Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello § 1 - Inquadramento sistematico: la colpevolezza nella struttura del reato. Secondo la teoria della tripartizione, sviluppata dalla dottrina tedesca e poi seguita dalla prevalente dottrina italiana, il reato si compone di tre elementi: tipicità, antigiuridicità e colpevolezza Il fatto tipico è il fatto umano corrispondente alla fattispecie descritta da una norma incriminatrice, inteso come fatto materiale nei suoi requisiti oggettivi (condotta, evento, nesso di causalità). La tipicità del fatto è la necessaria appendice del principio di legalità formale, del nullum crimen sine lege, perché solo attraverso la tipicità è possibile indicare ai consociati quali fatti devono astenersi dal compiere per non incorrere nella sanzione penale. Può tuttavia accadere che un fatto tipico, ossia un fatto oggettivamente corrispondente alla fattispecie legale, non per ciò solo contrasti con i dettami dell’ordinamento giuridico: il fatto tipico integra invero un illecito penale solo se, da un lato, è riconducibile alla responsabilità del soggetto che lo ha commesso, e dall’altro contrasta con l’ordinamento giuridico. Dunque, oltre che tipico, il fatto deve essere colpevole e antigiuridico. L’antigiuridicità indica la contrarietà del fatto all’ordinamento giuridico: può invero accadere che un fatto astrattamente corrispondente alla fattispecie descritta nella norma incriminatrice sia giustificato ovvero consentito in base ad una valutazione effettuata alla stregua non solo dell’ordinamento penale, ma dell’intero ordinamento giuridico. Poiché dunque un fatto consentito o addirittura imposto in un ramo dell’ordinamento non può essere sanzionato da altro ramo dell’ordinamento, l’interprete, prima di giungere alla conclusione che è stato commesso un illecito penale, deve verificare se il fatto non debba essere ritenuto lecito sulla base di una norma extrapenale, non sia dunque “coperto” da una esimente, da una causa di giustificazione. La colpevolezza indica la volontà riprovevole nelle forme del dolo e della colpa: perché sia configurabile l’illecito è necessario che vi sia un legame psichico tra il fatto ed il suo autore, poiché l’ordinamento può legittimamente sanzionare solo ciò che il soggetto ha voluto realizzare, ovvero ciò che era in suo potere prevedere e prevenire. La colpevolezza sta dunque ad indicare la necessità che il fatto tipico ed antigiuridico appartenga anche da un punto di vista psicologico al suo autore: non è sufficiente un nesso causale che leghi la condotta all'evento, ma è necessario anche un nesso psichico che leghi la condotta all'agente (art. 27 Cost., principio della personalità della responsabilità penale: nullum crimen, nulla poena sine culpa, ossia divieto per responsabilità per fatto altrui, ma anche esigenza di una responsabilità per fatto proprio e colpevole; art. 27, terzo comma, Cost.: la funzione rieducativa della pena non può che postulare quanto meno la colpa dell’agente in relazione agli elementi significativi della fattispecie tipica). Il discorso sulla colpevolezza è col tempo divenuto centrale e nevralgico nell’evoluzione del sistema penale: se oggi non sono puniti i bambini, i giovani incapaci, i malati di mente, se, come stiamo per vedere, sulla base di approfondite conoscenza psichiatriche lo Stato rinuncia alla pena anche in presenza di disturbi psichici, se abbiamo progressivamente espunto dal sistema le ipotesi di responsabilità oggettiva o per il mero evento, se anche nei delitti aggravati dall’evento oggi si pretende (con interpretazione costituzionalmente orientata) che detto evento sia stato almeno causato da colpa, se si è arrivati a sostenere che l’errore inevitabile sulla legge penale deve escludere la pena, tutto ciò lo si deve alla valorizzazione ed alla corretta applicazione del principio di colpevolezza. La colpevolezza assurge oggi dunque a principio cardine dell’intero sistema penale, principio di civiltà giuridica, in quanto l’idea di colpevolezza presuppone il rifiuto della responsabilità per l’evento, della responsabilità oggettiva: subordinare la punibilità alla colpevolezza equivale a bandire ogni forma di responsabilità per accadimenti dovuti al mero caso fortuito, il cui verificarsi l’agente non ha potuto signoreggiare. Risparmiandovi tutte le elucubrazioni circa la concezione normativa ovvero psicologica della colpevolezza, possiamo limitarci a ricordare che è “colpevole” il fatto realizzato con dolo o colpa, da un soggetto imputabile, ed in assenza di cause di esclusione della colpevolezza. § 2 – L’imputabilità. Preliminarmente occorre dare conto delle elaborazioni dottrinali circa la collocazione sistematica dell’imputabilità: essa attiene alla teoria del reato, ovvero più semplicemente alla teoria del reo? La dottrina classica (Antolisei, Pagliaro) e la giurisprudenza fino a qualche tempo fa prevalente escludevano la necessità di un collegamento tra l’imputabilità e la colpevolezza, lasciando dunque l’imputabilità al di fuori della struttura del reato: gli stati psichici che costituiscono il dolo e la colpa, si diceva, possono riscontrarsi anche nella condotta dell’immaturo o dell’infermo di mente (un ragazzo di 13 anni può ferire Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello intenzionalmente un compagno di giochi), ed il legislatore non ha offerto una duplice nozione degli elementi soggettivi, distinguendoli a seconda che essi siano o meno realizzati da soggetti imputabili. Peraltro gli articoli 222 e 224 c. p. dicono che la durata di misure di sicurezza quali il ricovero in ospedale psichiatrico dipende dalla gravità del reato, gravità che a sua volta si desume, ai sensi dell’art. 133 c. p., anche dall’intensità del dolo o della colpa; da ciò si ricava che il giudice può in concreto applicare quella misura di sicurezza solo dopo aver accertato il grado del dolo o della colpa del fatto compiuto dal soggetto non imputabile. Secondo la dottrina preferibile (Fiandaca, Mantovani) e la giurisprudenza oggi prevalente (cfr. per tutte Cassazione penale, Sezioni Unite, 25 gennaio 2005, n. 9163) l’imputabilità deve essere ricondotta nell’alveo concettuale della colpevolezza. Se, come si è innanzi indicato, la colpevolezza indica la rimproverabilità della volontà antidoverosa del soggetto agente, è necessario che alla base di questo giudizio vi siano da un lato la libertà di autodeterminazione del soggetto, e dall’altro la sua capacità di intendere e di volere; il soggetto deve cioè essere stato libero di scegliere di agire in quel determinato modo, ed ove una tale situazione non si sia realizzata non potremo parlare di volontà colpevole, ma di volontà coartata o di volontà viziata. A ben vedere i concetti del dolo e della colpa riflettono atteggiamenti della psiche che necessariamente importano una conoscenza ed una volizione: in tanto si agisce dolosamente, in quanto si conosca la realtà e ci si renda conto dell’azione che si compie e del risultato cui essa tende o conduce; in tanto si agisce colposamente, in quanto ci si comporti con imprudenza, negligenza, imperizia, pur essendo capaci di agire prudentemente e diligentemente. Il folle potrà compiere atti determinati da impulsi riconducibili alla sua volontà: ma questa non è una volontà giuridicamente qualificabile come dolo, poiché alla base del dolo (e della colpa) vi sono concetti che presuppongono la normalità psichica (conoscenza, previsione, conoscibilità, prevedibilità). Ove tutto ciò manchi, non potrà aversi colpevolezza, ma al più, come vedremo oltre, pericolosità sociale. Nella nota e fondamentale sentenza alla quale prima si faceva cenno, le Sezioni Unite della Suprema Corte chiariscono in motivazione che, nonostante la collocazione codicistica dell’art. 85 c. p. (siamo all’inizio del titolo IV del primo libro, intitolato al reo ed alla persona offesa dal reato), l’imputabilità deve essere intesa come capacità di colpevolezza, giacché non può esservi colpevolezza senza rimproverabilità, la quale postula, a sua volta, la necessità, per la punibilità del reato, della effettiva coscienza, nell’agente, della antigiuridicità del fatto, come definitivamente riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 364/1988. In tanto ha senso, dunque, parlare di rimproverabilità di un atto, in quanto l’agente abbia effettiva coscienza dell’antigiuridicità del fatto; ed in tanto può ritenersi tale coscienza, in quanto l’atto si inserisca nella facoltà di controllo e di scelta dell’agente, l’atto medesimo rimanendo altrimenti ascrivibile a lui solo per una relazione meccanicistica e meramente oggettiva. Perché possa muoversi un rimprovero è dunque necessario che il soggetto sia capace di autodeterminarsi, di controllare i propri impulsi ad agire, di orientarsi nella scelta dei motivi più ragionevolmente consoni ad una concezione di valore, sia capace di gestire la sua libera autodeterminazione, di intendere i propri atti, di rendersene conto, di orientarli. § 3 – La capacità di intendere e di volere. Passando ora all’esame della disciplina dettata dal legislatore, vediamo come l’art. 85 c. p. detti il generale principio in base al quale nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere. L’articolo 85 fissa dunque i presupposti dell’imputabilità nella capacità di intendere (attitudine del soggetto a conoscere la realtà esterna, a rendersi conto del valore sociale, positivo o negativo, degli atti che compie; dunque la capacità di intendere è la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento e di valutarne le possibili ripercussioni positive o negative sui terzi) e nella capacità di volere (attitudine del soggetto ad autodeterminarsi, volendo ciò che l’intelletto ha giudicato di doversi fare, e quindi adeguando il proprio comportamento alle scelte fatte; la capacità di volere è dunque la capacità di scegliere in modo consapevole tra motivi antagonistici). Gli articoli successivi fanno espresso riferimento ad alcuni parametri legalmente predeterminati (l’età, l’assenza di infermità mentale, l’assenza di altre condizioni quali la cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti, il sordismo, ecc.), ma non vi è dubbio circa il fatto che le cause di esclusione della imputabilità possano essere anche diverse ed ulteriori rispetto a quelle indicate dal legislatore (nell’esempio del Fiandaca, il soggetto tenuto in segregazione fin dall’infanzia ovvero il soggetto cresciuto in stato di totale isolamento socio culturale). Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello § 4 – La minore età. Poiché la capacità di intendere e di volere presuppone lo sviluppo psicofisico del soggetto, l’art. 97 c. p., introducendo una presunzione assoluta che non ammette la prova del contrario, detta il principio in base al quale al di sotto dei 14 anni il soggetto non è imputabile (non è imputabile che, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni), ferma restando la possibilità, nei casi e nei modi indicati dall’art. 224 c. p., di applicare una misura di sicurezza (la libertà vigilata o, per i delitti più gravi, il riformatorio giudiziario). Più che di infermità o di incapacità, nel caso del minore di 14 anni è il caso di parlare di immaturità: prima dei quattordici anni il soggetto non può aver raggiunto un adeguato sviluppo delle capacità conoscitive, volitive ed affettive, e non può aver acquisito gli strumenti intellettivi necessari a comprendere il significato etico e sociale del proprio comportamento; per questo il legislatore ritiene sempre e comunque che il minore di quattordici anni non sia imputabile. Non essendovi spazio alcuno per ritenere imputabile un soggetto minore degli anni quattordici, ove sia stato instaurato un processo a carico del minore, il giudice che accerti che al momento del fatto il soggetto non aveva compiuto i 14 anni, deve emettere sentenza di non doversi procedere per difetto di imputabilità, così come prescritto dal D. P. R. 22 settembre 1988, n. 448 (recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), all’art. 26 (obbligo della immediata declaratoria della non imputabilità: in ogni stato e grado del procedimento il giudice, quando accerta che l'imputato è minore degli anni quattordici, pronuncia, anche di ufficio, sentenza di non luogo a procedere trattandosi di persona non imputabile). All’autorità giudiziaria è dunque precluso di esercitare l'azione penale nei confronti del soggetto minore degli anni quattordici, e se l’azione penale è stata iniziata, il giudice dovrà limitarsi a dichiarare con sentenza, immediatamente in ogni stato e grado del procedimento, il non luogo a procedere. In presenza della non imputabilità ex art. 97 c.p. al giudice non è consentito di cercare altri elementi utili al giudizio oltre quelli già acquisiti al processo; il giudice, pertanto, non è tenuto al preventivo accertamento per verificare la eventuale insussistenza del fatto o la non attribuibilità dello stesso al minore imputato prima della pronuncia della sentenza ex D.P.R. n. 448 del 1988, art. 26, atteso che sarebbe ultronea qualsiasi indagine in relazione ad un fatto che la legge non consente di perseguire. Ne consegue che l'imputato non può dolersi del mancato compimento, prima della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, di attività processuali, quali l'interrogatorio dell'indagato e simili, al fine di dimostrare la sua estraneità ai fatti oggetto di imputazione (Cassazione penale, sez. V, 25 novembre 2009, n. 49863). Nel caso di specie, dunque, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato minorenne che si doleva del fatto che non gli fosse stato consentito di provare la propria completa estraneità ai fatti a lui ascritti. L’orientamento non appare tuttavia pienamente condivisibile: si è infatti innanzi accennato, e si vedrà meglio in seguito, che al minore prosciolto per causa della sua età può, in presenza dei presupposti di legge, essere applicata una misura di sicurezza. Da ciò non può che conseguire l’onere del giudice di verificare che non sussistano elementi tali da condurre al proscioglimento nel merito dell’imputato, ad esempio per non aver commesso il fatto, o perché il fatto non sussiste. Dunque, il principio correttamente applicato nel caso sopra richiamato dalla Suprema Corte (nel caso di specie, infatti, l’imputato minorenne non era stato attinto da misure di sicurezza) non può valere in assoluto: la stessa Suprema Corte ha invero statuito che la sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità del minore presuppone l'accertamento della responsabilità dell'imputato, potendo anche comportare l'applicazione di misure di sicurezza nei suoi confronti. (Nel caso di specie, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza del tribunale per i minorenni in quanto priva di qualsiasi motivazione, anche implicita, in merito all'insussistenza di elementi conferenti nel senso dell'applicabilità di un proscioglimento nel merito) (Cassazione penale, sez. V, 4 novembre 2008, n. 42507) In un recente caso la Suprema Corte ha dovuto valutare il ricorso di un soggetto che aveva - vanamente sollevato incidente di esecuzione, dolendosi, tra l’altro, del fatto che due sentenze irrevocabili di condanna emesse a suo carico afferivano a fatti commessi quando aveva tredici anni. Il giudice dell’esecuzione aveva rigettato la richiesta di una declaratoria di non punibilità, argomentando di non poter emettere alcun provvedimento poiché su quelle due sentenze si era oramai formato il giudicato. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso del condannato, annullando senza rinvio il provvedimento impugnato in relazione alle due sentenze in argomento, evidenzia tra l’altro che la situazione di colui che non ha compiuto i 14 anni al momento del fatto rende impossibile la costituzione ab initio di un valido rapporto processuale (Sez. 5, 7 aprile 1997 n. 1604, rv. 208250), per cui la pronuncia di una condanna in tali casi è paragonabile alla condanna pronunciata contro un soggetto inesistente (Sez. 5, 11 marzo 1994 n. 1471, rv. 198000), contro un soggetto che non era in vita al momento del fatto (Sez. 1, 19 marzo 1996 n. 1766, rv. 204616), o pronunciata da chi non aveva potere giurisdizionale penale (Sez. 2, 7 ottobre 1981 n. 1246, rv. 152080). Tale conclusione è l'unica possibile in relazione al caso specifico sottoposto all'esame del collegio in quanto le due sentenze di condanna di cui si chiede l'ineseguibilità erano state pronunciate dal tribunale per i minori nonostante emergesse dalle stesse sentenze che l'imputato era infraquattordicenne .. Pertanto l'ordinanza deve essere annullata senza rinvio relativamente alle due sentenze pronunciate in relazione a reati commessi quando il condannato era infraquattordicenne, perché ineseguibili (Cassazione penale, sez. I, 4 febbraio 2009, n. 5998). Superati i quattordici anni, e fino ai diciotto, la capacità di intendere e di volere non è né esclusa a priori, né presunta, ma deve essere accertata volta per volta: questo è il senso della regola dettata dall’art. 98 c. p., in base al quale è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita. Il giudice è dunque chiamato ad una valutazione specifica sia della personalità del singolo imputato, sia dello specifico fatto di reato, nelle concrete circostanze in cui esso si è svolto, considerando la progressiva formazione delle competenze sociali e psicologiche del minorenne, e la conseguente attitudine dell’autore del reato ad intendere e volere, ovverossia ad elaborare i dati che gli pervengono dalla realtà ed a determinarsi conseguentemente, per escludere tale attitudine quando il relativo processo psicologico appaia viziato. Per dimostrare l'eventuale immaturità del minore infradiciottenne rispetto allo specifico tipo di condotta posta in essere, l'indagine deve essere volta all'accertamento della maturità psichica raggiunta dal minore. Qualora lo sviluppo morale e intellettuale del giovane sia tale da fargli comprendere la portata e le conseguenze del proprio comportamento, allora il minore può essere ritenuto imputabile, anche se con la diminuente della pena ex art. 98 c. p. (Cassazione penale, sez. V, 19 novembre 2010, n. 1498). Al fine di non scadere in un clemenzialismo di maniera, contrastante sia con esigenze di prevenzione generale sia di responsabilizzazione degli stessi minori, la giurisprudenza di legittimità applica con estremo rigore la disposizione in commento, soprattutto ove siano in contestazione reati il cui disvalore è facilmente ed immediatamente percepibile. Ad esempio, in un recente caso la Suprema Corte ha esaminato il ricorso del minore infradiciottenne condannato dai giudici di merito per i reati di violazione di domicilio, rapina ed omicidio, commessi in concorso con altri due soggetti, con i quali l’imputato si era introdotto a scopo di rapina nell’abitazione della vittima, 77enne, colpendola ripetutamente con calci e pugni, così da cagionarne la morte: la tesi difensiva della non imputabilità del minore è stata compiutamente esaminata dai giudici di merito che sono pervenuti ad una conclusione del tutto opposta attraverso una critica puntuale delle conclusioni che hanno ritenuto contraddirtene del perito. Vi è da premettere che la incapacità di intendere e volere dell'imputato di età fra i 14 ed i 18 anni non è subordinata, come avviene invece per l'età adulta, ad uno stato patologico, ed in particolare ad una infermità, ma l'incapacità può derivare da uno stato di immaturità, tipico dell'età minore. Ed il concetto di maturità non può essere assoluto, bensì relativo: deve cioè correlarsi al reato compiuto, il che impone chiedersi se il minore è psichicamente immaturo e, in caso affermativo, se il reato sia da considerarsi una manifestazione sintomatica dell'accertata immaturità psichica. Perché un minore di età sia riconosciuto incapace di intendere e volere al momento della commissione del reato è necessario l'accertamento di una immaturità o anche a maggior ragione di una infermità di natura ed intensità tali da compromettere, in tutto o in parte, i processi conoscitivi, valutativi e volitivi attenuando grandemente la capacità di percepire il disvalore sociale del fatto e di autodeterminarsi Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello autonomamente. Pertanto specifiche condizioni socio-ambientali e familiari nelle quali il minore si è trovato e che hanno determinato un vissuto particolarmente doloroso e lacerante, se pure possono avere avuto influenza negativa sul soggetto, inficiando le potenzialità di valutazione critica della propria condotta e agevolando il processo psicologico di auto - legittimazione del crimine, non hanno, per ciò solo, compromesso la capacità del minore di rendersi conto del significato delle proprie azioni e di volizione delle stesse e quindi non rappresentano una forma di patologia mentale legittimante un giudizio di non imputabilità (Cass. Sez. 6^, 25.5.2003 - dep. 28.7.2003 -, n. 31753, Maddaloni). Ora, secondo lo stesso perito, l'imputato al momento del fatto era capace di intendere ma incapace di volere. E tale incapacità doveva collegarsi ad un deficit cognitivo - prestazionale collegato ad una disarmonia nella maturazione della personalità. Ma un tale reciso giudizio contrasta con le altre conclusioni peritali che certificano un buon livello intellettivo e una sufficiente maturità sociale, tale da riuscire il minore ad organizzare in piena autonomia rispetto alla famiglia di origine la sua vita relazionale, sociale e lavorativa, una autonomia addirittura definita superiore alla norma per l'età. Un tale giudizio contrasta visibilmente la diagnosi di una disarmonia evolutiva incompatibile, secondo la scienza psicopatologica con la "buona autonomia sociale e relazionale" che denuncia il conseguimento della maturità. Del resto la difesa dell'imputato, sulla scia peraltro del discorso peritale, in buona sostanza attribuisce alle violenze ed alle minacce del correo maggiorenne il fattore condizionante la mancanza di volontà del minore: il che finisce per collocare la causa della incompatibilità in un fattore esterno alla personalità del soggetto, ponendo quindi in essere una vera e propria contraddizione, nel postulare una incapacità di volere per fattori esogeni, esterni (Cassazione penale, sez. I, 17 novembre 2010, n. 43953). Al compimento del diciottesimo anno di età, la capacità di intendere e di volere è presunta dal legislatore: ma è una presunzione relativa, perché vi sono delle cause (alcune codificate, altre no) che fanno scemare o addirittura scomparire la capacità di intendere e di volere § 5 – Il vizio di mente. Una delle principali cause dell’incapacità di un soggetto è l’infermità di mente, ossia un vizio, una malattia, un disturbo che influiscano negativamente sulla sua capacità di intendere e di volere: secondo l’art. 88 c. p. non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere; il successivo art. 89 c. p. prevede che chi nel momento in cui ha commesso il fatto era per infermità in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita. Occorre preliminarmente interrogarsi su quale sia l’infermità rilevante ai sensi e per gli effetti della legge penale? Per lungo tempo si è sostenuto che l’infermità mentale alla quale fa riferimento il legislatore è solo quella conseguente ad una malattia psichica fondata su basi biologico-somatiche, ossia ad una lesione organica o comunque ad una alterazione mentale di natura organico-cerebrale. L'infermità è stata dunque identificata come una malattia che colpisce il cervello e di cui sono sempre verificabili non solo le cause, ma anche i sintomi e le conseguenze. A tale stregua, da un lato, si è conferita rilevanza – quale malattia integrante infermità – alle psicosi, tutte caratterizzate dalla perdita dei nessi logici e/o del senso della realtà, nonché dalla coscienza della malattia1; dall’altro si è esclusa ogni incidenza - nel medesimo senso - alle cd. “abnormità psichiche”, e cioè a quelle turbe del carattere e della sfera affettiva che possono al più rientrare nel novero di quegli stati emotivi e 1 Le psicosi in letteratura vengono distinte in psicosi esogene, in cui il disturbo psichico deriva da un processo morboso la cui azione è dimostrabile a livello anatomico-organico-cerebrale: psicosi traumatiche da lesioni cerebrali, psicosi da infezione, psicosi da intossicazione, psicosi presenili o senili, oligofrenie da malformazioni congenite; ed in psicosi endogene, come le schizofrenie e le distimie, in cui viceversa il disturbo psichico si manifesta in termini funzionali, ma non è ancora dimostrato – nella sperimentazione psichiatrica – che sia certamente dovuto ad una alterazione organica, essendosi propensi peraltro a credere che risenta di una predisposizione o di un condizionamento biologico. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello passionali che l’art. 90 c. p. considera espressamente ininfluenti ai fini della sussistenza della capacità di intendere e di volere. Si è dunque concluso nel senso che la psicopatia e gli altri disturbi della personalità non sono idonei a giustificare la sussistenza del vizio di mente, integrando una semplice anomalia del carattere, una alterazione transeunte relativa alla sfera psico-intellettiva e volitiva, e non uno stato patologico in grado di influenzare il piano dell'imputabilità. In tema di imputabilità, le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono le malattie mentali in senso stretto, e cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità. Ne consegue che esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell’applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p. in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali (Cassazione penale, sez. VI, 7 aprile 2003 n.24614). Questa chiave di lettura, connessa ad un paradigma valutativo di tipo cd. medico-organicistico, non è tuttavia sostenuta: * né dal tenore letterale degli artt. 88 ed 89 c.p., poiché il legislatore parla espressamente di infermità, e non di malattia, e questo riferimento sembra possedere una valenza non strettamente tecnica, tale cioè da evocare un significato più ampio di quello di “malattia” in senso proprio; * né dallo stesso complessivo sistema di disciplina in tema di capacità di intendere e di volere siccome articolato dal legislatore: l’art. 85 c.p., che pone in termini perentori il principio della necessaria imputabilità al momento del fatto, fissa un criterio di carattere generale e di grande latitudine, ma, come si è accennato, non indica in maniera esaustiva e tassativa le situazioni significative di incapacità di intendere e di volere. Da ciò logicamente consegue che possono rilevare, ai sensi e per gli effetti di tale norma, anche una serie di altre situazioni personali ulteriori rispetto a quelle espressamente disciplinate dal codice, sempre che abbiano l’effetto di incidere sulla capacità di intendere o di volere; * né, soprattutto, dai più recenti approdi della scienza psichiatrica, che fa oramai rientrare nella nozione di malattia psichica non solo i cd. “quadri nosografici” definiti (contrassegnati da vere e proprie disfunzioni del sistema nervoso centrale, e dunque a matrice organica), ma anche tutte quelle alterazioni mentali fondate su base psicologica di natura qualitativa, che si manifestano come “disarmonie dell’apparato psichico”, e che dunque - pur diverse dalle malattie psichiatriche in senso stretto - esprimono un disturbo psicopatologico. Tra queste anomalie psichiche (che di per sé sole non comportano una perdita del senso della realtà, ma che possono assumere rilievo ai fini del giudizio sulla capacità di intendere e di volere) vengono in rilievo le psicopatie (variazioni della personalità dalla norma - le cd. personalità abnormi -, a base prevalentemente costituzionale, per lo più sul piano del carattere, della vita affettiva e della volontà, e meno su quello dell’intelletto); le nevrosi (che si manifestano in reazioni abnormi o attraverso disturbi dell’elaborazione della realtà, dipendenti in genere da fatti ambientali e/o relazionali); i cd. disturbi degli impulsi, o deviazioni o perversioni, quando si esprimano con intensità e modalità tali da evidenziare una personalità abnorme (ad es. disturbi dell’istinto sessuale che diventano vera e propria mania sessuale; disturbi d'ansia: attacchi di panico, fobie e disturbi da stress estremo; disturbi dell'umore: depressioni, ipomanie, disturbi bipolari; disturbi dell'alimentazione, come l’anoressia e la bulimia). Tali anomalie, che di norma rappresentano, per lo meno sino ad un certo livello, semplici variazioni del modo di essere individuale del soggetto (e dunque di per sé stesse non possono sostenere una diagnosi di non imputabilità al momento del fatto), possono talvolta attingere - in forza di una penetrante analisi psicologica, particolarmente attenta alle connotazioni ed alle contingenze del fatto commesso –, per la frequenza e la intensità dei sintomi, un tale grado di deviazione della personalità da risultare equivalenti ad una malattia psichiatrica in senso stretto, con le conseguenti implicazioni in relazione al vaglio di imputabilità del soggetto. Questo è il dictum oramai univoco della giurisprudenza di legittimità, a partire dalla nota pronuncia a Sezioni Unite n. 9163/2005 (che trovate interamente allegata alla fine di questa relazione), dalla quale sono state estrapolate le seguenti massime Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità. Per stabilire in cosa consista l'infermità di mente di cui è menzione nell'art. 88 c.p., quale causa di esclusione dell'imputabilità, occorre fare riferimento ai criteri dettati dalla medicina e dalla psicologia, le quali nelle loro acquisizioni più recenti sono inclini a considerare malattia mentale non soltanto quelle a base organica, ma anche i semplici disturbi della personalità. Ne consegue che anche questi ultimi possono comportare l'esclusione della imputabilità, a condizione che siano di gravità e intensità tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e che siano state proprio esse la causa della condotta criminosa (Nella specie, la Corte ha annullato la sentenza impugnata, che aveva erroneamente escluso il vizio parziale di mente, sul rilievo che il disturbo paranoideo, dal quale, secondo le indicazioni della perizia psichiatrica, risultava affetto l'autore dell'omicidio, non rientrava tra le alterazioni patologiche clinicamente accertabili, corrispondenti al quadro di una determinata malattia psichica, per cui, in quanto semplice "disturbo della personalità", non integrava quella nozione di "infermità" presa in considerazione dal codice penale) (Cassazione penale, Sezioni Unite, 25 gennaio 2005, n.9163). Premessa la distinzione tra i concetti di malattia e di infermità, il secondo più ampio del primo, la Corte disattende dunque il paradigma di stampo ottocentesco organico-biologico (vizio di mente = malattia fisica del sistema nervoso centrale); di conseguenza disattende anche il criterio della “necessaria sussumibilità dell’anomalia psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche”. Ritiene, invece, che, anche al di fuori di rigide catalogazioni nosografiche, quel che interessa accertare non è la presenza nell’imputato di una patologia catalogabile ed annoverabile tra le malattie psichiatrice in senso stretto, ma è l’assetto psichico dell’agente, cioè la sussistenza o meno, in quel determinato frangente e momento storico, di sue attitudini autodeterminative, in termini di capacità di intendere e di volere, con apertura dunque a tutti quei disturbi mentali, iscrivibili nel novero delle infermità, che per la loro consistenza, intensità, rilevanza e gravità siano tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere, del tutto caducando o grandemente scemando il relativo potere autodeterminativo del soggetto. Alla stregua di tanto la giurisprudenza di legittimità ritiene quindi che anche ai disturbi della personalità deve riconoscersi la potenziale attitudine a concretizzare il vizio, totale o parziale, di mente; vizio che può essere anche transeunte, concetto, quest’ultimo, diverso da momentaneo, siccome pur sempre riconducibile ad una condizione, uno status, o, come si esprime autorevole dottrina, a una evoluzione, un processo, un decorso, una storia, una durata nel tempo: donde il particolare impegno del perito e del giudice nel distinguere tale stato di infermità transeunte dai meri stati emotivi e passionali, confinati nel limbo della irrilevanza in tema di imputabilità dall’art.90 c.p. L’analisi della più recente giurisprudenza di legittimità evidenzia che nell’ambito di questo orientamento interpretativo: a) si afferma (in armonia con la dottrina più autorevole) che gli stati emotivi o passionali, categoricamente privati per scelta legislativa, ed ove in sé e per sé considerati, di qualsiasi rilievo ai fini dell’imputabilità (che non escludono, né diminuiscono), possono tuttavia essere sintomi, manifestazioni o prodotti (anche collaterali) di uno stato patologico, che, quale reale infermità, potrà - esso sì - rilevare ai sensi e per gli effetti degli artt. 88 ed 89 c.p. Si assume in particolare che gli stati emotivi o passionali, pur non essendo in grado di incidere sull’imputabilità del soggetto, possano condizionarne la lucidità mentale in modo tale che – in presenza di un “quid pluris” che, associato allo stato emotivo o passionale, si traduca in un fattore che determina un vero e proprio stato patologico, sia pure di natura transeunte e non inquadrabile nell’ambito di una precisa Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello classificazione nosografia – ne risulti scemata o esclusa la capacità di intendere e di volere; aggiungendosi che l’esistenza di tale fattore andrebbe accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica, senza che peraltro quest’ultima possa mai arrivare ad attribuire carattere di “infermità” ad alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi o passionali di cui si sia riconosciuta la sussistenza. Volendo esemplificare queste proposizioni giurisprudenziali potrebbe farsi riferimento ad un accesso di gelosia momentanea (irrilevante) ed invece ad una forma di gelosia ossessiva delirante da tempo sfociata in una situazione psicopatologica grave, con conclamata compromissione della facoltà di comprensione, di critica e di autocontrollo; o correlativamente ad un episodico stato di panico determinato da avvenimenti improvvisi a fronte di una grave forma di psicopatologia fobica incidente sulle capacità di autodominio ed autodeterminazione del soggetto. b) si ribadisce la imprescindibile necessità di accertare un effettivo rapporto tra l’anomalia psichica ed il determinismo dell’azione delittuosa commessa: come ha a chiare lettere indicato la più volte citata pronuncia delle Sezioni Unite, infatti, “tra il disturbo mentale ed il fatto di reato deve sussistere un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”; si ritiene, quindi, in sostanza, necessaria una correlazione funzionale tra la patologia e il tipo di manifestazione delittuosa, nel senso che questa debba costituire (per le implicazioni derivanti dagli artt. 88 ed 89 c.p.) estrinsecazione riconducibile alla “infermità” di cui il soggetto è stato ritenuto portatore. In proposito alcuni commentatori hanno mosso una critica all’approdo ermeneutico: si dice, in sostanza, che se il soggetto è infermo di mente, non ha molta importanza verificare la sussistenza di un nesso di tal fatta, poiché ciò che importa è che il soggetto al momento in cui ha agito non era in grado di comprendere il senso delle sue azioni e di autodeterminarsi. Ma la scelta dei giudici di legittimità è condivisibile: l’approccio al tema del disturbo mentale deve essere non astratto ed ipotetico, ma reale ed individualizzato, in riferimento a quello specifico soggetto ed a quello specifico fatto di reato; il giudizio non può dunque essere avulso dalla considerazione della incidenza che il disturbo mentale abbia avuto nella determinazione del soggetto alla commissione del reato. Ad esempio, ove si ritenga accertato un disturbo grave di personalità iscrivibile nel novero della piromania, così settorialmente delimitato, esso potrebbe mai rilevare in un reato contro la libertà sessuale commesso da quel soggetto? In conclusione, si avrà vizio totale di mente ove si accerti che il soggetto, al momento della commissione del fatto, era affetto da una infermità (intesa come malattia psichiatrica ovvero come rilevante disturbo della personalità) tale da escludere del tutto la sua capacità di intendere e di volere; si avrà vizio parziale di mente ove si accerti che l’infermità che affliggeva il soggetto al momento del fatto, pur menomandone le capacità cognitive e volitive, non aveva intensità tale da escluderne la capacità di intendere e di volere; la distinzione tra le due forme di infermità è affidata non ad un criterio qualitativo, ma quantitativo, poiché la legge considera il grado, e non l’estensione dell’infermità. Volgiamo ora un rapidissimo sguardo alla recente giurisprudenza di legittimità: * la Suprema Corte ha ritenuto del tutto irrilevanti le specifiche condizioni socioambientali e familiari nelle quali l’imputato (nel caso di specie minorenne) sia vissuto, trattandosi di elemento inidoneo a comprometterne la capacità di rendersi conto del significato delle proprie azioni e di volizione delle stesse (Cassazione penale, sez. II, 26 gennaio 2011, n. 6970, relativo a minorenne accusato di danneggiamento, ingiurie e minacce: rileva la Corte, annullando con rinvio la sentenza di non luogo a provvedere, che il giudice aveva erroneamente valorizzato un unico elemento, la intervenuta separazione dei genitori del minore, certamente inidoneo a fondare un giudizio di incapacità); * la pedofilia, se non accompagnata da un'accertata malattia mentale o da altri gravi disturbi della personalità, rappresenta una semplice devianza sessuale, senza influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive della persona (Cassazione penale, sez. III, 16 dicembre 2010, n. 15157, nella cui motivazione si evidenzia che la dottrina scientifica ritiene che la parafilia o perversione sessuale - della quale la pedofilia è considerata una sottocategoria - va ricompresa tra i disturbi di personalità attinenti alla sfera sessuale e le nevrosi, e non comporta dunque la perdita del rapporto con il contesto reale, la destrutturazione della personalità, la dissociazione affettiva ed ideativa. Dunque, se non accompagnata da una accertata malattia mentale o da altri gravi disturbi della personalità, la pedofilia rappresenta una semplice devianza sessuale, senza influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive); Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello * la gelosia, se non dipendente da stato patologico adeguatamente comprovato, rileva quale mero stato emotivo e passionale ai sensi dell'art. 90 c.p., e dunque è irrilevante ai fini dell'esclusione dell'imputabilità del reo (Cassazione penale, sez. VI, 25 marzo 2010, n. 12621, relativa a reati di maltrattamenti ingiurie e lesioni asseritamente commessi dall’imputato solo perché ossessivamente geloso della moglie: la Corte evidenzia in motivazione che la capacità di controllo delle proprie azioni va distinta dalla capacità di intendere e di volere, in quanto capacità del soggetto di modulare e calibrare la sua condotta in funzione di elementi condizionanti di ordine etico, religioso, educativo ed ambientale, i quali, afferendo ed integrandosi nel nucleo della personalità del soggetto, lo dotano della consapevolezza critica ed autocritica, e che agiscono come modulatori dell'istintualità e dell'impulsività. Ne consegue che l'indebolimento dei freni inibitori, o l'attenuazione della loro funzionalità in determinate aree sensibili (quali la "possessività sospettosa" nella gelosia), se non dipendenti da un vero e proprio stato patologico, non sono in grado di incidere sulla capacità di intendere e di volere e quindi sull'imputabilità); * analogo giudizio di irrilevanza è stato licenziato in relazione ad una personalità borderline attribuita all’imputato per "disturbi misti delle capacità scolastiche", "immaturità affettiva, impulsività, scarsa tolleranza alle frustrazioni, difficoltà ad esprimere verbalmente sentimenti" (Cassazione penale, sez. VI, 27 ottobre 2009, n. 43285): in motivazione si evidenzia da un lato la inidoneità dei predetti disagi ad incidere radicalmente (ex art. 88 c.p.) o grandemente (ex art. 89 c.p.) sui processi di intelligenza e volontà; dall’altro la radicale assenza del fondamentale rapporto motivante tra la patologia prospettata e l’illecito commesso, illecito che peraltro viene definito “di elementare percezione nel suo preciso livello di illiceità e dissocialità anche a persone di scarsa dotazione intellettuale” (si trattava di ripetuti episodi di illecita cessione a terzi sostanze stupefacenti del tipo hashish); * del pari irrilevante è stata ritenuta una "organizzazione borderline della personalità con tratti istrionici e paranoidei caratterizzato da chiusura all'ambiente, ma in soggetto vigile, lucido, orientato nello spazio e nel tempo, ricco di rapporti epistolari con i coimputati, motivato da una particolare posizione ideologica di lotta e di contestazione allo Stato (Cassazione penale, sez. I, 18 febbraio 2009, n. 17853, Blefari): è stato dunque escluso non solo un quadro psicotico, ma anche qualsiasi incidenza dei meri disturbi di personalità da cui l’imputata è affetta sulla capacità di intendere e di volere e sulla capacità di partecipare al processo. § 6 - L’ubriachezza e l’intossicazione da stupefacenti. Secondo la disciplina dettata dagli articoli 91 e seguenti c. p., l’ubriachezza e l’intossicazione da sostanze stupefacenti influiscono sull’imputabilità ovvero quanto meno mitigano il trattamento sanzionatorio solo se la perdita della capacità di autocontrollo è determinata da un fattore imprevedibile o da una forza esterna inevitabile, senza che sia dunque possibile muovere all’agente un qualsiasi rimprovero; esse, in particolare: a) escludono l’imputabilità se sono dovute a caso fortuito o forza maggiore (ad es. l’operaio della distilleria che, per un guasto dell’impianto, è stato costretto ad operare in un ambiente saturo di vapori alcolici) ed incidono, escludendola, sulla capacità di intendere e di volere; b) non escludono l’imputabilità, ma comportano una diminuzione della pena, se sono dovute a caso fortuito o forza maggiore ed incidono, diminuendola, sulla capacità di intendere e di volere; c) non escludono l’imputabilità e non mitigano il trattamento sanzionatorio se sono dovute ad una scelta volontaria dell’agente; siamo di fronte ad una chiara scelta di politica criminale del legislatore, non potendo sempre sostenersi che il soggetto che, dopo essersi volontariamente ubriacato o dopo avere volontariamente assunto sostanze stupefacenti, commetta un determinato reato, lo commette sorretto dall’elemento psicologico nelle forme del dolo o della colpa, poiché, come si è illustrato in principio, i concetti del dolo e della colpa riflettono atteggiamenti della psiche che necessariamente importano una conoscenza ed una volizione: in tanto si agisce dolosamente, in quanto si conosca la realtà e ci si renda conto dell’azione che si compie e del risultato cui essa tende o conduce; in tanto si agisce colposamente, in quanto ci si comporti con imprudenza, negligenza, imperizia, pur essendo capaci di agire prudentemente e diligentemente. Siamo, dunque, di fronte ad ipotesi di responsabilità oggettiva, di responsabilità che sussiste semplicemente perché si è tenuta una determinata condotta prevista da una fattispecie incriminatrice, indipendentemente da qualsiasi indagine sull’elemento soggettivo, che deve ritenersi sussistente grazie alla finzione di imputabilità dettata dal legislatore; né sono risultati soddisfacenti i tentativi di dare alla norma una interpretazione costituzionalmente orientata: ritenere, ad esempio, che il soggetto risponderà del reato a titolo di dolo eventuale se si è ubriacato nonostante la previsione della commissione del reato ed accettandone il rischio, ed a titolo di colpa se si è ubriacato prevedendo ma non volendo la commissione del reato (ovvero se si è ubriacato nonostante la commissione del reato fosse prevedibile ed evitabile come conseguenza della ubriachezza), significa postulare sempre e comunque la necessità di un nesso psichico con un reato che spesso non è neppure lontanamente prevedibile nel momento in cui il soggetto si ubriaca, e, Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello dunque, sostanzialmente disapplicare arbitrariamente una disposizione codicistica che il legislatore ha previsto per finalità preventivo-repressive. Dà ad esempio applicazione ai principi appena illustrati questa recente pronuncia della Suprema Corte, che pur sforzandosi di ricostruire la responsabilità dell’imputato anche sulla base del suo atteggiamento riprovevole, sposta evidentemente l’attenzione al momento in cui il soggetto assunse il mix di droghe e alcol, non potendo non scorgersi una palese contraddizione tra la acuta intossicazione nella quale l’imputato versava al momento del fatto, e la ritenuta capacità del soggetto, nonostante la perturbazione psichica e la riduzione del senso critico determinate dalle sostanze assunte, di attivarsi in modo razionalmente concatenato per realizzare l'evento ideato e voluto: .. I GUP del Tribunale di Brescia ha dichiarato F.I. colpevole di vari reati commessi .. mentre si trovava in stato di acuta intossicazione provocata da abuso volontario di farmaci, droghe e alcool - tentato omicidio di S.N., tentato omicidio di Fr.Ad. e B.M., minaccia aggravata nei confronti di questi ultimi e di altre persone, detenzione e porto illegali aggravati di una rivoltella cal. 38 special e delle relative munizioni .. La decisione è stata confermata dalla locale Corte di appello .. Secondo la ricostruzione dei giudici del merito il F., da tempo dedito all'abuso di sostanze chimiche ed alcool (benzodiazepine, cocaina e saltuariamente hashish) che aveva abbondantemente assunto anche la sera in cui la squadra italiana aveva vinto la finale dei campionati mondiali di calcio, per festeggiare a modo suo l'avvenimento aveva prima esploso con la propria rivoltella due proiettili contro l'autovettura dello S. che stava transitando, colpendo la fiancata sinistra e il finestrino anteriore sinistro, aveva poi minacciato un gruppo di giovani tra cui la Fr. e il B. perchè non gli avevano dato lo "spinello" che aveva loro chiesto e, quando i due predetti si erano allontanati in auto, aveva infine esploso all'indirizzo della vettura altri tre proiettili che avevano attinto la fiancata posteriore destra. Contro la sentenza di secondo grado il F. ha personalmente proposto ricorso per cassazione con il quale lamenta che non sia stata esclusa l'imputabilità … Nessuna di queste doglianze ha fondamento, e il gravame deve quindi essere rigettato … La Corte di appello ha preso atto che dalla perizia psichiatrica cui l'imputato è stato sottoposto è risultato che lo stesso al momento dei fatti doveva ritenersi privo della capacità di intendere e di volere, ma ha con adeguata e corretta motivazione escluso, sulla base di quanto emerso da tale accertamento, che fosse affetto da patologie mentali e da disturbi specifici della personalità e che si trovasse in quello stato di alterazione psichica permanente per cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti che rileva per escludere o diminuire l'imputabilità ai sensi dell'art. 95 c. p. Ha rilevato in particolare al riguardo la Corte territoriale che il disturbo bipolare dell'umore da cui, secondo il consulente di parte, il F. è affetto è un diffuso stato psicologico che non incide minimamente sulla capacità di intendere e di volere e che nessun disturbo psicotico permanente poteva essere stato determinato dall'abuso delle benzodiazepine (farmaci antiansia caratterizzati da bassa tossicità, brevità dell'effetto e mancanza di effetti secondari). Ritenuto dunque che si versasse nelle ipotesi di cui agli artt. 92 e 93 c.p. - in relazione alle quali il legislatore ha stabilito che all'azione dell'alcool e degli stupefacenti sulla psiche del soggetto, essendo tali sostanze state volontariamente assunte, non si debba dare rilievo ai fini dell'imputabilità - il giudice di secondo grado ha poi ineccepibilmente ritenuto che nella condotta del F. fossero ravvisabili per la direzione, altezza e reiterazione dei colpi (esplosi tutt'altro che a casaccio essendo stati chiaramente mirati in modo da raggiungere l'interno delle autovetture, in effetti più volte attinte anche se gli occupanti fortunatamente sono rimasti illesi) non solo gli estremi oggettivi del tentato omicidio ma anche quelli soggettivi propri del dolo diretto per l'esistenza del quale non è richiesta una analisi lucida della realtà, che attiene alla motivazione dell'agire, ma solo che il soggetto sia in grado, nonostante la perturbazione psichica e la riduzione del senso critico determinate dalle sostanze assunte, di attivarsi in modo razionalmente concatenato per realizzare l'evento ideato e voluto … P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali (Cassazione penale, sez. I, 9 ottobre 2008, n.39957). Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello d) comportano un aumento della pena se sono dovute ad una preordinata scelta dell’agente, che ha provocato l’ubriachezza o l’intossicazione da stupefacenti al fine di commettere il reato o comunque di prepararsi una scusa: si tratta della più eloquente applicazione del principio dell’actio libera in causa di cui all’art. 87 c. p., principio che, secondo l’interpretazione dottrinale preferibile, trovare spazio solo se e solo quando il soggetto ha liberamente deciso di porsi in stato di incapacità al fine di commettere proprio il delitto che poi ha commesso (ove detta corrispondenza non vi sia, non vi sarebbe invero ragione di derogare ai generali principi in tema di colpevolezza e di imputabilità) e) comportano un aumento della pena se il soggetto agente fa un uso abituale di alcolici o di stupefacenti, situazione che, secondo i canoni ermeneutici espressamente dettati dal capoverso dell’art. 94 c. p., sussiste quando il soggetto sia dedito al consumo di dette sostanze e si trovi frequentemente in stato di ubriachezza o intossicazione; in casi del genere, altresì, nei confronti del soggetto potrà essere irrogata una misura di sicurezza, a norma dell’art. 221 c. p.; f) escludono l’imputabilità nel solo caso in cui sia configurabile una cronica intossicazione da alcool ovvero da stupefacenti, situazione che può essere ritenuta sussistente solo in presenza di alterazioni patologiche permanenti: l'intossicazione da sostanze stupefacenti deve essere caratterizzata dalla permanenza e dall'irreversibilità e, cioè, da condizioni psichiche che permangono indipendentemente dal rinnovarsi dell'assunzione o meno di sostanze stupefacenti, condizioni che, in ogni caso, debbono essere valutate con riferimento al momento in cui il fatto-reato è stato commesso (Cassazione penale, sez. V, 29 ottobre 2002, n.7363). La situazione di tossicodipendenza che influisce sulla capacità di intendere e di volere è solo quella che, per il suo carattere ineliminabile e per l'impossibilità di guarigione, provoca alterazioni patologiche permanenti, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un'azione strettamente collegata all'assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica (Cassazione penale, sez. III, 8 maggio 2007, n.35872). Si tratta di una situazione più facilmente riscontrabile nel soggetto tossicodipendente, anche se la giurisprudenza di legittimità è molto rigorosa nell’escludere l’applicazione del principio dettato dall’art. 95 c. p. nei casi in cui il soggetto abbia agito in preda ad una crisi di astinenza: è invero usuale l’affermazione della sostanziale irrilevanza dello stato di astinenza, inteso come stato di sofferenza psicofisica che colpisce colui che sospende oppure riduce bruscamente il consumo abituale di sostanze, alcooliche o stupefacenti, idonee a creare stati di dipendenza: la mera condizione di un generico stato di agitazione da crisi da astinenza in capo all'autore della condotta illecita (nella specie, di resistenza violenta, di lesioni e di danneggiamento), non accompagnata da altre provate indicazioni in termini di grande e grave disassamento, da infermità, delle funzioni noetiche e volitive dell'agente, non integra lo schema dogmatico dell'art. 89 c.p., dato che essa realizza una mera condizione di stato emotivo e passionale, non incidente ex art. 90 c.p. sugli ambiti dell'intendere e del volere, anche se utilizzabile in termini di graduazione del trattamento sanzionatorio (Cassazione penale, sez. VI, 20 aprile 2011, n. 17305). In motivazione si chiarisce che, in armonia con il chiaro dettato legislativo, solo una intossicazione cronica, una tossicomania (definiti quali stati di grave intossicazione da sostanze stupefacenti che sono in grado di determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico dell'imputato, incidendo profondamente sui processi intellettivi o volitivi di quest'ultimo) può avere effetti sulla capacità di intendere e di volere. In un recentissimo caso giurisprudenziale nel quale l’imputato, condannato per il delitto di estorsione continuata in danno dei genitori, aveva proposto ricorso per Cassazione deducendo, tra l’altro, il mancato riconoscimento del difetto di imputabilità dovuto a cronica assunzione di sostanze stupefacenti, o quanto meno il vizio parziale di mente dovuto al grave stato di tossicodipendenza, la Suprema Corte ha statuito che il ricorrente si è limitato a evidenziare in maniera del tutto generica lo stato di tossicodipendenza, definito cronico, dell'imputato, senza indicare specifici aspetti della sua condotta che avrebbero dovuto indurre il giudice di appello a riconoscere .. il vizio totale o parziale di mente. La giurisprudenza di legittimità è consolidata, del resto, nel senso che la situazione di tossicodipendenza che influisce sulla capacità di intendere e di volere è solo quella di intossicazione cronica che, per il suo carattere ineliminabile e per l'impossibilità di guarigione, provoca alterazioni patologiche permanenti, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un'azione strettamente collegata all'assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica .. Nessun rilievo può invece Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello assumere la presenza, in capo all'autore della condotta delittuosa, di un generico stato di agitazione determinato da una crisi di astinenza dall'abituale consumo di sostanze stupefacenti, non accompagnato da una grave e permanente compromissione delle sue funzioni intellettive e volitive (Cass. sez.VI 20 aprile 2011 n. 17305, Angius). Anche le Sezioni Unite nella sentenza n.9163 del 2005, citata nel ricorso, affermano peraltro che, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente possono essere presi in considerazione i "disturbi della personalità", purché siano tuttavia di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale, mentre nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità" (Cassazione penale, sez. II, 20 settembre 2011, n.43307). E’ solo il caso di evidenziare, in conclusione, quanto sia difficile, ed a volte quasi arbitrario, distinguere l’ubriachezza (intossicazione) cronica da quella abituale; pur tuttavia il giudice delle leggi (con sentenza integralmente riportata all’allegato 2) la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità delle disposizioni in commento, ha ritenuto non irragionevole la disciplina dettata dal legislatore: È infondata la q.l.c. degli art. 94 e 95 c.p., sollevata, in riferimento agli art. 3 e 111 cost., nella parte in cui la giurisprudenza, in contrasto con la scienza medico legale, individua nel carattere della irreversibilità l'elemento caratterizzante lo stato di cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti rispetto alla condizione di assuntore abituale di dette sostanze (la Corte ha osservato che è il riferimento alla colpevolezza o meno del soggetto quello che deve permettere di distinguere, dal punto di vista della volontà del legislatore e per le conseguenze dalla legge previste, la intossicazione acuta da quella cronica: colpevole quella acuta, sia pure dandosi spazio a tutti i trattamenti di recupero e agli altri provvedimenti ritenuti adeguati sul piano dell'applicazione e dell'esecuzione delle pene; incolpevole, o meno colpevole, quella cronica, sia pure attraverso il passaggio, nell'ipotesi della pena soltanto diminuita, per la discussa e discutibile figura della semi-imputabilità) (Corte Costituzionale, 16 aprile 1998, n. 114). § 7 - Il sordismo2. Vale per il sordo il medesimo discorso già sviluppato a proposito del minore infradiciottenne: l’art. 96 c. p. prevede infatti, al pari dell’art. 98 c. p., che il giudice proceda ad una valutazione specifica della capacità di intendere e di volere dell’imputato, verificando se, alla luce della detta infermità, essa debba essere esclusa o debba ritenersi diminuita. L'art. 96 c.p. non ravvisa nel sordomutismo uno stato necessariamente psicopatologico, ma richiede soltanto che nel sordomuto tanto la capacità quanto l'incapacità formi oggetto di specifico accertamento, da compiersi, cioè, caso per caso. Il che sta a significare che il sordomutismo non costituisce una vera e propria malattia della mente, valendo soltanto eventualmente ad impedire o ad ostacolare lo stato di sviluppo della psiche e, dunque, la maturità psichica (Cassazione penale, sez. VI, 3 luglio 1996, n.8817). § 8 - Questioni processuali: l’accertamento del vizio di mente; la sospensione del procedimento; le misure di sicurezza. Appare opportuno, non solo per esigenze di completezza, ma anche per verificare quali conseguenze pratiche abbiano i principi fin qui illustrati nel processo penale, illustrare sinteticamente le principali questioni processuali connesse all’accertamento dell’incapacità di intendere e di volere dell’imputato. L’art. 96 c. p., nel testo originario, si riferiva al “sordomuto”. Tuttavia per effetto dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 95, recante nuova disciplina in favore dei minorati auditivi, “in tutte le disposizioni legislative vigenti, il termine <sordomuto> è sostituito con l’espressione <sordo>”. 2 Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello 1) L’accertamento del vizio di mente. L’accertamento del vizio di mente viene eseguito dal giudice di norma mediante l’ausilio di un esperto, chiamato ad eseguire una perizia psichiatrica (anche se, come riconosciuto in giurisprudenza, non può escludersi che l’evidenza della patologia mentale che affligge l’imputato possa consentire al giudicante di prescindere da una specifica indagine tecnica : fra le altre, sez. 1^, 18 febbraio 1992, Gatti). Si usa dire che il concetto di imputabilità è “a due piani”, essendo al tempo stesso normativo ma anche empirico; deve essere la scienza ad individuare il compendio dei requisiti bio-psicologici che facciano ritenere che il soggetto sia in grado di comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativo connesso alla previsione della sanzione punitiva; ma è l’ordinamento giuridico a fissare le condizioni di rilevanza dei dati forniti dalle scienze empirico-sociali. Mai come in questo campo, dunque, il giudice è tributario della scienza medica, ad essa deve rivolgersi e su di essa deve fare affidamento (dimensione empirica dell’accertamento); senza dimenticare tuttavia (dimensione normativa) che il giudizio sull'imputabilità presuppone una presa di posizione su ciò che l'ordinamento pretende dal soggetto, e dunque rimane una questione normativa di ultimativa competenza del giudice, il quale ne assume la responsabilità di fronte alla società nel cui nome amministra la giustizia. In questo modo, si riconosce il primato dell'identità normativa, ma non si dimentica l'apporto necessario dell'identità empirica, confermando, così, l'esigenza di una giusta collaborazione tra giustizia penale e scienza. In presenza di quali presupposti va disposta una perizia? Naturalmente devono essere allegati dalla parte interessata, o devono essere presenti nel fascicolo del dibattimento (come ha recentemente ricordato Cassazione penale, sez. III, 8 aprile 2010, n. 19733, l'accertamento della capacità di intendere e di volere dell'imputato non necessita della richiesta di parte, ma può essere compiuto anche d'ufficio dal giudice), elementi tali da far seriamente dubitare dell’imputabilità del reo: non sono dunque ammissibili perizie meramente esplorative, disposte sulla base di mere asserzioni, in assenza di documenti attestanti turbe psichiche pregresse o documentanti episodi di alterazioni mentali a carico dell'imputato (Cassazione penale, sez. II, n. 15157 del 16 dicembre 2010). Un inciso contenuto nell’art. 70 c. p. p. (se occorre) lascia intendere che il giudice non è, comunque, tenuto a disporre l'indagine peritale, ove si convinca, autonomamente, dello stato d'incapacità, potendo così ritenere sufficiente il quadro valutativo a sua disposizione. Per converso in presenza di elementi sintomatici di uno stato di anomalia psichica o, comunque, di una condizione di oggettiva incertezza ingenerata da elementi contraddittori, il giudice non può negare, tout court, l'indagine peritale richiesta dalla parte, se non offrendo adeguata e convincente motivazione sulle ragioni del mancato esercizio del suo potere discrezionale (Cassazione penale, sez. V, 7 dicembre 2007, n. 13088). Il giudice non è comunque vincolato al riconoscimento dell’infermità mentale contenuta in sentenza relativa ad altro procedimento riguardante lo stesso imputato, poiché l’infermità di mente non costituisce uno status permanente dell’individuo ed è al contrario legata al momento di commissione del fatto, essendosi precisato che il principio vale anche rispetto a più reati commessi nello stesso momento temporale che formino oggetto di procedimento distinti (l'accertamento peritale compiuto in ordine allo stato di mente dell'imputato nell'ambito di un determinato procedimento penale, non ha rilevanza cogente in altro procedimento a carico dello stesso, sia pure per fatti commessi nel medesimo periodo di tempo: Cassazione penale, sez. VI, 29 maggio 2008, n. 40569). Sono invece precluse le perizie psicologiche o criminologiche, sicché restano consentite solo le indagini sulle qualità psichiche dipendenti da cause patologiche o a queste, comunque, fondatamente riconducibili (cfr. la massima prima richiamata in tema di pedofilia: la Suprema Corte ha condiviso la decisione del giudice di merito di non procedere ad approfondimento peritale teso ad accertare la pedofilia dell’imputato, ritenendo appunto che la pedofilia non sia una patologia ma una devianza). Peraltro il divieto in questione incontra due eccezioni: a) è consentita la perizia psicologica nel processo a carico di minorenni, ai sensi dell’art. 9 del d.p.r. n.448/1988. E’ infatti dagli accertamenti sulla personalità del minore che scaturiscono, in relazione alle finalità stesse del procedimento minorile, sia il programma processuale di recupero del minorenne che il progetto educativo riguardante il medesimo; b) sono altresì ammessi gli accertamenti ex art. 220, 2° c., prima parte, c.p.p., sul carattere, sulla personalità e sulle qualità psichiche non connesse a patologie, ai fini della esecuzione della pena e delle misure di sicurezza, e cioè dopo che la sentenza è divenuta irrevocabile, e ciò poiché un più consapevole giudizio sulla personalità del condannato, che include necessariamente anche il giudizio di pericolosità, non può prescindere da un serio e profondo contributo scientifico. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello 2) La sospensione del procedimento a causa dell’incapacità dell’imputato di parteciparvi coscientemente. L’infermità mentale può causare, se presente nel corso del procedimento, la sospensione del procedimento stesso, ove essa si atteggi in misura tale da non consentire all’imputato di prendervi parte in modo cosciente. Anche in questo caso siamo in presenza di una valutazione congiunta di aspetti di natura psichica, inerenti le facoltà mentali dell’imputato, ed aspetti di natura strettamente giuridica, inerenti al fondamentale diritto di difesa e dunque alle competenze di cui un soggetto deve essere dotato per poter essere sottoposto ad un processo. Mentre il vecchio codice di rito prevedeva per il caso di specie un accertamento ed una soglia di rilevanza in tutto identiche alla capacità di intendere e di volere rilevante ai fini della imputabilità, il nuovo codice, nel passaggio dal rito inquisitorio ad un rito, quale quello accusatorio, nel quale l’imputato non subisce ma partecipa attivamente al processo a proprio carico, abbandona ogni riferimento alla capacità di intendere e di volere e conferisce rilevanza alla capacità di partecipare al processo, che si identifica nella capacità di comprendere e partecipare al processo con la consapevolezza del ruolo assunto e della pendenza di un'accusa a proprio carico; lì dove lo stato mentale dell'imputato determina unicamente una difficoltà nella comprensione nel merito dell'accusa, nonché del disvalore del fatto e dell'antigiuridicità della condotta, non si è in presenza di un fattore ostativo alla partecipazione al processo; lì dove, nonostante l'assistenza tecnica del difensore, vi sia l'impossibilità per l’imputato di esercitare il proprio ruolo si avrà incapacità di partecipare al processo (usando le parole di Corte Cost 39/2004 rileva qualunque stato di infermità che renda non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali - coscienza pensiero percezione espressione- dell’imputato). Cassazione penale, sez. VI, 23 ottobre 2009, n. 2419: non è sufficiente una patologia, anche grave, perché in tal modo risulterebbe sempre impossibile procedere al giudizio nei confronti dei soggetti infermi, ma è necessario che l'imputato risulti in condizioni tali da non comprendere quanto avviene e da non potersi difendere. In via di sintesi si può dire che gli elaborati peritali afferenti la capacità di partecipare coscientemente al processo valorizzano capacità squisitamente funzionale, ed in particolare dati quali le capacità cognitive (l’elaborazione del pensiero, la capacità di comprensione delle domande e degli accadimenti, la capacità di rievocazione a breve ed a lungo termine), le capacità di critica (capacità di percepire e di correggere i propri errori), la sfera dell’emotività (labilità ed incontinenza emotiva, vulnerabilità all’ansia), la capacità ideativa (al netto di distorsioni o deliri), la capacità di ragionamento (capacità di elaborare, sostenere ed articolare, verbalmente o per iscritto, un pensiero complesso), la capacità di eloquio (comunicare con l’interlocutorie mantenendo un colloquio prolungato e coerente), il controllo del contegno. Il legislatore ha disciplinato l’ipotesi della sospensione sia nel corso delle indagini preliminari, ex artt. 70, 3° c. e 71, 5° c., c.p.p., sia nell’udienza preliminare, ex art. 425, 4° c., c.p.p. In dibattimento la sospensione è sempre prevista quando si versi in una situazione in cui l’imputato può incorrere in una sentenza di condanna (infermità parziale o infermità sopravvenuta alla commissione del fatto), mentre non è applicabile quando si deve pronunciare una sentenza di proscioglimento anche se questa può comportare l’applicazione della misura di sicurezza (infermità totale risalente al momento del fatto). Secondo la disciplina dettata dagli articoli 71 e seguenti c. p. p., il giudice (laddove non vi siano margini per la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere o di assoluzione) dispone la sospensione del processo con una ordinanza (ricorribile in cassazione), con la quale nomina all'imputato un curatore speciale (di regola l'eventuale rappresentante legale dell’imputato), al fine di garantire al soggetto incapace la necessaria tutela. In costanza di sospensione possono essere assunte solo le prove che possono condurre al proscioglimento dell'imputato, e, quando vi è pericolo nel ritardo, ogni altra prova richiesta dalle parti. Trascorsi sei mesi dalla pronuncia dell'ordinanza (ovvero anche prima ove ne ravvisi l'esigenza), il giudice dispone ulteriori accertamenti peritali sullo stato di mente dell'imputato. Se la perizia accerta la cessazione o l’attenuazione dell’infermità in modo da consentire all’imputato la cosciente partecipazione a processo, la sospensione è revocata con ordinanza; altrimenti viene disposta una nuova sospensione, con identiche cadenze da seguire ogni sei mesi. Altra ipotesi di revoca dell’ordinanza si ha quando il giudice si renda conto che nei confronti dell'imputato deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento. E’ a questo punto necessario approfondire il modo in cui debba darsi concreta applicazione a questi principi: l’ipotesi più frequente è quella dell’imputato in relazione al quale il perito nominato dal giudice accerti l’incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, e l’incapacità di partecipare coscientemente al processo. In tal caso, poiché per il giudice vi è la possibilità di addivenire alla assoluzione dell’imputato (per difetto di imputabilità), non dovrebbe, secondo una interpretazione letterale della norma, disporsi la sospensione del processo. Senonché alla assoluzione per difetto di imputabilità consegue, nei casi di Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello accertata pericolosità sociale, l’applicazione di una misura di sicurezza, conseguenza certo molto pesante per l’imputato. Si può allora sostenere che, a garanzia di un imputato che non sia in grado di partecipare coscientemente al processo, il giudice deve disporre la sospensione del processo anche quando vi sono sì gli estremi per una assoluzione, ma solo per una assoluzione derivante dalla sua incapacità di intendere e di volere? La recente Cassazione penale, sez. IV, 21 luglio 2009, n. 38246 ha condivisibilmente dato risposta positiva al quesito. Il giudice di merito (con sentenza confermata dalla Corte d’Appello) aveva per l’appunto assolto l’imputato per difetto di imputabilità e, ritenutane la pericolosità sociale, ne aveva disposto il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per la durata di due anni. Ricorreva per cassazione l'imputato, lamentando che, pur essendo stata accertata la totale infermità di mente e pur essendo stato nominato un curatore speciale ai sensi dell'art. 71 c. p. p., non era stata disposta la sospensione del processo, in violazione del richiamato art. 71, come ritenuto ripetutamente dalla giurisprudenza di legittimità. La mancata sospensione aveva avuto effetti pregiudizievoli, atteso che il giudizio celebrato senza la cosciente partecipazione dell'imputato aveva determinato l'applicazione di una misura di sicurezza. La cosciente partecipazione al processo avrebbe consentito l'esercizio del diritto di difesa, anche al fine di ottenere il proscioglimento con diversa formula, che escludesse l'applicazione di una misura di sicurezza. La Corte, nel ritenere fondato il ricorso annullando la sentenza con rinvio al giudice di primo grado, evidenzia che la capacità di partecipare al processo penale di cui all'art. 70 c. p. p. costituisce uno dei fondamentali e indefettibili presupposti richiesti dalla legge ai fini della costituzione e dello svolgimento del rapporto processuale, il cui cardine è rappresentato dal fatto che esso deve necessariamente far capo ad un soggetto capace di partecipazione cosciente al processo, come premessa essenziale della possibilità di autodifesa e quale garanzia del "giusto processo" presidiata dall'art. 24 Cost.. Il diritto alla cosciente partecipazione al processo sussiste anche quando si configuri il difetto d'imputabilità al momento del fatto, giacché l'imputato ha interesse a far valere le proprie difese al fine di ottenere una pronunzia di proscioglimento con formula che escluda l'applicazione di misure di sicurezza. E se è vero che l'art. 71 c. p. p. prevede la sospensione del processo solo nel caso in cui non debba essere pronunziata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, detta norma deve essere letta tenendo conto che la disciplina originaria prevedeva la sospensione solo in caso di incapacità processuale sopravvenuta al fatto, sicché era esclusa la possibilità che la stessa sospensione si prospettasse in un caso in cui potesse essere applicata una misura di sicurezza nei confronti di imputato infermo di mente al momento del fatto e successivamente. La sentenza costituzionale n. 340 del 1992 ha espunto dalla disciplina le parole "successiva al fatto" ed ha esteso la portata della normativa anche ai casi di infermità di mente presente già al momento del fatto. Ne è seguita la possibilità di casi, come quello in esame, in cui la mancata sospensione del processo implica la celebrazione del giudizio nei confronti di un soggetto che, incapace per infermità di mente al momento del fatto e successivamente, ha interesse a partecipare consapevolmente al giudizio medesimo per escludere l'applicazione di misure di sicurezza che, sebbene non costituiscano pene in senso tecnico, hanno un indubbio, penoso contenuto afflittivo. Tale situazione ha condotto del resto il legislatore a prevedere, nel novellato art. 425 c. p. p., che il gup non può pronunziare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal processo debba conseguire l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. La norma, sebbene riferita all'udienza preliminare, si riconduce pure all'indicata esigenza di consapevole partecipazione al processo anche quando, pur prospettandosi il proscioglimento per infermità di mente, sia in vista l'applicazione di una misura di sicurezza; e si pone quindi come espressione di un principio di portata generale. Dunque, le sentenze di merito pronunziate nonostante l'accertata incapacità processuale e culminate nell'applicazione di una misura di sicurezza, devono essere annullate con rinvio al Tribunale per nuovo giudizio. La giurisprudenza anche costituzionale ha infine chiarito che il regime della sospensione si applica anche nelle situazioni di infermità irreversibili (Corte Cost. n.281/1995 e 157/2004); nel caso sottoposto all’attenzione della Consulta nel 2004, il giudice di merito aveva a che fare con imputata affetta da amnesia dissociativa con grave stato regressivo, patologia che il perito aveva definito irreversibile ed ingravescente; la Corte reputa la q.l.c. del 72 (sollevata in relazione al 3 ed al 111) manifestamente infondata, sia perché il sistema della verifica periodica dello stato di mente dell'imputato non può ritenersi in sé contrastante con il principio di ragionevolezza, risultando del tutto razionalmente contemperate le garanzie di autodifesa con l'esigenza di contenere la stasi processuale, evitando anche rischi di comportamenti simulatori, sia perché nessun contrasto è possibile ravvisare con il principio della durata ragionevole del processo, avuto riguardo alla finalità non certo sterilmente dilatoria che la disposizione oggetto di impugnativa intende perseguire nel sistema, mentre gli inconvenienti di fatto derivanti da tale Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello disciplina devono trovare soluzione nel quadro di uno specifico intervento, da riservare alle scelte discrezionali del legislatore; e non vengono addotti elementi nuovi o diversi da quelli già esaminati. Il principio è stato recentemente ribadito dalla Corte Costituzionale, su questione sollevata dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Lecce: l’imputato risultava in quel caso affetto dagli esiti cronici ed irreversibili di una patologia ischemica, ed il giudice, sospeso il procedimento, aveva per due volte proceduto come previsto dall’art. 72 c. p. p. ad accertamenti peritali, che avevano confermato la prognosi di irreversibilità della patologia riscontrata il giudice a quo dubita .. della legittimità costituzionale del citato art. 72 cod. proc. pen., nella parte in cui non esclude che la disciplina da esso recata si applichi allorché sia stato accertato che lo stato mentale dell’imputato ne impedisce in modo permanente la cosciente partecipazione al procedimento; .. ad avviso del giudice a quo, tale disciplina – del tutto ragionevole allorché l’incapacità dell’imputato appaia temporanea e reversibile – si rivelerebbe, al contrario, irrazionale – e, dunque, lesiva dell’art. 3 Cost. – quando ci si trovi di fronte a impedimenti a carattere permanente e irreversibile, connessi a patologie croniche; .. in simili evenienze, la sospensione del procedimento – la quale, per sua natura, dovrebbe comportare una stasi solo temporanea delle attività processuali – sarebbe destinata, di fatto, a protrarsi «ad oltranza», per tutta la residua durata della vita dell’imputato, con conseguente compromissione anche del principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost.; Corte Costituzionale, ordinanza n. 289 del 18 ottobre / 4 novembre 2011 adotta una pronuncia di inammissibilità, rilevando che il giudice a quo ha già proceduto alla verifica periodica sullo stato di mente dell’imputato: dunque la questione risulta .. manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, avendo il rimettente – nell’attuale fase del procedimento – già fatto applicazione della norma censurata. In motivazione si aggiunge tuttavia che una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale del solo art. 72 cod. proc. pen. non solo non eliminerebbe, ma rischierebbe addirittura di aggravare l’ipotizzato vulnus del principio di ragionevole durata del processo: essa avrebbe, infatti, come unico effetto, quello di escludere l’obbligo degli ulteriori controlli periodici sullo stato di mente dell’imputato, dopo che sia stata disposta la sospensione del procedimento ai sensi del precedente art. 71, col risultato di lasciare il procedimento stesso in una condizione di stasi a tempo indefinito, senza la previsione di alcuno strumento per riattivarne eventualmente il corso. E’ utile evidenziare che la pronuncia da ultimo citata affronta anche un’altra questione sollevata dal giudice leccese, relativa all’art. 150 c. p., del quale era stato invocato il contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che l’estinzione del reato consegua – oltre che alla morte del reo, la quale, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, «fa venir meno la prosecuzione del rapporto processuale» – anche «ad uno stato mentale dell’imputato in vita che ne impedisca in modo permanente ed irreversibile la cosciente partecipazione al procedimento», producendo, così, il medesimo effetto di impedire in via definitiva la prosecuzione del rapporto processuale; La Corte nega l’effettiva assimilabilità delle situazioni poste a confronto: la morte è un dato facilmente accertabile e pacificamente irreversibile, che elimina fisicamente il soggetto del rapporto processuale; la patologia mentale richiede una diagnosi ed una prognosi, con un grado di opinabilità assai più elevato (considerata anche l’eventualità di atteggiamenti simulatori), soprattutto in punto di durata della malattia e di sua reversibilità. D’altra parte, in regime di personalità della responsabilità penale, la morte del reo estingue il contenzioso penale, mentre la sospensione del processo ha una mera funzione protettiva riguardo ad un diritto di natura processuale. Insomma, comparazione ingiustificata – almeno nella misura necessaria a dimostrare la necessità costituzionale di un identico trattamento delle fattispecie – e questione manifestamente infondata. Queste le testuali motivazioni dell’ordinanza in argomento: a prescindere dal rilievo che le cause di estinzione del reato costituiscono ius singulare, rientrante, quanto a casi e disciplina, nella discrezionalità legislativa, giacché le norme che le prevedono implicano una eccezione alle regole generali circa le conseguenze della commissione di fatti penalmente illeciti, occorre, in primo luogo, osservare che mentre nel caso di morte dell’imputato la cessazione del rapporto processuale deriva dalla natura stessa dell’evento, che implica il venir meno, sul piano fisico, di uno dei soggetti di quel rapporto; nell’ipotesi considerata dal giudice a quo la definitività dell’impedimento alla prosecuzione delle attività processuali si correla, invece, a una prognosi (quella di assenza di prospettive di guarigione o di significativa attenuazione dell’infermità mentale da cui l’imputato risulta affetto): prognosi che – in quanto basata sulle attuali cognizioni scientifiche, e tenuto conto anche dell’eventualità di comportamenti simulatori (al riguardo, ordinanze n. 33 del 2003 e n. 298 del 1991) – Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello appare connotata da margini di possibile errore certamente superiori, in linea generale, a quelli propri dell’accertamento dell’avvenuto decesso dell’imputato .. Dirimente è, peraltro, la considerazione della diversità della ratio di tutela che viene in rilievo nei due frangenti; .. l’estinzione del reato per morte del reo costituisce, infatti, diretto riflesso del principio – di carattere sostanziale – di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.), il quale impedisce che la potestà punitiva dello Stato si eserciti su soggetti diversi dall’autore del fatto criminoso;.. di contro, la preclusione allo svolgimento del procedimento nei confronti della persona che, per il suo stato di mente, non è in grado di parteciparvi in modo cosciente ha un obiettivo di protezione di natura prettamente processuale, mirando alla salvaguardia del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto della difesa personale o autodifesa (sentenza n. 281 del 1995); .. l’eterogeneità delle situazioni poste a confronto impedisce, pertanto, di ravvisare la denunciata violazione del principio di eguaglianza. 3) Le conseguenze del riconoscimento del vizio di mente. Come più volte detto, il vizio di mente determina, ove totale, il proscioglimento dell’imputato a norma del primo comma dell’art. 530 c. p. p., con la formula (che a norma dello stesso art. 530 deve essere indicata nel dispositivo) assolve l’imputato perché non imputabile al momento del fatto (per vizio totale di mente OPPURE per altra causa che escluda l’imputabilità). In caso di parzialità del vizio, si avrà una diminuzione della pena. Volendo segnalare, nei necessari termini di rapidità, qualche ulteriore significativa questione posta in giurisprudenza, può indicarsi: a) la questione circa il rapporto tra difetto di imputabilità per infermità mentale e cause di estinzione del reato con particolare riferimento all’amnistia. Prevalere l’indirizzo secondo cui deve ritenersi più vantaggiosa l’applicazione della amnistia, la quale, estinguendo il reato, fa venir meno l’occasione e persino l’utilità di accertare l’imputabilità dell’agente; b) il vizio parziale di mente è considerato a tutti gli effetti circostanza inerente al reo (cfr. per tutte Cassazione penale, sez. I, 27 ottobre 2010, n. 40812: il vizio parziale di mente, attenendo alla sfera dell'imputabilità, è una circostanza inerente alla persona del colpevole ed è pertanto soggetto al giudizio di comparazione, che ha carattere unitario); c) circa la compatibilità del vizio parziale di mente con alcune circostanze, aggravanti ed attenuanti, è nota la antica disputa (che ha diviso la stessa dottrina) sulla compatibilità tra seminfermità mentale e premeditazione, che sembra ormai definitivamente risolta in senso positivo, poiché anche un seminfermo di mente può essere capace di concepire un atteggiamento psicologico e volitivo più o meno fermo e di subire, opponendovi una diversa resistenza, valide controspinte al delitto, tranne nel caso in cui la circostanza aggravante venga a risultare null’altro che una manifestazione dell’infermità psichica da cui è affetto l’imputato, nel senso che il proposito criminoso coincide con una idea fissa ossessiva facente parte del quadro sintomatologico di quella determinata infermità. In tal caso, infatti, non possono agire, per motivi patologici, le controspinte morali ed etiche avversanti e bilancianti il proposito criminoso: la premeditazione può risultare incompatibile con il vizio di mente (nella specie, parziale) nella sola ipotesi in cui consista in una manifestazione dell'infermità psichica da cui è affetto l'imputato, nel senso che il proposito criminoso coincida con un'idea fissa ossessiva facente parte del quadro sintomatologico di quella determinata infermità (Cassazione penale, sez. I, 4 febbraio 2009, n. 9105). Nel senso della compatibilità si conclude altresì quanto al rapporto della seminfermità di mente con le circostanze aggravanti dei motivi abietti o futili (art. 61 n.1 c.p.), e dell’aver agito con sevizie e crudeltà (art. 61 n.4 c.p.), analogamente affermandosi che tale compatibilità va esclusa allorché tali aggravanti siano peculiari espressioni o manifestazioni della essenza stessa della patologia psichica; precisandosi che in caso di affermata incompatibilità risulterà inapplicabile al seminfermo di mente l’aggravante e non, al contrario, la diminuente prevista dall’art. 89 c.p. Non sussiste incompatibilità tra la circostanza aggravante di avere agito per un motivo futile e il vizio parziale di mente. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato la pronunzia dei giudici di merito, i quali avevano stabilito che la pulsione omicida non si era manifestata immotivatamente e gratuitamente per esclusivo effetto della patologia mentale, caratterizzata da angosce e fantasie persecutorie, da cui era affetto l'imputato, ma in conseguenza di un preciso accadimento scatenante, oggettivamente banale, preso a pretesto dall'agente per estrinsecare la propria caratteriale aggressività). (Cassazione penale, sez. I, 1 dicembre 2004, n. 526). Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello La circostanza aggravante consistente nell'avere agito con crudeltà è compatibile con il vizio parziale di mente, a meno che la condotta inumana e crudele sia stata l'effetto della malattia, e cioè una manifestazione patologica del vizio di mente, la quale abbia sconvolto, in tutto o in parte, il processo intellettivo e volitivo del soggetto, identificandosi nel vizio medesimo (Cassazione penale, sez. I, 18 febbraio 1998, n. 3748). La seminfermità mentale e le circostanze aggravanti della premeditazione e del motivo abietto o futile operano su piani distinti: l'una (la seminfermità) è aspetto della capacità di intendere e di volere, ossia della imputabilità, la quale è a sua volta uno status in base al quale l'autore di un fatto costituente reato è ritenuto responsabile dei suoi atti e quindi soggetto di diritto penale; le altre ineriscono invece al dolo, che è qualificato più intensamente nel caso di persistenza del proposito criminoso, sia in quello di abnormità del movente. Il seminfermo di mente è pertanto capace di nutrire un dolo (o una colpa) di intensità o di grado pari a quello del sano di mente e di persistere nell'intento criminoso, nonché di valutare l'eventuale abnormità o futilità del movente. L'incompatibilità è invece sussistente, quando le menzionate circostanze aggravanti siano espressioni o manifestazioni della essenza stessa dell'infermità psichica (Cassazione penale, sez. I, 8 febbraio 1985, Di Ronio). La Cassazione ha ritenuto che non si possa escludere la compatibilità tra l’art. 89 c.p. e l’attenuante della provocazione (art. 61 n.2 c.p.), occorrendo peraltro verificare se la reazione del soggetto non dipenda dal fatto provocatorio, ma si identifichi con la stessa infermità psichica, capace di scatenare manifestazioni colleriche ingiustificate. L'attenuante della provocazione è incompatibile con la diminuente del vizio parziale di mente nei casi in cui vi sia sostanziale coincidenza tra lo stato d'ira e l'infermità mentale o quest'ultima abbia avuto preponderante incidenza sul primo (Cassazione penale, sez. I, 29 aprile 2009, 21405). 3,1) Segue: le misure di sicurezza. Nei casi di delitti dolosi puniti con pena massima della reclusione superiore a due anni, alla assoluzione per difetto di imputabilità consegue, in caso di conclamata ed attuale e persistente pericolosità sociale (così come prescritto da Corte Cost., 27 luglio 1982, n. 139), l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo non inferiore a due anni, secondo quanto disposto dall’art. 222 c. p.; invece nel caso di contravvenzioni, delitti colposi, o delitti dolosi puniti con sanzione pecuniaria o con pena detentiva inferiore nel massimo ai due anni, il giudice dovrà semplicemente comunicare la sentenza di proscioglimento all'Autorità di pubblica sicurezza. La durata minima del ricovero è di cinque anni nei casi di delitti puniti con pena detentiva superiore nel massimo ai dieci anni, e di dieci anni nei casi di delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Nel caso in cui sia accertato un vizio parziale di mente, o la cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, all’imputato di delitto doloso punito con pena detentiva non inferiore nel minimo a cinque anni potrà, in caso di conclamata ed attuale e persistente pericolosità sociale (così come prescritto da Corte Cost., 28 luglio 1983, n. 249), applicarsi la misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia per un periodo non inferiore ad un anno, secondo quanto disposto dall’art. 219 c. p.; invece nel caso di contravvenzioni, delitti colposi, o delitti dolosi puniti con sanzione pecuniaria o con pena detentiva inferiore nel massimo ai due anni, il giudice dovrà semplicemente comunicare la sentenza di proscioglimento all'Autorità di pubblica sicurezza. La durata minima del ricovero è di tre anni nei casi di delitti puniti con pena detentiva superiore nel massimo ai dieci anni. Se invece si tratta di un altro reato, per il quale la legge stabilisce la pena detentiva, e risulta che il condannato è persona attualmente socialmente pericolosa, il ricovero in una casa di cura e di custodia è ordinato per un tempo non inferiore a sei mesi; tuttavia il giudice può sostituire alla misura del ricovero quella della libertà vigilata. La misura di sicurezza della libertà vigilata può essere applicata, in luogo della misura dell'assegnazione ad una casa di cura e di custodia, anche nei confronti del condannato affetto da vizio parziale di mente, se in concreto detta misura sia capace di soddisfare le esigenze di cura e tutela della persona e di controllo della sua pericolosità sociale (Cassazione penale, sez. I, 23 febbraio 2011, n. 18314). In merito alla determinazione della pena edittale del reato ai fini della determinazione della durata della misura di sicurezza, va ricordato che Cassazione penale, sez. I, 12 novembre 2009, n. 46930 ha chiarito che la riduzione per il rito abbreviato non incide sulla pena da considerare, ai sensi dell'art. 222 c.p., per la determinazione della durata della misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello Quanto alla pericolosità sociale, essa, a norma dell’art. 203 c. p., ricorre quando può ritenersi probabile – sulla base delle circostanze indicate nell'articolo 133 c. p. (ad esempio la gravità del reato commesso, la personalità dell’imputato) - che l’imputato commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (agli effetti penali la pericolosità sociale rilevante ai fini dell'applicazione di una misura di sicurezza consiste nel pericolo di commissione di nuovi reati e deve essere valutata autonomamente dal giudice che deve tener conto dei rilievi peritali sulla personalità, sugli effettivi problemi psichiatrici e sulla capacità criminale dell'imputato, nonché sulla base di ogni altro parametro desumibile dall'art. 133 c.p. – Cassazione penale, sez. I, 14 ottobre 2010, n. 40808). E’ poi evidente che se il perito conclude per la pericolosità sociale dell’imputato, con conseguente applicazione di una misura di sicurezza, non potrà essere concesso all’imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena, essendo impossibile il giudizio prognostico positivo che è alla base di questo istituto: l'applicazione della misura di sicurezza, quando sia accertata la pericolosità, è incompatibile con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, che presuppone una prognosi di astensione dalla commissione di altri reati. Discende che misura di sicurezza obbligatoria (nel senso di applicazione necessaria della misura di sicurezza una volta che sia stata accertata in concreto la pericolosità) e sospensione condizionale della pena non possono essere congiuntamente disposte (nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza che aveva concesso all'imputato la sospensione condizionale della pena ma che contemporaneamente aveva applicato la misura di sicurezza della assegnazione a una casa di cura e di custodia). (Cassazione penale, sez. VI, 12 maggio 2009, n. 23061). In materia di misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario vanno segnalati due – conseguenziali anche se non cronologicamente prossimi – interventi della Corte Costituzionale. Con la prima decisione (Corte Cost., 20 luglio 1994, n. 32), la Corte ha dichiarato non conforme a Costituzione l’applicazione del ricovero in questione rispetto ai minori, ritenendo che si tratta di una misura detentiva e segregante, prevista e disciplinata in modo uniforme per adulti e minori, e perciò non idonea a garantire le specifiche esigenze proprie dell’età minorile. Più di recente la Corte è di nuovo intervenuta (Corte Cost., 18 luglio 2003, n. 253), con una decisione di tipo manipolativo, sull’art. 222 c.p., dichiarandolo incostituzionale nella parte in cui – prevedendo un rigido automatismo applicativo – non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure all’infermo di mente ed a far fronte alla sua pericolosità sociale, e ciò neppure quando, in concreto, il ricovero in questione non appaia adeguato alle caratteristiche del soggetto, alle sue esigenze terapeutiche e al livello della sua pericolosità sociale. La misura vagheggiata viene in motivazione chiaramente indicata in quella della libertà vigilata, evidentemente prefigurandosi, all’interno delle prescrizioni imposte dalla disciplina degli artt. 228 e segg. c.p., anche delle prescrizioni a contenuto terapeutico. Afferma la sentenza che la situazione dell’infermo di mente è “per molti versi assimilabile a quella di una persona bisognosa di una specifica protezione come il minore”. Anche per l’infermo di mente, infatti, “l’automatismo di una misura segregante e “totale” come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, imposta pur quando essa appaia in concreto inadatta, infrange l’equilibrio costituzionalmente necessario e viola esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona, nella specie del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.”. E’ dunque consolidato oggi l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la misura di sicurezza della libertà vigilata è applicabile nei confronti del soggetto assolto per vizio totale di mente, e ciò a seguito della parziale declaratoria di incostituzionalità dell'art. 222 cod. pen., ad opera della sentenza n. 253 del 2003 della Corte costituzionale (Cassazione penale, sez. I, 20 ottobre 2010, n. 39804, sentenza con la quale è stato peraltro ritenuto esente da censure il provvedimento con il quale il Tribunale, accertata l'accresciuta pericolosità dell’imputato, aveva stabilito che per fare fronte alla nuova situazione era necessario il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, disponendo l'applicazione di quest'ultima misura ex art. 222); è stata altresì ritenuta del tutto esente da censure l’applicazione ad infermo totale di mente della più blanda misura della assegnazione a casa di cura e custodia (cfr. Cassazione penale, sez. II, 17 giugno 2010, n. 34453, che ha rigettato l’impugnazione del PG fondata sul rilievo temporale: ed invero il giudice, nell’applicare la misura di cui al 219, aveva anche mutuato dalla detta disposizione normativa la durata della misura, stabilendola in sei mesi; il PG fa ricorso dicendo: mi sta bene l’applicazione di questa più blanda misura, ma la durata deve essere quella prescritta dal 222, nel caso di specie /629cp/ almeno due anni; la Corte rigetta il ricorso statuendo che il dictum della Corte, deve essere inteso nel senso che llart. 222 c.p. non può più essere letto in termini di automatica applicazione della misura di sicurezza del Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, al prosciolto per totale infermità di mente, ma nel senso che a quest’ultimo può essere applicata anche diversa misura di sicurezza purché Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello rispondente alla tutela delle due esigenze contrapposte: cura dell’infermo e tutela della collettività. In tale ambito pertanto il giudice dispone della possibilità di scelta della misura di sicurezza più idonea al perseguimento di detti fini, potendo così sostituire quella prevista dall’art. 222 c.p. con altra prevista e disciplinata dall’art. 219 c.p.. Peraltro tale libertà di scelta.. non consente al giudice di prevedere nel concreto una misura di sicurezza il cui contenuto attuativo si presenti in modo difforme rispetto alla previsione legale. Il disporre, da un lato la misura di sicurezza della Casa di cura e custodia (ex art. 219 c.p.) e prevedere, nel contempo che essa abbia durata pari ad anni due (secondo la previsione di cui all’art. 222 c.p.), come sostiene l’Ufficio ricorrente, vorrebbe dire che al giudice è riconosciuta la possibilità di disporre una misura di sicurezza atipica .. con caratteri difformi dal modello legale, che .. rimane comunque l’unico applicabile, se pur con i contemperamenti derivanti dalle numerose decisioni della Corte Costituzione, la quale in più occasioni ha censurato proprio il rischio della "creazione" giurisprudenziale di misure diverse, per contenuto dal modello legale). 4) L’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza. La misura di sicurezza può essere applicata anche in via provvisoria, quando (e fino a quando), nel corso del giudizio, emerga la attuale pericolosità sociale del minore di età, dell'infermo di mente, dell'ubriaco abituale, della persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti, o della persona in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti. A seguito della parziale illegittimità costituzionale sia dell'art. 206 c. p. pronunciata da Corte costituzionale, 29 novembre 2004, n. 367, può essere applicata una misura di sicurezza meno contenitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia, che sia concretamente idonea ad assicurare all’imputato adeguate cure ed a fronteggiarne la pericolosità sociale. Per quel che attiene al procedimento relativo all'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, il combinato disposto degli artt. 312 e 313 c.p.p. prevede che la misura può essere disposta in ogni stato e grado del procedimento: * purché sussistano gravi indizi di commissione del fatto; * purché non ricorrano le condizioni previste dall'articolo 273, comma 2 (nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità o se sussiste una causa di estinzione del reato ovvero una causa di estinzione della pena): ma è evidente, e lo ha chiarito la Suprema Corte, che non si fa riferimento alle cause di non punibilità derivanti dal difetto di infermità, poiché la non imputabilità del prevenuto per vizio totale di mente, è, a norma dell’art. 206 c. p. p., proprio la situazione in presenza della quale è consentita l’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza: in tema di applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, il richiamo, operato nell'art. 312 c.p.p., all'art. 273, comma 2, c.p.p., e quindi, in negativo, all'insussistenza di una causa di non punibilità, deve intendersi riferibile solo alle cause di non punibilità diverse da quelle che, a norma dell'art. 206 c.p., consentono l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza (Cassazione penale, sez. V, 15 gennaio 2007, n. 5818). Non si deve invece procedere all'interrogatorio dell'indagato a penna di perdita di efficacia della misura: infatti l'art. 313 c.p.p., comma 1, riguardante il procedimento per l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, richiama solo l'art. 294 e non anche l'art. 302 c.p.p. e, per altro verso, l'equiparazione della misura di sicurezza alla custodia cautelare, stabilità dall'art. 313 c.p.p., comma 3, vale soltanto ai fini dell'impugnazione (Cassazione penale, sez. II, 23 settembre 2010, n. 36732). L'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza non è soggetta a termini di durata massima, ivi compresi quelli previsti per la custodia cautelare (Cassazione penale, sez. VI, 8 luglio 2009, n. 28908). Infatti, l'art. 206 c.p. disciplina specificamente ed esclusivamente l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, prevedendo al capoverso la revoca della misura nel solo caso in cui venga meno la pericolosità sociale (nell'accezione di cui all'art. 203 c.p.). Tale norma sostanziale trova esatta e conforme corrispondenza nel capoverso dell'art. 313 c.p.p. che, al fine di assicurare una revoca tempestiva della misura per il caso che venga meno il suo presupposto peculiare, prevede l'applicazione dell'art. 72 c.p.p., ed in particolare nuovi accertamenti ogni sei mesi ovvero anche prima quando il giudice ne ravvisi l'esigenza. Si tratta all'evidenza di un sistema che disciplina l'istituto specifico della durata dell'applicazione provvisoria di misura di sicurezza custodiale in modo razionale e compiuto, pienamente coerente al presupposto peculiare dell'accertata attuale pericolosità sociale dell'interessato, senza che residui alcuna esigenza di tutela o di ambiguità o di insufficienza sistematica che legittimi il ricorso all'applicazione analogica della disciplina sulla durata del diverso istituto della custodia cautelare. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello Una misura di sicurezza può essere infine applicata in caso di imputato incapace di partecipare coscientemente al processo: ai sensi dell’art. 73 c. p., in ogni caso in cui lo stato di mente dell'imputato appare tale da renderne necessaria la cura nell'ambito del servizio psichiatrico, il giudice deve informare l'autorità competente per l'adozione delle misure previste dalle leggi sul trattamento sanitario per malattie mentali. Prima che l’autorità competente vi provveda, il giudice, ove ne ravvisi l’attuale ed improcrastinabile esigenza, dispone anche di ufficio (con provvedimento che mantiene efficacia fino a quando non sia adottato il provvedimento da parte dell’autorità competente) il ricovero provvisorio dell'imputato in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero. Allo stesso modo, quando è stata o deve essere disposta la custodia cautelare dell'imputato, il giudice ordina che la misura sia eseguita nelle forme previste dall'articolo 286 (ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i provvedimenti necessari per prevenire il pericolo di fuga). Nel caso di imputato affetto da patologia psichiatrica che impedisca la sua cosciente partecipazione al dibattimento, può disporsi, ai sensi dell'art. 73, comma terzo, c. p. p., ove egli debba essere mantenuto in custodia cautelare, soltanto il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, quale previsto dal richiamato art. 286 c. p. p., ovvero, ai sensi dell'art. 111, comma quinto, del d.P.R. n. 230/2000 (regolamento attuativo dell'ordinamento penitenziario), l'assegnazione ad un istituto o sezione speciale per infermi di mente, ma non anche l'assegnazione ad un ospedale psichiatrico giudiziario, essendo questa subordinata, come applicazione provvisoria di una tipica misura di sicurezza, alla prevedibile applicazione in via definitiva della misura stessa (Cassazione penale, sez. III, 16 novembre 2007, n. 47335) Nel caso in cui lo stato di mente dell'imputato appaia tale da renderne necessaria la cura nell'ambito del servizio psichiatrico e sia del pari necessario mantenere nei suoi confronti la custodia cautelare, il giudice ordina, ai sensi dell'art. 73 comma 3 c.p.p.; che la misura sia eseguita nelle forme di cui all'art. 286 c.p.p., mediante il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i necessari provvedimenti per prevenire il pericolo di fuga ovvero, in alternativa, può disporre l'assegnazione dell'imputato ad un istituto o sezione speciale per infermi o minorati psichici (art. 111 comma 5 d.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 - Regolamento sull'ordinamento penitenziario), ma in nessun caso l'imputato può essere assegnato ad un ospedale psichiatrico giudiziario, tipica misura di sicurezza (Cassazione penale, sez. IV, 10 dicembre 2003, n. 3518) 5) Recenti ipotesi di riforma della disciplina delle misure di sicurezza. Deve da ultimo essere evidenziato che vi è un testo di legge attualmente all’esame della Camera dei Deputati destinato a modificare in maniera radicale la disciplina in materia di ospedali psichiatrici giudiziari. Si tratta del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211 (interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), durante la cui conversione in legge è stato approvato (nell’esame svoltosi in Senato) un emendamento che ha come obiettivo il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, obiettivo da raggiungere da un lato con la “penitenziarizzazione” delle case di cura (per le quali, una volta ricoverati i dimessi dagli OPG, si prevedono forme di vigilanza ‘esterna’ a cura delle forze di Polizia a garanzia della sicurezza della collettività ), e dall’altro con la “depenitenziarizzazione” degli OPG, destinati a divenire case di custodia attenuata a prevalente vocazione terapeutica (ad es. per tossicodipendenti, malati o detenute madri) o assistenziale (ad es. per persone in detenzione domiciliare di scarsa pericolosità che non hanno un domicilio proprio). Questo è il testo dell’emendamento, attualmente all’esame della Camera dei deputati: Art. 3-bis (Disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e per la razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse del Servizio sanitario nazionale e dell’Amministrazione penitenziaria) 1. Al fine di garantire certezza e compiutezza al processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, il termine per il completamento degli interventi previsti dall’allegato C del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 aprile 2008, recante ’’Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria’’, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 126 del 30 maggio 2008, è fissato al 1º febbraio 2013. 2. Entro il termine di cui al comma 1, in ciascuna regione deve essere concluso uno specifico accordo tra l’Amministrazione penitenziaria e la regione, con il quale: a) sono individuate una o più strutture sanitarie, tra quelle in possesso dei requisiti minimi per le strutture residenziali psichiatriche, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1997, Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 1997, da destinare alla sostituzione dell’ospedale psichiatrico giudiziario di riferimento della regione; b) sono definite le rispettive competenze nella gestione delle strutture sanitarie sostitutive di cui alla lettera a), individuando le funzioni proprie del Servizio sanitario regionale e le funzioni di competenza dell’Amministrazione penitenziaria; c) sono istituiti presidi di sicurezza e vigilanza, ubicati lungo il perimetro delle strutture sanitarie sostitutive di cui alla lettera a), o comunque all’esterno dei reparti in cui le stesse si articolano. 3. Entro il 31 marzo 2013 gli istituti penitenziari già sede di ospedale psichiatrico giudiziario sono definitivamente chiusi o, in alternativa, riconvertiti ad altra funzione penitenziaria. 4. A seguito della eventuale chiusura di cui al comma 3, i beni immobili degli ex ospedali psichiatrici sono venduti, con le modalità di cui all’articolo 1, comma 436, della legge 30 dicembre 2004, n. 311. I proventi delle vendite sono utilizzati per la realizzazione di strutture territoriali residenziali e di centri diurni con attività riabilitative, destinati ai malati mentali. A tale fine, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, i proventi delle vendite sono ripartiti tra le regioni, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, adottato di concerto con i Ministri della salute e della giustizia 5. Alle disposizioni recate dal comma 2 si conformano anche le regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano, in armonia con i rispettivi statuti e le correlate norme di attuazione. 6. A decorrere dal 31 marzo 2013 le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia sono eseguite esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2. In caso di mancato rispetto, in una o più regioni, del termine previsto dal comma 2, il Governo provvede in via sostitutiva, in conformità all’articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131. 7. Agli oneri derivanti dall’attuazione della presente articolo, valutati in 7 milioni di euro per l’anno 2012 ed in 4 milioni di euro per l’anno 2013, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2012-2014, nell’ambito del programma ’’Fondi di riserva e speciali’’ della missione ’’Fondi da ripartire’’ dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2012, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero degli affari esteri. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello ALLEGATO 1 Cassazione penale, Sezioni Unite, 25 gennaio 2005, n. 9163 Svolgimento del processo 1.0 Verso le ore 4 del 27 dicembre 2001 G. R., dinanzi alla porta della propria abitazione, sul pianerottolo condominiale, esplodeva due colpi di pistola all'indirizzo di V. A., che attingevano la vittima all'altezza del collo e della testa, provocandone la morte. Agenti della Polizia di Stato, prontamente intervenuti a seguito di segnalazioni, trovavano R. ancora con la pistola in pugno, e questi esclamava al loro indirizzo: "Sono stato io, così ha finito di rompere"; alla intimazione di gettare l'arma ed alzare le mani, egli non ottemperava all'invito, continuando a brandire la pistola e rivolgendo minacce agli astanti, compresi alcuni condomini frattanto accorsi dopo gli spari, sicché gli operanti erano costretti ad intervenire con la forza, disarmandolo e immobilizzandolo. Al rumore degli spari, si era destata anche C. P., moglie di A., la quale, accortasi che il marito non si trovava a letto, s'era recata pur ella sul pianerottolo condominiale, al piano inferiore, ed ivi aveva notato il coniuge riverso per terra ed aveva cercato di soccorrerlo; R., puntatale contro la pistola, le aveva detto: "ora ammazzo puro te..." e, in un secondo momento, le aveva puntato l'arma contro la tempia. Già dai primi atti di indagine, e dalla stessa confessione di R., si appurava che l'omicidio era maturato in un clima di ripetuti diverbi condominiali, originati da presunti rumori dell'autoclave provenienti dall'appartamento della vittima, posto al piano superiore rispetto a quello dell'omicida, che più volte avevano indotto R. a disattivare, recandosi in cantina, l'impianto della energia elettrica: tanto era avvenuto anche quella mattina e, risalendo l'omicida al quinto piano, ove era ubicata la sua abitazione, aveva incontrato A.: ne era scaturita l'ennesima lite, che si era conclusa in quella maniera tragica. 1.1 G. R. veniva tratto al giudizio del G.I.P. del Tribunale di Roma per rispondere dei reati di cui agli artt. 61, nn. 1, 4 e 5, 575, 577, n. 3; 337; 61, n. 2, 81, 612, 2° c., c.p.. Procedutosi con rito abbreviato, condizionato ad un poi espletato accertamento peritale sulla capacità di intendere e di volere dell'imputato e sulla sua pericolosità, quel giudice, con sentenza del 4 marzo 2003, dichiarava l'imputato medesimo colpevole dei reati ascrittigli, unificati sotto il vincolo della continuazione, riconosciutagli la diminuente del vizio parziale di mente prevalente sulla contestata aggravante, esclusa la premeditazione e le aggravanti di cui all'art. 61, nn. 1 e 4, c.p., e lo condannava alla pena di anni quindici e mesi quattro di reclusione ed alla pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici; disponeva la misura di sicurezza della assegnazione ad una casa di cura e di custodia per la durata minima di tre anni, e la confisca dell'arma e delle munizioni in sequestro; lo condannava, infine, al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili, cui assegnava delle provvisionali. 1.2 Nel pervenire alla resa statuizione quanto al ritenuto vizio parziale di mente, il giudice del merito rilevava che nel corso del procedimento erano stati eseguiti più accertamenti tecnici al riguardo. Una prima consulenza psichiatrica disposta dal P.M. aveva individuato a carico dell'imputato "un disturbo della personalità di tipo paranoideo in un soggetto portatore di una patologia di tipo organico, consistente un una malformazione artero - venosa cerebrale", ed aveva concluso, ritenendo nel soggetto la piena capacità di intendere ed escludendo invece nel medesimo la capacità di volere ritenuta "grandemente scemata". Una seconda consulenza tecnica disposta dal P.M. in una prima stesura "individuava nell'imputato la totale incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, in quanto 'affetto da crisi psicotica paranoidea'". In una seconda stesura del relativo elaborato tecnico, lo stesso consulente rivedeva parzialmente le sue precedenti affermazioni, concludendo per "la sussistenza nel periziato di una parziale capacità complessiva, scaturente da una piena capacità di intendere e da una incapacità di volere limitatamente al momento della commissione del fatto, trattandosi di un soggetto non psicotico, bensì con personalità borderline di tipo paranoideo". Il perito nominato dal giudice "concludeva nel senso di una parziale capacità di intendere e di volere del detenuto e di una sua attuale pericolosità sociale". In particolare, egli escludeva "un disturbo borderline, individuando invece... un disturbo paranoideo... frammisto ad elementi appartenenti al disturbo narcisistico di personalità"; ricostruiva il percorso psicopatologico della personalità del soggetto individuato in un 'nucleo depressivo profondo, legato ad avvenimenti personali ed in grado di determinare radicati sentimenti di inabilità, insufficienza, inadeguatezza' ...", che avrebbero "portato il R. per anni ad alimentare 'vissuti fortemente persecutori e tematiche di natura aggressiva, come risposta alla incapacità di assumersi la responsabilità dei propri fallimenti esistenziali', fino a polarizzare la propria esistenza intorno a 'contenuti ideici che non possono essere definiti deliranti, ma che possono essere compresi attraverso la definizione Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello psichiatrica di 'idee dominanti'...", ritenendo, quindi, sotto il profilo della capacità di volere e di autodeterminazione, "che il R. 'abbia sperimentato, mediante la totale invasività del pensiero persecutorio con le caratteristiche delle idee dominanti, uno scardinamento delle proprie labili capacità di controllo delle scariche impulsive e della propria aggressività..., si tratta di un passaggio all'atto in cui il libero dispiegarsi dei meccanismi della volontà viene impedito dal massiccio vissuto persecutorio, ..."; e che "l'imputato abbia posseduto nelle fasi immediatamente prima del delitto, come attualmente, 'una compromissione della capacità di intendere, che, se non giunge alla grave destrutturazione tipica delle autentiche esperienze psicotiche, si caratterizza per una profonda anomalia del pensiero'... tale ausiliario del giudice concludeva, quindi, per la sussistenza di "una condizione psicopatologica in cui entrambe lo capacità di intendere e di volere erano significativamente danneggiate, ma senza giungere al loro totale azzeramento" ulteriormente chiarendo che, "quanto alla patologia organica accusata dall'imputato e consistente in una malformazione artero - venosa cerebrale", era da escludere "che essa abbia avuto un ruolo esclusivo nell'infermità psichiatrica anche se certamente contribuisce a determinare la particolare condizione del predetto, incidendo negativamente sulle sue capacità di volizione": "in sostanza - annota la sentenza di prime cure - "il perito esclude un disturbo psicotico delirante" e ritiene che "il periziato soffre di un disturbo paranoideo per effetto del quale la capacità di intendere e di volere è compromessa, ma non del tutto esclusa". Il giudice riteneva del tutto condivisibili tali conclusioni peritali, cui erano pervenuti, in sostanza, "pur attraverso percorsi diversi", "tutti i consulenti tecnici, compresi quelli della parte civile", che avevano affermato, in una loro prodotta relazione, che "ci sembra corretto ritenere che il soggetto possa al massimo essere ritenuto seminfermo di mente". 1.3 Sui gravanti dell'imputato, del Procuratore Generale della Repubblica e delle parti civili, la Corte di Assise di Appello di Roma, con sentenza del 3 febbraio 2004, escludeva la diminuente di cui all'art. 89 c.p., riconosceva all'imputato le attenuanti generiche equivalenti all'aggravante di cui all'art. 61, n. 5, c.p., rideterminava la pena, fissandola in anni sedici e mesi otto di reclusione, e revocava la misura di sicurezza dell'affidamento a casa di cura e custodia. Quanto al punto concernente il vizio parziale di mente, rilevavano i giudici del gravame che "né il perito nominato dal giudice, né i c.t. del P.M. hanno... riscontrato nell'imputato, in sostanza, altro che disturbi della personalità, sulla cui esatta definizione non si sono neppure trovati concordi", giungendo, comunque, alla comune conclusione che le anomalie comportamentali dell'imputato non hanno causa in una 'alterazione patologica clinicamente accertabile, corrispondente al quadro clinico di una determinata malattia'... né in una 'infermità o malattia mentale o .... alterazione anatomico - funzionale della sfera psichica'.... bensì in anomalie del carattere, in una personalità psicopatica o psicotica, in disturbi della personalità che non integrano quella infermità di mente presa in considerazione dall'art. 89 del c.p.". 2.0 Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'imputato, per mezzo del difensore, denunziando: a) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 89, 575 c.p.. Deduce che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto degli esiti delle disposte consulenze e perizia, e contraddittoriamente aveva escluso la seminfermità di mente, pur dando atto che "la personalità dell'imputato era certamente disturbata... e che tale disturbo fornì all'imputato stesso 'gli impulsi anomali a commettere quei particolari delitti contestatigli e, con la pressione di un violento ed esasperato vissuto di persecuzione, gli attenuò le capacità di autocontrollo'"; soggiunge che neanche si era tenuto conto "che gli specialisti avevano evidenziato una vera e propria lesione organica cerebrale..., sicché esisteva una base organica che indubbiamente ha contribuito nello sviluppo della personalità di tipo paranoideo". Rileva, poi, che "la valutazione dell'imputabilità è comunque del tutto erronea...", giacché "la varietà delle infermità mentali è così complessa che non può racchiudersi nell'ambito di tipologie circoscritte alla malattia", e che (all'uopo richiamando arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte) "anche le anomalie psichiche costituiscono vera e propria malattia ai sensi della legge penale quando abbiano avuto un sicuro determinismo rispetto all'azione delittuosa e quindi 'un rapporto motivante con il fatto delittuoso commesso'..."; b) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all'art. 61, n. 5. c.p.. Lamenta il ricorrente che erroneamente sarebbe stata riconosciuta tale aggravante, sul presupposto che l'imputato avrebbe profittato dell'ora notturna, e della circostanza che la persona offesa si era appena destata dal sonno, e che, attesa l'ora tarda, difficilmente avrebbero potuto intervenire altre persone per sedare la lite, laddove, invece, l'imputato aveva "agito soltanto nel momento in cui l'impulso derivante dalla persecuzione è diventato per lui irrefrenabile"; non avrebbero, inoltre, considerato i giudici dell'appello che, "il fatto avvenne nelle scale condominiali del palazzo di cui erano condomini sia il R. che la vittima e quindi quest'ultimo, che era uscito di casa ben consapevole che la luce era stata staccata proprio dal R., aveva ogni possibilità, conoscendo i luoghi, di sottrarsi all'aggressione": Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello c) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 62 - bis, 133 c.p.: erroneamente - assume il ricorrente - era stato escluso il giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sull'aggravante di cui all'art. 61, n. 5, c.p., non valutandosi che l'imputato aveva agito "con la pressione di un violento ed esasperato vissuto di persecuzione" e non tenendosi conto della sua incensuratezza e della sua età ("circa settant'anni" all'epoca dei fatti). 2.1 Il ricorso veniva assegnato alla I Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza del 13 ottobre 2004, ne disponeva la rimessione alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p.. Si rilevava, difatti, che nella giurisprudenza di questa Suprema Corte era da tempo insorto un contrasto, in ordine alla questione concernente il concetto di "infermità", ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p.. Un "più risalente e consistente indirizzo" ha ritenuto che, "in tema di imputabilità, le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità...". Altro "indirizzo minoritario" ha, invece, ritenuto che "il concetto di infermità mentale recepito dal nostro codice penale è più ampio rispetto a quello di malattia mentale, di guisa che, non essendo tutte le malattie di mente inquadrate nella classificazione scientifica delle infermità, nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche dei soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, nel caso che queste si manifestino con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi ......". 2.2 Il Primo Presidente ha fissato l'odierna udienza per la trattazione del ricorso davanti a queste Sezioni Unite. 2.3 La difesa del ricorrente ha prodotto "note di udienza", con le quali ribadisce i motivi del ricorso, quanto alla questione concernente il vizio parziale di mente, ulteriormente rilevando, in conclusione, che "è auspicabile... che la Corte Suprema, stante la fluente modificazione del concetto della classificazione delle malattie mentali, voglia ritenere l'infermità di mente - cui fa riferimento l'art. 89 c.p. - cosa diversa dalla malattia mentale, intesa come alterazione patologica in senso clinico". Motivi della decisione 3.0 Il primo motivo di ricorso - che nella prospettazione gravatoria assume propedeutico rilievo anche in riferimento agli altri profili di doglianza esplicitati - propone la questione che può così sintetizzarsi: se, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrino nel concetto di "infermità" anche i "gravi disturbi della personalità". 3.1 Al riguardo, e sui temi di fondo che afferiscono a tale questione, si registra da tempo un contrasto giurisprudenziale nelle decisioni di questa Suprema Corte. Le oscillazioni interpretative sono state esse i ente determinate dal difficile rapporto tra giustizia penale e scienza psichiatrica, insorto dal momento in cui quest'ultima ha sottoposto a revisione critica paradigmi in precedenza condivisi, ponendo in crisi tradizionali elaborazioni metodologiche e, nel contempo, legittimando una sempre più accentuata tendenza verso il pluralismo interpretativo; sicché - come meglio più oltre si vedrà - accanto ad un indirizzo "medico" (all'interno del quale si sono distinti un orientamento "organicista" ed uno "nosografico", si è proposto quello "giuridico" (volta a volta accompagnato, o temperato, dal criterio della patologicità, da quello della intensità, da quello eziologico), che ha, in sostanza, sviluppato una nozione più ampia di infermità rispetto a quello di malattia psichiatrica. 4.0 La questione proposta involgo delicati profili, oltre che sul piano della teoria generale del reato, su quello del rapporto e dell'appagante contemperamento delle due, spesso contrapposte, esigenze, della prevenzione, generale o speciale, e del garantismo, che - per mutuare l'espressione di autorevole dottrina - costituisce oggetto di una delle "sfide del diritto penale moderno o postmoderno". In tale contesto già circa un venticinquennio fa la stessa dottrina, particolarmente attenta a tale tema, parlava di "crisi del concetto di imputabilità"; e non sono mancate anche prese di posizioni proponenti la abolizione, tout court, della categoria dell'imputabilità dal sistema penale, concretizzatesi anche in proposte di legge, quella n. 177 del 1983, quella n. 151 del 1996. La questione si pone su un piano che parte dal riconoscimento alla imputabilità di un ruolo sempre più centrale e fondamentale, secondo la triplice prospettiva "di principio costituzionale, di categoria dommatica del reato, di presupposto e criterio guida della sanzione penale". 4.1 L'art. 85.2 c.p definisce (secondo una proposizione generale, priva di ulteriori specifici contenuti) la imputabilità come la condizione di chi "ha la capacità di intendere e di volere" e, come appare anche dalla sua collocazione sistematica, all'inizio del titolo IV, dedicato al reo, determina una qualifica, o stato, dell'autore del reato, che lo rende assoggettabile a pena (art. 85.1 c.p.). Tuttavia - sostanzialmente concorde la Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello dottrina -, nonostante tale collocazione sistematica, la imputabilità non si limita ad essere una "mera capacità di pena" o un "semplice presupposto o aspetto della capacità giuridica penale", ma il suo "ruolo autentico" deve cogliersi partendo, appunto, dalla teoria generale del reato; ed icasticamente si chiarisce al riguardo che, "se il reato è un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e la colpevolezza non è soltanto dolo o colpa ma anche, valutativamente, riprovevolezza, rimproverabilità, l'imputabilità è ben di più che non una semplice condizione soggettiva di riferibilità della conseguenza del reato data dalla pena, divenendo piuttosto la condizione dell'autore che rende possibile la rimproverabilità del fatto" essa, dunque, non è "mera capacità di pena", ma "capacità di reato o meglio capacità di colpevolezza", quindi, nella sua "propedeuticità soggettiva rispetto al reato, presupposto della colpevolezza" non essendovi colpevolezza senza imputabilità. 4.2 Si è ulteriormente specificato che i confini di rilevanza ed applicabilità dell'istituto della imputabilità dipendono, in effetti, anche in qualche misura dal concetto di pena che si intenda privilegiare: nell'ottica retributiva di questa, se la pena deve servire a compensare la colpa per il male commesso, non può non rilevarsi che essa si giustifica solo nei confronti di soggetti che hanno scelto di delinquere in piena libertà; sotto il profilo di un'ottica preventiva, ponendosi in dubbio il rapporto tra libertà del volere e funzione preventiva (in cui il principio della libertà del volere non è più funzionale alla fondazione e giustificazione della pena"), tale funzione preventiva potrà rivolgersi solo a soggetti che siano effettivamente in grado di cogliere l'appello contenuto nella norma, e fra questi non sembra che possano annoverarsi anche i soggetti non imputabili, in quanto tali ritenuti non suscettibili di motivazione mediante minacce sanzionatorie. E, sotto il profilo della risocializzazione (che partecipa alla funzione di prevenzione speciale), giustamente si è rilevato che "il collegamento psichico fra fatto e autore, comunque necessario per dar senso alla risocializzazione, ancora una volta non può che essere visto nella possibilità che il soggetto aveva di agire altrimenti al momento del fatto commesso", in mancanza di tanto non avendo senso chiedersi se il soggetto abbia bisogno di essere rieducato, dovendosi piuttosto ritenere che egli non sia neppure in grado di cogliere il significato della pena e, conseguentemente, di modificare i propri comportamenti. Non sono queste la sede e l'occasione per ulteriormente approfondire, rivisitare e delibare l'articolato e fecondo dibattito dottrinario al riguardo svoltosi - dopo l'entrata in vigore della Carta Costituzionale e, segnatamente, del suo art. 27 - e per molti versi tuttora attuale. Gioverà nondimeno, ai fini che qui pure interessano, rilevare che la preminente dottrina è orientata per una teoria "pluridimensionale" o "plurifunzionale" della pena, sia pure con impostazioni differenziate; e che la Corte Costituzionale, pur richiamando la concezione, precedentemente affermata, c.d. "polifunzionale", della pena, ha evidenziato il profilo centrale della stessa, quello rieducativo, rilevando che, "per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale), si tratta bensì di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma non tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena...; è per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena" (Corte Cost., sent. n. 313/1990), ivi ricordando la stessa Corte che ciò aveva già portato "a valorizzare il principio addirittura sul piano della struttura del fatto di reato (sentenza n. 364 del 1988)". 4.3 E proprio sul versante del contenuto e della rilevanza del concetto di colpevolezza, mette conto di rilevare che in tale ultima decisione (resa in riferimento alla ritenuta parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 c. p.), il Giudice delle leggi aveva richiamato come la puntualizzazione di quel concetto non potesse essere disgiunta da un giudizio di rimproverabilità del fatto; aveva ricordato, tra l'altro, l'approdo sistematico della "necessità, per la punibilità del reato, della effettiva coscienza, nell'agente, dell'antigiuridicità del fatto"; aveva sottolineato che "la colpevolezza costituzionalmente richiesta... non costituisce elemento tale da poter essere, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato" e che ciò era testimoniato dalla "funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza" inalterati rimanendo, quale che ne sia il fondamento considerato, "il valore della colpevolezza, la sua insostituibilità", la sua "indispensabilità... quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale... Il principio di colpevolezza..., più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto", in un sistema, come il nostro, che "pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ...", e "ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su 'congrui' elementi subiettivi". 4.4 Può, dunque, ritenersi consolidato e definitivo approdo ermeneutico - costituzionale e sistematico che "la configurazione personalistica della responsabilità - come ancora si esprime autorevole dottrina - esige che essa si radichi nella commissione materiale del fatto e nella concreta rimproverabilità dello stesso. Il che è Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello quanto dire che deve essere possibile far risalire la realizzazione del fatto all'ambito della facoltà di controllo e di scelta del soggetto, al di fuori delle quali può prendere corpo unicamente un'ascrizione meccanicistica, oggettiva dell'evento storicamente determinatosi": e di tale approdo è necessario, ove occorra, tenere ineludibile conto nella interpretazione della norma, essendo canone interpretativo pacifico che, ove siano possibili più interpretazioni della stessa, deve prevalere ed essere privilegiata quella costituzionalmente orientata e non confliggente con i principi consacrati nella Carta fondamentale. 5.0 Quanto al disposto dell’art. 85 c. p., si è pure pertinentemente già rilevato che la formula normativa ha espunto ogni riferimento alla "libertà" e alla "coscienza", e, per altro verso, "ha 'ridotto' la categoria naturalistica all'ambito esclusivamente psicologico, privilegiando i due momenti intellettivo e volitivo in senso stretto"; conseguentemente, la dottrina ha disatteso il collegamento tra "capacità di intendere e di volere" e "coscienza e volontà" dell'azione o omissione, ponendo in evidenza la reciproca autonomia ed indipendenza di tali categorie concettuali, e la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha più volte tanto ritenuto ed affermato (Cass., Sez VI, n. 4165/1991; id., Sez. III, n. 1574/1986; id., Sez. I, n. 10440/1984; id., Sez. I, n. 3502/1979; id., Sez. I, n. 711/1970; id., Sez. I, n. 385/1969). 5.1 Quanto al contenuto della formula normativa dettata dall'art. 85 del codice sostanziale, la capacità di intendere pacificamente si riconosce nella idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, ad "orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà", e quindi nella capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni, ovvero di proporsi "una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta" (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); mentre la capacità di volere consiste nella idoneità del soggetto medesimo "ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l'azione, in modo coerente ai valori di cui è portatore "nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore" nella attitudine a gestire l'una efficiente regolamentazione della propria, libera autodeterminazione" (Cass, Sez. I, n. 13202/1990, cit.), in sostanza nella capacità di intendere i propri atti (nihil volitum nisi praecognitum), come ancora si esprime la dottrina; la quale pure avverte che, alla stregua della prospettiva scientifica delle moderne scienze sociali, in verità, "una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste", dovendo piuttosto la volontà umana definirsi libera, "in una accezione meno pretenziosa e più realistica, nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca ad esercitare poteri di inibizione e di controllo idonei a consentirgli scelte consapevoli tra motivi antagonistici". 5.2 Il riferimento della norma ad entrambi i suindicati concetti, la capacità di intendere e quella di volere, rende poi evidente come, de iure condito, la imputabilità debba essere congiuntamente riferita ad entrambe tali attitudini, difettando essa in mancanza anche di una sola delle stesse. È prospettiva, semmai, solo de iure condendo quella proposta da una parte della dottrina psichiatrica forense, di eliminare dal testo dell'art. 85 c.p. il riferimento alla capacità di volere, restringendolo al solo profilo della capacità di intendere (anche sulla scorta di quanto avvenuto in altre legislazioni, in particolare quella federale statunitense del 12 ottobre 1984, che ha accolto il solo concetto di capacità di intendere in tema di mental illness e insanity defense), sul presupposto che l'altra, in sostanza, si sottrae a qualsiasi riscontro empirico - scientifico e viene affermata, volta a volta, o in virtù di una "finzione necessaria per la sopravvivenza del diritto penale" o come un "presupposto indimostrabile e in quanto tale da accogliere a priori", o come "un principio normativo accolto dal diritto positivo e perciò imprescindibile dal punto di vista formale per legittimare la distinzione fondamentale tra soggetti imputabili - responsabili e soggetti non imputabili - irresponsabili. 6.0 Gli artt. 88 e 89 c.p., per quanto nella specie interessa, costituiscono specificazioni e puntualizzazioni di quel generale principio, ponendo parametri normativamente predeterminati per la disciplina dell'istituto, unitamente ad altri (art. 95, cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti; art. 96, sordomutismo; artt. 97, 98, l'età del soggetto, pur avvertendosi che le cause codificate di esclusione della imputabilità non possono considerarsi tassative). Se deve convenirsi che, quanto al rapporto tra gli artt. 85 e 88 - 89 c.p., la imputabilità è normalmente considerata presento quando l'autore abbia raggiunto la maturità fisio - psichica normativamente indicata (tenuto conto, per l'infradiciottenne, del disposto dell'art. 98 c.p.) salvo che versi in una situazione di infermità (Cass., Sez. I, n. 13202/1990), tanto costituendo (ancora per autorevole voce della dottrina) "il compromesso, o il punto d'incontro, tra le esigenze proprie del principio di colpevolezza e quello della prevenzione generale", rimane che, in effetti, il concetto di imputabilità è, al tempo stesso, empirico e normativo (che "normativamente si manifesta nella costruzione a due piani"), nel senso, che è dato innanzitutto alle scienze di individuare il compendio dei requisiti biopsicologici che facciano ritenere che il Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello soggetto sia in grado di comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativo connesso alla previsione della sanzione punitiva, ed è mancipio del legislatore, poi, "la fissazione delle condizioni di rilevanza giuridica dei dati forniti dalle scienze empirico - sociali" tale opzione legislativa implicando "valutazioni che trascendono gli aspetti strettamente scientifici del problema dell'imputabilità e che attengono più direttamente agli obiettivi di tutela perseguiti dal sistema penale". 7.0 Ora, è proprio sul versante dei sicuri ancoraggi scientifici che la proposta questione presenta i più rilevanti aspetti di problematicità, in un contesto in cui la dottrina parla, pressoché unanimemente, di "crisi della psichiatrica", di "una crisi di identità.... da alcuni anni attraversata" dalla scienza psichiatrica, risultando "la classificazione dei disturbi psichici quanto mai ardua e relativa, non solo per la mancanza di una terminologia generalmente accettata, ma per i profondi contrasti esistenti nella letteratura psichiatrica"; il che ha anche fatto dire ad altra autorevole dottrina che, in effetti, "non può propriamente parlarsi di crisi dell'imputabilità. In (relativa) crisi è infatti semmai... il concetto di malattia mentale". È ben vero, difatti, che la difficoltà di individuare tali sicuri ancoraggi scientifici comporta ineludibili ricadute sul versante della necessaria cooperazione tra il sapere scientifico da un verso ed il giudice, d'altro verso, che di quel sapere devo essere fruitore. 7.1 La scienza psichiatrica propone, difatti, come è noto, paradigmi e modelli scientifici diversi e tra loro conflittuali. Secondo il più tradizionale e risalente paradigma medico, le infermità mentali sono vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, per ciò, un substrato organico o biologico. Tale modello nosografico (compiutamente elaborato da Emil Kraepelin sul finire dell'ottocento) afferma, in sostanza, la piena identità tra l'infermità di mente ed ogni altra manifestazione patologica sostanziale, postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia, propone il disturbo psichico come infermità "certa e documentabile" escludendosi ogni peculiarità, sotto tale profilo, rispetto ad altre manifestazioni patologiche; e comporta, quindi, che intanto un disturbo psichico possa essere riconducibile ad una malattia mentale, in quanto sia nosograficamente inquadrato. Se ne è, quindi, inferito, tra l'altro, che l'accertamento della causa organica rimarrebbe assorbito dalla sussumibilità del disturbo nelle classificazioni nosografiche elaborato dalla scienza psichiatrica, nel "quadro - tipo di una determinata malattia" (per cui "quando il disturbo psichico e aspecifico non corrisponde al quadro - tipo di una data malattia, non esiste uno stato patologico coincidente col vizio parziale di mente": così, ad esempio, Cass., Sez. I, n. 930/1979). Pur nell'ambito di tale paradigma, non mancano, tuttavia, diversi riferimenti ad una prospettiva c.d. psicopatologica, per la quale il vizio di monte è da riconoscere in presenza di uno stato o processo morboso, indipendentemente dall'accertamento di un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia ufficiale (si è affermato, quindi, che, "se è esatto che il vizio di mente può sussistere anche in mancanza di una malattia di mente tipica, inquadrata nella classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre necessario che il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da una alterazione patologica clinicamente accertabile...": così Cass., Sez. I, n. 9739/1997). 7.2 Agli albori del '900, sotto l'influenza dell'opera freudiana (e con la scoperta dell'inconscio, di un mondo, cioè, nascosto dentro di noi, "privo di confini fisiologicamente individuabili attraverso l'esame dei tre livelli della personalità: l'Es, il livello più basso e originario, permanentemente inconscio; l'Io, la parte ampiamente conscia, che obbedisco al principio di realtà; il Super - io, che costituisce la "coscienza sociale" e consente la interiorizzazione dei valori e delle norme sociali), prese a proporsi un diverso paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell'apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale, e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico. I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a "disarmonie dell'apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna" e, "quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale". Il concetto di infermità quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell'attività psichica, come le psicopatie, le nemesi, i disturbi dell'affettività: oggetto dell'indagine, quindi, non è più la persona - corpo, ma la persona - psiche. 7.3 Intorno agli anni '70 del secolo scorso si è proposto un altro indirizzo, quello sociologico, per il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell'ambiente in cui il soggetto vive; esso nega la natura fisiologica dell'infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità, di mente come "malattia sociale". Dal nucleo di tale indirizzo si sono, quindi, sviluppati orientamenti scientifici che rifiutano l'esistenza della Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello malattia mentale come fenomeno organico o psicopatologico (la c.d. "antipsichiatri", o "psichiatria alternativa"). 7.4 Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un "modello integrato" della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine: trattasi, in sostanza, di "una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia" in tal guisa superandosi la visione eziologica monocausale della malattia mentale, pervenendosi ad una concezione "multifattoriale integrata". In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato medico, valorizzanti l'eziologia biologica della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica) e contro i rischi di un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria dinamico - strutturale, che considera il comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico. Si assiste anche ad una rivalutazione del metodo nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di rigido codice psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale, ma piuttosto quello di "una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione". In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM - IV, o l'ICPC o l'ICD - 10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici. È stato anche rilevato che può, oggi, sicuramente ritenersi superata una concezione unitaria di malattia mentale, affermatasi, invece, una concezione integrata di essa, che comporta, tra l'altro, un approccio il più possibile individualizzato, con esclusione del ricorso a categorie o a vecchie rigidi schemi nosografici. 7.5. In tale panorama di orientamenti della scienza psichiatrica moderna, spesso contraddittori - che ha fatto anche dire a taluno che definire cosa sia oggi l'infermità di cui agli artt. 88 e 89 c.p. è un problema praticamente insolvibile e affatto fittizio -, si rivendica all'area giuridico - penale la determinazione del contenuto e della funzione del concetto di imputabilità e del vizio di mente, esso - "implicando una presa di posizione su ciò che l'ordinamento poteva protendere da lui nella situazione data" - rimanendo una "questione normativa di ultimativa competenza del giudice, il quale ne assume la responsabilità di fronte alla società nel cui nome amministra la giustizia". Questa impostazione, consentendo la utilizzazione di "un modello funzional - garantistico di giudizio sulla imputabilità, ... valorizza la persona come soggetto dotato di libertà decisionale e di dignità, risultando in grado di garantire il rispetto del principio di colpevolezza e nello stesso tempo delle esigenze preventive. E si soggiunge che, risolvendosi - come s'è detto - il concetto di imputabilità sui duplice piano empirico e normativo, la sua ridefinizione deve avvenire attraverso la valorizzazione delle più aggiornate acquisizioni scientifiche, nonostante la pluralità dei paradigmi interpretativi riscontrabile all'interno della scienza psichiatrica, riconoscendosi così il primato dell'identità normativa, ma non prescindendosi dal necessario apporto dell'identità empirica ed in tal guisa confermandosi la necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza; e proprio per assicurare di fatto una tale piena collaborazione, autorevole dottrina, attenta ai temi della infermità di mento, è favorevole all'ampliamento delle cause di esclusione dell'imputabilità, ricomprendendovi anche le nevrosi, le psicopatie e, in genere, i c.d. disturbi della personalità. 8.0 La giurisprudenza di questa Suprema Corte sulla questione relativa al rilievo dei disturbi della personalità sul piano della imputabilità è, volta a volta, contrassegnata dalla adesione ad uno od altro dei paradigmi suindicati, con conseguenti oscillazioni interpretative. Si è, quindi, affermato che "le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono solo le malattie mentali in senso stretto, ciò le insufficienze cerebrali originarie o quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di vada natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità, sicché "esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell'applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p., in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico - intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali" (Cass., Sez. VI n. 26614/2003); le manifestazioni di tipo nevrotico, depressive, i disturbi della personalità, comunque prive di un substrato organico, la semplice insufficienza mentale "non sono idonee a dare fondamento ad un giudizio di infermità mentale..." (Cass., Sez. I, n. 7523/1991); solo "l'infermità mentale avente una radice patologica e fondata su una causa morbosa può fare escludere o ridurre, con la capacità di intendere e di volere, l'imputabilità, mentre tutte le anomalie del carattere, pur se indubitabilmente incidono sul comportamento, non sono idonee ad alterare nel soggetto la Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello capacità di rappresentazione o di autodeterminazione" (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); l'eventuale difetto di capacità intellettiva determinata da semplici alterazioni caratteriali e disturbi della personalità resta priva di rilevanza giuridica (Cass., Sez. V, n. 1078/1997); le semplici anomalie del carattere o i disturbi della personalità non influiscono sulla capacità di intendere e di volere, "in quanto la malattia di mente rilevante per l'esclusione o per la riduzione dell'imputabilità è solo quella medico - legale, dipendente da uno stato patologico veramente serio, che comporti una degenerazione della sfera intellettiva e volitiva dell'agente" (Cass., Sez. I, n. 10422/1997). In particolare, dovendosi distinguere tra psicosi e psicopatia, si rileva che solo la prima è da annoverare nell'ambito delle malattie mentali, mentre la seconda va considerata una mera "caratteropatia" ovvero una anomalia del carattere, non incidente sulla sfera intellettiva e, quindi, inidonea ad annullare o fare grandemente scemare la capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. I n. 299/1991). E per tali ragioni, non vengono ricomprese tra le cause di diminuzione od eliminazione della imputabilità le c.d. "reazioni a corto circuito" in quanto collegate a condizioni di turbamento psichico transitorio non dipendente da causa patologica, ma emotiva o passionale (Cass., Sez. I, n. 9701/1992). Numerose sono le sentenze che possono iscriversi, con puntualizzazioni varie, in tale indirizzo interpretativo: tra le altre, Cass., Sez. I, n. 16940/2004; id., Sez. III, n. 22834/2003; id., Sez. I., n. 10386/1986; id., Sez. I, n. 13202/1990; id., Sez. I n. 7315/1995; id., Sez. V, n. 1078/1997; id., Sez. I, n. 4238/1986; id., Sez. II, n. 3307/1984. 8.1 Altra volta si è rilevato che gli stati emotivi e passionali possono incidere, in modo più o meno incisivo, sulla lucidità mentale del soggetto agente, ma tanto non comporta, per espressa previsione normativa, la diminuzione della imputabilità; perché tali stati assumano rilievo, al riguardo, è necessario un quid pluris, che, associato ad essi, si sostanzi in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure transeunte e non inquadrabile nell'ambito di una precisa classificazione nosografica: e l'esistenza o meno di tale fattore "va accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza dell'attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di infermità (come tale rilevante, ai sensi degli artt. 98 e 89 c.p.), ad alterazioni transeunti della sfera psico - intellettiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi e passionali di cui sia riconosciuta l'esistenza" (Cass., Sez. I, n. 967/1997). Il riconoscimento che anche le deviazioni del carattere possono elevarsi a causa incidente sulla imputabilità, a condizione che su di esse si innesti, o sovrapponga, uno stato patologico che alteri la capacità di intendere e di volere, ha indotto una parte della giurisprudenza a ritenere, per un verso, che le anomalie del carattere e le c.d. personalità psicopatiche determinino una infermità di mente solo nel caso in cui, per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato patologico, uno squilibrio mentale; per altro verso, che la personalità borderline non rilevi ai fini della imputabilità, pur includendo la scienza psichiatrica tale disturbo tra le infermità (Cass., Sez. VI, n. 7845/1997). Escludendosi tesi aprioristiche, si riconosce, in alcune decisioni, che anche le c.d. "reazioni a corto circuito" - normalmente ascritte al novero degli stati emotivi e passionali -, in determinate situazioni, possano costituire manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, incidendo soprattutto sull'attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni" (Cass., Sez. I, n. 5885/1997; id., Sez. I, n. 3170/1994; id., Sez. I, n. 12429/1994; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 14122/1986); si esclude rilievo a tali "reazioni a corto circuito" quando esse si colleghino a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni comportamentali prive di substrato organico, richiedendosi, perché rilievo possano assumere, che esse si inquadrino "in una preesistente alterazione patologica comportante infermità o seminfermità mentale" (Cass., Sez. VI, n. 23737/2004; id., Sez. I, n. 11373/1995; id., Sez. I, n. 7315/1995 -, id., Sez. I, n. 4954/1993; id., Sez. I, n. 9801/1992; id., Sez. I, n. 4268/1982); il criterio della patologicità esclude tutti quei disturbi che trovino origine in situazioni di disagio socio - ambientale e familiare (Cass., Sez. VI, n. 31753/2003). 8.2 Altro criterio, quello della intensità del disturbo psichico, ha portato a ritenere che, anche a fronte di anomalie psichiche non classificabili secondo rigidi e precisi schemi nosografici e, quindi, sprovviste di sicura (accertata) base organica, debba considerarsi, ai fini della esclusione o della diminuzione dell'imputabilità, la intensità dell'anomalia medesima, accertandosi se essa sia in grado di escludere totalmente o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. VI, n. 22765/2003). In tale contesto, un orientamento giurisprudenziale esplicitamente muove dalla (altre volte implicitamente ritenuta) distinzione tra i concetti di infermità e di malattia mentale in senso strettamente clinico - psichiatrico, riconoscendo che alla base del primo vi è quello di stato Patologico, ma che questo può caratterizzare non solo le malattie fisiche o mentali in senso stretto, bensì anche le anomalie psichiche non rinvenienti da sicura base organica, purché si manifestino con un grado di intensità tale da escludere o scemare grandemente la Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. I, n. 24255/2004, che richiama la distinzione tra "malattia in senso clinico - psichiatrico e malattia in senso psichiatrico - forense" e "uno stato patologico che, seppure non comprensivo delle sole malattie fisiche e mentali nosograficamente classificate, sia comunque riconducibile ad una 'infermità', ancorché non classificabile o non insediata stabilmente nel soggetto..."; id., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 5885/1997; id., Sez. I. n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 13029/1989; id., Sez. I, n. 14122/1986; id., Sez. I, n. 2641/1986; cfr. anche Cass., Sez. V, n. 1536/1998, che richiama, disgiuntivamente, "una infermità o malattia mentale o comunque una alterazione anatomico - funzionale"). Altre decisioni fanno riferimento al valore di malattia, secondo uno dei criteri elaborati dalla psichiatria forense, che così individua quelle situazioni che, indipendentemente dalla qualificazione clinica, assumono significato di infermità e sono idonee ad incidere sulla capacità di intendere e di volere; si ricomprendono, così, nella categoria dei malati di mente anche soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, quando tali disturbi si manifestino con elevato grado di intensità e forme più complesso, tanto da integrare le connotazioni di una vera e propria psicosi (Cass., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 2641/1986); ed in tale contesto interpretativo si è dato rilievo ad alcuno situazioni classificabili borderline (Cass., Sez. I, n. 15419/2002; id., Sez. I, n. 6062/2000). 8.3 In molte decisioni - secondo un indirizzo che, risalente, è riscontrabile anche in pronunce recenti -, le quali volta a volta si rifanno ai criteri del substrato patologico, del valore di malattia, della intensità del disturbo, si individua un ulteriore requisito nella necessità della sussistenza di una correlazione diretta tra il disturbo psichico o l'azione delittuosa posta in essere dal soggetto agente, e quindi tra abnormità psichica effettivamente riscontrata e determinismo dell'azione delittuosa (Cass., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 4492/1987; Cass., Sez. I, n. 4103/1986; id., Sez. I, n. 14122/1986). Si sono posti in rilievo - anche in dottrina - l'importanza e la centralità di tale passaggio interpretativo, che giunge ad attribuire "rilevanza alle caratteristiche cliniche del soggetto psicopatico che determinano disarmonie nella personalità e sono capaci di alterare il meccanismo delle spinte e delle controspinte all'azione": il nesso di interdipendenza fra reato e disturbo mentale consente di "ricercare nella vicenda storica quali spinto interne abbiano condotto alla realizzazione del delitto e portato il giudice ad indagare in concreto l'intensità della pressione esercitata dalla situazione di stimolo". 9.0 All'epoca in cui venne emanato l'attuale codice penale era ancora imperante il paradigma medico organicistico, ancorché già messo in crisi, quanto meno in termini di certezza, dalle altre proposte del modello psicologico, poi successivamente diffusosi. Ed il legislatore dell'epoca, mosso da un "intento generalpreventivo, mirante a bloccare alla radice dispute avanzate su basi malsicure e pretestuose, (come si rileva in dottrina), quindi, poteva fare affidamento su concetti ai quali si riconosceva una corrispondente base empirica: quello di infermità mentale identificava la malattia mentale in senso medico - nosografico. Più in generale, è appena il caso di ricordare che quel testo normativo veniva emanato sotto l'egida condizionante della ideologia dell'epoca che, nel contesto del sistema del c.d. doppio binario (la pena tradizionale, inflitta su presupposto della colpevolezza dell'imputato, e le misure di sicurezza, fondate sulla pericolosità sociale del reo ed indirizzate alla risocializzazione), risentiva del prominente intento generalpreventivo (nella Relazione ministeriale al codice si affermava che "delle varie funzioni, che la pena adempie, le principali sono certamente la funzione di prevenzione generale... e la funzione c.d. satisfattoria...", quest'ultima con un ruolo, quindi, "non autonomo, ma strumentale rispetto all'obiettivo della prevenzione generale...", come si annota in dottrina), rifiutava il principio di presunzione di innocenza dell'imputato (ritenuto il portato "delle dottrine demo - liberali, per cui l'individuo è posto contro lo Stato, l'autorità è considerata come insidiosa e sopraffattrice del singolo" e faceva dire ad altre autorevoli espressioni della dottrina dell'epoca che "lo Stato fascista, a differenza dello Stato democratico liberale, non considera la libertà individuale come un diritto prominente, bensì come una concessione dello Stato accordata nell'interesse della collettività", riaffermandosi "l'interesse repressivo" come suo "elemento specifico", e giungendosi, come ricorda autorevole dottrina, alla richiesta estrema di sostituire la regola in dubio pro reo con quella in dubio pro republica. Ma i tempi sono cambiati. La Costituzione, l'affermarsi di un'ermeneutica giuridico - penale orientata ai suoi principi informatori ed il proporsi di paradigmi alternativi a quello medico hanno comportato un adeguamento delle soluzioni, sul tema della imputabilità, alle nuove prospettive ed esigenze del diritto penale moderno. Ed è, ovviamente, con tale nuova maturata ermeneutica giuridico - penale e con tali nuove esigenze del diritto penale che il giurista dove ora fare i conti, sul versante di un approdo interpretativo che come sopra si diceva - sia rispettoso del dettato della Legge fondamentale, o altrimenti ricognitivo della impossibilità della riconduzione della norma a tali canoni di adesione e correttezza costituzionale. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello 9.1 Il legislatore del 1930 legiferò, dunque, tenendo presente quel modello proposto dalla scienza medica, allora imperante, o comunque prevalente, e nei lavori preparatori del codice si fece, coerentemente, riferimento al vizio di mente "come conseguenza d'infermità fisica o psichica clinicamente accertata", ad una "forma patologicamente e clinicamente accertabile di infermità". Da tanto, una voce autorevole della dottrina ha ritenuto che "il criterio nosografico sia stato implicitamente recepito nel nostro ordinamento" così rispondendo al quesito che, "se si dovesse riconoscere nella 'infermità mentale' una categoria chiusa, l'argomento storico andrebbe - ovviamente - ritenuto conclusivo per l'individuazione del modello di infermità penalmente rilevante"; difatti, "se il 'contenuto' della categoria 'infermità di mente' penalmente rilevante era naturalmente offerto, al momento della redazione codicistica, dalle sole patologie allora note alla scienza psichiatrica, non v'è dubbio... che il corrispondente 'concetto', normativamente recepito, consistesse in quello di 'lesione cerebrale a carattere organico'". Tale assunto (che sembra, per vero, isolato nel panorama dottrinario) non può condividersi. Come, difatti, è stato già rilevato da altra autorevole dottrina, la formulazione della norma è, in effetti, avvenuta con tecnica di "normazione sintetica", adottando, cioè, "una qualificazione di sintesi mediante l'impiego di elementi normativi..., rinviando ad una fonte esterna rispetto alla fattispecie incriminatrice". In sostanza, "così operando, il legislatore rinuncia in partenza a definire in termini descrittivi tutti i parametri della fattispecie, ma mediante una formula di sintesi (elemento normativo) rinvia ad una realtà valutativa contenuta in una norma diversa, giuridica o extragiuridica (etica, sociale, psichiatrica, psicologica)". Se cosè è, non può, dunque, dirsi che "il criterio nosografico sia stato implicitamente e definitivamente recepito nel nostro ordinamento", dovendosi invece ritenere che la disposizione normativa si limitava a fare riferimento alla norma extragiuridica, nel suo essere e nel suo divenire, e che la individuazione di questa, nella sua realtà non solo attuale, ma anche successivamente specificabile in itinere, spetta pur sempre oggi all'interprete, che deve individuarla alla stregua delle attuali acquisizioni medico - scientifiche al riguardo, non potendo, quindi, ritenersi cristallizzato, come definitivamente acquisito dal nostro ordinamento, un precedente parametro extragiuridico di riferimento, ove lo stesso sia superato ed affrancato, nella su inattualità ed obsolescenza, da altri (e veritieri) termini di riferimento, e dovendosi invece, perciò, in proposito procedere in costante aderenza della norma alla evoluzione scientifica, cui in sostanza quella ab imis rimandava. Rimane, nondimeno, la problematicità del rinvio, giacché la individuazione del parametro normativo extragiuridico, già di per sé incerto, può evidenziare connotati di indeterminatezza nella misura in cui non trovi riscontri univoci nel contesto di riferimento, debordando verso approdi di indeterminatezza contrastanti con il principio di tassatività. 10.0 In prima approssimazione, deve innanzitutto osservarsi che, in effetti - come pure non si è mancato di evidenziare in dottrina - gli artt. 88 e 89 c.p. fanno riferimento non già ad una "infermità mentale", ma ad ma "infermità" che induca il soggetto "in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere" o da farla "scemare grandemente" (gli artt. 218 e 222 c.p., in tema di presupposti per l'applicabilità della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico o in una casa di cura o di custodia, parlano invece espressamente di "infermità psichica"): se ne è giustamente inferito che "non è l'infermità in se stessa (neppure, a rigore, la più grave) a rilevare, bensì un 'tale stato di mente', da essa determinato, 'da escludere la capacità di intendere o di volere', o da farla ritenere "grandemente scemata" ulteriore corollario di tale rilievo è l'annotazione che tali norme non circoscrivono il rilievo alle sole infermità psichiche, ma estendono la loro previsione anche alle infermità fisiche, che a quello stato di mente possano indurre. 10.1 Sempre per quanto concerne il dato testuale di tali norme, deve, poi, convenirsi con quanto rilevato in dottrina ed in più decisioni di questa Suprema Corte (per tutte, esaustivamente, Cass., Sez. I, n. 4103/1986), ed evidenziato nell'odierna udienza anche dal P.G. requirente, che, cioè, il concetto di "infermità" non è del tutto sovrapponibile a quello di "malattia", risultando, rispetto a questo, più ampio. Deve, invero, innanzitutto rilevarsi la circostanza - evidenziata anche dalla difesa del ricorrente nell'odierna discussione orale - che, a fronte di tale specifica indicazione di "infermità", il legislatore usi altrove espressamente il diverso termine di "malattia nel corpo o nella mente" (artt. 582, 583 c.p.). Ma, in ogni caso, brevemente approfondendo il tema, mette conto di rilevare che in alcuno delle più autorevoli versioni dizionaristiche della lingua italiana, la malattia è definita come "lo stato di sofferenza dell'organismo in toto o di sue parti, prodotto da una causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che ne derivano" ed "elemento essenziale del concetto di malattia è la sua transitorietà, il suo andamento evolutivo verso un esito, che può essere, a seconda dei casi, la guarigione, la morte o l'adattamento a nuove condizioni di vita....", avvertendosi anche che "dal concetto di malattia sono esclusi i cosiddetti stati patologici, ossia quelle stazionarie condizioni di anormalità morfologica, o funzionale, ereditaria, congenita o acquisita, in cui non vi sono tessuti od organi in condizione di sofferenza e che sono compatibili con uno stato generale di buona salute: Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello anomalie e deformità varie, postumi di malattie (come cicatrici e anchilosi), daltonismo, balbuzie, ecc.."; e solo figurativamente il termine sta anche ad indicare l'eccitazione, esaltazione, esasperazione di un sentimento o di una passione; stato di forte tensione o turbamento emotivo; situazione di squilibrio determinato da una fantasia troppo accesa o anche da leggerezza, da stoltezza; attaccamento morboso; idea fissa, mania; tormento, angoscia, sofferenza interiore...". La giurisprudenza di legittimità formatasi in riferimento all'art. 582 c.p. ha ritenuto che "il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l'adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte" (Cass., Sez. V, n. 714/1999; id., Sez. IV. n. 10643/1996); che esso comporti "alterazioni organiche o funzionali sia pure di modesta entità (Cass., Sez. I, n. 7388/1985), "qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorché localizzata" (Cass., Sez. V, n. 5258/1984), ed in tale concetto è stata inclusa anche la "alterazione psicopatica" che sia in rapporto diretto di causalità con la condotta dell'agente (Cass., Sez. V, n. 5087/1987). E questa Suprema Corte, affrontando il tema del significato del termine "dal punto di vista etimologico" in specifico riferimento alla tematica che occupa, ha rilevato che quello di "malattia" "indica un concetto dinamico, un modo di essere che in un certo momento ha avuto inizio" (Cass., Sez. I, n. 4103/1986, cit.). Il termine "infermità", invece, dal latino infirmitas, a sua volta derivato da infirmus (in privativo e firmus, fermo, saldo, forte), è dai dizionari della lingua italiana assunto come "termine generico per indicare qualsiasi malattia che colpisca l'organismo (o, più precisamente, lo stato, la condizione di chi ne è affetto), soprattutto se permanente o di lunga durata e tale da immobilizzare l'individuo, o da renderlo totalmente o parzialmente inabile alle sue normali attività ..."; esso indica la "condizione di chi è ammalato, invalido. In particolare: qualsiasi tipo di malattia o di affezione morbosa, per lo più grave e di carattere permanente, che colpisce una persona, o, per estensione, il corpo, un suo membro, una sua parte.... Difetto fisico, menomazione... Insufficienza, deficienza; inadeguatezza...". E la predetta sentenza di questa Suprema Corte ulteriormente rileva che tale termine "esprime un concetto statico, un modo di essere senza, alcun riferimento al tempo di durata ... sicché, in sostanza, "la nozione medico - legale di 'malattia di mente' viene identificata nell'ambito della più vasta categoria delle 'infermità'...", riconoscendosi "un valore generico al termine 'infermità' e un valore specifico al termine 'malattia'...". Anche a voler seguire l'opinione di una autorevole voce della dottrina, secondo cui quella della differenza tra malattia ed infermità, nel contesto della tematica che qui rileva, sarebbe, oggi, "una questione meramente nominale, questione solo di parole, di cui non esiste più alcun concetto" rimane, nondimeno, che nella prospettazione codicistica, il termine di infermità deve ritenersi, in effetti, assunto secondo una accezione più ampia di quello di malattia, e già tanto appare mettere in crisi contrastandolo funditus, il criterio della totale sovrapponibilità dei due termini e con esso, fra l'altro ed innanzi tutto, quello della esclusiva riconducibilità della "infermità" alle sole manifestazioni morbose aventi basi anatomiche e substrato organico, o, come altra volta è stato più restrittivamente detto, come "malattia fisica del sistema nervoso centrale". 10.2 Vero è, d'altra parte, che gli articoli 88 e 89 non possono non esser letti che in stretto rapporto, sistematico e derivativo, con il generale disposto dell'art. 85 c.p., sicché, anche in riferimento alle rigide classificazioni nosografiche della psichiatrica ottocentesca di stampo organicistico - positivistico, pertinente è il rilievo di autorevole dottrina, secondo cui, proprio a conferma della maggiore ampiezza del termine di "infermità" rispetto a quello di "malattia", "non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l'attitudine a compromettere gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo", che lasci integra o meno la capacità di "poter agire altrimenti" posto che - come di sopra si è già accennato - solo nei confronti di soggetti dotati di tali capacità può concretamente parlarsi di colpevolezza. E si è da altra autorevole voce della dottrina anche osservato che "certo, una formulazione normativa che, seppure a livello esemplificativo, intervenga a sottolineare più incisivamente il potenziale rilievo di disturbi psichici che, anche al di fuori di malattie psichiatriche..., valgano egualmente ad indiziare l'imputabilità..., è in sede di riforma auspicabile. Essa non è però essenziale, poiché anche l'attuale art. 88, interpretato nel sistema delineato dall'art. 85 (soprattutto) e dalle altre disposizioni in tema di capacità di intendere e di volere, consente di pervenire alle medesime conclusioni". Tanto comporta anche la irrimediabile crisi del criterio della ritenuta necessaria sussumibilità dell'anomalia psichica nel novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche. D'altronde, a tale sostanzialistica esigenza mostrano, talora implicitamente, di fare riferimento tutte quelle decisioni di questa Suprema Corte, le quali hanno ritenuto che sia essenziale non tanto la rigida classificabilità del disturbo psichico in una Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello specifica categoria nosografica, quanto, invece, la sua attitudine ad incidere, effettivamente e nel caso concreto, nella misura e nei termini voluti dalla norma, sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente (Cass., Sez. I, n. 33230/2004; id., Sez. I, n. 24255/2004; id., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 558/1992; id., Sez. I, n. 858/2001; id., Sez. I, n. 13029/1989; id., Sez. I, n. 4861/1988; id., Sez. I, n. 4492/1987; id.; Sez. I, n. 4103/1986; id., Sez. I, n. 7327/1982). Ed avverte al riguardo autorevole dottrina che, in prospettiva riformistica, oggi "del tutto risibile sarebbe una scelta del legislatore a favore del metodo nosografico di stampo tradizionale, in particolare di tipo rigido, giacché la nuova maturata realtà psichiatrico - forense "mostra quello che appare l'irreversibile superamento di una possibile soluzione normativa in tal senso della questione imputabilità. Scelte di tal genere porterebbero allo scollamento fra il dato empirico e quello legislativo e a una eccessiva rigidità della disciplina normativa in punto di imputabilità, a scapito delle istanze garantistiche dettate dal principio di colpevolezza e da quello di risocializzazione" e dovendo, semmai, il legislatore orientarsi "a livello normativo a soluzioni tipiche del programma cd. di scopo", occorrendo al riguardo "potenziare quello che si è definito il terzo piano del giudizio di imputabilità, cioè quello sanzionatorio, relativo all'opportunità di punire e alla scelta del tipo di sanzione in ragione della sensibilità che il singolo agente manifesta nei confronti della stessa". 11.0 Il più moderno e diffuso Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM - IV, messo a punto dall'American Psychiatric Association nel 1994 - in gran parte sovrapponibile all'altra classificazione dettata dall'ICD - 10, adottata nel 1992 da gran parte degli Stati membri della Organizzazione Mondiale della Sanità -, utilizzato da quasi tutti gli esperti psichiatri, enuclea - con una nomenclatura nosografica che richiama sindromi e non malattie - i principali disturbi mentali in diciassette classi diagnostiche, e tra queste include l'autonoma categoria nosografica dei disturbi della personalità, che comprende, suddivisi in tre gruppi, il disturbo paranoide di personalità, quello schizoide, quello schizotipico, quello antisociale, quello borderline, quello istrionico, quello narcisistico, quello evitante, quello dipendente, quello ossessivo compulsivo, e rimanda anche ad una categoria residua, quella del "disturbo di personalità non altrimenti specificato" nella quale andrebbero ricondotte "le alterazioni di funzionamento della personalità che non soddisfano i criteri per alcuno specifico Disturbo della Personalità". Tali disturbi della personalità rientrano nella più ampia categoria delle psicopatie, ben distinta, com'è noto, da quella delle psicosi, queste ultime considerate, anche dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ex ceteris, Cass., Sez. VI, n. 24614/2003; id., Sez. I n. 659/1997), vere e proprio malattie mentali, comportanti una perdita dei confini dell'Io; il disturbo della personalità, invece, si caratterizza come "modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle aspettative di cultura dell'individuo", e "i tratti di personalità vengono diagnosticati come Disturbo della Personalità solo quando sono inflessibili, non adattivi, persistenti, e causano una compromissione sociale significativa o sofferenza soggettiva". D'altronde, pure si annota in dottrina che nel 1997, nel nostro Paese, i disturbi della personalità hanno inciso notevolmente sul numero delle ammissioni ai servizi psichiatrici degli istituti di cura: su un totale di 52.443 ammissioni per "neurosi e turbe psichiche non psicotiche", ben 10.862 sono stati per disturbi della personalità; ed anche tali dati empirici, pure indicativi di un generalizzato apprezzamento medico diagnostico di siffatte patologie, non possono non assumere notevole rilievo al riguardo. In dottrina sono state espresse riserve su tale catalogazione, rilevandosi il suo "eccessivo nominalismo" e come essa consegua alla premessa che "non esiste una definizione soddisfacente che specifichi i precisi confini del concetto di disturbo mentale", e ponendosi "l'altra difficoltà, di ordine semantico, relativa all'uso di questa, o quella terminologia per definire la stessa sindrome che spesso appare tra 'come se' fosse entità clinica a sé stante...". Si è anche rilevato che - come già anticipato - nel DSM "il concetto di 'disturbo' si colloca al di fuori di una ottica eziopatogenetica", cioè "non si parte dall'idea che a ogni disturbo corrisponde una entità fondata su una specifica eziopatologia" ma si parla di disturbo solo in senso sindromico". Ora, queste ed altre osservazioni critiche meritano indubbia attenzione, sia per la soggettiva autorevolezza della fonte che le esprime, sia per la oggettiva loro rilevanza. E però, anche la dottrina psichiatrico - forense appare concordare, ormai, sulla circostanza, che, essendo questo il sistema diagnostico più diffuso, ad esso occorra fare riferimento per la riconducibilità classificatoria del disturbo; e, per altro verso, nessun dubbio - come pure si riconosce in dottrina - dovrebbe oggi permanere sulla circostanza che anche ai disturbi della personalità possa essere riconosciuta la natura di "infermità", e quindi una loro potenziale attitudine ad incidere sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente, alla stregua delle ultime e generalmente condivise acquisizioni del sapere psichiatrico, anche sussunte nella ricognizione nosografica contenuta nel citato DSM. Vero è, poi, che tale catalogazione si Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello fonda su basi sindromiche e non eziologiche, ma (così proponendosi un modello classificatorio di natura sostanzialmente pragmatica, verso il quale, per vero, appare condivisibilmente orientata la attuale scienza psichiatrica), per un verso (come ancora si annota in dottrina), è presente nella psichiatria forense "un consenso quasi unanime circa la improponibilità oggi di una spiegazione monoeziologica della malattia mentale" o, per altro verso, è ricorrente nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, come si è visto, l'affermazione che rilevino al riguardo anche "disturbi clinicamente non definibili che tuttavia abbiano inciso significativamente sul funzionamento dei meccanismi intellettivi o volitivi del soggetto". La non definibilità clinica del disturbo può anche derivare dalla (o comportare la) non accertabilità eziologia dello stesso, in un campo poi, quello della mente umana, ancora avvolto da cospicuo connotazioni di "dubbio e mistero" e da incoglibile esoterismo patogenetico. E nel campo medico pure si parla di "malattie funzionali: termine usato per indicare le malattie in cui non vi sono segni dimostrabili di alterazioni di organi particolari, sebbene le prestazioni di essi siano ridotte". E quanto all'"eccessivo nominalismo" ed ai limiti "di ordine semantico" della espressione, deve ritenersi che (non solo de iure condito, ma, verosimilmente, anche de iure condendo, in riferimento a progetti di riforma di cui più oltre si dirà) il problema non sembra essere quello del riferimento meramente nominalistico ad una formula piuttosto che ad un'altra, che, da sole, difficilmente possono avere assoluta ed oggettiva capacità descrittiva e chiarificatrice, definitivamente risolutoria; qualificata dottrina medico - legale pure afferma, al riguardo, che "appare un semplice esercizio dialettico disquisire su infermità ed anomalia e sulle etichette diagnostico - nosografiche perché al legislatore ed al giudice non interessa "quello che c'è a monte" ma se la capacità di intendere o di volere era (o non era) annullata o grandemente scemata al momento del fatto" (può osservarsi che, in verità, al giudice deve interessare anche "quello che c'è a monte" esso costituendo snodo rilevante per la espressione ed il controllo del giudizio sulle capacità intellettive e cognitive dell'agente; ma, indubitabilmente, ciò che definitivamente rileva è solo l'accertamento di queste ultime, ai fini dell'imputabilità). Si tratta, invece, di stabilire in concreto, e non in astratto, la rilevanza di alcune tipologie di disturbi mentali, sicché, quanto a quella del "disturbo di personalità" che qui interessa, si tratta di accertare e stabilire come esso si manifesti in concreto, nel soggetto, nel caso singolo: od ove l'accertamento svolto sia indicativo di una situazione di infermità mentale che escluda la rimproverabilità della condotta al soggetto agente, cioè la sua colpevolezza - secondo quanto si è sopra detto -, non può non trovare applicazione il disposto della norma in questione, in riferimento al generale principio indicato dall'art. 85 c.p.. E per il resto, quanto al rapporto od al contenuto dei due piani del giudizio (quello biologico e quello normativo), il secondo non appare poter prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico, dovendosi anche ritenere superato l'orientamento inteso a sostenere la "estrema normativizzazione del giudizio sulla imputabilità", che sostanzialmente finisce col negare la base empirica del giudizio medesimo, pervenendo "alla creazione di un concetto artificiale" sicché, postulandosi, nella simbiosi di un piano empirico e di uno normativo, una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest'ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare - pena la impossibilità stessa di esprimere un qualsiasi giudizio - e, pur in presenza di una varietà di paradigmi interpretativi, non può che fare riferimento alle acquisizioni scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accolto, più condivise, finendo col costituire generalizzata (anche se non unica, unanime) prassi applicativa dei relativi protocolli scientifici: e tanto va considerato senza coinvolgere, d'altra parte e più in generale, ulteriori riflessioni, di portata filosofica oltre che scientifica, circa il giudizio di relatività che oggi viene assegnato, anche dalla comunità scientifica, alle scienze in genere, anche a quelle una volta considerate assolutamente "esatte", del tutto pacifiche e condivise (nel tramonto "dell'ideale classico della scienza come sistema compiuto di verità necessario o per evidenza o per dimostrazione" come è stato autorevolmente scritto), vieppiù tanto rilevando nel campo del sapere medico. Non sembra, difatti, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, e pur nella varietà dei paradigmi al riguardo proposti e dea relativa indotta problematica difficoltà, che possa pervenirsi ad un conclusivo giudizio di rinvio a fatti "non razionalmente accertabili" a fattispecie non "corrispondenti a realtà", ma non consentire in alcun modo una interpretazione od una applicazione razionali da parte del giudice", situazione che, ove sussistente, sarebbe senz'altro indiziata di evidente contrasto col principio di tassatività (Corte Cost., n. 96/1981; id,. n. 114/1998), per altro verso inducente ad un conseguente giudizio di impossibilità oggi, e verosimilmente domani, di dare attuazione al disposto dell'art. 85 c.p. e, prima ancora, di mantenere tale norma, laddove, per vero - come è detto nella relazione della Commissione al Progetto c.d. Grosso del 2000 -, "il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili appare irrinunciabile per un diritto penale garantistico", e la dottrina rimarca che "il concetto di imputabilità... è del tutto Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello fondamentale e del resto ben saldo nella cultura, nella costruzione e negli sviluppi del diritto penale moderno". 11.1 Deve, dunque, ritenersi che anche ai disturbi della personalità può essere attribuita una attitudine, scientificamente condivisa, a proporsi come causa idonea ad escludere o grandemente scemare (in presenza di determinate condizioni, di cui più oltre si dirà), in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente. D'altra parte, anche quell'indirizzo che fa leva sul "valore di malattia" appare evocare un concetto psicopatologico forense, idoneo ad individuare situazioni che, indipendentemente dalla loro qualifica clinica, "assumono significato di malattia", meglio "significato di infermità", per quanto si è sopra chiarito, e quindi idonee ad incidere sulla predetta capacità di intendere e di volere: e pure si avverte che, in ogni caso, "se un tempo si affermava che non tutte le malattie in senso clinico avessero 'valore di malattia' in senso forense, oggi si pone soprattutto l'accento sul fatto che, viceversa, vi possono essere situazioni clinicamente non rilevanti o classificate che in ambito forense assumono 'valore di malattia' in quanto possono inquinare le facoltà cognitive e di scelta". 12.0 Del resto, anche le più recenti legislazioni di altri Paesi (l'art. 122.1 del codice penale francese, modificato nel 1993; l'art. 20 del codice penale tedesco, modificato nel 1975; l'art. 37 del codice penale olandese; l'art. 20 del codice penale spagnolo, modificato nel 1995; l'art. 104 del codice penale portoghese, modificato nel 1995; l'art. 16 del codice penale sloveno del 1995; una nuova legge in materia psichiatrica introdotta in Svezia nel 1992) appaiono discostarsi da un rigido modello definitorio, in favore di clausole "aperte" che, in uno con i criteri normativi, psicologici e biologici, siano idonee alla espressione di un giudizio sulla capacità di intendere e di volere, rispettoso delle esigenze garantistiche e preventive indotte dal caso concreto. Tali formule "aperte" ("disturbo psichico o neuro psichico", "turbe mentali patologiche, per un profondo disturbo della coscienza, per deficienza mentale od altra grave anomalia mentale" "condizioni psicopatologiche di carenza dello sviluppo o disturbo morboso delle capacità mentali", "qualsiasi anomalia o alterazione psichica", "anomalia psichica", infermità mentale permanente o temporanea, disturbi psichici temporanei, sviluppo psichico imperfetto o altra anomalia psichica permanente e grave", "disturbo psichico") appaiono idonee ad attribuire rilevanza anche ai disturbi della personalità, ai fini della imputabilità del soggetto agente. E ciò che accomuna queste disposizioni normative appare essere non solo l'adozione di formule "aperte", elastiche, ma anche l'aver ancorato la valutazione del disturbo alla sua incidenza sulla capacità di valutazione del fatto di reato e quindi della capacità di comportarsi secondo tale valutazione, con la prospettazione, quindi, di un nesso eziologico fra infermità e reato, assunto a requisito della non imputabilità. Può soggiungersi che nelle conclusioni del VII Colloquio Criminologico del Consiglio d'Europa (Strasburgo, 25 - 27 novembre 1985), si osservava, tra l'altro, che "le legislazioni penali esistenti negli Stati membri del Consiglio d'Europa presentano una notevole varietà circa lo terminologie ed i concetti fondamentali concernenti la nozione di responsabilità dell'autore di un reato e dei fattori che possono escludere o attenuare la stessa", e che "la tendenza prevalente è di porre agli esperti un quesito che comprenda, nello stesso tempo, l'aspetto psicopatologico (malattia mentale) e l'aspetto giuridico - normativo (responsabilità o concetti similari)...". 13.0 Le incertezze interpretative e conseguentemente applicative collegate alla esatta individuazione del concetto di malattia mentale, o di infermità mentale, sia sul versante psichiatrico che su quello giuridico, sono state da tempo oggetto di riflessioni e di proposto nell'ambito di progetti di riforma del codice penale. Così, nello schema di disegno di legge - delega del 1992 (c.d. Progetto Pagliaro), era prevista (art. 34) la esclusione della imputabilità per il soggetto che, al momento della condotta, "era, per infermità di mente o per altra anomalia..., in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere... Nei casi suddetti, se la capacità di intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, diminuire la pena". Nello schema del disegno di legge n. 2038/S del 1995 (c.d. Progetto Ritz) si prevedeva (art. 83) che "non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità o per gravissima anomalia psichica, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere"; e sugli stessi presupposti era disciplinato il vizio parziale di merito (art. 84). Nel progetto preliminare di riforma del codice pende (c.d. Progetto Grosso), nel testo del 12 settembre 2000, si prevedeva (art. 96) che "non è imputabile chi, per infermità o per altra grave anomalia...., nel momento in cui ha commesso il fatto, era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere l'illiceità del fatto o di agire in conformità a tale valutazione". Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello Nel testo del 26 maggio 2001, più esplicitamente per il tema che qui interessa, si prevedeva (art. 94) che "non è imputabile chi, per infermità o altro grave disturbo della personalità..., nel momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere il significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione". E nel disciplinare la "finalità del trattamento e diminuzione di pena" (art. 100), si richiamava ancora la "infermità o altro grave disturbo della personalità". Quanto al primo di tali testi del c.d. Progetto Grosso, si legge nella relativa Relazione che "potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula del codice vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale cui essa ha dato luogo"; ma che, nondimeno, si ritiene "preferibile un chiarimento legislativo, mediante l'introduzione, accanto alla infermità, della formula della grave anomalia psichica" che "renderebbe più sicura la strada per una possibile rilevanza, quali cause di esclusione dell'imputabilità, di situazioni problematiche, come le nevrosi e le psicopatie, o stati momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza". Ed alle obiezioni circa il rischio di un possibile indebolimento della tenuta generalpreventiva del sistema penale, si rispondeva rilevando che "nessuna patente di irresponsabilità si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato un controllo esigibile di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell'imputabilità sono situazioni riconoscibilmente abnormi". L'espressione "grave anomalia" è stata, poi, sostituita con quella "altro grave disturbo della personalità anche a seguito dello scetticismo mostrato dalla scienza psichiatrica, che ha rivendicato la utilizzazione della più scientifica definizione del termine "disturbo mentale" e delle riserve avanzata dalla dottrina penalistica, che ha rilevato come il generico contenuto del termine "anomalia" (che "ripropone l'inesistente parametro della normalità") si affianchi a quello altrettanto generico di "infermità", con il rischio di aprire varchi eccessivi a disturbi minori, senza che il richiamo alla "gravità" possa fungere da serio elemento frenante. Ed ha rilevato la Commissione che "la scelta legislativa più ragionevole" è da individuare in quella di "assicurare le condizioni di adeguamento del sistema giuridico al sapere scientifico, evitando prese di posizione troppo rigide e adottando formule atto a recepire la possibile rilevanza dei diversi paradigmi cui dal dibattito scientifico sia riconosciuta serietà e consistenza". Pur evidenziandosi in dottrina una certa ambiguità anche di tale formula sostitutiva, rimane che anche i progetti di riforma del codice sostanziale, sul punto, appaiono improntati ad un orientamento "aperto" nella individuazione della malattia (rectius: infermità) penalmente rilevante e sembrano orientare verso tendenze sostanzialmente conformi a quelle codificate in altri Paesi, abbandonando definitivamente - anche per espresso dictum lessicale - un rigido modello definitorio ed optando per la utilizzazione di formule "elastiche". V'è da aggiungere che nel Progetto del codice penale del 2004 (c.d. Progetto Nordio), che allo stato è possibile conoscere solo nel suo testo provvisorio e non ufficiale, si prevede (art. 48) che "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se nel momento della condotta costitutiva non aveva, per infermità, la capacità di intendere e di volere, sempre che il fatto sia stato condizionato dalla incapacità. Agli effetti della legge penale la capacità di intendere e di volere è intesa come possibilità di comprendere il significato del fatto e di agire in conformità a tale valutazione". Sembra, quindi, che rimanga sostanzialmente immutato l'attuale riferimento lessicale al termine "infermità"; e si legge nel commento di accompagnamento che "si ritiene irrinunciabile il riferimento all'infermità, pur tenendosi presenti i diversi orientamenti teorici, sulla base delle classiche acquisizioni scientifiche della psichiatria, della criminologia e della medicina legale, onde evitare gli sbandamenti applicativi - con apertura a tutti i più originali e diversificati fenomeni in chiave meramente psicologica od emozionale quanto mai da impedire in questo delicato campo, quali connessi a formule generiche ed onnicomprensive del tipo disturbo psichico, disturbo della personalità, psicopatia (fenomeni, secondo prassi censurabili, valutati anche da non specialisti psichiatrici o medico - legali sulla base di parametri socio - culturali, tipo l'abusata figura del soggetto c.d. border line"). 14.0 Anche per tali vie (gli esempi provenienti dalle legislazioni straniere, indicativi di un modello "aperto" di disciplina normativa, e, quanto meno, la gran parte dei progetti riformatori) appare confermarsi l'orientamento del riconoscimento di possibile rilevanza penale ai disturbi della personalità; ed in tal senso appaiono orientati, ancorché con grande cautela, anche cospicua parte della dottrina, della scienza psichiatrica che dà maggiore valore ai contenuti psicologici della infermità mentale, quel filone della giurisprudenza di legittimità del quale si è sopra già detto. Tale conclusivo divisamento, del resto, si appalesa, al postutto, pienamente in consonanza col disposto dell'art. 85 c.p. - di cui, anzi, si pone come ineludibile germinazione - e, più in generale ed ancor prima, con la impostazione sistematica dell'istituto, secondo il suo orientamento costituzionale cui sopra si è accennato: Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello ai fini di tale codificato generale principio, difatti, non può non rilevare una situazione psichica che, inserita nel novero delle "infermità", determini, ai fini della imputabilità, una incolpevole non riconducibilità di determinate condotte al soggetto agente, quale persona dotata "di intelletto e volontà", libera di agire e di volere, cognita del valore della propria azione, che ne consenta la sua soggettiva ascrizione, senza che su tale sostanziale condizione possa fare aggio la mancanza (o la difficoltà) della sua riconducibilità ad un preciso, rigido e predeterminato, inquadramento clinico, una volta che rimanga accertata la effettiva compromissione della capacità di intendere o di volere. 15.0 Lo stesso letterale disposto degli artt. 88 e 89 c.p. indica che non è sufficiente, ai fini della imputabilità, l'accertamento della infermità (per quanto grave essa possa essere, nel suo inquadramento nosografico), ma, nel contesto di un indirizzo "biopsicologico" che si ritiene accolto dal legislatore, è necessario accertare, in concreto, se ed in quale misura essa abbia inciso, effettivamente, sulla capacità di intendere e di volere, compromettendola del tutto o grandemente scemandola. Per quanto riguarda, quindi, per quel che più specificamente qui interessa, i disturbi della personalità, essi che innanzitutto si caratterizzano, secondo il predetto manuale diagnostico, per essere "inflessibili e maladattativi" - possono acquisire rilevanza solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere. Vuole, cioè, dirsi che i disturbi della personalità, come in genere quelli da nevrosi e psicopatie, quand'anche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle "malattie" mentali, possono costituire anch'esse "infermità", anche transeunte, rilevante ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., ove determinino lo stesso risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive. Deve, perciò, trattarsi di un disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, e conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi: ed a tale accertamento il giudice deve procedere avvalendosi degli strumenti tutti a sua disposizione, l'indispensabile apporto e contributo tecnico, ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dalle acquisizioni processuali. Tali requisiti ha più volte evocato la giurisprudenza di questa Suprema Corte che ha esaminato la incidenza, in subiecta materia, per lo più delle psicopatie, nel cui novero sono ascrivibili, come s'è detto, i disturbi della personalità. Si è, così, fatto riferimento, nei diversi e variegati contesti motivazionali apprezzati, ai casi in cui "... "le c.d. personalità psicopatiche..., per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato patologico, uno squilibrio mentale incidente sulla capacità di intendere e di volere" (Cass., Sez. I, n. 33130/2004, in una fattispecie in cui è stata esclusa la rilevanza di un disturbo della personalità di tipo borderline, "analiticamente puntualmente motivato"; id., Sez. VI, n. 7845/1997, ancora in tema di un disturbo della personalità borderline); al "carattere di cogente imperatività" (Cass., Sez. 27708/2004, in riferimento a "disturbo delirante cronico"); alla infermità "che incida in modo rilevante sui processi intellettivi e volitivi", rendendo il soggetto incapace "di rendersi conto del valore delle proprie azioni e di determinarsi in modo coerente con le rappresentazioni apprese" (Cass., Sez. I, n. 24255/2004, a proposito di "particolari tratti della personalità e di un prospettato, ma escluso, "disturbo borderline di personalità"); alla manifestazione del disturbo, con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi" (Cass., Sez. I, n. 19532/2003, a proposito di "nevrosi e psicopatie" id. Sez. I, n. 3536/1997, ancora a proposito di "nevrosi e psicopatie" e sussistenza o meno di una "degenerazione della sfera intellettiva e cognitiva dell'agente"); alla sussistenza di "una persistente coscienza ed organizzazione del pensiero", o di un avvenuta rottura del rapporto con la realtà" (Cass., Sez. I, n. 15419/2002, a proposito di "disturbi della personalità di tipo borderline" con "componenti narcisistiche" ritenute, nella specie, non "sufficienti a configurare una situazione di impossibilità di scegliere"); ad "uno squilibrio mentale a causa della intensità delle deviazioni caratteriali" (Cass., Sez. I, n. 13029/1989, indotto da "una gravità della psicopatia tale da determinare un vero e proprio stato patologico"; ad una "rivoluzione psicologica interna per cui l'individuo è diventato estraneo a se stesso", ad "una effettiva compromissione della coscienza, attestata da uno stato confusionale acuto", (Cass., Sez. I, n. 4492/1987). Anche l'indirizzo giurisprudenziale che, più specificamente ed esplicitamente, fa riferimento al "valore malattia", appare prospettare non già una sovrapposizione nosografica dei due termini "malattia" ed "infermità", ma piuttosto una coincidenza di risultati valutativi quanto ai finali esiti della sussistenza o meno di una compromissione della capacità intellettiva e volitiva: il tema risulta in particolare più diffusamente affrontato nella citata sentenza n. 4103/1986, della I sezione penale, la quale - puntualizzata la differenza tra "malattia" ed "infermità" - rileva che con tale ultimo concetto "si intende esprimere il 'grado di diversità' fra le direttive abituali di una personalità ed i modi di reazione suoi propri, da un lato, ed il suo comportamento abnorme dall'altro, in Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello modo da poter chiarire come, partendo dall'essere 'infermo' dell'individuo, siano state in concreto limitate o addirittura annullate le possibilità di un minimo adattamento individuale alla convivenza sociale". 15.1 Ne consegue, per converso, che non possono avere rilievo, ai fini della imputabilità, altre "anomalie caratteriali", disarmonie della personalità", "alterazioni di tipo caratteriale", "deviazioni del carattere e del sentimento" quelle legato "alla indole" del soggetto, che, pur afferendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma, secondo quanto sopra si è detto. (cfr., ex ceteris, Cass., Sez. III, n. 22834/2003; id., Sez. VI, n. 7845/1997). Né, di norma, possono assumere rilievo alcuno gli stati emotivi e passionali, per la espressa disposizione normativa di cui all'art. 90 c.p. (sul quale, peraltro, puro si appuntano critiche dottrinarie, ritenendosi, fra l'altro, tale disposizione "priva di una fondata base empirica e motivata piuttosto da mere considerazioni di prevenzione generale e per questo in contrasto con il principio di colpevolezza"), salvo che essi non si inseriscano, eccezionalmente, per le loro peculiarità specifiche, in un più ampio quadro di "infermità", avente le connotazioni sopra indicate (Cass., Sez. I, n. 967/1998; id., Sez. I, n. 3170/1995; id., Sez. I, n. 12429/1994; id., Sez. I, n. 4954/1993; id., Sez. I, n. 1347/1991; id., Sez. V, n. 8660/1990; id., Sez. I, n. 9084/1987; id., Sez. VI, n. 2285/1985); concordi su tanto anche autorevoli voci della dottrina, che fanno riferimento a "casi di estrema compromissione dell'Io". 16.0 È, infine, necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo. Invero, la dottrina ha da tempo posto in rilievo come le più recenti acquisizioni della psichiatria riconoscano spazi sempre più ampi di responsabilità al malato mentale, riconoscendosi che, pur a fronte di patologie psichiche, egli conservi, in alcuni casi, una "quota di responsabilità", ed a tali acquisizioni appare ispirarsi anche la L. n. 180/1978, nel far proprio quell'orientamento psichiatrico secondo cui la risocializzazione dell'infermo mentale possa avvalersi anche della sua responsabilizzazione in tal senso. L'esame e l'accertamento di tale nesso eziologico si appalesa, poi, necessario al fine di delibare non solo la sussistenza del disturbo mentale, ma le stesse reali componenti connotanti il fatto di reato, sotto il profilo psico - soggettivo del suo autore, attraverso un approccio non astratto ed ipotetico, ma reale ed individualizzato, in specifico riferimento, quindi, alla stessa sfera di possibile, o meno, autodeterminazione della persona cui quello specifico fatto di reato medesimo si addebita e si rimprovera; e consente, quindi, al giudice - cui solo spetta il definitivo giudizio al riguardo - di compiutamente accertare se quel rimprovero possa esser mosso per quello specifico fatto, se, quindi, questo trovi, in effetti, la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo "settoriale", che in tal guisa assurge ad elemento condizionante della condotta: il tutto in un'ottica, concreta e personalizzata, di rispetto della esigenza generalpreventiva, da un lato, di quella individualgarantista, dall'altro. Né può ritenersi che a tanto osti il dettato della norma: facendo essa riferimento solo "al momento in cui lo ha commesso", si intende, con ciò, postulare la necessaria attualità della capacità di intendere e di volere a quel momento, ma non si esclude affatto che quella capacità debba essere, appunto a quel momento, valutata, nella sua incidenza psico - soggettiva in riferimento al fatto medesimo, in relazione alle connotazioni motivanti ed eziologiche dello stesso. Ed a tali principi si sono spesso richiamate, già da tempo, molte sentenze di questa Suprema Corte (Cass., Sez. I, n. 4103/1986; id., Sez. I, n. 4122/1986; id., Sez. I, n. 14122/1986; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 13029/1989; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 19532/2003). 17.0 Possono a tal punto raccogliersi le fila del discorso giustificativo sin qui svolto e trarsi la conclusione che deve essere affermato il seguente principio di diritto, ai sensi dell'art. 173.3 disp. att. c.p.p.: ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di "infermità" anche i "gravi disturbi della personalità", a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l'intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa. 18.0 Alla stregua di tanto, sussistente si appalesa l'error iudicis nel quale è incorsa la sentenza impugnata; la quale è erroneamente pervenuta alla esclusione del vizio parziale di mente evocando il criterio della "alterazione patologica clinicamente accertabile" e della "alterazione anatomico - funzionale della sfera psichica", ritenendo che in ogni caso i "disturbi della personalità... non integrano quella infermità di mente presa in considerazione dall'art. 89 c.p.". Gli ulteriori profili di doglianza come già anticipato, sono stati prospettati dal ricorrente - la cui difesa tanto ha espressamente ribadito anche nell'odierna udienza - come intimamente, e propedeuticamente, connessi al primo motivo di censura; sicché essi ne rimangono, allo stato, assorbiti. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello 19.0 La decisione va, dunque, annullata, con rinvio, per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Roma. P.Q.M. La Corte annulla l'impugnata sentenza e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Roma. Roma 25 gennaio 2005. Depositata in cancelleria il 8 marzo 2005. Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello ALLEGATO 2 Corte Costituzionale, 16 aprile 1998, n. 114 Con tre ordinanze di identico contenuto, rese in tre procedimenti a carico dello stesso imputato, il Pretore di Ancona, Sezione distaccata di Fabriano, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 94 e 95 del codice penale. A premessa della ordinanza il giudice a quo, espone, in relazione ai tre procedimenti, che si era fatto luogo ad una compiuta istruzione dibattimentale, sentendo testi ed ammettendo la produzione di documenti, fra i quali una dichiarazione di un centro di accoglienza, con la quale si dava atto che l'imputato era inserito in un regime residenziale presso tale centro comunitario da circa due anni per un programma psicoterapeutico di recupero; e che nel corso di detta istruzione sia i testi che lo stesso imputato avevano dichiarato che all'epoca dei fatti contestati (sui quali l'imputato asseriva di nulla ricordare) il soggetto in questione era sovente in preda agli effetti sia di alcool che di sostanze stupefacenti; con la conseguenza che, eccepito dalla difesa lo stato di cronica intossicazione sia da alcool che da sostanze stupefacenti, era stata disposta perizia volta ad accertare se l'imputato all'epoca dei fatti versasse nelle condizioni di cui all'art. 95 del codice penale. Aggiunge il Pretore che il perito, titolare della cattedra di tossicologia forense, aveva fatto conoscere di non poter rispondere al quesito, sia per la mancanza di qualsivoglia referto clinico o di laboratorio, sia perché gli esami sul periziando, fatti "ora per allora", non avrebbero potuto dar luogo ad alcun risultato di certezza. Tuttavia lo stesso perito "a maggior chiarimento della propria risposta", aveva precisato che uno stato di intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti può essere anche reversibile in rapporto all'età, alle condizioni generali del soggetto, alla gravità dello stato di intossicazione ed al tipo di sostanza assunta, tutti elementi validi tanto per formulare una diagnosi di intossicazione cronica, di cui all'art. 95 del codice penale, quanto per formularne una di abituale assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti, di cui all'art. 94 stesso codice. A questo punto il Pretore osserva che queste ultime considerazioni del perito si pongono in contrasto con il costante orientamento della giurisprudenza, secondo cui, fermo il carattere della permanenza dell'alterazione patologica proprio della fattispecie di cui all'art. 95, il principale criterio di distinzione tra l'intossicazione cronica e lo stato di cui all'art. 94 cod. pen. starebbe nella irreversibilità della prima. Inoltre questo orientamento della giurisprudenza sarebbe contrastato nell'ambito della scienza medica, alcuni autori facendo rilevare che uno stato permanente ed irreversibile di alterazione cerebrale non si ravvisa che nella rara demenza alcoolica e che al contrario psicosi alcooliche che insorgono nel corso dell'intossicazione cronica (delirium tremens, allucinosi, ecc.) sono suscettibili di guarigione anche in breve periodo di tempo; mentre altri autori aggiungono che la definizione stessa di intossicazione cronica da sostanze stupefacenti non ha ragion d'essere, non essendo riscontrabile una patologia di rilievo somatico, psicologico e psichiatrico con caratteristiche di permanenza ed osservabile anche oltre la cessazione dell'abuso. Il Pretore ricorda anche le critiche emerse nella dottrina penalistica sul sistema vigente in materia e assume l'inutilità della disposizione di cui all'art. 95, che già la "Relazione al Re" sul codice del 1930 avrebbe considerato semplice norma di interpretazione autentica e solo per questa ragione "non superflua". Tutto ciò premesso, il Pretore ritiene di non poter risolvere il problema insorto né facendo ricorso al disposto dell'art. 530, comma 3, del codice di procedura penale né ricorrendo al principio secondo il quale il giudice è pur sempre peritus peritorum. Ed infatti il dubbio su una causa di non punibilità presuppone pur sempre che questa causa "si legittimi, sotto il profilo costituzionale, sia quando viene ad escludere sia quando conferma la punibilità": cosa che non avviene quando, come nel caso in esame, si contesti la sussistenza stessa delle basi scientifiche poste a distinzione tra le due ipotesi di cui agli articoli 94 e 95 del codice penale. Egualmente, per quanto concerne l'asserito potere del giudice di non tener conto della perizia uniformandosi alla tralatizia interpretazione giurisprudenziale, non si vede come un simile ordine d'idee possa essere praticato una volta che si pone in discussione "la validità stessa del concetto sotteso agli articoli 94 e 95", con il rischio di pervenire ad una costruzione inaccettabile sotto il profilo costituzionale. Conclude il Pretore che gli articoli 94 e 95 del codice penale, dei quali viene in considerazione nel caso di specie una applicazione alternativa, si porrebbero in contrasto con il principio di ragionevolezza, dal momento che introducono una differenziazione insussistente "non potendo trovare alcun tipo di obiettiva specificazione", e con l'art. 111 della Costituzione, giacché la motivazione "non potrebbe trovare alcuna effettiva esplicazione, risolvendosi in formule stereotipe, incongrue e contraddittorie". 2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Premessa Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello l'autonomia delle categorie giuridiche rispetto alle nozioni scientifiche, specie in tema di colpevolezza, ed evidenziate le ragioni che indussero il legislatore del 1930 a stabilire una particolare disciplina in materia di ubriachezza, l'Avvocatura sottolinea come le cause di esclusione della imputabilità siano esemplificative e costituiscano quindi attuazione del generale principio sancito in materia dall'art. 85 cod. pen. L'esclusione o l'attenuazione della punibilità nel solo caso di intossicazione da alcool riafferma pertanto la regola generale soltanto quando si determini uno stato di alterazione psichica permanente tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, a nulla rilevando che una simile situazione si determini in un numero estremamente esiguo di casi. Per temperare il rigore della disciplina - peraltro già verificata e risolta in senso negativo dalla Corte in tema di ubriachezza volontaria - si potrebbe prospettare, a parere dell'Avvocatura, una lettura dell'art. 95 cod. pen. che ne consenta l'applicabilità in tutti i casi in cui la intossicazione sia di tale portata da rendere inapplicabile il concetto di actio libera in causa. Negato quindi fondamento alle prospettate censure di irragionevolezza, cadono anche i rilievi formulati in riferimento all'art. 111 Cost., in quanto "ingiustamente il giudice rimettente si sente vincolato al nomen che al disturbo ha attribuito la perizia medica", giacchè è al contenuto sostanziale della diagnosi che occorre fare riferimento per sussumere la situazione nell'una o nell'altra delle figure evocate. Considerato in diritto 1. - Poiché le ordinanze sollevano l'identica questione, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza. 2. - Il Pretore di Ancona, Sezione distaccata di Fabriano, solleva questione di legittimità costituzionale degli articoli 94 e 95 del codice penale sotto il profilo della loro irragionevolezza e sotto quello, collegato, della lesione dell'art. 111 Cost. per la impossibilità di motivazione di un provvedimento giurisdizionale che debba fondarsi sulla impossibile differenziazione delle due fattispecie. Il Pretore contesta infatti la validità scientifica della distinzione tra abitualità nell'ubriachezza e nell'uso di sostanze stupefacenti e cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti sulla base di considerazioni svolte al riguardo nell'ambito della scienza medico-legale, considerazioni condivise dal perito d'ufficio, il quale, chiamato a giudicare se nel caso di un imputato era da considerarsi presente una intossicazione cronica da alcool e stupefacenti al momento dei fatti allo stesso ascritti, ha concluso di non essere in grado di rispondere per la inconsistenza della differenziazione tra le due fattispecie dell'abitualità e della cronicità e per la da lui ritenuta inattendibilità della distinzione operata dalla giurisprudenza, fondata su di una asserita irreversibilità della intossicazione cronica. Il giudice rimettente condivide questo giudizio del perito e constata pertanto di non poter far capo alla costante interpretazione giurisprudenziale fondata su presupposti non condivisi dalla scienza medico-legale. Nel caso sottopostogli si dovrebbe trovare una linea di demarcazione tra le due alternative contrapposte dell'abitualità e della cronica intossicazione, mentre ciò non è possibile. La normativa in questione, composta degli articoli 94 e 95 del codice penale, è dunque del tutto irragionevole perché introduce una differenziazione inesistente in astratto in quanto priva di alcun tipo suscettibile di obbiettiva specificazione. Di conseguenza è anche rilevabile nel caso un contrasto con l'art. 111 della Costituzione perché nelle cennate condizioni è impossibile una motivazione che si risolva in qualcosa di diverso dall'adozione di formule stereotipe, incongrue e contraddittorie. Conclude in sostanza per la illegittimità costituzionale di entrambe le disposizioni denunciate. 3. - La questione non è fondata. 4. - Questa Corte non intende certo escludere che il sindacato sulla costituzionalità delle leggi, vuoi per manifesta irragionevolezza vuoi sulla base di altri parametri desumibili dalla Costituzione, possa e debba essere compiuto anche quando la scelta legislativa si palesi in contrasto con quelli che ne dovrebbero essere i sicuri riferimenti scientifici o la forte rispondenza alla realtà delle situazioni che il legislatore ha inteso definire. Nella materia del diritto penale, anzi, questo specifico riscontro di costituzionalità deve essere compiuto con particolare rigore, per le conseguenze che ne discendono sia per la libertà dei singoli che per la tutela della collettività. E tuttavia, perché si possa pervenire ad una declaratoria di illegittimità costituzionale occorre che i dati sui quali la legge riposa siano incontrovertibilmente erronei o raggiungano un tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una applicazione razionali da parte del giudice. Non è tuttavia questo il caso per gli articoli 94 e 95 del codice penale del 1930. 5. - Indubbiamente la disciplina legislativa vigente per la materia in esame non trova nella dottrina psichiatrica e medico-legale una base sicura, ancorché nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale si legga di essa una diffusa motivazione, nella quale ci si riferisce (sia per la netta distinzione tra intossicazione acuta e intossicazione cronica, sia quanto all'esplicito riconoscimento delle difficoltà di Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello distinguere l'ubriachezza abituale dall'etilismo cronico) proprio agli insegnamenti della scienza psichiatrica. Anche nella più recente dottrina penalistica la disciplina stessa è oggetto di dubbi, di controversie e perfino di ferme condanne. Alcuni studiosi trovano tuttavia che la distinzione tra le fattispecie dell'art. 94 e dell'art. 95 è concettualmente chiara, pur non essendo sempre suscettibile di agevole diagnosi. Frequentemente è criticata anche la parificazione, che tale disciplina comporta, tra gli effetti dell'alcoolismo e quelli delle tossicodipendenze; e quanto a queste ultime si rileva (e il rilievo è raccolto nelle ordinanze del giudice a quo) che le regole concernenti l'imputabilità (e più ancora quelle concernenti la pericolosità sociale: vedasi l'art. 221 del codice) non appaiono perfettamente coordinate con i trattamenti che per i soggetti affetti da tossicodipendenza sono stati previsti dalle leggi dell'ultimo quarto di secolo: sì che sono presenti auspicii di una profonda revisione della materia ad opera del legislatore. Controverso è anche, sia nella dottrina medico-legale che in quella giuridica, il rapporto che lega la non imputabilità e la semi-imputabilità per intossicazione cronica da alcool e da sostanze stupefacenti rispettivamente al vizio totale e al vizio parziale di mente, da taluno ravvisandosi una piena identificazione della intossicazione cronica in queste ultime categorie (e in tale senso si esprime anche la giurisprudenza della Corte di cassazione, che esige una autentica affezione cerebrale o una permanente alterazione psichica), da altri invece parlandosi di forme diverse di imputabilità esclusa o diminuita da affiancarsi rispettivamente a quelle del vizio totale e del vizio parziale di mente e per le quali la legge non fa che disporre lo stesso trattamento giuridico. Certo è pure che sulla imputabilità e semi-imputabilità dell'alcooldipendente e del tossicodipendente la dottrina medico-legale segue diverse opzioni e che effettivamente si è domandata, come le ordinanze ricordano, se lo stato definito dalla legge come intossicazione cronica, a prescindere da un suo confinamento a situazioni marginali o rare, sia realmente identificabile attraverso i requisiti della permanenza e della irreversibilità, su cui si fonda una lunga e costante interpretazione giurisprudenziale. Sempre sotto il profilo medico-legale, le difficoltà sono poi accresciute (come del resto per altri accertamenti) dal divario di tempo, spesso molto grande, tra il momento in cui la perizia viene compiuta e il momento - determinante ai fini di stabilire l'imputabilità, la semi-imputabilità o la non imputabilità del soggetto - nel quale il fatto fu commesso (cfr. art. 85 del codice penale). Infine si può riconoscere che la stessa eliminazione vuoi dell'art. 94 vuoi dell'art. 95, postulata in via di illegittimità costituzionale dalle ordinanze del giudice rimettente, potrebbe forse non produrre vistose lacune nell'ordinamento, sia in considerazione dei limiti molto modesti in cui può essere concretamente ridotto l'aumento di pena, tuttavia obbligatorio, previsto dall'art. 94 (di cui si auspica peraltro da alcuni autori la soppressione per l'eccessiva severità dalla quale è ispirato e la cui previsione non è stata ripetuta in alcuno dei recenti progetti di codice penale), sia in considerazione della riconducibilità dell'intossicazione cronica, ove dia luogo ad un effettivo vizio totale o vizio parziale di mente, alle disposizioni oggi dettate dagli articoli 88 e 89. Ciononostante il sistema oggi vigente in materia di imputabilità e semiimputabilità dell'alcooldipendente e del tossicodipendente non presenta il carattere di palese irragionevolezza ipotizzato dal giudice rimettente. 6. - Non può infatti negarsi che, ad onta delle incertezze espresse nella dottrina medico-legale e delle richieste di innovazioni legislative fortemente presenti nella dottrina penalistica, la giurisprudenza ordinaria, segnatamente la giurisprudenza di legittimità, si è attestata da alcuni decenni e senza apprezzabili divergenze su una interpretazione che si presenta con caratteri di certezza e di uniformità nella identificazione dei requisiti della cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti. Secondo tale giurisprudenza, per potersi correttamente invocare lo stato di intossicazione cronica occorre una alterazione non transitoria dell'equilibrio biochimico del soggetto tale da determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico dell'imputato e, dunque, una corrispondente e non transitoria alterazione dei processi intellettivi e volitivi. Ciò significa che l'accertamento dell'imputabilità vien fatto ruotare in ogni caso attorno ad un concetto di "infermità" necessariamente riconducibile, sul piano gnoseologico, ai mutevoli contributi dell'esperienza clinica, cercando in tal modo di dissolvere proprio quei rischi di aperta contraddizione tra scienza e norma sui quali il giudice a quo ha fondato le proprie censure. 7. - D'altra parte non saprebbe negarsi che gli articoli 94 e 95 del codice penale sono inseriti in modo organico - e indubbiamente coerente nel proprio interno - in un sistema completo, quale è quello che il codice penale del 1930 ritenne di dover istituire per l'affermazione od esclusione dell'imputabilità penale dei soggetti che abbiano commesso il reato in stato di ubriachezza o sotto l'azione di sostanze stupefacenti. Tale sistema è notoriamente ispirato a intenti di prevenzione generale improntati a grande rigore. Il suo nucleo primario, rappresentato dagli articoli 92, primo comma, e 93, che parificano i reati commessi in stato di ubriachezza o sotto l'azione di sostanze stupefacenti ai reati commessi in stato di normalità, eliminando le diminuzioni di pena previste nel codice Zanardelli e sottoponendo ad eguale regime penale tanto l'ubriachezza (o assunzione di sostanze stupefacenti) volontaria quanto quella meramente colposa, è tuttavia passato indenne Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello proprio sotto il vaglio della irragionevolezza sin da quando la sua illegittimità costituzionale fu prospettata a questa Corte da una pluralità di ordinanze di rimessione (sentenza n. 33 del 1970). Le restanti disposizioni, tra cui quelle oggi denunciate, sono un corollario di quel nucleo essenziale e primario. È ovvia infatti la libertà del legislatore di segnare con una circostanza aggravante - come nell'art. 94 - il volontario ed abituale riprodursi di quello stato che è già parificato dall'art. 92 al reato commesso in condizioni di normalità mentale; ed è d'altra parte opportuno, proprio in relazione al sistema di rigore instaurato con la sancita irrilevanza penale dello stato tossico acuto, l'avere espressamente escluso che una intossicazione cronica, e cioè non più dominabile dal soggetto, possa dar vita a quella severa parificazione. Tale è stato del resto uno dei pensieri dominanti nella preparazione di questa parte del codice penale, come è dato anche desumere da un passo della relazione ministeriale sul progetto, dove si legge che "non era possibile, e non sarebbe stato giusto, applicare all'intossicazione cronica le norme dell'intossicazione acuta". 8. - A quest'ultimo riguardo una osservazione sembra ancora necessaria. Le ordinanze del giudice a quo, per sottolineare l'inutilità della disposizione di cui all'art. 95 del codice penale, ricordano il passo della "Relazione al Re" in cui è detto che "la disposizione trova la sua ragion d'essere nell'intento di distinguere l'intossicazione acuta dalla cronica, la quale soltanto è equiparabile all'infermità mentale: comunque l'articolo ha valore di interpretazione autentica e, come tale, non può ritenersi superfluo". Questa proposizione - che è contenuta anche nella precedente relazione ministeriale sul progetto del codice penale, dove è sostenuta da una diffusa argomentazione - pone in rilievo un problema già più sopra accennato e controverso nella dottrina medico-legale formatasi in relazione alle disposizioni del codice, se cioè lo stato definito come "cronica intossicazione" dall'art. 95 debba essere considerato un vero e proprio vizio di mente (totale o parziale, a seconda del suo grado). La ricordata giurisprudenza di legittimità, con il suo insistito richiamo al concetto di "infermità", sembrerebbe porsi in questa ottica. E tuttavia la formula usata dalla legge, che si limita a stabilire che "si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 e 89", farebbe pensare assai più ad una assimilazione nel trattamento penale (non imputabilità con totale esclusione della punibilità, o imputabilità diminuita con attenuazione della pena fino a un terzo) che non ad una identificazione. Né, per venire ad epoca più vicina, si può trascurare che nel più importante disegno di nuovo codice penale degli ultimi anni, nell'elencare i casi di esclusione della imputabilità (e corrispondentemente di grande diminuzione della stessa, con conseguente riduzione di pena) è previsto quello in cui il soggetto "era, per infermità o per altra anomalia o per cronica intossicazione da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere". Dove, dunque, alla cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti si fa ancora uno spazio autonomo, non identificandola necessariamente con l'infermità (o semi-infermità) mentale, ma ad esse parificandola sotto il segno dell'assenza o della diminuzione della imputabilità, e dunque della colpevolezza. Ed è proprio in questa opportunità di riaffermare anche nei casi in esame - a prescindere da ogni legittima discussione scientifica sulla esatta nozione dell'infermità mentale e del ricorso che a questa nozione ritiene di fare la giurisprudenza ordinaria - il superiore valore del principio di colpevolezza che deve individuarsi la non irragionevolezza della disposizione di cui all'art. 95 del codice penale. È infatti, in ultima analisi, il riferimento alla colpevolezza o meno del soggetto quello che deve permettere di distinguere, dal punto di vista della volontà del legislatore e per le conseguenze dalla legge previste, la intossicazione acuta da quella cronica: colpevole quella acuta, sia pure dandosi spazio a tutti i trattamenti di recupero e agli altri provvedimenti ritenuti adeguati sul piano dell'applicazione e dell'esecuzione delle pene; incolpevole, o meno colpevole, quella cronica, sia pure attraverso il passaggio, nell'ipotesi della pena soltanto diminuita, per la discussa e discutibile figura della semi-imputabilità. 9. - Così pure, è facendo riferimento al principio di colpevolezza che il giudice deve porsi in grado di risolvere i problemi che si presentano nella concreta applicazione dell'art. 95 del codice penale, facendo applicazione, nel dubbio, proprio delle regole di giudizio espressamente stabilite nei commi 2 e 3 (quest'ultimo comma ritenuto in astratto dalle ordinanze del giudice rimettente riferibile anche alle cause di non imputabilità) dell'art. 530 del codice di procedura penale. Sotto questo profilo una motivazione della sentenza è non solo possibile ma doverosa, anche a prescindere dal pur rilevante parere eventualmente espresso, sia sull'imputabilità che sulla pericolosità sociale, dal perito o dai periti. La motivazione delle sentenze essendo dunque, nei casi come quelli prospettati dalle ordinanze di rimessione, tutt'altro che impossibile, la questione di incostituzionalità sollevata anche in riferimento all'art. 111 Cost. deve ritenersi non fondata. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE Scuola di specializzazione per le professioni legali – Anno Accademico 2011/2012 DIRITTO PENALE I Lezione del 15 dicembre 2011: l’autore del reato dott. Michele Toriello riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 94 e 95 del codice penale, sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, dal Pretore di Ancona - Sezione distaccata di Fabriano, con le ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile 1998.