 3 cm di
diametro. L’ecografia Doppler, sviluppatasi nei primi anni 90, mostra un aspetto ipervascolarizzato al color doppler e segnali ad alta frequenza (fino a 10 kHz) con allargamento dello spettro ed alti indici di resistenza (RI). In particolare il tracciato Doppler
di un nodulo è considerato diagnostico per quel che riguarda i piccoli HCC (<4 cm)
quando la frequenza è maggiore di 2,5 kHz ed è associata ad un elevato RI (>0,65).
Nei casi dubbi, un allungamento del tempo di accelerazione (>105 ms) contribuisce
alla diagnosi di HCC.
Le maggiori e più recenti novità vengono però dall’uso dell’ecografia armonica con
mezzo di contrasto.
Nel corso dell’ultima decade, la forte reflettività acustica delle bolle di gas e le sue applicazioni hanno rappresentato un nuovo campo di studio. Le prime microbolle iniettabili per via endovenosa avevano lo scopo di migliorare l’enhancement dei deboli
segnali eco nell’ecografia B-mode e nel color doppler o nell’analisi spettrale. L’avvento dell’imaging armonico nella seconda metà degli anni 90 ha determinato una rivoluzione dell’ecografia con contrasto. Utilizzando specifiche proprietà acustiche delle
microbolle (oscillazione, assenza di linearità), sono stati sviluppati nuovi software specifici per distinguere selettivamente il segnale dei mezzi di contrasto (le microbolle)
dal segnale di fondo determinato dai tessuti.
Gli agenti di contrasto di prima generazione, costituiti da microbolle d’aria delimitate
da membrane di diverse sostanze (galattosio e fosfolipidi), erano limitati dalla loro relativa fragilità che determinava una bassa permanenza in circolo: di conseguenza, l’enhancement presentava una forte variabilità intrapaziente. Inoltre, la debole risposta armonica imponeva l’uso di tecniche con alta pressione acustica (Mechanical Index 0.6-1.2)
con conseguente rapida distruzione delle microbolle: ciò comporta l’uso di una modalità di imaging intermittente (una brevissima scansione ogni qualche secondo) per permettere nuovo riafflusso di contrasto dopo ogni distruzione. Questa metodica presentava quindi diversi importanti limiti, tra cui una breve durata del contrasto, l’impossibilità
di una valutazione quantitativa e numerose difficoltà tecniche.
Di recente sono state introdotte nella pratica clinica dei mezzi di contrasto ecografici
di seconda generazione costituiti da microbolle stabilizzate, riempite di gas innocui
(come l’esafluoruro di zolfo, Sonovue, Bracco, Milano) che, a differenza dell’aria, presentano una scarsa solubilità nel sangue e conferiscono alla microbolla una maggiore
resistenza alla pressione consentendole di raggiungere il microcircolo. I nuovi software dedicati (es CnTI, Esaote, Genova) operano a basse pressioni acustiche (Mechanical
Index <0.1) e forniscono, oltre ad una significativa risposta armonica, una immagine
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in tempo reale basata sulla persistenza delle microbolle. Un piccolissimo numero di
microbolle permette quindi la valutazione del flusso e del volume di sangue diretto ai
tessuti normali e patologici.
Di recente è stato dimostrato che, nella diagnostica per immagini del fegato, le microbolle hanno potenzialità paragonabili a quelle dei mezzi di contrasto per tomografia computerizzata e risonanza magnetica. In particolare, questa tecnica fornisce un
significativo contributo alla detenzione e caratterizzazione delle lesioni focali epatiche tramite lo studio della loro vascolarizzazione.
La tipica ecografia con mezzo di contrasto degli HCC mostra un pattern vascolare caratterizzato da intenso enhancement nella fase arteriosa (iperecogenicità), generalmente omogeneo nei noduli piccoli e più irregolare nei noduli di maggiori dimensioni, con successiva riduzione dell’ecogenicità in fase portale. Queste caratteristiche
sono diagnostiche per HCC nei noduli che insorgono su fegato cirrotico (anche in
presenza di bassi livelli di alfa-fetoproteina) e può avere una rilevanza pratica nel differenziare gli HCC dai noduli displastici, che generalmente non presentano un selettivo enhancement arterioso. Tali aspetti sono sovrapponibili a quelli della TC spirale,
metodica di riferimento attuale per la diagnosi e stadiazione dell’HCC, ma con il vantaggio dell’uso di un mezzo di contrasto che praticamente non presenta controindicazioni. Gli svantaggi sono quelli standard dell’ecografia rispetto alla TC e cioè minor
panoramicità ed esplorabilità limitata in alcuni soggetti (obesi o con marcato meteorismo).
Resta irrisolta invece la questione della diagnosi non invasiva degli HCC non ipervascolarizzati che si basa ancora sulla biopsia guidata. Vanno pertanto sottoposti a biopsia tutti i noduli su cirrosi anche se non ipervascolarizzati di diametro superiore a 2
cm. Non è invece stato ancora raggiunto un consenso su quali metodiche diagnostiche utilizzare quando TC o ecografia non mostrano chiari segni di malignità in lesioni focali di meno di 2 cm su fegato cirrotico.
Una nuova recente applicazione dell’ecografia con mezzo di contrasto riguarda il
monitoraggio dell’efficacia dei trattamenti percutanei dell’epatocarcinoma.
Diversi studi hanno dimostrato una buona sensibilità dell’imaging armonico quando
confrontato con la TC nel rilevare l’attività tumorale residua. Come alla TC, all’ecografia con mezzo di contrasto l’attività residua è identificata dalla presenza di tessuto
tumorale con contrast enhancement. La necrosi tumorale è invece caratterizzata dall’assenza di contrast enhancement in noduli che prima del trattamento apparivano
perfusi dal mezzo di contrasto.
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Terapia del carcinoma epatico primitivo
Carlo Cagnoni, Daniela Pancotti, Giancarlo Carrara
2° Unità Operativa di Medicina Interna – Azienda USL di Piacenza
Introduzione
Nonostante le migliorate conoscenze di fisiopatologia e di carcinogenesi epatica, le
nostre possibilità terapeutiche del carcinoma epatico primitivo (CPE) sono rimaste sostanzialmente immodificate nel corso degli ultimi 10 anni. In molti lavori sono riportate sopravvivenze migliori rispetto al passato utilizzando terapie diverse; tuttavia persiste una grande incertezza sull’efficacia di molte delle nostre procedure nel migliorare
la sopravvivenza dei pazienti affetti da CPE. Queste incertezze sono dovute a diversi
fattori, ma primi fra tutti, i due seguenti fattori: il primo è, a nostro modo di vedere, la
coesistenza nel paziente di due malattie infauste per cui non sappiamo veramente
quasi mai se il decesso sia sopraggiunto per scompenso della cirrosi o per la progressione neoplastica. A questo riguardo non possiamo dimenticare che molto frequentemente le cause di morte da cirrosi o da CPE sono le stesse (sanguinamento, encefalopatia, ascite refrattaria e sindrome epato-renale). Il secondo motivo è dovuto al fatto
che i lavori pubblicati sono quasi sempre retrospettivi, non controllati, con selezione
dei pazienti quasi sempre non confrontabile, oppure con casistiche molto piccole non
in grado di rispondere ai quesiti necessari. Sono pochi i lavori pubblicati con i caratteri di scientificità e che abbiano compiuto un’analisi dei risultati tenendo conto dell’intenzione al trattamento.
In questa nota non ci soffermeremo tanto sulle diverse possibilità di trattamento, perché al momento non ci sono grandi novità rispetto agli anni scorsi, quanto piuttosto
ad un’analisi critica di questo argomento.
Il trapianto
E’ il trattamento che sembra affrontare in modo definitivo e più razionale il problema
di base, in quanto tende a risolvere oltre che il fattore carcinoma anche quello della
cirrosi, vera e propria lesione preneoplastica. Utilizzando criteri di inclusione molto
selettivi si è assistito ad un generalizzato miglioramento della prognosi dei pazienti
trapiantati per tumore nel corso degli ultimi anni. La maggior parte degli studi riportano una percentuale di sopravvivenza compresa tra il 50% e il 70% dopo 5 anni dal
trapianto. Poiché la maggior parte delle recidive si osserva entro i primi due anni, si
può ragionevolmente ritenere che molti, anche se non tutti, di coloro che abbiano
raggiunto i 5 anni liberi da malattia dopo il trattamento siano da considerare guariti.
Sono stati proposti per la selezione dei pazienti i così detti criteri di Milano : il numero dei noduli neoplastici deve essere inferiore a 3 con un diametro massimo di 3 cm
se unico o con un massimo di tre noduli piccoli (minori di 3 cm). In questi casi, sembrerebbe che le sopravvivenze siano simili a quelle dei pazienti trapiantati per cirrosi
senza avere il tumore a 5 anni. Purtroppo ci sono numerose difficoltà per proporre il
trapianto di fegato come terapia elettiva del CPE: la grande disparità tra richiesta e offerta di organi determina un’eccessiva permanenza del paziente nelle liste di attesa
cosa che è evidentemente incompatibile con la diagnosi di neoplasia del fegato.
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All’analisi statistica sulla sopravvivenza eseguita tenendo conto della “intention to
treat” è proprio la durata del tempo di attesa prima del trapianto il fattore prognostico più importante. In questi casi, quando il tempo di attesa è inferiore a 6 mesi si ha
la perdita di circa il 20%-25% dei pazienti prima dell’intervento, ma nei casi in cui il
tempo si allunga oltre un anno, ben il 30%-50% dei pazienti risulta non più candidabile al trapianto stesso e quindi si deve considerare come fallimento di terapia prima
ancora di procedere alla chirurgia. Questa osservazione pone altri due importanti
problemi: il primo è che coloro che sono trapiantati dopo un anno o più di attesa
hanno anche una maggiore probabilità di recidiva del tumore, il secondo problema,
legato al primo, è quello di decidere se, in attesa di trapianto, si debba fare qualcosa
di terapeutico e, in caso affermativo, cosa. Il paziente, informato della diagnosi e della prognosi, “chiede” che comunque gli venga eseguita una terapia nell’attesa del trapianto. Ogni centro di trapianto ha la propria impostazione e non è possibile generalizzare, ma è chiaro che su questo argomento esistono controversie sui possibili approcci terapeutici il cui impatto sulla prognosi quoad vitam del paziente è lungi dall’essere risolto. Le procedure che sono maggiormente utilizzare sono la “trans artery
chemo embolization (TACE)” o la “trans-artery oily embolization (TAE)”; entrambe
hanno lo scopo di necrotizzare il tessuto neoplastico rallentando così la crescita del
tumore in modo da non permettergli di arrivare ad uno stadio in cui il paziente non
sarebbe più eleggibile per il trapianto; i dati sull’effettiva utilità di questa tecnica sono
ancora poco chiari. Come verrà detto successivamente, vi è infine il problema che al
momento attuale non è possibile stabilire se il termine classico di studio per la sopravvivenza dopo un intervento (5 anni con o senza malattia) sia ancora un termine appropriato per il CPE che, dai dati più recenti della letteratura sulla storia naturale,
sembra avere un andamento spesso torpido tanto che sia possibile avere una sopravvivenza pari a circa il 50% a tre anni dalla diagnosi. A questo riguardo ricordiamo come per il tumore della mammella si debbano aspettare almeno 15 anni per sapere se
un intervento chirurgico abbia definitivamente guarito una donna. Proprio per affrontare il problema della lunghezza delle liste di attesa, recentemente è stato prospettata l’ipotesi del cosiddetto “trapianto di salvamento” effettuato dopo un primo intervento di resezione. Sul piano puramente teorico questo approccio consentirebbe il
“risparmio” di circa il 30% di organi, oltre a consentire una notevole riduzione dei costi perché il trapianto primario sarebbe indicato solo per quei pazienti che veramente
ne avrebbero il massimo giovamento e perché la resezione chirurgica, molto meno
costosa rispetto al trapianto, consentirebbe di garantire una sopravvivenza simile a
quella dei trapiantati se fosse riservata a pazienti con buone probabilità di superare il
rischio operatorio e con bassa probabilità di recidiva.
La resezione
Nei casi in cui il trapianto non sia possibile (abbiamo visto che ormai per la maggior
parte dei nostri pazienti l’opzione trapianto è solo teorica), la resezione chirurgica
sembra essere al momento la migliore terapia possibile. Infatti, anche per quanto riguarda la resezione sono stati riportati buoni risultati nella sopravvivenza a 5 anni in
casi selezionati, anche se, ed ancor più che per il trapianto, dobbiamo domandarci se
il termine classico della sopravvivenza a 5 anni sia da considerarsi ottimale per ritene58
re guarito il paziente dal punto di vista oncologico. L’HCC metastizza solo tardivamente (almeno al di fuori del fegato) e le stesse metastasi mostrano una lenta progressione nella maggior parte dei casi e quindi quando calcola la sopravvivenza globale si potrebbero avere notevoli differenze tra valori stimati con tecniche attuariali
od ottenute con osservazioni reali. Vi sono inoltre numerosi problemi che riguardano
la selezione ottimale dei pazienti, sia per quello che concerne la possibile recidiva tumorale o la presenza di noduli neoplastici non individuabili prima o durante l’intervento, sia per quanto concerne la scarsa capacità di rigenerazione del fegato cirrotico
e le ridotte riserve funzionali della parte di fegato che viene risparmiata dalla resezione. Nel tempo sono stati proposti diversi indici per stimare il rischio di recidiva:
uno dei più recenti è l’indice mitotico che sembra essere utile nell’indicare quali siano i pazienti a maggiore rischio di recidiva, anche se altri possono essere impiegati
quali ad esempio: l’indice di infiammazione, la presenza di capsula e l’eventuale sua
integrità, il margine libero di resezione e soprattutto l’interessamento vascolare da
parte della neoplasia. La resezione epatica rimane comunque un atto gravato da una
sensibile pericolosità nel paziente cirrotico (5% di mortalità circa anche in casistiche
selezionate) e secondo Autori spagnoli la si dovrebbe evitare nei pazienti con segni
anche di modesto scompenso epatico (iperbilirubinemia) e con ipertensione portale
(pressione misurata nelle sovraepatiche superiore a 10 mmHg) perché in essi la resezione porterebbe ad un peggioramento della prognosi rispetto a nessuna terapia. Vi
è infine il problema che entrambe le tecniche chirurgiche, trapianto e resezione, sono per così dire terapie loco regionali che nulla possono sulle cellule neoplastiche
che già si sono distaccate dal primitivo e che circolano nel sangue e nella linfa o che
abbiano già metastatizzato in organi lontani. Oggi infatti la malattia neoplastica tende
sempre più ad essere considerata malattia a precoce interessamento sistemico piuttosto che malattia d’organo a causa del fatto che cellule neoplastiche possono essere
messe in evidenza in sedi lontane in fase ancora molto iniziale. La conoscenza di
questo fenomeno ormai consolidata grazie a tecniche di biologia molecolare, pone il
problema se tutti i pazienti che vanno incontro ad una terapia chirurgica per CPE (ma
il discorso potrebbe essere ampliato ad altre neoplasie) debbano essere in qualche
modo trattati con antiblastici per via sistemica per cercare di ridurre il rischio di recidiva locale o comparsa di metastasi.
Indipendentemente dalle problematiche brevemente sopra accennate, la via chirurgica rimane percorribile soltanto in una minoranza dei nostri pazienti (tra il 15 e il
35% dei casi a secondo le casistiche), e pertanto per tutti gli altri si dovrà prendere in
considerazione un approccio terapeutico medico.
Terapie mediche ablative
I possibili approcci sono diversi, e tutti devono essere considerati, a parte pochi casi
selezionati, di tipo palliativo. La metodica che negli ultimi 10 anni è stata maggiormente impiegata è quella della distruzione del tessuto neoplastico con l’iniezione intratumorale sotto guida ecografia di etanolo assoluto (PEI da percutaneous ethanol
injection) o, in alternativa all’etanolo, utilizzando acido acetico al 50% a causa di una
migliore diffusibilità nei tessuti sclerotici del fegato cirrotico. Più recentemente è stata
proposta per il CPE, come per le metastasi epatiche da neoplasie del tubo digerente,
59
l’impiego di aghi sonda che, utilizzando la radiofrequenza, sviluppano all’interno della massa tumorale elevate temperature che necrotizzano la massa neoplastica. Infine
ancora più recentemente sono state proposte tecniche di ablazione diverse come
quella della videolaparoscopia e raggi laser o microonde. Le casistiche riportate in
letteratura sono decine e tutte, indicano che la PEI o lo tecniche da essa concettualmente derivate, sembrano essere di beneficio per il paziente cirrotico affetto da CPE
di piccole dimensioni prolungandone la sopravvivenza anche se, è bene ripeterlo,
pressoché costante è la comparsa di nuove lesioni.
La facilità di esecuzione di dette tecniche, la loro disponibilità praticamente in ogni
ospedale, i costi economici estremamente contenuti (specie per la PEI) ed anche la
sostanziale assenza di effetti collaterali significativi hanno determinato un largo impiego della PEI e delle tecniche ablative cosa che ormai rende praticamente impossibile,
e forse eticamente inaccettabile, l’esecuzione di studi randomizzati e controllati per
valutare la reale efficacia. Le casistiche più recenti indicano una sopravvivenza media
a 5 anni dal trattamento nell’ordine del 50% circa dei pazienti trattati con effetti collaterali della terapia quasi sempre trascurabili eccezion fatta in alcuni rari casi dell’inseminamento di cellule neoplastiche lungo il tragitto dell’ago. Questi buoni risultati
sono ottenibili ancor di più impiegando la radiofrequenza che ha il vantaggio di ridurre sensibilmente il numero delle sedute ed anche di aumentare moderatamente il
diametro delle lesioni che si possono trattare anche se i costi in termini economici e
di effetti collaterali sono sicuramente maggiori.
La chemioembolizzazione
Si tratta dell’argomento maggiormente dibattuto in letteratura sul trattamento del CPE
e sui cui esistono forti contrasti tra gli studiosi del settore. La tecnica più usata è la cosiddetta chemioembolizzazione con veicolo oleoso (Trans artery cathether chemoembolization o TACE) perché in una variante prevede anche l’impiego di un farmaco
antiblastico, oltre ad un mezzo di contrasto oleoso e ad agenti embolizzanti l’arteria
epatica. La TACE è ampiamente utilizzata nel trattamento del CPE localmente avanzato, anche se i dati della più recente letteratura indicano che i migliori risultati delle
procedure si possono ottenere su lesioni di dimensioni non inferiori ai 2 cm e non
superiori ai 4-5 cm e soprattutto iper-vascolarizzate. Non debbono sussistere controindicazioni quali, ad esempio, la trombosi portale, fistole artero-venose, cardiopatie, interessamento extraepatico, età avanzata, e soprattutto segni di scompenso epatico. La certezza sulla sua efficacia riguarda la capacità che ha nel ridurre la massa tumorale (la necrosi completa viene descritta nel 90% dei casi) . Tuttavia non sembra
che tale tecnica possa prolungare la sopravvivenza dei pazienti. In altri termini, applicata su numeri relativamente grandi e in casistiche con criteri di arruolamento dei pazienti più ampi rispetto alle prime segnalazioni, la metodica non ha dimostrato efficacia nell’allungare in modo significativo la sopravvivenza. Tuttavia la mancanza di studi randomizzati e controllati con numeri elevati di pazienti arruolati , rende la massa
dei dati pubblicati in letteratura suscettibile di errori e quindi fonte di interminabili
discussioni. La chemioembolizzazione soffre quindi degli stessi problemi che hanno
tutte le altre tecniche di terapia ablativa. Soltanto pochissimi studi hanno affrontato il
problema del reale impatto della TACE sulla evoluzione della malattia e soprattutto di
60
sue ripetizioni nel tempo sulla funzione del fegato. Studi più recenti indicano che la
prognosi dei pazienti è legata in gran parte proprio a queste capacità funzionali dell’organo.
Recentissime segnalazioni riportate in letteratura dimostrano una efficacia reale della
TACE nel prolungare la sopravvivenza globale dei pazienti anche se alcuni dati devono essere presi con estrema cautela. Possiamo quindi concludere che queste tecnica
sia perfettamente sovrapponibile alle altre tecniche, anche se riteniamo che la TACE
sia attualmente la più studiata.
La chemioterapia
Per quanto riguarda la chemioterapia sistemica essa è stata ampiamente usata, ma
sempre con risultati piuttosto scoraggianti a causa dell’intrinseca resistenza dei tumori del fegato ai farmaci antiblastici. Anche l’impiego di farmaci di recente introduzione come il raltitrexed e la gemcitabina non hanno fornito dati significativi. Molto più
promettenti sono risultati gli approcci per via arteriosa epatica che consentono di veicolare al fegato quantità maggiori di antiblastici con una minore tossicità generale. I
farmaci impiegati sono stati molti, soprattutto antracicline, cisplatino, mitoxantrone
ed anche 5’Fluoro-Uracile. Utilizzando un catetere posizionato in arteria gastroduodenale e reservoir sottocutaneo e facendo infusioni prolungate di 5-FU precedute da
acido folinico, si è potuto constatare in una casistica di 32 pazienti (Cancer, 2002)
affetti tutti da CPE localmente avanzato una discreta percentuale di risposta con una
sopravvivenza media da 24 mesi a 3 anni.
Altre procedure
Negli ultimissimi anni alcuni Autori hanno pensato di abbinare i diversi approcci terapeutici (chemioterapia tradizionale, chemioterapia loco regionale intra-arteriosa, PEI,
TACE, trapianto) tra loro. Soprattutto nelle forme avanzate si è tentato di abbinare la
PEI con la TACE e il trapianto con la TACE e/o la chemioterapia tradizionale, mentre
nelle forme precoci si è proposto TACE e trapianto o resezione e trapianto. I dati preliminari sono incoraggianti tanto da far pensare e proporre per il paziente con CPE e
cirrosi un approccio multidisciplinare. Nei casi con diagnosi precoce si potrebbe proporre per il paziente la resezione seguita da un attento follow up che portasse eventualmente a un trapianto di “salvamento” nel caso di recidiva. E’ possibile che questa procedura si possa giovare di una chemioterapia adiuvante tra le due fasi anche
se il CPE ha quasi nel 100% dei casi il fenotipo della MDRI ovvero di resistenza crociata multipla ai farmaci antiblastici. L’utilizzo di nuovi farmaci antitumorali oppure di
inibitori del fenotipo MDRI potrebbe essere utile in questi casi. Ove non fosse possibile il trapianto ed in attesa di “fegati” clonati o riprodotti a partire da cellule staminali od ancora di fegati di maiale “umanizzati”, potrebbe essere utile, dopo una prima resezione e nel caso di recidiva, un atteggiamento aggressivo nei confronti della
recidiva utilizzando ove possibile ancora la resezione (una minoranza di casi) o tecniche ablative (PEI, RFQ, Videolaser o microonde) che hanno il vantaggio di potere essere ripetute nel tempo più volte. Nei pazienti in attesa di trapianto, oltre alla TACE
come si suole eseguire nella maggior parte dei centri, si potrebbe abbinare la chemioterapia sistemica.
61
Conclusioni
Pertanto, sulla base di quanto brevemente considerato l’approccio terapeutico al paziente con CPE e cirrosi epatica è ben lungi dall’essere risolto e chiarito nelle sue linee guide. Se istintivamente guardiamo alle terapie chirurgiche demolitive come a
quelle più risolutive, se non altro per tradizione e in analogia a quanto avviene nelle
altre forme di tumore, nei nostri pazienti questo approccio non sempre sembra determinare il miglioramento della prognosi. Questo è forse dovuto alla contemporanea
presenza di almeno due malattie ad esito infausto, ma potrebbe essere anche perché
non conosciamo perfettamente il quadro clinico nel suo complesso.
Il trapianto, che poteva sembrare davvero la terapia ottimale e decisiva anche se limitata a pochi casi fortunati a causa della nota scarsità di organi, non sembra essere nella pratica così ricca di soddisfazioni se teniamo conto di quelle che erano le aspettative.
In attesa che il CPE possa essere prevenuto, non ci resta che invitare tutti i medici a
seguire con attenzione i pazienti cirrotici per poter diagnosticare la neoplasia precocemente e quando sia ancora suscettibile di trattamento radicale. D’altronde non sarebbe etico non ricordare che la vecchia massima “primo non nuocere” può tuttora
avere la propria dignità in tutti quei casi in cui la riserva funzionale epatica sia modesta e la presenza di fattori prognostici sfavorevoli consiglino terapie poco invasive o
persino di solo supporto.
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Convegno 18 maggio 2002: “Convegno della società italiana Emiliano-Romagnola”
Il divezzamento
G. Biasucci
Dipartimento Maternità, Infanzia ed Età Evolutiva, U. O. di Pediatria e Neonatologia, Ospedale “G. da Saliceto”, Piacenza
Sebbene con il termine “divezzamento” si debba intendere il passaggio per il bambino dall’abitudine ad alimentarsi esclusivamente al seno materno all’assunzione di alimenti solidi e liquidi con modalità diversa dalla suzione al seno (weaning), nell’accezione comune si indica invece, la fase di introduzione di alimenti solidi a complemento dell’allattamento, indipendentemente dal tipo di alimentazione (al seno o con
biberon).
Nei vari Paesi, laddove la disponibilità di alimenti non sia limitata, le differenti modalità di divezzamento sono correlate a fattori culturali, socio-economici ed alle diverse
tradizioni. Il tentativo di uniformare i tempi di introduzione di alimenti non ha trovato finora un significativo consenso ad eccezione della prevenzione di stati di patologia, quali le manifestazioni atopiche, per le quali è ormai documentato l’effetto preventivo della prosecuzione dell’allattamento al seno, con ritardato inizio del divezzamento e rinviata introduzione degli alimenti più allergizzanti (2).
Attualmente esiste quindi ampio dibattito intorno a tre quesiti pratici principali relativi al divezzamento:
a) quando iniziare
b) come iniziare
c) quanto proseguire con l’allattamento al seno.
a) Quando divezzare
A fronte delle differenze socio-culturali, locali e familiari che condizionano le tradizioni del divezzamento nei vari paesi, esistono comprovati principi scientifici (3) basati sia sulle necessità nutrizionali del bambino che su fattori neurofisiologici legati allo sviluppo maturativo del sistema nervoso centrale (perdita del riflesso di estrusione,
capacità di masticare e deglutire), oltre che anatomo-fisiologici legati alla maturazione del rene (ridotta capacità di concentrazione delle urine alla nascita) e dell’apparato gastrointestinale (progressiva saldatura intercellulare o gut closure), che dovrebbe
aiutare ad uniformare l’età di inizio.
Divezzare troppo presto può portare non solo ad un aumento del rischio di diarrea e
allergie alimentari, ma anche a squilibri nutrizionali secondari alla precoce sospensione dell’allattamento al seno. Al contrario, divezzare troppo tardi può provocare ritardo di crescita, deficit immunitari, e quindi analogamente malnutrizione, se il latte
materno rimane l’unico alimento fornito al bambino dopo il sesto mese di vita (1).
Nei Paesi con disponibilità di alimenti adeguati dal punto di vista nutrizionale e sicuri da quello microbiologico, le attuali linee guida dell’OMS consigliano pertanto di
iniziare il divezzamento non prima del 120° giorno e non dopo il 180° giorno di vita.
63
Infatti entro il suddetto range si completano quei processi maturativi anatomo-funzionali che garantiscono un’adeguata capacità escretiva dell’emuntorio renale ed un’adeguata protezione della mucosa gastrointestinale verso molecole di provenienza
esogena, favorita dalla gut closure e stimolata dal latte materno, in grado di fornire
molecole che possono promuovere la maturazione immunologica della mucosa gastrointestinale sia attivamente con azione immuno-modulante ed immuno-stimolante
(interleuchine, nucleotidi, fattori di crescita) che passivamente (IgA secretorie) e di
implementare gli stessi meccanismi di difesa gastrointestinali non immunologici (acidità gastrica, regolazione della flora intestinale).
b) come divezzare
Studi sperimentali hanno evidenziato che l’introduzione diretta degli alimenti solidi
induce a livello cellulare e sub-cellulare, a seconda della loro composizione in macronutrienti, modifiche che portano alla sintesi di enzimi e proteine necessari per i
processi digestivi, vale a dire che l’elevato tenore di carboidrati induce l’espressione
di complessi enzimatici diversi rispetti all’elevato tenore lipidico (6), così come stati di
iperinsulinemia attivano l’espressione di quei geni codificanti per enzimi lipogenici, la
cui espressione viene prevenuta da un elevato apporto di grassi (7). Sembrerebbe
quindi che le modifiche degli schemi alimentari e/o le correlate modifiche ormonali e
non solo lo stadio di maturazione in sé possano essere responsabili delle modifiche
delle attività enzimatiche legate alle mutate condizioni nutrizionali.
Sono poche le regole generali dell’alimentazione nei primi sei mesi del divezzamento
e riguardano comunque alimenti precisi, quali l’olio, che dovrebbe essere extravergine d’oliva, in quanto più ricco in acido oleico (l’acido grasso predominante nel latte
materno), vitamine e sostanze antiossidanti. Tuttavia, anche in questo caso l’evidenza
epidemiologica di una bassa assunzione di polinsaturi, comune ai bambini al compimento del dodicesimo mese di vita, lascia aperto un discorso sulla possibile integrazione con altri oli a tenore più elevato di acido linoleico ed alfa-linoleico. Zucchero e
sale non sono consigliati almeno fino al compimento del primo anno di vita, per evitare di abituare il bambino a gusti dolci e/o salati che ne possano condizionare le
scelte alimentari in epoca successiva e lo predispongano allo sviluppo di ipertensione
arteriosa, stai di iperglicemia e carie (17). Inoltre vanno evitati cibi contenenti coloranti e/o additivi, facendo possibilmente ricorso a prodotti controllati all’origine e durante i processi produttivi e, specialmente in caso di anamnesi familiare positiva per
malattie allergiche, si deve avere l’accortezza di non introdurre più di un nuovo alimento alla volta. Per rendere più fisiologico il processo del divezzamento, il primo
alimento nuovo da introdurre dovrebbe essere inìl brodo vegetale, che va integrato
con cerali senza glutine fino al compimento del sesto mese e, nell’ordine, con omogeneizzato di carne e quindi al passato di vegetali (nel bambino allattato al seno, in
ordine inverso in caso di allattamento con formula, che fornisce già quantitativi superiori di proteine e ferro), grana ed olio extravergine di oliva. Questa è la base della
prima pappa di mezzogiorno, che sostituirà quindi un pasto latteo. La seconda pappa, con l’introduzione del formaggio al posto della carne, seguirà a distanza di 20-30
giorni.
E’ sempre opportuno utilizzare, almeno nella prima fase del divezzamento, prodotti in64
dustriali preparati nel rispetto di rigorose norme igienico-sanitarie, con materie prime selezionate e privi di coloranti, conservanti ed altri additivi chimici, ideali anche dal punto
di vista nutrizionale in quanto integri nel contenuto originale proteico e minerale.
A partire dal settimo mese, il bambino potrà passare a semolini e pastine contenenti
glutine, frutta (mela, pera, banana) e succhi di frutta ai pasti, pesce (trota, sogliola,
platessa, salmone) e prosciutto cotto senza conservanti, meglio quindi in forma omogeneizzata. Sarà anche maggiormente varia la proposta di carne (tacchino, agnello,
coniglio).
L’ottavo mese vedrà l’introduzione di legumi passati e senza buccia; al nono mese il
tuorlo d’uovo (1-2 volte a settimana) al posto di carne e formaggio e sarà possibile
proporre gli agrumi. Quindi, progressivamente, si potranno sostituire gli omogeneizzati con gli alimenti freschi naturali ed, al compimento del primo anno di vita, introdurre albume d’uovo e latte vaccino (o meglio, di crescita) con biscotti secchi e cereali integrali per abituare il piccolo precocemente al consumo di fibra (18). La fibra
alimentare, il cui apporto nel 1° anno di vita è necessariamente limitato per la necessità di favorire l’assorbimento intestinale e dall’incapacità del bambino di masticare, è
un’importante componente della dieta, aumentando il senso di sazietà, migliorando
la funzione intestinale ed avendo funzioni preventive verso patologie quali tumori del
colon-retto, diabete e malattie cardiovascolari. L’apporto di fibra, quindi, va favorito
in termini di cibi che ne sono più ricchi, quali legumi, cereali, verdura, frutta, per
soddisfare la quantità giornaliera in grammi pari, in età pediatrica, all’età in anni più
5, oppure 0,5 g/kg/p.c.
E’ opportuno sottolineare che, in qualsiasi fase del processo di divezzamento, andrà
sempre garantito un apporto di latte (solo e/o con yogurt) pari a circa 500 ml/die, soprattutto in funzione del fabbisogno di calcio.
c) Quanto proseguire con l’allattamento al seno
Durante il divezzamento l’apporto di latte dovrebbe essere garantito ancora dall’allattamento al seno. L’introduzione di alimenti solidi, a partire dalla prima pappa con
carne, assicura l’apporto di quei micronutrienti che, secondo alcuni studiosi, rappresentano gli elementi limitanti per la crescita di un soggetto che continui ad essere allattato esclusivamente al seno, cioè zinco, ferro e proteine di elevato valore biologico
(3). La prosecuzione dell’allattamento al seno può invece contribuire a mantenere
entro limiti accettabili l’assunzione stessa di proteine, destinata altrimenti ad aumentare ben oltre i limiti raccomandati di assunzione (8) e ad incrementare l’assunzione
di acidi grassi polinsaturi, soprattutto i derivati a lunga catena. Un bambino che assuma regolarmente latte materno durante il divezzamento arriva ad una quota giornaliera di acido arachidonico e docosaesaencico raggiungibile solo con quantitativi non
realistici di alimenti animali quali uovo, pesce o fegato. Infine, va ricordato che il latte materno contiene grassi animali (contrariamente alla maggior parte delle formule
adattate, che contengono grassi di natura vegetale) e quindi colesterolo. Conseguentemente, finché un bambino assume latte materno mostra in genere livelli di colesterolemia più elevati rispetto a soggetti allattati artificialmente (14). Quando il latte materno non è più disponibile durante il divezzamento, le formule “di proseguimento”
assicurano un apporto di nutrienti sicuramente più adeguato alle esigenze del bambi65
no rispetto al latte vaccino, in quanto contengono un contenuto proteico ridotto, un
minore contenuto di grassi saturi e una maggiore concentrazione di grassi polinsaturi,
ferro e zinco. Il maggior contenuto proteico e di sodio, adatto alla crescita dei bovini
e quindi l’elevato carico di soluti, ma soprattutto il ridotto apporto e la minore biodisponibilità marziale, associata all’azione anemizzante dovuta a microemorragie intestinali sono ragioni sufficienti ad escludere l’utilizzo di latte vaccino fresco nel corso
del primo anno di vita.
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66
Difficoltà alimentari ed insufficienza intestinale
S. Amarri, L. Viola, F. Balli
Pediatria, Policlinico Modena, Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
Il costante aumento dei bambini che sopravvivono a incidenti drammatici avvenuti in
epoca neonatale, e dei pazienti con patologia cronica in età pediatrica ha portato un
crescente interesse verso la nutrizione clinica, termine che riunisce tutte le attività nutrizionali che hanno valore terapeutico: Spesso la nutrizione clinica viene totalmente
identificata con la nutrizione artificiale, cioè l’impiego di mezzi non naturali (sonde
enterali o cateteri artificiali), ma questa è una definizione sbagliata poiché moltissime
sono le condizioni in pediatria dove, pur somministrando alimenti per via orale, si utilizzano nutrienti come arma terapeutica: basti pensare alle formule speciali impiegate
nell’intolleranza alimentare o in alcune malattie metaboliche. In questa sede preme
tuttavia fornire un elenco, che non vuole essere esaustivo, delle principali applicazioni della nutrizione clinica.
Distinguiamo fondamentalmente due condizioni: patologie che interessano direttamente l’apparato gastrointestinale selle sue funzioni digestive, assorbimento e motilità, e patologie extraintestinali che impediscono una normale alimentazione o limitano significativamente l’apporto calorico.
Le patologie a carico del sistema gastro-intestinale a loro volta sono distinte in un
gruppo di condizioni in cui mancano tratti gastrointestinali, poiché resecati ad esempio alla nascita per gravi malformazioni o enterocolite necrotizzante, con insorgenza
della così detta sindrome dell’intestino corto; oppure i tratti intestinali sono conservati ma non funzionano normalmente: Gli esempi di quest’ultima situazione sono la
diarrea cronica intrattabile dove l’intestino perde la propria capacità assorbitiva e la
sindrome da pseudostruzione intestinale cronica dove la motilità è gravemente compromessa e l’alimentazione può essere impossibile da eseguire per via intestinale. In
questi casi la soluzione passa attraverso la nutrizione parenterale di lunga durata,
spesso domiciliare, attraverso cateteri venosi centrali per somministrare una percentuale di calorie che sarà uguale al 100% (nutrizione parenterale totale) nei casi più
compromessi o inferiore (nutrizione parenterale di supporto con apporti per os o con
sondini enterali) nelle condizioni meno gravi. Quando l’apporto calorico per via parenterale è >75% per più di un mese si parla di insufficienza intestinale cronica benigna (questa distinzione vale per l’adulto dove esiste quella maligna). L’insufficienza
intestinale è una condizione relativamente rara: un’indagine della Società Italiana di
Gastroenterologia Pediatrica ha rilevato che negli ultimi tre anni sono stati trattati in
Italia 110 bambini, mentre dati riportati su letteratura inglese stimano in 1 su milione
di abitanti per ogni anno l’incidenza, includendo tutte le età. La terapia parenterale
può essere condotta a lungo tuttavia le complicazioni sono frequenti e gravi, soprattutto quando la funzionalità epatica è colpita. Negli ultimi anni la prospettiva terapeutica finale esiste ed è rappresentata dal trapianto intestinale isolato o multiviscerale
combinato: la sopravvivenza a cinque anni è ora intorno al 60% e le tecniche chirurgiche ed immunosoppressive sono uscite dalla fase sperimentale.
Esistono infine una serie di condizioni in cui patologie esterne al tubo intestinale pro67
vocano insufficienza d’organo. Le epatopatie croniche, soprattutto colestatiche (come
complicanze di atresie biliari trattate con intervento di Kasal) portano a grave malassorbimento per riduzione nell’assorbimento di grassi, oltre agli aumentati fabbisogni
per ipercatabolismo. In questi casi l’intervento nutrizionale è d’obbligo nella fase pretrapianto e consiste nella somministrazione di miscele nutritive a base di acidi grassi a
media catena.
Una situazione molto frequente riguarda una combinata insufficienza di due organi
(polmone e pancreas) come si verifica nella fibrosi cistica, la più frequente malattia
ereditaria nella razza caucasica. In generale i soggetti con fibrosi cistica hanno bisogno di una dieta ipercalorica per consentire una digestione minima che possa garantire gli aumentati fabbisogni. A partire dagli 80 è stato chiaro che la maggiore attenzione agli aspetti nutrizionali ha contribuito alla migliore sopravvivenza, ora spintasi
intorno ai 40 anni.
Un altro campo di grande interesse nutrizionale è l’infezione da HIV e l’oncoematologia, condizioni dove l’apparato gastrointestinale può essere colpito dalla patologia
di base o danneggiato pesantemente dalle terapie, oppure i pazienti versano in condizioni defedate e sono impossibilitati a nutrirsi a sufficienza.
Ultimo esempio (non in ordine di importanza) sono le neuropatie croniche, altra
condizione molto frequente e ad aumentata sopravvivenza. In questi casi l’intestino è
intatto e pertanto la nutrizione darà enterale se il fabbisogno calorico non viene soddisfatto per os, quando questo dura oltre tre settimane le principali linee guida indicano il posizionamento di una gastrostomia percutanea per via endoscopica (PEG).
Questo approccio ha rivoluzionato negli ultimi anni l’assistenza a questi bambini dove è spesso impossibile curare la patologia (to cure) mentre è eticamente fondamentale prendersi comunque cura (to care) della malnutrizione.
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68
Gli inquinanti alimentari
G. Calabrese
Negli alimenti che quotidianamente diamo ai nostri bambini può essere presente un
certo numero di sostanze più o meno tossiche. Gli agenti potenzialmente tossici rinvenibili negli alimenti possono essere raggruppati nel seguente modo:
1. tossine di origine animale: tali sostanze provengono dal metabolismo endogeno
di organismi animali e vegetali e molte di esse tendono a concentrarsi lungo le catene alimentari, raggiungendo l’uomo a concentrazioni tali da provocare gravi effetti sulla salute. Sostanze come: le tossine prodotte da microrganismi, cioè batteri, muffe e lieviti, cresciuti su alimenti mal conservati.
2. sostanze tossiche provenienti da contaminazione: sono presenti negli alimenti a
causa di contaminazione che si può verificare durante i vari processi di lavorazione, manipolazione e immagazzinamento degli stessi. La contaminazione può avvenire accidentalmente o per uso improprio di prodotti chimici nel settore agroalimentare.
3. sostanze aggiunte intenzionalmente agli alimenti, quali coloranti, conservanti,
emulsionanti.
4. allergeni o composti che possono avere un’azione allergene-like: questo gruppo
di sostanze riguarda più l’allergologia che la tossicologia alimentare.
La maggior parte dei contaminanti chimici che si riscontrano negli alimenti sono sostanze chimiche relativamente complesse come sotto rappresentato:
SOSTANZA
Tetraciclina
Para-diclorobenzene
N-nitrosodimetilamina
Stirene
Diclorvos
CATEGORIA
farmaco
contaminante ambientale
nitrosamine
materiali di imballaggio
pesticida
Il numero di sostanze chimiche con cui un bambino quotidianamente può venire in
contatto è elevatissimo, tuttavia un numero limitato si ritrova negli alimenti come
contaminante (come da Tab. ).
Tab. 1 – Sostanze che potrebbero contaminare gli alimenti e quelle che effettivamente sono riscontrate in essi:
CATEGORIA
N° TEORICO CONTAMINANTI
Farmaci uso veterinario
Sost. Chimiche industriali
<100
>10.000
69
N° SOSTANZE
RISCONTRATE
NEGLI ALIMENTI
<100
<100
Nitrosamine
Sost. tossiche di origine naturale
Materiali di imballaggio
Pesticidi
<100
>1.000
>1.000
>100
<100
<50
<50
>100
(Fonte: Watson, 1993)
Vi sono varie modalità di contaminazione alimentare (Tab. 2) che coinvolgono le diverse fasi di produzione e di trasformazione tali da indurre ad adottare procedure
operative (H.A.C.C.P.) nella produzione e preparazione di alimenti e bevande per
salvaguardare la salute del consumatore.
Tab. 2 – Schema di alcune vie di contaminazione durante le fasi di produzione, trasformazione, confezionamento di alimenti.
SOSTANZE TOSSICHE NATURALI
AGRICOLTURA ZOOTECNICA
Sostanze chimiche (nitrati, pesticidi, farmaci)
IMMAGAZZINAMENTO
Sostanze chimiche usate nello stoccaggio di cereali (es. pesticidi)
LAVORAZIONE E CONFEZIONAMENTO
Varietà di sostanze chimiche (es. quelle da confezionamento)
VENDITA AL MINUTO
Sostanze che migrano dalla confezione
e infine PREPARAZIONE DI ALIMENTI IN CASA SOSTANZE CHIMICHE PRODOTTE
DURANTE LA COTTURA
RISCHI CONNESSI AI RESIDUI NEGLI ALIMENTI
Uno dei grossi problemi nei confronti della salute dei piccoli consumatori è quello
che deriva dalle proprietà biochimiche dei pesticidi. I composti organoclorurati
(DDT, HCH, DIELDRIN) sono poco biodegradabili e quindi persistono a lungo nell’ambiente e tendono a concentrarsi negli organismi viventi man mano che risalgono
la catena alimentare. Tracce di questi elementi si possono trovare oltre che nelle acque, nel terreno, sui vegetali e nei tessuti di bestiame alimentato con foraggio contaminato. Ecco perché si ritrovano facilmente nel latte, nel burro, nei formaggi e nelle
carni.
In Italia, un’indagine eseguita recentemente ha evidenziato che: il 62% circa dei
campioni di alimenti (N° 7.928 in totale tra ortaggi, cereali e frutta) era esente da residui, o meglio, la presenza era al di sotto dei limiti di sensibilità del metodo analitico
adottato; il 36% circa presentava livelli di residui entro i limiti di legge e solo il 2% risultava irregolare.
70
CONTAMINAZIONE DA METALLI PESANTI
Un altro problema per i nostri bambini è quello dei metalli pesanti. La presenza di alcuni metalli quali il rame (Cu), il Cromo (Cr), lo zinco (Zn) e di tutti gli oligoelementi
è necessaria per la salute e la crescita dei bambini. La presenza, invece, di alcuni metalli quali il piombo, il cadmio, il mercurio è solamente dannosa, visto che non hanno
alcuna funzione fisiologica e salutista.
Le cause di contaminazione degli alimenti sono essenzialmente tre:
1. produzione di animali e piante in aree altamente inquinate
2. contatto degli alimenti con apparecchiature o materiali metallici durante i processi di lavorazione
3. confezionamento o immagazzinamento degli alimenti in contenitori metallici
La contaminazione degli alimenti da parte dei metalli tossici ha destato molta preoccupazione tra noi scienziati per le gravi conseguenze che ne possono derivare alla
popolazione. Tra i vari metalli tossici, si sono rivelati particolarmente pericolosi i metalli pesanti, quali ad esempio, l’alluminio, il piombo, il mercurio, l’arsenico che non
hanno alcuna funzione biologica e che tendono ad accumularsi nei tessuti corporei,
esplicando un’azione molto tossica anche a bassissime concentrazioni. (Tab. 3).
Tab. 3 – tossicità dei metalli nell’uomo
ORGANO O SISTEMA BERSAGLIO
Apparato respiratorio
Sistema cardio vascolare
Rene
Fegato
Sistema nervoso centrale
Sistema nervoso periferico
Cute e annessi
ELEMENTI
alluminio, berillio, cromo, nichel, silicio
arsenico, cadmio, tallio
cadmio, mercurio
cadmio, cromo, vanadio
alluminio, mercurio, piombo manganese
piombo, mercurio, tallio
arsenico, tallio
(Fonte: Olibet et al., 1995)
Essi sono spesso a causa di intossicazione, poiché entrano facilmente nella catena alimentare, essendo largamente distribuiti nell’ambiente in seguito a:
• processi naturali (eruzioni vulcaniche, spray marino, erosione delle rocce, incendi
boschivi, ecc.)
• processi antropogenici (emissioni autoveicolari ed industriali: Impiego di pesticidi in
agricoltura, estrazione mineraria, ecc.)
Come si vede c’è molta carne al fuoco fra le sostanze inquinanti nel bambino ma il
futuro sarà sempre più controllato dalla scienza e le moderne tecnologie ci aiuteranno a risolvere questo grave problema.
71
Bibliografia
1. Bolognesi C., Roman P., Valerio F., 1990: Plastica e ambiente: possibile rischio
connesso all’uso di ftalati, Ambiente, risorse, salute.
2. Bressa G.: Alimenti e salute, Masson, 1999
3. Cerutti G.: Il rischio alimentare: Tossici, Contaminanti, residui e additivi. Ed. Tecniche Nuove, Milano
4. Daniels J. L., Olshan A. F. and Savitz . A., 1997: Pesticideand Childhood cancers:
Environ, health perspec.
5. Focardi S. , Leonzo c. and Fossi C., 1998: Variation in poly chlorinated byphenyl
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position in the food chain, environ poll.
6. Furst P., Furst C.m Wilmers K., 1994: Human milk as bioindicator for body burden of PCDDS, pcdfS, organochlorine pesticides and PCBs. Enviro. Health persp.
7. KOLETZKO B., AGGET P. J. AGOSTINO C. BRESSON J. L., DECSI T., MANZ F.,
RIGO J., SOCHA J., 1999: Pesticide in dietary foods infants and young children.
Arch. Dis. Child.
72
Convegno 25 maggio 2002: “Asma Bronchiale”
Asma bronchiale
Pietro Bottrighi
Responsabile U.O. di Pneumologia
A.USL di Piacenza
Una definizione di asma che sia universalmente accettata non esiste ancora. Tuttavia,
vi è un generale accordo sul fatto che l’asma è una malattia cronica, caratterizzata da
una reazione broncospasmigena eccessiva, in risposta ad un ampio numero di stimoli
comunemente ricorrenti (virus, allergeni, esercizio fisico ), che comporta la comparsa di
dispnea, tosse e di asma a scopo epidemiologico potrebbe essere la presenza di sintomi correlati all’asma e all’iperattività bronchiale negli ultimi dodici mesi. Si ritiene che
tale abnorme reattività bronchiale sia dovuta ad uno stato di infiammazione cronica
delle vie respiratorie.
L’asma è considerata uno dei maggiori problemi sanitari del mondo occidentale. Non
solo, infatti, essa rappresenta una delle affezioni più diffuse tanto tra i bambini che tra
gli adulti, ma ne sono in aumento sia la prevalenza che la severità.
Negli U.S.A., alla fine degli anni ’80 si calcolava che ne fossero affetti dai 9 ai 12 milioni
di persone su 250, con una prevalenza quindi di circa il 4,2%.
Stime analoghe si hanno per il Regno Unito, dove una prevalenza generale del 3% era
costituita da un 6,1% nella popolazione al di sotto di 16 anni e un 2,2% in quella di età
superiore.
Per l’Italia, relativamente agli anni ’80 si hanno stime di prevalenza nella popolazione
generale del 3,3 – 5,5%. Indagini più recenti forniscono dati di prevalenza generale
compresi tra il 4% e il 7%.
Percentuali più elevate, dell’ordine del 10%, si riscontrano per la popolazione in età
scolastica. Si tratta di una malattia cronica in crescita, che condiziona la qualità della vita di coloro che ne sono affetti e delle loro famiglie, che può avere conseguenze anche
sul rendimento scolastico o professionale e che può condurre, nelle forme più gravi, all’invalidità.
Il costo sociale di una malattia, cioè l’onere economico e, più in generale, in termini di
utilità perduta che essa comporta per le collettività fa capo a tre grandi componenti: i
costi diretti, che si riferiscono alle risorse erogate per la prevenzione e il trattamento della malattia stessa e delle patologie correlate; i costi indiretti, imputabili alle perdite di
produzione per assenze dal lavoro da parte dei soggetti colpiti; i costi intangibili, legati
agli effetti psicosociali, quali sofferenza e disagi, causati dalla malattia. Se esistono ormai
metodi affidabili per misurare economicamente i costi diretti e anche quelli indiretti, altrettanto non si può dire per quanto riguarda i costi intangibili; di conseguenza, nell’impossibilità di valorizzare questi ultimi, i risultati di qualsiasi studio sul costo sociale di una
malattia dovrebbero essere sempre considerati una sottostima della vera, complessiva figura di costo.
Le stime del costo sociale possono essere fatte con riferimento alla prevalenza della ma73
lattia, cioè a tutti i pazienti considerati in un determinato periodo temporale, oppure
con riferimento all’incidenza, considerando soltanto i nuovi casi, seguiti per tutta la durata della malattia. Gli studi esistenti sul costo sociale dell’asma utilizzano il primo criterio, che, per inciso, ha il pregio di una maggiore facilità nell’impiego di dati statistici già
noti e nella valutazione dell’impatto del trattamento sui costi della malattia.
Naturalmente, il dato di costo sociale di una malattia è un’informazione di non elevato
interesse, se preso a sé stante. Di ben maggiore valore è la valutazione sia dei costi che
dei benefici tra diverse opzioni di intervento sanitario su di essa, così da consentire una
scelta corretta di impiego delle risorse.
Notevoli progressi sono stati compiuti negli ultimi anni in termini di conoscenza della
malattia, grazie soprattutto alla predisposizione nel 1995 delle linee guida internazionali sulla diagnosi, il trattamento e la gestione della malattia da parte del Gruppo G.I.N.A
– Global Initiative for Asthma, largamente diffuse e progressivamente aggiornate che
hanno consentito l’applicazione delle più recenti acquisizioni scientifiche in questo settore anche nel nostro paese.
Dal punto di vista politico si deve constatare un’accresciuta attenzione all’asma da parte dell’OMS, della Commissione Europea e delle nostre Istituzioni. Il Ministero della Sanità ne ha riconosciuto il rilievo sociale nel Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 e ha
previsto nuove iniziative, tra cui assumono particolare rilievo quelle volte alla riduzione
dei danni causati dal fumo di tabacco e dall’inquinamento ambientale, nel Piano Sanitario Nazionale 2001-2003, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 febbraio 2001.
Malgrado ciò, le più recenti indagini sulla qualità della vita, sul consumo dei farmaci e
sui costi della malattia non mostrano indizi di miglioramento delle condizioni di salute
e di qualità della vita di coloro che hanno l’asma o segnali di nuove promettenti prospettive in termini di valutazioni socio-sanitarie.
Diminuire il costo socio-economico dell’asma dovrebbe essere una delle priorità di un
piano sanitario antiasma.
Per realizzare questa priorità, occorre definire obiettivi specifici volti a contrastare la
malattia tra cui:
• Ridurre la prevalenza e la crescita dell’asma
• Azzerare le morti evitabili
• Ridurre l’incidenza delle forme più gravi e invalidanti
• Ridurre i ricorsi al Pronto Soccorso
• Ridurre i ricoveri ospedalieri (numero, giornate di degenza, ricoveri ripetuti)
• Ridurre la perdita di giornate lavorative e le assenze scolastiche.
In altri termini la riduzione dei costi socio-economici e umani si basa su una strategia
volta ad assicurare il migliore controllo possibile della malattia attraverso interventi a livello della diagnosi, del trattamento, dei servizi e delle prestazioni fornite, e del processo educazionale degli asmatici.
Accorciare i tempi tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi, che attualmente sono superiori a cinque anni è una delle condizioni sanitarie necessarie per ridurre la percentuale delle forme più gravi e di conseguenza più costose.
Adeguare il trattamento ai bisogni reali della popolazione asmatica può comportare ri74
sultati analoghi. Un terzo degli asmatici sfugge completamente al controllo del medico.
Il confronto con gli altri paesi europei in termini di consumo di farmaci antiasmatici
mostra in maniera evidente quanto questa patologia sia ancora oggi sottovalutata.
Il controllo della malattia inoltre dipende dal grado di aderenza del malato alle prescrizioni e alle raccomandazioni del medico che è strettamente correlato al livello di educazione ricevuto.
Studi effettuati anche in Italia hanno dimostrato che investimenti per migliorare il controllo della malattia attraverso l’educazione del paziente comportano in effetti una diminuzione dei costi complessivi, riducendo le forme più gravi, i ricorsi al Pronto Soccorso e i ricoveri ospedalieri.
La diminuzione dei costi sociali ed economici totali, che si può ragionevolmente attendere come conseguenza diretta dell’applicazione di un piano sanitario antiasma, sarà
dovuta ad un importante abbattimento dei costi dovuti alle perdite di produttività, che
costituiscono quasi un terzo dei costi totali, e alla riduzione di alcune spese sanitarie,
soprattutto quelle correlate alle forme più gravi, quelle dovute ai ricoveri ospedalieri, ai
ricorsi al Pronto Soccorso, ecc. In contropartita, non dovrà meravigliare se ad un migliore controllo della malattia farà riscontro un aumentato consumo di farmaci antiasmatici.
Gli studi sui costi dell’asma sono iniziati in Italia circa 10 anni fa. Si tratta di ricerche determinanti per conoscere l’impatto socio-economico della malattia nella nostra società.
E’ auspicabile peraltro che queste siano approfondite affinché si possa valutare anche il
peso relativo dell’asma rispetto ad altre patologie croniche e seguire nel tempo il trend
del costo totale e delle sue singole componenti.
La valutazione dei costi totali dell’asma infine non può prescindere da quelli relativi ad
interventi pubblici e privati necessari a consentire ai malati di asma – bambini, adolescenti, adulti, anziani – di vivere in ambienti di vita, di studio, di lavoro, ecc. adattati alle loro esigenze.
Le spese che le famiglie sostengono per conformare il loro ambiente di vita quotidiano
alla condizione di malato asmatico cronico sono elevate. I benefici finali potrebbero
tuttavia essere vanificati se all’impegno individuale non farà riscontro un cambiamento
radicale da parte delle Istituzioni e della collettività, alle quali competono le decisioni
sugli investimenti necessari ad adeguare la società alle esigenze di chi ha l’asma.
Il principio fondamentale è che in nessun caso l’ambiente in cui viviamo dovrebbe indurre asma o peggiorare sintomi preesistenti. Se questo diritto fosse rispettato per coloro che hanno l’asma, lo sarebbe automaticamente anche per tutti gli altri.
75
TABELLA 1. Classificazione di gravità dell’asma.
Sintomi
Sintomi notturni
Lieve intermittente
Sintomi < 2 volte/settimana
2 volte/mese
Assenza di sintomi e PFR
normale tra le riacutizzazioni
Riacutizzazioni brevi
(ore o pochi giorni) di intensità
variabile
Lieve persistente
>2/volte settimana
2 volte/mese
ma < 1 volta/giorno
Riacutizzazioni possono interferire
con attività quotidiane
Moderato persistente
Sintomi quotidiani
> 1 volta/settimana
uso quotidiano di beta2 agonisti
A breve durata d’azione.
Riacutizzazioni interferiscono
con le attività quotidiane
Riacutizzazioni = 2 volte/settimana
e possono durare giorni.
Severo persistente
Sintomi continui
Attività fisica ridotta
Riacutizzazioni frequenti
frequenti
Funzionalità respiratoria
VEMS/PFR > 80% predetto
Variabilità del PEF < 20%
VEMS/PFR < 80% del predetto
Variabilità del PEF 20-30%
VEMS o PFR > 60 e < 80%
del predetto
Variabilità del PEF > 30%
VEMS o PFR < 60% del predetto
Variabilità del PEF > 30%
76
TABELLA II. Classificazione della gravità delle riacutizzazioni asmatiche
Lieve
Moderata
Severa
Dispnea
camminare
sta sdraiato
parlare
sta seduto
a riposo
chinato in avanti
Parlare
fa discorsi
solo frasi
solo parole
Stato
di coscienza
può essere
agitato
generalmente
agitato
generalmente
agitato
Frequenza
respiratoria
aumentata
aumentata
spesso > 30/min.
Retrazione
dei muscoli
no
si
si
movimenti paradossi
toracoaddominali
Sibili
moderati spesso forti
solo telerespiratori
forti
assenza
Frequenza
cardiaca
< 100
100-120
< 120
bradicardia
Polso
Paradosso
assente
< 10 mmHg
può esserci
10-25Hg
spesso
< 25 mmHg
l’assenza suggerisce
affaticamento dei muscoli
respiratori
PFR dopo
< 80%
prima dose
di b2 agonista
% del predetto
% del personal best
circa 60-80%
< 60%
PaO2 (in aria)
e/o PaCO2
SaO2 (in aria)
> 60 mmHg
< 45 mmHg
91-95%
< 60 mmHg
> 45 mmHg
< 90%
normale
< 45 mmHg
77
Arresto respiratorio imminente
sonnolento
o confuso
Tabella III. Classificazione dei farmaci
Antiasmatici
1.
Farmaci antiasmatici di fondo:
•
glucocorticoidi per via inalatoria
•
beta2 agonisti inalatori a lunga durata di azione
•
antileucotrienici
•
teofillina a lento rilascio
•
cromoni (nedocromile sodico, disodiocromoglicato)
•
farmaci “antiallergici”
•
glucocorticoidi per via sistemica
2.
•
•
•
•
•
Farmaci antiasmatici sintomatici:
beta2 agonisti inalatori ad azione rapida
antagonisti selettivi dei recettori muscarinici delle vie aeree, per via inalatoria
beta2 agonisti a breve durata di azione sistemici
teofillina a breve durata dia zione
glucocorticoidi per via sistemica
Tabella IV. Trattamento farmacologico a lungo termine dell’asma.
1. Asma intermittente:
• Solo farmaci sintomatici al bisogno (es. beta2 agonista inalatorio a breve durata di
azione). Le riacutizzazioni gravi vanno trattate più aggressivamente, con la combinazione di beta2 agonisti inalatori a breve durata di azione e glucocorticoidi per via sistemica. Profilassi con beta2 agonisti inalatori o cromoni dell’asma da sforzo o altri stimoli asmogeni.
2. Asma lieve persistente:
• Trattamento regolare con un farmaco antiasmatico di fondo. Ove necessario, si può
aggiungere un broncodilatatore a lunga durata di azione per ottenere il controlo dell’asma.
• Farmaci sintomatici al bisogno (es. un beta2 agonista inalatorio a breve durata di azione).
3. Asma moderato persistente:
• Trattamento regolare con basse dosi di glucocorticoidi associate a broncodilatatori a
lunga durata di azione e/o antileucotrienici
• Alte dosi di steroidi inalatori se necessarie.
• Farmaci sintomatici solo al bisogno (es. un beta2 agonista inalatorio a breve durata di
azione).
4. Asma grave persistente:
• Trattamento regolare con alte dosi di glucocorticoidi per via inalatoria associati ad un
broncodilatatore a lunga durata di azione e antileucotrienici ed a cicli di glucocorticoidi per via sistemica.
• Farmaci sintomatici solo al bisogno (es. un beta2 agonista inalatorio a breve durata di
azione).
78
Convegno 1 giugno 2002: “Aggiornamenti e controversie in patologia nodulare tiroidea”
Trattamento della patologia nodulare tiroidea con L-tiroxina:
argomenti a favore
Aurelio Castelli
Responsabile Servizio Dipartimentale di Endocrinologia, Azienda USL di Piacenza
L’esperienza clinica, i dati anedottici e pregressi studi non controllati indicano che, in una
certa percentuale dei casi, i noduli tiroidei si riducono di volume, quando trattati con L-tiroxina.
Nel caso di gozzo multinodulare disponiamo solo di pochi studi controllati, il rpincipale
quello di Berghout del 1990, che dimostra il 58% di risposta (con riduzione media di volume del 25%) nei trattati, contro il 5% dei placebo, dopo 9 mesi di terapia; il dato è impressionante, ma non generalizzabile, poiché lo studio è condotto in Olanda, area borderline
quanto a carenza iodica. E’ interessante sottolineare che, dopo sospensione della terapia, il
volume del gozzo ritornava ai valori basali nei successivi nove mesi, ma nel gruppo placebo
aumentava del 27% al diciottesimo mese. Da qui la necessità, nel caso di gozzo multinodulare non tossico, di continuare indefinitamente la terapia con L-tiroxina in modo di mantenere i livelli di TSH al limite inferiore del range di normalità. Con questo trattamento concorda il 56% dei tiroidologi statunitensi ed il 52% di quelli europei (la scelta di trattare con
L-tiroxina arriva al 96% tra gli italiani).
Se consideriamo il trattamento del nodulo tiroideo solitario, esiste maggiore divergenza di
opinioni, e la percentuale dei tiroidologi che sceglie la terapia con L-tiroxina scende al 42%
tra gli statunitensi e al 47% tra gli europei. Le revisioni sistematiche della letteratura (Cooper, 1995) e le metanalisi (Zelmanovitz, 1998), analisi statistiche che offrono un approccio
più quantitativo per valutare gli effetti di un farmaco e che rappresentano un surrogato dei
trials clinici, supportano l’indicazione al trattamento con L-tiroxina, almeno in casi selezionati. Dalla metanalisi emerge che, dopo un anno di trattamento con L-tiroxina a dose soppressiva, il volume del nodulo diminuisce in modo significativo (cioè oltre il 50% del basale)
nel 26,5% dei trattati e che negli stessi soggetti il volume aumenta solo nell’8% dei casi, a
differenza dei controlli (nel 17,3% dei casi).
In questa metanalisi è riportato anche uno studio italiano (La Rosa, 1995), particolarmente
significativo perché condotto in una zona di carenza iodica, che dimostra come una riduzione volumetrica significativa si ottenga nel 39% dei trattati con L-tiroxina per un anno e
che negli stessi non si osservi aumento di volume (contro il 14% dei non trattati). E’ però da
rilevare che una riduzione significativa si evidenzia solo nei noduli di piccole dimensioni,
con volume non superiore ai 5 mL. Un altro studio italiano (Papini, 1998), condotto in una
zona con sufficiente apporto iodico, dopo un’osservazione di 5 anni, conclude che, se riduzione di volume si rileva solo nel sottogruppo di pazienti con completa soppressione del
TSH, nuovi noduli si evidenziano solo nel 7,5% dei trattati, ma ben nel 28,5 dei controlli.
Essendo la nostra una zona di riconosciuta carenza iodica, credo che i risultati di questi studi debbano essere presi in seria considerazione.
La L-tiroxina, in base all’analisi degli studi pubblicati in letteratura, sarebbe quindi efficace
79
sia nel ridurre il volume, che nell’impedire la crescita dei noduli tiroidei. Inoltre, potrebbe
interferire col processo gozzigeno e preverrebbe la formazione di nuovi noduli, anche nei
casi in cui non causa regressione di quelli clinicamente evidenti.
In conclusione, soppesando i benefici potenziali e i rischi a lungo termine della terapia soppressiva, soprattutto nella donna in menopausa, si raccomanda, nella donna in premenopausa e nel maschio senza controindicazioni cardiache, un ciclo di terapia con L-tiroxina a
livelli soppressivi per un anno, da proseguire indefinitamente in caso di risposta obiettiva
(riduzione volumetrica all’ecografia), con posologia di L-tiroxina che mantenga il TSH ai limiti inferiori del range di normalità. In caso di aumento di volume durante terapia o di
mancata risposta obiettiva, si valuterà, caso per caso, l’opportunità di effettuare un controllo citologico o di intervenire chirurgicamente. Nella donna in menopausa il trattamento
con L-tiroxina deve essere condotto a dose subsoppressiva, di modo di minimizzare i potenziali effetti negativi sulla massa ossea.
Bibliografia
- Berghout A, Wiersinga WM, Drexhage HA, Smits NJ, Touber JL, Comparison of placebo
with L-thyroxine alone or with carbimazole for treatment af sporadic non-toxic goitre Lancet 336: 193-197, 1990.
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multinodular goitre: a European questionnaire study. Clinical Endocrinology 53: 5-12,
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Gharib H, Mazzaferri EL. Thyroxine suppressive therapy in patients with nodular thyroid disease. Ann Intern Med 198: 386-394, 1998
80
La chirurgia della tiroide in day – surgery
Prof. R. Lampugnani, Dr. R. Delfrate
AUSL PIACENZA
Presidio Ospedaliero Val d’Arda
Unità Operativa di Chirurgia
Dirigente Responsabile Prof. R. Lampugnani
La necessità di razionalizzare al massimo le risorse economiche, la riduzione
del numero di posti letto disponibili conseguente allo stesso principio, ma soprattutto la convinzione che la corsia ospedaliera sia un luogo non fisiologico
per i pazienti, ci ha spronato a cercare di ridurre la degenza ospedaliera allo
stretto necessario e richiesto dalla necessaria sicurezza del trattamento chirurgico da attuare. Siamo in sostanza convinti che si possa ridurre decisamente il
tempo di degenza di molti interventi in assoluta sicurezza con un vantaggio sia
per i pazienti, che rientrando rapidamente nel proprio ambiente minimizzano
il trauma chirurgico, sia per le aziende ospedaliere che possono ottimizzare le
risorse disponibili in presenza di un buon sistema organizzativo. La chirurgia
della tiroide è, secondo nostra opinione ed esperienza, adatta ad entrare nel
sistema organizzativo della day-surgery: Prospetteremo di seguito il nostro modello organizzativo ed anche la nostra tecnica abituale di tiroidectomia.
Immagine del primo novecento tratta dall’archivio
storico dell’Ospedale di
Piacenza.
Veduta del Padiglione delle Chirurgie dedicato a
“Guglielmo da Saliceto”
(1911).
81
SISTEMA ORGANIZZATIVO
Da oltre due anni ogni paziente che deve essere sottoposto ad intervento di tiroidectomia è gestito ambulatorialmente in una fase di “pre-ricovero”. Il paziente, dietro appuntamento fissato dalla caposala del reparto che si occupa
solo dei contatti con i pazienti in lista d’attesa, viene convocato presso la nostra struttura dei poliambulatori dove viene aperta la cartella clinica da parte di
un medico dell’équipe, il quale provvederà a richiedere ogni eventuale accertamento clinico o strumentale supplementare necessario ad integrare gli accertamenti base preoperatori (esami ematochimici, rx torace, ecg, visita ORL con
laringoscopia indiretta, visita anestesiologica); una consulenza cardiologica è
normalmente eseguibile nella mattinata stessa del prericovero, mentre nella
necessità di eseguire uno studio cardiologico strumentale oltre ad ogni altro
accertamento complesso si provvederà ad organizzare un secondo accesso
ambulatoriale da parte della caposala dei poliambulatori. Una volta ultimati gli
accertamenti preoperatori la cartella clinica completa sarà recapitata al medico
compilatore che, dopo visione del suo contenuto, abiliterà il paziente alla procedura operatoria, ovviamente se ne sussistono le condizioni cliniche. Il paziente, una volta inserito nella operatività chirurgica, sarà ricoverato il giorno
stesso dell’intervento, accolto dal personale paramedico per la preparazione
all’atto chirurgico. Per quanto attiene agli ipertiroidismi dobbiamo sottolineare
che la stretta collaborazione con gli endocrinologi della zona, e le loro ottimali compensazioni degli stati di iperfunzione tiroidea, ha fatto si che praticamente non sussita più alcuna necessità di preparazione farmacologica all’intervento. Sottolineiamo inoltre che una volta operati i pazienti sono indirizzati
con sollecitudine dal rispettivo endocrinologo per le necessità del caso; da
parte nostra ci limitiamo ad un controllo clinico, ed al dosaggio della calcemia
in prima giornata ed in casi selezionati in sesta o settima giornata. Il drenaggio,
o i drenaggi saranno rimossi in ventiquattresima ora dall’intervento e subito
dopo, in assenza di problemi, il paziente è dimesso dopo consegna di una dettagliata lettera di dimissione contenente anche la descrizione dei segni clinici
di uno stato ipocalcemico eventuale e le indicazioni operative qualora questo
si verificasse, in casi selezionati non posizioniamo alcun drenaggio: di base
suggeriamo ad ogni paziente un’integrazione dietetica a base di calcio.
82
TECNICA CHIRURGICA NELLA TIROIDECTOMIA TOTALE
La tiroidectomia totale è l’intervento che tratta oltre il 95% delle patologie tiroidee; intendiamo una tiroidectomia rigorosamente extracapsulare e visivamente a residuo ghiandolare zero.
Prestiamo estrema attenzione alla posizione del paziente sul letto operatorio
al fine di evitare contrattempi che possano inficiare la qualità del postoperatorio, e pertanto anche la dimissione precoce; ci riferiamo in particolare a cercalgie, vertigini, cefalea, anuseae vomito da eccessiva sollecitazione dell’apparato legamentoso intervertebrale cervicale (wiplash injury), oltre a quelli dovuti a sollecitazione dei rami del plesso brachiale. L’estenzione dorsale del rachide cervicale non deve essere eccessiva ed il capo deve essere stabilizzato, i
cingoli scapolari non devono essere sospesi ma in appoggio, e gli arti superiori
devono essere addotti lungo il torace. Dopo avere eseguito per anni la classica
incisione cervicotomica a collare un centimetro sopra il giugulo, più o meno
arcuata secondo le necessità operatorie e dell’età del paziente, da circa un
anno abbiamo adottato un’incisione decisamente più alta e di estensione ridotta. Si tratta di un’incisione trasversale eseguita all’altezza della cartilagine
cricoidea o del legamento cricotiroideo avendo cura di collocarla in una piega
cutanea reperita a paziente seduta in fase preoperatoria; eseguiamo di media
incisioni di 4-5 cm anche per gozzi con atteggiamento plongeant. Oltre all’indubbio vantaggio estetico questo accesso, associato ad un ridotto scollamento
dei piani fasciali e muscolari pretiroidei, consente un accesso preciso sul polo
superiore ghiandolare, sulle paratiroidi superiori, sull’inosculo del laringeo ricorrente e sulla zona anatomica della branca esterna del laringeo superiore.
Un incisione a collare più tradizionale di fatto non offre vantaggi rispetto questo accesso che prevede all’occorrenza la possibilità di estensione laterale o
mediante split mediano. Segnaliamo inoltre il migliore postoperatorio per il
minore scollamento pretiroideo. Sottolineiamo invece come il tradizionale accesso cervicotomico preveda una cicatrice che con gli anni tende a scendere
verso lo sterno in zona scollatura. In fase di scollamento dei lembi cervicotomici abbiamo l’avvertenza di non pinzare la cute con pinze chirurgiche, responsabili di inestetismi sgraditi ai pazienti, ma solleviamo i lembi utilizzando
prese sul derma reticolare. E’ importante accedere alla loggia tiroidea attraverso la linea alba del collo, risparmiando i muscoli pretirodidei al fine di conservare la massima capacità riabilitativa per l’eventuale logoterapia conseguente
alla lesione dei nervi ricorrenti.
Un’ulteriore opzione chirurgica è rappresentata dalla tiroidectomia totale videoassistita. In pazienti selezionati con gozzi o tiroidi piccole con nodulo singolo non superiore a 35 mm di diametro, è possibile eseguire una tiroidectomia totale attraverso un’incisione traversa di circa 2 cm localizzata a circa 2-3
cm dal giugulo.
Si esegue il polo superiore con tecnica videoassistita e si completa la tiroidectomia sotto visione diretta. La perfetta visione delle strutture anatomiche del
polo superiore, laringeo superiore incluso, la rapidità del recupero ed il posto83
peratorio indolore rendono questa metodica di estremo interesse e attualità.
Una volta entrati in loggia tiroidea è possibile utilizzare due differenti tecniche
chirurgiche.
Secondo la tecnica tradizionale si inizia eseguendo una completa lussazione
dei lobi tiroidei, possibile solo dopo legatura della vena media se presente, in
modo da potere dominare tutti i punti di repere anatomici. Di seguito si procede alla aggressione del polo superiore. La liberazione della tiroide dal polo
superiore permette un’ancora maggiore lussazione tiroidea e consente un facilitato accesso al ricorrente ad alle paratiroidi. E’ possibile utilizzare due metodiche di sezione del polo superiore: legatura in blocco o legatura separata degli elementi vascolari. Riteniamo più raffinato e fisiologico legare separatamente gli elementi vascolari del polo superiore, tecnica che garantisce un minore rischio di lesione della branca esterna del laringeo superiore e consente
anche di rispettare la vascolarizzazione della paratiroide superiore. Riserviamo
la legatura in blocco del polo superiore a casi selezionati come manovra di assoluta emergenza. Durante l’accesso al polo superiore non va mai dimenticata
la possibile esistenza a destra di un nervo laringeo inferiore a decorso trasversale o obliquo dall’alto in basso e lateromediale; per tale motivo il livello di attenzione deve sempre essere elevato ed occorre sempre identificare con esattezza ogni struttura prima di sezionarla. Ci preme anche rilevare che la sezione vascolare può essere effettuata dopo legatura tradizionale con filo, nel qual
caso ci affidiamo sempre ad una legatura mediante doppio laccio di materiale
riassorbibile, acido poliglicolico, o mediante bisturi ad ultrasuoni che attraverso vibrazioni ad alta frequenza provocano una denaturazione proteica che
esita nella “fusione tra di loro” delle pareti del vaso, che associa alla assoluta
affidabilità il vantaggio della riduzione dei tempi chirurgici di circa il 30%; una
tiroidectomia totale non complicata viene mediamente eseguita in circa 60
minuti con l’ausilio dell’ultracision. Non esistono attualmente controindicazioni all’utilizzo del bisturi ad ultrasuoni, se non la consapevolezza del costo del
manipolo monouso, e la necessità el corretto apprendimento dell’uso dello
strumento che presuppone la conoscenza di alcuni accorgimenti (tabella 1).
Tabella1 - Tiroidectomia totale
Tecnica tradizionale Bisturi ad ultrasuoni
Legatura con doppio laccio
Scheletrizzazione vasi
Evitare l’uso sistematico
Rispettare i tempi
di pinze emostatiche
di esercizio dello strumento
evitando le trazioni
Bisturi bipolare
Attenzione all’inosculo del ricorrente
Una volta liberato il polo superiore siamo soliti eseguire la ricerca della paratiroide superiore, che richiede un isolamento delicato e deve essere separata
84
dalla capsula tiroidea unitamente al tessuto che la circonda per evitare la devascolarizzazione; ad isolamento terminato il colore normale in assenza di cianosi, spia di un difficoltoso scarico venoso, sarà indicatore della vitalità della
ghiandola. Un anomalo cambiamento cromatico, spesso rilevabile solo dall’occhio di un operatore esperto, potrebbe consigliare il suo impianto nello
sternocleidomastoideo.
La conservazione della paratiroide superiore ci garantisce la tranquillità necessaria per dedicarci al laringeo ricorrente. A lobo tiroideo lussato ed in trazione
verso l’alto ed in direzione lateromediale si procede a trazionare mediante
pinza vascolare a piccola presa il cellulare lasso distalmente alla arteria tiroidea inferiore la cui pulsatilità è facilmente reperibile e ci indica l’esatta topografia della regione. Alla trazione con pinze si associano delicati movimenti di
divaricazione del cellulare lasso mediante dissettore; si procede in questo modo fino alla identificazione del ricorrente, riconoscibile per l’aspetto a “rotaia”
conferitogli dal fine asse vascolare presente sul suo tronco in sede mediana.
Riteniamo che l’identificazione del ricorrente ed il suo isolamento completo
dal punto di ingresso in loggia tiroidea fino al suo punto di penetrazione il laringe, sia una manovra assolutamente necessaria ed indispensabile per l’esecuzione di una vera tiroidectomia totale in assoluta sicurezza; riteniamo a tale
proposito ribadire che l’accesso ad un’emiloggia tiroidea debba sempre di necessità presupporre l’esecuzione di un’ablazione veramente totale del lobo tiroideo al fine di evitare pericolose future nuove esplorazioni della stessa loggia
per recidive di malattia, o per semplice finalità di radicalità oncologica locale
che faciliterà ogni terapia successiva. Tiroidectomie, o lobectomie, subtotali o
sottocapsulari, non possono fare parte del bagaglio tecnico di un moderno endocrinochirurgo. Riteniamo che l’esteso isolamento ricorrenziale rappresenti
inoltre un fattore di sicurezza nel dominio e nel perfezionamento dell’emostasi. Spesso, infatti, si verificano dei fastidiosi e pericolosi sanguinamenti che
traggono origine da vasi localizzati nella zona di inosculo ricorrenziale in laringe, ed in particolare il ramo retroneurale della branca superiore dell’arteria tiroidea inferiore; solo la perfetta visione del nervo consente l’attuazione dell’emostasi in assoluta sicurezza. Una volta identificato il ricorrente è inoltre possibile ricercare con tranquillità anche la paratiroide inferiore. Pur essendo sufficiente la conservazione anche di una sola paratiroide per garantire la loro
funzione metabolica, è nostra abitudine ricercare sistematicamente anche le
paratiroidi inferiori oltre alle superiori. Può accadere, vista l’estrema variabilità
della posizione della paratiroide inferiore, di non identificarla nelle sedi tipiche; in questi casi è sufficiente assicurarsi di non asportarla con la ghiandola
tiroidea.
Una seconda strategia chirurgica di attuazione della tiroidectomia totale è
quella che prevede, senza alcuna lussazione dei lobi tiroidei, l’accesso diretto ai rami di divisione della tiroide superiore, che vengono sezionati sulla
capsula tiroidea per evitare il rischio di lesione del laringeo superiore. Trazionando il polo superiore si cerca la paratiroide superiore che viene isolata
e scollata senza essere devascolarizzata, consapevoli che medialmente ad
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essa troveremo l’inosculo del laringeo ricorrente in laringe; si tratta di un
rapporto di anatomia topografica costante che ci avvantaggia nella prosecuzione della tiroidectomia. Isolata la paratiroide ed identificato il ricorrente si
procederà al completamento della tiroidectomia. Si tratta di una procedura
che diviene obbligatoria nelle tiroidectomie videoassistite. Una volta terminata la tiroidectomia deve essere attuata una toilette accurata della loggia
mediante ripetuti allagamenti con fisiologica che consentono di evidenziare
anche minimi gemizi ematici. Consigliamo inoltre di stipare entrambe le
emilogge con garze e di attendere alcuni minuti prima di procedere alla
chiusura del collo, effettuando anche manovre di valsalva ed assicurandosi
dello stato della pressione arteriosa per essere assolutamente certi dell’emostasi. Per concludere accenniamo al problema del drenaggio della loggia tiroidea. Nel caso di gozzi non eccessivamente voluminosi riteniamo che un
solo drenaggio steso adeguatamente senza angolature in entrambe le emilogge sia sufficiente; nel caso di gozzi molto voluminosi, soprattutto nelle
forme cervicomediastiniche sarà più opportuno utilizzare due drenaggi, fermo restando il fatto che il drenaggio ha come finalità quella della rimozione
delle sierosità e delle piccole raccolte ematiche, e non è certamente uno
strumento sufficiente ad impedire un reintervento in caso di vera emorragia;
a tale proposito bisogna segnalare la possibilità di avere una emorragia chirurgica a drenaggio non funzionante, e pertanto nel postoperatorio il controllo clinico non potrà mai prescindere dalla accurata osservazione e palpazione del collo. In casi selezionati, soprattutto nelle metodiche videoassistite
può risultare non necessario il posizionamento del drenaggio.
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Diagnostica del nodulo tiroideo
Andrea Frasoldati - Roberto Va!cavi
Unità Operativa Complessa di Endocrinologia Direttore dr. Roberto Valcavi
Arcispedale S. Maria Nuova - Reggio Emilia
Considerazioni introduttive
La prevalenza dei noduli tiroidei nella popolazione generale è compresa in studi basati sull’ecografia tra il 17% e il 34.7% (Bruneton et al., 1994; Tomimori et al.,
1995),raggiungendo valori superiori al 40% nella fascia di età sopra i 50 anni. Tale dato supera in misura significativa l’incidenza dei noduli tiroidei valutata su base clinica
(3-4%) (Vander et al., 1968; Tunbridge et al., 1977). Come è noto, la frequenza dei
noduli nel sesso femminile è significativamente superiore (3-4: l).
Il problema fondamentale nella diagnostica del nodulo tiroideo è naturalmente quello
di escluderne la natura neoplastica. Occorre a tale riguardo ricordare che, mentre come abbiamo visto almeno una persona su tre presenta uno o più noduli tiroidei, il
carcinoma della tiroide non è tra le neoplasie più frequenti. L’incidenza annuale nelle diverse aree geografiche è abbastanza variabile (0.5-10/105). Nel nostro paese, dati relativi al periodo 1983-1987, indicano una incidenza del 7.9/105 nel sesso femminile e del 3.2/105 nel sesso maschile.
La frequenza delle neoplasie tra i noduli sottoposti ad agoaspirato è compresa nelle
diverse casistiche tra il 3.5 e il 6%. Presso il nostro Servizio, nel periodo compreso tra
il 1999 e il 2001, sono stati diagnosticati 189 casi di neoplasia su 3778 pazienti
sottoposti ad agoaspirato ecoguidato (frequenza dei noduli neoplastici = 5%). La
probabilità di neoplasia è circa raddoppiata nel sesso maschile, ed è significativamente
più elevata al di sotto dei 30 anni e al di sopra dei 60 anni. Contrariamente ad una
diffusa opinione, la probabilità di neoplasia nell’ambito di un gozzo nodulare non è
inferiore a quella associata al nodulo singolo (Belfiore et al, 1992). La coesistenza di
una tiroidite cronica autoimmune non è per se responsabile di un aumentato rischio
di neoplasia, ma neppure esclude la presenza del carcinoma. Appare infine oggi
ridimensionato l’allarme relativo alla presunta maggiore pericolosità dei noduli riscontrati nel contesto di un quadro di malattia di Graves. Negli ultimi anni, è certamente
migliorata la selezione dei noduli da inviare al tavolo operatorio. La frequenza di patologia neoplastica nelle serie chirurgiche è infatti aumentata dal 10% degli anni ‘60
all’attuale 50% (Burch, 1995).
Anamnesi ed esame obiettivo
Nell’approccio al paziente con nodulo tiroideo l’anamnesi deve indagare due elementi:
a) l’esistenza di un trattamento radioterapico in età infantile (la probabilità di neoplasia sale al 30% dopo 15-30 anni dall’irradiazione (Tisell et al., 1985); b) la familiarità per carcinoma tiroideo. Il 3-5 % circa delle foffile di carcinoma tiroideo differenziato e il 40% delle foffile di carcinoma midollare mostra infatti una ricorrenza
87
familiare. Quanto all’esame obiettivo, ricordiamo che i classici elementi semeiologici da ricercare (fissità ed elevata consistenza del nodulo, disfagia, dolore, ostruzione delle vie aeree, associata linfoadenopatia) sono certamente indizi significativi di neoplasia. Si tratta tuttavia di segni e sintomi associati a neoplasie in stadio
avanzato e di non frequente riscontro. In sintesi, conservano una elevata specificità (90-97%), ma una scarsa sensibilità (3-30%) nell’identificazione delle lesioni
sospette (Barry & Ebell, 1997).
Ecografia
Negli algoritmi diagnostici risalenti alla prima metà degli anni ‘80, esame obbiettivo e
scintigrafia costituivano i cardini della semeiotica del nodulo tiroideo. L’attribuzione
al nodulo della qualifica di “caldo” o “freddo” deterJnjnava il successivo percorso
diagnostico e terapeutico. L’ecografia aveva allora un ruolo complementare, limitato
alla determinazione della natura solida o cistica del nodulo “freddo”. Oggi, il primo
esame nella valutazione del nodulo tiroideo è l’ecografia; anzi, spesso il riscontro
ecografico precede il sospetto clinico di nodulo: il diffondersi dello studio ecodoppler dei tronchi sovraortici ha condotto al crescente incidentale riscontro di noduli, i
cosiddetti “incidentalomi”, tiroidei (Ezzat et al., 1994).
L’ecografia non consente una diagnosi di certezza sulla natura di un nodulo tiroideo;
in mani esperte, essa fornisce elementi in grado di caratterizzare o meno il nodulo
come sospetto.
Gli elementi di attenzione sono i seguenti:
ipoecogenicità con aspetti disomogenei
irregolarità ed indeterminatezza dei margini della lesione
assenza del vallo ipoecogeno tipico delle lesioni iperplasico-adenomatose
invasione e/o infiltrazione delle strutture ghiandolari e/o limitrofe
presenza di calcificazioni puntate, forse corrispondenti ad aggregati microcalcifici
pattern colordoppler di tipo III (captazione di colore peri- ed intranodulare)
L’associazione di uno o più di questi aspetti aumenta la probabilità di una lesione
neoplastica. Le calcificazioni puntate sono l’elemento più specifico (93%), ma meno
sensibile (Takashima et al, 1995).
Il pattern color-doppler di tipo III (presenza di vascolarizzazione peri- ed intra-nodulare) è quello più spesso associato al carcinoma tiroideo. Tuttavia, almeno il 40% dei
noduli neoplastici si caratterizza per un diverso pattern-colore. Inoltre, più del 25%
dei noduli di natura iperplasico-adenomatosa presenta un pattern di tipo III.
Scintigrafia
La scintigrafia è invece oggi relegata ad un impiego sempre più circoscritto e mirato:
lo scarso valore diagnostico della scintigrafia nel nodulo tiroideo è ben documentata
dalle seguenti evidenze:
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a) La gran parte ( 80-85%) dei noduli tiroidei è fredda” all’esame scintigrafico; il 910% risulta isocaptante o “tiepido”, e solo il 5% ca. è “caldo”.
b) L’incidenza di neoplasia nei noduli freddi non supera il 10-15%; è leggermente
inferiore (8-10%) nel nodulo isocaptante, e non si azzera del tutto (2-4 %) nel nodulo “caldo”
a) Lesioni al di sotto dei 5-6 mm non vengono rilevate alla scintigrafia; ma anche
noduli di maggiori dimensioni possono non essere visualizzati.
Quindi, al fine di una caratterizzazione del nodulo tiroideo, l’esame scintigrafico risulta assai poco specifico e sensibile; il suo impiego resta utile nel sospetto di adenoma di Plummer (nodulo unico, pattern colore tipo III, TSH soppresso) o comunque di
gozzo nodulare iperfunzionante, soprattutto in vista di un eventuale trattamento radioablativo con 131-1.
Agoaspirato ecoguidato
Il ricorso sistematico all’ ago aspirato tiroideo ha prodotto un consistente miglioramento
dell’efficacia del processo decisionale sul nodulo tiroideo (Gharib, 1993, Oertel,1996):
riduzione (35-75%) del numero dei pazienti inviati al chirurgo;
aumento (2-3 volte) del riscontro di neoplasia nel nodulo operato;
riduzione (25%) del costo di diagnosi e trattamento del nodulo.
La quota di noduli su cui l’agoaspirato individua una citologia neoplastica è compresa tra il 2 ed il 4%. Nel 10% di casi si ottiene un esito citologico sospetto per la possibile presenza di una neoplasia follicolare. In questi casi, solo l’esame istologico ha valore dirimente, anche se analisi dei preparati di tipo citometrico (Frasoldati et al.,
2001), e più recentemente la valutazione immunocitochmica del marcatore galectina (Bartolazzi “et al., 2001) sembrano in grado di fornire elementi utili ad una caratterizzazione pre-chirurgica della lesione. Vi è poi una quota variabile (10-15%) di indagini non diagnostiche per inadeguatezza del materiale ottenuto (Hall et al., 1989;
Sidaway et al., 1997). Diversi fattori incidono sull’entità di tale dato: la scarsa esperienza dell’operatore, la natura del nodulo (cisti, ipervascolarizzazione), la sua sede e
dimensione.
L’introduzione della guida ecografica è stata associata ad una significativa riduzione
del numero di indagini non diagnostiche (v. tabella 1), aumentando pertanto la sensibilità dell’indagine (Cochand-Priollet et al” 1994; Takashima et al., 1994; Yokozawa
et al., 1995; Lin et al, 1997).
Sensibilità
Specificità
Accuratezza
Potere predittivo positivo
Potere predittivo negativo
US-FNAB
FNAB
96%
91 %
94%
96%
91%
88%
90%
88%
95%
75%
TAB 1 (da: Takashima et al., 1994)
89
Tra i vantaggi della guida ecografica nel corso di agoaspirazione tiroidea, ricordiamo
a) la possibilità di diagnosticare lesioni di dimensioni < 1 cm di diametro.
b) nel caso di diffuse alterazioni strutturali della ghiandola, come nel gozzo nodulare o
nella tirodite cronica, selezione degli elementi più meritevoli di esame citologico;
c) possibilità di indirizzare il prelievo nella porzione solida di una lesione ad eco struttura mista, con migliore qualità del materiale citologico;
d) individuazione di finestre acustiche che consentano l’attraversamento di un guscio
parzialmente calcifico;
e) individuazione in tempo reale di complicanze emorragiche della manovra
Marcatori bioumorali
Il dosaggio della calcitonina sierica è stato proposto dalla metà degli anni’90 (Pacini et
al., 1994) nello screening del nodulo tifoideo, con l’obiettivo di individuare i pazienti
affetti da carcinoma midollare. La frequenza di tale neoplasia è nel complesso bassa, e
si colloca attorno allo 0.5% dei noduli tiroidei sottoposti ad agoaspirazione.
L’importanza del dosaggio della calcitonina sarebbe secondo alcuni accresciuta dalla ridotta sensibilità dell’esame citologico in questa neoplasia. Tuttavia, la negatività del dosaggio della calcitonina non esclude con certezza la presenza del carcinoma midollare.
Il 23.5% dei pazienti diagnosticati e seguiti presso il nostro Servizio, aveva livelli sieri ci
di calcitonina nei limiti di norma; un ulteriore l’11 .8% livelli border line.
Considerazioni conclusive
La patologia nodulare tifoidea è un problema estremamente frequente e nella maggior
parte dei casi esente da un significato clinico di rilievo. L’indagine fondamentale per un
corretto approccio a tale patologia è l’ecografia, seguita dall’agoaspirazione ecoguidata
o eco-assistita. La scintigrafia tiroidea e il dosaggio della calcitonina costituiscono indagini ancillari da riservare a casi selezionati.
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91
Ormoni Tiroidei e metabolismo minerale osseo
Dott.ssa Daniela Pancotti, Unità Operativa Medicina 2a
Ospedale G. da Saliceto – Piacenza
Gli ormoni tiroidei svolgono un ruolo importante nella regolazione del turnover osseo, come dimostrato dalle modificazioni della massa ossea che si verifica in corso di
ipertiroidismo.
Accanto alla nuova ipotesi patogenetica che ipotizza un aumento della sensibilità delle cellule ossee all’azione del PTH, mediata dall’IL-6, la teoria più accreditata a
tutt’oggi è quella di un’azione diretta dell’FT3 sul tessuto osseo, e più specificatamente sulla fase di attività osteoclastica.
Ipertiroidismo conclamato e densità minerale ossea (BMD)
In corso di ipertiroidismo i dati istomorfometrici e biochimici indicano una aumentata
attività osteoclastica, che si traduce in un aumento del riassorbimento osseo. L’attività
osteoblastica e la produzione di osteoide risulatano anch’esse aumentate, ma in misura inferiore rispetto all’accelerato riassorbimento. Ne conseguono un accelerato turnover ed una progressiva riduzione della densità ossea.
Ipertiroidismo subclinico esogeno ed endogeno e BMD
L’ipertiroidismo subclinico è caratterizzato da bassi valori di TSH con valori di FT3 ed
FT4 nel range di normalità.
L’ipertiroidismo subclinico rappresenta un fattore concausale di osteoporosi nelle
donne con deficit estrogenico, per esempio in post-menopausa.
Il rischio può essere minimizzato mantenendo, durante terapia con L-tiroxina, i valori
di TSH fra 0.2-0.5 mU/L.
Trattamento dell’ipotiroidismo con LT4
Il trattamento sostitutivo con Levotiroxina attuato per l’ipotiroidismo conclamato non
induce perdita patologica di BMD, se il TSH resta nel range di normalità.
Paradossalmente i pazienti ipotiroidei possiedono una BMD corticale maggiore rispetto agli eutiroidei. Il trattamento con Levotiroxina aumenta il riassorbimento osseo fino
al raggiungimento della stessa densità ossea dei pazienti con normale funzionalità tiroidea.
Conclusioni
• Nell’ipertiroidismo conclamato si ha una riduzione della BMD corticale con conseguente osteoporosi
• Nell’ipertiroidismo subclinico si ha una riduzione della BMD, soprattutto nelle donne in post-menopausa
• Il rischio di osteoporosi nelle donne in post-menopausa può essere minimizzato
92
mantenendo il TSH tra 0.2-0.5 mU/L.
• Nell’ipotiroidismo il trattamento con LT4 non altera la BMD
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bone mineral density. Clin Endocrinol. 1998; 48:229.
93
Terapia chirurgica della patologia nodulare tiroidea
Banchini E., Capelli P., Negri C.
I Divisione Chirurgica “C. Malchiodi” Chirurgia Generale – Vascolare – Toracica
AUSL Piacenza
L’approccio chirurgico alla patologia nodulare tiroidea è ancora oggi oggetto di controversia.
Da una parte alcuni Autori (peraltro in netta diminuzione) sostengono di principio l’esclusione di un trattamento radicale quale la tiroidectomia totale in quanto ritengono
che le sequele che ne possono derivare (ipotiroidismo, ipoparatiroidismo, lesioni nervose) siano sproporzionati alla patologia da curare. Altri Autori propongono l’attuazione di trattamenti radicali al fine di evitare le recidive, eseguire una più completa valutazione istologica e facilitare la gestione farmacologica a fronte di una sovrapponibile
incidenza di complicanze.
Anche la definizione di patologia nodulare tiroidea rimane oggetto di discussione fra
gli specialisti. Spesso, infatti, la degenerazione nodulare è un processo che coinvolge
tutta la ghiandola, anche se si manifesta in modo localizzato o uninodulare e con manifestazioni cliniche differite nel tempo.
Per tutte queste ragioni l’indicazione al trattamento chirurgico deve scaturire da una
valutazione complessiva di una serie di elementi quali il numero ed il volume dei nodi, l’età ed il sesso, la funzionalità ormonale e scintigrafica, l’eventuale compressione
tracheale e, non da ultima, la possibilità di focolai occulti di neoplasia:
Un altro fattore importante da tenere in considerazione è la possibilità di recidiva
gozzigena; l’accuratezza della diagnostica non invasiva ha infatti permesso di evidenziare in questi ultimi anni una percentuale di recidive di gozzo superiore anche al
20% dopo intervento chirurgico di resezione parziale ghiandolare. Attualmente il trattamento chirurgico d’elezione del gozzo multinodulare è rappresentato dalla tiroidectomia totale che rappresenta il modo più radicale per ovviare alle recidive nodulari
senza comunque incidere in modo significativo sulla morbilità post-operatoria.
In questa ottica risulta particolarmente importante l’utilizzo di una tecnica precisa e
rigorosa tipica di un’équipe chirurgica esperta in chirurgia tiroidea.
Dal punto di vista tecnico i punti cruciali sono rappresentati dal riconoscimento e dal
rispetto dei nervi laringei ricorrenti, dei nervi laringei superiori e dalla conservazione
della funzionalità paratiroidea al fine di evitare importanti ipocalcemie post-operatorie.
Gli Autori riportano una casistica personale di 143 interventi per patologia gozzigena
tiroidea dei quali 7 recidivi in quanto sottoposti a chirurgia resettiva parziale presso
altre istituzioni ospedaliere. Si trattava di 110 soggetti di sesso femminile e 34 di sesso
maschile con età media di 61 anni. In 16 casi il parenchima ghiandolare si estendeva
al di sotto del giugulo configurando il quadro anatomico del gozzo cervico-mediastinico. Sono state eseguite 109 tiroidectomie totali, 9 tiroidectomie sub-totali, 13 emitiroidectomie, 10 tiroidectomie totali con reimpianto di una paratiroide e 2 tiroidectomie totali con associato iperparatiroidismo primitivo.
94
Il gesto chirurgico è stato complicato in tre casi da ematoma post-operatorio che ha
richiesto il reintervento, in 4 casi da paralisi del n. laringeo superiore, e in 8 casi da alterazioni della funzionalità ricorrenziale così configurate: 2 pazienti con paralisi bilaterali che hanno richiesto tracheostomia temporanea, 3 pazienti con paralisi monolaterale, 3 pazienti con ridotta motilità delle corde vocali.
In 12 pazienti l’esame istologico del pezzo operatorio ha evidenziato la presenza di foci
carcinomatosi sconosciuti agli accertamenti strumentali preoperatori.
La valutazione retrospettiva della casistica suggerisce alcune considerazioni; il follow-up,
anche se breve nel tempo, non ha evidenziato recidive gozzigene, confermando il dato
della letteratura che la tiroidectomia totale applicata alla patologia benigna ghiandolare
rappresenta ormai una metodica di scelta inficiata da una bassa percentuale di complicanze post-operatorie e da una buona tollerabilità della terapia sostitutiva.
Particolarmente interessante è il dato dei riscontri occasionali di neoplasia rilevante
dal punto di vista statistico (11%) nei quali il trattamento radicale per il gozzo è coinciso con il trattamento chirurgico della patologia tumorale.
La tiroidectomia totale rappresenta quindi il trattamento elettivo per buona parte della patologia nodulare tiroidea fermo restando la possibilità di attuare resezioni più
conservative in soggetti selezionati.
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Trattamento della patologia nodulare
con L-Tiroxina: pro e contro
Roberta Minelli, Roberto Delsignore
Cattedra di Endocrinologia; Dipartimento di Medicina interna e Scienze Biomediche
Università degli Studi di Parma
Il nodulo tiroideo è la patologia endocrina di più frequente riscontro. Nei paesi con
apporto iodico ottimale, come negli Stati Uniti, i noduli tiroidei sono rilevabili nel 47% della popolazione adulta: La frequenza di questi noduli aumenta nel corso della
vita. Specialmente nelle donne, nelle persone che risiedono nelle regioni a insufficiente apporto iodico e nei soggetti esposti a radiazioni ionizzanti durante l’infanzia
o l’adolescenza: Il riscontro di noduli è 10 volte più frequente quando la tiroide è
esaminata all’autopsia, con l’ecografia o durante l’intervento chirurgico; la metà
delle tiroidi così esaminate hanno noduli, la maggior parte dei quali sono benigni.
Per il trattamento dei noduli tiroidei il razionale della soppressione dell’ormone tireo-stimolante (TSH) è basato sull’evidenza che il TSH è il principale stimolatore
della funzione e della crescita tiroidea. La terapia soppressiva con levo-tiroxina è
rappresentata da una dose di levo-tiroxina sufficiente a sopprimere le secrezioni del
TSH a concentrazioni inferiori al limite più basso di normalità. Negli ultimi anni il
dosaggio del TSH con metodo ultrasensibile permette di distinguere una condizione
di eutiroidismo da una di ipertiroidismo subclinico, permettendo di stabilire la dose
di levo-tiroxina appropriata per la terapia sostitutiva e soppressiva. Le principali indicazioni per l’uso della terapia soppressiva con levo-tiroxina nelle malattie tiroidee
benigne sono:
• identificazione del nodulo benigno
In passato, l’uso per breve tempo della terapia soppressiva con levo-tiroxina è stato
suggerito a fini diagnostici: i noduli tiroidei che si riducevano con la terapia soppressiva erano considerati benigni. Oggi l’agoaspirato tiroideo, che ha una sensibilità del
98%, una specificità del 99% e un valore predittivo del 98% per neoplasia tiroidea e
del 95% per cancro della tiroide, è da considerarsi procedura superiore alla terapia
soppressiva per distinguere il nodulo benigno da quello maligno.
• riduzione di noduli citologicamente benigni per diminuire il rischio di falsi negativi
all’agoaspirato
La percentuale di falsi negativi varia dall’1 al 10%: Nei centri con esperienza elevata la percentuale di falsi negativi all’agoaspirato è < del 2%.
• riduzione del volume dei noduli per ragioni estetiche e per evitare l’intervento chirurgico
I primi studi di terapia soppressiva ormonale per gozzo nodulare mostravano una risposta alla terapia soppressiva che arrivava fino al 68%. Negli ultimi 10 anni alcuniAutori che impiegavano il TSH ultrasensibile e l’ecografia hanno dimostrato che,
in generale, i pazienti con noduli tiroidei benigni, singoli o multipli, beneficiano poco della terapia soppressiva con levo-tiroxina, che i noduli spesso spontaneamente
si riducono o scompaiono e che la riduzione palpatoria del tessuto circostante, ma
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non del nodulo, può essere interpretata erroneamente come una risposta del nodulo alla terapia soppressiva con levo-tiroxina. Alcuni Autori suggeriscono che un sottogruppo di pazienti (probabilmente < del 20%) può rispondere alla terapia soppressiva con levo-tiroxina. Le caratteristiche che aumentano le probabilità di risposta del nodulo sono le piccole dimensioni (< 2.5cm), ecograficamente solido, citologicamente di natura colloidea e una normale funzione tiroidea.
• prevenzione della crescita ulteriore di noduli già esistenti o del gozzo
Lavori di follow-up a lungo termine di pazienti con noduli tiroidei non trattati rivelano che il 50% dei noduli si riducono spontaneamente o scompaiono, il 30% rimangono invariati e meno del 20% aumentano. I noduli che si riducono sono generalmente cistici mentre quelli che aumentano sono potenzialmente maligni.
• prevenzione dello sviluppo di noduli in pazienti irradiati
E’ opportuno osservare i pazienti con una storia di radiazioni al collo e alla testa
con tiroide palpatoriamente normale senza somministrare levo-tiroxina mentre è
necessario trattare con levo-tiroxina i pazienti irradiati sottoposti a tiroidectomia.
• prevenzione della recidiva dei noduli dopo intervento chirurgico
Negli anni passati la pratica clinica era di trattare tutti i pazienti sottoposti a tiroidectomia parziale per patologia nodulare tiroidea benigna per tutta la vita per impedire
la comparsa di recidive. La somministrazione di levo-tiroxina, dopo l’intervento chirurgico, non previene la comparsa di nuovi noduli in 4 studi condotti in Danimarca;
solo 1 studio Italiano, paragonando la terapia sostitutiva con la soppressiva, suggerisce una ridotta recidiva nodulare con la terapia soppressiva.
Utilizzare la levo-tiroxina per sopprimere la secrezione del TSH può avere alcuni effetti collaterali sugli organi bersaglio in particolare sullo scheletro e sul cuore.
Per quanto riguarda lo scheletro, una meta-analisi condotta su donne in terapia
soppressiva con levo-tiroxina ha mostrato un significativo grado di perdita ossea in
tutti i siti di misurazione nelle donne in postmenopausa ma non in premenopausa.
Sebbene ci sia una buona ragione per sospettare che i soggetti con una ridotta densità ossea abbiano un rischio maggiore per le fratture, per ora non vi sono studi
comprovanti tale rischio. Alcuni studi hanno sottolineato l’utilità della terapia sostitutiva con estrogeni nelle donne in postmenopausa trattate con dosi soppressive ddi
levo-tiroxina.
Ancora più controverso è il problema dei potenziali effetti della terapia soppressiva
con levo-tiroxina a lungo termine sul cuore. Alcuni Autori hanno osservato che i
soggetti trattati a lungo termine con dosi soppressive di levo-tiroxina hanno un’aumentata frequenza cardiaca diurna e notturna, hanno battiti prematuri atriali più
frequenti, una massa ventricolare sinistra aumentata con un peggioramento degli indici di funzionalità sistolica ed una danneggiata funzione diastolica. Queste alterazioni migliorano sostanzialmente trattando i soggetti con un b-bloccante. La fibrillazione atriale si verifica nel 5-15% dei pazienti con tireotossicosi clinica o subclinica;
negli anziani sani la soppressione del TSH triplica il rischio di fibrillazione atriale.
Da questi dati si può raccomandare una modesta soppressione delle concetrazioni
del TSH tra 0.1 e 0.5 mU/L per molti pazienti con patologia nodulare tiroidea, soprattutto donne in postmenopausa, e soppressioni < 0.1 mU/L nei pazienti con tumori tiroidei.
97
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98
Convegno 5 ottobre 2002: “La rinoplastica morfodinamica funzionale tradizionale”
Nozioni generali sulla rinoplastica
(V. Micheli Pellegrini - Lezione Magistrale)
Le regole dell’intervento per imbellire il naso hanno subito tali variazioni da farle paragonare ad un sorite, come il mucchio che cresce per l’aggiunta di un granello alla volta.
Dalle sue origini, gli scritti che riguardano la rinoplastica correttiva sono stati prodotti in
quantità così elevata, che volerne richiamare solo i titoli sarebbe una impresa eccezionale. La chirurgia correttiva della piramide nasale non può prescindere dai concetti di
correzione estetica e correzione funzionale, che riassumiamo nel termine di chirurgia
morfodinamica. Si dovrà quindi per un verso dare un significato al concetto di bellezza,
sostituendolo con quello di armonia, riferendosi alle espressioni di “dimensioni proporzionate “, “fisionomia attraente”, “aspetto piacevole”. La tecnica chirurgica morfodinamica dovrebbe pertanto esser fondata sui principi generali dell’armonia e della proporzione, considerando unico e irripetibile ogni singolo caso. Il chirurgo deve restare un
buon artigiano: il suo impegno non deve essere di operare sempre in modo eccezionale, bensì di non operare mai male. Date queste premesse, si richiameranno le cinque
sequenze fondamentali di una rinosettoplastica: ingresso nel naso, riduzione del gibbo,
correzione del setto, osteotomie, correzione della punta.
Indicazioni alle tecniche chirurgiche di correzione della punta del
naso durante la rinoplastica (Dott. A. Scattolin).
L’accesso alle cartilagini della punta è ottenuto di preferenza con la incisione marginale. L’incisione segue il contorno delle narici e si estende dal terzo superiore della
columella al terzo laterale dell’ala. Quando si procede alla delivery, ovvero alla lussazione extranariniena del lembo bipeduncolato condro cutaneo, si deve necessariamente completare lo scollamento della superficie dorsale dei due archi cartilaginei discontinuando il settore corrispondente ai cosiddetti triangoli deboli.
Nella scelta degli interventi per la correzione della punta dobbiamo tener conto di tre
condizioni: la prima riguarda le punte sufficientemente proiettate con cartilagini sottili e deboli e qui può essere indicata la tecnica di Micheli Pellegrini o di Goldman ; la
seconda si riferisce a casi con scarsa proiezione, da trattare con la tecnica di Goldman
e con quella di Ponti; la terza a quelli bisognevoli di un modellamento limitato, con
modesta riduzione del volume ed indicazione alle tecniche dello splitting, o del metodo retrogrado, al metodo di Micheli Pellegrini o a quelli catalogati come McCollough o Aufricht-Sheen.
99
Convegno 9 novembre 2002: “La responsabilità professionale del medico di famiglia”
I nuovi profili operativi sui quali si proietta
la responsabilità del medico di famiglia
Fabio Buzzi – Ordinario di Medicina Legale Università di Pavia
Se sul piano giuridico la figura del medico di famiglia, o medico di medicina generale convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale (qui di seguito brevemente indicati come MMG e SSN), ha mantenuto nel tempo il noto profilo dell’incaricato di
pubblico servizio, essendo egli titolare di funzioni aventi nel contempo natura sanitaria e amministrativa e strettamente embricate nello svolgimento dell’assistenza sanitaria pubblica economicamente gravante sullo Stato e sulle Regioni, sul piano dell’attività diagnostico-terapeutica il suo profilo operativo è invece enormemente cambiato.
Infatti, il MMG è sempre più coinvolto nella gestione del “corretto uso” delle risorse economiche del SSN, ad esempio per quanto riguarda i seguenti compiti, funzioni
ed oneri: l’applicazione di disposizioni di contenimento della spesa farmaceutica (v.
l’uso dei farmaci generici in alternativa a quelli contraddistinti dal marchio industriale); l’adeguamento ai LEA, da applicarsi tassativamente secondo le disposizioni governative, senza possibilità di adattamenti da parte delle Regioni (v. sentenza del TAR
Lazio n. 6252/2002 sul valore del DPCM del 29.11.02); l’equilibrato il numero delle
prescrizioni farmaceutiche (il controllo del quale è stato riconosciuto come appartenente alla giurisdizione contabile pubblica della Corte dei Conti nella sentenza n.
922/1999 delle Sezioni Unite della Cassazione Civile); l’obbligo di attenersi alle note
della CUF anche in caso di prescrizioni indotte da parte di specialisti; il diritto-dovere
di contribuire attivamente alla sperimentazione e alla farmaco-vigilanza, in adesione
allo specifico regolamento varato dalla CUF; la partecipazione alle fasi di sensibilizzazione/informazione e promozione nei confronti degli screening diagnostico-preventivi
delle malattie tumorali; la gestione, con ruolo primario, delle attività di assistenza domiciliare integrata (ADI), da svolgersi in équipe formate non soltanto da altri medici,
ma anche da altri operatori sanitari con titoli curriculari diversi; l’adesione a linee guida e protocolli assistenziali - elaborati da società scientifiche, conferenze di consenso,
commissioni tecniche ad hoc, ecc. - alla produzione e all’implementazione dei quali
il MMG è chiamato a contribuire anche ai sensi dell’art. 14 dell’accordo collettivo nazionale.
Del resto, nella dichiarazione preliminare di tale accordo si richiama a chiare lettere che il MMG deve dedicare particolare attenzione alle modalità per concordare livelli di spesa programmata e per responsabilizzarsi al loro rispetto. Nell’art. 15 bis si
precisa poi che il MMG concorre ad assicurare l’appropriatezza nell’utilizzo delle risorse messe a disposizione per l’erogazione dei livelli essenziali e appropriati di assistenza, nonché a ricercare la sistematica riduzione degli sprechi, mediante l’adozione
di principi di qualità e di medicina basata sulle evidenze scientifiche, fornendo prestazioni di efficacia riconosciuta ai soggetti che maggiormente ne possono trarre beneficio.
100
In questo contesto tecnico-programmatico, che oramai governa largamente l’attività del MMG, si va letteralmente dissolvendo il principio - pur richiamato nell’accordo nazionale - dell’agire secondo “scienza e coscienza”, che un tempo assommava in
sé tutti i presupposti ispiratori della correttezza e dell’appropriatezza della “mission”
del medico.
A questo proposito Antonio Panti, presidente della FIMMG (in un editoriale pubblicato su Sanità Pubblica e Medicina Pratica, 2000; 10: 5-8), ha molto bene ridefinito tale principio, segnalando che oramai il sistema si fonda sulla capacità del medico
generale di gestire linee guida e percorsi assistenziali secondo gli interessi del paziente e le necessità aziendali di controllo della spesa. Per questo si vede assegnato un
ruolo importante, ma scomodo, di servitore di due padroni, che deve contentare entrambi, zigzagando con elasticità compromissoria, tra note CUF, prescrizioni specialistiche, esigenze del paziente e improbabili principi di qualità, in base al cui rispetto
riceverà sanzioni e incentivi, nonché al parte variabile del compenso.
E ancor meglio ha soggiunto a proposito delle linee guida, chiedendosi se esse
rappresentano raccomandazioni cliniche di comportamento, o protocolli vincolanti
di assistenza, e se vi si devono obbligatoriamente adeguare soltanto i MMG o tutti i
medici indistintamente.
Questo assetto radicalmente nuovo dell’attività del MMG impone una rimeditazione altrettanto radicale dei tradizionali canoni valutativi medicolegali (ma anche
giuridici) dei profili della sua responsabilità professionale, specie nel campo civile, nel
quale gli oneri risarcitori devono trovare precisa attribuzione e suddivisione, anche in
relazione alle notevoli problematiche che rendono sempre più critica la gestione assicurativa della responsabilità civile per l’esercizio dell’attività assistenziale del singolo
professionista e delle aziende sanitarie.
Ad esempio, il tipo di attività svolta in équipe per l’ADI, o per la Continuità Assistenziale, o ancora per realizzare articolate campagne di screening preventivi fa uscire il
MMG dalla classica, ben circoscritta dimensione individualistica del libero professionista (del resto già sensibilmente modificata dal dianzi richiamato incardinamento nell’ambito operativo pubblico del SSN), che era connotata da un amplissimo e autonomo
spread decisionale, per proiettarla in nell’estremamente diversa dimensione allargata
della cooperazione (anche colposa!) in équipe, nella quale lo spread decisionale del
MMG è ben più ristretto e si amalgama con quello degli altri co-équipers.
Donde la necessità – divenuta però oramai anche un obbligo – di tenere una cartella clinica puntualmente aggiornata e completa per il proprio operato e di utilizzare
al meglio le procedure di archiviazione e di trasmissione dei dati in forma elettronica,
che proiettano la sua attività in una dimensione operativa integrata ancora più ampia,
dischiudendo le non poche e non semplici problematiche giuridiche e medicolegali
della telemedicina.
101
Convegno 19 ottobre 2002: “Allergie. Gestione del paziente allergico. Linee guida”
Proposte di linee guida nel paziente in età pediatrica
per patologie cutanee (eczema atopico, orticaria) e respiratorie
(asma, ostruzione nasale)
G.Busti, G.Biasucci
Unità Operativa di Pediatria-Neonatologia AUSL di Piacenza
La DERMATITE ATOPICA o ECZEMA ATOPICO è una malattia infiammatoria multifattoriale della cute ad andamento cronico-ricorrente. E’ caratterizzata da un particolare quadro clinico e dalla frequente associazione familiare e personale con altre
patologie allergiche(asma, rinite, congiuntivite), colpisce più del 10% dei bambini.
Nel 90% dei casi insorge prima dei 5 anni, nel 70-80% nel primo anno di vita.
La diagnosi, a tutt’oggi, è esclusivamente clinica e si basa sui criteri diagnostici di
Hanefin e Raijka distinti in criteri maggiori e minori più recentemente modificati da
Oranje. Non esistono test di laboratorio che possano stabilire la diagnosi.
La prevalenza di allergia alimentare nella DA è mal valutabile e viene riferita in percentuali variabili dal 20 fino al 50-70% in bambini nei primi 3 anni di vita. Anche
gli aeroallergeni possono agire come fattori scatenanti generalmente non prima dei
2-3 anni di età.
Un ruolo importante riveste l’iperreattività cutanea.
L’iter diagnostico (che inizia con la diagnosi clinica e con la diagnosi differenziale
con altre malattie cutanee sia banali che rilevanti) comprende l’accertamento allergologico.
E’ bene evitare nei genitori l’aspettativa che l’accertamento diagnostico allergologico possa essere risolutore della malattia del figlio anche perché, se disillusa, li spingerà verso indagini diagnostiche non validate.
I test allergologici, se negativi, possono escludere un coinvolgimento allergico, il valore predittivo negativo del test cutaneo è sufficientemente elevato, vi sono alcune
eccezioni.
Il percorso diagnostico allergologico consiste in :
-esecuzione di test cutanei con estratti del commercio per alimenti e inalanti o con
alimenti freschi, eventuale patch test per alimenti e inalanti. Il pannello di allergeni
da testare varia da caso a caso e dipende dall’età del bambino, dall’anamnesi e anche dalla superficie cutanea disponibile.
-Dosaggio delle IgE totali (senza particolare valore diagnostico, può avere valore
predittivo) e delle IgE specifiche. Il RAST ha valore sovrapponibile al test cutaneo
con alcune eccezioni.
-Prescrizione di una dieta di eliminazione diagnostica, in base ai dati anamnestici e
strumentali, di durata di 3-4 settimane: diete mirate, oligoantigeniche, empiriche.
-In caso di miglioramento, successivi test di provocazione con alimenti: reintroduzione di 1 alimento a settimana a domicilio o in ambiente protetto a seconda della
102
storia clinica. Vi sono tuttavia condizioni che controindicano l’esecuzione dei test
di provocazione.
-Prescrizione di una dieta di eliminazione terapeutica .
Successivamente la cadenza media di reintroduzione degli alimenti è di 6-12 mesi
tenendo conto di parametri clinici e strumentali.
Da notare che è generalmente inopportuno intraprendere diete di esclusione sulla
base della sola presenza di IgE specifiche.
Altri interventi terapeutici saranno mirati alla cura della cute con prodotti per uso
topico, alla sedazione del prurito, all’allontanamento di allergeni e sostanze irritanti, al supporto psicologico ove richiesto. In casi di particolare gravità può essere necessario ricorrere a cortisonici per os, raggi UV (adolescenti), ciclosporina A. Trova
attualmente impiego un immunosoppressore per uso topico (tacrolimus).
L’ORTICARIA o meglio la sindrome orticaria angioedema è una affezione comune
nella popolazione generale. La frequenza in età pediatrica è calcolata attorno al
4,5-7,5% con età media di comparsa in età immediatamente prescolare.
In base alla durata delle manifestazioni si distinguono forme acute (<6 settimane),
croniche (> 6 settimane), ricorrenti o intermittenti. Nel bambino prevalgono le forme acute sotto forma di singolo episodio della durata di alcuni giorni o di pochi
episodi ricorrenti in breve arco di tempo. L’orticaria cronica è rara nel bambino,
con prognosi migliore rispetto all’adulto, con risoluzione in genere entro 2-3 anni.
La lesione elementare è rappresentata dal pomfo, si può associare angioedema più
frequentemente nel bambino piccolo. L’anamnesi e l’esame obiettivo sono gli elementi di valutazione più importanti per la diagnosi (vedi checklist per paziente con
orticaria).
I fattori eziologici sono innumerevoli (tabella). L’individuazione dell’agente scatenante è spesso difficile e complessa. Viene valutata possibile in circa il 50% dei casi di forme acute, solo nel 20% delle forme croniche. Le forme immunomediate, in
particolare quelle da IgE, rappresentano circa il 25%.
In linea di massima di fronte ad un episodio acuto isolato e di breve durata, probabilmente risolto al momento della visita, non vi è indicazione per richiedere particolari accertamenti. L’algoritmo diagnostico ha i punti cardine nella visita e nell’anamnesi accurate. Le cause più frequenti di orticaria acuta sono agenti infettivi, farmaci, alimenti, additivi, altre sono agenti fisici, inalanti, punture d’insetto... Le
principali forme di orticaria cronica sono l’orticaria cronica idiopatica, fisica (dermografismo, colinergica…), autoimmune, vasculitica, papulosa, pigmentosa. Gli accertamenti saranno guidati dal sospetto clinico con esecuzione di test specifici (test
cutanei, dosaggio IgE specifiche, diete di eliminazione, test di provocazione, test di
scatenamento con stimoli fisici: freddo, pressione, esercizio fisico…).
Per la terapia distinguiamo quelle dell’urgenza-emergenza in caso di episodio di
orticaria acuta severa con segni di anafilassi. In caso di orticaria comune la terapia
consisterà nell’identificazione e rimozione delle cause, se possibile, nell’eliminazione dei fattori aspecifici di aggravamento, nella somministrazione di farmaci: antiistaminici, all’occorrenza brevi cicli di cortisonici per os, fino all’impiego di terapie
immunosoppressive nei casi più gravi.
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Si registra aumento di prevalenza dell’ASMA BRONCHIALE. A determinarne lo sviluppo e il grado di severità concorrono fattori genetici, sociali ed ambientali.
Negli ultimi anni è stata data molta importanza all’infiammazione come caratteristica eziopatogenetica dell’asma, sono state studiate le alterazioni anatomo-patologiche della parete bronchiale (rimodellamento strutturale) responsabili di ostruzione
bronchiale irreversibile nei casi curati tardivamente o in modo inadeguato.
Sul piano clinico la definizione della malattia tiene conto della gravità e della frequenza degli episodi acuti. L’asma acuto viene distinto in lieve, moderato e grave
in base ai sintomi clinici, al grado di alterazione dei parametri di funzionalità respiratoria e di eventuale ipossiemia. L’asma ricorrente-persistente viene distinto in
episodico infrequente, episodico frequente e persistente in base alla frequenza degli episodi acuti, da altri Autori classificato come intermittente o persistente lievemoderato-grave.
Di fronte ad un bambino con episodi di difficoltà respiratoria, tosse persistente, dispnea o tosse dopo una corsa o dopo esposizione ad allergeni o irritanti, dispnea in
corso di affezioni delle prime vie respiratorie è necessario procedere ad accertamenti.
Per l’inquadramento diagnostico è fondamentale la valutazione anamnestica e l’esame clinico. Nel bambino in grado di collaborare si devono eseguire prove di funzionalità respiratoria con valutazione della reversibilità dell’ostruzione eventualmente presente, completate da broncoprovocazioni aspecifiche (test da sforzo in
particolare) per valutare il grado di iperreattività e sostanzialmente lo stato di flogosi bronchiale. Gli accertamenti verranno completati dall’esecuzione di prove allergometriche cutanee. Utile la compilazione di un diario clinico ed eventuali valutazioni giornaliere del PEF. L’esecuzione di altri accertamenti (test del sudore, pH
metria esofagea..) si consiglierà in caso di sospetto clinico, esito dubbio dei test per
asma, mancata risposta alla terapia per asma. Nella prima infanzia e quindi in bambini non in grado di collaborare non è possibile eseguire prove di funzionalità respiratoria (attualmente sono prevalentemente strumento di ricerca) e pertanto la
diagnosi di basa sull’attenta raccolta di dati anamnestici e sulla valutazione clinica.
Alcune caratteristiche cliniche (tosse, respiro sibilante, stigmate di atopia, familiarità per atopia e asma) sono suggestive per diagnosi di asma. Anche in questo caso
il sospetto clinico di eziologie diverse guiderà l’esecuzione di altri accertamenti
diagnostici. In bambini in età prescolare che presentano episodi ricorrenti di respiro sibilante in corso di virosi, che non hanno familiarità per atopia né allergie nè
iperreattività bronchiale e che superano la malattia completamente in età prescolare ( 70% dei casi) è stato proposto di riutilizzare il vecchio termine di “bronchite
asmatiforme” piuttosto che asma.
La strategia terapeutica dell’asma consiste nell’utilizzare farmaci sintomatici broncodilatatori e farmaci dotati di attività antiinfiammatoria. Distinguiamo la terapia
dell’attacco acuto da quella a lungo termine nelle forme ricorrenti-persistenti (tabelle). E’ fondamentale fornire informazioni precise sulla malattia, insegnare il corretto utilizzo dei farmaci prescritti, a gestire eventuali crisi, a evitare fattori scatenanti (prevenzione ambientale), a prevenire dispnea da sforzo.
Le prove di funzionalità respiratoria dovrebbero essere eseguite almeno due volte
104
l’anno nell’asma episodico infrequente e ad intervalli più brevi nell’asma grave. In
questi casi è anche importante associare il controllo del ritmo di crescita. Per i test
allergologici la frequenza di esecuzione varia in relazione a storia clinica ed età: da
una volta l’anno ad una volta ogni 2-3 anni.
LE RINITI rappresentano la più comune manifestazione di allergia, colpiscono almeno il 10-25% della popolazione e la prevalenza è in aumento. Sono più frequenti, nel bambino, in età scolare. E’ sconosciuta la prevalenza delle riniti non allergiche.
L’insorgenza e l’espressione dei sintomi di rinite allergica sono influenzati da fattori
genetici e ambientali. L’esposizione all’allergene in soggetti predisposti determina
l’allergizzazione e successivamente lo stabilirsi di una flogosi IgE mediata della mucosa nasale. Coesiste iperreattività nasale aspecifica.
I sintomi classici della rinite allergica stagionale sono starnuti, prurito nasale, rinorrea acquosa e congestione nasale che possono essere associati a congiuntivite e a
sintomi generali che influenzano il rendimento scolastico e le normali attività del
bambino. I sintomi si accentuano più spesso all’aperto ma tendono a persistere durante la giornata e per tutto il periodo di impollinazione con intensità diversa in relazione alla durata di esposizione e alla concentrazione pollinica.
Nella rinite causata da allergeni presenti costantemente nell’ambiente, come acari
o epiteli animali, la persistenza dello stimolo antigenico provoca persistenza dei
sintomi, in particolare ostruzione nasale, e maggior frequenza di complicanze di tipo sinusitico o malformazioni cranio facciali da respirazione orale.
In alcuni casi vi può essere rinite episodica in seguito ad assunzione di alcuni cibi.
Attualmente la classificazione della rinite allergica si basa sulla durata dei sintomi e
sull’interferenza con il riposo e le normali attività del bambino e distingue riniti intermittenti o persistenti, lievi o moderate-severe (tabelle).
Il problema rinite non è trascurabile in quanto pur non essendo patologia di particolare gravità influenza la qualità di vita del bambino.
Inoltre durante gli ultimi anni l’attenzione si è focalizzata sul rapporto tra asma e rinite allergica. Queste patologie vengono considerate non distinte ma piuttosto due
aspetti clinici di un unico disturbo delle vie aeree. Si è giunti alla definizione operativa di “rinobronchite allergica” “United Airway Disease” “una via aerea, una malattia”.
Altro concetto importante è quello della “flogosi minima persistente” rilevata nella
rinite persistente anche in periodi liberi da sintomi.
Riniti non allergiche riscontrabili nel bambino sono: rinite non allergica senza eosinofili, rinite non allergica con eosinofili, rinite medicamentosa, raramente rinite da
assunzione di FANS o associata a malattie sistemiche endocrinologiche o immunologiche.
Sia le riniti allergiche che non allergiche sono peggiorate dagli inquinanti ambientali.
Per la diagnosi è fondamentale l’anamnesi per la valutazione dei sintomi e dei fattori scatenanti. L’esame della cavità nasale nelle riniti persistenti può essere eseguito in rinoscopia anteriore o con endoscopia nasale a fibre ottiche. L’esame clinico
105
comprende gli occhi (congiuntivite), il torace (asma), la pelle ( dermatite atopica o
orticaria). La dimostrazione di presenza di IgE con test cutanei e/o in vitro permette di confermare il sospetto di allergia. La citologia nasale può essere utile nella
diagnosi differenziale. Esami radiologici trovano indicazione in casi selezionati. Per
quanto detto sarebbe opportuno comprendere negli accertamenti lo studio della
funzionalità respiratoria, della reversibilità dell’ostruzione delle vie aeree e lo studio dell’iperreattività bronchiale.
Il trattamento delle riniti allergiche consiste nella prevenzione dei fattori scatenanti
(allontanamento di allergeni e irritanti), nel trattamento farmacologico con utilizzo,
in associazione o meno, di antiistaminici topici e-o per os utili per ridurre rinorrea,
starnuti, prurito nasale, con corticosteroidi topici efficaci nel ridurre l’ostruzione,
cromoni intranasali. L’immunoterapia trova indicazione in casi non controllati dalla
terapia farmacologica convenzionale. Non raccomandabile in bambini di età inferiore ai 5 anni.
106
Definizione di ipersensibilizzazione allergica:
Nuova nomenclatura dell’allergia secondo EAACI
Eleonora Savi
Negli ultimi ventanni la parola “allergia” è stata utilizzata per definire non solo vere
reazioni allergiche, ma anche improvvise reazioni cutanee o sintomi mai dimostrati
essere a genesi allergica, reazioni avverse a cibi o ad additivi alimentari o a farmaci.
Pertanto, una Commissione della European Academy of Allergy and Clinical Immu nology ha cercato di porre chiarezza nei termini, definendo come Ipersensibilità cio’
che determina sintomi riproducibili e obiettivi, indotta da una esposizione ad uno
stimolo in dose tollerato dai soggetti normali. L’ipersensibilità si distingue in: non allergica, quando il meccanismo immunologico non è provato (sensibilità all’amalgama
dei denti, sensibilizzazione poli-farmacologiche o a campi elettromagnetici etc) e
i p er sensi bi li t à aller g i ca, q uand o la causa i m m uni t ar i a è d i m ost r at a. L a i p er sensi bi li t à
allergica può essere IgE mediata e non IgE mediata (dermatite da contatto, celiachia,
alveoliti allergiche). Le patologie IgE mediate possono ancora distinguersi in: atopiche
(rinite, asma) e non atopiche (allergia a farmaci, insetti). Pertanto, per tutte le patologie è stata definita questa classificazione: es. rinite allergica (IgE e non IgE mediata) e
rinite non allergica.
Diagnostica allergologica
Eleonora Savi
La diagnostica allergologica in vivo si basa sull’esecuzione dei test cutanei: prick, intradermo, patch e test di provocazione (nasale, congiuntivale, bronchiale ), mentre
per la diagnostica allergologica da allergia a farmaci si ricorre anche ai test di tolleranza orale, sottocute, ev.
La diagnostica allergologica in vitro si avvale di: dosaggio IgE totali e specifiche, dosaggio IgG specifiche, dosaggio tritasi, dosaggio ECP, dosaggio istamina, dosaggio dei
leucotrieni, test di degranulazione dei basofili. Mentre i primi, (IgE totali e specifiche)
sono esami routinariamente utilizzati, gli altri sono test impiegati solo in particolari ricerche. I test di laboratorio comportano due problemi: la corretta esecuzione (controllo di sensibilità, specificità, affidabilità del metodo, riproducibilità) e l’interpretazione clinica dei risultati. E’ pertanto fondamentale, in questa valutazione, tener conto delle cross- reattività tra i vari alimenti e tra allergeni pollinici e alimentari, la non
rilevanza clinica di alcuni allergeni (grano negli allergici a graminacee), la labilità di alcuni epitopi poco, quindi, rappresentati in alcuni estratti diagnostici. Inoltre, importantissimi i cut-off clinici di IgE specifiche studiati per i principali alimenti (Sampson
’97) ed espressi come valori predittivi positivi e negativi al 95%-90% in Ku/l.
L’impiego di test di screening Phadiatop che evidenzia la presenza di IgE sieriche per
i principali allergeni respiratori e il Phadiatop infant che valuta alimenti e inalanti è
107
importante nei casi di discordanza prick- anamnesi o allorchè si debba valutare lo
stato allergico in assenza del paziente.
Inoltre, consente di contenere i costi di questa diagnostica e nel paziente in età pediatrica di ridurre il volume di sangue prelevato.
Un cenno, inoltre, ai test utilizzati dalla medicina alternativa per valutare le cosiddette
“intolleranze alimentari”in vivo VEGA test (elettro-agopuntura sec. Voll) e in vitro: test
citotossico o test di Bryan. E’ basato sul principio per cui i leucociti a contatto con alimenti verso cui esiste una intolleranza si modificano nella forma e volume fino alla lisi.
Proposta di Linee Guida per pazienti in età adulta
U. Gandi, E. Savi
Identificare i sintomi patognomonici di una reazione allergica: rinite, congiuntivite,
asma, orticaria, anafilassi sistemica etc., e definire invece i sintomi in cui non è mai
stata dimostrata una genesi allergica: astenia, mialgie, cefalea, diarrea cronica etc.
Prendendo in considerazione i sintomi che più frequentemente inducono il medico
curante a inviare il paziente dall’allergologo si definisce per ciascuno un percorso diagnostico.
Orticaria Cronica:
Classificazione dell’orticaria cronica:idiopatica 70%, secondaria ad altra patologia
25%, allergica 5%. Fondamentale è la raccolta anamnestica atta ad evidenziare la
presenza di altri sintomi indicativi di processi infettivi cronici (epatite HCV positiva,
infezione streptococcica, presenza di helicobacter pylori) o patologie autoimmuni (tiroiditi) o patologie neoplastiche e mielodisplasiche. A questo punto, le indagini di laboratorio e strumentali potranno essere effettuate, prima della valutazione allergologica, al fine di dirimere un dubbio diagnostico emerso dall’anamnesi patologica remota e recente o dall’esame obiettivo. Si delineeranno, pertanto, gli esami ematochimici da richiedere in prima battuta, per quali pazienti e con quali aspettative richiedere la visita allergologica. La valutazione allergologica consentirà di approfondire eventuali cause professionali, e la presenza nel siero di autoanticorpi mediante il
test con siero e plasma autologo.
Pazienti con “Prurito sine Materia”
Non è generalmente un sintomo di patologia allergica e comunque prima di una
valutazione allergologica si devono escludere varie altre cause: aumento degli acidi
biliari, presenza di secchezza cutanea (negli anziani), presenza di altri sintomi correlabili a patologie di interesse internistico (sudorazione notturna, astenia, febbricola), cause psicotiche, assunzione di estro-progestinici, eventuale risposta del sintomo agli anti-H1.
Orticaria Acuta – Angioedema
Questa sintomatologia si correla spesso ad una reazione allergica IgE mediata, pertanto
merita una valutazione allergologica per individuare l’agente scatenante: farmaci (ASA,
FANS, ACE inibitori, penicilline) alimenti, lattice. Particolarmente frequente la sindrome
orale allergica da ingestione di frutta e verdura fresca nei pazienti pollinosici.
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Pazienti allergici al veleno di Imenotteri
Sono meritevoli di essere sottoposti a visita specialistica i pazienti che, punti da
imenotteri (api, vespe) abbiano sviluppato entro 30-60 minuti una reazione allergica sistemica (orticaria, nausea, vomito, broncospasmo, edema della glottide, calo
pressorio, shock anafilattico). Per questi pazienti viene avviato un protocollo diagnostico mediante dosaggio IgE specifiche sieriche, test cutanei ed eventuale ITS
specifica. Vengono trattati con ITS (risposta protettiva già a due mesi dal raggiungimento della dose massima) i pazienti con orticaria se ad alto rischio di ripuntura e
tutti i soggetti che oltre all’orticaria abbiano manifestato uno degli altri sintomi citati: nausea, dispnea, calo pressorio.
I pazienti che punti da imenotteri sviluppano una reazione locale estesa (eritema
ed edema, diametro superiore 5 cm.) non meritano alcuna indagine diagnostica nè
terapeutica specifica (ITS), in quanto non sono considerati, dagli studi della letteratura internazionale, nè dai protocolli diagnostici SIAI, soggetti a rischio di reazioni
gravi, se ripunti (rischio 5% vs.1% dei soggetti con reazione locale normale).
Ad essi va consigliata una terapia sintomatica locale: pomata a base di steroide, anti-H1 per os, applicazione precoce e locale di ghiaccio.
I pazienti, che punti da papatacei, zanzare, insetti che non siano imenotteri sviluppano reazioni locali estese vanno trattati con terapia farmacologia, come detto per
gli imenotteri. Per questi pazienti non esiste in commercio ne’ veleno per i test diagnostici nè per la terapia desensibilizzante. Le reazioni allergiche severe e sistemiche prodotte da questi veleni sono rarissime, ne sono descritti pochissimi casi nel
mondo.
Pertanto, si conclude, che non hanno rilevanza dal punto di vista allergologico, ma
solo inducono sintomi fastidiosi.
Non si eseguono test diagnostici per veleno di imenotteri predittivi di rischio allergico: il rischio e’ valutato in base ai dati clinici del tipo di reazione sviluppato in occasione delle pregresse punture. Pertanto, non si espone nessun paziente al rischio, anche se forse solo ipotetico, di test cutanei diagnostici, se non esiste in anamnesi una
pregressa reazione allergica sistemica. In assenza di questa, infatti, non si esegue alcuna terapia desensibilizzante, indipendentemente dal risultato dei test.
Per ridurre il rischio di puntura di imenotteri si rimanda all’allegato.
Pazienti allergici al veleno di Imenotteri in età pediatrica
Meritano di una indagine allergologica i bambini che punti da imenotteri sviluppi no una reazione allergica sistemica non solo di orticaria, ma anche dispnea, soprat tutto se accompagnata da nausea, calo pressorio, edema della glottide. Quindi, i
criteri di ammissione all’ITS, che è il fine che giustifica l’esecuzione di test cutanei,
per il bambino sono di una reazione piu’ severa dopo puntura e l’evoluzione della
sintomatologia, l’eventuale capacita’ di autolimitarsi della manifestazione clinica.
Per la terapia delle reazioni locali estese e delle reazioni non da imenotteri si rimanda a quanto descritto per l’adulto.
Anche per il bambino non c’è alcuna indicazione ad eseguire test diagnostici predittivi di eventuale rischio allergico, giacchè questo è espresso solo dai dati clinici
riferiti alla eventuale pregressa puntura.
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Non si riconosce neppure rischio particolare per bambini “atopici” o comunque affetti da sensibilizzazione ad altri allergeni.
Pazienti Allergici a Farmaci
L’anamnesi è elemento fondamentale per discriminare i pazienti con sintomi riferibili ad effetti collaterali o a idiosincrasia ai farmaci e pazienti con sintomi riferibili a
reazioni immunitarie-allergiche per i quali è corretta una valutazione allergologica.
L’indagine allergologica ha lo scopo di individuare un farmaco alternativo (a quello
scatenante la reazione allergica-pseudoallergica) e per il quale emerge una necessità terapeutica inprescindibile. Pertanto, non si eseguono test per farmaci nei casi
in cui non sussista un immediato bisogno o comunque non siano strettamente necessari o con farmaci già riferiti in anamnesi responsabili di reazioni allergiche per
confermare la diagnosi. I pazienti a rischio di reazioni a farmaci sono coloro che
hanno sviluppato in passato reazioni per farmaci di un determinato gruppo a cui
debbono ancora ricorrere. I farmaci più spesso incriminati sono: Ac. acetilsalicilico
(ASA) e anti-infiammatori (FANS), responsabili di reazioni pseudoallergiche, crossreattivi tra di loro; seguono le penicilline e gli antibiotici B lattamici, gli anestetici
generali e locali. L’indagine allergologica prevede un test di tolleranza orale o sottocute ad incremento con il farmaco alternativo. Nel caso della penicillina sono disponibili test cutanei con i metabolici maggiori e minori del farmaco.
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Una emergenza medica: lo shock anafilattico
Dr. Maria Teresa Costantino
Dipartimento di Allergologia – A.O. “Carlo Poma” Mantova
Imprevedibilità, rapidità di insorgenza e gravità della sintomatologia fanno della reazione anafilattica una emergenza medica temibile e drammatica sia per l’esito a volte
infausto sia per la banalità degli agenti causali che la determinano perchè banale è
un alimento, banale è un farmaco, banale è un insetto. La frequenza dell’anafilassi è
sicuramente in aumento ma vi sono pochi dati attendibili sulla sua incidenza complessiva. Gli alimenti rappresentano attualmente la causa più frequente di anafilassi.
Il meccanismo patogenetico può essere di tipo IgE mediato (anafilassi allergica) per
preventiva sensibilizzazione del soggetto a rischio verso una determinata sostanza e
successiva riesposizione (punture di insetti, antibiotici, alimenti, etc. ); o non IgE mediato (anafilattoide) per attivazione del complemento e altri meccanismi in parte sconosciuti (mezzi di contrasto, anestetici generali, farmaci, etc. Le ammine vasoattive
così liberate, di cui la più nota è l’istamina, agiscono sugli apparati target dell’anafilassi (respiratorio, cutaneo, cardiovascolare, gastroenterico) determinando quell’insieme
di sintomi e segni che portano alla diagnosi clinica di anafilassi sistemica. Alla diagnosi clinica si affianca quella biochimica con dosaggio serico di un marker stabile come
la triptasi. L’istamina infatti per la sua breve emivita (10 minuti) rende difficoltosa la
campionatura. Sotto il profilo terapeutico va ricordato il ruolo chiave dell’adrenalina
che è da considerarsi il trattamento di scelta nelle fasi acute e la cui somministrazione
per via intramuscolare permette il raggiungimento di una concentrazione plasmatica
superiore in tempi brevi rispetto alla via sottocutanea (8 minuti). Da tutto ciò se ne
deduce come si a necessaria un’attenta anamnesi prima di effettuare qualsiasi manovra medico terapeutica a rischio e quindi poter attuare tutte quelle misure precauzioanli onde evitare una tale emergenza medica.
Immagine del primo novecento tratta dall’archivio
storico dell’Ospedale di
Piacenza.
Veduta del chiostro di
Santa Vittoria, appartenente al nucleo originario
dell’Ospedale (1471).
111
Aspetti psicologici nell’eziopatogenesi
e nel trattamento della patologia allergica.
D.ssa Ivana Cacciatori
Psicologa Clinica, Psicoterapeuta Adleriana
Nell’accezione più vasta (modello olistico), l’uomo è inteso come un organismo biopsicosociale: mente e corpo sono ben lungi dal costituire realtà autonome, ma sono
invece solo astrazioni che definiscono operativamente aspetti di una medesima entità, la persona nella sua individualità, che vengono descritte e studiate con linguaggi
e metodi differenti. Quindi, tutta la medicina è psicosomatica.
In senso più ristretto e tradizionale (modello biomedico), invece la psicosomatica è
quella branca della medicina che si occupa dei disturbi funzionali o sine materia (sindromi o disturbi somatoformi delle classificazioni contemporanee) da un lato, e dall’altro di quelle malattie organiche (colite ulcerosa, ulcera peptica, ecc.) che sembrano rivelare nella propria eziopatogenesi anche una componente psicologica.
Il tratto psicologico che emerge nei soggetti con patologie psicosomatiche è l’alessitimia.
Si discute, se l’alessitimia sia un tratto di personalità stabile, uno stato transitorio secondario ad un malessere psicologico associato con una malattia acuta o con qualche
altra situazione stressante, o una risposta adattativa ad una malattia cronica (alessitimia secondaria).
Le patologie allergiche, in particolare nell’infanzia, possono spesso essere ricondotte a
componenti psicologiche che ne influenzano sia l’insorgenza che il decorso.
Dagli studi effettuati, emerge che in pazienti che conducono a buon fine un trattamento psicoterapeutico si verifica una regressione della sintomatologia dei disturbi allergici, in particolare dell’asma.
Anche in ambito dermatologico sono molti gli studi che confermano l’aspetto psicologico nella genesi delle patologie (dermatologia psicosomatica); in particolare nell’età
pediatrica si sono rivelati indicatori psicologici che caratterizzano i soggetti portatori
di patologie dermatologiche, come la presenza di comportamenti estremi (troppo calmi, o troppo perfetti), situazioni prolungate di stress diffuso e problemi nell’area relazionale. Se da un lato la pelle è uno dei massimi mediatori dell’espressione emozionale, dall’altro, proprio a causa di questo suo ruolo psicologico e sociale, molte malattie cutanee sono state studiate in particolare la psoriasi, la dermatite, l’acne, l’orticaria
e le dermatosi auto-indotte possono provocare importanti reazioni psicologiche, tra
cui la depressione, la vergogna, il ritiro sociale, la rabbia.
Verranno illustrati, quindi, anche i contributi della psicologia all’allergologia clinica,
nell’ottica dell’approccio multidisciplinare al paziente, relativi alla valutazione della
qualità della vita, all’aderenza al trattamento, al rapporto medico paziente e alle alterazioni psicologiche legate alla malattia.
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Linee guida per la richiesta di consulenza allergologica
in pediatria
Roberto Sacchetti - Pediatra di libera scelta - Piacenza
Nel prendere in esame le principali malattie allergiche dell’età pediatrica quali dermatite atopica, rinite allergica e asma, e i criteri che per ognuna dovrebbero guidare il
pediatra di base nella richiesta di consulenza allergologica, terremo conto di quella
che è la loro naturale successione di comparsa, definita come “marcia allergica” del
bambino.
Dermatite atopica
La dermatite atopica (DA) presenta in età pediatrica una prevalenza del 10-15% (1,2).
Il 50% dei casi si manifesta entro il primo anno di vita e un ulteriore 30% entro i 5 anni. La DA rappresenta spesso il primo passo della marcia allergica del paziente, tuttavia nella sua eziopatogenesi entrano in gioco altri fattori. Esistono due quadri clinici
principali: uno ad esordio clinico molto precoce (entro i primi 2 anni di età), correlato spesso alla allergia alimentare, con precoce positività dei Skin Prick Tests (SPT) o
delle IgE specifiche e uno ad esordio tardivo (> 2 anni), meno frequentemente legato
all’allergia alimentare caratterizzato da maggiore persistenza dei sintomi cutanei. La
diagnosi di eczema è essenzialmente clinica e tiene conto dei criteri maggiori e minori di Hanifin-Rayca (1980). Una volta precisata la diagnosi e valutata la gravità della
malattia, nel caso di eczema lieve non sono necessari particolari approfondimenti diagnostici per cui si potrà iniziare una terapia a base di emollienti cutanei ed eventualmente corticosteroidi topici e antistaminici per os. Nell’eczema medio-grave ad esordio precoce e storia di infezioni gravi ricorrenti sarà invece utile fare precedere ogni
altra indagine da un emocromo con conta delle piastrine per escludere una sindrome
di Wiskott-Aldrich. La consulenza allergologica sarà necessaria: 1) nel caso di dubbio
diagnostico in quanto i criteri di Hanifin-Rayka possono non essere sempre facilmente valutabili; 2) nel caso di eczema inizialmente lieve, non controllato adeguatamente
dalla terapia medica; 3) nell’eczema medio-grave, specie se ad esordio molto precoce, per una adeguata impostazione della terapia e per individuare il possibile ruolo
degli allergeni alimentari (in primo luogo latte e uovo) e ambientali (acari e epiteli di
animali) nella patogenesi della malattia. Sappiamo che il 60% dei pazienti con eczema grave e di lunga durata presenta IgE positive per allergeni e poichè la DA esordisce nel 50-70% dei casi entro l’anno di vita, esiste l’indicazione per eseguire indagini
allergologiche anche a questa età. Per quanto concerne il follow-up allergologico della DA è bene ricordare che se la remissione clinica avviene in genere a partire dai 3-5
anni di età (specie nel caso di latte e uovo, più tardivamente per pesce, arachidi e noci) e in genere contemporaneamente allo sviluppo della tolleranza agli allergeni alimentari, lo SPT o il RAST per l’alimento in causa può rimanere positivo per parecchio
tempo. Un particolare cenno merita la positività all’uovo albume che è correlata in
maniera significativa al successivo sviluppo di una allergia agli acari e quindi autorizza
l’adozione, in via preventiva, di misure di profilassi ambientale fin dai primissimi anni
113
vita. Per quanto riguarda la sensibilizzazione dei pazienti con DA verso gli aeroallergeni, è stato evidenziato un possibile ruolo nelle riesacerbazioni della malattia da parte di pollini, acari e epiteli animali (gatto, cane); inoltre è stata evidenziato che questa
sensibilizzazione, più frequente nelle forme gravi di DA, rappresenta anche un fattore
prognostico importante per lo sviluppo di una patologia respiratoria allergica. Per
concludere la D.A. può essere gestita dal pediatra di base nella maggior parte delle situazioni e l’invio allo specialista e la richiesta di test allergologici dovrà essere limitata
a casi opportunamente selezionati.
Rinite allergica
La rinite allergica è una delle cause più frequenti di ostruzione nasale nel bambino.
Interessa circa il 20-25% della popolazione infantile (1,2,3); rara sotto i 2 anni di età,
è più frequente in età scolare (2). Gli allergeni più spesso in causa sono le graminacee
ma anche parietaria, acari della polvere e epiteli di animali con un rapporto tra forme
stagionali e perenni di 2,5:1. Per la diagnosi di rinite allergica è importante una
anamnesi e un esame obiettivo ben condotti. Se questi sono fortemente suggestivi per
allergopatia il bimbo può essere inviato in prima battuta allo specialista allergologo
considerando che in circa l’80-90% dei casi è possibile fare la diagnosi eziologica con
la sola esecuzione dei SPT (3). Nel caso di anamnesi dubbia può essere utile prendere in considerazione tutte le altre cause di ostruzione nasale cronica del bambino sopra l’anno di età. Una visita ORL, completata da eventuali altri accertamenti quali ricerca e conta degli eosinofili del secreto nasale, rx-grafia, endoscopia a fibre ottiche,
TC, ecc, consentirà di dirimere il dubbio diagnostico. Nel caso più frequente di una
rinosinusite ricorrente o cronica che non si risolve dopo uno o più cicli di terapia antibiotica di lunga durata (15-20 giorni), si deve comunque ipotizzare una concomitante rinite allergica e pertanto inviare il paziente a consulenza allergologica. L’allergia
agli acari, ad esempio, può spiegare il mantenimento di una flogosi cronica delle mucose nasali, anche paucistomatica, in assenza di altre cause dimostrabili (5). Una volta
posta la diagnosi di rinite allergica è necessario seguire attentamente il paziente anche
per la sintomatologia bronchiale considerando che le alte e basse vie aeree sono
un’unica entità anatomo-funzionale (concetto di “united airways”) e che alla rinite
può far seguito lo sviluppo di asma (nel 90% dei casi entro un anno). Viceversa nel
soggetto con storia di asma dovrà essere sempre ricercata l’esistenza, tramite anamnesi ed esame obiettivo, di una rinite allergica, specie nel caso dell’allergico agli acari
dove la sintomatologia bronchiale in genere precede l’esordio della rinite.
Asma bronchiale
In Europa la prevalenza di asma bronchiale in età pediatrica è del 8-10%. In realtà
sappiamo che circa il 40-45 % dei bambini presenta respiro sibilante nei primi 6 anni
di vita ma di questi solo un 20-30% circa svilupperà asma bronchiale vera e propria a
partire dai 5-6 anni di età (1). Sotto i 4-5 anni, stante a questa età la frequente negatività dei tests per aeroallergeni, una valutazione allergologica si proporrà elettivamente per quei pazienti con respiro sibilante che presentano famigliarità positiva per asma
e/o concomitante DA; al di sopra dei 4-5 anni tale valutazione potrà essere estesa a
tutti i pazienti. A sua volta la positività ai SPT costituisce, secondo Martinez, uno dei
114
criteri predittivi maggiori per lo sviluppo di asma classico (2,3) e, in caso di un livello
elevato di sensibilizzazione o di polisensibilizzazione, anche di una maggiore gravità
(4). Pertanto dalla conoscenza di una sensibilizzazione precoce ad aeroallergeni ne
deriverà una maggiore attenzione all’ambiente in cui il bimbo vive (misure antipolvere, controllo degli inquinanti domestici come fumo di sigaretta, monossido di carbonio, etc.) e un atteggiamento terapeutico più aggressivo da parte del pediatra fin dai
primissimi anni di vita in quanto sappiamo che questo gruppo di pazienti presenta un
“rimodellamento” precoce delle vie aeree che va subito contrastato (5).
Se nel paziente asmatico viene quasi sempre eseguita la ricerca di una eventuale allergia, l’esecuzione di una indagine della funzionalità respiratoria è spesso trascurata.
Il pediatra può eseguire con facilità in ambulatorio una misurazione del PEF (picco di
flusso espiratorio) oppure inviare il paziente all’ambulatorio di fisiopatologia respiratoria o di allergologia per eseguire una spirometria (curva flusso-volume).Le indicazioni sono diverse: diagnosi di asma, valutazione gravità dell’attacco acuto e monitoraggio delle forme croniche o persistenti. Le prove di funzionalità respiratoria (spirometria con o senza tests per reattività bronchiale) sono determinanti innanzitutto in fase
diagnostica in quanto consentono di documentare le alterazioni della funzionalità respiratoria in pazienti che presentano inizialmente solo tosse come unica manifestazione di asma: tosse secca dopo sforzo fisico, tosse notturna, tosse che risponde alla
somministrazione di beta agonisti per via aerosolica. Nell’asma acuto consentono di
documentare una riduzione dei volumi e dei flussi polmonari (FEV1,CVF, FEF25-75)
permettendo di quantizzare l’entità della bronco-ostruzione e, una volta che l’episodio è risolto clinicamente, consentono di stabilire se la funzionalità respiratoria è tornata alla norma e quando la terapia può essere sospesa. In caso di asma episodico ricorrente o persistente è necessario monitorare periodicamente (ogni 3-6 mesi) la funzionalità respiratoria tramite una semplice spirometria; tali accertamenti andranno
eseguiti anche nei pazienti asintomatici, in apparente benessere, in quanto è dimostrato che questi bambini presentano di frequente alterazioni della funzione respiratoria soprattutto a carico delle piccole vie aeree (FEF25-75< al 70% del valore predetto) che possono favorire lo sviluppo di una iperinflazione polmonare cronica. In
questi pazienti potrà essere richiesto anche lo studio della reattività bronchiale (prova
da sforzo o test alla metacolina) che ci permetterà di avere indicazioni sul rischio di
andare incontro ad altri processi acuti per permanenza di una elevata flogosi bronchiale. Per quanto concerne il PEF la sua utilità è elevata nell’asma da sforzo, nelle
crisi asmatiche per valutare la risposta ai broncodilatatori (è importante fare riferimento al valore personale migliore) e nella gestione a lungo termine della malattia
ma solo per le forme episodiche frequenti o persistenti. I limiti di tale determinazione
derivano dal fatto che riduzioni della funzionalità respiratoria importanti a carico delle piccole vie aeree possono essere presenti anche con PEF nella norma (7,8) o che
riduzioni del PEF possono non essere associate a riduzioni di altri parametri di funzionalità respiratoria. Concludendo è necessario da parte del pediatra fare un utilizzo
più puntuale delle indagini di funzionalità respiratoria lasciando ai test di allergometria un ruolo secondario in quanto “add little to the diagnosis of asthma”(GINA
2002), anche se possono aiutare ad identificare e controllare meglio alcuni dei fattori
di rischio della malattia.
115
Oltre ad una razionalizzazione delle richieste di consulenza allergologica, per il futuro si può ipotizzare una gestione diretta di parte della diagnostica ad opera del pediatra di base con l’utilizzo di SPT e spirometria nel proprio ambulatorio. Al momento sono di ostacolo alla realizzazione di questo progetto gli elevati costi della strumentazione, la necessità di un adeguato training, la casistica limitata e il poco tempo
a disposizione per l’esecuzione dei test. Una possibile soluzione potrà venire da una
diversa organizzazione del lavoro quale ad esempio può essere la medicina di gruppo, con l’identificazione di uno o più referenti interni, interessati alla materia, che si
facciano carico della gestione della strumentazione.
116
Convegno 26 ottobre 2002: “Esperienze cliniche in medicina interna”
Lettura Magistrale
L’iperomocisteinemia è un fattore di rischio di aterotrombosi?
Prof. Pier Mannuccio Mannucci - Milano
Negli ultimi 20 anni un interesse crescente si è manifestato nei confronti dell’iperomocisteinemia moderata come fattore di rischio per malattia tromboembolica. Due
aspetti importanti differenziano l’iperomocisteinemia dagli altri fattori di rischio per
trombosi già noti: 1) è associata con rischio aumentato sia di trombosi arteriosa che di
trombosi venosa, 2) può essere facilmente corretta con una terapia poco costosa e relativamente priva di rischi, come la somministrazione di acido folico e di altre vitamine del gruppo B. Tale terapia, se si dimostrerà efficace nel ridurre il rischio trombotico, potrebbe modificare in maniera determinante l’epidemiologia e la storia naturale
delle malattie trombotiche. Questa lettura riassume il metabolismo dell’omocisteina,
le cause generiche e ambientali che ne determinano un aumento della concentrazione ematica, la letteratura clinica che riguarda la sua associazione con la malattia tromboembolica venosa e arteriosa, i possibili meccanismi attraverso i quali l’iperomocisteinemia predispone sia all’aterosclerosi sia alla trombosi, e l’efficacia della terapia
vitaminica nella riduzione dei livelli ematici di omocisteina.
Immagine del primo novecento tratte dall’archivio
storico dell’Ospedale di
Piacenza.
L’edificio dell’Anatomia
patologica e del Laboratorio di analisi (1927).
117
La trombosi venosa viscerale “idiopatica” all’esordio:
correlazioni diagnostico-terapeutiche su 29 casi.
*D. Imberti, A. Ghirarduzzi, *C. Prati **G. Scannapieco, A. Nicolini, **S. Villalta,
M. Silingardi, *E. Sverzellati, *P. Cavallotti, I. Iori.
Dipartimenti di Medicina Interna Ospedali di: Reggio Emilia, *Piacenza, **Treviso.
Introduzione. La trombosi venosa viscerale (TVV) è causa di circa il 10% degli infarti
intestinali e del 10% delle ipertensioni portali dell’adulto. La storia naturale delle forme “idiopatiche” all’esordio è poco nota ed anche la durata della terapia anticoagulante non è definita nelle linee guida. Scopo dello studio. valutare la tipologia della
presentazione clinica e della storia naturale, la diagnostica utilizzata e le modalità di
terapia antitrombotica. Materiali e Metodi . sono stati arruolati 29 paz., età media 48
anni (range 18-75), 16/13 M/F, affetti da TVV (4=vene sovraepatiche, 19=vena porta, 17=vena mesenterica superiore, 9=vena splenica) in quattro anni (1998-2002).
Criteri di esclusione: neoplasia addominale o epatopatia cronica precedentemente
diagnosticate. E’ stato effettuato studio delle trombofilie (ATIII, proteina C ed S, FV
Leiden, mutazione 20210GA gene protrombina, valori basali di omocisteina, Lupus
Anticoagulant e anticorpi anticardiolipina). Risultati. Fattori di rischio: pregressa
TVP/EP (10%), pregressa splenectomia (10%), uso estroprogestinici (10%), interventi
chirurgici recenti (7%). In 18 pazienti (62%) non individuati fattori di rischio. Presentazioni cliniche prevalenti: dolori addominali di intensità moderata ai quadranti superiori (48%), addome acuto chirurgico (20%), splenomegalia da causa ignota (14%),
ematemesi (3%). La diagnosi di certezza è stata ottenuta con ecocolorDoppler (55%),
TAC (31%), laparoscopia esplorativa (13%), Angiografia (1%). L’evoluzione in infarto
intestinale ha reso necessario l’intervento chirurgico in 9 paz. (31%); 3 paz. sono stati
sottoposti a trombolisi (mai risolutiva). La durata della terapia anticoagulante orale è
stata di 3-12 mesi in 12 paz. con 5 recidive (41%) dopo la sospensione: 1 TVP, 3
TVV, 1 trombosi seni venosi cerebrali. La terapia è stata di lunga durata in 10 paz.
con 2 progressioni in altra sede (trombosi arti inferiori e vena cava inferiore). Mortalità
al follow up medio di 2 anni = 4 paz. (14%). Nel corso della definizione diagnostica
sono emerse condizioni acquisite in 9 paz. (31%): policitemia vera (2), trombocitemia
essenziale (1), s. di Behcet (2), epatopatia cronica HCV pos (1), sindrome da ac antifosfolipidi (3). In 12 pazienti (41%) sono state riscontrate trombofilie eredo-familiari:
deficit ATIII (1) deficit prot S (1), FVL (1) mutazione gene protrombina (2), iperomocisteinemia (6), elevati valori FVIII (1). Nei 6 pazienti con iperomocisteinemia i valori
medi basali erano di 54 micmol/l (range 37-84). In 9 paz. la patologia è rimasta “idiopatica”: (31%). Conclusioni. La TVV è legata a stati di trombofilia congenita ed acquisita e richiede in molti casi una terapia antitrombotica di lunga durata nonostante
il rischio di emorragie digestive: per meglio definire la stratificazione del rischio di recidiva è utile la raccolta prospettica di ampia casistica.
118
Convegno15 novembre 2002: “Schizofrenia. Dalla ricerca agli interventi efficaci”
The Prevention of Schizophrenia:
What Interventions Are Safe and Effective?
By Richard Warner, M.B., D.P.M.
Abstract
Obstetric complications appear to increase the risk of developing schizophrenia and
postwar improvements in obstetric care may have contributed to a decline in the incidence of the illness in the developed world. Educating providers and consumers of
psychiatric and obstetric services about the risk of obstetric complications in increasing the risk of schizophrenia could bring about a further small decrease in the incidence of the illness, safely and at low cost.
On the other hand, attempts to prevent the occurrence of schizophrenia by treating
people who manifest high-risk indicators prior to the development of the illness have
a low probability of success and a high probability of unintended negative consequences.
Early intervention with people who have developed the full schizophrenia syndrome
is likely to have few negative effects, and may yield benefits, although it is not yet
clear that it will.
Immagine del primo novecento tratte dall’archivio
storico dell’Ospedale di
Piacenza.
L’edificio radiologico subito dopo l’inaugurazione
(1911).
119
First episode schizophrenia:
intervene early, save lives and improve long-term outcomes:
signposts from the International Study of Schizophrenia
Glynn Harrison. Professor of Psychiatry, University of Bristol, UK
The International Study of Schizophrenia (ISoS) investigated the long-term course and
outcome of first episode psychotic disorders in 14 geographically and socially diverse
cohorts involving 1171 patients. Using historic prospective methodology, 75% of cases were traced and assessed using standardised measures. Aggregate data showed
marked heterogeneity of outcomes, with 50% of surviving cases experiencing some
level of recovery. In regression models, the most powerful clinical predictor of longterm course was the number of days that patients were psychotic in the first two
years of the disorder. However, there was marked heterogeneity across geographic
centres with patients in ‘developing’ centres achieving more favourable outcomes.
Here, even cases with poor early course achieved better long-term outcomes compared with those in ‘developed’ settings . The ISoS data underpin the move toward a
‘recovery paradigm’ in the treatment of first episode schizophrenic patients. They underline the importance of early intervention strategies aimed at reducing duration of
untreated symptoms and optimising treatment in the early course of disorder. The
possible role of socio-cultural factors suggests that intervention strategies should encompass innovations in social, as well as pharmacological, treatments.
120
I trattamenti farmacologici e psicosociali della schizofrenia:
evidenze ed illusioni
Giovanni de Girolamo
Dipartimento di Salute Mentale, AUSL di Bologna
Abstract
Numerose ricerche, condotte sia in Italia che in altri paesi, hanno messo in luce che
vi è spazio per molti miglioramenti nella qualità dei trattamenti erogati a persone affette da un disturbo schizofrenico. Utilizzando le categorie proposte dall’Institute of
Medicine statunitense per la valutazione della qualità in campo sanitario, si può dire
che vi sono situazioni di sovrautilizzo di trattamenti non efficaci o necessari (ad esempio, un ampio e non giustificato impiego di politerapie farmacologiche, spesso fortemente iatrogene), di sottoutilizzo di trattamenti efficaci (ad esempio, interventi psicoeducazionali con la famiglia, psicoterapie cognitivo-comportamentali per il trattamento dei sintomi positivi e training di abilità sociali) e di utilizzo inappropriato (ad
esempio, inappropriato uso del ricovero ospedaliero, o dei trattamenti farmacologici).
Il contributo in questione si propone di fornire una revisione critica delle evidenze
oggi disponibili circa l’efficacia dei diversi trattamenti farmacologici e psicosociali per
la schizofrenia.
Immagine del primo novecento tratte dall’archivio
storico dell’Ospedale di
Piacenza.
La Sala Colonne (1510).
121
Convegno 16 novembre 2002: “La insufficienza respiratoria: recenti acquisizioni patogenetiche,
nuove tecniche terapeutiche”
Epidemiologia dell’insufficienza respiratoria.
Incidenza e prevalenza in Val d’Arda
Corrado Ajolfi (U.O. di Medicina – Fiorenzuola d’Arda)
Con il termine di Insufficienza respiratoria (I.R) si intende una condizione clinica caratterizzata da grave ipossiemia (PaO2 <60 mmHg), accompagnata o meno da ipercapnia (PaCO2 >44 mmHg): essa rappresenta la fase di insufficienza d’organo di svariate patologie polmonari ed extrapolmonari.
Di notevole importanza epidemiologica è l’I.R. da BPCO: questa affezione infatti, il
cui substrato fisiopatologico è la progressiva ostruzione delle piccole vie aeree, è una
delle cause più frequenti di ricovero ospedaliero ed è la quarta causa di mortalità nel
mondo occidentale dopo le malattie cardiovascolari, il cancro e lo stroke; rispetto ad
altre patologie come la malattia coronarica e lo stroke, che negli negli ultimi trent’anni mostrano un trend in diminuzione, la BPCO è tutt’ora in crescita, sia come morbilità che mortalità, per cui si prevede che nel 2020 possa raggiungere il terzo posto come causa di morte; ciò in parte è dovuto sia all’aumento dell’età media (la prevalenza di tale affezione è nettamente più elevata nelle fasce d’età più avanzate, come si
vede dalla fig. 1), che alla persistenza, nonostante le sempre più agguerrite campagne
anti-fumo, dell’abitudine al fumo. Quest’ultimo infatti rappresenta il principale fattore
di rischio per l’insorgenza e la progressione della BPCO.
Prevalenza della BPCO nella popolazione italiana, 1999
Fig. 1: La prevalenza media della BPCO è circa il 5% (ISTAT), ma l’affezione è nettamente più rappresentata con il crescere dell’età.
122
Anche in Italia e, specificatamente, in Emilia-Romagna, la BPCO è una delle priorità
nella programmazione sanitaria, a causa dell’elevata domanda di salute, degli alti costi economici e della attuale carenza dell’assistenza sanitaria in tema di malattie respiratorie (Tab 1 e 2).
Tabella1: Mortalità generale e da cause respiratorie in Italia e in Emilia-Romagna
nel periodo 1989 - 1994
Periodo 1989 - 1994
N. decessi/anno
Per cause respiratorie decessi/anno
Popolazione (censimento 1991)
Tasso grezzo di mortalità per pneumopatie
Italia
547.462
72.368 (13.2% del totale)
56.778.031
127.45/100.000 ab
Emilia-Romagna
44.750 (8.2% dell’Italia)
5.868 (8.11% dell’Italia)
3.909.512 (6.88% dell’Italia
150.09/100.000 ab.
Tabella : Mortalità in Italia ed Emilia – Romagna per BPCO,
periodo 1989 - 1994
Periodo 1989 - 1994
Per cause respiratorie decessi/anno
Per BPCO decessi/anno
Tasso grezzo di mortalità per BPCO
Italia
72.368
19.525 (226.9%)
34.39/100.000 ab.
Emilia-Romagna
5.868 (8.11% dell’Italia)
1263 (6.47% dell’Italia)
32.31/100.000 ab
RICOVERI IN VAL D’ARDA PER BPCO, PERIODO 1997 - 2002
Le diapositive riportate a pag. 3 illustrano la situazione dei ricoveri per patologie connesse con la BPCO, avvenuti presso l’U.O. di Medicina di Fiorenzuola d’Arda fra il
1997 e il 2002.
Dai grafici emerge chiaramente che tali affezioni hanno una notevole incidenza come causa di ospedalizzazione nel nostro territorio (oltre il 20% nell’anno in corso),
con un trend in costante e progressivo aumento. Fra tutte le cause di ricovero esse
occupano il primo posto, davanti alle aritmie, l’infarto del miocardio, lo stroke e i tumori.
Vi è una leggera prevalenza per il sesso maschile.
L’età media è piuttosto elevata (media 75 anni) e questa è verosimilmente la ragione
principale dell’incidenza così elevata di tali patologie: l’età media per i maschi tende
a diminuire, mentre il contrario si verifica per il sesso femminile.
Anche la degenza media per BPCO presenta un trend in diminuzione, attestandosi
intorno a 8.5 gg: è presumibile che tale comportamento, più che un miglioramento
dei provvedimenti terapeutici, sia la conseguenza della maggiore attenzione che oggi
in generale viene data alla permanenza dei pazienti in ospedale.
Importante è il dato relativo ai rientri entro 30 gg per un nuovo episodio di riacutizzazione: i dati del grafico (2^ diapositiva a dx) si riferiscono all’anno in corso: la percentuale dei rientri entro 30 gg è del 14%; percentualmente il valore è inferiore a
quello di altre patologie come la cirrosi, lo scompenso cardiaco e le aritmie: occorre
123
però dire che in termini assoluti sono molto più numerosi i rientri per BPCO, tenuto
conto che per le altre patologie sempre meno si ricorre al ricovero, bensì a forme alternative, come il Day Hospital o ambulatori dedicati; nel caso delle BPCO riacutizzate non è sempre possibile evitare il ricovero, trattandosi di pazienti piuttosto gravi;
quello che si dovrebbe fare, a livello ambulatoriale, è prevenire le riacutizzazioni.
Principali fonti dati
1. GOLD Workshop report – Sept 2000
2. ISTAT – Istituto Nazionale di statistica
3. CDS – Centro documentazione sulla salute, Agenzia Sanitaria regionale
dell’Emilia-Romagna
4. Database Hosp (C. Ajolfi) – U.O. Medicina Fiorenzuola d’Arda
5. U.O. Sistemi informativi AUSL Piacenza
124
ABSTRACT: ruolo della ventilazione meccanica non invasiva
nel paziente ospedalizzato e domiciliare.
Marco Confalonieri
Dirigente Responsabile - Divisione Pneumologia - Ospedale di Trieste
Da alcuni anni il trattamento del paziente affetto da insufficienza respiratoria si avvale del ventilazione meccanica non invasiva a pressione positiva. Tale metodica
ha soppiantato la ventilazione meccanica non invasiva a pressione negativa (Polmone d’acciaio, Poncho, ecc.), usata in casi sporadici.
Studi prospettici randomizzati hanno evidenziato che tale tecnica è in grado di ridurre il ricorso alla ventilazione invasiva con intubazione endotracheale da un lato
e la degenza media, dei pazienti trattati dall’altro.
I ventilatori più usati nella pratica clinica sono quelli pressometrici (BiPaP) che permettono di somministrare una pressione positiva inspiratoria(IPAP) ed espiratoria
(EPAP).
La IPAP permette di “mettere a riposo” i muscoli respiratori e quindi di ridurre laCO2;la
EPAP permette di contrastare la PEEP intrinseca, quindi favorisce un corretto rilasciamento del polmone, in fase espiratoria ed impedisce l’atelettasia alveolare.
La metodica è efficace nella insufficienza respiratoria ipossiemica ed ipercapnica
da BPCO, esistono studi che ne documentano l’efficacia anche nel trattamento
dell’Edema polmonare acuto e nelle polmoniti complicate da grave ipossia.
Il basso costo degli apparecchi ha permesso di ampliare l’utilizzo della metodica
anche nei pazienti domiciliari. Canditati alla ventilazione domiciliare sono i soggetti con ipercapnia sintomatica (cefalea, sonnolenza diurna) refrattaria alla terapia
classica.
Le principali controindicazioni alla metodica sono: scarsa compliance del paziente, claustrofobia, aritmie minacciose, enfisema bolloso, notevole ipersecrezione
bronchiale, ecc.
Immagine del primo novecento tratte dall’archivio
storico dell’Ospedale di
Piacenza.
Veduta del nucleo originario dell’Ospedale prima
della ristrutturarzione del
1930.
125
ABSTRACT: Corretto utilizzo della ossigenoterapia a lungo termine
secondo le recenti linee guida.
Pietro Bottrighi
Dirigente Responsabile U.O. Pneumologia - Ospedale G. da Saliceto - Piacenza
L’ossigeno è l ‘unico farmaco in grado di aumentare la sopravvivenza e di migliorare la performance fisica nei pazienti affetti da BPCO e da enfisema polmonare. Studi
clinici randomizzati longitudinali hanno dimostrato che almeno 15-18 ore di O2 terapia sono in grado di ridurre la ipertensione polmonare, il sovraccarico del cuore
destro e di migliorare la ossigenazione dei tessuti.
Le linee guida prevedono che la terapia sia iniziata nei soggetti con una Pa, O2 nel
sangue arterioso < a 55 mmHg per un periodo di almeno 6,8 settimane o un valore
< 60 ma > di 55 se concorre un cuore polmonare cronico con ipertensione polmonare, una policitemia, una desaturazione notturna o sotto sforzo.
Il mezzo più economico per l’erogazione dell’ossigeno è il concentratore che però è
piuttosto ingombrante,rumoroso e utilizzabile soltanto nei pazienti allettati. Il mezzo
più usato è l’ossigeno liquido che è sicuro e maneggevole e permette al paziente di
muoversi sia nell’ambiente domestico che fuori.
I soggetti in ossigenoterapia a lungo termine necessitano di un “home care pneumologico” che prevede: periodici controlli clinici, emogasanalitici (ogni 6-8 settimane) e
della saturazione (settimanali).
126
Convegno 23 novembre 2002: “1a giornata di aggiornamento in senologia”
ABSTRACTS:
la chirurgia oncologica della mammella con degenza breve
Giorgio Macellari
Dopo alcune generiche premesse sulla progressiva estensione dei principi della
day-surgery anche alla Senologia Oncologica, viene analizzata una casistica di 4
anni di attività del Centro di Senologia di Fiorenzuola d’Arda relativa a 376 pazienti operate per una neoplasia maligna della mammella e sottoposte ai seguenti tipi di trattamento chirurgico: ampia resezione mammaria con biopsia del
linfonodo sentinella o con linfoadenectomia ascellare radicale; mastectomia radicale con linfoadenectomia ascellare radicale con o senza ricostruzione plastica
immediata o differita; mastectomia semplice. Il parametro scelto per valutare i
risultati del nostro lavoro è stato la durata della degenza post-operatoria in rapporto al tipo di intervento.
L’analisi della casistica operatoria del nostro studio ci ha fornito questi risultati:
132 pazienti (il 35% del totale) sono state sottoposte ed ampia resezione mammaria (ARM) con biopsia del linfonodo sentinella (LS); 104 pazienti (27%) sono
state sottoposte ad ARM con linfoadenectomia ascellare radicale (LAR); 72 pazienti (19%) sono state trattate con mastectomia radicale (MR) e LAR; 60 pazienti (16%) sono state trattate con MR e LAR e immediatamente sottoposte a ricostruzione mammaria (R); 8 pazienti (2%) sono tate infine sottoposte a mastectomia semplice (MS).
Confrontando questi dati con la durata del periodo di ospedalizzazione si ottengono risultati di rilevante interesse tecnico-organizzativo:
• tutte le 132 pazienti sottoposte ad ARM + LS sono state dimesse in 1a giornata;
• delle 104 pazienti operate di ARM + LAR o di RM + LAR, 88 (85%) sono state dimesse in 1a giornata, 16 (15%) in 2a;
• delle 72 pazienti operate di ARM + LAR, 40 (55%) sono state dimesse in 1a
giornata, 32 (45%) in 2a o 3a;
• le 8 pazienti sottoposte a MS sono state tutte dimesse in 1a giornata;
• le 60 pazienti sottoposte a R sono state tutte dimesse dopo la 2a giornata.
Sulla base dei risultati si conclude che l’opportunità di una degenza breve per
questo tipo di chirurgia oncologica è non solo possibile, ma anche perseguibile,
purché siano fatti salvi alcuni fondamentali aspetti tecnico-organizzativi della disciplina: tra questi risultano irrinunciabili il consenso informato, l’adeguata selezione delle pazienti, l’accuratezza delle procedure operatorie e la sicurezza (sia
biologica che psicologica) della paziente. Nel complesso il valore del 70% di ca127
si di degenza breve –quale si ricava dalla nostra casistica sembra rappresentare
non solo un ideale realisticamente raggiungibile, ma anche il limite non superabile se si vuole prestar fede agli irrinunciabili aspetti tecnico-organizzativi più sopra accennati.
Il referto dell’anatomopatologo: quali requisiti?
Nicola Orsi
Servizio di Anatomia Patologica Presidio Ospedaliero di Piacenza
Sino a qualche anno fa, la funzione dell’anatomo patologo, nell’ambito della patologia mammaria era relativamente contenuta, dovendo porre una diagnosi di malignità,
la valutazione dei linfonodi regionali e poco altro.
Attualmente l’anatomo patologo ha assunto un ruolo di coordinatore di tutte le indagini che servono a caratterizzare la neoplasia, sia dal punto di vista morfologico che
da quello biologico.
Lo studio anatomo patologico del materiale di exeresi chirurgica ha assunto un valore
determinante ai fini della accuratezza diagnostica, dell’impostazione della terapia,
della valutazione prognostica e, in fine, della verifica della qualità delle procedure
diagnostiche preoperatorie e del trattamento chirurgico.
Tutte queste informazioni devono essere contenute nel referto anatomo patologico
che è documento parte-integrante della cartella clinica.
Premessa indispensabile è l’adozione di procedure di esame uniformi, utilizzando terminologie standardizzate e medesimi criteri diagnostici che corrispondano, per quanto possibile, a quelli utilizzati dalla generalità delle istituzioni.
La diagnosi anatomo patologica è il risultato finale di numerose attività che partono dalla richiesta del clinico e includono lo studio morfologico e biologico della neoplasia.
L’obiettivo più naturale cui tende la diagnosi anatomo patologica è la garanzia di qualità pertanto deve essere accurata, completa e riproducibile.
Carcinoma della mammella, trattamento della malattia avanzata
Luigi Cavanna
Responsabile Oncologia Medica e Oncoematologia AUSL di Piacenza
La sopravvivenza mediana delle donne con carcinoma mammario metastatico è di
circa 3 anni, con una notevole differenza fra le pazienti: alcune possono avere un andamento rapidamente infausto e giungere a morte in pochi mesi dalla diagnosi di malattia metastatica, altre al contrario vivono con la malattia per molti anni.
Molte pazienti hanno malattia metastatica confinata all’osso o ai tessuti molli, altre
hanno un prevalente interessamento viscerale. La localizzazione al sistema nervoso
centrale è infrequente come segno di presentazione di malattia metastatica. E’ molto
importante sia nella cura della singola paziente, sia nella valutazione dei risultati degli
128
studi clinici avere ben presente la eterogenicità di comportamento della neoplasia
mammaria metastatica.
Gli obiettivi del trattamento della malattia metastatica sono fondamentalmente due:
migliorare la qualità e ladurata di vita.
Storicamente è stato difficile dimostrare che il trattamento migliora la durata di vita,
tuttavia recentemente diversi studi clinici hanno dimostrato che terapie più efficaci
sono in grado di prolungare la sopravvivenza in donne con malattia avanzata.
Il trattamento della malattia metastatica può essere distinto in trattamento loco-regionalee sistemico.
Il trattamento loco-regionale viene riservato a localizzazioni isolate dell’osso, della
parete toracica o di altre sedi localizzate. Il trattamento loco-regionale può essere seguito da un trattamento sistemico.
Il trattamento sistemico è di tipo ormonale nelle pazienti con recettori positivi, tuttavia molte pazienti sviluppano un’ormonoresistenza e molte pazienti con malattia metastatica hanno recettori negativi e per queste pazienti la chemioterapia è la terapia si
scelta.
Per molti anni gli schemi CMF e FAC erano considerati standard per la malattia avanzata; l’introduzione dei taxani e nuovi farmaci come gli anticorpi monoclonali nella pratica clinica hanno permesso una maggiore flessibilità nel trattamento della malattia.
I taxani e le antracicline sono generalmente considerati gli agenti più attivi per la malattia metastatica.
La terapia ad alte dosi con autotrapianto di midollo/cellule staminali nella malattia
metastatica dopo un iniziale entusiasmo è ora sotto valutazione ed è oggetto di studi
controllati.
Gli anticorpi monoclonali hanno rappresentato uno degli eventi maggiori nel trattamento della malattia metastatica, nelle pazienti Her-2 positive: Risultati promettenti
sono evidenziati da diversi studi che associano l’anticorpo monoclonale (Herceptin)
alla vinorelbina, al docetaxel, al paclitaxel ecc.
129
Convegno 23 novembre 2002: “La Reumatologia nella pratica clinica”
Significato clinico del fenomeno di Raynaud (ABSTRACT)
Claudia Concesi - U.O. Medicina II a
Ospedale G. da Saliceto - Piacenza
Il fenomeno di Raynaud (FeR) è un’ischemia acrale parossistica scatenata dal freddo,
che si manifesta con variazioni del colorito cutaneo.
Il FeR viene definito primario in assenza di malattie capaci di causarlo, secondario
quando rappresenta il sintomo di una malattia sottostante. A questa classificazione
semplice e quasi “ovvia” va però aggiunto un terzo gruppo di pazienti con manifestazioni evocanti il sospetto clinico di una connettivite (cosidetto subset intermedio oppure “non idiopatico - non secondario”), che meritano uno stretto follow-up clinico,
immunologico e capillaroscopico.
La diagnosi di FeR è essenzialmente anamnestica, data la difficile riproducibilità del
fenomeno.
La forma tipica è caratterizzata dal susseguirsi di variazioni colorimetriche della cute,
che rispecchiano le 3 fasi del meccanismo fisiopatologico:
1) pallore, segno della fase ischemica con arresto del flusso ematico da spasmo delle
metarteriole digitali e degli sfinteri precapillari;
2) cianosi, segno della fase asfittica con desatutazione emoglobinica del sangue che
perfonde il letto microvasale;
3) eritema, segno della vasodilatazione reattiva.
Dal punto di vista anatomo-patologico nella forma primaria i vasi risultano integri,
mentre nelle forme secondarie si rilevano iperplasia intimale e fibrosi dell’avventizia
delle arteriole.
Nei pazienti con FeR è di fondamentale importanza effettuare quegli accertamenti,
che ci permettono di dirimere il dubbio diagnostico tra la forma primaria, che ha
prognosi favorevole e richiede la sola terapia sintomatica e forma secondaria, che richiede approfondimenti diagnostici anche complessi, stretto follow-up, terapia della
malattia di cui il FeR è sintomo e che ha prognosi meno favorevole.
Le indagini essenziali a questo scopo sono la capillaroscopia e la ricerca degli autoanticorpi (ANA in particolare).
Una forma secondaria deve essere sospettata in presenza dei seguenti criteri:
1) qualsiasi manifestazione clinica riconducibile a connettivite
2) asimmetria degli episodi vasospastici
3) ulcerazione cutanea delle dita
4) ricomparsa di manifestazioni a tipo eritema pernio in età relativamente avanzata
5) comparsa di manifestazioni vasospastiche in età relativamente avanzata
6) comparsa di fenomeni vasospastici in età infantile.
Il FeR non va pertanto considerato, come spesso accade, un semplice sintomo di in130
tolleranza al freddo, che va più sopportato che curato; al contrario può costituire
un’importante spia di una complessa serie di eventi, che devono essere ben noti al
medico per queste ragioni:
1) il FeR può essere precoce espressione di condizioni cliniche che vanno prontamente riconosciute e che richiedono provvedimenti rapidi (forme iatrogeniche,
paraneoplastiche, ecc…);
2) il vasospasmo, che determina le caratteristiche modificazioni cromatiche della cute, può coinvolgere anche numerosi distretti viscerali (cuore, polmone, esofago),
provocando danni irreversibili di tipo ischemico, che influenzano la prognosi non
solo quoad valetudinem, ma anche quoad vitam del paziente;
3) la presenza del FeR condiziona l’iter diagnostico-differenziale ed il monitoraggio di
pazienti che presentano malattie di interesse reumatologico, in quanto possibile
espressione di connettivite “maggiore” (LES, connettivite mista, sclerosi sistemica);
un corretto inquadramento clinico dei pazienti con FeR ed un vigile programma
di monitoraggio possono rivestire un significato prognostico non trascurabile.
131
Inquadramento clinico delle vasculiti sistemiche
Prof. Carlo Buzio
Professore Associato di Immunologia
Università degli Studi di Parma
Le vasculiti sono un gruppo eterogeneo di rare affezioni morbose caratterizzate sul
piano istologico dalla presenza di fenomeni flogistici e necrotici a carico delle pareti
dei vasi. Le vasculiti possono essere primitive o secondarie a processo infettivo o infiammatorio; possono essere sistemiche o limitate ad un organo o ad un apparato.
Non esiste una classificazione delle vasculiti generalmente accettata; il fatto che sintomi e segni clinici così come alterazioni laboratoristiche ed istologiche siano comuni
a differenti vasculiti ha ingenerato ed ingenera tuttora confusione e controversie.
Nel 1990 l’American College of Rheumatology (ACR) individuava i criteri per discriminare fra loro sette differenti tipi di vasculiti (Arterite gigantocellulare, Arterite di
Takayasu, Poliarterite nodosa, Granulomatosi di Wegener, Sindrome di ChurgStrauss, Vasculite da ipersensibilità, Porpora di Henoch-Schönlein). I criteri dell’ACR
sono criteri classificativi e non diagnostici: cioè permettono, con un alto grado di sensibilità e specificità, di classificare la vasculite di un paziente con diagnosi di vasculite
già formulata con certezza, ma non permettono una diagnostica differenziale tra vasculite ed altra malattia non vasculitica.
Nel 1993, la Chapel Hill Consensus Conference (CHCC) fornì la definizione di dieci
differenti vasculiti e propose di assumere le dimensioni dei vasi interessati dalla patologia come parametro discriminante fra le diverse vasculiti (Vasculiti dei vasi di grosso
calibro: Arterite gigantocellulare, Arterite di Takayasu; Vasculiti dei vasi di medio calibro: Poliarterite nodosa, Malattia di Kawasaki; Vasculiti dei vasi di piccolo calibro:
Granulomatosi di Wegener, Poliangite microscopica, Sindrome di Churg-Strauss, Vasculite da ipersensibilità, Porpora di Henoch-Schönlein, Vasculite crioglobulinemica).
Le definizioni CHCC non hanno una vidimazione né classificativa né diagnostica, ma
solo un valore nosografico.
Con riferimento alle vasculiti dei piccoli vasi, attualmente si ritiene che esse possano
essere distinte, in base alla presenza degli anticorpi antineutrofili (ANCA), in vasculiti
ANCA positive (Granulomatosi di Wegener, Poliangite microscopica e Sindrome di
Churg-Strauss) ed ANCA negative (Porpora di Henoch-Schönlein, Vasculite crioglobulinemica, Vasculite da ipersensibilità).
Solo una valutazione clinica complessiva del paziente può portare alla diagnosi di vasculite, non esistendo alcun segno o sintomo di per se stesso diagnostico di vasculite.
Frequentemente la vasculite si associa a leucocitosi, piastrinosi ed alla presenza di
sintomi sistemici come calo ponderale, febbre ed astenia in assenza di documentata
causa. Costante è anche il riscontro d’indici aspecifici di flogosi elevati ed i segni che
testimoniano l’interessamento contemporaneo di più organi od apparati oppure l’interessamento destruente di un singolo organo od apparato. Spesso è la positività degli
ANCA a guidare alla diagnosi. Alcuni riscontri clinici, come un nodulo polmonare solido o escavato, una alveolite emorragica, una glomerulonefrite rapidamente progressiva, una coronarite, una mononeurite, una sinusite, un asma bronchiale, una ipoa132
cusia, una porpora, una livedo reticularis possono essere segni di vasculite. La biopsia
anche se mirata non è sempre diagnostica, essendo la vasculite una patologia tipicamente segmentaria.
Alcune volte la diagnosi è tardiva poiché non si considera in diagnostica differenziale
la possibilità di una vasculite; altre volte è la prolungata ricerca di una neoplasia a ritardare la diagnosi.
La terapia instaurata prima che la patologia sia divenuta sistemica o abbia indotto irreversibili danni d’organo può indurre una remissione completa della vasculite ed
evitare la comparsa di reliquati invalidanti come insufficienza respiratoria cronica, insufficienza renale cronica, sordità neurosensoriale o trasmissiva, cardiopatia ischemica, paralisi periferiche motorie e sensitive, stenosi subglottide.
133
Gastrolesività da farmaci anti-infiammatori non steroidei:
aspetti clinici e fisiopatologici
Roberto Corinaldesi, Elisa Fustini, Roberto De Giorgio
Dipartimento di Medicina Interna e Gastroenterologia
Università degli Studi di Bologna
La prima segnalazione sulle proprietà terapeutiche dei salicilati risale al 25 Aprile del
1763 quando un sacerdote dell'Oxfordshire, il Reverendo E. Stone, in una lettera al
presidente della Royal Society, descriveva il suo successo nel trattamento della febbre
con una polvere ottenuta dalla corteccia del salice (Salix Alba). La "salicilina" venne
estratta dalla corteccia del salice alcuni decenni dopo dal chimico J. A. Buckner e successivamente E. Merk ne ottenne una preparato purificato. Tuttavia, è necessario attendere fino al 1838 affinchè un giovane chimico italiano, R. Piria, riconoscesse nella
salicilina due componenti, una glicosidica e l'altra che precipitava sottoforma di cristalli incolori, alla quale dette il nome di "acido salicilico".
A partire dal 1876 l'acido salicilico viene diffusamente impiegato nella terapia delle
malattie articolari, grazie ad un medico di Glasgow, T. J. McLaghan, che pubblica, sul
Lancet del 4 Marzo, il primo caso di reumatismo articolare acuto trattato con tale farmaco. Nel 1880 l'acido salicilico venne salificato al fine di ottenere un composto più
sicuro. Nacque così il salicilato di sodio caratterizzato però da un sapore dolciastro
nauseabondo che ne rendeva difficile l'assunzione da parte dei pazienti. Successivamente, nel 1898, un giovane chimico, F. Hoffman, che lavorava in una ditta di vernici, la Bayer, scoprì un metodo di acetilazione dell'acido salicilico, da cui nacque l'acido acetilsalicilico a cui venne dato il nome di "aspirina".
L’aspirina è così diventata il capostipite di una numerosa famiglia di composti che
l’hanno seguita e che vengono indicati con il nome generico di “anti-infiammatori
non steroidei” (FANS). In questi ultimi venti anni sono state scoperte oltre cinquanta
nuove molecole di sintesi appartenenti alla categoria dei FANS facenti oramai parte
della classe farmacologia tra le più prescritte ed utilizzate. Infatti, sono efficaci antiaggreganti piastrinici, efficaci analgesici ed anti-infiammatori, rimanendo farmaci di prima scelta nel trattamento delle malattie articolari e muscolo-scheletriche. Accanto agli
effetti terapeutici sono riportati numerosi effetti indesiderati a carico dell’emostasi e
del midollo osseo, dell’apparato cardiocircolatorio, renale ed epatico. Tuttavia i principali effetti collaterali si manifestano a livello del tratto gastroenterico superiore. In
campo reumatologico e gastroenterologico è noto da tempo che questa classe di farmaci può provocare la comparsa di erosioni ed ulcere gastriche e duodenali, quando
la terapia viene protratta nel tempo. Nella maggioranza di questi casi la clinica è caratterizzata da una anemia sideropenica, a sua volta secondaria allo stillicidio ematico
cronico, anche in assenza di lesioni dimostrabili endoscopicamente. Studi eseguiti
con emazie marcate con 51Cr hanno mostrato che, durante assunzione di aspirina, si
presenta un microsanguinamento occulto nel 73% dei casi; negli ospedali nord americani il 40-60% dei pazienti ricoverati per emorragia gastrica massiva risulta essere in
134
trattamento con FANS. D’altra parte è altresì noto che questi dati rappresentano la
punta dell’”ice berg” della gastrolesività indotta da FANS. Infatti, in uno studio condotto su 1921 pazienti con complicanza gastrointestinali in trattamento con FANS,
l’81% risultava asintomatico. Tale comportamento si può giustificare con le proprietà
analgesiche, appartenenti a questa classe di farmaci, che mascherano la sintomatologia dolorosa evocata dalle lesioni gastrointestinali. La frequente assenza di una sintomatologia predittiva diventa pericolosa in quella categoria di pazienti che, essendo
affetti da malattie cronico-degenerative, necessitano di terapie antinfiammatorie a
lungo termine. Le lesioni gastrointestinali da FANS sono potenzialmente gravi, ad elevata incidenza ed è quindi necessario porre particolare attenzione a tutti i fattori di
rischio favorenti un sanguinamento. Tra questi è di primaria importanza la diatesi
peptica. Sono altresì da valutare la concomitante assunzione di corticosteroidi o anticoagulanti, la presenza di un’infezione da Helicobacter pylori, l’età del paziente, l’abitudine al fumo di sigaretta e l’assunzione di alcol. Non ultimo per importanza è da
considerare il tipo di FANS utilizzato, poiché il rischio relativo di sanguinamento è
pari circa a 9 per il piroxicam, 6 per l’indometacina, 4 per la nimesulide ed il tenoxicam e 2.5 per il diclofenac.
Il meccanismo patogenetico alla base della gastrolesività dei FANS è secondario sia
alla natura chimica di tali farmaci che alla loro capacità di bloccare la sintesi di prostaglandine. Nel primo caso, l’azione citolesiva sulla mucosa gastrica è dovuta al fatto
che i FANS sono acidi organici deboli che, in presenza dell’ambiente estremamente
acido dello stomaco, si presentano in forma indissociata e quindi liposolubile, con
capacità di attraversare le membrane cellulari dell’epitelio gastrico di superficie. Al
pH neutro del compartimento intracellurare passano in forma ionizzata, non liposolubile e, così intrappolati, inducono il danno cellulare. Un secondo meccanismo di
danno è dovuto alla ben nota capacità dei FANS di impedire la sintesi delle prostaglandine a livello della mucosa gastrica. Tale meccanismo è mediato sia dall’inibizione dell’isoforma costitutiva (da cui dipende la sintesi di prostaglandine ad azione citoprotettiva) che di quella inducibile (responsabile dell’effetto antiinfiammatorio/analgesico) dell’enzima ciclo-ossigenasi. L’aspirina e i FANS tradizionali, bloccando sia la forma costituzionale della ciclo-ossigenasi (COX-1) che quella inducibile (COX-2) facilitano il danno della mucosa gastrica. Al fine di limitare gli effetti collaterali, negli ultimi anni, la ricerca farmacologica è stata orientata all’identificazione di inibitori selettivi della COX-2. Nella prevenzione del danno indotto da FANS
giocano un ruolo di primaria importanza gli inibitori della pompa protonica.
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Interessamento renale nelle malattie reumatiche
Luciano Cristinelli
U.O. di Nefrologia e Dialisi, Ospedale Civile G. da Saliceto, Piacenza
Il coinvolgimento renale nella patologia reumatica varia per rischio di comparsa e gravità di lesione in base alla patologia in corso. Due sono i meccanismi concorrenti e
responsabili della varietà delle alterazioni renali: il primo è il tipo di malattia reumatica in atto, il secondo i farmaci impiegati nel trattamento del processo infiammatorio.
E’ però possibile che le alterazioni renali in alcuni casi rappresentino solo una malattia sovrimposta.
Sono stati descritti tutti i quadri di glomerulopatia (le varie forme glomerulonefritiche
proliferative focali, segmentali e diffuse e la glomerulonefrite membranosa), le nefropatie interstiziali, l’amiloidosi secondaria, le vasculiti, la nefropatia da analgesici. La
storia (come ad esempio l’uso di sali d’oro o di penicillamina) ed il tempo di insorgenza della malattia renale possono aiutare a distinguere tra i vari tipi di patologia renale. Ad esempio i pazienti con artrite cronica attiva sono a rischio soprattutto di amiloidosi secondaria, molto più raramente di nefropatia membranosa. Nell’artrite reumatoide è più facile che una proteinuria da nefropatia membranosa, frequentemente
indotta da farmaci (penicillaminna e sali d’oro) e che si risolve con la loro sospensione
virtualmente in tutti i casi, compaia dopo un periodo di quiescenza della malattia. Un
attento esame delle urine può orientare sul tipo di malattia renale presente. La nefropatia membranosa e l’amiloidosi secondaria sono tipicamente associate a proteinuria
moderata/elevata, ad un sedimento urinario blando ed a livelli di creatininemia normali o lievemente aumentati. Le glomerulonefriti proliferative e le vasculiti determinano un sedimento attivo (ematuria, cilindri cellulari e granulari), mentre la nefropatia
da analgesici si associa ad un sedimento urinario blando, ad insufficienza renale cronica ed a possibili episodi di dolore al fianco per passaggio di papille necrotiche.
Queste correlazioni clinico-patologiche non sono assolute e non precludono la necessità di biopsie renali per definire una diagnosi specifica.
L’interessamento del rene in corso di lupus eritematoso sistemico è importante per la
frequenza (60 % dei casi se si tiene conto delle manifestazioni cliniche, dal 90 al 100
% dei casi se si tiene conto delle lesioni istologiche) e per la gravità delle lesioni graduata nella classificazione WHO in sei classi istologiche (normale/alterazioni minime,
GN mesangiale, GN proliferativi mesangiale, GN proliferativi focale, GN proliferativa
diffusa, GN membranosa, lesioni sclerosanti). Frequentemente le alterazioni dell’esame urine non correlano col quadro istologico renale per cui la biopsia renale è indicata per definire il tipo e l’entità di lesione e per indirizzare lo schema di terapia immunosoppressiva più appropriato.
Nella sclerodermia, caratterizzata da proliferazione incontrollata ed irreversibile e da
ispessimento mucoide della parete vascolare con restrizione del lume, il coinvolgimento renale è precoce (nei primi cinque anni), colpisce oltre il 50 % dei pazienti
che presentano un qualche segno di disfunzione renale (proteinuria lieve, modesto
incremento della creatininemia e/o ipertensione arteriosa). Nel 10-15 % dei casi si
può sviluppare una improvvisa insufficienza renale severa (crisi renale sclerodermica)
136
con quadro di sindrome emolitico-uremica da ipertensione maligna secondaria alla
attivazione ischemica del sistema renina-angiotensina. Fattori di rischio sono la patologia cutanea diffusa, la razza nera, la terapia steroidea o con vasocostrittori come la ciclosporina. Il trattamento aggressivo dell’ipertensione con ACE inibitore, farmaco di prima scelta, consente di stabilizzare e migliorare la funzione renale nel 70 % dei casi.
La deposizione nei tessuti extracellulari di fibrille composte da frammenti della proteina amiloide sierica (SAA), reattante della fase acuta prodotto a livello epatico,
complica numerose condizioni infiammatorie croniche che includono l’artrite reumatoide, la poliartrite cronica giovanile, la spondilite anchilosante. L’organo più comunemente coinvolto è il rene (90 % dei casi), usualmente i depositi sono a livello glomerulare e la sindrome nefrosica è il quadro di presentazione. In alcuni casi la deposizione predomina a livello vascolare o tubulare renale ed il quadro clinico è rispettivamente quello di una insufficienza renale cronica progressiva (con sedimento urinario blando e lieve proteinuria) e quello di disfunzione tubulare come il diabete insipido nefrogenico. Se non trattata l’amiloidosi secondaria evolve alla insufficienza renale terminale. La terapia con citostatici consente nella maggioranza dei casi di stabilizzare la funzione renale, ridurre l’escrezione proteica e risolvere parzialmente i depositi di amiloide.
L’artrite reumatoide è la patologia sistemica più frequentemente associata alla sindrome di Sjogren, caratterizzata da un infiltrato linfocitico e plasmocitico delle ghiandole
salivari, parotidi e lacrimali (sindrome sicca). Questo processo immune può estendersi anche ad altri organi compresi i reni ove è responsabile più frequentemente di una
nefrite interstiziale e di difetti tubulari quali l’acidosi tubulare renale distale, il diabete insipido nefrogenico od una ipopotassiemia severa senza acidosi tubulare. Il coinvolgimento glomerulare è molto meno frequente di quello interstiziale ed i quadri
istologici più comuni sono una glomerulonefrite membrano-proliferativa ed una nefropatia membranosa con sindrome nefrosica.
Pazienti con LES, artrite reumatoide, policondrite recidivante, malattia di Behcet ed
altre connettiviti possono sviluppare processi vasculitici a carico della piccole arterie e
venule, il cui inquadramento clinico è trattato da un altro relatore. La sintomatologia
di presentazione è sistemica con evidenza di disfunzione mono/multiorgano con
astenia, febbre, artralgie, dolore addominale, ipertensione, insufficienza renale con
sedimento attivo (ematuria e cilindruria) e disfunzione neurologica. Nell’arterite di
Takayasu, una vasculite granulomatosa a carico dei grossi vasi che insorge in pazienti
con età inferiore ai 40 anni, è possibile un coinvolgimento dell’arteria renale che porta ad ischemia renale ed ipertensione reno-vascolare. La polimialgia reumatica, in pazienti con età superiore ai 60 anni, si associa frequentemente ad arterite gigantocellulare, ANCA negativa, che può, anche se raramente, coinvolgere i reni..
Gli antinfiammatori non steroidei, compresi gli inibitori selettivi COX-2, di largo impiego nella patologia reumatica, possono indurre due differenti forme di insufficienza
renale acuta: una emodinamicamente mediata, l’altra da nefrite interstiziale spesso
accompagnata da una sindrome nefrosica. La prima è dovuta all’inibizione della sintesi delle prostaglandine a livello renale a cui consegue ischemia renale reversibile,
riduzione della pressione di filtrazione glomerulare ed insufficienza renale acuta. La
seconda forma ha due componenti: la prima la nefrite acuta interstiziale con infiltra137
to interstiziale di T linfociti, la seconda la sindrome nefrosica da lesioni glomerulari
minime dovute al release di una linfochina tossica da parte delle cellule T attivate. La
sindrome nefrosica può essere dovuta anche ad una nefropatia membranosa da
FANS che in casistiche recenti è segnalata più comunemente che in passato. Oltre ai
due effetti acuti l’uso cronico di FANS è ritenuto responsabile di un aumentato rischio di insufficienza renale cronica con meccanismo sovrapponibile a quello degli
altri analgesici (necrosi papillare) e di una aumentata incidenza di tumori del tratto
urinario.
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Osteoporosi steroidea: prevenzione e terapia
Paolo Manganelli
Dipartimento Osteo-Articolare
Unità Operativa di Reumatologia e Medicina Interna
Azienda Ospedaliera di Parma
L’osteoporosi steroidea è una frequente complicanza del trattamento cronico con corticosteroidi di varie condizioni morbose. Sulla base dei dati degli studi di densitometria
ossea e dell’incidenza di fratture ossee, si ritiene che il 30-50% dei pazienti trattati cronicamente con corticosteroidi sviluppi tale complicanza (1). La perdita minerale ossea è
più elevata nei primi 6-12 mesi dopo l’inizio della terapia steroidea ed è maggiore a carico dell’osso trabecolare rispetto a quello corticale (2).
La patogenesi della osteoporosi steroidea è multifattoriale ed è secondaria agli effetti dei
corticosteroidi sul tessuto osseo (inibizione della produzione ossea e aumento del riassorbimento osseo), sull’intestino (riduzione dell’assorbimento del calcio), sul rene (riduzione del riassorbimento tubulare del calcio) e sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi (riduzione della secrezione degli ormoni sessuali) (1,2).
Nel 2001 l’American College of Rheumatology ha aggiornato le raccomandazioni proposte nel 1996 (3) per la prevenzione e la terapia della osteoporosi steroidea e che prevedono, oltre ad adeguati stili di vita (abolizione del fumo, limitazione del consumo di
alcolici se eccessivo, attività fisica), la supplementazione con sali di calcio e vitamina D,
l’impiego di un bisfofonato o della calcitonina (in caso di controindicazione o di intolleranza al bisfosfonato) o del trattamento con ormoni sessuali (quando indicato) (4).
La prevenzione della osteoporosi steroidea dovrebbe essere attuata in tutti i pazienti,
specie in quelli con più alto rischio di sviluppare tale complicanza come le donne in postmenopausa, che necessitano di un trattamento cronico con corticosteroidi, al fine di
ridurre il rischio di fratture atraumatiche che possono comprometterne in misura significativa la qualità della vita.
Bibliografia
1. Gulko PS, Mulloy AL. Glucocorticoid-induced osteoporosis: pathogenesis, prevention
and treatment. Clin Exp Rheumatol 1996; 14: 199-206.
2. Gennari C, Civitelli R. Glucocorticoid-induced osteoporosis. Clin Rheum Dis 1986;
12: 637-54.
3. American College of Rheumatology Task Force on Osteoporosis Guidelines. Recommendations for the prevention and treatment of glucocorticoid-induced osteoporosis.
Arthritis Rheum 1996; 39: 1791-801.
4. American College of Rheumatology ad hoc Committee on Glucocorticoid-Induced
Osteoporosis. Recommendations for the prevention and treatment of glucocorticoidPOLIMIALGIA REUMATICA
139
Polimialgia reumatica
Dott. Macchioni Pierluigi
Servizio di Reumatologia
Arcispedale S.Maria Nuova - Reggio Emilia
La PMR è una malattia relativamente comune con una prevalenza, in certe popolazioni
nord europee, di un caso ogni 150 persone di età superiore ai 50 anni. L’incidenza della malattia aumenta dopo i 50 anni raggiungendo il picco nella decade tra i 70 e gli 80
anni. E’ noto che la malattia è più frequente alle alte latitudini (specie nei paesi scandinavi). Dati epidemiologici confermano che la incidenza della malattia è rimasta relativamente stabile negli ultimi 30 anni.
La mortalità dei pazienti affetti da PMR non differisce da quella della popolazione di pari età.
I criteri diagnostici utilizzati generalmente nella pratica clinica sono quelli definiti su base empirica da Healey nel 1984 ma ne sono stati proposti molti altri.
Criteri Diagnostici di Healey per la PMR
1. Età superiore ai 50 anni
2. Dolore della durata superiore alle 4 settimane che coinvolge almeno 2 delle seguenti
aree : collo, cingolo scapolare, cingolo pelvico
3. Rigidità mattutina superiore ai 60’
4. VES superiore ai 40 mm/prima ora
5. Rapida risposta alle basse dosi di steroidi (< 20 mg/die prednisone equivalente)
6. Assenza di altre patologie capaci di causare gli stessi sintomi.
Un paziente può essere definito affetto dalla polimialgia reumatica se soddisfa almeno 4
dei primi 5 criteri.
PATOGENESI
La PMR è probabilmente una malattia a genesi multifattoriale con coinvolgimento sia di
fattori genetici che ambientali. Tra i fattori ambientali sono stati sospettati agenti virali
(Chlamydia o parvovirus) mentre tra i fattori genetici è nota la associazione con i geni
del complesso di istocompatibilità HLA-DRB1*04 e DRB1*01 (come si osserva nell’artrite reumatoide).
MANIFESTAZIONI CLINICHE
La combinazione di dolore con rigidità di almeno 30’ ai cingoli scapolare e pelvico e
con VES superiore ai 40 mm/prima ora in una persona di più di 60 anni di età è fortemente suggestiva di PMR. Tipicamente il dolore è bilaterale, si irradia lungo gli arti (sino
al gomito o al ginocchio), tende ad accentuarsi con il movimento ed è associato a importante limitazione nello svolgimento delle proprie attività quotidiane.
Il dolore è accentuato anche dal movimento passivo svolto durante la visita. Le spalle
sono coinvolte più frequentemente (dal 70 al 95%) rispetto alle anche (50-70%). Il dolore può essere inizialmente monolaterale ma entro pochi giorni si estende anche all’altro
140
lato. Un terzo dei pazienti lamenta anche segni o sintomi sistemici (febbre, calo ponderale, iporessia, astenia) che a volte (10% dei casi ) possono essere i soli sintomi d’esordio.
Circa la metà dei pazienti associa sintomi distali caratterizzati da artrite (in genere localizzata alle ginocchia, caviglie, polsi e metacarpo-falangee), sindrome del tunnel carpale
o edema improntabile al dorso delle mani, dei piedi, dei polsi o delle caviglie dovuto a
tenosinovite dei tendini estensori e flessori.
Un terzo dei pazienti con PMR ha anche sintomi cranici riferibili alla presenza contemporanea di arterite giganto-cellulare che viene confermata biopticamente nel 20% dei
casi (all’inverso il 40-60% dei pazienti con arterite giganto-cellulare presenta sintomi di
PMR). La PMR può iniziare prima , contemporaneamente o dopo lo sviluppo di un arterite GC. Non è necessario, a nostro parere, eseguire una biopsia della arteria temporale in ogni paziente con PMR ma solo in quelli che presentano sintomi suggestivi di arterite.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
Può essere a volte difficile differenziare la PMR dalla artrite reumatoide dell’anziano
che può presentarsi con una localizzazione prevalente alle articolazioni prossimali degli
arti ed è spesso siero-negativa. Una patologia associata alla PMR è la sinovite simmetrica sieronegativa con edema improntabile (cosiddetta sindrome RS3PE) che colpisce
soggetti della stessa età ed è caratterizzata da dolore e tumefazione del dorso delle mani o dei piedi. In genere questi pazienti riferiscono sintomi polimialgici e secondo noi le
due malattie sono manifestazioni diverse dello stesso spettro clinico.
Altre malattie reumatiche che a volte si presentano con le caratteristiche della PMR
possono essere il lupus eritematoso sistemico, le spondiloartropatie o la fibromialgia degli anziani. Una attenta valutazione clinica e il follow-up permettono generalmente di
differenziare con queste patologie.
Tra le malattie non reumatiche sono da ricordare l’endocardite batterica o le sindromi
paraneoplastiche ma in questi casi la risposta allo steroide è modesta e la rigidità mattutina è in genere scarsa.
IMAGING
Con l’uso della risonanza magnetica o l’ultrasonografia è facile riconoscere in quasi tutti i pazienti affetti da PMR la presenza di una borsite subacromiale, in genere bilaterale,
e una dilatazione della guaina del tendine bicipitale. Secondo noi questo quadro è caratteristico della PMR tanto che lo utilizziamo come criterio diagnostico nei casi ad insorgenza atipica (esempi con bassi valori di VES o con sintomi prevalenti di tipo sistemico).
TERAPIA
La terapia di base della PM è rappresentata dai corticosteroidi a basso dosaggio. In genere un dosaggio iniziale di 10-20 mg di prednisone è sufficiente in più del 90% dei casi. Tipicamente la risposta agli steroidi è molto rapida (anche solo 48-72 ore). Se il paziente non migliora entro una settimana è necessario rivalutare la diagnosi. Il dosaggio
iniziale va somministrato per 2-4 settimane e generalmente è possibile ridurlo ogni 3-4
141
settimane del 10% senza ricadute della malattia. In caso di eccessiva rapidità nella riduzione del dosaggio è comune la ricorrenza dei sintomi. Sono comunque frequenti
spontanee esacerbazioni della malattia, in genere nei primi due anni dall’inizio dei sintomi, indipendenti dal dosaggio dello steroideo e che rispondono bene all’aumento del
dosaggio del farmaco.
Il monitoraggio del paziente va effettuato ogni 3-4 mesi valutando l’andamento clinico
della malattia e tra i tests di laboratorio la determinazione della VES e della PCR. In genere la durata della terapia steroidea è di circa 2-3 anni ma alcuni pazienti hanno rapide ricadute ogni volta che si tenta di sospendere il trattamento. In circa il 40% dei casi
la durata della terapia può essere di molti anni. Attualmente non si conoscono fattori in
grado di predire la durata della terapia con CS.
Gli eventi avversi da streroidi sono molto comuni: secondo uno studio recente sino al
65% dei pazienti con PM presenta almeno un evento avverso da CS. Gli eventi avversi
più comuni sono le fratture osteoporotiche e l’insorgenza di diabete mellito (da 2 a 5
volte più frequenti rispetto alla popolazione di controllo).
Sono attualmente in corso studi sull’uso di methotrexate o di farmaci biologici come
agenti risparmiatori di steroidi ma i dati attuali non sono sufficienti a consigliarne l’uso.
142
Convegno 7 dicembre 2002: “L’attuale approccio del medico di medicina generale nelle demenze senili”
Abstract:
Mauro Bonomini
Medico di Medicina Generale - Piacenza
Nei confronti della demenza senile il MMG è in prima linea sia per quanto riguarda la
diagnosi precoce che per quanto riguarda la terapia farmacologia e non farmacologia.
In un numero notevoli di casi i primi sintomi della malattia, per quanto sfumati, vengono esplicitati proprio nell’ambulatorio del MMG da parte dei pazienti o dei loro famigliari. Le sintomatologie che più frequentemente sono riportate riguardano:
- dismnesie
- episodi di disorientamento
- turbe del comportamento
- distimie
- iniziale trascuratezza della persona e dell’igiene
- problemi nella sfera alimentare
Per tutta questa sintomatologia è necessario prestare attenzione ad una corretta diagnosi differenziale, in modo da escludere le forme di deterioramento cognitivo non
dovute alla demenza, ma da ascriversi principalmente a:
- depressione dell’anziano (situazionale, endoreattiva a lutti o traumi emotivi)
- problemi iatrogeni (effetti collaterali, alterata compliance, sovradosaggi)
- malattie francamente psichiatriche
- alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico e della funzionalità cardiorespiratoria
Uno strumento efficace e di facile somministrazione per aiutare a dirimere i dubbi
diagnostici è il MMSE, un test rapido nell’esecuzione e nell’interpretazione e con una
sufficiente sensibilità e specificità. Questa sua semplicità lo rende idoneo alla somministrazione sia in ambulatorio di MG che a domicilio del paziente. A complemento di
questo è possibile poi utilizzare altre scale valutative, indicative dell’autonomia e delle residue capacità operative del paziente: BADL, IADL, BANSS e altre. La somministrazione di questi ulteriori test è comunque possibile con relativa facilità anche nello
studio di MG.
Molto importante, ai fini della predisposizione di un piano terapeutico complessivo e
che utilizzi anche servizi integrati, è la raccolta di informazioni sulla situazione familiare, abitativa e relazione del paziente. Gli elementi raccolti dal MMG saranno infetti
utili nella programmazione delle varie tipologie di intervento.
Per quanto riguarda l’approccio farmacologico il MMG non deve limitarsi a considerare i farmaci specifici per il deterioramento cognitivo, ma deve armonizzare le politerapie, che quasi sicuramente il paziente già sostiene, con farmaci ansiolitici, neurolettici, antidepressivi che contribuiscono a controllare le manifestazioni secondarie del
deterioramento cognitivo: insonnia, agitazione psicomotoria, depressione, eventuali
143
episodi deliranti.
Con il suo bagaglio di conoscenza della persona nella sua globalità e con la facilità all’approccio al paziente che il MMG ha tra il suo bagaglio professionale è evidente come egli diventi una figura importante anche nelle strutture protette dedicate agli anziani. Sia nelle strutture residenziali che in quelle residenziali il MMG rappresenta per
gli anziani un collegamento solido e rassicurante con la vita relazionale precedente e
un custode della memoria storica della sua salute. L’abitudine al lavoro territoriale
permette al MMG una qualità di relazione con il suo paziente anziano che difficilmente si può riscontrare in altre situazione e contribuisce con questa sua caratteristica all’agganciamento residuale alla realtà, per quanto consentito dalla gravità della
malattia. La frequentazione abituale anche della famiglia del paziente permette anche una miglior gestione delle dinamiche (a volte anche conflittuali) che si instaurano
nel momento in cui uno dei componenti inizia a presentare sintomi di deterioramento cognitivo. L’opera di sensibilizzazione e di educazione al problema svolta dal
MMG verso i famigliari può essere quindi importante e significativa e attutire, quando
non ridurre al minimo, l’impatto psicologico negativo scatenato da questa nuova, pesante situazione.
144
Efficacia e sicurezza delle terapie farmacologiche
nelle demenze senili
Dott. Francesco Nonino
Ce.V.E.A.S.
Centro per la Valutazione dell’Efficacia dell’Assistenza Sanitaria
Modena
L’approccio terapeutico ai pazienti affetti da demenza è reso particolarmente complesso dalla coesistenza di disturbi cognitivi, comportamentali e psicologici con importanti ricadute sulle capacità funzionali e sulla vita di relazione, che alla sofferenza
del malato aggiungono un gravoso carico assistenziale a chi lo assiste.
A fronte di importanti acquisizioni sui meccanismi patogenetici delle demenze – in
particolare della malattia di Alzheimer (MA), che ne rappresenta la forma più frequente – gli intensi programmi di ricerca svolti nell’ultimo decennio non hanno fornito contributi altrettanto sostanziali in campo terapeutico, e gli strumenti farmacologici
a disposizione sono purtroppo ancora limitati. In sintesi si può affermare che le novità
principali degli ultimi anni sono stati gli inibitori delle colinesterasi, relativamente alla
terapia del declino cognitivo nella MA, e gli antipsicotici atipici nella terapia dei disturbi comportamentali e psicotici associati a demenza. Oltre a questi, molti altri farmaci appartenenti a categorie disparate (antiepilettici, vitamine, anti-infiammatori,
etc.) vengono spesso presentati dalle fonti di informazione biomedica e dall’industria
farmaceutica come valide strategie terapeutiche. Talvolta è quindi difficile per il clinico capire quali siano le terapie supportate dalle migliori prove di efficacia e sicurezza.
Scopo di questa relazione è di esaminare sinteticamente la letteratura disponibile sull’argomento, tenendo presenti alcuni criteri metodologici che consentano di individuare studi di buona qualità il cui disegno, conduzione e analisi dei dati portino a risultati validi, cioè verosimilmente non distorti da errori o dalla possibilità di associazioni casuali. Alla luce di risultati validi, spetterà al clinico valutarne poi la rilevanza
per la propria pratica, e la applicabilità ai propri pazienti nel proprio setting assistenziale.
Nell’affrontare la letteratura sulle terapie farmacologiche per la demenza prenderò in considerazione due tipi di pubblicazioni, gli studi randomizzati controllati e le revisioni sistematiche, reperibili sulla banca dati elettronica MEDLINE (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/entrez/query.fcgi?) e sulla banca dati della Cochrane Library (http://www.updatesoftware.com/cochrane/).
Perché privilegiare RCT e revisioni sistematiche?
Considerando la terapia farmacologica, il disegno di studio più appropriato per individuare differenze tra un trattamento e un placebo, o per confrontare due o più trattamenti diversi, è quello randomizzato (in cui cioè l’assegnazione al gruppo di trattamento o di controllo è casuale) e controllato (il gruppo sottoposto a intervento viene
confrontato con un gruppo di controllo, a cui viene somministrato un placebo o un
altro farmaco). Per ridurre al minimo la possibilità di errori dovuti al condizionamento
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dei pazienti e/o degli sperimentatori, spesso questi studi vengono condotti “in cieco”,
in modo tale, cioè, che sia lo sperimentatore, sia il paziente, sia chi valuta i risultati
siano ignari del gruppo di assegnazione. Spesso questo tipo di studio viene indicato,
anche in italiano, con l’acronimo RCT, dall’inglese Randomised Controlled Trial, o
definito come “studio primario”.
La revisione sistematica invece, partendo da un quesito clinico specifico (ad es. “il
donepezil è efficace nel migliorare le performances cognitive nel paziente con MA di
grado lieve-moderato?”), individua tutti gli studi primari focalizzati su di esso, eventualmente cumulandone i risultati in una analisi quantitativa (metanalisi) che fornisce
una stima complessiva dell’effetto di quel trattamento rispetto ad una alternativa terapeutica (placebo o un altro farmaco).
Il termine “sistematica” si riferisce al fatto che le modalità di reperimento, di inclusione/esclusione degli articoli e la loro valutazione qualitativa vengono rigorosamente
definiti a priori, allo scopo di garantire una sintesi esaustiva e al tempo stesso scevra
da componenti soggettive del ricercatore nella selezione dei lavori.
Seguendo un approccio evidence-based gli RCT e le revisioni sistematiche sono da
privilegiare rispetto a studi non controllati o a revisioni tradizionali, in quanto espongono a un minor rischio di essere influenzati da risultati non validi o da opinioni personali poco obbiettive.
Ricerca sulle terapie nella demenza: problemi generali
Nonostante la vastità della letteratura sulle terapie farmacologiche per la demenza, gli
studi pubblicati che soddisfano i principali criteri di qualità metodologica sono sorprendentemente pochi, e molti autori di revisioni sistematiche sull’argomento concordano nell’individuare alcuni problemi comuni che rendono difficile la produzione
di dati validi e generalizzabili. La demenza è una malattia i cui sintomi riguardano soprattutto il dominio cognitivo e psicologico, con ricadute sull’autonomia funzionale.
Purtroppo non esiste alcun esame strumentale che da solo permetta una diagnosi
certa di demenza, e la valutazione diagnostica deve essere fatta mediante scale e criteri che lasciano spazio alla soggettività dell’esaminatore. Oltre a questa possibilità
(per altro molto ridotta, utilizzando i più recenti strumenti diagnostici) non bisogna
dimenticare che spesso - anche considerando studi diversi sullo stesso farmaco - i criteri di inclusione cambiano da studio a studio, portando così alla selezione di popolazioni di pazienti con diversi tipi di demenza, o con differenti livelli di gravità. Anche
una valutazione oggettiva degli esiti (declino cognitivo, disturbi psicotici o comportamentali, declino dell’autonomia funzionale) è molto difficile in mancanza di strumenti diagnostici accurati che consentano la riproducibilità e la confrontabilità dei risultati, che vengono espressi mediante scale a punteggio, con intervalli numerici di diverso significato (talvolta una variazione positiva del punteggio significa un miglioramento, altre volte il contrario).
La rilevanza degli effetti di una terapia (cognitiva o antipsicotica) su un malato con
demenza, al di là dell’effetto “sintomatico” sulle performances cognitive o comportamentali, dovrebbe anche essere identificata con il miglioramento della percezione
della qualità di vita del paziente (quando compatibile con il grado di deterioramento
cognitivo) e con il beneficio percepito dai familiari relativamente al carico assistenzia146
le imposto dalla malattia. I pochi dati disponibili in questo senso fanno sollevare riserve da parte di molti ricercatori sull’effettiva utilità pratica degli interventi farmacologici nella demenza.
Un altro problema è rappresentato dall’elevata percentuale di risposta al placebo (fino a oltre il 50%) che si osserva in tutti gli studi, indipendentemente dalla loro qualità
metodologica. Il fenomeno, infatti, è apparentemente inevitabile, in quanto risultato
dell’effetto terapeutico “comportamentale” costituito dalla maggiore attenzione e dal
più intenso monitoraggio ricevuto dai pazienti inclusi in un trial clinico, anche se facenti parte del gruppo a cui viene somministrata una sostanza non farmacologicamente attiva, quale appunto è il placebo. Una alta risposta al placebo non va quindi
interpretata come indice di scarsa qualità dei risultati, ma deve d’altro canto indurci a
ridimensionare l’effetto dei farmaci, valutandone il beneficio “netto” rispetto al livello di miglioramento che si potrebbe ottenere con interventi esclusivamente non farmacologici.
Terapie cognitive
1. Inibitori delle colinesterasi
Gli inibitori delle colinesterasi (ICE) rivastigmina, galantamina e donepezil, si sono dimostrati efficaci nel rallentare la progressione del declino cognitivo nella MA, misurata mediante scale specifiche (più comunemente ADAS-Cog, CIBIC-Plus, MMSE), e
mediante strumenti che valutano la qualità di vita e la limitazione funzionale. I risultati degli studi condotti sul donepezil nella MA di grado lieve-moderato sono stati cumulati in una metanalisi (Birks 2000), che ha mostrato un miglioramento a 12 mesi
nel 24% dei pazienti trattati con 10mg/die (13% di migliorati nel gruppo placebo e
23% tra i pazienti trattati con 5mg/die). Il miglioramento è quantificabile come una
riduzione media di 2,9 punti alla scala ADAS-Cog e un incremento di 1,7 punti al
MMSE. Tra i pazienti con MA di grado moderato-grave (MMSE 5-17) trattati per 6
mesi con donepezil 10mg/die, il 63% migliora o rimane invariato (valutazione mediante scala CIBIC), a fronte del 42% nel braccio trattato con placebo. (Feldman
2001) Anche la rivastigmina, a dosaggi giornalieri compresi tra 6 e 12 mg, ha mostrato effetti positivi sulle funzioni cognitive e sull’autonomia nelle attività della vita quotidiana dei pazienti con MA. (Birks 2000)
Per quanto concerne la sicurezza e la tollerabilità degli ICE, gli effetti avversi più frequenti sono di tipo colinergico, in particolare nausea e vomito; nel corso di 6 mesi di
terapia la probabilità di sviluppare uno di questi due sintomi è da 3 a 4 volte superiore
tra i pazienti che assumono ICE rispetto a pazienti trattati con placebo. D’alta parte il
tasso di abbandono della terapia a causa di effetti avversi non è significativamente superiore rispetto al gruppo placebo, indicando una buona tollerabilità globale.
Pur considerando queste prove di efficacia, alcuni problemi sostanziali rimangono
aperti, soprattutto per quanto concerne la ricaduta pratica sul paziente e sul caregiver
di un miglioramento numerico riscontrato nelle scale cognitive. Come accennato in
precedenza infatti, pochi degli studi pubblicati considerano tra gli indicatori di esito
la qualità di vita e il carico assistenziale per i caregivers; inoltre sono ancora scarsi i
dati di costo-efficacia delle terapie con ICE.
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2. Altre terapie
Terapia ormonale sostitutiva: gli studi condotti sinora non hanno dimostrato effetti terapeutici nelle pazienti con demenza lieve (Henderson 2000, Mulnard 2000), ne’ un
effetto protettivo sulle persone sane (Yaffe 1998). Due grandi studi prospettici, il cui
obbiettivo è la valutazione dell’effetto cognitivo della terapia ormonale, sono attualmente in corso: lo studio WHIMS (terapia combinata con estro-progestinici versus
placebo) e lo studio WISDOM (estrogeni a lungo termine).
Antiinfiammatori: i processi flogistici sembrano avere un ruolo importante nello sviluppo delle lesioni istopatologiche tipiche della MA e di altre forme di demenza. Sulla base di questo presupposto fisiopatologico si è ipotizzato che i farmaci antiinfiammatori potrebbero avere qualche utilità nel rallentare la progressione della malattia.
Gli studi randomizzati controllati pubblicati su prednisone (Aisen 2000), diclofenac
(Scharf 1999) e idrossiclorochina (Van Gool 2001) non hanno tuttavia fornito sostanziali prove di efficacia. Una revisione sistematica sull’indometacina (Tabet 2002) conclude che non vi sono indicazioni per raccomandarne l’uso nei pazienti con MA, e
che dosi pari a 100-150mg espongono al rischio di seri effetti collaterali.
Altre terapie: diversi studi sono stati condotti su antiossidanti (selegilina, vitamina E)
ed estratti vegetali (ginkgo biloba). Alcuni di essi hanno fornito risultati incoraggianti,
ma per nessuna di queste sostanze è stato finora provato un effetto clinicamente rilevante, tale da giustificarne l’uso. Un importante studio sull’utilità della pravastatina
nella prevenzione di eventi vascolari negli anziani (studio PROSPER) è al momento in
corso, e potrà forse fornire dati anche sul possibile ruolo delle statine nella demenza.
Terapie non cognitive (disturbi psicologici e comportamentali)
Oltre ai disturbi della sfera cognitiva, nei pazienti dementi sono comuni i disturbi psicologici e comportamentali (BPSD), soprattutto depressione, agitazione o turbe psicotiche (allucinazioni e deliri). Queste ultime manifestazioni in particolare possono
creare situazioni problematiche per chi assiste il malato, e sono tra le cause più frequenti di istituzionalizzazione.
1. Antipsicotici (neurolettici)
Sono considerati il trattamento di scelta nelle turbe psicotiche e nell’agitazione del
paziente con demenza. Comunemente le molecole di “vecchia generazione” (aloperidolo, clorpromazina, prometazina, etc…) vengono denominate “antipsicotici tradizionali”, per distinguerli dai cosiddetti “atipici” (risperidone, olanzapina, quetiapina)
di più recente introduzione. Nonostante il largo uso che se ne fa nella pratica clinica,
gli antipsicotici hanno dimostrato scarsa efficacia e una frequente insorgenza di effetti collaterali di tipo extrapiramidale, alcuni dei quali (discinesia tardiva) possono persistere anche dopo la sospensione della terapia, costituendo una ulteriore causa di disabilità per il malato.
Antipsicotici tradizionali: quattro revisioni sistematiche (Schneider 1990, Lanctôt
1998, Lonergan 2001, Kirchner 2001) che hanno cumulato i risultati di decine di studi mostrano che l’effetto terapeutico degli antipsicotici rispetto al placebo varia tra il
18% e il 26%, con una quota di pazienti che rispondono al placebo compresa tra il
34% e il 50%. Gli autori di una metanalisi (Lanctôt 1998) sottolineano che l’efficacia
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clinica degli antipsicotici è modesta (26% dei pazienti migliorano clinicamente) e
pressoché controbilanciata dall’incidenza di effetti avversi (25% dei pazienti trattati).
Nessuna molecola si è dimostrata superiore alle altre in termini di efficacia, se si considerano i BPSD nel loro insieme. Considerando invece specifici tipi di BPSD, alcuni
studi mostrano che diverse molecole potrebbero essere più efficaci su alcuni sintomi;
l’aloperidolo ad esempio sembra essere particolarmente efficace sull’aggressività rispetto al placebo (Lonergan 2001).
Antipsicotici atipici: una revisione sistematica (Davidson 2000) ha cumulato i risultati
dei quattro studi randomizzati controllati ad oggi pubblicati su risperidone e olanzapina nei BPSD. Rispetto al placebo la dimensione dell’effetto terapeutico è simile a
quella degli antipsicotici tradizionali (non esistono comunque studi “testa a testa” che
confrontino direttamente un antipsicotico tradizionale con un atipico). Il principale
vantaggio degli atipici è rappresentato da una minore incidenza di effetti collaterali
extrapiramidali, la cui frequenza si è mostrata analoga o di poco superiore a quella
osservata nel gruppo placebo. Gli autori della metanalisi ci mostrano comunque che
il bilancio beneficio-rischio per queste molecole è positivo di stretta misura: per avere un paziente migliorato in più rispetto a quanto succederebbe con l’uso del placebo bisogna trattare 8 pazienti con antipsicotici atipici; considerando invece gli effetti
avversi, ogni 10 pazienti trattati con risperidone o olanzapina ne avremo uno colpito
da sonnolenza, e ogni 13 trattati un nuovo caso con sintomi extrapiramidali.
Altri effetti avversi molto più rari ma gravi o potenzialmente fatali sembrano associati
sia agli antipsicotici tradizionali che agli atipici: disturbi del metabolismo lipidico e
glucidico, sindrome maligna da neurolettici, aritmie. (Brown 1999, Koro 2002, Coulter 2001, Ananth 2002)
2. Altre terapie
Antidepressivi: sono stati studiati sia in pazienti con depressione associata a demenza, sia in pazienti dementi non depressi con disturbi comportamentali. Una metanalisi (Bains 2002) ha mostrato che gli antidepressivi SSRI sembrano essere altrettanto efficaci e più sicuri dei triciclici, ma il dato proviene da pochi studi di dimensioni ridotte, impedendo di trarre una indicazione clinica definitiva.
ICE: in numerosi case-report il donepezil si è dimostrato efficace nel controllo dei
BPSD, tuttavia i pochi studi randomizzati controllati versus placebo hanno dato risultati contraddittori (Tariot 2001, Feldman 2001)
Altre terapie: benzodiazepine (Christensen 1998) e trazodone (Teri 2000) non hanno
dimostrato efficacia superiore agli antipsicotici sui BPSD. Tra gli antiepilettici, carbamazepina e acido valproico hanno mostrato risultati incoraggianti in studi di piccole
dimesioni. (Olin 2001, Tariot 1998, Porstensson 1998)
Conclusioni
• La ricerca sulle terapie farmacologiche nella demenza presenta numerose difficoltà
pratiche nell’esecuzione degli studi e nella interpretazione e generalizzabilità dei risultati, per cui, a fronte di una grossa mole di studi pubblicati, sono relativamente
pochi quelli che hanno prodotto risultati validi e clinicamente rilevanti
• I farmaci ICE (in particolare il donepezil) si sono dimostrati efficaci nel rallentare la
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progressione del declino cognitivo dei pazienti con MA, ma la ricaduta pratica di
questi risultati per il paziente e per chi lo assiste rimane incerta, e importanti quesiti sulla gestione della terapia da parte del medico (durata, criteri per l’interruzione,
scelta della molecola, switching da una molecola all’altra) sono tuttora oggetto di
dibattito
• Altre terapie diverse dagli ICE vengono suggerite come potenzialmente efficaci nel
trattamento dei disturbi cognitivi, ma al momento non vi sono dati sufficienti a giustificarne l’utilizzo.
• Gli antipsicotici – pur essendo considerati il trattamento di scelta nei BPSD – possiedono un’efficacia modesta e pressoché controbilanciata dal rischio di effetti avversi, soprattutto di tipo extrapiramidale. L’aloperidolo sembra avere effetto soprattutto sull’aggressività, suggerendo che diverse molecole potrebbero essere più efficaci su specifici tipi di BPSD.
• I neurolettici atipici sembrano altrettanto efficaci rispetto ai tradizionali, ma con minore incidenza di effetti avversi extrapiramidali. Non essendo tuttavia disponibili
studi di confronto diretto tra neurolettici tradizionali e atipici, non vi sono dati per
preferire questi ultimi come farmaci di prima scelta nei BPSD.
• I dati sul trattamento farmacologico dei BPSD dovrebbero indurre i clinici ad un
uso prudente e non indiscriminato degli antipsicotici, che comunque dovrebbe essere preceduto da tentativi terapeutici non farmacologici.
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Convegno 14 dicembre 2002 “Scompenso cardiaco. Linee guida”
ABSTRACT su Hub & Spoke
Alessandro Capucci
Dirigente Responsabile U.O. Cardiologia
Ospedale G. da Saliceto - Piacenza
Per Hub&Spoke si intende un modello organizzativo che prevede un Centro di riferimento che eroga prestazioni di alta specializzazione (ex. Emodinamica, Elettrofisiologia,…) per Centri afferenti collegati con lo stesso.
Tale sistema permette di costituire una rete integrata di servizi con conseguente ottimizzazione delle risorse presenti nell’ambito di una Azienda Sanitaria Locale che dovrebbero consentire un accesso omogeneo alle prestazioni complesse per tutti i cittadini residenti nel territorio di competenza.
Obiettivi del modello Hub&Spoke riguardante la cardiologia dell’ASL di Piacenza sono:
1) miglioramento degli indici di mortalità e morbilità per patologia, con conseguente
miglioramento della “salute” dei cittadini/utenti;
2) ottimizzazione e razionalizzazione delle risorse esistenti nel territorio;
3) riduzione dei costi aziendali per patologia;
4) riduzione dei costi relativi alla mobilità passiva extra-regionale per patologia.
Dal punto di vista operativo, l’attività organizzativa si è rivolta a:
1) attivazione di protocolli diagnostico-terapeutici comuni a tutte le realtà operative
cardiologiche del territorio;
2) costituzione di percorsi assistenziali e terapeutici mirati alle singole patologie;
3) attività di prevenzione secondaria mediante attivazione di protocolli di follow-up;
4) verifica periodica dei risultati ottenuti e monitoraggio degli indicatori di processo
(VRQ);
5) attività periodica di formazione ed aggiornamento.
I progetti/obiettivo in programmazione e/o in attuazione sono:
a) cardiopatia ischemica: sindromi coronariche acute;
b) scompenso cardiaco: progetto di Home care;
c) aritmie cardiache: diagnostica e terapeutica;
d) riabilitazione del cardiopatico;
e) defibrillazione precoce.
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Scompenso Cardiaco
Dott. Massimo Piepoli
1. Che cosa è, di cosa si parla e perché
Definizione: Patologia Multisistemica, non solo del cuore ma dell’intero organismo
Lo scompenso cardiaco è una situazione fisiopatologica in cui un’insufficiente attività
contrattile rende il cuore incapace di garantire una portata adeguata alle esigenze
metaboliche dell’organismo, sotto sforzo e successivamente a riposo determinando di
consequenza modificazioni ed adattamenti a carico di tutti gli apparati e organi.
Queste modificazioni se inizialmente sono di compenso con il tempo vengano ad essere deleteri per l’organismo, determinano progressivamente un peggioramento del
quadro clinico, creando così un circolo vizioso che perpetua e tende a peggiorare la
patologia.
Lo scompenso cardiaco è una patologia multisistemica, gravemente debilitante. Malgrado la causa iniziale sia un danno primitivo a cardico del sistema cardiovascolare
con conseguente riduzione delle riserve funzionali, successivamente si sviluppano alterazioni in altri sistemi come ad esempio quelli respiratorio, autonomico, muscoloscheletrico, ormonale. Questi danni multisistemici sono ancora solo parzialmente
studiati, ma determinano come conseguenza una riduzione della tolleranza allo sforzo, contribuendo a diverso livello ai sintomi di facile affaticabilità e dispnea propri di
questa sindrome, e quindi di limitazione funzionale.
“Una problematica sanitaria maggiore”
Lo scompenso cardiaco è diventata una problematica sanitaria di primaria importanza
con un importante ripercussioni non solo dal punto di vista clinico (per le limitazioni
funzionali, handicap fisici e psicologici, e la conseguente dipendenza che caratterizzano i pazienti affetti), ma anche per il grosso impatto socio-economico. Di conseguenza, lo scompenso cardiaco viene ora definita come "problematica sanitaria maggiore" in quanto stiamo assistendo ad incremento in proporzioni epidemiche. Infatti è
l’unica condizione clinica che sta aumentando in incidenza, prevalenza e mortalità e
rimane responsabile per costi umani ed economici sempre maggiori.
Scompenso Cardiaco: patologia in espansione
L’incidenza di scompenso cardiaco è in aumento nei paesi occidentali: esso attualmente è il problema clinico più importante in Europa e negli USA. E’ stato stimato
che circa 2 milioni in Italia, sono affetti da scompenso cardiaco; presenta un’incidenza totale nella popolazione generale tra 0.5-1.5%
Motivi:
- assistiamo ad una riduzione del tasso di mortalità successivamente ad accidenti acuti, come l’infarto del miocardio. Quindi i pazienti sopravvivono più a lungo fino a
sviluppare la patologia cronica dello scompenso cardiaco, come conseguenza tardiva del danno miocardico: quasi il 50% dei pazienti che sopravvivono all’infarto
miocardico sviluppano scompenso cardiaco.
- l’età media della popolazione è in aumento, La sua’incidenza si accresce con l’au154
mentare dell’età e sopra i 70 anni di età la prevalenza di scompenso cardiaco è
compresa tra 5-10%.
- inefficacie prevenzione e lotta ai fattori di rischio
L’aspettativa di vita è drammaticamente ridotta in questo gruppo con una sopravvivenza a 5 anni del 50%. Inoltre, più di 1/3 dei pazienti con scompenso cardiaco necessita di ricovero ospedaliero ogni anno. Il tasso di ricovero ospedaliero è di 0.5%
per anno, ma tra coloro che vengono dimessi il tasso di nuovo ricovero è del 40%
nell’arco dell’anno successivo.
2. Richiamo alle Linee Guida - Applicazioni pratiche delle proposte operative.
Facendo riferimento alle Linee Guida della Società Europee di Cardiologia sul trattamento dello Scompenso Cardiaco, possiamo trarre me seguenti applicazioni pratiche:
A. STABILIRE CON SICUREZZA LA DIAGNOSI
Devono essere presenti i seguenti caratteri:
1. Sintomi di SC (a riposo o durante sforzo)
2. Segni obiettivi di disfunzione cardiaca
3. Risposta adeguata alla terapia.
I caratteri 1 e 2 sono indispensabili.
B. IDENTIFICAZIONE DEI SEGNI DI SEVERITA'
Sintomi e segni di congestione:
- dispnea da sforzo
- ortopnea
- dispnea parossistica notturna
- rumori di stasi polmonare
- nicturia
- oliguria
- disturbi addominali (dolore, nausea, tensione)
- edemi declivi
- turgore giugulare
- epatomegalia da stasi
- versamento pleurico trasudatizio
- ascite
Sintomi e segni di bassa portata:
- stanchezza e facile stancabilita’ sotto sforzo
- confusione mentale
- dimagrimento
- pallore e segni di ipoperfusione cutanea
C. DETERMINAZIONE DELLE CAUSE:
Nella eziologia dello SC non si evidenzano solo cause cardiache ma anche e piu'
spesso sistemiche, che devono essere trattate
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- Patologie cardiache:
patologia ischemica
aritmie
valvulopatie
malattie pericardio
- Patologie sistemiche
Ipertensione arteriosa
Anemia
Tireopatie
Farmaci
D. TRATTAMENTO:
I - OSPEDALIZZAZIONE URGENTE se presenti
1. Edema polmonare o dispnea a riposo con ortopnea
2. Anasarca o severi edemi declivi con segni di grave congestione venosa (turgore
giugulare, epatomegalia) e/o oliguria
3. Ipotensione arteriosa (pressione sistolica <80 mmHg) o sincope
4. Aritmie minacciose (cioé, extrasistolia ventricolare frequente, tachicardia ventricolare)
5. Evidenza clinica o strumentale di ischemia miocardica
6. Malattie concomitanti aggravanti lo scompenso
7. Refrattarieta' alla terapia farmacologica orale
8. Inadeguata assistenza domiciliare
II - Altrimenti TRATTAMENTO DOMICILIARE
A. Pazienti con Disfunzione Ventricolare Sinistra ma asintomatici (Classe NYHA I)
-> ACE-Inibitore
B. Pazienti con Disfunzione Ventricolare Sinistra ma sintomatici (Classe NYHA II: sintomatici durante attività fisica quotidiana) e/o con segni di ritenzione idrica:
-> ACE-Inibitore + diuretico tiazidico + diuretico inibitore dell'aldosterone
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C. Pazienti con Disfunzione Ventricolare Sinistra ma severamente sintomatici (Classe
NYHA III: sintomatici durante attività fisica inferiore a quella quotidiana e/o a riposo)
-> ACE-Inibitore + diuretico ansa + diuretico inibitore aldosterone
1. raggiungere la dose massima tollerata
2. se insufficiente aumentare il dosaggio del diuretico
3. aggiungere la digitale
4. inizio terapia beta-bloccante (BB) ma sotto controllo di specialista
In caso di intolleranza all’ACE-inibitore, è consigliato l’uso di Inibitori dei Recettori
dell’Angiotensina.
N.B.
1. quando il paziente si stabilizza proseguire con la terapia in atto.
2. IMPORTANZA delle Misure generali:
I. Consigli generali
1. Controlli: quotidiano dei sintomi (dispne, affaticamento), peso
2. Attivita' Sociale e lavoro: evitare isolamento sociale o mentale del paziente: le attività sociali devono essere incoraggiate
157
3. Viaggi: evitare viaggi prolungati, altitudini, temperature troppo alte o troppo basse
4. Vaccinazioni
5. Contraccezione
II. Misure generali ed abitudini di vita:
1. Dieta: evitare sovrappeso, controllo del sale
2. Fumo: eliminare
3. Alcool: riduzione
4. Esercizio fisico: consigliato
Bibliografia
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Dec;17(12):1777-8.
Coats AJS, Clark AL, Piepoli M, Volterrani M and Poole-Wilson PA. Symptoms and
quality of life in heart failure; the muscle hypothesis. Br Heart J 1994; 72 (Suppl):
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heart failure: the muscle hypothesis. Cardiologia. 1998 Sep;43(9):909-17.
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The Task Force of the Working Group on Heart Failure of the European Society of
Cardiology. The treatment of Heart Failure. Eur Heart J 1997;18:736-53.
158
Immagine del primo novecento tratte dall’archivio storico
dell’Ospedale di Piacenza.
Radiologia e Fisioterapia:
le prime strumentazioni
(1930 circa).
159
Finito di stampare
nel mese di aprile 2004
Grafiche Lama - Piacenza
160
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