Inquadramento sistematico: la colpevolezza nella struttura del reato

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Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012
DIRITTO PENALE I
Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato
dott. Michele Toriello
§ 1 - Inquadramento sistematico: la colpevolezza nella struttura del reato.
Secondo la teoria della tripartizione, sviluppata dalla dottrina tedesca e poi seguita dalla prevalente dottrina
italiana, il reato si compone di tre elementi: tipicità, antigiuridicità e colpevolezza
Il fatto tipico è il fatto umano corrispondente alla fattispecie descritta da una norma incriminatrice, inteso
come fatto materiale nei suoi requisiti oggettivi (condotta, evento, nesso di causalità). La tipicità del fatto è la
necessaria appendice del principio di legalità formale, del nullum crimen sine lege, perché solo attraverso la
tipicità è possibile indicare ai consociati quali fatti devono astenersi dal compiere per non incorrere nella
sanzione penale.
Può tuttavia accadere che un fatto tipico, ossia un fatto oggettivamente corrispondente alla fattispecie legale,
non per ciò solo contrasti con i dettami dell’ordinamento giuridico: il fatto tipico integra invero un illecito
penale solo se, da un lato, è riconducibile alla responsabilità del soggetto che lo ha commesso, e dall’altro
contrasta con l’ordinamento giuridico. Dunque, oltre che tipico, il fatto deve essere colpevole e antigiuridico.
L’antigiuridicità indica la contrarietà del fatto all’ordinamento giuridico: può invero accadere che un fatto
astrattamente corrispondente alla fattispecie descritta nella norma incriminatrice sia giustificato ovvero
consentito in base ad una valutazione effettuata alla stregua non solo dell’ordinamento penale, ma
dell’intero ordinamento giuridico. Poiché dunque un fatto consentito o addirittura imposto in un ramo
dell’ordinamento non può essere sanzionato da altro ramo dell’ordinamento, l’interprete, prima di giungere
alla conclusione che è stato commesso un illecito penale, deve verificare se il fatto non debba essere ritenuto
lecito sulla base di una norma extrapenale, non sia dunque “coperto” da una esimente, da una causa di
giustificazione.
La colpevolezza indica la volontà riprovevole nelle forme del dolo e della colpa: perché sia configurabile
l’illecito è necessario che vi sia un legame psichico tra il fatto ed il suo autore, poiché l’ordinamento può
legittimamente sanzionare solo ciò che il soggetto ha voluto realizzare, ovvero ciò che era in suo potere
prevedere e prevenire.
La colpevolezza sta dunque ad indicare la necessità che il fatto tipico ed antigiuridico appartenga anche da
un punto di vista psicologico al suo autore: non è sufficiente un nesso causale che leghi la condotta
all'evento, ma è necessario anche un nesso psichico che leghi la condotta all'agente (art. 27 Cost., principio
della personalità della responsabilità penale: nullum crimen, nulla poena sine culpa, ossia divieto per
responsabilità per fatto altrui, ma anche esigenza di una responsabilità per fatto proprio e colpevole; art. 27,
terzo comma, Cost.: la funzione rieducativa della pena non può che postulare quanto meno la colpa
dell’agente in relazione agli elementi significativi della fattispecie tipica).
Il discorso sulla colpevolezza è col tempo divenuto centrale e nevralgico nell’evoluzione del sistema penale:
se oggi non sono puniti i bambini, i giovani incapaci, i malati di mente, se, come stiamo per vedere, sulla
base di approfondite conoscenza psichiatriche lo Stato rinuncia alla pena anche in presenza di disturbi
psichici, se abbiamo progressivamente espunto dal sistema le ipotesi di responsabilità oggettiva o per il
mero evento, se anche nei delitti aggravati dall’evento oggi si pretende (con interpretazione
costituzionalmente orientata) che detto evento sia stato almeno causato da colpa, se si è arrivati a sostenere
che l’errore inevitabile sulla legge penale deve escludere la pena, tutto ciò lo si deve alla valorizzazione ed
alla corretta applicazione del principio di colpevolezza.
La colpevolezza assurge oggi dunque a principio cardine dell’intero sistema penale, principio di civiltà
giuridica, in quanto l’idea di colpevolezza presuppone il rifiuto della responsabilità per l’evento, della
responsabilità oggettiva: subordinare la punibilità alla colpevolezza equivale a bandire ogni forma di
responsabilità per accadimenti dovuti al mero caso fortuito, il cui verificarsi l’agente non ha potuto
signoreggiare.
Risparmiandovi tutte le elucubrazioni circa la concezione normativa ovvero psicologica della colpevolezza,
possiamo limitarci a ricordare che è “colpevole” il fatto realizzato con dolo o colpa, da un soggetto
imputabile, ed in assenza di cause di esclusione della colpevolezza.
§ 2 – L’imputabilità.
Preliminarmente occorre dare conto delle elaborazioni dottrinali circa la collocazione sistematica
dell’imputabilità: essa attiene alla teoria del reato, ovvero più semplicemente alla teoria del reo?
La dottrina classica (Antolisei, Pagliaro) e la giurisprudenza fino a qualche tempo fa prevalente escludevano
la necessità di un collegamento tra l’imputabilità e la colpevolezza, lasciando dunque l’imputabilità al di
fuori della struttura del reato: gli stati psichici che costituiscono il dolo e la colpa, si diceva, possono
riscontrarsi anche nella condotta dell’immaturo o dell’infermo di mente (un ragazzo di 13 anni può ferire
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intenzionalmente un compagno di giochi), ed il legislatore non ha offerto una duplice nozione degli elementi
soggettivi, distinguendoli a seconda che essi siano o meno realizzati da soggetti imputabili.
Peraltro gli articoli 222 e 224 c. p. dicono che la durata di misure di sicurezza quali il ricovero in ospedale
psichiatrico dipende dalla gravità del reato, gravità che a sua volta si desume, ai sensi dell’art. 133 c. p.,
anche dall’intensità del dolo o della colpa; da ciò si ricava che il giudice può in concreto applicare quella
misura di sicurezza solo dopo aver accertato il grado del dolo o della colpa del fatto compiuto dal soggetto
non imputabile.
Secondo la dottrina preferibile (Fiandaca, Mantovani) e la giurisprudenza oggi prevalente (cfr. per tutte
Cassazione penale, Sezioni Unite, 25 gennaio 2005, n. 9163) l’imputabilità deve essere ricondotta
nell’alveo concettuale della colpevolezza.
Se, come si è innanzi indicato, la colpevolezza indica la rimproverabilità della volontà antidoverosa del
soggetto agente, è necessario che alla base di questo giudizio vi siano da un lato la libertà di
autodeterminazione del soggetto, e dall’altro la sua capacità di intendere e di volere; il soggetto deve cioè
essere stato libero di scegliere di agire in quel determinato modo, ed ove una tale situazione non si sia
realizzata non potremo parlare di volontà colpevole, ma di volontà coartata o di volontà viziata.
A ben vedere i concetti del dolo e della colpa riflettono atteggiamenti della psiche che necessariamente
importano una conoscenza ed una volizione: in tanto si agisce dolosamente, in quanto si conosca la realtà e ci
si renda conto dell’azione che si compie e del risultato cui essa tende o conduce; in tanto si agisce
colposamente, in quanto ci si comporti con imprudenza, negligenza, imperizia, pur essendo capaci di agire
prudentemente e diligentemente.
Il folle potrà compiere atti determinati da impulsi riconducibili alla sua volontà: ma questa non è una
volontà giuridicamente qualificabile come dolo, poiché alla base del dolo (e della colpa) vi sono concetti che
presuppongono la normalità psichica (conoscenza, previsione, conoscibilità, prevedibilità). Ove tutto ciò
manchi, non potrà aversi colpevolezza, ma al più, come vedremo oltre, pericolosità sociale.
Nella nota e fondamentale sentenza alla quale prima si faceva cenno, le Sezioni Unite della Suprema Corte
chiariscono in motivazione che, nonostante la collocazione codicistica dell’art. 85 c. p. (siamo all’inizio del
titolo IV del primo libro, intitolato al reo ed alla persona offesa dal reato), l’imputabilità deve essere intesa
come capacità di colpevolezza, giacché non può esservi colpevolezza senza rimproverabilità, la quale postula, a
sua volta, la necessità, per la punibilità del reato, della effettiva coscienza, nell’agente, della antigiuridicità del fatto,
come definitivamente riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 364/1988.
In tanto ha senso, dunque, parlare di rimproverabilità di un atto, in quanto l’agente abbia effettiva coscienza
dell’antigiuridicità del fatto; ed in tanto può ritenersi tale coscienza, in quanto l’atto si inserisca nella facoltà
di controllo e di scelta dell’agente, l’atto medesimo rimanendo altrimenti ascrivibile a lui solo per una
relazione meccanicistica e meramente oggettiva.
Perché possa muoversi un rimprovero è dunque necessario che il soggetto sia capace di autodeterminarsi, di
controllare i propri impulsi ad agire, di orientarsi nella scelta dei motivi più ragionevolmente consoni ad una
concezione di valore, sia capace di gestire la sua libera autodeterminazione, di intendere i propri atti, di
rendersene conto, di orientarli.
§ 3 – La capacità di intendere e di volere.
Passando ora all’esame della disciplina dettata dal legislatore, vediamo come l’art. 85 c. p. detti il generale
principio in base al quale nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, al momento in cui
lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere.
L’articolo 85 fissa dunque i presupposti dell’imputabilità nella capacità di intendere (attitudine del soggetto
a conoscere la realtà esterna, a rendersi conto del valore sociale, positivo o negativo, degli atti che compie;
dunque la capacità di intendere è la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento e di
valutarne le possibili ripercussioni positive o negative sui terzi) e nella capacità di volere (attitudine del
soggetto ad autodeterminarsi, volendo ciò che l’intelletto ha giudicato di doversi fare, e quindi adeguando il
proprio comportamento alle scelte fatte; la capacità di volere è dunque la capacità di scegliere in modo
consapevole tra motivi antagonistici).
Gli articoli successivi fanno espresso riferimento ad alcuni parametri legalmente predeterminati (l’età,
l’assenza di infermità mentale, l’assenza di altre condizioni quali la cronica intossicazione da alcool o da
stupefacenti, il sordismo, ecc.), ma non vi è dubbio circa il fatto che le cause di esclusione della imputabilità
possano essere anche diverse ed ulteriori rispetto a quelle indicate dal legislatore (nell’esempio del Fiandaca,
il soggetto tenuto in segregazione fin dall’infanzia ovvero il soggetto cresciuto in stato di totale isolamento
socio culturale).
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§ 4 – La minore età.
Poiché la capacità di intendere e di volere presuppone lo sviluppo psicofisico del soggetto, l’art. 97 c. p.,
introducendo una presunzione assoluta che non ammette la prova del contrario, detta il principio in base al
quale al di sotto dei 14 anni il soggetto non è imputabile (non è imputabile che, al momento in cui ha commesso il
fatto, non aveva compiuto i quattordici anni), ferma restando la possibilità, nei casi e nei modi indicati dall’art.
224 c. p., di applicare una misura di sicurezza (la libertà vigilata o, per i delitti più gravi, il riformatorio
giudiziario).
Più che di infermità o di incapacità, nel caso del minore di 14 anni è il caso di parlare di immaturità: prima
dei quattordici anni il soggetto non può aver raggiunto un adeguato sviluppo delle capacità conoscitive,
volitive ed affettive, e non può aver acquisito gli strumenti intellettivi necessari a comprendere il significato
etico e sociale del proprio comportamento; per questo il legislatore ritiene sempre e comunque che il minore
di quattordici anni non sia imputabile.
Non essendovi spazio alcuno per ritenere imputabile un soggetto minore degli anni quattordici, ove sia stato
instaurato un processo a carico del minore, il giudice che accerti che al momento del fatto il soggetto non
aveva compiuto i 14 anni, deve emettere sentenza di non doversi procedere per difetto di imputabilità, così
come prescritto dal D. P. R. 22 settembre 1988, n. 448 (recante disposizioni sul processo penale a carico di
imputati minorenni), all’art. 26 (obbligo della immediata declaratoria della non imputabilità: in ogni stato e
grado del procedimento il giudice, quando accerta che l'imputato è minore degli anni quattordici, pronuncia, anche di
ufficio, sentenza di non luogo a procedere trattandosi di persona non imputabile).
All’autorità giudiziaria è dunque precluso di esercitare l'azione penale nei confronti del soggetto minore
degli anni quattordici, e se l’azione penale è stata iniziata, il giudice dovrà limitarsi a dichiarare con
sentenza, immediatamente in ogni stato e grado del procedimento, il non luogo a procedere.
In presenza della non imputabilità ex art. 97 c.p. al giudice non è consentito di cercare altri elementi
utili al giudizio oltre quelli già acquisiti al processo; il giudice, pertanto, non è tenuto al preventivo
accertamento per verificare la eventuale insussistenza del fatto o la non attribuibilità dello stesso al
minore imputato prima della pronuncia della sentenza ex D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26, atteso che
sarebbe ultronea qualsiasi indagine in relazione ad un fatto che la legge non consente di perseguire. Ne
consegue che l'imputato non può dolersi del mancato compimento, prima della pronuncia della sentenza
di non luogo a procedere, di attività processuali, quali l'interrogatorio dell'indagato e simili, al fine di
dimostrare la sua estraneità ai fatti oggetto di imputazione (Cassazione penale, sez. V, 25 novembre
2009, n. 49863). Nel caso di specie, dunque, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso
dell’imputato minorenne che si doleva del fatto che non gli fosse stato consentito di provare la propria
completa estraneità ai fatti a lui ascritti.
L’orientamento non appare tuttavia pienamente condivisibile: si è infatti innanzi accennato, e si vedrà
meglio in seguito, che al minore prosciolto per causa della sua età può, in presenza dei presupposti di legge,
essere applicata una misura di sicurezza. Da ciò non può che conseguire l’onere del giudice di verificare che
non sussistano elementi tali da condurre al proscioglimento nel merito dell’imputato, ad esempio per non
aver commesso il fatto, o perché il fatto non sussiste. Dunque, il principio correttamente applicato nel caso
sopra richiamato dalla Suprema Corte (nel caso di specie, infatti, l’imputato minorenne non era stato attinto
da misure di sicurezza) non può valere in assoluto: la stessa Suprema Corte ha invero statuito che
la sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità del minore presuppone l'accertamento
della responsabilità dell'imputato, potendo anche comportare l'applicazione di misure di sicurezza nei
suoi confronti. (Nel caso di specie, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza del tribunale per i
minorenni in quanto priva di qualsiasi motivazione, anche implicita, in merito all'insussistenza di elementi
conferenti nel senso dell'applicabilità di un proscioglimento nel merito) (Cassazione penale, sez. V, 4
novembre 2008, n. 42507)
In un recente caso la Suprema Corte ha dovuto valutare il ricorso di un soggetto che aveva - vanamente sollevato incidente di esecuzione, dolendosi, tra l’altro, del fatto che due sentenze irrevocabili di condanna
emesse a suo carico afferivano a fatti commessi quando aveva tredici anni.
Il giudice dell’esecuzione aveva rigettato la richiesta di una declaratoria di non punibilità, argomentando di
non poter emettere alcun provvedimento poiché su quelle due sentenze si era oramai formato il giudicato.
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Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato
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La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso del condannato, annullando senza rinvio il provvedimento
impugnato in relazione alle due sentenze in argomento, evidenzia tra l’altro che
la situazione di colui che non ha compiuto i 14 anni al momento del fatto rende impossibile la
costituzione ab initio di un valido rapporto processuale (Sez. 5, 7 aprile 1997 n. 1604, rv. 208250), per
cui la pronuncia di una condanna in tali casi è paragonabile alla condanna pronunciata contro un soggetto
inesistente (Sez. 5, 11 marzo 1994 n. 1471, rv. 198000), contro un soggetto che non era in vita al
momento del fatto (Sez. 1, 19 marzo 1996 n. 1766, rv. 204616), o pronunciata da chi non aveva potere
giurisdizionale penale (Sez. 2, 7 ottobre 1981 n. 1246, rv. 152080).
Tale conclusione è l'unica possibile in relazione al caso specifico sottoposto all'esame del collegio in
quanto le due sentenze di condanna di cui si chiede l'ineseguibilità erano state pronunciate dal tribunale
per i minori nonostante emergesse dalle stesse sentenze che l'imputato era infraquattordicenne ..
Pertanto l'ordinanza deve essere annullata senza rinvio relativamente alle due sentenze pronunciate in
relazione a reati commessi quando il condannato era infraquattordicenne, perché ineseguibili
(Cassazione penale, sez. I, 4 febbraio 2009, n. 5998).
Superati i quattordici anni, e fino ai diciotto, la capacità di intendere e di volere non è né esclusa a priori, né
presunta, ma deve essere accertata volta per volta: questo è il senso della regola dettata dall’art. 98 c. p., in
base al quale è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non
ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita.
Il giudice è dunque chiamato ad una valutazione specifica sia della personalità del singolo imputato, sia
dello specifico fatto di reato, nelle concrete circostanze in cui esso si è svolto, considerando la progressiva
formazione delle competenze sociali e psicologiche del minorenne, e la conseguente attitudine dell’autore
del reato ad intendere e volere, ovverossia ad elaborare i dati che gli pervengono dalla realtà ed a
determinarsi conseguentemente, per escludere tale attitudine quando il relativo processo psicologico appaia
viziato.
Per dimostrare l'eventuale immaturità del minore infradiciottenne rispetto allo specifico tipo di
condotta posta in essere, l'indagine deve essere volta all'accertamento della maturità psichica
raggiunta dal minore. Qualora lo sviluppo morale e intellettuale del giovane sia tale da fargli
comprendere la portata e le conseguenze del proprio comportamento, allora il minore può essere
ritenuto imputabile, anche se con la diminuente della pena ex art. 98 c. p. (Cassazione penale, sez. V,
19 novembre 2010, n. 1498).
Al fine di non scadere in un clemenzialismo di maniera, contrastante sia con esigenze di prevenzione
generale sia di responsabilizzazione degli stessi minori, la giurisprudenza di legittimità applica con estremo
rigore la disposizione in commento, soprattutto ove siano in contestazione reati il cui disvalore è facilmente
ed immediatamente percepibile. Ad esempio, in un recente caso la Suprema Corte ha esaminato il ricorso del
minore infradiciottenne condannato dai giudici di merito per i reati di violazione di domicilio, rapina ed
omicidio, commessi in concorso con altri due soggetti, con i quali l’imputato si era introdotto a scopo di
rapina nell’abitazione della vittima, 77enne, colpendola ripetutamente con calci e pugni, così da cagionarne
la morte:
la tesi difensiva della non imputabilità del minore è stata compiutamente esaminata dai giudici di merito
che sono pervenuti ad una conclusione del tutto opposta attraverso una critica puntuale delle
conclusioni che hanno ritenuto contraddirtene del perito.
Vi è da premettere che la incapacità di intendere e volere dell'imputato di età fra i 14 ed i 18 anni non
è subordinata, come avviene invece per l'età adulta, ad uno stato patologico, ed in particolare ad una
infermità, ma l'incapacità può derivare da uno stato di immaturità, tipico dell'età minore. Ed il concetto
di maturità non può essere assoluto, bensì relativo: deve cioè correlarsi al reato compiuto, il che impone
chiedersi se il minore è psichicamente immaturo e, in caso affermativo, se il reato sia da considerarsi
una manifestazione sintomatica dell'accertata immaturità psichica.
Perché un minore di età sia riconosciuto incapace di intendere e volere al momento della commissione
del reato è necessario l'accertamento di una immaturità o anche a maggior ragione di una infermità di
natura ed intensità tali da compromettere, in tutto o in parte, i processi conoscitivi, valutativi e volitivi
attenuando grandemente la capacità di percepire il disvalore sociale del fatto e di autodeterminarsi
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autonomamente. Pertanto specifiche condizioni socio-ambientali e familiari nelle quali il minore si è
trovato e che hanno determinato un vissuto particolarmente doloroso e lacerante, se pure possono
avere avuto influenza negativa sul soggetto, inficiando le potenzialità di valutazione critica della
propria condotta e agevolando il processo psicologico di auto - legittimazione del crimine, non hanno,
per ciò solo, compromesso la capacità del minore di rendersi conto del significato delle proprie azioni e
di volizione delle stesse e quindi non rappresentano una forma di patologia mentale legittimante un
giudizio di non imputabilità (Cass. Sez. 6^, 25.5.2003 - dep. 28.7.2003 -, n. 31753, Maddaloni).
Ora, secondo lo stesso perito, l'imputato al momento del fatto era capace di intendere ma incapace di
volere. E tale incapacità doveva collegarsi ad un deficit cognitivo - prestazionale collegato ad una
disarmonia nella maturazione della personalità. Ma un tale reciso giudizio contrasta con le altre
conclusioni peritali che certificano un buon livello intellettivo e una sufficiente maturità sociale, tale da
riuscire il minore ad organizzare in piena autonomia rispetto alla famiglia di origine la sua vita
relazionale, sociale e lavorativa, una autonomia addirittura definita superiore alla norma per l'età. Un
tale giudizio contrasta visibilmente la diagnosi di una disarmonia evolutiva incompatibile, secondo la
scienza psicopatologica con la "buona autonomia sociale e relazionale" che denuncia il conseguimento
della maturità.
Del resto la difesa dell'imputato, sulla scia peraltro del discorso peritale, in buona sostanza attribuisce
alle violenze ed alle minacce del correo maggiorenne il fattore condizionante la mancanza di volontà del
minore: il che finisce per collocare la causa della incompatibilità in un fattore esterno alla personalità
del soggetto, ponendo quindi in essere una vera e propria contraddizione, nel postulare una incapacità di
volere per fattori esogeni, esterni (Cassazione penale, sez. I, 17 novembre 2010, n. 43953).
Al compimento del diciottesimo anno di età, la capacità di intendere e di volere è presunta dal legislatore:
ma è una presunzione relativa, perché vi sono delle cause (alcune codificate, altre no) che fanno scemare o
addirittura scomparire la capacità di intendere e di volere
§ 5 – Il vizio di mente.
Una delle principali cause dell’incapacità di un soggetto è l’infermità di mente, ossia un vizio, una malattia,
un disturbo che influiscano negativamente sulla sua capacità di intendere e di volere: secondo l’art. 88 c. p.
non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità in tale stato di mente da escludere la
capacità di intendere e di volere; il successivo art. 89 c. p. prevede che chi nel momento in cui ha commesso il fatto
era per infermità in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere
risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita.
Occorre preliminarmente interrogarsi su quale sia l’infermità rilevante ai sensi e per gli effetti della legge
penale?
Per lungo tempo si è sostenuto che l’infermità mentale alla quale fa riferimento il legislatore è solo quella
conseguente ad una malattia psichica fondata su basi biologico-somatiche, ossia ad una lesione organica o
comunque ad una alterazione mentale di natura organico-cerebrale. L'infermità è stata dunque identificata
come una malattia che colpisce il cervello e di cui sono sempre verificabili non solo le cause, ma anche i
sintomi e le conseguenze.
A tale stregua, da un lato, si è conferita rilevanza – quale malattia integrante infermità – alle psicosi, tutte
caratterizzate dalla perdita dei nessi logici e/o del senso della realtà, nonché dalla coscienza della malattia1;
dall’altro si è esclusa ogni incidenza - nel medesimo senso - alle cd. “abnormità psichiche”, e cioè a quelle
turbe del carattere e della sfera affettiva che possono al più rientrare nel novero di quegli stati emotivi e
1
Le psicosi in letteratura vengono distinte in psicosi esogene, in cui il disturbo psichico deriva da un processo morboso
la cui azione è dimostrabile a livello anatomico-organico-cerebrale: psicosi traumatiche da lesioni cerebrali, psicosi da
infezione, psicosi da intossicazione, psicosi presenili o senili, oligofrenie da malformazioni congenite; ed in psicosi
endogene, come le schizofrenie e le distimie, in cui viceversa il disturbo psichico si manifesta in termini funzionali, ma
non è ancora dimostrato – nella sperimentazione psichiatrica – che sia certamente dovuto ad una alterazione organica,
essendosi propensi peraltro a credere che risenta di una predisposizione o di un condizionamento biologico. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012
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passionali che l’art. 90 c. p. considera espressamente ininfluenti ai fini della sussistenza della capacità di
intendere e di volere.
Si è dunque concluso nel senso che la psicopatia e gli altri disturbi della personalità non sono idonei a
giustificare la sussistenza del vizio di mente, integrando una semplice anomalia del carattere, una
alterazione transeunte relativa alla sfera psico-intellettiva e volitiva, e non uno stato patologico in grado di
influenzare il piano dell'imputabilità.
In tema di imputabilità, le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono le
malattie mentali in senso stretto, e cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da
conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche,
contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di
uno stato di normalità per qualità e non per quantità. Ne consegue che esula dalla nozione di infermità
mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono
indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini
dell’applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p. in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera
psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali (Cassazione
penale, sez. VI, 7 aprile 2003 n.24614).
Questa chiave di lettura, connessa ad un paradigma valutativo di tipo cd. medico-organicistico, non è
tuttavia sostenuta:
* né dal tenore letterale degli artt. 88 ed 89 c.p., poiché il legislatore parla espressamente di infermità, e non
di malattia, e questo riferimento sembra possedere una valenza non strettamente tecnica, tale cioè da evocare
un significato più ampio di quello di “malattia” in senso proprio;
* né dallo stesso complessivo sistema di disciplina in tema di capacità di intendere e di volere siccome
articolato dal legislatore: l’art. 85 c.p., che pone in termini perentori il principio della necessaria imputabilità
al momento del fatto, fissa un criterio di carattere generale e di grande latitudine, ma, come si è accennato,
non indica in maniera esaustiva e tassativa le situazioni significative di incapacità di intendere e di volere.
Da ciò logicamente consegue che possono rilevare, ai sensi e per gli effetti di tale norma, anche una serie di
altre situazioni personali ulteriori rispetto a quelle espressamente disciplinate dal codice, sempre che
abbiano l’effetto di incidere sulla capacità di intendere o di volere;
* né, soprattutto, dai più recenti approdi della scienza psichiatrica, che fa oramai rientrare nella nozione di
malattia psichica non solo i cd. “quadri nosografici” definiti (contrassegnati da vere e proprie disfunzioni
del sistema nervoso centrale, e dunque a matrice organica), ma anche tutte quelle alterazioni mentali
fondate su base psicologica di natura qualitativa, che si manifestano come “disarmonie dell’apparato
psichico”, e che dunque - pur diverse dalle malattie psichiatriche in senso stretto - esprimono un disturbo
psicopatologico.
Tra queste anomalie psichiche (che di per sé sole non comportano una perdita del senso della realtà, ma che
possono assumere rilievo ai fini del giudizio sulla capacità di intendere e di volere) vengono in rilievo le
psicopatie (variazioni della personalità dalla norma - le cd. personalità abnormi -, a base prevalentemente
costituzionale, per lo più sul piano del carattere, della vita affettiva e della volontà, e meno su quello
dell’intelletto); le nevrosi (che si manifestano in reazioni abnormi o attraverso disturbi dell’elaborazione
della realtà, dipendenti in genere da fatti ambientali e/o relazionali); i cd. disturbi degli impulsi, o
deviazioni o perversioni, quando si esprimano con intensità e modalità tali da evidenziare una personalità
abnorme (ad es. disturbi dell’istinto sessuale che diventano vera e propria mania sessuale; disturbi d'ansia:
attacchi di panico, fobie e disturbi da stress estremo; disturbi dell'umore: depressioni, ipomanie, disturbi
bipolari; disturbi dell'alimentazione, come l’anoressia e la bulimia).
Tali anomalie, che di norma rappresentano, per lo meno sino ad un certo livello, semplici variazioni del
modo di essere individuale del soggetto (e dunque di per sé stesse non possono sostenere una diagnosi di
non imputabilità al momento del fatto), possono talvolta attingere - in forza di una penetrante analisi
psicologica, particolarmente attenta alle connotazioni ed alle contingenze del fatto commesso –, per la
frequenza e la intensità dei sintomi, un tale grado di deviazione della personalità da risultare equivalenti ad
una malattia psichiatrica in senso stretto, con le conseguenti implicazioni in relazione al vaglio di
imputabilità del soggetto.
Questo è il dictum oramai univoco della giurisprudenza di legittimità, a partire dalla nota pronuncia a
Sezioni Unite n. 9163/2005 (che trovate interamente allegata alla fine di questa relazione), dalla quale sono
state estrapolate le seguenti massime
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DIRITTO PENALE I
Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato
dott. Michele Toriello
Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, che non
sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di
"infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla
capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista
un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia
ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini
dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della
personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che
questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità.
Per stabilire in cosa consista l'infermità di mente di cui è menzione nell'art. 88 c.p., quale causa di
esclusione dell'imputabilità, occorre fare riferimento ai criteri dettati dalla medicina e dalla psicologia,
le quali nelle loro acquisizioni più recenti sono inclini a considerare malattia mentale non soltanto quelle
a base organica, ma anche i semplici disturbi della personalità. Ne consegue che anche questi ultimi
possono comportare l'esclusione della imputabilità, a condizione che siano di gravità e intensità tali da
escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e che siano state proprio esse la
causa della condotta criminosa (Nella specie, la Corte ha annullato la sentenza impugnata, che aveva
erroneamente escluso il vizio parziale di mente, sul rilievo che il disturbo paranoideo, dal quale, secondo
le indicazioni della perizia psichiatrica, risultava affetto l'autore dell'omicidio, non rientrava tra le
alterazioni patologiche clinicamente accertabili, corrispondenti al quadro di una determinata malattia
psichica, per cui, in quanto semplice "disturbo della personalità", non integrava quella nozione di
"infermità" presa in considerazione dal codice penale) (Cassazione penale, Sezioni Unite, 25 gennaio
2005, n.9163).
Premessa la distinzione tra i concetti di malattia e di infermità, il secondo più ampio del primo, la Corte
disattende dunque il paradigma di stampo ottocentesco organico-biologico (vizio di mente = malattia fisica
del sistema nervoso centrale); di conseguenza disattende anche il criterio della “necessaria sussumibilità
dell’anomalia psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche”. Ritiene, invece, che,
anche al di fuori di rigide catalogazioni nosografiche, quel che interessa accertare non è la presenza
nell’imputato di una patologia catalogabile ed annoverabile tra le malattie psichiatrice in senso stretto,
ma è l’assetto psichico dell’agente, cioè la sussistenza o meno, in quel determinato frangente e momento
storico, di sue attitudini autodeterminative, in termini di capacità di intendere e di volere, con apertura
dunque a tutti quei disturbi mentali, iscrivibili nel novero delle infermità, che per la loro consistenza,
intensità, rilevanza e gravità siano tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere,
del tutto caducando o grandemente scemando il relativo potere autodeterminativo del soggetto.
Alla stregua di tanto la giurisprudenza di legittimità ritiene quindi che anche ai disturbi della personalità
deve riconoscersi la potenziale attitudine a concretizzare il vizio, totale o parziale, di mente; vizio che può
essere anche transeunte, concetto, quest’ultimo, diverso da momentaneo, siccome pur sempre riconducibile
ad una condizione, uno status, o, come si esprime autorevole dottrina, a una evoluzione, un processo, un
decorso, una storia, una durata nel tempo: donde il particolare impegno del perito e del giudice nel
distinguere tale stato di infermità transeunte dai meri stati emotivi e passionali, confinati nel limbo della
irrilevanza in tema di imputabilità dall’art.90 c.p.
L’analisi della più recente giurisprudenza di legittimità evidenzia che nell’ambito di questo orientamento
interpretativo:
a) si afferma (in armonia con la dottrina più autorevole) che gli stati emotivi o passionali, categoricamente
privati per scelta legislativa, ed ove in sé e per sé considerati, di qualsiasi rilievo ai fini dell’imputabilità (che
non escludono, né diminuiscono), possono tuttavia essere sintomi, manifestazioni o prodotti (anche
collaterali) di uno stato patologico, che, quale reale infermità, potrà - esso sì - rilevare ai sensi e per gli effetti
degli artt. 88 ed 89 c.p.
Si assume in particolare che gli stati emotivi o passionali, pur non essendo in grado di incidere
sull’imputabilità del soggetto, possano condizionarne la lucidità mentale in modo tale che – in presenza di
un “quid pluris” che, associato allo stato emotivo o passionale, si traduca in un fattore che determina un
vero e proprio stato patologico, sia pure di natura transeunte e non inquadrabile nell’ambito di una precisa
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classificazione nosografia – ne risulti scemata o esclusa la capacità di intendere e di volere; aggiungendosi
che l’esistenza di tale fattore andrebbe accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica, senza che
peraltro quest’ultima possa mai arrivare ad attribuire carattere di “infermità” ad alterazioni transeunti della
sfera psico-intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi o passionali di cui si
sia riconosciuta la sussistenza.
Volendo esemplificare queste proposizioni giurisprudenziali potrebbe farsi riferimento ad un accesso di
gelosia momentanea (irrilevante) ed invece ad una forma di gelosia ossessiva delirante da tempo sfociata in
una situazione psicopatologica grave, con conclamata compromissione della facoltà di comprensione, di
critica e di autocontrollo; o correlativamente ad un episodico stato di panico determinato da avvenimenti
improvvisi a fronte di una grave forma di psicopatologia fobica incidente sulle capacità di autodominio ed
autodeterminazione del soggetto.
b) si ribadisce la imprescindibile necessità di accertare un effettivo rapporto tra l’anomalia psichica ed il
determinismo dell’azione delittuosa commessa: come ha a chiare lettere indicato la più volte citata
pronuncia delle Sezioni Unite, infatti, “tra il disturbo mentale ed il fatto di reato deve sussistere un nesso
eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”; si ritiene, quindi, in
sostanza, necessaria una correlazione funzionale tra la patologia e il tipo di manifestazione delittuosa, nel
senso che questa debba costituire (per le implicazioni derivanti dagli artt. 88 ed 89 c.p.) estrinsecazione
riconducibile alla “infermità” di cui il soggetto è stato ritenuto portatore.
In proposito alcuni commentatori hanno mosso una critica all’approdo ermeneutico: si dice, in sostanza, che
se il soggetto è infermo di mente, non ha molta importanza verificare la sussistenza di un nesso di tal fatta,
poiché ciò che importa è che il soggetto al momento in cui ha agito non era in grado di comprendere il senso
delle sue azioni e di autodeterminarsi.
Ma la scelta dei giudici di legittimità è condivisibile: l’approccio al tema del disturbo mentale deve essere
non astratto ed ipotetico, ma reale ed individualizzato, in riferimento a quello specifico soggetto ed a quello
specifico fatto di reato; il giudizio non può dunque essere avulso dalla considerazione della incidenza che il
disturbo mentale abbia avuto nella determinazione del soggetto alla commissione del reato. Ad esempio, ove
si ritenga accertato un disturbo grave di personalità iscrivibile nel novero della piromania, così
settorialmente delimitato, esso potrebbe mai rilevare in un reato contro la libertà sessuale commesso da quel
soggetto?
In conclusione, si avrà vizio totale di mente ove si accerti che il soggetto, al momento della commissione del
fatto, era affetto da una infermità (intesa come malattia psichiatrica ovvero come rilevante disturbo della
personalità) tale da escludere del tutto la sua capacità di intendere e di volere; si avrà vizio parziale di mente
ove si accerti che l’infermità che affliggeva il soggetto al momento del fatto, pur menomandone le capacità
cognitive e volitive, non aveva intensità tale da escluderne la capacità di intendere e di volere; la distinzione
tra le due forme di infermità è affidata non ad un criterio qualitativo, ma quantitativo, poiché la legge
considera il grado, e non l’estensione dell’infermità.
Volgiamo ora un rapidissimo sguardo alla recente giurisprudenza di legittimità:
* la Suprema Corte ha ritenuto del tutto irrilevanti le specifiche condizioni socioambientali e familiari nelle quali
l’imputato (nel caso di specie minorenne) sia vissuto, trattandosi di elemento inidoneo a comprometterne la
capacità di rendersi conto del significato delle proprie azioni e di volizione delle stesse (Cassazione penale,
sez. II, 26 gennaio 2011, n. 6970, relativo a minorenne accusato di danneggiamento, ingiurie e minacce:
rileva la Corte, annullando con rinvio la sentenza di non luogo a provvedere, che il giudice aveva
erroneamente valorizzato un unico elemento, la intervenuta separazione dei genitori del minore, certamente
inidoneo a fondare un giudizio di incapacità);
* la pedofilia, se non accompagnata da un'accertata malattia mentale o da altri gravi disturbi della personalità,
rappresenta una semplice devianza sessuale, senza influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive della persona
(Cassazione penale, sez. III, 16 dicembre 2010, n. 15157, nella cui motivazione si evidenzia che la dottrina
scientifica ritiene che la parafilia o perversione sessuale - della quale la pedofilia è considerata una
sottocategoria - va ricompresa tra i disturbi di personalità attinenti alla sfera sessuale e le nevrosi, e non
comporta dunque la perdita del rapporto con il contesto reale, la destrutturazione della personalità, la
dissociazione affettiva ed ideativa. Dunque, se non accompagnata da una accertata malattia mentale o da
altri gravi disturbi della personalità, la pedofilia rappresenta una semplice devianza sessuale, senza
influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive);
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* la gelosia, se non dipendente da stato patologico adeguatamente comprovato, rileva quale mero stato emotivo e
passionale ai sensi dell'art. 90 c.p., e dunque è irrilevante ai fini dell'esclusione dell'imputabilità del reo (Cassazione
penale, sez. VI, 25 marzo 2010, n. 12621, relativa a reati di maltrattamenti ingiurie e lesioni asseritamente
commessi dall’imputato solo perché ossessivamente geloso della moglie: la Corte evidenzia in motivazione
che la capacità di controllo delle proprie azioni va distinta dalla capacità di intendere e di volere, in quanto capacità del
soggetto di modulare e calibrare la sua condotta in funzione di elementi condizionanti di ordine etico, religioso,
educativo ed ambientale, i quali, afferendo ed integrandosi nel nucleo della personalità del soggetto, lo dotano della
consapevolezza critica ed autocritica, e che agiscono come modulatori dell'istintualità e dell'impulsività. Ne consegue
che l'indebolimento dei freni inibitori, o l'attenuazione della loro funzionalità in determinate aree sensibili (quali la
"possessività sospettosa" nella gelosia), se non dipendenti da un vero e proprio stato patologico, non sono in grado di
incidere sulla capacità di intendere e di volere e quindi sull'imputabilità);
* analogo giudizio di irrilevanza è stato licenziato in relazione ad una personalità borderline attribuita
all’imputato per "disturbi misti delle capacità scolastiche", "immaturità affettiva, impulsività, scarsa
tolleranza alle frustrazioni, difficoltà ad esprimere verbalmente sentimenti" (Cassazione penale, sez. VI, 27
ottobre 2009, n. 43285): in motivazione si evidenzia da un lato la inidoneità dei predetti disagi ad incidere
radicalmente (ex art. 88 c.p.) o grandemente (ex art. 89 c.p.) sui processi di intelligenza e volontà; dall’altro la
radicale assenza del fondamentale rapporto motivante tra la patologia prospettata e l’illecito commesso,
illecito che peraltro viene definito “di elementare percezione nel suo preciso livello di illiceità e dissocialità
anche a persone di scarsa dotazione intellettuale” (si trattava di ripetuti episodi di illecita cessione a terzi
sostanze stupefacenti del tipo hashish);
* del pari irrilevante è stata ritenuta una "organizzazione borderline della personalità con tratti istrionici e
paranoidei caratterizzato da chiusura all'ambiente, ma in soggetto vigile, lucido, orientato nello spazio e nel tempo,
ricco di rapporti epistolari con i coimputati, motivato da una particolare posizione ideologica di lotta e di contestazione
allo Stato (Cassazione penale, sez. I, 18 febbraio 2009, n. 17853, Blefari): è stato dunque escluso non solo un
quadro psicotico, ma anche qualsiasi incidenza dei meri disturbi di personalità da cui l’imputata è affetta
sulla capacità di intendere e di volere e sulla capacità di partecipare al processo.
§ 6 - L’ubriachezza e l’intossicazione da stupefacenti.
Secondo la disciplina dettata dagli articoli 91 e seguenti c. p., l’ubriachezza e l’intossicazione da sostanze
stupefacenti influiscono sull’imputabilità ovvero quanto meno mitigano il trattamento sanzionatorio solo se
la perdita della capacità di autocontrollo è determinata da un fattore imprevedibile o da una forza esterna
inevitabile, senza che sia dunque possibile muovere all’agente un qualsiasi rimprovero; esse, in particolare:
a) escludono l’imputabilità se sono dovute a caso fortuito o forza maggiore (ad es. l’operaio della
distilleria che, per un guasto dell’impianto, è stato costretto ad operare in un ambiente saturo di vapori
alcolici) ed incidono, escludendola, sulla capacità di intendere e di volere;
b) non escludono l’imputabilità, ma comportano una diminuzione della pena, se sono dovute a caso
fortuito o forza maggiore ed incidono, diminuendola, sulla capacità di intendere e di volere;
c) non escludono l’imputabilità e non mitigano il trattamento sanzionatorio se sono dovute ad una
scelta volontaria dell’agente; siamo di fronte ad una chiara scelta di politica criminale del legislatore, non
potendo sempre sostenersi che il soggetto che, dopo essersi volontariamente ubriacato o dopo avere
volontariamente assunto sostanze stupefacenti, commetta un determinato reato, lo commette sorretto
dall’elemento psicologico nelle forme del dolo o della colpa, poiché, come si è illustrato in principio, i
concetti del dolo e della colpa riflettono atteggiamenti della psiche che necessariamente importano una
conoscenza ed una volizione: in tanto si agisce dolosamente, in quanto si conosca la realtà e ci si renda conto
dell’azione che si compie e del risultato cui essa tende o conduce; in tanto si agisce colposamente, in quanto
ci si comporti con imprudenza, negligenza, imperizia, pur essendo capaci di agire prudentemente e
diligentemente. Siamo, dunque, di fronte ad ipotesi di responsabilità oggettiva, di responsabilità che sussiste
semplicemente perché si è tenuta una determinata condotta prevista da una fattispecie incriminatrice,
indipendentemente da qualsiasi indagine sull’elemento soggettivo, che deve ritenersi sussistente grazie alla
finzione di imputabilità dettata dal legislatore; né sono risultati soddisfacenti i tentativi di dare alla norma una
interpretazione costituzionalmente orientata: ritenere, ad esempio, che il soggetto risponderà del reato a
titolo di dolo eventuale se si è ubriacato nonostante la previsione della commissione del reato ed
accettandone il rischio, ed a titolo di colpa se si è ubriacato prevedendo ma non volendo la commissione del
reato (ovvero se si è ubriacato nonostante la commissione del reato fosse prevedibile ed evitabile come
conseguenza della ubriachezza), significa postulare sempre e comunque la necessità di un nesso psichico con
un reato che spesso non è neppure lontanamente prevedibile nel momento in cui il soggetto si ubriaca, e,
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dunque, sostanzialmente disapplicare arbitrariamente una disposizione codicistica che il legislatore ha
previsto per finalità preventivo-repressive.
Dà ad esempio applicazione ai principi appena illustrati questa recente pronuncia della Suprema Corte, che
pur sforzandosi di ricostruire la responsabilità dell’imputato anche sulla base del suo atteggiamento
riprovevole, sposta evidentemente l’attenzione al momento in cui il soggetto assunse il mix di droghe e alcol,
non potendo non scorgersi una palese contraddizione tra la acuta intossicazione nella quale l’imputato
versava al momento del fatto, e la ritenuta capacità del soggetto, nonostante la perturbazione psichica e la
riduzione del senso critico determinate dalle sostanze assunte, di attivarsi in modo razionalmente concatenato per
realizzare l'evento ideato e voluto:
.. I GUP del Tribunale di Brescia ha dichiarato F.I. colpevole di vari reati commessi .. mentre si trovava
in stato di acuta intossicazione provocata da abuso volontario di farmaci, droghe e alcool - tentato
omicidio di S.N., tentato omicidio di Fr.Ad. e B.M., minaccia aggravata nei confronti di questi ultimi e di
altre persone, detenzione e porto illegali aggravati di una rivoltella cal. 38 special e delle relative
munizioni .. La decisione è stata confermata dalla locale Corte di appello .. Secondo la ricostruzione dei
giudici del merito il F., da tempo dedito all'abuso di sostanze chimiche ed alcool (benzodiazepine,
cocaina e saltuariamente hashish) che aveva abbondantemente assunto anche la sera in cui la squadra
italiana aveva vinto la finale dei campionati mondiali di calcio, per festeggiare a modo suo l'avvenimento
aveva prima esploso con la propria rivoltella due proiettili contro l'autovettura dello S. che stava
transitando, colpendo la fiancata sinistra e il finestrino anteriore sinistro, aveva poi minacciato un
gruppo di giovani tra cui la Fr. e il B. perchè non gli avevano dato lo "spinello" che aveva loro chiesto e,
quando i due predetti si erano allontanati in auto, aveva infine esploso all'indirizzo della vettura altri
tre proiettili che avevano attinto la fiancata posteriore destra.
Contro la sentenza di secondo grado il F. ha personalmente proposto ricorso per cassazione con il quale
lamenta che non sia stata esclusa l'imputabilità … Nessuna di queste doglianze ha fondamento, e il
gravame deve quindi essere rigettato …
La Corte di appello ha preso atto che dalla perizia psichiatrica cui l'imputato è stato sottoposto è
risultato che lo stesso al momento dei fatti doveva ritenersi privo della capacità di intendere e di
volere, ma ha con adeguata e corretta motivazione escluso, sulla base di quanto emerso da tale
accertamento, che fosse affetto da patologie mentali e da disturbi specifici della personalità e che si
trovasse in quello stato di alterazione psichica permanente per cronica intossicazione prodotta da
alcool o da sostanze stupefacenti che rileva per escludere o diminuire l'imputabilità ai sensi dell'art. 95
c. p.
Ha rilevato in particolare al riguardo la Corte territoriale che il disturbo bipolare dell'umore da cui,
secondo il consulente di parte, il F. è affetto è un diffuso stato psicologico che non incide minimamente
sulla capacità di intendere e di volere e che nessun disturbo psicotico permanente poteva essere stato
determinato dall'abuso delle benzodiazepine (farmaci antiansia caratterizzati da bassa tossicità,
brevità dell'effetto e mancanza di effetti secondari).
Ritenuto dunque che si versasse nelle ipotesi di cui agli artt. 92 e 93 c.p. - in relazione alle quali il
legislatore ha stabilito che all'azione dell'alcool e degli stupefacenti sulla psiche del soggetto, essendo
tali sostanze state volontariamente assunte, non si debba dare rilievo ai fini dell'imputabilità - il
giudice di secondo grado ha poi ineccepibilmente ritenuto che nella condotta del F. fossero ravvisabili
per la direzione, altezza e reiterazione dei colpi (esplosi tutt'altro che a casaccio essendo stati
chiaramente mirati in modo da raggiungere l'interno delle autovetture, in effetti più volte attinte
anche se gli occupanti fortunatamente sono rimasti illesi) non solo gli estremi oggettivi del tentato
omicidio ma anche quelli soggettivi propri del dolo diretto per l'esistenza del quale non è richiesta una
analisi lucida della realtà, che attiene alla motivazione dell'agire, ma solo che il soggetto sia in grado,
nonostante la perturbazione psichica e la riduzione del senso critico determinate dalle sostanze
assunte, di attivarsi in modo razionalmente concatenato per realizzare l'evento ideato e voluto …
P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali (Cassazione
penale, sez. I, 9 ottobre 2008, n.39957).
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d) comportano un aumento della pena se sono dovute ad una preordinata scelta dell’agente, che ha
provocato l’ubriachezza o l’intossicazione da stupefacenti al fine di commettere il reato o comunque di
prepararsi una scusa: si tratta della più eloquente applicazione del principio dell’actio libera in causa di cui
all’art. 87 c. p., principio che, secondo l’interpretazione dottrinale preferibile, trovare spazio solo se e solo
quando il soggetto ha liberamente deciso di porsi in stato di incapacità al fine di commettere proprio il
delitto che poi ha commesso (ove detta corrispondenza non vi sia, non vi sarebbe invero ragione di derogare
ai generali principi in tema di colpevolezza e di imputabilità)
e) comportano un aumento della pena se il soggetto agente fa un uso abituale di alcolici o di
stupefacenti, situazione che, secondo i canoni ermeneutici espressamente dettati dal capoverso dell’art. 94 c.
p., sussiste quando il soggetto sia dedito al consumo di dette sostanze e si trovi frequentemente in stato di
ubriachezza o intossicazione; in casi del genere, altresì, nei confronti del soggetto potrà essere irrogata una
misura di sicurezza, a norma dell’art. 221 c. p.;
f) escludono l’imputabilità nel solo caso in cui sia configurabile una cronica intossicazione da alcool
ovvero da stupefacenti, situazione che può essere ritenuta sussistente solo in presenza di alterazioni
patologiche permanenti:
l'intossicazione da sostanze stupefacenti deve essere caratterizzata dalla permanenza e
dall'irreversibilità e, cioè, da condizioni psichiche che permangono indipendentemente dal rinnovarsi
dell'assunzione o meno di sostanze stupefacenti, condizioni che, in ogni caso, debbono essere valutate
con riferimento al momento in cui il fatto-reato è stato commesso (Cassazione penale, sez. V, 29
ottobre 2002, n.7363).
La situazione di tossicodipendenza che influisce sulla capacità di intendere e di volere è solo quella che,
per il suo carattere ineliminabile e per l'impossibilità di guarigione, provoca alterazioni patologiche
permanenti, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie che permangono
indipendentemente dal rinnovarsi di un'azione strettamente collegata all'assunzione di sostanze
stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia
psichica (Cassazione penale, sez. III, 8 maggio 2007, n.35872).
Si tratta di una situazione più facilmente riscontrabile nel soggetto tossicodipendente, anche se la
giurisprudenza di legittimità è molto rigorosa nell’escludere l’applicazione del principio dettato dall’art. 95
c. p. nei casi in cui il soggetto abbia agito in preda ad una crisi di astinenza: è invero usuale l’affermazione
della sostanziale irrilevanza dello stato di astinenza, inteso come stato di sofferenza psicofisica che colpisce
colui che sospende oppure riduce bruscamente il consumo abituale di sostanze, alcooliche o stupefacenti,
idonee a creare stati di dipendenza: la mera condizione di un generico stato di agitazione da crisi da astinenza in
capo all'autore della condotta illecita (nella specie, di resistenza violenta, di lesioni e di danneggiamento), non
accompagnata da altre provate indicazioni in termini di grande e grave disassamento, da infermità, delle funzioni
noetiche e volitive dell'agente, non integra lo schema dogmatico dell'art. 89 c.p., dato che essa realizza una mera
condizione di stato emotivo e passionale, non incidente ex art. 90 c.p. sugli ambiti dell'intendere e del volere, anche se
utilizzabile in termini di graduazione del trattamento sanzionatorio (Cassazione penale, sez. VI, 20 aprile 2011, n.
17305). In motivazione si chiarisce che, in armonia con il chiaro dettato legislativo, solo una intossicazione
cronica, una tossicomania (definiti quali stati di grave intossicazione da sostanze stupefacenti che sono in grado di
determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico dell'imputato, incidendo profondamente sui processi
intellettivi o volitivi di quest'ultimo) può avere effetti sulla capacità di intendere e di volere. In un recentissimo
caso giurisprudenziale nel quale l’imputato, condannato per il delitto di estorsione continuata in danno dei
genitori, aveva proposto ricorso per Cassazione deducendo, tra l’altro, il mancato riconoscimento del difetto
di imputabilità dovuto a cronica assunzione di sostanze stupefacenti, o quanto meno il vizio parziale di
mente dovuto al grave stato di tossicodipendenza, la Suprema Corte ha statuito che
il ricorrente si è limitato a evidenziare in maniera del tutto generica lo stato di tossicodipendenza,
definito cronico, dell'imputato, senza indicare specifici aspetti della sua condotta che avrebbero
dovuto indurre il giudice di appello a riconoscere .. il vizio totale o parziale di mente. La giurisprudenza
di legittimità è consolidata, del resto, nel senso che la situazione di tossicodipendenza che influisce
sulla capacità di intendere e di volere è solo quella di intossicazione cronica che, per il suo carattere
ineliminabile e per l'impossibilità di guarigione, provoca alterazioni patologiche permanenti, cioè una
patologia a livello cerebrale implicante psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di
un'azione strettamente collegata all'assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare apparire
indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica .. Nessun rilievo può invece
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assumere la presenza, in capo all'autore della condotta delittuosa, di un generico stato di agitazione
determinato da una crisi di astinenza dall'abituale consumo di sostanze stupefacenti, non accompagnato
da una grave e permanente compromissione delle sue funzioni intellettive e volitive (Cass. sez.VI 20
aprile 2011 n. 17305, Angius). Anche le Sezioni Unite nella sentenza n.9163 del 2005, citata nel ricorso,
affermano peraltro che, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente possono essere
presi in considerazione i "disturbi della personalità", purché siano tuttavia di consistenza, intensità e
gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o
scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta
criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo
mentale, mentre nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali
o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli
stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più
ampio di "infermità" (Cassazione penale, sez. II, 20 settembre 2011, n.43307).
E’ solo il caso di evidenziare, in conclusione, quanto sia difficile, ed a volte quasi arbitrario, distinguere
l’ubriachezza (intossicazione) cronica da quella abituale; pur tuttavia il giudice delle leggi (con sentenza
integralmente riportata all’allegato 2) la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità delle
disposizioni in commento, ha ritenuto non irragionevole la disciplina dettata dal legislatore:
È infondata la q.l.c. degli art. 94 e 95 c.p., sollevata, in riferimento agli art. 3 e 111 cost., nella parte in
cui la giurisprudenza, in contrasto con la scienza medico legale, individua nel carattere della
irreversibilità l'elemento caratterizzante lo stato di cronica intossicazione da alcool o da sostanze
stupefacenti rispetto alla condizione di assuntore abituale di dette sostanze (la Corte ha osservato che
è il riferimento alla colpevolezza o meno del soggetto quello che deve permettere di distinguere, dal
punto di vista della volontà del legislatore e per le conseguenze dalla legge previste, la intossicazione
acuta da quella cronica: colpevole quella acuta, sia pure dandosi spazio a tutti i trattamenti di recupero
e agli altri provvedimenti ritenuti adeguati sul piano dell'applicazione e dell'esecuzione delle pene;
incolpevole, o meno colpevole, quella cronica, sia pure attraverso il passaggio, nell'ipotesi della pena
soltanto diminuita, per la discussa e discutibile figura della semi-imputabilità) (Corte Costituzionale,
16 aprile 1998, n. 114).
§ 7 - Il sordismo2.
Vale per il sordo il medesimo discorso già sviluppato a proposito del minore infradiciottenne: l’art. 96 c. p.
prevede infatti, al pari dell’art. 98 c. p., che il giudice proceda ad una valutazione specifica della capacità di
intendere e di volere dell’imputato, verificando se, alla luce della detta infermità, essa debba essere esclusa o
debba ritenersi diminuita.
L'art. 96 c.p. non ravvisa nel sordomutismo uno stato necessariamente psicopatologico, ma richiede
soltanto che nel sordomuto tanto la capacità quanto l'incapacità formi oggetto di specifico
accertamento, da compiersi, cioè, caso per caso. Il che sta a significare che il sordomutismo non
costituisce una vera e propria malattia della mente, valendo soltanto eventualmente ad impedire o ad
ostacolare lo stato di sviluppo della psiche e, dunque, la maturità psichica (Cassazione penale, sez. VI,
3 luglio 1996, n.8817).
§ 8 - Questioni processuali: l’accertamento del vizio di mente; la sospensione del
procedimento; le misure di sicurezza.
Appare opportuno, non solo per esigenze di completezza, ma anche per verificare quali conseguenze
pratiche abbiano i principi fin qui illustrati nel processo penale, illustrare sinteticamente le principali
questioni processuali connesse all’accertamento dell’incapacità di intendere e di volere dell’imputato.
L’art. 96 c. p., nel testo originario, si riferiva al “sordomuto”. Tuttavia per effetto dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006,
n. 95, recante nuova disciplina in favore dei minorati auditivi, “in tutte le disposizioni legislative vigenti, il termine
<sordomuto> è sostituito con l’espressione <sordo>”.
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1) L’accertamento del vizio di mente.
L’accertamento del vizio di mente viene eseguito dal giudice di norma mediante l’ausilio di un esperto,
chiamato ad eseguire una perizia psichiatrica (anche se, come riconosciuto in giurisprudenza, non può
escludersi che l’evidenza della patologia mentale che affligge l’imputato possa consentire al giudicante di
prescindere da una specifica indagine tecnica : fra le altre, sez. 1^, 18 febbraio 1992, Gatti).
Si usa dire che il concetto di imputabilità è “a due piani”, essendo al tempo stesso normativo ma anche
empirico; deve essere la scienza ad individuare il compendio dei requisiti bio-psicologici che facciano
ritenere che il soggetto sia in grado di comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativo
connesso alla previsione della sanzione punitiva; ma è l’ordinamento giuridico a fissare le condizioni di
rilevanza dei dati forniti dalle scienze empirico-sociali.
Mai come in questo campo, dunque, il giudice è tributario della scienza medica, ad essa deve rivolgersi e su
di essa deve fare affidamento (dimensione empirica dell’accertamento); senza dimenticare tuttavia
(dimensione normativa) che il giudizio sull'imputabilità presuppone una presa di posizione su ciò che
l'ordinamento pretende dal soggetto, e dunque rimane una questione normativa di ultimativa competenza
del giudice, il quale ne assume la responsabilità di fronte alla società nel cui nome amministra la giustizia.
In questo modo, si riconosce il primato dell'identità normativa, ma non si dimentica l'apporto necessario
dell'identità empirica, confermando, così, l'esigenza di una giusta collaborazione tra giustizia penale e
scienza.
In presenza di quali presupposti va disposta una perizia?
Naturalmente devono essere allegati dalla parte interessata, o devono essere presenti nel fascicolo del
dibattimento (come ha recentemente ricordato Cassazione penale, sez. III, 8 aprile 2010, n. 19733,
l'accertamento della capacità di intendere e di volere dell'imputato non necessita della richiesta di parte, ma
può essere compiuto anche d'ufficio dal giudice), elementi tali da far seriamente dubitare dell’imputabilità
del reo: non sono dunque ammissibili perizie meramente esplorative, disposte sulla base di mere asserzioni,
in assenza di documenti attestanti turbe psichiche pregresse o documentanti episodi di alterazioni mentali a
carico dell'imputato (Cassazione penale, sez. II, n. 15157 del 16 dicembre 2010).
Un inciso contenuto nell’art. 70 c. p. p. (se occorre) lascia intendere che il giudice non è, comunque, tenuto a
disporre l'indagine peritale, ove si convinca, autonomamente, dello stato d'incapacità, potendo così ritenere
sufficiente il quadro valutativo a sua disposizione. Per converso in presenza di elementi sintomatici di uno
stato di anomalia psichica o, comunque, di una condizione di oggettiva incertezza ingenerata da elementi
contraddittori, il giudice non può negare, tout court, l'indagine peritale richiesta dalla parte, se non offrendo adeguata
e convincente motivazione sulle ragioni del mancato esercizio del suo potere discrezionale (Cassazione penale, sez.
V, 7 dicembre 2007, n. 13088).
Il giudice non è comunque vincolato al riconoscimento dell’infermità mentale contenuta in sentenza relativa
ad altro procedimento riguardante lo stesso imputato, poiché l’infermità di mente non costituisce uno status
permanente dell’individuo ed è al contrario legata al momento di commissione del fatto, essendosi precisato
che il principio vale anche rispetto a più reati commessi nello stesso momento temporale che formino
oggetto di procedimento distinti (l'accertamento peritale compiuto in ordine allo stato di mente dell'imputato
nell'ambito di un determinato procedimento penale, non ha rilevanza cogente in altro procedimento a carico dello stesso,
sia pure per fatti commessi nel medesimo periodo di tempo: Cassazione penale, sez. VI, 29 maggio 2008, n. 40569).
Sono invece precluse le perizie psicologiche o criminologiche, sicché restano consentite solo le indagini
sulle qualità psichiche dipendenti da cause patologiche o a queste, comunque, fondatamente riconducibili
(cfr. la massima prima richiamata in tema di pedofilia: la Suprema Corte ha condiviso la decisione del
giudice di merito di non procedere ad approfondimento peritale teso ad accertare la pedofilia dell’imputato,
ritenendo appunto che la pedofilia non sia una patologia ma una devianza). Peraltro il divieto in questione
incontra due eccezioni:
a) è consentita la perizia psicologica nel processo a carico di minorenni, ai sensi dell’art. 9 del d.p.r.
n.448/1988. E’ infatti dagli accertamenti sulla personalità del minore che scaturiscono, in relazione alle
finalità stesse del procedimento minorile, sia il programma processuale di recupero del minorenne che il
progetto educativo riguardante il medesimo;
b) sono altresì ammessi gli accertamenti ex art. 220, 2° c., prima parte, c.p.p., sul carattere, sulla personalità e
sulle qualità psichiche non connesse a patologie, ai fini della esecuzione della pena e delle misure di
sicurezza, e cioè dopo che la sentenza è divenuta irrevocabile, e ciò poiché un più consapevole giudizio sulla
personalità del condannato, che include necessariamente anche il giudizio di pericolosità, non può
prescindere da un serio e profondo contributo scientifico.
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2) La sospensione del procedimento a causa dell’incapacità dell’imputato di parteciparvi coscientemente.
L’infermità mentale può causare, se presente nel corso del procedimento, la sospensione del procedimento
stesso, ove essa si atteggi in misura tale da non consentire all’imputato di prendervi parte in modo cosciente.
Anche in questo caso siamo in presenza di una valutazione congiunta di aspetti di natura psichica, inerenti
le facoltà mentali dell’imputato, ed aspetti di natura strettamente giuridica, inerenti al fondamentale diritto
di difesa e dunque alle competenze di cui un soggetto deve essere dotato per poter essere sottoposto ad un
processo.
Mentre il vecchio codice di rito prevedeva per il caso di specie un accertamento ed una soglia di rilevanza in
tutto identiche alla capacità di intendere e di volere rilevante ai fini della imputabilità, il nuovo codice, nel
passaggio dal rito inquisitorio ad un rito, quale quello accusatorio, nel quale l’imputato non subisce ma
partecipa attivamente al processo a proprio carico, abbandona ogni riferimento alla capacità di intendere e di
volere e conferisce rilevanza alla capacità di partecipare al processo, che si identifica nella capacità di
comprendere e partecipare al processo con la consapevolezza del ruolo assunto e della pendenza di
un'accusa a proprio carico; lì dove lo stato mentale dell'imputato determina unicamente una difficoltà nella
comprensione nel merito dell'accusa, nonché del disvalore del fatto e dell'antigiuridicità della condotta, non
si è in presenza di un fattore ostativo alla partecipazione al processo; lì dove, nonostante l'assistenza tecnica
del difensore, vi sia l'impossibilità per l’imputato di esercitare il proprio ruolo si avrà incapacità di
partecipare al processo (usando le parole di Corte Cost 39/2004 rileva qualunque stato di infermità che renda
non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali - coscienza pensiero percezione espressione- dell’imputato).
Cassazione penale, sez. VI, 23 ottobre 2009, n. 2419: non è sufficiente una patologia, anche grave, perché in tal
modo risulterebbe sempre impossibile procedere al giudizio nei confronti dei soggetti infermi, ma è necessario che
l'imputato risulti in condizioni tali da non comprendere quanto avviene e da non potersi difendere.
In via di sintesi si può dire che gli elaborati peritali afferenti la capacità di partecipare coscientemente al
processo valorizzano capacità squisitamente funzionale, ed in particolare dati quali le capacità cognitive
(l’elaborazione del pensiero, la capacità di comprensione delle domande e degli accadimenti, la capacità di
rievocazione a breve ed a lungo termine), le capacità di critica (capacità di percepire e di correggere i propri
errori), la sfera dell’emotività (labilità ed incontinenza emotiva, vulnerabilità all’ansia), la capacità ideativa
(al netto di distorsioni o deliri), la capacità di ragionamento (capacità di elaborare, sostenere ed articolare,
verbalmente o per iscritto, un pensiero complesso), la capacità di eloquio (comunicare con l’interlocutorie
mantenendo un colloquio prolungato e coerente), il controllo del contegno.
Il legislatore ha disciplinato l’ipotesi della sospensione sia nel corso delle indagini preliminari, ex artt. 70, 3°
c. e 71, 5° c., c.p.p., sia nell’udienza preliminare, ex art. 425, 4° c., c.p.p. In dibattimento la sospensione è
sempre prevista quando si versi in una situazione in cui l’imputato può incorrere in una sentenza di
condanna (infermità parziale o infermità sopravvenuta alla commissione del fatto), mentre non è
applicabile quando si deve pronunciare una sentenza di proscioglimento anche se questa può comportare
l’applicazione della misura di sicurezza (infermità totale risalente al momento del fatto).
Secondo la disciplina dettata dagli articoli 71 e seguenti c. p. p., il giudice (laddove non vi siano margini per
la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere o di assoluzione) dispone la sospensione del processo
con una ordinanza (ricorribile in cassazione), con la quale nomina all'imputato un curatore speciale (di
regola l'eventuale rappresentante legale dell’imputato), al fine di garantire al soggetto incapace la necessaria
tutela. In costanza di sospensione possono essere assunte solo le prove che possono condurre al
proscioglimento dell'imputato, e, quando vi è pericolo nel ritardo, ogni altra prova richiesta dalle parti.
Trascorsi sei mesi dalla pronuncia dell'ordinanza (ovvero anche prima ove ne ravvisi l'esigenza), il giudice
dispone ulteriori accertamenti peritali sullo stato di mente dell'imputato. Se la perizia accerta la cessazione o
l’attenuazione dell’infermità in modo da consentire all’imputato la cosciente partecipazione a processo, la
sospensione è revocata con ordinanza; altrimenti viene disposta una nuova sospensione, con identiche
cadenze da seguire ogni sei mesi.
Altra ipotesi di revoca dell’ordinanza si ha quando il giudice si renda conto che nei confronti dell'imputato
deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento.
E’ a questo punto necessario approfondire il modo in cui debba darsi concreta applicazione a questi
principi: l’ipotesi più frequente è quella dell’imputato in relazione al quale il perito nominato dal giudice
accerti l’incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, e l’incapacità di partecipare coscientemente
al processo. In tal caso, poiché per il giudice vi è la possibilità di addivenire alla assoluzione dell’imputato
(per difetto di imputabilità), non dovrebbe, secondo una interpretazione letterale della norma, disporsi la
sospensione del processo. Senonché alla assoluzione per difetto di imputabilità consegue, nei casi di
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accertata pericolosità sociale, l’applicazione di una misura di sicurezza, conseguenza certo molto pesante per
l’imputato. Si può allora sostenere che, a garanzia di un imputato che non sia in grado di partecipare
coscientemente al processo, il giudice deve disporre la sospensione del processo anche quando vi sono sì gli
estremi per una assoluzione, ma solo per una assoluzione derivante dalla sua incapacità di intendere e di
volere?
La recente Cassazione penale, sez. IV, 21 luglio 2009, n. 38246 ha condivisibilmente dato risposta positiva al
quesito. Il giudice di merito (con sentenza confermata dalla Corte d’Appello) aveva per l’appunto assolto
l’imputato per difetto di imputabilità e, ritenutane la pericolosità sociale, ne aveva disposto il ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario per la durata di due anni. Ricorreva per cassazione l'imputato, lamentando
che, pur essendo stata accertata la totale infermità di mente e pur essendo stato nominato un curatore
speciale ai sensi dell'art. 71 c. p. p., non era stata disposta la sospensione del processo, in violazione del
richiamato art. 71, come ritenuto ripetutamente dalla giurisprudenza di legittimità. La mancata sospensione
aveva avuto effetti pregiudizievoli, atteso che il giudizio celebrato senza la cosciente partecipazione
dell'imputato aveva determinato l'applicazione di una misura di sicurezza. La cosciente partecipazione al
processo avrebbe consentito l'esercizio del diritto di difesa, anche al fine di ottenere il proscioglimento con
diversa formula, che escludesse l'applicazione di una misura di sicurezza.
La Corte, nel ritenere fondato il ricorso annullando la sentenza con rinvio al giudice di primo grado,
evidenzia che la capacità di partecipare al processo penale di cui all'art. 70 c. p. p. costituisce uno dei
fondamentali e indefettibili presupposti richiesti dalla legge ai fini della costituzione e dello svolgimento del
rapporto processuale, il cui cardine è rappresentato dal fatto che esso deve necessariamente far capo ad un
soggetto capace di partecipazione cosciente al processo, come premessa essenziale della possibilità di
autodifesa e quale garanzia del "giusto processo" presidiata dall'art. 24 Cost..
Il diritto alla cosciente partecipazione al processo sussiste anche quando si configuri il difetto d'imputabilità
al momento del fatto, giacché l'imputato ha interesse a far valere le proprie difese al fine di ottenere una
pronunzia di proscioglimento con formula che escluda l'applicazione di misure di sicurezza.
E se è vero che l'art. 71 c. p. p. prevede la sospensione del processo solo nel caso in cui non debba essere
pronunziata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, detta norma deve essere letta tenendo
conto che la disciplina originaria prevedeva la sospensione solo in caso di incapacità processuale
sopravvenuta al fatto, sicché era esclusa la possibilità che la stessa sospensione si prospettasse in un caso in
cui potesse essere applicata una misura di sicurezza nei confronti di imputato infermo di mente al momento
del fatto e successivamente. La sentenza costituzionale n. 340 del 1992 ha espunto dalla disciplina le parole
"successiva al fatto" ed ha esteso la portata della normativa anche ai casi di infermità di mente presente già al
momento del fatto. Ne è seguita la possibilità di casi, come quello in esame, in cui la mancata sospensione
del processo implica la celebrazione del giudizio nei confronti di un soggetto che, incapace per infermità di
mente al momento del fatto e successivamente, ha interesse a partecipare consapevolmente al giudizio
medesimo per escludere l'applicazione di misure di sicurezza che, sebbene non costituiscano pene in senso
tecnico, hanno un indubbio, penoso contenuto afflittivo.
Tale situazione ha condotto del resto il legislatore a prevedere, nel novellato art. 425 c. p. p., che il gup non
può pronunziare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal processo debba conseguire
l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. La norma, sebbene riferita all'udienza
preliminare, si riconduce pure all'indicata esigenza di consapevole partecipazione al processo anche quando,
pur prospettandosi il proscioglimento per infermità di mente, sia in vista l'applicazione di una misura di
sicurezza; e si pone quindi come espressione di un principio di portata generale. Dunque, le sentenze di
merito pronunziate nonostante l'accertata incapacità processuale e culminate nell'applicazione di una misura
di sicurezza, devono essere annullate con rinvio al Tribunale per nuovo giudizio.
La giurisprudenza anche costituzionale ha infine chiarito che il regime della sospensione si applica anche
nelle situazioni di infermità irreversibili (Corte Cost. n.281/1995 e 157/2004); nel caso sottoposto
all’attenzione della Consulta nel 2004, il giudice di merito aveva a che fare con imputata affetta da amnesia
dissociativa con grave stato regressivo, patologia che il perito aveva definito irreversibile ed ingravescente;
la Corte reputa la q.l.c. del 72 (sollevata in relazione al 3 ed al 111) manifestamente infondata, sia perché il
sistema della verifica periodica dello stato di mente dell'imputato non può ritenersi in sé contrastante con il principio di
ragionevolezza, risultando del tutto razionalmente contemperate le garanzie di autodifesa con l'esigenza di contenere la
stasi processuale, evitando anche rischi di comportamenti simulatori, sia perché nessun contrasto è possibile ravvisare
con il principio della durata ragionevole del processo, avuto riguardo alla finalità non certo sterilmente dilatoria che la
disposizione oggetto di impugnativa intende perseguire nel sistema, mentre gli inconvenienti di fatto derivanti da tale
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disciplina devono trovare soluzione nel quadro di uno specifico intervento, da riservare alle scelte discrezionali del
legislatore; e non vengono addotti elementi nuovi o diversi da quelli già esaminati.
Il principio è stato recentemente ribadito dalla Corte Costituzionale, su questione sollevata dal Giudice per
l’udienza preliminare del Tribunale di Lecce: l’imputato risultava in quel caso affetto dagli esiti cronici ed
irreversibili di una patologia ischemica, ed il giudice, sospeso il procedimento, aveva per due volte
proceduto come previsto dall’art. 72 c. p. p. ad accertamenti peritali, che avevano confermato la prognosi di
irreversibilità della patologia riscontrata
il giudice a quo dubita .. della legittimità costituzionale del citato art. 72 cod. proc. pen., nella parte in cui non
esclude che la disciplina da esso recata si applichi allorché sia stato accertato che lo stato mentale dell’imputato ne
impedisce in modo permanente la cosciente partecipazione al procedimento; .. ad avviso del giudice a quo, tale
disciplina – del tutto ragionevole allorché l’incapacità dell’imputato appaia temporanea e reversibile – si rivelerebbe,
al contrario, irrazionale – e, dunque, lesiva dell’art. 3 Cost. – quando ci si trovi di fronte a impedimenti a carattere
permanente e irreversibile, connessi a patologie croniche; .. in simili evenienze, la sospensione del procedimento – la
quale, per sua natura, dovrebbe comportare una stasi solo temporanea delle attività processuali – sarebbe destinata,
di fatto, a protrarsi «ad oltranza», per tutta la residua durata della vita dell’imputato, con conseguente
compromissione anche del principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost.;
Corte Costituzionale, ordinanza n. 289 del 18 ottobre / 4 novembre 2011 adotta una pronuncia di
inammissibilità, rilevando che il giudice a quo ha già proceduto alla verifica periodica sullo stato di mente
dell’imputato: dunque la questione risulta .. manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, avendo il
rimettente – nell’attuale fase del procedimento – già fatto applicazione della norma censurata.
In motivazione si aggiunge tuttavia che una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale del solo
art. 72 cod. proc. pen. non solo non eliminerebbe, ma rischierebbe addirittura di aggravare l’ipotizzato
vulnus del principio di ragionevole durata del processo: essa avrebbe, infatti, come unico effetto, quello
di escludere l’obbligo degli ulteriori controlli periodici sullo stato di mente dell’imputato, dopo che sia
stata disposta la sospensione del procedimento ai sensi del precedente art. 71, col risultato di lasciare
il procedimento stesso in una condizione di stasi a tempo indefinito, senza la previsione di alcuno
strumento per riattivarne eventualmente il corso.
E’ utile evidenziare che la pronuncia da ultimo citata affronta anche un’altra questione sollevata dal giudice
leccese, relativa all’art. 150 c. p., del quale era stato invocato il contrasto con l’art. 3 Cost.,
nella parte in cui non prevede che l’estinzione del reato consegua – oltre che alla morte del reo, la quale, secondo
quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, «fa venir meno la prosecuzione del rapporto processuale» –
anche «ad uno stato mentale dell’imputato in vita che ne impedisca in modo permanente ed irreversibile la cosciente
partecipazione al procedimento», producendo, così, il medesimo effetto di impedire in via definitiva la prosecuzione
del rapporto processuale;
La Corte nega l’effettiva assimilabilità delle situazioni poste a confronto: la morte è un dato facilmente
accertabile e pacificamente irreversibile, che elimina fisicamente il soggetto del rapporto processuale; la
patologia mentale richiede una diagnosi ed una prognosi, con un grado di opinabilità assai più elevato
(considerata anche l’eventualità di atteggiamenti simulatori), soprattutto in punto di durata della malattia e
di sua reversibilità. D’altra parte, in regime di personalità della responsabilità penale, la morte del reo
estingue il contenzioso penale, mentre la sospensione del processo ha una mera funzione protettiva riguardo
ad un diritto di natura processuale. Insomma, comparazione ingiustificata – almeno nella misura necessaria
a dimostrare la necessità costituzionale di un identico trattamento delle fattispecie – e questione
manifestamente infondata. Queste le testuali motivazioni dell’ordinanza in argomento:
a prescindere dal rilievo che le cause di estinzione del reato costituiscono ius singulare, rientrante,
quanto a casi e disciplina, nella discrezionalità legislativa, giacché le norme che le prevedono implicano
una eccezione alle regole generali circa le conseguenze della commissione di fatti penalmente illeciti,
occorre, in primo luogo, osservare che mentre nel caso di morte dell’imputato la cessazione del rapporto
processuale deriva dalla natura stessa dell’evento, che implica il venir meno, sul piano fisico, di uno dei
soggetti di quel rapporto; nell’ipotesi considerata dal giudice a quo la definitività dell’impedimento alla
prosecuzione delle attività processuali si correla, invece, a una prognosi (quella di assenza di
prospettive di guarigione o di significativa attenuazione dell’infermità mentale da cui l’imputato risulta
affetto): prognosi che – in quanto basata sulle attuali cognizioni scientifiche, e tenuto conto anche
dell’eventualità di comportamenti simulatori (al riguardo, ordinanze n. 33 del 2003 e n. 298 del 1991) –
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appare connotata da margini di possibile errore certamente superiori, in linea generale, a quelli propri
dell’accertamento dell’avvenuto decesso dell’imputato .. Dirimente è, peraltro, la considerazione della
diversità della ratio di tutela che viene in rilievo nei due frangenti; .. l’estinzione del reato per morte
del reo costituisce, infatti, diretto riflesso del principio – di carattere sostanziale – di personalità della
responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.), il quale impedisce che la potestà punitiva dello
Stato si eserciti su soggetti diversi dall’autore del fatto criminoso;.. di contro, la preclusione allo
svolgimento del procedimento nei confronti della persona che, per il suo stato di mente, non è in grado
di parteciparvi in modo cosciente ha un obiettivo di protezione di natura prettamente processuale,
mirando alla salvaguardia del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto
della difesa personale o autodifesa (sentenza n. 281 del 1995); .. l’eterogeneità delle situazioni poste a
confronto impedisce, pertanto, di ravvisare la denunciata violazione del principio di eguaglianza.
3) Le conseguenze del riconoscimento del vizio di mente.
Come più volte detto, il vizio di mente determina, ove totale, il proscioglimento dell’imputato a norma del
primo comma dell’art. 530 c. p. p., con la formula (che a norma dello stesso art. 530 deve essere indicata nel
dispositivo) assolve l’imputato perché non imputabile al momento del fatto (per vizio totale di mente OPPURE per
altra causa che escluda l’imputabilità). In caso di parzialità del vizio, si avrà una diminuzione della pena.
Volendo segnalare, nei necessari termini di rapidità, qualche ulteriore significativa questione posta in
giurisprudenza, può indicarsi:
a) la questione circa il rapporto tra difetto di imputabilità per infermità mentale e cause di estinzione del
reato con particolare riferimento all’amnistia. Prevalere l’indirizzo secondo cui deve ritenersi più
vantaggiosa l’applicazione della amnistia, la quale, estinguendo il reato, fa venir meno l’occasione e persino
l’utilità di accertare l’imputabilità dell’agente;
b) il vizio parziale di mente è considerato a tutti gli effetti circostanza inerente al reo (cfr. per tutte
Cassazione penale, sez. I, 27 ottobre 2010, n. 40812: il vizio parziale di mente, attenendo alla sfera
dell'imputabilità, è una circostanza inerente alla persona del colpevole ed è pertanto soggetto al giudizio di
comparazione, che ha carattere unitario);
c) circa la compatibilità del vizio parziale di mente con alcune circostanze, aggravanti ed attenuanti, è nota
la antica disputa (che ha diviso la stessa dottrina) sulla compatibilità tra seminfermità mentale e
premeditazione, che sembra ormai definitivamente risolta in senso positivo, poiché anche un seminfermo
di mente può essere capace di concepire un atteggiamento psicologico e volitivo più o meno fermo e di
subire, opponendovi una diversa resistenza, valide controspinte al delitto, tranne nel caso in cui la
circostanza aggravante venga a risultare null’altro che una manifestazione dell’infermità psichica da cui è
affetto l’imputato, nel senso che il proposito criminoso coincide con una idea fissa ossessiva facente parte
del quadro sintomatologico di quella determinata infermità. In tal caso, infatti, non possono agire, per motivi
patologici, le controspinte morali ed etiche avversanti e bilancianti il proposito criminoso: la premeditazione
può risultare incompatibile con il vizio di mente (nella specie, parziale) nella sola ipotesi in cui consista in una
manifestazione dell'infermità psichica da cui è affetto l'imputato, nel senso che il proposito criminoso coincida con
un'idea fissa ossessiva facente parte del quadro sintomatologico di quella determinata infermità (Cassazione penale,
sez. I, 4 febbraio 2009, n. 9105).
Nel senso della compatibilità si conclude altresì quanto al rapporto della seminfermità di mente con le
circostanze aggravanti dei motivi abietti o futili (art. 61 n.1 c.p.), e dell’aver agito con sevizie e crudeltà (art.
61 n.4 c.p.), analogamente affermandosi che tale compatibilità va esclusa allorché tali aggravanti siano
peculiari espressioni o manifestazioni della essenza stessa della patologia psichica; precisandosi che in caso
di affermata incompatibilità risulterà inapplicabile al seminfermo di mente l’aggravante e non, al contrario,
la diminuente prevista dall’art. 89 c.p.
Non sussiste incompatibilità tra la circostanza aggravante di avere agito per un motivo futile e il vizio
parziale di mente. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato la pronunzia dei giudici di merito, i quali
avevano stabilito che la pulsione omicida non si era manifestata immotivatamente e gratuitamente per
esclusivo effetto della patologia mentale, caratterizzata da angosce e fantasie persecutorie, da cui era
affetto l'imputato, ma in conseguenza di un preciso accadimento scatenante, oggettivamente banale,
preso a pretesto dall'agente per estrinsecare la propria caratteriale aggressività). (Cassazione penale,
sez. I, 1 dicembre 2004, n. 526).
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La circostanza aggravante consistente nell'avere agito con crudeltà è compatibile con il vizio parziale di
mente, a meno che la condotta inumana e crudele sia stata l'effetto della malattia, e cioè una
manifestazione patologica del vizio di mente, la quale abbia sconvolto, in tutto o in parte, il processo
intellettivo e volitivo del soggetto, identificandosi nel vizio medesimo (Cassazione penale, sez. I, 18
febbraio 1998, n. 3748).
La seminfermità mentale e le circostanze aggravanti della premeditazione e del motivo abietto o futile
operano su piani distinti: l'una (la seminfermità) è aspetto della capacità di intendere e di volere, ossia
della imputabilità, la quale è a sua volta uno status in base al quale l'autore di un fatto costituente
reato è ritenuto responsabile dei suoi atti e quindi soggetto di diritto penale; le altre ineriscono invece
al dolo, che è qualificato più intensamente nel caso di persistenza del proposito criminoso, sia in quello
di abnormità del movente. Il seminfermo di mente è pertanto capace di nutrire un dolo (o una colpa) di
intensità o di grado pari a quello del sano di mente e di persistere nell'intento criminoso, nonché di
valutare l'eventuale abnormità o futilità del movente. L'incompatibilità è invece sussistente, quando le
menzionate circostanze aggravanti siano espressioni o manifestazioni della essenza stessa
dell'infermità psichica (Cassazione penale, sez. I, 8 febbraio 1985, Di Ronio).
La Cassazione ha ritenuto che non si possa escludere la compatibilità tra l’art. 89 c.p. e l’attenuante della
provocazione (art. 61 n.2 c.p.), occorrendo peraltro verificare se la reazione del soggetto non dipenda dal
fatto provocatorio, ma si identifichi con la stessa infermità psichica, capace di scatenare manifestazioni
colleriche ingiustificate.
L'attenuante della provocazione è incompatibile con la diminuente del vizio parziale di mente nei casi in
cui vi sia sostanziale coincidenza tra lo stato d'ira e l'infermità mentale o quest'ultima abbia avuto
preponderante incidenza sul primo (Cassazione penale, sez. I, 29 aprile 2009, 21405).
3,1) Segue: le misure di sicurezza.
Nei casi di delitti dolosi puniti con pena massima della reclusione superiore a due anni, alla assoluzione
per difetto di imputabilità consegue, in caso di conclamata ed attuale e persistente pericolosità sociale (così
come prescritto da Corte Cost., 27 luglio 1982, n. 139), l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero
in ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo non inferiore a due anni, secondo quanto disposto
dall’art. 222 c. p.; invece nel caso di contravvenzioni, delitti colposi, o delitti dolosi puniti con sanzione
pecuniaria o con pena detentiva inferiore nel massimo ai due anni, il giudice dovrà semplicemente
comunicare la sentenza di proscioglimento all'Autorità di pubblica sicurezza.
La durata minima del ricovero è di cinque anni nei casi di delitti puniti con pena detentiva superiore nel
massimo ai dieci anni, e di dieci anni nei casi di delitti puniti con la pena dell’ergastolo.
Nel caso in cui sia accertato un vizio parziale di mente, o la cronica intossicazione da alcool o da sostanze
stupefacenti, all’imputato di delitto doloso punito con pena detentiva non inferiore nel minimo a cinque
anni potrà, in caso di conclamata ed attuale e persistente pericolosità sociale (così come prescritto da Corte
Cost., 28 luglio 1983, n. 249), applicarsi la misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia per un
periodo non inferiore ad un anno, secondo quanto disposto dall’art. 219 c. p.; invece nel caso di
contravvenzioni, delitti colposi, o delitti dolosi puniti con sanzione pecuniaria o con pena detentiva inferiore
nel massimo ai due anni, il giudice dovrà semplicemente comunicare la sentenza di proscioglimento
all'Autorità di pubblica sicurezza.
La durata minima del ricovero è di tre anni nei casi di delitti puniti con pena detentiva superiore nel
massimo ai dieci anni.
Se invece si tratta di un altro reato, per il quale la legge stabilisce la pena detentiva, e risulta che il
condannato è persona attualmente socialmente pericolosa, il ricovero in una casa di cura e di custodia è
ordinato per un tempo non inferiore a sei mesi; tuttavia il giudice può sostituire alla misura del ricovero
quella della libertà vigilata. La misura di sicurezza della libertà vigilata può essere applicata, in luogo della misura
dell'assegnazione ad una casa di cura e di custodia, anche nei confronti del condannato affetto da vizio parziale di
mente, se in concreto detta misura sia capace di soddisfare le esigenze di cura e tutela della persona e di controllo della
sua pericolosità sociale (Cassazione penale, sez. I, 23 febbraio 2011, n. 18314).
In merito alla determinazione della pena edittale del reato ai fini della determinazione della durata della
misura di sicurezza, va ricordato che Cassazione penale, sez. I, 12 novembre 2009, n. 46930 ha chiarito che
la riduzione per il rito abbreviato non incide sulla pena da considerare, ai sensi dell'art. 222 c.p., per la determinazione
della durata della misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario.
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Quanto alla pericolosità sociale, essa, a norma dell’art. 203 c. p., ricorre quando può ritenersi probabile –
sulla base delle circostanze indicate nell'articolo 133 c. p. (ad esempio la gravità del reato commesso, la
personalità dell’imputato) - che l’imputato commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (agli effetti
penali la pericolosità sociale rilevante ai fini dell'applicazione di una misura di sicurezza consiste nel pericolo di
commissione di nuovi reati e deve essere valutata autonomamente dal giudice che deve tener conto dei rilievi peritali
sulla personalità, sugli effettivi problemi psichiatrici e sulla capacità criminale dell'imputato, nonché sulla base di ogni
altro parametro desumibile dall'art. 133 c.p. – Cassazione penale, sez. I, 14 ottobre 2010, n. 40808).
E’ poi evidente che se il perito conclude per la pericolosità sociale dell’imputato, con conseguente
applicazione di una misura di sicurezza, non potrà essere concesso all’imputato il beneficio della
sospensione condizionale della pena, essendo impossibile il giudizio prognostico positivo che è alla base di
questo istituto: l'applicazione della misura di sicurezza, quando sia accertata la pericolosità, è incompatibile con la
concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, che presuppone una prognosi di astensione dalla
commissione di altri reati. Discende che misura di sicurezza obbligatoria (nel senso di applicazione necessaria della
misura di sicurezza una volta che sia stata accertata in concreto la pericolosità) e sospensione condizionale della pena
non possono essere congiuntamente disposte (nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza che aveva concesso
all'imputato la sospensione condizionale della pena ma che contemporaneamente aveva applicato la misura di sicurezza
della assegnazione a una casa di cura e di custodia). (Cassazione penale, sez. VI, 12 maggio 2009, n. 23061).
In materia di misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario vanno segnalati due –
conseguenziali anche se non cronologicamente prossimi – interventi della Corte Costituzionale.
Con la prima decisione (Corte Cost., 20 luglio 1994, n. 32), la Corte ha dichiarato non conforme a
Costituzione l’applicazione del ricovero in questione rispetto ai minori, ritenendo che si tratta di una
misura detentiva e segregante, prevista e disciplinata in modo uniforme per adulti e minori, e perciò non
idonea a garantire le specifiche esigenze proprie dell’età minorile.
Più di recente la Corte è di nuovo intervenuta (Corte Cost., 18 luglio 2003, n. 253), con una decisione di tipo
manipolativo, sull’art. 222 c.p., dichiarandolo incostituzionale nella parte in cui – prevedendo un rigido
automatismo applicativo – non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in
un ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad
assicurare adeguate cure all’infermo di mente ed a far fronte alla sua pericolosità sociale, e ciò neppure
quando, in concreto, il ricovero in questione non appaia adeguato alle caratteristiche del soggetto, alle sue
esigenze terapeutiche e al livello della sua pericolosità sociale.
La misura vagheggiata viene in motivazione chiaramente indicata in quella della libertà vigilata,
evidentemente prefigurandosi, all’interno delle prescrizioni imposte dalla disciplina degli artt. 228 e segg.
c.p., anche delle prescrizioni a contenuto terapeutico.
Afferma la sentenza che la situazione dell’infermo di mente è “per molti versi assimilabile a quella di una
persona bisognosa di una specifica protezione come il minore”. Anche per l’infermo di mente, infatti,
“l’automatismo di una misura segregante e “totale” come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario,
imposta pur quando essa appaia in concreto inadatta, infrange l’equilibrio costituzionalmente necessario e
viola esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona, nella specie del diritto alla salute di cui
all’art. 32 Cost.”.
E’ dunque consolidato oggi l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la misura di sicurezza della libertà
vigilata è applicabile nei confronti del soggetto assolto per vizio totale di mente, e ciò a seguito della parziale declaratoria
di incostituzionalità dell'art. 222 cod. pen., ad opera della sentenza n. 253 del 2003 della Corte costituzionale
(Cassazione penale, sez. I, 20 ottobre 2010, n. 39804, sentenza con la quale è stato peraltro ritenuto esente da
censure il provvedimento con il quale il Tribunale, accertata l'accresciuta pericolosità dell’imputato, aveva
stabilito che per fare fronte alla nuova situazione era necessario il ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario, disponendo l'applicazione di quest'ultima misura ex art. 222); è stata altresì ritenuta del tutto
esente da censure l’applicazione ad infermo totale di mente della più blanda misura della assegnazione a
casa di cura e custodia (cfr. Cassazione penale, sez. II, 17 giugno 2010, n. 34453, che ha rigettato
l’impugnazione del PG fondata sul rilievo temporale: ed invero il giudice, nell’applicare la misura di cui al
219, aveva anche mutuato dalla detta disposizione normativa la durata della misura, stabilendola in sei mesi;
il PG fa ricorso dicendo: mi sta bene l’applicazione di questa più blanda misura, ma la durata deve essere
quella prescritta dal 222, nel caso di specie /629cp/ almeno due anni; la Corte rigetta il ricorso statuendo che
il dictum della Corte, deve essere inteso nel senso che llart. 222 c.p. non può più essere letto in termini di automatica
applicazione della misura di sicurezza del Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, al prosciolto per totale
infermità di mente, ma nel senso che a quest’ultimo può essere applicata anche diversa misura di sicurezza purché
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rispondente alla tutela delle due esigenze contrapposte: cura dell’infermo e tutela della collettività. In tale ambito
pertanto il giudice dispone della possibilità di scelta della misura di sicurezza più idonea al perseguimento di detti fini,
potendo così sostituire quella prevista dall’art. 222 c.p. con altra prevista e disciplinata dall’art. 219 c.p.. Peraltro tale
libertà di scelta.. non consente al giudice di prevedere nel concreto una misura di sicurezza il cui contenuto attuativo si
presenti in modo difforme rispetto alla previsione legale. Il disporre, da un lato la misura di sicurezza della Casa di cura
e custodia (ex art. 219 c.p.) e prevedere, nel contempo che essa abbia durata pari ad anni due (secondo la previsione di
cui all’art. 222 c.p.), come sostiene l’Ufficio ricorrente, vorrebbe dire che al giudice è riconosciuta la possibilità di
disporre una misura di sicurezza atipica .. con caratteri difformi dal modello legale, che .. rimane comunque l’unico
applicabile, se pur con i contemperamenti derivanti dalle numerose decisioni della Corte Costituzione, la quale in più
occasioni ha censurato proprio il rischio della "creazione" giurisprudenziale di misure diverse, per contenuto dal
modello legale).
4) L’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza.
La misura di sicurezza può essere applicata anche in via provvisoria, quando (e fino a quando), nel corso del
giudizio, emerga la attuale pericolosità sociale del minore di età, dell'infermo di mente, dell'ubriaco abituale,
della persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti, o della persona in stato di cronica intossicazione
prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti.
A seguito della parziale illegittimità costituzionale sia dell'art. 206 c. p. pronunciata da Corte costituzionale,
29 novembre 2004, n. 367, può essere applicata una misura di sicurezza meno contenitiva del ricovero in
ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia, che sia concretamente idonea ad assicurare
all’imputato adeguate cure ed a fronteggiarne la pericolosità sociale.
Per quel che attiene al procedimento relativo all'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, il
combinato disposto degli artt. 312 e 313 c.p.p. prevede che la misura può essere disposta in ogni stato e
grado del procedimento:
* purché sussistano gravi indizi di commissione del fatto;
* purché non ricorrano le condizioni previste dall'articolo 273, comma 2 (nessuna misura può essere
applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non
punibilità o se sussiste una causa di estinzione del reato ovvero una causa di estinzione della pena): ma è
evidente, e lo ha chiarito la Suprema Corte, che non si fa riferimento alle cause di non punibilità derivanti
dal difetto di infermità, poiché la non imputabilità del prevenuto per vizio totale di mente, è, a norma
dell’art. 206 c. p. p., proprio la situazione in presenza della quale è consentita l’applicazione provvisoria di
una misura di sicurezza: in tema di applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero in un ospedale
psichiatrico giudiziario, il richiamo, operato nell'art. 312 c.p.p., all'art. 273, comma 2, c.p.p., e quindi, in negativo,
all'insussistenza di una causa di non punibilità, deve intendersi riferibile solo alle cause di non punibilità diverse da
quelle che, a norma dell'art. 206 c.p., consentono l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza (Cassazione
penale, sez. V, 15 gennaio 2007, n. 5818).
Non si deve invece procedere all'interrogatorio dell'indagato a penna di perdita di efficacia della misura:
infatti l'art. 313 c.p.p., comma 1, riguardante il procedimento per l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza,
richiama solo l'art. 294 e non anche l'art. 302 c.p.p. e, per altro verso, l'equiparazione della misura di sicurezza alla
custodia cautelare, stabilità dall'art. 313 c.p.p., comma 3, vale soltanto ai fini dell'impugnazione (Cassazione penale,
sez. II, 23 settembre 2010, n. 36732).
L'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza non è soggetta a termini di durata massima, ivi compresi quelli
previsti per la custodia cautelare (Cassazione penale, sez. VI, 8 luglio 2009, n. 28908). Infatti, l'art. 206 c.p.
disciplina specificamente ed esclusivamente l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza,
prevedendo al capoverso la revoca della misura nel solo caso in cui venga meno la pericolosità sociale
(nell'accezione di cui all'art. 203 c.p.). Tale norma sostanziale trova esatta e conforme corrispondenza nel
capoverso dell'art. 313 c.p.p. che, al fine di assicurare una revoca tempestiva della misura per il caso che
venga meno il suo presupposto peculiare, prevede l'applicazione dell'art. 72 c.p.p., ed in particolare nuovi
accertamenti ogni sei mesi ovvero anche prima quando il giudice ne ravvisi l'esigenza. Si tratta all'evidenza
di un sistema che disciplina l'istituto specifico della durata dell'applicazione provvisoria di misura di
sicurezza custodiale in modo razionale e compiuto, pienamente coerente al presupposto peculiare
dell'accertata attuale pericolosità sociale dell'interessato, senza che residui alcuna esigenza di tutela o di
ambiguità o di insufficienza sistematica che legittimi il ricorso all'applicazione analogica della disciplina
sulla durata del diverso istituto della custodia cautelare.
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Una misura di sicurezza può essere infine applicata in caso di imputato incapace di partecipare
coscientemente al processo: ai sensi dell’art. 73 c. p., in ogni caso in cui lo stato di mente dell'imputato
appare tale da renderne necessaria la cura nell'ambito del servizio psichiatrico, il giudice deve informare
l'autorità competente per l'adozione delle misure previste dalle leggi sul trattamento sanitario per malattie
mentali.
Prima che l’autorità competente vi provveda, il giudice, ove ne ravvisi l’attuale ed improcrastinabile
esigenza, dispone anche di ufficio (con provvedimento che mantiene efficacia fino a quando non sia adottato
il provvedimento da parte dell’autorità competente) il ricovero provvisorio dell'imputato in idonea struttura
del servizio psichiatrico ospedaliero. Allo stesso modo, quando è stata o deve essere disposta la custodia
cautelare dell'imputato, il giudice ordina che la misura sia eseguita nelle forme previste dall'articolo 286
(ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i provvedimenti
necessari per prevenire il pericolo di fuga).
Nel caso di imputato affetto da patologia psichiatrica che impedisca la sua cosciente partecipazione al dibattimento, può
disporsi, ai sensi dell'art. 73, comma terzo, c. p. p., ove egli debba essere mantenuto in custodia cautelare, soltanto il
ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, quale previsto dal richiamato art. 286 c. p.
p., ovvero, ai sensi dell'art. 111, comma quinto, del d.P.R. n. 230/2000 (regolamento attuativo dell'ordinamento
penitenziario), l'assegnazione ad un istituto o sezione speciale per infermi di mente, ma non anche l'assegnazione ad un
ospedale psichiatrico giudiziario, essendo questa subordinata, come applicazione provvisoria di una tipica misura di
sicurezza, alla prevedibile applicazione in via definitiva della misura stessa (Cassazione penale, sez. III, 16
novembre 2007, n. 47335)
Nel caso in cui lo stato di mente dell'imputato appaia tale da renderne necessaria la cura nell'ambito del servizio
psichiatrico e sia del pari necessario mantenere nei suoi confronti la custodia cautelare, il giudice ordina, ai sensi
dell'art. 73 comma 3 c.p.p.; che la misura sia eseguita nelle forme di cui all'art. 286 c.p.p., mediante il ricovero
provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i necessari provvedimenti per prevenire
il pericolo di fuga ovvero, in alternativa, può disporre l'assegnazione dell'imputato ad un istituto o sezione speciale per
infermi o minorati psichici (art. 111 comma 5 d.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 - Regolamento sull'ordinamento
penitenziario), ma in nessun caso l'imputato può essere assegnato ad un ospedale psichiatrico giudiziario, tipica misura
di sicurezza (Cassazione penale, sez. IV, 10 dicembre 2003, n. 3518)
5) Recenti ipotesi di riforma della disciplina delle misure di sicurezza.
Deve da ultimo essere evidenziato che vi è un testo di legge attualmente all’esame della Camera dei Deputati
destinato a modificare in maniera radicale la disciplina in materia di ospedali psichiatrici giudiziari.
Si tratta del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211 (interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva
determinata dal sovraffollamento delle carceri), durante la cui conversione in legge è stato approvato (nell’esame
svoltosi in Senato) un emendamento che ha come obiettivo il definitivo superamento degli ospedali
psichiatrici giudiziari, obiettivo da raggiungere da un lato con la “penitenziarizzazione” delle case di cura
(per le quali, una volta ricoverati i dimessi dagli OPG, si prevedono forme di vigilanza ‘esterna’ a cura delle
forze di Polizia a garanzia della sicurezza della collettività ), e dall’altro con la “depenitenziarizzazione”
degli OPG, destinati a divenire case di custodia attenuata a prevalente vocazione terapeutica (ad es. per
tossicodipendenti, malati o detenute madri) o assistenziale (ad es. per persone in detenzione domiciliare di
scarsa pericolosità che non hanno un domicilio proprio).
Questo è il testo dell’emendamento, attualmente all’esame della Camera dei deputati:
Art. 3-bis (Disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e per la
razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse del Servizio sanitario nazionale e dell’Amministrazione
penitenziaria)
1. Al fine di garantire certezza e compiutezza al processo di superamento degli ospedali psichiatrici
giudiziari, il termine per il completamento degli interventi previsti dall’allegato C del decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri 10 aprile 2008, recante ’’Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario
nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni
strumentali in materia di sanità penitenziaria’’, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 126 del 30 maggio 2008,
è fissato al 1º febbraio 2013.
2. Entro il termine di cui al comma 1, in ciascuna regione deve essere concluso uno specifico accordo tra
l’Amministrazione penitenziaria e la regione, con il quale:
a) sono individuate una o più strutture sanitarie, tra quelle in possesso dei requisiti minimi per le
strutture residenziali psichiatriche, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1997,
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pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 1997, da destinare alla sostituzione dell’ospedale
psichiatrico giudiziario di riferimento della regione;
b) sono definite le rispettive competenze nella gestione delle strutture sanitarie sostitutive di cui alla
lettera a), individuando le funzioni proprie del Servizio sanitario regionale e le funzioni di competenza
dell’Amministrazione penitenziaria;
c) sono istituiti presidi di sicurezza e vigilanza, ubicati lungo il perimetro delle strutture sanitarie
sostitutive di cui alla lettera a), o comunque all’esterno dei reparti in cui le stesse si articolano.
3. Entro il 31 marzo 2013 gli istituti penitenziari già sede di ospedale psichiatrico giudiziario sono
definitivamente chiusi o, in alternativa, riconvertiti ad altra funzione penitenziaria.
4. A seguito della eventuale chiusura di cui al comma 3, i beni immobili degli ex ospedali psichiatrici sono
venduti, con le modalità di cui all’articolo 1, comma 436, della legge 30 dicembre 2004, n. 311. I proventi
delle vendite sono utilizzati per la realizzazione di strutture territoriali residenziali e di centri diurni con
attività riabilitative, destinati ai malati mentali. A tale fine, previa intesa in sede di Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, i proventi delle vendite
sono ripartiti tra le regioni, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, adottato di concerto con i
Ministri della salute e della giustizia
5. Alle disposizioni recate dal comma 2 si conformano anche le regioni a statuto speciale e le Province
autonome di Trento e di Bolzano, in armonia con i rispettivi statuti e le correlate norme di attuazione.
6. A decorrere dal 31 marzo 2013 le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e
dell’assegnazione a casa di cura e custodia sono eseguite esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie
di cui al comma 2. In caso di mancato rispetto, in una o più regioni, del termine previsto dal comma 2, il
Governo provvede in via sostitutiva, in conformità all’articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131.
7. Agli oneri derivanti dall’attuazione della presente articolo, valutati in 7 milioni di euro per l’anno 2012 ed
in 4 milioni di euro per l’anno 2013, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del
fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2012-2014, nell’ambito del programma
’’Fondi di riserva e speciali’’ della missione ’’Fondi da ripartire’’ dello stato di previsione del Ministero
dell’economia e delle finanze per l’anno 2012, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo
al Ministero degli affari esteri.
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ALLEGATO 1
Cassazione penale, Sezioni Unite, 25 gennaio 2005, n. 9163
Svolgimento del processo
1.0 Verso le ore 4 del 27 dicembre 2001 G. R., dinanzi alla porta della propria abitazione, sul pianerottolo
condominiale, esplodeva due colpi di pistola all'indirizzo di V. A., che attingevano la vittima all'altezza del
collo e della testa, provocandone la morte. Agenti della Polizia di Stato, prontamente intervenuti a seguito di
segnalazioni, trovavano R. ancora con la pistola in pugno, e questi esclamava al loro indirizzo: "Sono stato io,
così ha finito di rompere"; alla intimazione di gettare l'arma ed alzare le mani, egli non ottemperava
all'invito, continuando a brandire la pistola e rivolgendo minacce agli astanti, compresi alcuni condomini
frattanto accorsi dopo gli spari, sicché gli operanti erano costretti ad intervenire con la forza, disarmandolo e
immobilizzandolo. Al rumore degli spari, si era destata anche C. P., moglie di A., la quale, accortasi che il
marito non si trovava a letto, s'era recata pur ella sul pianerottolo condominiale, al piano inferiore, ed ivi
aveva notato il coniuge riverso per terra ed aveva cercato di soccorrerlo; R., puntatale contro la pistola, le
aveva detto: "ora ammazzo puro te..." e, in un secondo momento, le aveva puntato l'arma contro la tempia.
Già dai primi atti di indagine, e dalla stessa confessione di R., si appurava che l'omicidio era maturato in un
clima di ripetuti diverbi condominiali, originati da presunti rumori dell'autoclave provenienti
dall'appartamento della vittima, posto al piano superiore rispetto a quello dell'omicida, che più volte
avevano indotto R. a disattivare, recandosi in cantina, l'impianto della energia elettrica: tanto era avvenuto
anche quella mattina e, risalendo l'omicida al quinto piano, ove era ubicata la sua abitazione, aveva
incontrato A.: ne era scaturita l'ennesima lite, che si era conclusa in quella maniera tragica.
1.1 G. R. veniva tratto al giudizio del G.I.P. del Tribunale di Roma per rispondere dei reati di cui agli artt. 61,
nn. 1, 4 e 5, 575, 577, n. 3; 337; 61, n. 2, 81, 612, 2° c., c.p..
Procedutosi con rito abbreviato, condizionato ad un poi espletato accertamento peritale sulla capacità di
intendere e di volere dell'imputato e sulla sua pericolosità, quel giudice, con sentenza del 4 marzo 2003,
dichiarava l'imputato medesimo colpevole dei reati ascrittigli, unificati sotto il vincolo della continuazione,
riconosciutagli la diminuente del vizio parziale di mente prevalente sulla contestata aggravante, esclusa la
premeditazione e le aggravanti di cui all'art. 61, nn. 1 e 4, c.p., e lo condannava alla pena di anni quindici e
mesi quattro di reclusione ed alla pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici; disponeva
la misura di sicurezza della assegnazione ad una casa di cura e di custodia per la durata minima di tre anni,
e la confisca dell'arma e delle munizioni in sequestro; lo condannava, infine, al risarcimento del danno, da
liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili, cui assegnava delle provvisionali.
1.2 Nel pervenire alla resa statuizione quanto al ritenuto vizio parziale di mente, il giudice del merito
rilevava che nel corso del procedimento erano stati eseguiti più accertamenti tecnici al riguardo. Una prima
consulenza psichiatrica disposta dal P.M. aveva individuato a carico dell'imputato "un disturbo della
personalità di tipo paranoideo in un soggetto portatore di una patologia di tipo organico, consistente un una
malformazione artero - venosa cerebrale", ed aveva concluso, ritenendo nel soggetto la piena capacità di
intendere ed escludendo invece nel medesimo la capacità di volere ritenuta "grandemente scemata".
Una seconda consulenza tecnica disposta dal P.M. in una prima stesura "individuava nell'imputato la totale
incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, in quanto 'affetto da crisi psicotica paranoidea'". In
una seconda stesura del relativo elaborato tecnico, lo stesso consulente rivedeva parzialmente le sue
precedenti affermazioni, concludendo per "la sussistenza nel periziato di una parziale capacità complessiva,
scaturente da una piena capacità di intendere e da una incapacità di volere limitatamente al momento della
commissione del fatto, trattandosi di un soggetto non psicotico, bensì con personalità borderline di tipo
paranoideo".
Il perito nominato dal giudice "concludeva nel senso di una parziale capacità di intendere e di volere del
detenuto e di una sua attuale pericolosità sociale". In particolare, egli escludeva "un disturbo borderline,
individuando invece... un disturbo paranoideo... frammisto ad elementi appartenenti al disturbo narcisistico
di personalità"; ricostruiva il percorso psicopatologico della personalità del soggetto individuato in un
'nucleo depressivo profondo, legato ad avvenimenti personali ed in grado di determinare radicati sentimenti
di inabilità, insufficienza, inadeguatezza' ...", che avrebbero "portato il R. per anni ad alimentare 'vissuti
fortemente persecutori e tematiche di natura aggressiva, come risposta alla incapacità di assumersi la
responsabilità dei propri fallimenti esistenziali', fino a polarizzare la propria esistenza intorno a 'contenuti
ideici che non possono essere definiti deliranti, ma che possono essere compresi attraverso la definizione
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psichiatrica di 'idee dominanti'...", ritenendo, quindi, sotto il profilo della capacità di volere e di
autodeterminazione, "che il R. 'abbia sperimentato, mediante la totale invasività del pensiero persecutorio
con le caratteristiche delle idee dominanti, uno scardinamento delle proprie labili capacità di controllo delle
scariche impulsive e della propria aggressività..., si tratta di un passaggio all'atto in cui il libero dispiegarsi
dei meccanismi della volontà viene impedito dal massiccio vissuto persecutorio, ..."; e che "l'imputato abbia
posseduto nelle fasi immediatamente prima del delitto, come attualmente, 'una compromissione della
capacità di intendere, che, se non giunge alla grave destrutturazione tipica delle autentiche esperienze
psicotiche, si caratterizza per una profonda anomalia del pensiero'... tale ausiliario del giudice concludeva,
quindi, per la sussistenza di "una condizione psicopatologica in cui entrambe lo capacità di intendere e di
volere erano significativamente danneggiate, ma senza giungere al loro totale azzeramento" ulteriormente
chiarendo che, "quanto alla patologia organica accusata dall'imputato e consistente in una malformazione
artero - venosa cerebrale", era da escludere "che essa abbia avuto un ruolo esclusivo nell'infermità
psichiatrica anche se certamente contribuisce a determinare la particolare condizione del predetto, incidendo
negativamente sulle sue capacità di volizione": "in sostanza - annota la sentenza di prime cure - "il perito
esclude un disturbo psicotico delirante" e ritiene che "il periziato soffre di un disturbo paranoideo per effetto
del quale la capacità di intendere e di volere è compromessa, ma non del tutto esclusa".
Il giudice riteneva del tutto condivisibili tali conclusioni peritali, cui erano pervenuti, in sostanza, "pur
attraverso percorsi diversi", "tutti i consulenti tecnici, compresi quelli della parte civile", che avevano
affermato, in una loro prodotta relazione, che "ci sembra corretto ritenere che il soggetto possa al massimo
essere ritenuto seminfermo di mente".
1.3 Sui gravanti dell'imputato, del Procuratore Generale della Repubblica e delle parti civili, la Corte di
Assise di Appello di Roma, con sentenza del 3 febbraio 2004, escludeva la diminuente di cui all'art. 89 c.p.,
riconosceva all'imputato le attenuanti generiche equivalenti all'aggravante di cui all'art. 61, n. 5, c.p.,
rideterminava la pena, fissandola in anni sedici e mesi otto di reclusione, e revocava la misura di sicurezza
dell'affidamento a casa di cura e custodia.
Quanto al punto concernente il vizio parziale di mente, rilevavano i giudici del gravame che "né il perito
nominato dal giudice, né i c.t. del P.M. hanno... riscontrato nell'imputato, in sostanza, altro che disturbi della
personalità, sulla cui esatta definizione non si sono neppure trovati concordi", giungendo, comunque, alla
comune conclusione che le anomalie comportamentali dell'imputato non hanno causa in una 'alterazione
patologica clinicamente accertabile, corrispondente al quadro clinico di una determinata malattia'... né in una
'infermità o malattia mentale o .... alterazione anatomico - funzionale della sfera psichica'.... bensì in
anomalie del carattere, in una personalità psicopatica o psicotica, in disturbi della personalità che non
integrano quella infermità di mente presa in considerazione dall'art. 89 del c.p.".
2.0 Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'imputato, per mezzo del difensore, denunziando:
a) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 89, 575 c.p.. Deduce che la sentenza
impugnata non aveva tenuto conto degli esiti delle disposte consulenze e perizia, e contraddittoriamente
aveva escluso la seminfermità di mente, pur dando atto che "la personalità dell'imputato era certamente
disturbata... e che tale disturbo fornì all'imputato stesso 'gli impulsi anomali a commettere quei particolari
delitti contestatigli e, con la pressione di un violento ed esasperato vissuto di persecuzione, gli attenuò le
capacità di autocontrollo'"; soggiunge che neanche si era tenuto conto "che gli specialisti avevano
evidenziato una vera e propria lesione organica cerebrale..., sicché esisteva una base organica che
indubbiamente ha contribuito nello sviluppo della personalità di tipo paranoideo". Rileva, poi, che "la
valutazione dell'imputabilità è comunque del tutto erronea...", giacché "la varietà delle infermità mentali è
così complessa che non può racchiudersi nell'ambito di tipologie circoscritte alla malattia", e che (all'uopo
richiamando arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte) "anche le anomalie psichiche costituiscono
vera e propria malattia ai sensi della legge penale quando abbiano avuto un sicuro determinismo rispetto
all'azione delittuosa e quindi 'un rapporto motivante con il fatto delittuoso commesso'...";
b) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all'art. 61, n. 5. c.p.. Lamenta il ricorrente che
erroneamente sarebbe stata riconosciuta tale aggravante, sul presupposto che l'imputato avrebbe profittato
dell'ora notturna, e della circostanza che la persona offesa si era appena destata dal sonno, e che, attesa l'ora
tarda, difficilmente avrebbero potuto intervenire altre persone per sedare la lite, laddove, invece, l'imputato
aveva "agito soltanto nel momento in cui l'impulso derivante dalla persecuzione è diventato per lui
irrefrenabile"; non avrebbero, inoltre, considerato i giudici dell'appello che, "il fatto avvenne nelle scale
condominiali del palazzo di cui erano condomini sia il R. che la vittima e quindi quest'ultimo, che era uscito
di casa ben consapevole che la luce era stata staccata proprio dal R., aveva ogni possibilità, conoscendo i
luoghi, di sottrarsi all'aggressione":
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c) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 62 - bis, 133 c.p.: erroneamente - assume
il ricorrente - era stato escluso il giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull'aggravante di cui
all'art. 61, n. 5, c.p., non valutandosi che l'imputato aveva agito "con la pressione di un violento ed esasperato
vissuto di persecuzione" e non tenendosi conto della sua incensuratezza e della sua età ("circa settant'anni"
all'epoca dei fatti).
2.1 Il ricorso veniva assegnato alla I Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza del 13
ottobre 2004, ne disponeva la rimessione alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p..
Si rilevava, difatti, che nella giurisprudenza di questa Suprema Corte era da tempo insorto un contrasto, in
ordine alla questione concernente il concetto di "infermità", ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p.. Un "più risalente e
consistente indirizzo" ha ritenuto che, "in tema di imputabilità, le anomalie che influiscono sulla capacità di
intendere e di volere sono le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e
quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o
croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli
tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità...". Altro "indirizzo minoritario" ha, invece,
ritenuto che "il concetto di infermità mentale recepito dal nostro codice penale è più ampio rispetto a quello
di malattia mentale, di guisa che, non essendo tutte le malattie di mente inquadrate nella classificazione
scientifica delle infermità, nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche dei soggetti affetti
da nevrosi e psicopatie, nel caso che queste si manifestino con elevato grado di intensità e con forme più
complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi ......".
2.2 Il Primo Presidente ha fissato l'odierna udienza per la trattazione del ricorso davanti a queste Sezioni
Unite.
2.3 La difesa del ricorrente ha prodotto "note di udienza", con le quali ribadisce i motivi del ricorso, quanto
alla questione concernente il vizio parziale di mente, ulteriormente rilevando, in conclusione, che "è
auspicabile... che la Corte Suprema, stante la fluente modificazione del concetto della classificazione delle
malattie mentali, voglia ritenere l'infermità di mente - cui fa riferimento l'art. 89 c.p. - cosa diversa dalla
malattia mentale, intesa come alterazione patologica in senso clinico".
Motivi della decisione
3.0 Il primo motivo di ricorso - che nella prospettazione gravatoria assume propedeutico rilievo anche in
riferimento agli altri profili di doglianza esplicitati - propone la questione che può così sintetizzarsi: se, ai fini
del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrino nel concetto di "infermità" anche i "gravi
disturbi della personalità".
3.1 Al riguardo, e sui temi di fondo che afferiscono a tale questione, si registra da tempo un contrasto
giurisprudenziale nelle decisioni di questa Suprema Corte. Le oscillazioni interpretative sono state esse i
ente determinate dal difficile rapporto tra giustizia penale e scienza psichiatrica, insorto dal momento in cui
quest'ultima ha sottoposto a revisione critica paradigmi in precedenza condivisi, ponendo in crisi
tradizionali elaborazioni metodologiche e, nel contempo, legittimando una sempre più accentuata tendenza
verso il pluralismo interpretativo; sicché - come meglio più oltre si vedrà - accanto ad un indirizzo "medico"
(all'interno del quale si sono distinti un orientamento "organicista" ed uno "nosografico", si è proposto quello
"giuridico" (volta a volta accompagnato, o temperato, dal criterio della patologicità, da quello della intensità,
da quello eziologico), che ha, in sostanza, sviluppato una nozione più ampia di infermità rispetto a quello di
malattia psichiatrica.
4.0 La questione proposta involgo delicati profili, oltre che sul piano della teoria generale del reato, su quello
del rapporto e dell'appagante contemperamento delle due, spesso contrapposte, esigenze, della prevenzione,
generale o speciale, e del garantismo, che - per mutuare l'espressione di autorevole dottrina - costituisce
oggetto di una delle "sfide del diritto penale moderno o postmoderno". In tale contesto già circa un
venticinquennio fa la stessa dottrina, particolarmente attenta a tale tema, parlava di "crisi del concetto di
imputabilità"; e non sono mancate anche prese di posizioni proponenti la abolizione, tout court, della
categoria dell'imputabilità dal sistema penale, concretizzatesi anche in proposte di legge, quella n. 177 del
1983, quella n. 151 del 1996. La questione si pone su un piano che parte dal riconoscimento alla imputabilità
di un ruolo sempre più centrale e fondamentale, secondo la triplice prospettiva "di principio costituzionale,
di categoria dommatica del reato, di presupposto e criterio guida della sanzione penale".
4.1 L'art. 85.2 c.p definisce (secondo una proposizione generale, priva di ulteriori specifici contenuti) la
imputabilità come la condizione di chi "ha la capacità di intendere e di volere" e, come appare anche dalla
sua collocazione sistematica, all'inizio del titolo IV, dedicato al reo, determina una qualifica, o stato,
dell'autore del reato, che lo rende assoggettabile a pena (art. 85.1 c.p.). Tuttavia - sostanzialmente concorde la
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dottrina -, nonostante tale collocazione sistematica, la imputabilità non si limita ad essere una "mera capacità
di pena" o un "semplice presupposto o aspetto della capacità giuridica penale", ma il suo "ruolo autentico"
deve cogliersi partendo, appunto, dalla teoria generale del reato; ed icasticamente si chiarisce al riguardo
che, "se il reato è un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e la colpevolezza non è soltanto dolo o colpa ma
anche, valutativamente, riprovevolezza, rimproverabilità, l'imputabilità è ben di più che non una semplice
condizione soggettiva di riferibilità della conseguenza del reato data dalla pena, divenendo piuttosto la
condizione dell'autore che rende possibile la rimproverabilità del fatto" essa, dunque, non è "mera capacità
di pena", ma "capacità di reato o meglio capacità di colpevolezza", quindi, nella sua "propedeuticità
soggettiva rispetto al reato, presupposto della colpevolezza" non essendovi colpevolezza senza imputabilità.
4.2 Si è ulteriormente specificato che i confini di rilevanza ed applicabilità dell'istituto della imputabilità
dipendono, in effetti, anche in qualche misura dal concetto di pena che si intenda privilegiare: nell'ottica
retributiva di questa, se la pena deve servire a compensare la colpa per il male commesso, non può non
rilevarsi che essa si giustifica solo nei confronti di soggetti che hanno scelto di delinquere in piena libertà;
sotto il profilo di un'ottica preventiva, ponendosi in dubbio il rapporto tra libertà del volere e funzione
preventiva (in cui il principio della libertà del volere non è più funzionale alla fondazione e giustificazione
della pena"), tale funzione preventiva potrà rivolgersi solo a soggetti che siano effettivamente in grado di
cogliere l'appello contenuto nella norma, e fra questi non sembra che possano annoverarsi anche i soggetti
non imputabili, in quanto tali ritenuti non suscettibili di motivazione mediante minacce sanzionatorie. E,
sotto il profilo della risocializzazione (che partecipa alla funzione di prevenzione speciale), giustamente si è
rilevato che "il collegamento psichico fra fatto e autore, comunque necessario per dar senso alla
risocializzazione, ancora una volta non può che essere visto nella possibilità che il soggetto aveva di agire
altrimenti al momento del fatto commesso", in mancanza di tanto non avendo senso chiedersi se il soggetto
abbia bisogno di essere rieducato, dovendosi piuttosto ritenere che egli non sia neppure in grado di cogliere
il significato della pena e, conseguentemente, di modificare i propri comportamenti.
Non sono queste la sede e l'occasione per ulteriormente approfondire, rivisitare e delibare l'articolato e
fecondo dibattito dottrinario al riguardo svoltosi - dopo l'entrata in vigore della Carta Costituzionale e,
segnatamente, del suo art. 27 - e per molti versi tuttora attuale. Gioverà nondimeno, ai fini che qui pure
interessano, rilevare che la preminente dottrina è orientata per una teoria "pluridimensionale" o
"plurifunzionale" della pena, sia pure con impostazioni differenziate; e che la Corte Costituzionale, pur
richiamando la concezione, precedentemente affermata, c.d. "polifunzionale", della pena, ha evidenziato il
profilo centrale della stessa, quello rieducativo, rilevando che, "per altra parte, poi (reintegrazione,
intimidazione, difesa sociale), si tratta bensì di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma non tale
da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel
contesto dell'istituto della pena...; è per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può
essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena" (Corte Cost., sent. n. 313/1990),
ivi ricordando la stessa Corte che ciò aveva già portato "a valorizzare il principio addirittura sul piano della
struttura del fatto di reato (sentenza n. 364 del 1988)".
4.3 E proprio sul versante del contenuto e della rilevanza del concetto di colpevolezza, mette conto di
rilevare che in tale ultima decisione (resa in riferimento alla ritenuta parziale illegittimità costituzionale
dell’art. 5 c. p.), il Giudice delle leggi aveva richiamato come la puntualizzazione di quel concetto non
potesse essere disgiunta da un giudizio di rimproverabilità del fatto; aveva ricordato, tra l'altro, l'approdo
sistematico della "necessità, per la punibilità del reato, della effettiva coscienza, nell'agente,
dell'antigiuridicità del fatto"; aveva sottolineato che "la colpevolezza costituzionalmente richiesta... non
costituisce elemento tale da poter essere, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con
altri o paradossalmente eliminato" e che ciò era testimoniato dalla "funzione di garanzia (limite al potere
statale di punire) che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza" inalterati rimanendo,
quale che ne sia il fondamento considerato, "il valore della colpevolezza, la sua insostituibilità", la sua
"indispensabilità... quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema
costituzionale... Il principio di colpevolezza..., più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio
garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto", in un sistema, come il nostro, che "pone al vertice
della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere
strumentalizzata) ...", e "ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su 'congrui' elementi
subiettivi".
4.4 Può, dunque, ritenersi consolidato e definitivo approdo ermeneutico - costituzionale e sistematico che "la
configurazione personalistica della responsabilità - come ancora si esprime autorevole dottrina - esige che
essa si radichi nella commissione materiale del fatto e nella concreta rimproverabilità dello stesso. Il che è
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quanto dire che deve essere possibile far risalire la realizzazione del fatto all'ambito della facoltà di controllo
e di scelta del soggetto, al di fuori delle quali può prendere corpo unicamente un'ascrizione meccanicistica,
oggettiva dell'evento storicamente determinatosi": e di tale approdo è necessario, ove occorra, tenere
ineludibile conto nella interpretazione della norma, essendo canone interpretativo pacifico che, ove siano
possibili più interpretazioni della stessa, deve prevalere ed essere privilegiata quella costituzionalmente
orientata e non confliggente con i principi consacrati nella Carta fondamentale.
5.0 Quanto al disposto dell’art. 85 c. p., si è pure pertinentemente già rilevato che la formula normativa ha
espunto ogni riferimento alla "libertà" e alla "coscienza", e, per altro verso, "ha 'ridotto' la categoria
naturalistica all'ambito esclusivamente psicologico, privilegiando i due momenti intellettivo e volitivo in
senso stretto"; conseguentemente, la dottrina ha disatteso il collegamento tra "capacità di intendere e di
volere" e "coscienza e volontà" dell'azione o omissione, ponendo in evidenza la reciproca autonomia ed
indipendenza di tali categorie concettuali, e la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha più volte tanto
ritenuto ed affermato (Cass., Sez VI, n. 4165/1991; id., Sez. III, n. 1574/1986; id., Sez. I, n. 10440/1984; id.,
Sez. I, n. 3502/1979; id., Sez. I, n. 711/1970; id., Sez. I, n. 385/1969).
5.1 Quanto al contenuto della formula normativa dettata dall'art. 85 del codice sostanziale, la capacità di
intendere pacificamente si riconosce nella idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie
azioni, ad "orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà", e quindi nella
capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e
ripercussioni, ovvero di proporsi "una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria
condotta" (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); mentre la capacità di volere consiste nella idoneità del soggetto
medesimo "ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l'azione, in modo coerente
ai valori di cui è portatore "nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo
che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore" nella attitudine a gestire l'una
efficiente regolamentazione della propria, libera autodeterminazione" (Cass, Sez. I, n. 13202/1990, cit.), in
sostanza nella capacità di intendere i propri atti (nihil volitum nisi praecognitum), come ancora si esprime la
dottrina; la quale pure avverte che, alla stregua della prospettiva scientifica delle moderne scienze sociali, in
verità, "una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non
esiste", dovendo piuttosto la volontà umana definirsi libera, "in una accezione meno pretenziosa e più
realistica, nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono
ad agire in un determinato modo, ma riesca ad esercitare poteri di inibizione e di controllo idonei a
consentirgli scelte consapevoli tra motivi antagonistici".
5.2 Il riferimento della norma ad entrambi i suindicati concetti, la capacità di intendere e quella di volere,
rende poi evidente come, de iure condito, la imputabilità debba essere congiuntamente riferita ad entrambe
tali attitudini, difettando essa in mancanza anche di una sola delle stesse. È prospettiva, semmai, solo de iure
condendo quella proposta da una parte della dottrina psichiatrica forense, di eliminare dal testo dell'art. 85
c.p. il riferimento alla capacità di volere, restringendolo al solo profilo della capacità di intendere (anche
sulla scorta di quanto avvenuto in altre legislazioni, in particolare quella federale statunitense del 12 ottobre
1984, che ha accolto il solo concetto di capacità di intendere in tema di mental illness e insanity defense), sul
presupposto che l'altra, in sostanza, si sottrae a qualsiasi riscontro empirico - scientifico e viene affermata,
volta a volta, o in virtù di una "finzione necessaria per la sopravvivenza del diritto penale" o come un
"presupposto indimostrabile e in quanto tale da accogliere a priori", o come "un principio normativo accolto
dal diritto positivo e perciò imprescindibile dal punto di vista formale per legittimare la distinzione
fondamentale tra soggetti imputabili - responsabili e soggetti non imputabili - irresponsabili.
6.0 Gli artt. 88 e 89 c.p., per quanto nella specie interessa, costituiscono specificazioni e puntualizzazioni di
quel generale principio, ponendo parametri normativamente predeterminati per la disciplina dell'istituto,
unitamente ad altri (art. 95, cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti; art. 96,
sordomutismo; artt. 97, 98, l'età del soggetto, pur avvertendosi che le cause codificate di esclusione della
imputabilità non possono considerarsi tassative).
Se deve convenirsi che, quanto al rapporto tra gli artt. 85 e 88 - 89 c.p., la imputabilità è normalmente
considerata presento quando l'autore abbia raggiunto la maturità fisio - psichica normativamente indicata
(tenuto conto, per l'infradiciottenne, del disposto dell'art. 98 c.p.) salvo che versi in una situazione di
infermità (Cass., Sez. I, n. 13202/1990), tanto costituendo (ancora per autorevole voce della dottrina) "il
compromesso, o il punto d'incontro, tra le esigenze proprie del principio di colpevolezza e quello della
prevenzione generale", rimane che, in effetti, il concetto di imputabilità è, al tempo stesso, empirico e
normativo (che "normativamente si manifesta nella costruzione a due piani"), nel senso, che è dato
innanzitutto alle scienze di individuare il compendio dei requisiti biopsicologici che facciano ritenere che il
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soggetto sia in grado di comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativo connesso alla
previsione della sanzione punitiva, ed è mancipio del legislatore, poi, "la fissazione delle condizioni di
rilevanza giuridica dei dati forniti dalle scienze empirico - sociali" tale opzione legislativa implicando
"valutazioni che trascendono gli aspetti strettamente scientifici del problema dell'imputabilità e che
attengono più direttamente agli obiettivi di tutela perseguiti dal sistema penale".
7.0 Ora, è proprio sul versante dei sicuri ancoraggi scientifici che la proposta questione presenta i più
rilevanti aspetti di problematicità, in un contesto in cui la dottrina parla, pressoché unanimemente, di "crisi
della psichiatrica", di "una crisi di identità.... da alcuni anni attraversata" dalla scienza psichiatrica,
risultando "la classificazione dei disturbi psichici quanto mai ardua e relativa, non solo per la mancanza di
una terminologia generalmente accettata, ma per i profondi contrasti esistenti nella letteratura psichiatrica";
il che ha anche fatto dire ad altra autorevole dottrina che, in effetti, "non può propriamente parlarsi di crisi
dell'imputabilità. In (relativa) crisi è infatti semmai... il concetto di malattia mentale". È ben vero, difatti, che
la difficoltà di individuare tali sicuri ancoraggi scientifici comporta ineludibili ricadute sul versante della
necessaria cooperazione tra il sapere scientifico da un verso ed il giudice, d'altro verso, che di quel sapere
devo essere fruitore.
7.1 La scienza psichiatrica propone, difatti, come è noto, paradigmi e modelli scientifici diversi e tra loro
conflittuali.
Secondo il più tradizionale e risalente paradigma medico, le infermità mentali sono vere e proprie malattie
del cervello o del sistema nervoso, aventi, per ciò, un substrato organico o biologico. Tale modello
nosografico (compiutamente elaborato da Emil Kraepelin sul finire dell'ottocento) afferma, in sostanza, la
piena identità tra l'infermità di mente ed ogni altra manifestazione patologica sostanziale, postula la
configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia, propone il disturbo psichico
come infermità "certa e documentabile" escludendosi ogni peculiarità, sotto tale profilo, rispetto ad altre
manifestazioni patologiche; e comporta, quindi, che intanto un disturbo psichico possa essere riconducibile
ad una malattia mentale, in quanto sia nosograficamente inquadrato. Se ne è, quindi, inferito, tra l'altro, che
l'accertamento della causa organica rimarrebbe assorbito dalla sussumibilità del disturbo nelle classificazioni
nosografiche elaborato dalla scienza psichiatrica, nel "quadro - tipo di una determinata malattia" (per cui
"quando il disturbo psichico e aspecifico non corrisponde al quadro - tipo di una data malattia, non esiste
uno stato patologico coincidente col vizio parziale di mente": così, ad esempio, Cass., Sez. I, n. 930/1979). Pur
nell'ambito di tale paradigma, non mancano, tuttavia, diversi riferimenti ad una prospettiva c.d.
psicopatologica, per la quale il vizio di monte è da riconoscere in presenza di uno stato o processo morboso,
indipendentemente dall'accertamento di un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia
ufficiale (si è affermato, quindi, che, "se è esatto che il vizio di mente può sussistere anche in mancanza di
una malattia di mente tipica, inquadrata nella classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre
necessario che il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da una alterazione patologica
clinicamente accertabile...": così Cass., Sez. I, n. 9739/1997).
7.2 Agli albori del '900, sotto l'influenza dell'opera freudiana (e con la scoperta dell'inconscio, di un mondo,
cioè, nascosto dentro di noi, "privo di confini fisiologicamente individuabili attraverso l'esame dei tre livelli
della personalità: l'Es, il livello più basso e originario, permanentemente inconscio; l'Io, la parte ampiamente
conscia, che obbedisco al principio di realtà; il Super - io, che costituisce la "coscienza sociale" e consente la
interiorizzazione dei valori e delle norme sociali), prese a proporsi un diverso paradigma, quello psicologico,
per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell'apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia
prevale sul mondo reale, e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti
psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di
carattere statico. I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a "disarmonie dell'apparato psichico in cui le
fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più
significante della realtà esterna" e, "quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la
malattia mentale". Il concetto di infermità quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi
organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell'attività psichica, come le psicopatie, le nemesi, i disturbi
dell'affettività: oggetto dell'indagine, quindi, non è più la persona - corpo, ma la persona - psiche.
7.3 Intorno agli anni '70 del secolo scorso si è proposto un altro indirizzo, quello sociologico, per il quale la
malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale
di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell'ambiente in cui il soggetto vive; esso nega la
natura fisiologica dell'infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della
psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità, di mente come "malattia sociale". Dal
nucleo di tale indirizzo si sono, quindi, sviluppati orientamenti scientifici che rifiutano l'esistenza della
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malattia mentale come fenomeno organico o psicopatologico (la c.d. "antipsichiatri", o "psichiatria
alternativa").
7.4 Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un "modello integrato" della
malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua
natura e della sua origine: trattasi, in sostanza, di "una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili,
biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia" in tal
guisa superandosi la visione eziologica monocausale della malattia mentale, pervenendosi ad una
concezione "multifattoriale integrata".
In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato
medico, valorizzanti l'eziologia biologica della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica) e contro i rischi di
un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria dinamico - strutturale, che considera il
comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico. Si assiste anche ad una rivalutazione del
metodo nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di rigido codice
psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale, ma piuttosto quello di "una forma di
linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la
massima comprensione". In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM - IV,
o l'ICPC o l'ICD - 10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre
le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici.
È stato anche rilevato che può, oggi, sicuramente ritenersi superata una concezione unitaria di malattia
mentale, affermatasi, invece, una concezione integrata di essa, che comporta, tra l'altro, un approccio il più
possibile individualizzato, con esclusione del ricorso a categorie o a vecchie rigidi schemi nosografici.
7.5. In tale panorama di orientamenti della scienza psichiatrica moderna, spesso contraddittori - che ha fatto
anche dire a taluno che definire cosa sia oggi l'infermità di cui agli artt. 88 e 89 c.p. è un problema
praticamente insolvibile e affatto fittizio -, si rivendica all'area giuridico - penale la determinazione del
contenuto e della funzione del concetto di imputabilità e del vizio di mente, esso - "implicando una presa di
posizione su ciò che l'ordinamento poteva protendere da lui nella situazione data" - rimanendo una
"questione normativa di ultimativa competenza del giudice, il quale ne assume la responsabilità di fronte
alla società nel cui nome amministra la giustizia". Questa impostazione, consentendo la utilizzazione di "un
modello funzional - garantistico di giudizio sulla imputabilità, ... valorizza la persona come soggetto dotato
di libertà decisionale e di dignità, risultando in grado di garantire il rispetto del principio di colpevolezza e
nello stesso tempo delle esigenze preventive. E si soggiunge che, risolvendosi - come s'è detto - il concetto di
imputabilità sui duplice piano empirico e normativo, la sua ridefinizione deve avvenire attraverso la
valorizzazione delle più aggiornate acquisizioni scientifiche, nonostante la pluralità dei paradigmi
interpretativi riscontrabile all'interno della scienza psichiatrica, riconoscendosi così il primato dell'identità
normativa, ma non prescindendosi dal necessario apporto dell'identità empirica ed in tal guisa
confermandosi la necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza; e proprio per assicurare di fatto
una tale piena collaborazione, autorevole dottrina, attenta ai temi della infermità di mento, è favorevole
all'ampliamento delle cause di esclusione dell'imputabilità, ricomprendendovi anche le nevrosi, le psicopatie
e, in genere, i c.d. disturbi della personalità.
8.0 La giurisprudenza di questa Suprema Corte sulla questione relativa al rilievo dei disturbi della
personalità sul piano della imputabilità è, volta a volta, contrassegnata dalla adesione ad uno od altro dei
paradigmi suindicati, con conseguenti oscillazioni interpretative.
Si è, quindi, affermato che "le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono solo le
malattie mentali in senso stretto, ciò le insufficienze cerebrali originarie o quelle derivanti da conseguenze
stabilizzate di danni cerebrali di vada natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste
ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per
qualità e non per quantità, sicché "esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette
abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si
sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell'applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p., in quanto
hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico - intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale
portato di stati emotivi e passionali" (Cass., Sez. VI n. 26614/2003); le manifestazioni di tipo nevrotico,
depressive, i disturbi della personalità, comunque prive di un substrato organico, la semplice insufficienza
mentale "non sono idonee a dare fondamento ad un giudizio di infermità mentale..." (Cass., Sez. I, n.
7523/1991); solo "l'infermità mentale avente una radice patologica e fondata su una causa morbosa può fare
escludere o ridurre, con la capacità di intendere e di volere, l'imputabilità, mentre tutte le anomalie del
carattere, pur se indubitabilmente incidono sul comportamento, non sono idonee ad alterare nel soggetto la
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capacità di rappresentazione o di autodeterminazione" (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); l'eventuale difetto di
capacità intellettiva determinata da semplici alterazioni caratteriali e disturbi della personalità resta priva di
rilevanza giuridica (Cass., Sez. V, n. 1078/1997); le semplici anomalie del carattere o i disturbi della
personalità non influiscono sulla capacità di intendere e di volere, "in quanto la malattia di mente rilevante
per l'esclusione o per la riduzione dell'imputabilità è solo quella medico - legale, dipendente da uno stato
patologico veramente serio, che comporti una degenerazione della sfera intellettiva e volitiva dell'agente"
(Cass., Sez. I, n. 10422/1997). In particolare, dovendosi distinguere tra psicosi e psicopatia, si rileva che solo
la prima è da annoverare nell'ambito delle malattie mentali, mentre la seconda va considerata una mera
"caratteropatia" ovvero una anomalia del carattere, non incidente sulla sfera intellettiva e, quindi, inidonea
ad annullare o fare grandemente scemare la capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. I n. 299/1991). E per
tali ragioni, non vengono ricomprese tra le cause di diminuzione od eliminazione della imputabilità le c.d.
"reazioni a corto circuito" in quanto collegate a condizioni di turbamento psichico transitorio non dipendente
da causa patologica, ma emotiva o passionale (Cass., Sez. I, n. 9701/1992).
Numerose sono le sentenze che possono iscriversi, con puntualizzazioni varie, in tale indirizzo
interpretativo: tra le altre, Cass., Sez. I, n. 16940/2004; id., Sez. III, n. 22834/2003; id., Sez. I., n. 10386/1986;
id., Sez. I, n. 13202/1990; id., Sez. I n. 7315/1995; id., Sez. V, n. 1078/1997; id., Sez. I, n. 4238/1986; id., Sez. II,
n. 3307/1984.
8.1 Altra volta si è rilevato che gli stati emotivi e passionali possono incidere, in modo più o meno incisivo,
sulla lucidità mentale del soggetto agente, ma tanto non comporta, per espressa previsione normativa, la
diminuzione della imputabilità; perché tali stati assumano rilievo, al riguardo, è necessario un quid pluris,
che, associato ad essi, si sostanzi in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure
transeunte e non inquadrabile nell'ambito di una precisa classificazione nosografica: e l'esistenza o meno di
tale fattore "va accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza
dell'attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai
spingersi al punto di attribuire carattere di infermità (come tale rilevante, ai sensi degli artt. 98 e 89 c.p.), ad
alterazioni transeunti della sfera psico - intellettiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi e
passionali di cui sia riconosciuta l'esistenza" (Cass., Sez. I, n. 967/1997). Il riconoscimento che anche le
deviazioni del carattere possono elevarsi a causa incidente sulla imputabilità, a condizione che su di esse si
innesti, o sovrapponga, uno stato patologico che alteri la capacità di intendere e di volere, ha indotto una
parte della giurisprudenza a ritenere, per un verso, che le anomalie del carattere e le c.d. personalità
psicopatiche determinino una infermità di mente solo nel caso in cui, per la loro gravità, cagionino un vero e
proprio stato patologico, uno squilibrio mentale; per altro verso, che la personalità borderline non rilevi ai
fini della imputabilità, pur includendo la scienza psichiatrica tale disturbo tra le infermità (Cass., Sez. VI, n.
7845/1997). Escludendosi tesi aprioristiche, si riconosce, in alcune decisioni, che anche le c.d. "reazioni a
corto circuito" - normalmente ascritte al novero degli stati emotivi e passionali -, in determinate situazioni,
possano costituire manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e
di volere, incidendo soprattutto sull'attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con
possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli
avvenimenti esterni" (Cass., Sez. I, n. 5885/1997; id., Sez. I, n. 3170/1994; id., Sez. I, n. 12429/1994; id., Sez. I,
n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 14122/1986); si esclude rilievo a tali "reazioni a corto
circuito" quando esse si colleghino a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni
comportamentali prive di substrato organico, richiedendosi, perché rilievo possano assumere, che esse si
inquadrino "in una preesistente alterazione patologica comportante infermità o seminfermità mentale"
(Cass., Sez. VI, n. 23737/2004; id., Sez. I, n. 11373/1995; id., Sez. I, n. 7315/1995 -, id., Sez. I, n. 4954/1993; id.,
Sez. I, n. 9801/1992; id., Sez. I, n. 4268/1982); il criterio della patologicità esclude tutti quei disturbi che
trovino origine in situazioni di disagio socio - ambientale e familiare (Cass., Sez. VI, n. 31753/2003).
8.2 Altro criterio, quello della intensità del disturbo psichico, ha portato a ritenere che, anche a fronte di
anomalie psichiche non classificabili secondo rigidi e precisi schemi nosografici e, quindi, sprovviste di
sicura (accertata) base organica, debba considerarsi, ai fini della esclusione o della diminuzione
dell'imputabilità, la intensità dell'anomalia medesima, accertandosi se essa sia in grado di escludere
totalmente o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. VI, n. 22765/2003). In tale
contesto, un orientamento giurisprudenziale esplicitamente muove dalla (altre volte implicitamente ritenuta)
distinzione tra i concetti di infermità e di malattia mentale in senso strettamente clinico - psichiatrico,
riconoscendo che alla base del primo vi è quello di stato Patologico, ma che questo può caratterizzare non
solo le malattie fisiche o mentali in senso stretto, bensì anche le anomalie psichiche non rinvenienti da sicura
base organica, purché si manifestino con un grado di intensità tale da escludere o scemare grandemente la
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capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. I, n. 24255/2004, che richiama la distinzione tra "malattia in
senso clinico - psichiatrico e malattia in senso psichiatrico - forense" e "uno stato patologico che, seppure non
comprensivo delle sole malattie fisiche e mentali nosograficamente classificate, sia comunque riconducibile
ad una 'infermità', ancorché non classificabile o non insediata stabilmente nel soggetto..."; id., Sez. I, n.
19532/2003; id., Sez. I, n. 5885/1997; id., Sez. I. n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 13029/1989; id., Sez. I, n.
14122/1986; id., Sez. I, n. 2641/1986; cfr. anche Cass., Sez. V, n. 1536/1998, che richiama, disgiuntivamente,
"una infermità o malattia mentale o comunque una alterazione anatomico - funzionale").
Altre decisioni fanno riferimento al valore di malattia, secondo uno dei criteri elaborati dalla psichiatria
forense, che così individua quelle situazioni che, indipendentemente dalla qualificazione clinica, assumono
significato di infermità e sono idonee ad incidere sulla capacità di intendere e di volere; si ricomprendono,
così, nella categoria dei malati di mente anche soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, quando tali disturbi si
manifestino con elevato grado di intensità e forme più complesso, tanto da integrare le connotazioni di una
vera e propria psicosi (Cass., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I n. 4492/1987; id., Sez. I,
n. 2641/1986); ed in tale contesto interpretativo si è dato rilievo ad alcuno situazioni classificabili borderline
(Cass., Sez. I, n. 15419/2002; id., Sez. I, n. 6062/2000).
8.3 In molte decisioni - secondo un indirizzo che, risalente, è riscontrabile anche in pronunce recenti -, le
quali volta a volta si rifanno ai criteri del substrato patologico, del valore di malattia, della intensità del
disturbo, si individua un ulteriore requisito nella necessità della sussistenza di una correlazione diretta tra il
disturbo psichico o l'azione delittuosa posta in essere dal soggetto agente, e quindi tra abnormità psichica
effettivamente riscontrata e determinismo dell'azione delittuosa (Cass., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n.
3536/1997; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 4492/1987; Cass., Sez. I, n. 4103/1986; id., Sez. I, n.
14122/1986). Si sono posti in rilievo - anche in dottrina - l'importanza e la centralità di tale passaggio
interpretativo, che giunge ad attribuire "rilevanza alle caratteristiche cliniche del soggetto psicopatico che
determinano disarmonie nella personalità e sono capaci di alterare il meccanismo delle spinte e delle
controspinte all'azione": il nesso di interdipendenza fra reato e disturbo mentale consente di "ricercare nella
vicenda storica quali spinto interne abbiano condotto alla realizzazione del delitto e portato il giudice ad
indagare in concreto l'intensità della pressione esercitata dalla situazione di stimolo".
9.0 All'epoca in cui venne emanato l'attuale codice penale era ancora imperante il paradigma medico organicistico, ancorché già messo in crisi, quanto meno in termini di certezza, dalle altre proposte del
modello psicologico, poi successivamente diffusosi. Ed il legislatore dell'epoca, mosso da un "intento
generalpreventivo, mirante a bloccare alla radice dispute avanzate su basi malsicure e pretestuose, (come si
rileva in dottrina), quindi, poteva fare affidamento su concetti ai quali si riconosceva una corrispondente
base empirica: quello di infermità mentale identificava la malattia mentale in senso medico - nosografico.
Più in generale, è appena il caso di ricordare che quel testo normativo veniva emanato sotto l'egida
condizionante della ideologia dell'epoca che, nel contesto del sistema del c.d. doppio binario (la pena
tradizionale, inflitta su presupposto della colpevolezza dell'imputato, e le misure di sicurezza, fondate sulla
pericolosità sociale del reo ed indirizzate alla risocializzazione), risentiva del prominente intento
generalpreventivo (nella Relazione ministeriale al codice si affermava che "delle varie funzioni, che la pena
adempie, le principali sono certamente la funzione di prevenzione generale... e la funzione c.d.
satisfattoria...", quest'ultima con un ruolo, quindi, "non autonomo, ma strumentale rispetto all'obiettivo della
prevenzione generale...", come si annota in dottrina), rifiutava il principio di presunzione di innocenza
dell'imputato (ritenuto il portato "delle dottrine demo - liberali, per cui l'individuo è posto contro lo Stato,
l'autorità è considerata come insidiosa e sopraffattrice del singolo" e faceva dire ad altre autorevoli
espressioni della dottrina dell'epoca che "lo Stato fascista, a differenza dello Stato democratico liberale, non
considera la libertà individuale come un diritto prominente, bensì come una concessione dello Stato
accordata nell'interesse della collettività", riaffermandosi "l'interesse repressivo" come suo "elemento
specifico", e giungendosi, come ricorda autorevole dottrina, alla richiesta estrema di sostituire la regola in
dubio pro reo con quella in dubio pro republica.
Ma i tempi sono cambiati. La Costituzione, l'affermarsi di un'ermeneutica giuridico - penale orientata ai suoi
principi informatori ed il proporsi di paradigmi alternativi a quello medico hanno comportato un
adeguamento delle soluzioni, sul tema della imputabilità, alle nuove prospettive ed esigenze del diritto
penale moderno. Ed è, ovviamente, con tale nuova maturata ermeneutica giuridico - penale e con tali nuove
esigenze del diritto penale che il giurista dove ora fare i conti, sul versante di un approdo interpretativo che come sopra si diceva - sia rispettoso del dettato della Legge fondamentale, o altrimenti ricognitivo della
impossibilità della riconduzione della norma a tali canoni di adesione e correttezza costituzionale.
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9.1 Il legislatore del 1930 legiferò, dunque, tenendo presente quel modello proposto dalla scienza medica,
allora imperante, o comunque prevalente, e nei lavori preparatori del codice si fece, coerentemente,
riferimento al vizio di mente "come conseguenza d'infermità fisica o psichica clinicamente accertata", ad una
"forma patologicamente e clinicamente accertabile di infermità".
Da tanto, una voce autorevole della dottrina ha ritenuto che "il criterio nosografico sia stato implicitamente
recepito nel nostro ordinamento" così rispondendo al quesito che, "se si dovesse riconoscere nella 'infermità
mentale' una categoria chiusa, l'argomento storico andrebbe - ovviamente - ritenuto conclusivo per
l'individuazione del modello di infermità penalmente rilevante"; difatti, "se il 'contenuto' della categoria
'infermità di mente' penalmente rilevante era naturalmente offerto, al momento della redazione codicistica,
dalle sole patologie allora note alla scienza psichiatrica, non v'è dubbio... che il corrispondente 'concetto',
normativamente recepito, consistesse in quello di 'lesione cerebrale a carattere organico'".
Tale assunto (che sembra, per vero, isolato nel panorama dottrinario) non può condividersi.
Come, difatti, è stato già rilevato da altra autorevole dottrina, la formulazione della norma è, in effetti,
avvenuta con tecnica di "normazione sintetica", adottando, cioè, "una qualificazione di sintesi mediante
l'impiego di elementi normativi..., rinviando ad una fonte esterna rispetto alla fattispecie incriminatrice". In
sostanza, "così operando, il legislatore rinuncia in partenza a definire in termini descrittivi tutti i parametri
della fattispecie, ma mediante una formula di sintesi (elemento normativo) rinvia ad una realtà valutativa
contenuta in una norma diversa, giuridica o extragiuridica (etica, sociale, psichiatrica, psicologica)".
Se cosè è, non può, dunque, dirsi che "il criterio nosografico sia stato implicitamente e definitivamente
recepito nel nostro ordinamento", dovendosi invece ritenere che la disposizione normativa si limitava a fare
riferimento alla norma extragiuridica, nel suo essere e nel suo divenire, e che la individuazione di questa,
nella sua realtà non solo attuale, ma anche successivamente specificabile in itinere, spetta pur sempre oggi
all'interprete, che deve individuarla alla stregua delle attuali acquisizioni medico - scientifiche al riguardo,
non potendo, quindi, ritenersi cristallizzato, come definitivamente acquisito dal nostro ordinamento, un
precedente parametro extragiuridico di riferimento, ove lo stesso sia superato ed affrancato, nella su
inattualità ed obsolescenza, da altri (e veritieri) termini di riferimento, e dovendosi invece, perciò, in
proposito procedere in costante aderenza della norma alla evoluzione scientifica, cui in sostanza quella ab
imis rimandava. Rimane, nondimeno, la problematicità del rinvio, giacché la individuazione del parametro
normativo extragiuridico, già di per sé incerto, può evidenziare connotati di indeterminatezza nella misura
in cui non trovi riscontri univoci nel contesto di riferimento, debordando verso approdi di indeterminatezza
contrastanti con il principio di tassatività.
10.0 In prima approssimazione, deve innanzitutto osservarsi che, in effetti - come pure non si è mancato di
evidenziare in dottrina - gli artt. 88 e 89 c.p. fanno riferimento non già ad una "infermità mentale", ma ad ma
"infermità" che induca il soggetto "in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere" o
da farla "scemare grandemente" (gli artt. 218 e 222 c.p., in tema di presupposti per l'applicabilità della misura
di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico o in una casa di cura o di custodia, parlano invece
espressamente di "infermità psichica"): se ne è giustamente inferito che "non è l'infermità in se stessa
(neppure, a rigore, la più grave) a rilevare, bensì un 'tale stato di mente', da essa determinato, 'da escludere
la capacità di intendere o di volere', o da farla ritenere "grandemente scemata" ulteriore corollario di tale
rilievo è l'annotazione che tali norme non circoscrivono il rilievo alle sole infermità psichiche, ma estendono
la loro previsione anche alle infermità fisiche, che a quello stato di mente possano indurre.
10.1 Sempre per quanto concerne il dato testuale di tali norme, deve, poi, convenirsi con quanto rilevato in
dottrina ed in più decisioni di questa Suprema Corte (per tutte, esaustivamente, Cass., Sez. I, n. 4103/1986),
ed evidenziato nell'odierna udienza anche dal P.G. requirente, che, cioè, il concetto di "infermità" non è del
tutto sovrapponibile a quello di "malattia", risultando, rispetto a questo, più ampio. Deve, invero,
innanzitutto rilevarsi la circostanza - evidenziata anche dalla difesa del ricorrente nell'odierna discussione
orale - che, a fronte di tale specifica indicazione di "infermità", il legislatore usi altrove espressamente il
diverso termine di "malattia nel corpo o nella mente" (artt. 582, 583 c.p.). Ma, in ogni caso, brevemente
approfondendo il tema, mette conto di rilevare che in alcuno delle più autorevoli versioni dizionaristiche
della lingua italiana, la malattia è definita come "lo stato di sofferenza dell'organismo in toto o di sue parti,
prodotto da una causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che ne derivano" ed "elemento
essenziale del concetto di malattia è la sua transitorietà, il suo andamento evolutivo verso un esito, che può
essere, a seconda dei casi, la guarigione, la morte o l'adattamento a nuove condizioni di vita....", avvertendosi
anche che "dal concetto di malattia sono esclusi i cosiddetti stati patologici, ossia quelle stazionarie
condizioni di anormalità morfologica, o funzionale, ereditaria, congenita o acquisita, in cui non vi sono
tessuti od organi in condizione di sofferenza e che sono compatibili con uno stato generale di buona salute:
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anomalie e deformità varie, postumi di malattie (come cicatrici e anchilosi), daltonismo, balbuzie, ecc.."; e
solo figurativamente il termine sta anche ad indicare l'eccitazione, esaltazione, esasperazione di un
sentimento o di una passione; stato di forte tensione o turbamento emotivo; situazione di squilibrio
determinato da una fantasia troppo accesa o anche da leggerezza, da stoltezza; attaccamento morboso; idea
fissa, mania; tormento, angoscia, sofferenza interiore...". La giurisprudenza di legittimità formatasi in
riferimento all'art. 582 c.p. ha ritenuto che "il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito
essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione
anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà
essere la guarigione perfetta, l'adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte" (Cass., Sez. V, n.
714/1999; id., Sez. IV. n. 10643/1996); che esso comporti "alterazioni organiche o funzionali sia pure di
modesta entità (Cass., Sez. I, n. 7388/1985), "qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo,
ancorché localizzata" (Cass., Sez. V, n. 5258/1984), ed in tale concetto è stata inclusa anche la "alterazione
psicopatica" che sia in rapporto diretto di causalità con la condotta dell'agente (Cass., Sez. V, n. 5087/1987). E
questa Suprema Corte, affrontando il tema del significato del termine "dal punto di vista etimologico" in
specifico riferimento alla tematica che occupa, ha rilevato che quello di "malattia" "indica un concetto
dinamico, un modo di essere che in un certo momento ha avuto inizio" (Cass., Sez. I, n. 4103/1986, cit.).
Il termine "infermità", invece, dal latino infirmitas, a sua volta derivato da infirmus (in privativo e firmus,
fermo, saldo, forte), è dai dizionari della lingua italiana assunto come "termine generico per indicare
qualsiasi malattia che colpisca l'organismo (o, più precisamente, lo stato, la condizione di chi ne è affetto),
soprattutto se permanente o di lunga durata e tale da immobilizzare l'individuo, o da renderlo totalmente o
parzialmente inabile alle sue normali attività ..."; esso indica la "condizione di chi è ammalato, invalido. In
particolare: qualsiasi tipo di malattia o di affezione morbosa, per lo più grave e di carattere permanente, che
colpisce una persona, o, per estensione, il corpo, un suo membro, una sua parte.... Difetto fisico,
menomazione... Insufficienza, deficienza; inadeguatezza...". E la predetta sentenza di questa Suprema Corte
ulteriormente rileva che tale termine "esprime un concetto statico, un modo di essere senza, alcun
riferimento al tempo di durata ... sicché, in sostanza, "la nozione medico - legale di 'malattia di mente' viene
identificata nell'ambito della più vasta categoria delle 'infermità'...", riconoscendosi "un valore generico al
termine 'infermità' e un valore specifico al termine 'malattia'...".
Anche a voler seguire l'opinione di una autorevole voce della dottrina, secondo cui quella della differenza
tra malattia ed infermità, nel contesto della tematica che qui rileva, sarebbe, oggi, "una questione meramente
nominale, questione solo di parole, di cui non esiste più alcun concetto" rimane, nondimeno, che nella
prospettazione codicistica, il termine di infermità deve ritenersi, in effetti, assunto secondo una accezione più
ampia di quello di malattia, e già tanto appare mettere in crisi contrastandolo funditus, il criterio della totale
sovrapponibilità dei due termini e con esso, fra l'altro ed innanzi tutto, quello della esclusiva riconducibilità
della "infermità" alle sole manifestazioni morbose aventi basi anatomiche e substrato organico, o, come altra
volta è stato più restrittivamente detto, come "malattia fisica del sistema nervoso centrale".
10.2 Vero è, d'altra parte, che gli articoli 88 e 89 non possono non esser letti che in stretto rapporto,
sistematico e derivativo, con il generale disposto dell'art. 85 c.p., sicché, anche in riferimento alle rigide
classificazioni nosografiche della psichiatrica ottocentesca di stampo organicistico - positivistico, pertinente è
il rilievo di autorevole dottrina, secondo cui, proprio a conferma della maggiore ampiezza del termine di
"infermità" rispetto a quello di "malattia", "non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente
catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in
concreto l'attitudine a compromettere gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto
commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo", che lasci integra o meno la capacità di
"poter agire altrimenti" posto che - come di sopra si è già accennato - solo nei confronti di soggetti dotati di
tali capacità può concretamente parlarsi di colpevolezza. E si è da altra autorevole voce della dottrina anche
osservato che "certo, una formulazione normativa che, seppure a livello esemplificativo, intervenga a
sottolineare più incisivamente il potenziale rilievo di disturbi psichici che, anche al di fuori di malattie
psichiatriche..., valgano egualmente ad indiziare l'imputabilità..., è in sede di riforma auspicabile. Essa non è
però essenziale, poiché anche l'attuale art. 88, interpretato nel sistema delineato dall'art. 85 (soprattutto) e
dalle altre disposizioni in tema di capacità di intendere e di volere, consente di pervenire alle medesime
conclusioni".
Tanto comporta anche la irrimediabile crisi del criterio della ritenuta necessaria sussumibilità dell'anomalia
psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche. D'altronde, a tale sostanzialistica
esigenza mostrano, talora implicitamente, di fare riferimento tutte quelle decisioni di questa Suprema Corte,
le quali hanno ritenuto che sia essenziale non tanto la rigida classificabilità del disturbo psichico in una
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specifica categoria nosografica, quanto, invece, la sua attitudine ad incidere, effettivamente e nel caso
concreto, nella misura e nei termini voluti dalla norma, sulla capacità di intendere e di volere del soggetto
agente (Cass., Sez. I, n. 33230/2004; id., Sez. I, n. 24255/2004; id., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 558/1992;
id., Sez. I, n. 858/2001; id., Sez. I, n. 13029/1989; id., Sez. I, n. 4861/1988; id., Sez. I, n. 4492/1987; id.; Sez. I, n.
4103/1986; id., Sez. I, n. 7327/1982).
Ed avverte al riguardo autorevole dottrina che, in prospettiva riformistica, oggi "del tutto risibile sarebbe
una scelta del legislatore a favore del metodo nosografico di stampo tradizionale, in particolare di tipo
rigido, giacché la nuova maturata realtà psichiatrico - forense "mostra quello che appare l'irreversibile
superamento di una possibile soluzione normativa in tal senso della questione imputabilità. Scelte di tal
genere porterebbero allo scollamento fra il dato empirico e quello legislativo e a una eccessiva rigidità della
disciplina normativa in punto di imputabilità, a scapito delle istanze garantistiche dettate dal principio di
colpevolezza e da quello di risocializzazione" e dovendo, semmai, il legislatore orientarsi "a livello
normativo a soluzioni tipiche del programma cd. di scopo", occorrendo al riguardo "potenziare quello che si
è definito il terzo piano del giudizio di imputabilità, cioè quello sanzionatorio, relativo all'opportunità di
punire e alla scelta del tipo di sanzione in ragione della sensibilità che il singolo agente manifesta nei
confronti della stessa".
11.0 Il più moderno e diffuso Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM - IV, messo a
punto dall'American Psychiatric Association nel 1994 - in gran parte sovrapponibile all'altra classificazione
dettata dall'ICD - 10, adottata nel 1992 da gran parte degli Stati membri della Organizzazione Mondiale della
Sanità -, utilizzato da quasi tutti gli esperti psichiatri, enuclea - con una nomenclatura nosografica che
richiama sindromi e non malattie - i principali disturbi mentali in diciassette classi diagnostiche, e tra queste
include l'autonoma categoria nosografica dei disturbi della personalità, che comprende, suddivisi in tre
gruppi, il disturbo paranoide di personalità, quello schizoide, quello schizotipico, quello antisociale, quello
borderline, quello istrionico, quello narcisistico, quello evitante, quello dipendente, quello ossessivo compulsivo, e rimanda anche ad una categoria residua, quella del "disturbo di personalità non altrimenti
specificato" nella quale andrebbero ricondotte "le alterazioni di funzionamento della personalità che non
soddisfano i criteri per alcuno specifico Disturbo della Personalità".
Tali disturbi della personalità rientrano nella più ampia categoria delle psicopatie, ben distinta, com'è noto,
da quella delle psicosi, queste ultime considerate, anche dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr.,
ex ceteris, Cass., Sez. VI, n. 24614/2003; id., Sez. I n. 659/1997), vere e proprio malattie mentali, comportanti
una perdita dei confini dell'Io; il disturbo della personalità, invece, si caratterizza come "modello costante di
esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle aspettative di cultura dell'individuo",
e "i tratti di personalità vengono diagnosticati come Disturbo della Personalità solo quando sono inflessibili,
non adattivi, persistenti, e causano una compromissione sociale significativa o sofferenza soggettiva".
D'altronde, pure si annota in dottrina che nel 1997, nel nostro Paese, i disturbi della personalità hanno inciso
notevolmente sul numero delle ammissioni ai servizi psichiatrici degli istituti di cura: su un totale di 52.443
ammissioni per "neurosi e turbe psichiche non psicotiche", ben 10.862 sono stati per disturbi della
personalità; ed anche tali dati empirici, pure indicativi di un generalizzato apprezzamento medico diagnostico di siffatte patologie, non possono non assumere notevole rilievo al riguardo.
In dottrina sono state espresse riserve su tale catalogazione, rilevandosi il suo "eccessivo nominalismo" e
come essa consegua alla premessa che "non esiste una definizione soddisfacente che specifichi i precisi
confini del concetto di disturbo mentale", e ponendosi "l'altra difficoltà, di ordine semantico, relativa all'uso
di questa, o quella terminologia per definire la stessa sindrome che spesso appare tra 'come se' fosse entità
clinica a sé stante...".
Si è anche rilevato che - come già anticipato - nel DSM "il concetto di 'disturbo' si colloca al di fuori di una
ottica eziopatogenetica", cioè "non si parte dall'idea che a ogni disturbo corrisponde una entità fondata su
una specifica eziopatologia" ma si parla di disturbo solo in senso sindromico".
Ora, queste ed altre osservazioni critiche meritano indubbia attenzione, sia per la soggettiva autorevolezza
della fonte che le esprime, sia per la oggettiva loro rilevanza.
E però, anche la dottrina psichiatrico - forense appare concordare, ormai, sulla circostanza, che, essendo
questo il sistema diagnostico più diffuso, ad esso occorra fare riferimento per la riconducibilità classificatoria
del disturbo; e, per altro verso, nessun dubbio - come pure si riconosce in dottrina - dovrebbe oggi
permanere sulla circostanza che anche ai disturbi della personalità possa essere riconosciuta la natura di
"infermità", e quindi una loro potenziale attitudine ad incidere sulla capacità di intendere e di volere del
soggetto agente, alla stregua delle ultime e generalmente condivise acquisizioni del sapere psichiatrico,
anche sussunte nella ricognizione nosografica contenuta nel citato DSM. Vero è, poi, che tale catalogazione si
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fonda su basi sindromiche e non eziologiche, ma (così proponendosi un modello classificatorio di natura
sostanzialmente pragmatica, verso il quale, per vero, appare condivisibilmente orientata la attuale scienza
psichiatrica), per un verso (come ancora si annota in dottrina), è presente nella psichiatria forense "un
consenso quasi unanime circa la improponibilità oggi di una spiegazione monoeziologica della malattia
mentale" o, per altro verso, è ricorrente nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, come si è visto,
l'affermazione che rilevino al riguardo anche "disturbi clinicamente non definibili che tuttavia abbiano inciso
significativamente sul funzionamento dei meccanismi intellettivi o volitivi del soggetto". La non definibilità
clinica del disturbo può anche derivare dalla (o comportare la) non accertabilità eziologia dello stesso, in un
campo poi, quello della mente umana, ancora avvolto da cospicuo connotazioni di "dubbio e mistero" e da
incoglibile esoterismo patogenetico. E nel campo medico pure si parla di "malattie funzionali: termine usato
per indicare le malattie in cui non vi sono segni dimostrabili di alterazioni di organi particolari, sebbene le
prestazioni di essi siano ridotte".
E quanto all'"eccessivo nominalismo" ed ai limiti "di ordine semantico" della espressione, deve ritenersi che
(non solo de iure condito, ma, verosimilmente, anche de iure condendo, in riferimento a progetti di riforma
di cui più oltre si dirà) il problema non sembra essere quello del riferimento meramente nominalistico ad
una formula piuttosto che ad un'altra, che, da sole, difficilmente possono avere assoluta ed oggettiva
capacità descrittiva e chiarificatrice, definitivamente risolutoria; qualificata dottrina medico - legale pure
afferma, al riguardo, che "appare un semplice esercizio dialettico disquisire su infermità ed anomalia e sulle
etichette diagnostico - nosografiche perché al legislatore ed al giudice non interessa "quello che c'è a monte"
ma se la capacità di intendere o di volere era (o non era) annullata o grandemente scemata al momento del
fatto" (può osservarsi che, in verità, al giudice deve interessare anche "quello che c'è a monte" esso
costituendo snodo rilevante per la espressione ed il controllo del giudizio sulle capacità intellettive e
cognitive dell'agente; ma, indubitabilmente, ciò che definitivamente rileva è solo l'accertamento di queste
ultime, ai fini dell'imputabilità). Si tratta, invece, di stabilire in concreto, e non in astratto, la rilevanza di
alcune tipologie di disturbi mentali, sicché, quanto a quella del "disturbo di personalità" che qui interessa, si
tratta di accertare e stabilire come esso si manifesti in concreto, nel soggetto, nel caso singolo: od ove
l'accertamento svolto sia indicativo di una situazione di infermità mentale che escluda la rimproverabilità
della condotta al soggetto agente, cioè la sua colpevolezza - secondo quanto si è sopra detto -, non può non
trovare applicazione il disposto della norma in questione, in riferimento al generale principio indicato
dall'art. 85 c.p..
E per il resto, quanto al rapporto od al contenuto dei due piani del giudizio (quello biologico e quello
normativo), il secondo non appare poter prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico,
dovendosi anche ritenere superato l'orientamento inteso a sostenere la "estrema normativizzazione del
giudizio sulla imputabilità", che sostanzialmente finisce col negare la base empirica del giudizio medesimo,
pervenendo "alla creazione di un concetto artificiale" sicché, postulandosi, nella simbiosi di un piano
empirico e di uno normativo, una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest'ultima il
giudice non può in ogni caso rinunciare - pena la impossibilità stessa di esprimere un qualsiasi giudizio - e,
pur in presenza di una varietà di paradigmi interpretativi, non può che fare riferimento alle acquisizioni
scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente
accolto, più condivise, finendo col costituire generalizzata (anche se non unica, unanime) prassi applicativa
dei relativi protocolli scientifici: e tanto va considerato senza coinvolgere, d'altra parte e più in generale,
ulteriori riflessioni, di portata filosofica oltre che scientifica, circa il giudizio di relatività che oggi viene
assegnato, anche dalla comunità scientifica, alle scienze in genere, anche a quelle una volta considerate
assolutamente "esatte", del tutto pacifiche e condivise (nel tramonto "dell'ideale classico della scienza come
sistema compiuto di verità necessario o per evidenza o per dimostrazione" come è stato autorevolmente
scritto), vieppiù tanto rilevando nel campo del sapere medico.
Non sembra, difatti, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, e pur nella varietà dei paradigmi al
riguardo proposti e dea relativa indotta problematica difficoltà, che possa pervenirsi ad un conclusivo
giudizio di rinvio a fatti "non razionalmente accertabili" a fattispecie non "corrispondenti a realtà", ma non
consentire in alcun modo una interpretazione od una applicazione razionali da parte del giudice", situazione
che, ove sussistente, sarebbe senz'altro indiziata di evidente contrasto col principio di tassatività (Corte
Cost., n. 96/1981; id,. n. 114/1998), per altro verso inducente ad un conseguente giudizio di impossibilità
oggi, e verosimilmente domani, di dare attuazione al disposto dell'art. 85 c.p. e, prima ancora, di mantenere
tale norma, laddove, per vero - come è detto nella relazione della Commissione al Progetto c.d. Grosso del
2000 -, "il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili appare irrinunciabile per
un diritto penale garantistico", e la dottrina rimarca che "il concetto di imputabilità... è del tutto
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fondamentale e del resto ben saldo nella cultura, nella costruzione e negli sviluppi del diritto penale
moderno".
11.1 Deve, dunque, ritenersi che anche ai disturbi della personalità può essere attribuita una attitudine,
scientificamente condivisa, a proporsi come causa idonea ad escludere o grandemente scemare (in presenza
di determinate condizioni, di cui più oltre si dirà), in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di
volere del soggetto agente. D'altra parte, anche quell'indirizzo che fa leva sul "valore di malattia" appare
evocare un concetto psicopatologico forense, idoneo ad individuare situazioni che, indipendentemente dalla
loro qualifica clinica, "assumono significato di malattia", meglio "significato di infermità", per quanto si è
sopra chiarito, e quindi idonee ad incidere sulla predetta capacità di intendere e di volere: e pure si avverte
che, in ogni caso, "se un tempo si affermava che non tutte le malattie in senso clinico avessero 'valore di
malattia' in senso forense, oggi si pone soprattutto l'accento sul fatto che, viceversa, vi possono essere
situazioni clinicamente non rilevanti o classificate che in ambito forense assumono 'valore di malattia' in
quanto possono inquinare le facoltà cognitive e di scelta".
12.0 Del resto, anche le più recenti legislazioni di altri Paesi (l'art. 122.1 del codice penale francese,
modificato nel 1993; l'art. 20 del codice penale tedesco, modificato nel 1975; l'art. 37 del codice penale
olandese; l'art. 20 del codice penale spagnolo, modificato nel 1995; l'art. 104 del codice penale portoghese,
modificato nel 1995; l'art. 16 del codice penale sloveno del 1995; una nuova legge in materia psichiatrica
introdotta in Svezia nel 1992) appaiono discostarsi da un rigido modello definitorio, in favore di clausole
"aperte" che, in uno con i criteri normativi, psicologici e biologici, siano idonee alla espressione di un
giudizio sulla capacità di intendere e di volere, rispettoso delle esigenze garantistiche e preventive indotte
dal caso concreto.
Tali formule "aperte" ("disturbo psichico o neuro psichico", "turbe mentali patologiche, per un profondo
disturbo della coscienza, per deficienza mentale od altra grave anomalia mentale" "condizioni
psicopatologiche di carenza dello sviluppo o disturbo morboso delle capacità mentali", "qualsiasi anomalia o
alterazione psichica", "anomalia psichica", infermità mentale permanente o temporanea, disturbi psichici
temporanei, sviluppo psichico imperfetto o altra anomalia psichica permanente e grave", "disturbo psichico")
appaiono idonee ad attribuire rilevanza anche ai disturbi della personalità, ai fini della imputabilità del
soggetto agente.
E ciò che accomuna queste disposizioni normative appare essere non solo l'adozione di formule "aperte",
elastiche, ma anche l'aver ancorato la valutazione del disturbo alla sua incidenza sulla capacità di
valutazione del fatto di reato e quindi della capacità di comportarsi secondo tale valutazione, con la
prospettazione, quindi, di un nesso eziologico fra infermità e reato, assunto a requisito della non
imputabilità.
Può soggiungersi che nelle conclusioni del VII Colloquio Criminologico del Consiglio d'Europa (Strasburgo,
25 - 27 novembre 1985), si osservava, tra l'altro, che "le legislazioni penali esistenti negli Stati membri del
Consiglio d'Europa presentano una notevole varietà circa lo terminologie ed i concetti fondamentali
concernenti la nozione di responsabilità dell'autore di un reato e dei fattori che possono escludere o
attenuare la stessa", e che "la tendenza prevalente è di porre agli esperti un quesito che comprenda, nello
stesso tempo, l'aspetto psicopatologico (malattia mentale) e l'aspetto giuridico - normativo (responsabilità o
concetti similari)...".
13.0 Le incertezze interpretative e conseguentemente applicative collegate alla esatta individuazione del
concetto di malattia mentale, o di infermità mentale, sia sul versante psichiatrico che su quello giuridico,
sono state da tempo oggetto di riflessioni e di proposto nell'ambito di progetti di riforma del codice penale.
Così, nello schema di disegno di legge - delega del 1992 (c.d. Progetto Pagliaro), era prevista (art. 34) la
esclusione della imputabilità per il soggetto che, al momento della condotta, "era, per infermità di mente o
per altra anomalia..., in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere... Nei casi
suddetti, se la capacità di intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, diminuire la
pena".
Nello schema del disegno di legge n. 2038/S del 1995 (c.d. Progetto Ritz) si prevedeva (art. 83) che "non è
imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità o per gravissima anomalia
psichica, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere"; e sugli stessi presupposti era
disciplinato il vizio parziale di merito (art. 84).
Nel progetto preliminare di riforma del codice pende (c.d. Progetto Grosso), nel testo del 12 settembre 2000,
si prevedeva (art. 96) che "non è imputabile chi, per infermità o per altra grave anomalia...., nel momento in
cui ha commesso il fatto, era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere l'illiceità
del fatto o di agire in conformità a tale valutazione".
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Nel testo del 26 maggio 2001, più esplicitamente per il tema che qui interessa, si prevedeva (art. 94) che "non
è imputabile chi, per infermità o altro grave disturbo della personalità..., nel momento in cui ha commesso il
fatto era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere il significato del fatto o di
agire in conformità a tale valutazione". E nel disciplinare la "finalità del trattamento e diminuzione di pena"
(art. 100), si richiamava ancora la "infermità o altro grave disturbo della personalità".
Quanto al primo di tali testi del c.d. Progetto Grosso, si legge nella relativa Relazione che "potrebbe anche
ritenersi sufficiente la formula del codice vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce
dell'evoluzione giurisprudenziale cui essa ha dato luogo"; ma che, nondimeno, si ritiene "preferibile un
chiarimento legislativo, mediante l'introduzione, accanto alla infermità, della formula della grave anomalia
psichica" che "renderebbe più sicura la strada per una possibile rilevanza, quali cause di esclusione
dell'imputabilità, di situazioni problematiche, come le nevrosi e le psicopatie, o stati momentanei di
profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza".
Ed alle obiezioni circa il rischio di un possibile indebolimento della tenuta generalpreventiva del sistema
penale, si rispondeva rilevando che "nessuna patente di irresponsabilità si vuole dare automaticamente a
realtà in cui sia mancato un controllo esigibile di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini
dell'imputabilità sono situazioni riconoscibilmente abnormi".
L'espressione "grave anomalia" è stata, poi, sostituita con quella "altro grave disturbo della personalità anche
a seguito dello scetticismo mostrato dalla scienza psichiatrica, che ha rivendicato la utilizzazione della più
scientifica definizione del termine "disturbo mentale" e delle riserve avanzata dalla dottrina penalistica, che
ha rilevato come il generico contenuto del termine "anomalia" (che "ripropone l'inesistente parametro della
normalità") si affianchi a quello altrettanto generico di "infermità", con il rischio di aprire varchi eccessivi a
disturbi minori, senza che il richiamo alla "gravità" possa fungere da serio elemento frenante. Ed ha rilevato
la Commissione che "la scelta legislativa più ragionevole" è da individuare in quella di "assicurare le
condizioni di adeguamento del sistema giuridico al sapere scientifico, evitando prese di posizione troppo
rigide e adottando formule atto a recepire la possibile rilevanza dei diversi paradigmi cui dal dibattito
scientifico sia riconosciuta serietà e consistenza".
Pur evidenziandosi in dottrina una certa ambiguità anche di tale formula sostitutiva, rimane che anche i
progetti di riforma del codice sostanziale, sul punto, appaiono improntati ad un orientamento "aperto" nella
individuazione della malattia (rectius: infermità) penalmente rilevante e sembrano orientare verso tendenze
sostanzialmente conformi a quelle codificate in altri Paesi, abbandonando definitivamente - anche per
espresso dictum lessicale - un rigido modello definitorio ed optando per la utilizzazione di formule
"elastiche".
V'è da aggiungere che nel Progetto del codice penale del 2004 (c.d. Progetto Nordio), che allo stato è
possibile conoscere solo nel suo testo provvisorio e non ufficiale, si prevede (art. 48) che "nessuno può essere
punito per un fatto previsto dalla legge come reato se nel momento della condotta costitutiva non aveva, per
infermità, la capacità di intendere e di volere, sempre che il fatto sia stato condizionato dalla incapacità. Agli
effetti della legge penale la capacità di intendere e di volere è intesa come possibilità di comprendere il
significato del fatto e di agire in conformità a tale valutazione".
Sembra, quindi, che rimanga sostanzialmente immutato l'attuale riferimento lessicale al termine "infermità";
e si legge nel commento di accompagnamento che "si ritiene irrinunciabile il riferimento all'infermità, pur
tenendosi presenti i diversi orientamenti teorici, sulla base delle classiche acquisizioni scientifiche della
psichiatria, della criminologia e della medicina legale, onde evitare gli sbandamenti applicativi - con
apertura a tutti i più originali e diversificati fenomeni in chiave meramente psicologica od emozionale quanto mai da impedire in questo delicato campo, quali connessi a formule generiche ed onnicomprensive
del tipo disturbo psichico, disturbo della personalità, psicopatia (fenomeni, secondo prassi censurabili,
valutati anche da non specialisti psichiatrici o medico - legali sulla base di parametri socio - culturali, tipo
l'abusata figura del soggetto c.d. border line").
14.0 Anche per tali vie (gli esempi provenienti dalle legislazioni straniere, indicativi di un modello "aperto"
di disciplina normativa, e, quanto meno, la gran parte dei progetti riformatori) appare confermarsi
l'orientamento del riconoscimento di possibile rilevanza penale ai disturbi della personalità; ed in tal senso
appaiono orientati, ancorché con grande cautela, anche cospicua parte della dottrina, della scienza
psichiatrica che dà maggiore valore ai contenuti psicologici della infermità mentale, quel filone della
giurisprudenza di legittimità del quale si è sopra già detto.
Tale conclusivo divisamento, del resto, si appalesa, al postutto, pienamente in consonanza col disposto
dell'art. 85 c.p. - di cui, anzi, si pone come ineludibile germinazione - e, più in generale ed ancor prima, con
la impostazione sistematica dell'istituto, secondo il suo orientamento costituzionale cui sopra si è accennato:
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ai fini di tale codificato generale principio, difatti, non può non rilevare una situazione psichica che, inserita
nel novero delle "infermità", determini, ai fini della imputabilità, una incolpevole non riconducibilità di
determinate condotte al soggetto agente, quale persona dotata "di intelletto e volontà", libera di agire e di
volere, cognita del valore della propria azione, che ne consenta la sua soggettiva ascrizione, senza che su tale
sostanziale condizione possa fare aggio la mancanza (o la difficoltà) della sua riconducibilità ad un preciso,
rigido e predeterminato, inquadramento clinico, una volta che rimanga accertata la effettiva compromissione
della capacità di intendere o di volere.
15.0 Lo stesso letterale disposto degli artt. 88 e 89 c.p. indica che non è sufficiente, ai fini della imputabilità,
l'accertamento della infermità (per quanto grave essa possa essere, nel suo inquadramento nosografico), ma,
nel contesto di un indirizzo "biopsicologico" che si ritiene accolto dal legislatore, è necessario accertare, in
concreto, se ed in quale misura essa abbia inciso, effettivamente, sulla capacità di intendere e di volere,
compromettendola del tutto o grandemente scemandola.
Per quanto riguarda, quindi, per quel che più specificamente qui interessa, i disturbi della personalità, essi che innanzitutto si caratterizzano, secondo il predetto manuale diagnostico, per essere "inflessibili e
maladattativi" - possono acquisire rilevanza solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali
da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere. Vuole, cioè, dirsi che i disturbi della
personalità, come in genere quelli da nevrosi e psicopatie, quand'anche non inquadrabili nelle figure tipiche
della nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle "malattie" mentali, possono costituire anch'esse
"infermità", anche transeunte, rilevante ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., ove determinino lo stesso risultato di
pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive. Deve, perciò, trattarsi di un
disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico
incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di
esercitare il dovuto controllo dei propri atti, e conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale
del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi: ed a tale accertamento il giudice deve
procedere avvalendosi degli strumenti tutti a sua disposizione, l'indispensabile apporto e contributo tecnico,
ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali.
Tali requisiti ha più volte evocato la giurisprudenza di questa Suprema Corte che ha esaminato la incidenza,
in subiecta materia, per lo più delle psicopatie, nel cui novero sono ascrivibili, come s'è detto, i disturbi della
personalità. Si è, così, fatto riferimento, nei diversi e variegati contesti motivazionali apprezzati, ai casi in cui
"... "le c.d. personalità psicopatiche..., per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato patologico, uno
squilibrio mentale incidente sulla capacità di intendere e di volere" (Cass., Sez. I, n. 33130/2004, in una
fattispecie in cui è stata esclusa la rilevanza di un disturbo della personalità di tipo borderline,
"analiticamente puntualmente motivato"; id., Sez. VI, n. 7845/1997, ancora in tema di un disturbo della
personalità borderline); al "carattere di cogente imperatività" (Cass., Sez. 27708/2004, in riferimento a
"disturbo delirante cronico"); alla infermità "che incida in modo rilevante sui processi intellettivi e volitivi",
rendendo il soggetto incapace "di rendersi conto del valore delle proprie azioni e di determinarsi in modo
coerente con le rappresentazioni apprese" (Cass., Sez. I, n. 24255/2004, a proposito di "particolari tratti della
personalità e di un prospettato, ma escluso, "disturbo borderline di personalità"); alla manifestazione del
disturbo, con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera
e propria psicosi" (Cass., Sez. I, n. 19532/2003, a proposito di "nevrosi e psicopatie" id. Sez. I, n. 3536/1997,
ancora a proposito di "nevrosi e psicopatie" e sussistenza o meno di una "degenerazione della sfera
intellettiva e cognitiva dell'agente"); alla sussistenza di "una persistente coscienza ed organizzazione del
pensiero", o di un avvenuta rottura del rapporto con la realtà" (Cass., Sez. I, n. 15419/2002, a proposito di
"disturbi della personalità di tipo borderline" con "componenti narcisistiche" ritenute, nella specie, non
"sufficienti a configurare una situazione di impossibilità di scegliere"); ad "uno squilibrio mentale a causa
della intensità delle deviazioni caratteriali" (Cass., Sez. I, n. 13029/1989, indotto da "una gravità della
psicopatia tale da determinare un vero e proprio stato patologico"; ad una "rivoluzione psicologica interna
per cui l'individuo è diventato estraneo a se stesso", ad "una effettiva compromissione della coscienza,
attestata da uno stato confusionale acuto", (Cass., Sez. I, n. 4492/1987). Anche l'indirizzo giurisprudenziale
che, più specificamente ed esplicitamente, fa riferimento al "valore malattia", appare prospettare non già una
sovrapposizione nosografica dei due termini "malattia" ed "infermità", ma piuttosto una coincidenza di
risultati valutativi quanto ai finali esiti della sussistenza o meno di una compromissione della capacità
intellettiva e volitiva: il tema risulta in particolare più diffusamente affrontato nella citata sentenza n.
4103/1986, della I sezione penale, la quale - puntualizzata la differenza tra "malattia" ed "infermità" - rileva
che con tale ultimo concetto "si intende esprimere il 'grado di diversità' fra le direttive abituali di una
personalità ed i modi di reazione suoi propri, da un lato, ed il suo comportamento abnorme dall'altro, in
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modo da poter chiarire come, partendo dall'essere 'infermo' dell'individuo, siano state in concreto limitate o
addirittura annullate le possibilità di un minimo adattamento individuale alla convivenza sociale".
15.1 Ne consegue, per converso, che non possono avere rilievo, ai fini della imputabilità, altre "anomalie
caratteriali", disarmonie della personalità", "alterazioni di tipo caratteriale", "deviazioni del carattere e del
sentimento" quelle legato "alla indole" del soggetto, che, pur afferendo alla sfera del processo psichico di
determinazione e di inibizione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano,
quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente, nei termini e
nella misura voluta dalla norma, secondo quanto sopra si è detto. (cfr., ex ceteris, Cass., Sez. III, n.
22834/2003; id., Sez. VI, n. 7845/1997). Né, di norma, possono assumere rilievo alcuno gli stati emotivi e
passionali, per la espressa disposizione normativa di cui all'art. 90 c.p. (sul quale, peraltro, puro si
appuntano critiche dottrinarie, ritenendosi, fra l'altro, tale disposizione "priva di una fondata base empirica e
motivata piuttosto da mere considerazioni di prevenzione generale e per questo in contrasto con il principio
di colpevolezza"), salvo che essi non si inseriscano, eccezionalmente, per le loro peculiarità specifiche, in un
più ampio quadro di "infermità", avente le connotazioni sopra indicate (Cass., Sez. I, n. 967/1998; id., Sez. I,
n. 3170/1995; id., Sez. I, n. 12429/1994; id., Sez. I, n. 4954/1993; id., Sez. I, n. 1347/1991; id., Sez. V, n.
8660/1990; id., Sez. I, n. 9084/1987; id., Sez. VI, n. 2285/1985); concordi su tanto anche autorevoli voci della
dottrina, che fanno riferimento a "casi di estrema compromissione dell'Io".
16.0 È, infine, necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che
consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo.
Invero, la dottrina ha da tempo posto in rilievo come le più recenti acquisizioni della psichiatria riconoscano
spazi sempre più ampi di responsabilità al malato mentale, riconoscendosi che, pur a fronte di patologie
psichiche, egli conservi, in alcuni casi, una "quota di responsabilità", ed a tali acquisizioni appare ispirarsi
anche la L. n. 180/1978, nel far proprio quell'orientamento psichiatrico secondo cui la risocializzazione
dell'infermo mentale possa avvalersi anche della sua responsabilizzazione in tal senso.
L'esame e l'accertamento di tale nesso eziologico si appalesa, poi, necessario al fine di delibare non solo la
sussistenza del disturbo mentale, ma le stesse reali componenti connotanti il fatto di reato, sotto il profilo
psico - soggettivo del suo autore, attraverso un approccio non astratto ed ipotetico, ma reale ed
individualizzato, in specifico riferimento, quindi, alla stessa sfera di possibile, o meno, autodeterminazione
della persona cui quello specifico fatto di reato medesimo si addebita e si rimprovera; e consente, quindi, al
giudice - cui solo spetta il definitivo giudizio al riguardo - di compiutamente accertare se quel rimprovero
possa esser mosso per quello specifico fatto, se, quindi, questo trovi, in effetti, la sua genesi e la sua
motivazione nel disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo "settoriale", che in tal
guisa assurge ad elemento condizionante della condotta: il tutto in un'ottica, concreta e personalizzata, di
rispetto della esigenza generalpreventiva, da un lato, di quella individualgarantista, dall'altro.
Né può ritenersi che a tanto osti il dettato della norma: facendo essa riferimento solo "al momento in cui lo
ha commesso", si intende, con ciò, postulare la necessaria attualità della capacità di intendere e di volere a
quel momento, ma non si esclude affatto che quella capacità debba essere, appunto a quel momento,
valutata, nella sua incidenza psico - soggettiva in riferimento al fatto medesimo, in relazione alle
connotazioni motivanti ed eziologiche dello stesso.
Ed a tali principi si sono spesso richiamate, già da tempo, molte sentenze di questa Suprema Corte (Cass.,
Sez. I, n. 4103/1986; id., Sez. I, n. 4122/1986; id., Sez. I, n. 14122/1986; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n.
13029/1989; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 19532/2003).
17.0 Possono a tal punto raccogliersi le fila del discorso giustificativo sin qui svolto e trarsi la conclusione che
deve essere affermato il seguente principio di diritto, ai sensi dell'art. 173.3 disp. att. c.p.p.: ai fini del
riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di "infermità" anche i "gravi
disturbi della personalità", a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l'intensità, tali da escludere o
scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione
criminosa.
18.0 Alla stregua di tanto, sussistente si appalesa l'error iudicis nel quale è incorsa la sentenza impugnata; la
quale è erroneamente pervenuta alla esclusione del vizio parziale di mente evocando il criterio della
"alterazione patologica clinicamente accertabile" e della "alterazione anatomico - funzionale della sfera
psichica", ritenendo che in ogni caso i "disturbi della personalità... non integrano quella infermità di mente
presa in considerazione dall'art. 89 c.p.".
Gli ulteriori profili di doglianza come già anticipato, sono stati prospettati dal ricorrente - la cui difesa tanto
ha espressamente ribadito anche nell'odierna udienza - come intimamente, e propedeuticamente, connessi al
primo motivo di censura; sicché essi ne rimangono, allo stato, assorbiti.
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19.0 La decisione va, dunque, annullata, con rinvio, per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Assise
di Appello di Roma.
P.Q.M.
La Corte annulla l'impugnata sentenza e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Assise di
Appello di Roma.
Roma 25 gennaio 2005.
Depositata in cancelleria il 8 marzo 2005.
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ALLEGATO 2
Corte Costituzionale, 16 aprile 1998, n. 114
Con tre ordinanze di identico contenuto, rese in tre procedimenti a carico dello stesso imputato, il Pretore di
Ancona, Sezione distaccata di Fabriano, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale degli articoli 94 e 95 del codice penale. A premessa della ordinanza il
giudice a quo, espone, in relazione ai tre procedimenti, che si era fatto luogo ad una compiuta istruzione
dibattimentale, sentendo testi ed ammettendo la produzione di documenti, fra i quali una dichiarazione di
un centro di accoglienza, con la quale si dava atto che l'imputato era inserito in un regime residenziale
presso tale centro comunitario da circa due anni per un programma psicoterapeutico di recupero; e che nel
corso di detta istruzione sia i testi che lo stesso imputato avevano dichiarato che all'epoca dei fatti contestati
(sui quali l'imputato asseriva di nulla ricordare) il soggetto in questione era sovente in preda agli effetti sia di
alcool che di sostanze stupefacenti; con la conseguenza che, eccepito dalla difesa lo stato di cronica
intossicazione sia da alcool che da sostanze stupefacenti, era stata disposta perizia volta ad accertare se
l'imputato all'epoca dei fatti versasse nelle condizioni di cui all'art. 95 del codice penale.
Aggiunge il Pretore che il perito, titolare della cattedra di tossicologia forense, aveva fatto conoscere di non
poter rispondere al quesito, sia per la mancanza di qualsivoglia referto clinico o di laboratorio, sia perché gli
esami sul periziando, fatti "ora per allora", non avrebbero potuto dar luogo ad alcun risultato di certezza.
Tuttavia lo stesso perito "a maggior chiarimento della propria risposta", aveva precisato che uno stato di
intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti può essere anche reversibile in rapporto all'età,
alle condizioni generali del soggetto, alla gravità dello stato di intossicazione ed al tipo di sostanza assunta,
tutti elementi validi tanto per formulare una diagnosi di intossicazione cronica, di cui all'art. 95 del codice
penale, quanto per formularne una di abituale assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti, di cui all'art.
94 stesso codice.
A questo punto il Pretore osserva che queste ultime considerazioni del perito si pongono in contrasto con il
costante orientamento della giurisprudenza, secondo cui, fermo il carattere della permanenza
dell'alterazione patologica proprio della fattispecie di cui all'art. 95, il principale criterio di distinzione tra
l'intossicazione cronica e lo stato di cui all'art. 94 cod. pen. starebbe nella irreversibilità della prima. Inoltre
questo orientamento della giurisprudenza sarebbe contrastato nell'ambito della scienza medica, alcuni autori
facendo rilevare che uno stato permanente ed irreversibile di alterazione cerebrale non si ravvisa che nella
rara demenza alcoolica e che al contrario psicosi alcooliche che insorgono nel corso dell'intossicazione
cronica (delirium tremens, allucinosi, ecc.) sono suscettibili di guarigione anche in breve periodo di tempo;
mentre altri autori aggiungono che la definizione stessa di intossicazione cronica da sostanze stupefacenti
non ha ragion d'essere, non essendo riscontrabile una patologia di rilievo somatico, psicologico e psichiatrico
con caratteristiche di permanenza ed osservabile anche oltre la cessazione dell'abuso.
Il Pretore ricorda anche le critiche emerse nella dottrina penalistica sul sistema vigente in materia e assume
l'inutilità della disposizione di cui all'art. 95, che già la "Relazione al Re" sul codice del 1930 avrebbe
considerato semplice norma di interpretazione autentica e solo per questa ragione "non superflua".
Tutto ciò premesso, il Pretore ritiene di non poter risolvere il problema insorto né facendo ricorso al disposto
dell'art. 530, comma 3, del codice di procedura penale né ricorrendo al principio secondo il quale il giudice è
pur sempre peritus peritorum. Ed infatti il dubbio su una causa di non punibilità presuppone pur sempre
che questa causa "si legittimi, sotto il profilo costituzionale, sia quando viene ad escludere sia quando
conferma la punibilità": cosa che non avviene quando, come nel caso in esame, si contesti la sussistenza
stessa delle basi scientifiche poste a distinzione tra le due ipotesi di cui agli articoli 94 e 95 del codice penale.
Egualmente, per quanto concerne l'asserito potere del giudice di non tener conto della perizia uniformandosi
alla tralatizia interpretazione giurisprudenziale, non si vede come un simile ordine d'idee possa essere
praticato una volta che si pone in discussione "la validità stessa del concetto sotteso agli articoli 94 e 95", con
il rischio di pervenire ad una costruzione inaccettabile sotto il profilo costituzionale.
Conclude il Pretore che gli articoli 94 e 95 del codice penale, dei quali viene in considerazione nel caso di
specie una applicazione alternativa, si porrebbero in contrasto con il principio di ragionevolezza, dal
momento che introducono una differenziazione insussistente "non potendo trovare alcun tipo di obiettiva
specificazione", e con l'art. 111 della Costituzione, giacché la motivazione "non potrebbe trovare alcuna
effettiva esplicazione, risolvendosi in formule stereotipe, incongrue e contraddittorie".
2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Premessa
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l'autonomia delle categorie giuridiche rispetto alle nozioni scientifiche, specie in tema di colpevolezza, ed
evidenziate le ragioni che indussero il legislatore del 1930 a stabilire una particolare disciplina in materia di
ubriachezza, l'Avvocatura sottolinea come le cause di esclusione della imputabilità siano esemplificative e
costituiscano quindi attuazione del generale principio sancito in materia dall'art. 85 cod. pen. L'esclusione o
l'attenuazione della punibilità nel solo caso di intossicazione da alcool riafferma pertanto la regola generale
soltanto quando si determini uno stato di alterazione psichica permanente tale da escludere o scemare
grandemente la capacità di intendere o di volere, a nulla rilevando che una simile situazione si determini in
un numero estremamente esiguo di casi. Per temperare il rigore della disciplina - peraltro già verificata e
risolta in senso negativo dalla Corte in tema di ubriachezza volontaria - si potrebbe prospettare, a parere
dell'Avvocatura, una lettura dell'art. 95 cod. pen. che ne consenta l'applicabilità in tutti i casi in cui la
intossicazione sia di tale portata da rendere inapplicabile il concetto di actio libera in causa. Negato quindi
fondamento alle prospettate censure di irragionevolezza, cadono anche i rilievi formulati in riferimento
all'art. 111 Cost., in quanto "ingiustamente il giudice rimettente si sente vincolato al nomen che al disturbo
ha attribuito la perizia medica", giacchè è al contenuto sostanziale della diagnosi che occorre fare riferimento
per sussumere la situazione nell'una o nell'altra delle figure evocate.
Considerato in diritto
1. - Poiché le ordinanze sollevano l'identica questione, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con
un'unica sentenza.
2. - Il Pretore di Ancona, Sezione distaccata di Fabriano, solleva questione di legittimità costituzionale degli
articoli 94 e 95 del codice penale sotto il profilo della loro irragionevolezza e sotto quello, collegato, della
lesione dell'art. 111 Cost. per la impossibilità di motivazione di un provvedimento giurisdizionale che debba
fondarsi sulla impossibile differenziazione delle due fattispecie. Il Pretore contesta infatti la validità
scientifica della distinzione tra abitualità nell'ubriachezza e nell'uso di sostanze stupefacenti e cronica
intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti sulla base di considerazioni svolte al riguardo nell'ambito
della scienza medico-legale, considerazioni condivise dal perito d'ufficio, il quale, chiamato a giudicare se
nel caso di un imputato era da considerarsi presente una intossicazione cronica da alcool e stupefacenti al
momento dei fatti allo stesso ascritti, ha concluso di non essere in grado di rispondere per la inconsistenza
della differenziazione tra le due fattispecie dell'abitualità e della cronicità e per la da lui ritenuta
inattendibilità della distinzione operata dalla giurisprudenza, fondata su di una asserita irreversibilità della
intossicazione cronica.
Il giudice rimettente condivide questo giudizio del perito e constata pertanto di non poter far capo alla
costante interpretazione giurisprudenziale fondata su presupposti non condivisi dalla scienza medico-legale.
Nel caso sottopostogli si dovrebbe trovare una linea di demarcazione tra le due alternative contrapposte
dell'abitualità e della cronica intossicazione, mentre ciò non è possibile. La normativa in questione, composta
degli articoli 94 e 95 del codice penale, è dunque del tutto irragionevole perché introduce una
differenziazione inesistente in astratto in quanto priva di alcun tipo suscettibile di obbiettiva specificazione.
Di conseguenza è anche rilevabile nel caso un contrasto con l'art. 111 della Costituzione perché nelle cennate
condizioni è impossibile una motivazione che si risolva in qualcosa di diverso dall'adozione di formule
stereotipe, incongrue e contraddittorie. Conclude in sostanza per la illegittimità costituzionale di entrambe le
disposizioni denunciate.
3. - La questione non è fondata.
4. - Questa Corte non intende certo escludere che il sindacato sulla costituzionalità delle leggi, vuoi per
manifesta irragionevolezza vuoi sulla base di altri parametri desumibili dalla Costituzione, possa e debba
essere compiuto anche quando la scelta legislativa si palesi in contrasto con quelli che ne dovrebbero essere i
sicuri riferimenti scientifici o la forte rispondenza alla realtà delle situazioni che il legislatore ha inteso
definire. Nella materia del diritto penale, anzi, questo specifico riscontro di costituzionalità deve essere
compiuto con particolare rigore, per le conseguenze che ne discendono sia per la libertà dei singoli che per la
tutela della collettività. E tuttavia, perché si possa pervenire ad una declaratoria di illegittimità costituzionale
occorre che i dati sui quali la legge riposa siano incontrovertibilmente erronei o raggiungano un tale livello
di indeterminatezza da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da
parte del giudice.
Non è tuttavia questo il caso per gli articoli 94 e 95 del codice penale del 1930.
5. - Indubbiamente la disciplina legislativa vigente per la materia in esame non trova nella dottrina
psichiatrica e medico-legale una base sicura, ancorché nella Relazione ministeriale sul progetto del codice
penale si legga di essa una diffusa motivazione, nella quale ci si riferisce (sia per la netta distinzione tra
intossicazione acuta e intossicazione cronica, sia quanto all'esplicito riconoscimento delle difficoltà di
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distinguere l'ubriachezza abituale dall'etilismo cronico) proprio agli insegnamenti della scienza psichiatrica.
Anche nella più recente dottrina penalistica la disciplina stessa è oggetto di dubbi, di controversie e perfino
di ferme condanne. Alcuni studiosi trovano tuttavia che la distinzione tra le fattispecie dell'art. 94 e dell'art.
95 è concettualmente chiara, pur non essendo sempre suscettibile di agevole diagnosi. Frequentemente è
criticata anche la parificazione, che tale disciplina comporta, tra gli effetti dell'alcoolismo e quelli delle
tossicodipendenze; e quanto a queste ultime si rileva (e il rilievo è raccolto nelle ordinanze del giudice a quo)
che le regole concernenti l'imputabilità (e più ancora quelle concernenti la pericolosità sociale: vedasi l'art.
221 del codice) non appaiono perfettamente coordinate con i trattamenti che per i soggetti affetti da
tossicodipendenza sono stati previsti dalle leggi dell'ultimo quarto di secolo: sì che sono presenti auspicii di
una profonda revisione della materia ad opera del legislatore. Controverso è anche, sia nella dottrina
medico-legale che in quella giuridica, il rapporto che lega la non imputabilità e la semi-imputabilità per
intossicazione cronica da alcool e da sostanze stupefacenti rispettivamente al vizio totale e al vizio parziale
di mente, da taluno ravvisandosi una piena identificazione della intossicazione cronica in queste ultime
categorie (e in tale senso si esprime anche la giurisprudenza della Corte di cassazione, che esige una
autentica affezione cerebrale o una permanente alterazione psichica), da altri invece parlandosi di forme
diverse di imputabilità esclusa o diminuita da affiancarsi rispettivamente a quelle del vizio totale e del vizio
parziale di mente e per le quali la legge non fa che disporre lo stesso trattamento giuridico.
Certo è pure che sulla imputabilità e semi-imputabilità dell'alcooldipendente e del tossicodipendente la
dottrina medico-legale segue diverse opzioni e che effettivamente si è domandata, come le ordinanze
ricordano, se lo stato definito dalla legge come intossicazione cronica, a prescindere da un suo confinamento
a situazioni marginali o rare, sia realmente identificabile attraverso i requisiti della permanenza e della
irreversibilità, su cui si fonda una lunga e costante interpretazione giurisprudenziale. Sempre sotto il profilo
medico-legale, le difficoltà sono poi accresciute (come del resto per altri accertamenti) dal divario di tempo,
spesso molto grande, tra il momento in cui la perizia viene compiuta e il momento - determinante ai fini di
stabilire l'imputabilità, la semi-imputabilità o la non imputabilità del soggetto - nel quale il fatto fu
commesso (cfr. art. 85 del codice penale). Infine si può riconoscere che la stessa eliminazione vuoi dell'art. 94
vuoi dell'art. 95, postulata in via di illegittimità costituzionale dalle ordinanze del giudice rimettente,
potrebbe forse non produrre vistose lacune nell'ordinamento, sia in considerazione dei limiti molto modesti
in cui può essere concretamente ridotto l'aumento di pena, tuttavia obbligatorio, previsto dall'art. 94 (di cui
si auspica peraltro da alcuni autori la soppressione per l'eccessiva severità dalla quale è ispirato e la cui
previsione non è stata ripetuta in alcuno dei recenti progetti di codice penale), sia in considerazione della
riconducibilità dell'intossicazione cronica, ove dia luogo ad un effettivo vizio totale o vizio parziale di mente,
alle disposizioni oggi dettate dagli articoli 88 e 89.
Ciononostante il sistema oggi vigente in materia di imputabilità e semiimputabilità dell'alcooldipendente e
del tossicodipendente non presenta il carattere di palese irragionevolezza ipotizzato dal giudice rimettente.
6. - Non può infatti negarsi che, ad onta delle incertezze espresse nella dottrina medico-legale e delle
richieste di innovazioni legislative fortemente presenti nella dottrina penalistica, la giurisprudenza
ordinaria, segnatamente la giurisprudenza di legittimità, si è attestata da alcuni decenni e senza apprezzabili
divergenze su una interpretazione che si presenta con caratteri di certezza e di uniformità nella
identificazione dei requisiti della cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti. Secondo tale
giurisprudenza, per potersi correttamente invocare lo stato di intossicazione cronica occorre una alterazione
non transitoria dell'equilibrio biochimico del soggetto tale da determinare un vero e proprio stato patologico
psicofisico dell'imputato e, dunque, una corrispondente e non transitoria alterazione dei processi intellettivi
e volitivi. Ciò significa che l'accertamento dell'imputabilità vien fatto ruotare in ogni caso attorno ad un
concetto di "infermità" necessariamente riconducibile, sul piano gnoseologico, ai mutevoli contributi
dell'esperienza clinica, cercando in tal modo di dissolvere proprio quei rischi di aperta contraddizione tra
scienza e norma sui quali il giudice a quo ha fondato le proprie censure.
7. - D'altra parte non saprebbe negarsi che gli articoli 94 e 95 del codice penale sono inseriti in modo organico
- e indubbiamente coerente nel proprio interno - in un sistema completo, quale è quello che il codice penale
del 1930 ritenne di dover istituire per l'affermazione od esclusione dell'imputabilità penale dei soggetti che
abbiano commesso il reato in stato di ubriachezza o sotto l'azione di sostanze stupefacenti. Tale sistema è
notoriamente ispirato a intenti di prevenzione generale improntati a grande rigore. Il suo nucleo primario,
rappresentato dagli articoli 92, primo comma, e 93, che parificano i reati commessi in stato di ubriachezza o
sotto l'azione di sostanze stupefacenti ai reati commessi in stato di normalità, eliminando le diminuzioni di
pena previste nel codice Zanardelli e sottoponendo ad eguale regime penale tanto l'ubriachezza (o
assunzione di sostanze stupefacenti) volontaria quanto quella meramente colposa, è tuttavia passato indenne
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proprio sotto il vaglio della irragionevolezza sin da quando la sua illegittimità costituzionale fu prospettata a
questa Corte da una pluralità di ordinanze di rimessione (sentenza n. 33 del 1970). Le restanti disposizioni,
tra cui quelle oggi denunciate, sono un corollario di quel nucleo essenziale e primario. È ovvia infatti la
libertà del legislatore di segnare con una circostanza aggravante - come nell'art. 94 - il volontario ed abituale
riprodursi di quello stato che è già parificato dall'art. 92 al reato commesso in condizioni di normalità
mentale; ed è d'altra parte opportuno, proprio in relazione al sistema di rigore instaurato con la sancita
irrilevanza penale dello stato tossico acuto, l'avere espressamente escluso che una intossicazione cronica, e
cioè non più dominabile dal soggetto, possa dar vita a quella severa parificazione.
Tale è stato del resto uno dei pensieri dominanti nella preparazione di questa parte del codice penale, come è
dato anche desumere da un passo della relazione ministeriale sul progetto, dove si legge che "non era
possibile, e non sarebbe stato giusto, applicare all'intossicazione cronica le norme dell'intossicazione acuta".
8. - A quest'ultimo riguardo una osservazione sembra ancora necessaria. Le ordinanze del giudice a quo, per
sottolineare l'inutilità della disposizione di cui all'art. 95 del codice penale, ricordano il passo della
"Relazione al Re" in cui è detto che "la disposizione trova la sua ragion d'essere nell'intento di distinguere
l'intossicazione acuta dalla cronica, la quale soltanto è equiparabile all'infermità mentale: comunque
l'articolo ha valore di interpretazione autentica e, come tale, non può ritenersi superfluo".
Questa proposizione - che è contenuta anche nella precedente relazione ministeriale sul progetto del codice
penale, dove è sostenuta da una diffusa argomentazione - pone in rilievo un problema già più sopra
accennato e controverso nella dottrina medico-legale formatasi in relazione alle disposizioni del codice, se
cioè lo stato definito come "cronica intossicazione" dall'art. 95 debba essere considerato un vero e proprio
vizio di mente (totale o parziale, a seconda del suo grado). La ricordata giurisprudenza di legittimità, con il
suo insistito richiamo al concetto di "infermità", sembrerebbe porsi in questa ottica. E tuttavia la formula
usata dalla legge, che si limita a stabilire che "si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 e 89",
farebbe pensare assai più ad una assimilazione nel trattamento penale (non imputabilità con totale
esclusione della punibilità, o imputabilità diminuita con attenuazione della pena fino a un terzo) che non ad
una identificazione. Né, per venire ad epoca più vicina, si può trascurare che nel più importante disegno di
nuovo codice penale degli ultimi anni, nell'elencare i casi di esclusione della imputabilità (e
corrispondentemente di grande diminuzione della stessa, con conseguente riduzione di pena) è previsto
quello in cui il soggetto "era, per infermità o per altra anomalia o per cronica intossicazione da alcool ovvero
da sostanze stupefacenti, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere". Dove,
dunque, alla cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti si fa ancora uno spazio autonomo,
non identificandola necessariamente con l'infermità (o semi-infermità) mentale, ma ad esse parificandola
sotto il segno dell'assenza o della diminuzione della imputabilità, e dunque della colpevolezza.
Ed è proprio in questa opportunità di riaffermare anche nei casi in esame - a prescindere da ogni legittima
discussione scientifica sulla esatta nozione dell'infermità mentale e del ricorso che a questa nozione ritiene di
fare la giurisprudenza ordinaria - il superiore valore del principio di colpevolezza che deve individuarsi la
non irragionevolezza della disposizione di cui all'art. 95 del codice penale.
È infatti, in ultima analisi, il riferimento alla colpevolezza o meno del soggetto quello che deve permettere di
distinguere, dal punto di vista della volontà del legislatore e per le conseguenze dalla legge previste, la
intossicazione acuta da quella cronica: colpevole quella acuta, sia pure dandosi spazio a tutti i trattamenti di
recupero e agli altri provvedimenti ritenuti adeguati sul piano dell'applicazione e dell'esecuzione delle pene;
incolpevole, o meno colpevole, quella cronica, sia pure attraverso il passaggio, nell'ipotesi della pena
soltanto diminuita, per la discussa e discutibile figura della semi-imputabilità.
9. - Così pure, è facendo riferimento al principio di colpevolezza che il giudice deve porsi in grado di
risolvere i problemi che si presentano nella concreta applicazione dell'art. 95 del codice penale, facendo
applicazione, nel dubbio, proprio delle regole di giudizio espressamente stabilite nei commi 2 e 3
(quest'ultimo comma ritenuto in astratto dalle ordinanze del giudice rimettente riferibile anche alle cause di
non imputabilità) dell'art. 530 del codice di procedura penale.
Sotto questo profilo una motivazione della sentenza è non solo possibile ma doverosa, anche a prescindere
dal pur rilevante parere eventualmente espresso, sia sull'imputabilità che sulla pericolosità sociale, dal perito
o dai periti.
La motivazione delle sentenze essendo dunque, nei casi come quelli prospettati dalle ordinanze di
rimessione, tutt'altro che impossibile, la questione di incostituzionalità sollevata anche in riferimento all'art.
111 Cost. deve ritenersi non fondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012
DIRITTO PENALE I
Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato
dott. Michele Toriello
riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 94 e 95 del codice
penale, sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, dal Pretore di Ancona - Sezione
distaccata di Fabriano, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile 1998.
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