GRATUITO musiche e culture nel mondo primavera 2010 07 D E O LAMBROGIO I N SPARAGNA D A 09 autunno 2010 www.mondomix.com www.mondomix.com nuoveORCHESTRA cartoline POPOLARE dal portogallo ITALIANA ALI FARKA TOURE .•Concha ELENABuika LEDDA • SQUILIBRI • BRASILE IN MUSICA . Afghanistan . Essaouira . David Cuba Byrne . Recensioni Sommario Mondomix Italia — n°9 autunno 2010 04 Editoriale 06 / 11 AttualitÀ 06 - AttualitÀ-Mondo 07 - AttualitÀ-Sei domande a Giovanna Marini Fabio Barovero 08 - AttualitÀ-Babele 09 - AttualitÀ-Profili 09 - Antonio Castrignanò 10 - luigi cinque 11 - rosa balistreri 12 / 21 MUSICA 12 - concha buika 14 - cuba 17 - afrocubism 18 - Edesio Alejandro 20 - deolinda 23 / 37 360° 09 Antonio Castrignanò 23 - essaouira 28 - specchi afghani 30 - razi mohebi e soheila javaheri 33 - zanzibar festival 34 - festival au desert 35 - african brothers 36 - The Street Foodie 38 / 50 RECENSIONI 38 - Africa 40 - Americhe 42 - Europa 44 - Fusion 46 - Asia 47 - Compilation 48 - Visioni 50 - La World Music che non sapevamo di avere Periodico gratuito Editore FM2 Direttore responsabile Luca Rastello Redazione Elisabetta Sermenghi, Renzo Pognant, David Valderrama, Luca Vergano [email protected] Hanno collaborato Akenataa Hammagaadji, Bertrand Bouard, Ciro De Rosa, Daniele Sestili, Eddy Cilia, Emanuele Enria, Enrico Verra, Fabrizio Giuffrida, Gian Franco Grilli, Giancarlo Susanna, Giovanni De Zorzi, Giulio Cancelliere, Mauro Zanda, Paola Valpreda, Paolo Ferrari, Piercarlo Poggio, Valerio Corzani Pubblicità [email protected] Impaginazione Chiara Tappero / Volumina [email protected] Redazione Corso Moncalieri 331, 10133 Torino (nuovo recapito) Stampa Ages Arti Grafiche Corso Traiano 124, 10127 Torino Registrazione al tribunale di Torino n° 49 del 9 luglio 2008 (periodico culturale) Il logo e il marchio Mondomix sono registrati e di esclusiva proprietà di Mondomix Media SAS. Il logo e il marchio Mondomix in Italia sono licenziati in esclusiva a FM2. Solo Mondomix Media SAS e i suoi licenziatari possono utilizzare il logo Mondomix in pubblicazioni, pubblicità e materiali promozionali. 12 Concha Buika 14 Cuba 23 Essaouira 38 Lobi Traoré 50 David Byrne - Rey Momo 04 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE Mondomix.com www.felmay.it FELMAY 1 2 7 8 9 10 11 12 16 17 18 19 3 4 5 6 NEW!! VOLUME 26 eDITORIALE Trent’anni. Anzi trent’anni e qualche mese visto che era il 24 dicembre 1979. Quasi trentuno anni fa i carri armati di Breznev entravano in Afghanistan per completare una liberazione iniziata qualche anno prima con la cacciata di re Mohammed Zahir Shah. Una liberazione continuata con Mujahideen, Talebani, ISI Pakistano, Al Qaeda, Arabi, Massud (no Massud no. È stato ucciso da emissari di Osama Bin Laden due giorni prima dell’attacco alle Torri gemelle) e poi gli Americani di Enduring Freedom, la Nato e l’ISAF. Ultimi in ordine di importanza e di tempo gli F16 dotati di bombe di La Russa. E prima inglesi, Sikh, arabi, mongoli, persiani. Innumerevoli sono coloro che hanno cercato di liberare l’Afghanistan nel corso dei secoli. Il risultato è un paese in cui solo il 6% della popolazione ha la corrente elettrica, nel quale le mine antiuomo sono superiori, per numero, agli abitanti del paese stesso. Il numero di rifugiati delle guerre degli ultimi anni ammonta a milioni. Forse è venuto il momento che Farsi, Pashtu, Hazara, Uzbeki, Tagichi, Kirghisi,Turkmeni e Dio solo sa quanti altri clan e tribù si liberino da soli e trovino la loro via. Difficilmente possono fare peggio di quanto è stato fatto fino ad oggi. Mondomix racconta questo paese attraverso il cinema, di come esistano ancora uomini, donne, spiriti liberi che non possono fare a meno seguire il loro destino, una spinta più forte di ogni ostacolo. Una bella lezione di vita. E Cuba? Ricordo la mia prima ricerca scolastica al liceo: la Rivoluzione Cubana. Nomi mitici: Che Guevara, Cienfuegos, Fidel Castro. Un altro tempo, un’altra giovinezza. Oggi ci resta una musica bellissima, unica, piena di sentimento e originalità. Il resto è evaporato come il fumo dei suoi famosi sigari. In occasione dell’uscita di AfroCubism ripercorriamo un pò della sua storia musicale, per chi se ne fosse perso qualche capitolo. In copertina i Deolinda, una delle più belle realtà uscite da quel confine dell’Impero che è il Portogallo. Dopo Cristina Branco e Mariza, Misia, Dulce Pontes, i Madredeus e Rodrigo Leao, ultimi in ordine di tempo i Deolinda ci presentano una personale versione del Fado, musica lusitana par excellence. Ancora poco noti in Italia sono già un fenomeno in patria e nel resto d’Europa. L’uscita del loro secondo CD ci fornisce l’occasione per presentarli anche al nostro pubblico. E poi Antonio Castrignanò, Giovanna Marini, Concha Buika, qualche festival e molto altro. Da questo numero oltre alla versione in PDF scaricabile gratuitamente dal sito www.mondomix.com vi segnaliamo la possibilità di consultare la versione digitale interattiva con link a file audio e video, negozi online,... Veniteci a trovare e fateci sapere cosa ve ne sembra. La redazione [email protected] 14 15 thiopiques new 20 vol. 1 - L'age d'or de la musique ethhiopenne moderne 1969-1975 vol. 2 - Azmaris urbains des annèes 90 vol. 3 - L'age d'or de la musique ethiopienne moderne 1969-1975 vol. 4 - Mulatu Astatke Ethio Jazz & Musique Instrumentale, 1969-1974 felmay 09 AUTUNNO 2010 13 EGEA distributore esclusivo per l’Italia 21 22 23 new 24 25 vol. 5 - Tigrigna Music 1970-75 vol. 10 - Tezeta - Ethiopian Blues and Ballads vol. 15 - Europe meets Ethiopia - Jump to Addis vol. 6 - Mahmoud Ahmed Almaz 1973 vol. 11 - Alèmu Aga - The Harp of King David vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu The Lady with the Krar vol. 12 - Konso Music & Songs vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè vol. 13 - The Golden Seventies - Ethiopian Groove vol. 19 - Mahamoud Ahmed 1974 - Alèmyè vol. 24 - L'age d'or de la musique ethiopienne moderne 1969-1975 vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya Negus of Ethiopian Sax vol. 20 - Either Orchestra & Guests - Live in Addis vol. 25 - Modern Roots 1971/1975 vol. 7 - Mahmoud Ahmed Erè mèla mèla 1975 vol. 8 - Swinging Addis 1969-1974 vol. 9 - Alèmayehu Eshété vol. 18 - Asguèbba ! vol. 21 - Emahoy Tsegué & Maryam Guèbrou Piano Solo vol. 22 - Alèmayèhu Eshèté 1972/1974 vol. 23 - Orchestra Ethiopia felmay distribuzioni • vendita per corrispondenza • richiedete il catalogo strada Roncaglia 16 - 15033 San Germano AL - Italy ph +39 0142 50 577 fax +39 0142 50 780 [email protected] www.felmay.it 06 Attualità Uccio Aloisi Mentre andiamo in stampa giunge la notizia che il 21 ottobre scorso, all’età di ottantadue anni, se ne è andato Uccio Aloisi. Un lutto che lascia un vuoto incolmabile in quanti hanno avuto modo di conoscerlo e di ascoltarlo. Ci lascia soprattutto la consapevolezza che con lui se ne sia andata una delle ultime testimonianze dirette di un passato recente ma ormai irrimediabilmente perduto della tradizione canora popolare salentina; un’ennesima parte di quel mondo di inconsapevole sapienza contadina che ha gettato radici profonde che ancora oggi continuano a produrre frutti anche se ogni tanto geneticamente modificati. «Amo e mi faccio amare... amo e mi amano… questa è la cosa più importante» disse Uccio in occasione della registrazione del documentario Ritratti dal Salento – Storie di Canti di Piero Cannizzaro del 2005. Un messaggio che nella sua semplicità può apparire ingenuo ma che, in realta, racchiude in sé tutta la forza di un commiato indimenticabile. Online www.myspace.com/uccioaloisi Giovanna Marini Lobi Traoré È inusuale che ad occuparsi della promozione di un disco sia il suo produttore ma è ciò che sta succedendo a Chris Eckman il quale, un po’ alla Alan Lomax, ha registrato in presa diretta (quasi sempre “buona la prima”) l’ultimo disco per voce e chitarra di Lobi Traoré. Pur avendo a disposizione ben altri mezzi tecnici rispetto al grande studioso, nessuno oggi può raccontare meglio di lui, che l’ha registrato, Rainy season blues vista la prematura scomparsa dell’artista. Lobi Traoré se ne è andato stroncato da un infarto prima dell’uscita dell’album, lo scorso 1° giugno, proprio in quella Bamako che aveva dato il titolo al suo primo album con cui aveva raggiunto una visibilità internazionale. Considerato il più plausibile erede di Ali Farka Touré, che ne fu primo mentore, Lobi Traoré lascia un vuoto incolmabile nel mondo della musica africana e non solo. Online www.mali-music.com/Cat/CatL/LobiTraore/ LobiIndex.htm Attenzione! Nuovo indirizzo postale Mondomix Corso Moncalieri 331 10133 Torino Italia Cantante, compositrice, musicologa e ricercatrice Che cosa stai ascoltando in questo periodo? In questo periodo sto ascoltando delle bellissime ballate monodiche e polifoniche da una raccolta fatta dalla regione Piemonte, mi sembrano piuttosto antiche per non dire vecchie e interessanti, quando ne sento una adatta la trascrivo per portarla a scuola e insegnarla ai miei allievi. Quali sono i tuoi dischi preferiti? I miei dischi preferiti sono alcuni di musica di tradizione orale, e molti di musica classica, le suites per violoncello di Bach, la sua Passione di San Matteo, i quartetti e le sonate di Beethoven, il Requiem di Verdi, il Requiem di Mozart, le prime canzoni di Modugno, parecchio Woody Guthrie, Alcune canzoni di De Gregori, come San Lorenzo, il Titanic, La donna cannone, e poche altre cose perché passo sempre il tempo a suonare o preparare pezzi miei e ho poco spazio per altra musica, purtroppo. Qual’è il musicista che ammiri di più? Proprio ora il musicista che ammiro di più è mio padre, Giovanni Salviucci, perché mi sono decisa finalmente a mettermi seriamente ad ascoltare la sua musica per sapere com’era lui, visto che non l’ho potuto conoscere (io nascevo e lui moriva) e devo dire che come compositore giovane, morto a 29 anni, ha scritto pezzi veramente emozionanti per la musica che contengono, la libertà rispetto ai canoni sterili del suo periodo di vita: il neoclassico, anni 30. Li superava con musicalità libera e grande tecnica, permettendosi anche di essere lirico ed emozionante. Con chi ti piacerebbe collaborare, se si creasse l’occasione? In genere io ammiro J.S. Bach, per il senso della struttura musicale che lui ha dato a secoli di musica che venivano dopo di lui, per la sua capacità comunque, mentre è molto geometrico, di essere anche lirico e ispirato. Se volete un musicista d’oggi Arvo Part più o meno per gli stessi motivi per cui ammiro la musica di mio padre. «Più contadini, meno politici» Terra Madre – Torino Ottobre 2010 Si è chiusa con un discorso appassionato e pieno di speranza di Carlo Petrini la terza edizione di Terra Madre. Incontro biennale che si tiene a Torino in concomitanza con il Salone del Gusto e che ha visto la partecipazione di oltre 6.400 persone, provenienti da 160 Paesi del mondo, tra contadini, allevatori, cuochi, pescatori, artigiani, ma pure studenti, studiosi, musicisti e docenti universitari. I lavori del Convegno si possono riassumere nella frase di Edgar Morin «Tutto deve ricominciare e tutto è già ricominciato». Più di una speranza. Una certezza. Online www.terramadre.info 09 AUTUNNO 2010 07 Sei domande a Mondomix.com / ATTUALITà Quali concerti ricordi con più piacere? Con più piacere ricordo i concerti che facevamo negli anni 70, con l’invenzione scatenata di tutto il gruppo,(il Nuovo Canzoniere Italiano, ormai vecchio) e ora molto più recenti, i concerti che faccio con i miei allievi, di canti politici con banda, o di canti contadini, mi diverto molto in quei concerti, ma certo che anche i concerti che faccio con il mio Quartetto Vocale sono una continua gioia, non mi manca il divertimento in questo mio faticoso lavoro, e meno male! Hai artisti giovani che conosci o ascoltato e che ci consigli di seguire? Seguirei con attenzione Carlo Crivelli non più giovanissimo ma autore di bella musica e Franco Piersanti che fa musica da film veramente bella, anche Ennio Morricone mi piace molto nella sua musica da film (C’era una volta in America, Mission tutte le musiche per i film di Sergio Leone, sono magnifiche!). Nel campo della canzone trovo molto interessante Vinicio Capossela che ha invenzione e genialità. Di gente non conosciuta ma da scoprire in questo momento non mi viene in mente nessuno, dovrei pensarci molto e forse andare in giro a ascoltare, il mio problema è sempre lo stesso, dovendo scrivere, preparare i corsi ecc. ho poco tempo da dedicare all’ascolto. Fabio Barovero Compositore, musicista, produttore Che cosa stai ascoltando in questo periodo? Brazzaville in Istanbul, Kanye West Graduation, Krzystof Penderecki Symphony N2 e 4 si sa, capita che alcuni dischi rimangano sul tavolo per mesi, incelofanati, e da lì ti guardano e ti supplicano di essere ascoltati almeno una volta. Confesso che ci sono casi che il mio ascolto non dura più di 5 secondi. E poi ci sono casi in cui questi dischi restano nel vano porta cd a suonare mille volte, per mesi, per un anno intero. È il caso di Brazzaville in Istanbul: canzoni lievi, nostalgiche, con una bella strumentazione... e il caso della fragorosa creatività musicale contenuta nell’ album Graduation di Kanye West. Quali sono i tuoi dischi preferiti? John Coltrane Crescent, Ali Farka Tourè Crescent di John Coltrane è amore musicale ascoltato a 12 anni e mai dimenticato. La musica blues maliana corrisponde ad una possibile idea di massimo confort fuori dal tempo e dalle mode, una specie di focolare domestico e sane radici. Qual’è il musicista che ammiri di più? Ryuichi Sakamoto per la disinvoltura e l’autorevolezza con cui si è approciato a collaborazioni fertilissime pur creando la sua musica originale. Per le qualità del musicista colto capace di creare nel pop contemporaneo. Con chi ti piacerebbe collaborare, se si creasse l’occasione? Djivan Gasparyan / Lauryn Hill un espertissimo veterano che suona uno strumento dal suono sublime, che sa di terra e di vita. Se mi venisse a trovare in studio Lauryn Hill «non mi dispiacerebbe»... Quali concerti ricordi con più piacere? Nusrat Fateh Ali Khan / Prince passai una giornata intera prima di un concerto con i musicisti del “party” di Nusrat. Un vero happening fuori dal tempo con la musica che ti porta via. Hai artisti giovani che conosci o ascoltato e che ci consigli di seguire? Francesco Loccisano, chitarra battente. Ho scoperto Francesco grazie ad alcuni amici musicisti della Locride. Un maestro della chitarra battente, strumento versatilissimo che ho utilizzato fuori dal contesto abituale della tarantella, e inserito in colonne sonore di atmosfera. Un pò liuto arabo, ma anche dobro volendo, e sound angelico, stupefacente. Titolo Sweet Limbo Etichetta Felmay / Egea Online www.barovero.org 09 AUTUNNO 2010 8 Mondomix.com / ATTUALITà Il Folklore immaginario di Valerio Corzani Il Folklore immaginario non è un genere musicale. Piuttosto una predisposizione. Ha a che fare con il tema dell’“altrove” e con il desiderio di trasfigurare le culture. Immaginare i luoghi piuttosto che attraversarli, parafrasare le caratteristiche di una cultura anziché appropiarsene, evocare il suono di una tradizione musicale anzichè recuperarlo integralmente: sono attitudini privilegiate che permettono di sviluppare punti di vista davvero esotici. Alle volte l’estro dei musicisti risolve questi viaggi creativi elaborando soluzioni impreviste e convincenti, in altri casi l’esercizio si tramuta in un ardito equilibrismo molto più vicino al kitsch che alla genialità inventiva. La simultaneità conoscitiva della globalizzazione ha per certi versi accellerato e implementato questo tipo di “escursioni”, per altri ne ha ridicolizzato l’aspetto mitico ed il portato poetico. Sta di fatto che la categoria del folklore “immaginato” è in realtà una categoria frequentata dai musicisti d’ogni tempo e d’ogni dove, mentre, per far le pulci ai termini, quella del folklore “immaginario” è forse una predisposizione più recente che lascia rimbalzare il segno di una pratica meticcia, di un soggetto alchemico, di una continua e sofisticata attività sincretica legata non solo alla sincronizzazione delle culture ma anche a quella dei media, dei commerci, dei linguaggi e delle distanze. Periglioso ma divertente il percorso di chi, da questo punto di vista, decidesse di non formalizzarsi troppo sulle definizioni e di racchiudere nello stesso orizzonte esplorativo qualunque tipo di sguardo rivolto all’altrove. Una delle prime proposte, dal punto di vista storico, arriverebbe dalla penna di Luis Milan e dalla raccolta El Maestro pubblicata a Valencia nel 1536 sul tema della cosiddetta “Pavana Spagnola”. Da lì in avanti si sono susseguite continue elaborazioni del concetto di folk: come citazione, come travestimento, come elaborazione, come reinvenzione di un patrimonio popolare che poteva servire e ispirare il patrimonio colto. Ma, in realtà, sono state le musiche extracolte a fungere insieme da laboratorio e da matrice. Il folk del mondo si è rifranto su se stesso e sui generi guida (il jazz, il pop, il rock, la canzone d’autore), in un continuo gioco di specchi che ha trovato menti illuminate e pronte a “immaginarlo”. In questo senso negli ultimi decenni si sono rivelate anche genìe di musicisti sostanzialmente specializzate in questo folk che non appartiene a niente e a nessuno e che si nutre dell’idea di folk, più che degli stilemi veri e propri. Il folk immaginario come sorprendente testimonianza di un’inclinazione, di una “predisposizione” che diventa abitudine creativa in un senso, se non affine, senz’altro limitrofo a quello raccontato da Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger in un saggio dal titolo L’invenzione della Tradizione. «Le tradizioni che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta» scrive Hobsbawm e senza saperlo evoca gente come Jon Hassell, Jan Garbarek, Stephan Micus, Steve Tibbets, Arild Andersen, le islandesi Amiina, i francesi Yann Tiersen e René Aubry, i nostri Giovanni Seneca, Rocco de Rosa, Nicola Alesini, l’ensemble pugliese de L’Escargot, tutti artisti che possono essere definiti etnici solo se l’idea di “matrice etnica” viene declinata in maniera randomica, approssimativa, sfuggente, camaleontica. Un’idea e una matrice in cui il folk immaginario diventa sinonimo di “mondi musicali immaginari”, non piu’ soltanto folk. 09 Profili Babele La tradizione in divenire di Antonio Castrignanò di Ciro De Rosa Di tempo ne è trascorso dagli anni ‘90, quando Antonio Castrignanò si rivolse al musicista e ricercatore Luigi Chiriatti per imparare a suonare il tamburello. Gli disse: «Se nu ‘mparu cu sonu lu tamburu me tajiu la manu», vale a dire «se non riuscirò a suonare il tamburello mi taglio la mano». Erano i tempi delle feste nelle corti, di quel revival della tradizione partito dal basso, prima che accademici, politici e musicisti di tutta Italia comprendessero l’entità del fenomeno. Da lì è partito l’incontro con i testimoni della tradizione, tra i quali Luigi Stifani, Gli Ucci, Lucia De Pascalis, i Zimba, Cici Cafaro per coltivare la passione con una «musica dall’identità nobile», come rimarca nella nostra chiacchierata telefonica Antonio, trentatré anni, nativo di Calimera, cuore della Grecìa salentina. Segue la militanza in formazioni centrali nella riproposta del repertorio orale salentino, come Canzoniere di Terra d’Otranto, Canzoniere Grecanico Salentino, Aramiré. Poi arriva in pieno boom l’esperienza come vocalist e tamburellista nell’Orchestra della Notte della Taranta. Alla notorietà perviene però con la colonna sonora di Nuovomondo, bella pellicola di Emanuele Crialese. Lavoro articolato, con frammenti di arie, voci e cori arcaici, che racconta emigrazione, viaggio, nostalgie e speranze, che ha richiesto un «approccio istintivo», rileva Castrignanò,«ma anche la necessità di uscire fuori dalla musica tradizionale salentina». Mara la fatia Il suo nuovo album Mara la fatia, che in salentino significa amara è la fatica, persegue l’idea forte di rendere omogenei repertorio tradizionale e nuove composizioni, in nome di una permanenza che Antonio ricerca, persuaso che nel Salento «sia ancora poco sviluppato il lavoro di continuità con la tradizione». Da qui, nasce un disco che intreccia lavoro e notte, quest’ultima intesa come momento di riflessione, di sofferenza, d’emozioni, d’amori ma ancora di vita segnata da dura fatica e sfruttamento. Le due anime dell’album si sviluppano in 11 episodi: liriche tradizionali, musicate dall’artista di Calimera e scrittura originale. «Scelta emozionale», dice ancora Castrignanò, «che mi ha spinto ad incidere i brani che rappresentano un mio percorso di vita». Al suo fianco sono Attilio Turrisi (chitarra classica e battente), Gianluca Longo (mandola, mandolino, cetra), Giulio Bianco (zampogna, flauti, armonica), Ninfa Giannuzzi (voce), Rocco Nigro (fisarmonica), oltre ad alcuni ospiti. L’album è stato registrato in presa diretta nelle sale di Palazzo Palmieri a Martignano (Le). Il sottotitolo Storie di pizziche tarante e tarantelle è accattivante ma anche fuorviante, perché qui non siamo di fronte all’abusato e ormai stereotipato mix di classici salentini, ma alla conferma di un artista originale che, pur rispettoso per l’insegnamento della tradizione, invita a pensare la musica come un divenire. LA SCALETTA Apertura con l’energia ritmica impressa ad Aradeo, una pizzica pizzica, trascinante per la presenza di chitarra battente, tamburello ed armonica a bocca. Mara la fatia, con l’incipit delle voci del mondo del lavoro rurale, ha una ritmica insistente con daf e tamburello in primo piano e sequenze irresistibili delle corde di Gianluca Longo e del violoncello di Redi Hasa. È un commento al lavoro, con un contrasto tra rassegnazione e volontà nell’affrontare le fatiche quotidiane della campagna. Anche Lu Sule Calau, tratta dal repertorio dei Cantori di Spongano, insiste sul tema dello sfruttamento del lavoro: il caporalato è storia ancora attuale di sfruttamento di uomini e donne di Puglia, di uomini e donne d’Africa. Qui spicca l’intervento nitido di Giancarlo Parisi alla zurna e ai flauti. Il tema dell’amore irraggiungibile domina nella pizzica Tremulaterra, che contiene versi di rara bellezza e un abile ordito di corde, zampogna e tamburello. La delicata Canto al Buio è contraddistinta da eccellente ricerca timbrica. La scrittura di Castrignanò si ispira alle nenie raccolte negli anni ‘50 da Alan Lomax nella regione. Qui il violoncello di Redi Hasa è messaggero di fascinazione. Vena ironica e storie di donne protagoniste in Signora Madama, con un irresistibile pianoforte di Luana Ricci, e Maria Nicola. Racconto di un amore lontano La luna gira, che richiama nello stile vocale e nei versi il cantastorie garganico Matteo Salvatore. Altro episodio di punta, altamente evocativo, è Cantu a Trainiere, un canto a distesa, rielaborazione con marcata matrice ritmica mediterranea di un canto di carrettieri. Mula pietra, ballata del poeta contadino Cici Cufaro, racconta come pazienza e determinazione siano viatico per l’agognato amore. La chiusura con la serenata Muntanara, in cui ancora primeggia il pianoforte della Ricci, è il tributo al repertorio di un altro gigante della tradizione garganica, Andrea Sacco da Carpino. Titolo Mara la fatìa Etichetta Felmay / Egea Online www.felmay.it 09 AUTUNNO 2010 09 AUTUNNO 2010 10 Nata in una famiglia poverissima a Licata, in provincia di Agrigento il 21 marzo 1927, fu scoperta a Firenze da Mario De Micheli, un critico d’arte, e cominciò a cantare in pubblico all’inizio degli anni ‘60. Fu inserita da Dario Fo nello spettacolo Ci ragiono e canto, cui partecipavano cantastorie provenienti da varie regioni italiane. Pochi mesi prima della sua morte, nel 1990, Rosa raccontò la sua vita all’amico scrittore Giuseppe Cantavenere e dalle loro conversazioni quest’ultimo pubblicò un libro, Rosa Balistreri, Una grande cantante folk racconta la sua vita, edito da La Luna nel 1992 (e oggi purtroppo fuori catalogo). L u i g i Cinque Scienza e magia di Giulio Cancelliere Da sempre Luigi Cinque intende la cultura come integrazione di linguaggi, sensibilità, intelligenze. È tra le personalità artistiche italiane che più hanno dato impulso a quella che oggi si definisce multiculturalità: ha lavorato nel cinema, nel teatro, nel balletto, in televisione, in campo letterario, ha collaborato col Canzoniere del Lazio, ha inciso per Cramps, si è impegnato in iniziative sociali e civili, ha girato il mondo offrendo la sua musica e ricevendo stimoli ed elementi per nuove imprese artistiche. Anche l’ultimo disco, Luna Reverse, realizzato con la sua formazione base, Hypertext Orchestra, nasce da un viaggio per la realizzazione di un prossimo film, Transeurope Hotel. Sarà una storia che coniugherà il pensiero magico con la razionalità scientifica, in linea con le nuove tendenze della fisica quantistica che concepiscono l’universo, non più come un meccanismo, ma come una sorta di pensiero, dove tutto è possibile. E dal punto di vista musicale come si articolerà? Attraverso la relazione tra jazz, musica contemporanea e musica tradizionale e tra musicisti italiani e brasiliani. Ci sono brani registrati con l’Hypertext, il Balanescu Quartet, Andrea Biondi, Mauro Palmas, Sal Bonafede, eccetera; altri brani che sono il risultato di incontri fatti durante questo viaggio: in Brasile ho conosciuto Luizinho do Gege, percussionista magico e Armandinho, che suona il bandolin come un bluesman; a Buenos Aires ho incontrato Daniel Berardi, suonatore di charango e così via. Di fatto non è molto diverso da quello che faccio di solito, solo che il viaggio tra Roma, Palermo, Bahia, Rio, Berlino, Buenos Aires lo ha reso più vivo. In che senso? Nel senso di persone che avevano studiato nei licei, nei conservatori e avevano un controllo del materiale musicale. Poi il mondo si è completamente contaminato e il processo ha perso valore. Come capita spesso nei tuoi dischi, anche qui c’è parecchia tecnologia, oltre ad una forte componente “umana”. È un sistema che uso da molto tempo: partire con un groove, come una specie di binario che da Roma ti porta fino in Africa o in America Latina, per poi rispedirti in Italia in una dimensione tecnoitinerante. Tra i miglioramenti non noti anche l’acquisizione di elementi e capacità tecniche da parte di quelle culture che venti-trent’anni fa si andava ad esplorare? Non solo gli elementi, ma anche gli strumenti: a Lahore, dove siamo stati ospiti, ho visto gruppi con cantanti pazzeschi, che avevano sostituito gli accompagnamenti di harmonium con tastiere Farfisa degli anni 70 dal suono devastante. Tu sei stato tra i pionieri di quella che oggi si chiama world music. Come hai visto cambiare l’integrazione culturale nella musica e non solo? Diciamo che dalla metà degli anni settanta e per circa un decennio nell’Italietta democristiana, contaminarsi aveva un senso e un forte significato politico in senso lato. Area e Canzoniere del Lazio erano all’avanguardia in questo senso, nella mescolanza di jazz, musica colta e popolare, con un approccio borghese e progressive. Musicalmente cos’è cambiato? È migliorata molto la tecnica, sia strumentale, sia teoricocompositiva, però si è perso quell’impatto esplosivo che una melodia araba in cinque ottavi provocava su un groove rock. Oggi un pezzo come Settembre Nero è quasi ordinaria amministrazione. Ho notato che la tua area di interesse musicale punta grosso modo a est verso l’India, a sud verso l’Africa subsahariana e a ovest verso l‘America Latina. E il nord? È singolare come lettura geografica, però è abbastanza vera. In realtà è tutto molto casuale, ma il grande nord europeo mi piace: il jazz europeo è straordinario, trovo che abbia una notevole capacità di introiettare le altre culture, il nuovo rock islandese mi interessa parecchio e prendo la tua osservazione come stimolo per il futuro. Il futuro? Un fiore che canta. Titolo Luna reverse Etichetta MRF/MyFavoriteRecords / Edel Online www.luigicinque.it 09 AUTUNNO 2010 11 Profili Mondomix.com / ATTUALITà Rosa Balistreri La voce della Sicilia Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua ricevuta dai padri: è perso per sempre. Ignazio Buttitta di Giancarlo Susanna Difficile dare torto a chi afferma che l’Italia è un paese senza memoria. In un altro luogo o in una realtà parallela l’eredità umana e culturale di un’artista come Rosa Balistreri sarebbe oggetto di studio nelle scuole. E Rosa potrebbe essere, se ci consentite un paragone forse un po’ tranchant e molto sintetico, conosciuta, popolare e amata come lo è ancor oggi Amalia Rodrigues in Portogallo. Di certo chi ha avuto occasione di ascoltare la sua voce dal vivo o su disco non potrà più dimenticarla. Rosa è stata la più grande folksinger italiana. L’unico artista a lei paragonabile è Matteo Salvatore, che di recente è stato scoperto anche da un pubblico molto giovane. All’appello della critica e degli studiosi manca ancora lei e anche per questo ci è sembrato giusto scriverne su queste pagine. Straordinaria nel recupero di canzoni tradizionali, Rosa fu anche in grado di mettere in musica le poesie di un poeta come Ignazio Buttitta e di creare un repertorio che ancora oggi colpisce per la sua intensità e la sua dolorosa bellezza. Nun lu sapiti l’amuri ca v’haju / Nun lu sapiti quantu vi disiu / nun lu sapiti comu chiamciu e staju / quannu ca p’un mumentu nun vi viju. (…) Cchiù nun m’amati e cchiù vi vogliu beni / chiù tempu passa e mannu cristiani / nun mi lassati amuri ntra sti peni / pirchì siti pi mia l’acqua e lu pani. (Non lo sapete l’amore che ho per voi / non lo sapete quanto vi desidero / non lo sapete come piango e come sto / quando per un momento non vi vedo (…) Più non mi amate e più vi voglio bene / più tempo passa e più ve lo farò sapere / non mi lasciate amore in queste pene / perché siete per me l’acqua e il pane.) (1) «Una vita da romanzo popolare, riscattata dal canto: una voce, un grido, che conosce anche il calore del sole e la tenerezza, l’antica civiltà contadina mediterranea. La storia di Rosa Balistreri è come la sua voce: rude, rabbiosa, drammatica, ma percorsa da una vitalità irriducibile. Le sue vicende scorrono attraverso le regole di una società abbrutita, segnata da un classismo arrogante. Un matrimonio senza amore e senza rispetto, il carcere, l’ospedale, la fuga dalla miseria oggi inimmaginabile di una Sicilia arcigna e crudele. Poi, la liberazione e la svolta, l’amore, i rapporti con gli artisti e gli intellettuali, il ritorno in Sicilia dopo il successo e di nuovo il Nord, Firenze, il primo luogo dove la giovane siciliana di Licata aveva appreso che è possibile vivere senza rinunciare alla propria dignità». (2) Non è possibile rendere sulla pagina l’impatto di una voce che racchiude in sé la sofferenza e il dolore di secoli. Rosa ebbe la gioia di essere conosciuta e amata. E anche oggi, a distanza di vent’anni dalla sua scomparsa, Rosa è morta in seguito a un ictus il 20 settembre 1990, la sua musica può essere ascoltata grazie alle incisioni da lei realizzate negli anni della sua vicenda pubblica. Segnaliamo soprattutto le ristampe dei dischi della collana Folk della Fonit Cetra, curate con infinito rispetto dal Teatro del Sole di Francesco Giunta. Ma anche la sua città, Licata, ha voluto ricordarla con alcuni cd, mentre la Lucky Planet ha realizzato due cd antologici facilmente reperibili in un buon negozio di dischi o in rete. Online www.rosabalistreri.it (1) da L’amuri ca v’haju, una delle canzoni scritte da Rosa. È inclusa nell’album Vinni a cantari all’ariu scuvertu, pubblicato nel 1978 dalla Fonit Cetra. (2) dal risvolto di copertina del libro di Giuseppe Cantavenere. Rosa canta e cunta Teatro del Sole / Egea Collection Lucky Planets Rosa Balistreri Teatro del Sole 09 AUTUNNO 2010 CONCHA BUIKA La regina nera del flamenco Qual’é l’ispirazione che sta dietro le differenti direzioni musicali che hai seguito fino ad oggi nella tua carriera? Che cosa ti ispira? E come decidi quale sarà il prossimo passo? Beh, non lo faccio. Penso che l’ispirazione sia qualcosa che viene da dentro di ognuno di noi. E sono convinta che noi tutti abbiamo davvero dentro a noi stessi gli elementi per capire ogni cosa. Così io non decido mai cosa fare. Mi lascio andare e trasportare da ciò che sento dentro di me e il risultato è ciò che ascolti. Vivo nel mio studio. Il mio contatto con la realtà è il mio manager. Scrivo i miei libri, dipingo i miei quadri e scrivo le mie canzoni, poi affido tutto al mio manager e alla mia casa discografica e me ne dimentico. di Akenaata Hammagaadji Sei diventata una star globale e sei famosa in diversi paesi, io però sono curioso di sapere come il tuo lavoro è stato accolto nel tuo di paese: la Spagna. Penso che il mio paese natale sia il mio cuore e che lo stesso valga per tutti gli altri. Penso che ognuno di noi abbia nel suo cuore il proprio paese natale così come per me ogni individuo è un po’ il mio compagno, mio marito, mia moglie. Tutti voi lo siete. Penso che tutti ricevano qualche cosa dal mio lavoro così come io ricevo da ciò che gli altri fanno. Intendo dire che siamo tutti uguali. Non che siamo tutti la stessa cosa ma che siamo tutti uguali. Così quando canto sento che tu che ascolti sai di cosa sto parlando. Anche se so dove sto cantando ma non so dove tu mi stia ascoltando. E questa cosa ha un che di miracoloso, come una benedizione per noi tutti. La cantante Concha Buika è sicuramente da considerarsi un fenomeno unico nel mondo musicale contemporaneo. Nata nell’isola di Mallorca (già colonia spagnola) da una coppia di rifugiati politici provenienti dalla Guinea Equatoriale, la piccola Concha trova la sua seconda casa nel quartiere in cui vivono, una comunità gitana, dove la famiglia Buika é l’unica di colore. Curiosamente, cantare il flamenco ed assorbire quella cultura a lei originariamente estranea è stato ciò che l’ha aiutata a formare e a trovare la sua identità personale. Con quattro acclamati album presenti sul mercato internazionale Concha Buika è oggi una star cui la sorte ha voluto donare una voce contralto a dir poco unica. Sul palco il suo carisma è sorprendente e incontrandola di persona la si potrebbe definire un irresistibile mix di candore e senso dello humor, comunque non privo di una grande sicurezza, in grado di mettere l’interlocutore a suo agio con facilità. Akenaata Hammagaadji a New York l’ha incontrata poco prima che si imbarcasse in un lungo tour americano che la porterà in 21 città degli Stati Uniti. (è stata in Italia la scorsa primavera).Il suo ultimo album, El Último Trago, è un tributo alla cantate ranchera messicana Chavela Vargas, per il quale ha avuto una nomination al Grammy Latino. La prima domanda naturalmente riguarda la sua scoperta della musica ranchera. L’ho ascoltata quando ero ancora una bambina. Mio padre se n’era andato di casa e mia madre nascondeva le sue lacrime dietro questa musica per non piangere di fronte a noi bambini. Sai come sono le mamme africane. Così soleva ascoltare musica messicana e in particolare la musica di Chavela Vargas. Si metteva a piangere e diceva «Oh che bella canzone». Ma adesso che sono cresciuta ho capito che in realtà piangeva per mio padre. Quindi quando finalmente hai incontrato Chavela Vargas conoscevi già molto bene il suo repertorio. Certo. Conosco le sue canzoni e la passionalità della sua musica fin da quando ero piccola e averla incontrata è stato come un miracolo per me. 09 AUTUNNO 2010 13 Buika Mondomix.com / MUSICA Vedi delle somiglianze fra la musica ranchera ed il Flamenco? Sento delle somiglianze fra musica ranchera, flamenco, jazz, blues, tutte questi generi musicali parlano delle stesse cose. E chiedono le stesse cose: pace nel cuore, pace qui. Voglio dire che tutti siamo sempre alla ricerca delle stesse cose. È stata una tua idea quella di reinterpretare alcune delle canzoni che Chavela Vargas aveva registrato e rese famose all’inizio della sua carriera? No, non è stata una mia idea. Penso che ogni volta che suono un disco di Chavela o di Duke Ellington, li sto ricordando e chiamando in qualche modo. Non è stata una mia idea. È un’idea propria della magia della musica. E la magia delle musica esiste anche grazie a tutte quelle persone che non si vedono mai ma che stanno dietro ai vari progetti. Noi vediamo sempre l’artista sul palco o nei video ma non vediamo la gente che sta dietro le quinte. Così questa curiosa idea è venuta dalla piccola squadra di persone con cui lavoro e naturalmente ho detto di sì perché era un’ idea meravigliosa. I tuoi genitori vengono dalla Guinea Equatoriale. C’è qualcosa della musica di quella terra che si può rintracciare nella musica che hai registrato fino ad oggi? Certo. La parte africana della musica è nella mia voce, nel colore della mia voce, nel mio sorriso, nel colore della mia pelle, nel mio sangue, nella mia intelligenza, nel mio amore, nella mia bellezza. L’Africa è dentro e tutta intorno a me. Non la vedi? Parlando della realizzazione di questo album in studio. Come è stato lavorare con un grande pianista come Chuco Valdes? Oh certo. È stato veramente facile. Penso che gente come me, come te (Akenaata) come Chuco Valdes rappresentino una nuova idea dell’Africa. Una meravigliosa espressione di un’Africa che non è più spaventata. Credo che ogni volta che ci troviamo insieme con queste nuove energie riusciamo ad ottenere degli ottimi risultati. Per me è veramente facile lavorare con gli africani. appartengono al passato. Non voglio sedermi a guardarle di nuovo. Lo trovo stupido. Non ho mai visto un uccello volare due volte di fronte alla mia faccia. È ridicolo. Non sento alcun bisogno di rivivere il passato. Inoltre ho fiducia nel mio canto, credo in me stessa e non mi preoccupo del risultato finale. Tu dici di non pensare al passato. Ciò che è fatto è fatto. Dimmi allora che cosa stai progettando per il futuro. Penso che il futuro sia una grossa bugia. Una grande bugia perché noi viviamo in un costante adesso. Pensiamo a domani ma domani non arriva mai. È adesso. Il momento.. è ora! E quello che sto facendo adesso è la musica elettronica, perché sono una grande programmatrice, programmatrice elettronica, e sto registrando il mio prossimo album. foto Michael Mann 12 C’è un cantante con vorresti lavorare in futuro? Certo. Mi piacerebbe molto lavorare con Miguel Poveda perché penso che sia una cantante libero. Canta dalla sua libertà e quello è un dono divino, una cosa che mi piace moltissimo. Hai un insegnante di canto? Che cos’è? Qualcuno che insegna ai cantanti come migliorare la loro tecnica, come curarla e svilupparla. Oh certo. Mio figlio, mia madre, mia nonna e la mia bisnonna. Capisci? E naturalmente l’amore per me stessa. Non penso che qualcuno possa mostrarti come cantare, per la stessa ragione per cui nessuno può insegnarti a piangere, a mangiare, a fare l’amore. Ma per una cantante le corde vocali sono muscoli come per tutti noi e debbono essere curate con esercizi e facendo attenzione a ciò che si mangia. No. Vivere. Questo è ciò che si prende cura delle corde vocali. Non appena hai la consapevolezza di essere una brava persona che desidera la felicità per ogni essere umano tu ami tutti e non ti preoccupi più di nulla, neppure della tua voce. La tua voce è qui. E non importa se tu hai una voce bella o brutta. La brutta voce non esiste. La voce che vuole cantare è bella. Cantare è bello. Non importa se lo fai bene o lo fai male. Farlo male non è cantare. Se tu non canti, questo è male. Ma se tu canti allora tutto va bene. Prendersi cura della propria voce è vivere, mangiare, abbracciare gli amici, amare chi vuoi tu. Capisci? Sì e il sesso è bello e molto importante per la voce. Anzi è la cosa migliore, perché quando qualcuno ti tocca, tu capisci chi sei. Per la voce tutto ciò che ti serve è amore. Amore! Appartieni a quella categoria di artisti che si critica ascoltando il risultato finale di una registrazione? Ti ascolti e dici «Forse avrei dovuto fare in questo o in quell’altro modo»? Mai. Prima di tutto perché non riascolto mai un lavoro una volta che l'ho completato. Non ascolto mai quello che ho registrato. Non leggo mai le interviste che ho rilasciato. Non guardo i miei video. Mai, perché sono cose già fatte ed Quante città visiterai nel prossimo tour? Sono previste date in Messico e Canada? Non lo so. Sono un pò come un soldato. Mi dicono di andare in un posto e io ci vado. Mi dicono questo è il momento per un’intervista e io la faccio. Sono proprio soldato! E cosa possiamo aspettarci da te nel prossimo tour? Normalmente non ho aspettative nei confronti del mondo né da parte di nessuno perché penso che sia il miglior modo per rispettare i ritmi naturali della vita. Quindi non mi aspetto nulla e non so cosa tu ti aspetti. Be ti ho visto in concerto. È stato spettacolare ma quella volta non hai cantato le canzoni di Chavela Vargas. Quindi mi aspetto qualcosa di altrettanto spettacolare ma differente. Penso che ogni giorno sia diverso, ogni cuore è diverso, ogni volta che vedo la mia faccia nello specchio è diversa e questo mi piace molto. Mi piace la continua improvvisazione della vita. Molto bello. Hai delle parole con cui ci vuoi lasciare? Vi amo. Le accetto con piacere… grazie! Titolo El Último Trago Etichetta Dro / Warner Online http://buika.casalimon.tv/ 09 AUTUNNO 2010 14 15 Cuba Mondomix.com / MUSICA Guida minima alla musica cubana Ovvero: prima e dopo il Buena Vista Social Club. ex-Irakere e Los Van Van, José Luis Cortes con l’esplicito proposito di contribuire a plasmare «la musica cubana del futuro». Programma ardito che la portava a conquistare un’immensa popolarità con atteggiamenti inusualmente aggressivi e mischiando al son elementi di jazz e soprattutto di rap. A proposito… Nell’attesa che l’isola di Fidel produca i propri Sepultura (vedrete che accadrà) esiste da tempo un vibrante underground hip hop. Appunto: underground. Ove la timba – un miscuglio di son, rumba, salsa e rap – ha grande e ufficiale visibilità (nonostante qualche problema causato dagli ambigui legami con il mondo della prostituzione), l’hip hop più duro resta appannaggio, a dispetto del successo internazionale degli Orishas, di frange giovanili in rapporto spesso conflittuale con le autorità. BUENA VISTA SOCIAL CLUB Buena Vista Social Club World Circuit, 1997 Quasi figlio del caso questo che è non solo il disco cubano ma il disco di world più venduto di sempre (cinque milioni di copie). Sull’isola per un progetto di collaborazione con musicisti africani che non si concretizzerà, Cooder raduna una folla di eroi locali molti dei quali ormai anziani e dimenticati e fa rispolverare loro un repertorio di classici che conquistano in un colpo l’immortalità e le classifiche. CELIA CRUZ Queen Of Cuban Rhythm Music Club, 2000 Nella marea di raccolte disponibili dell’esponente più celebre e più risolutamente antiregime della diaspora anticastrista (la sua popolarità sull’isola restava nondimeno enorme) spicca questa (economicissima) che raduna incisioni dal ’59 al ’65. Salsa e mambo non hanno forse mai avuto un’inteprete al pari raffinata e incisiva, colta (molto jazz nelle sue corde) e pop. IRAKERE La collección cubana Nascente, 1998 Aperta nel 1973 dal pianista Jesus “Chucho” Valdes, Irakere è palestra straordinaria per la quale da allora passano molti se non tutti i principali jazzisti locali, a cominciare da Paquito D’Rivera e Arturo Sandoval. L’ecumenismo di una compagnia capace di coniugare la ballata sentimentale con il ballabile più sfrenato è rimarcato da un’antologia che ora evoca Dizzy Gillespie, ora – addirittura – rifà Mozart e Beethoven. BENY MORÉ Cuban Originals RCA/BMG, 1999 Bolero, mambo e son della varietà più accesamente ritmica in una collezione di incisioni dal 1949 al 1958 della voce maschile più popolare (tuttora, a quasi mezzo secolo da una morte che lo coglieva appena quarantatreenne) della musica cubana. Nessuna sovrapposizione con la al pari eccellente e consigliata Collección cubana (Nascente, 1998; brani dal ’53 al ’59). In caso probabile di impazzimento: i suoi altrettanto strepitosi anni ’40 sono raccontati a menadito da un’integrale Egrem. NG LA BANDA The Best Of Emi Hemisphere, 1999 Basti dire per inquadrarla che NG sta per Nueva Generacion. Basti dire che il primo dei dieci titoli che sfilano in questa ben calibrata raccolta, Papa Chango, è un’invocazione a un dio guerriero yoruba, non proprio ciò che che ti aspetteresti da un disco di salsa. La new wave della musica cubana parte da qui, ma è un innovare che – pur radicale a tratti – non dimentica né sminuisce la tradizione: fanno fede le splendide riprese di due sempreverdi di Beny Moré. ORQUESTA ARAGÓN Cuban Originals RCA/BMG, 1999 Va bene: Cuba è famosa anche per la longevità dei suoi musicisti (prima di Compay Segundo, il leggendario Sindo Garay moriva a centouno anni dopo avere dato l’ultimo concerto a novantanove), ma un’orchestra fresca di celebrazione del settantennale è un’esagerazione persino da quelle parti. Elegante e aguzza, romantica e gioiosa la sua è charanga eternamente allo stato dell’arte. Come si dice in spagnolo “intramontabile”? PÉREZ PRADO Mondo Mambo: The Best Of Rhino, 1995 Venti grandi successi (avrebbero potuto essere tranquillamente quaranta o sessanta, i CD due o tre) di colui che venne acclamato in vita ed è tuttora ricordato come “il re del Mambo”. Melodie sfacciate, ritmi ultrasincopati, tante idee armoniche rubate al jazz e reinventate in un contesto che più pop non si potrebbe. Fra trombe ficcanti, sassofoni sinuosi, tastiere che propendono all’atmosferico siccome al groove provvede tutto il resto. SILVIO RODRÍGUEZ Canciones urgentes Luaka Bop, 1991 Avendo una passabile dimestichezza con lo spagnolo (o l’inglese: nel libretto sono presenti i testi tradotti), in questo elenco di titoli le Canzoni urgenti di Silvio Rodríguez sono le sole che merita conoscere più per le parole che per spartiti nella non esaltante media dei cantautori di casa nostra. E tuttavia: l’assieme tocca vette di poesia autentica, fra odi d’amore e riflessioni politiche. Un po’ Phil Ochs, un po’ Victor Jara. di Eddy Cilìa Partiamo dall’ovvio, ché non si sa mai: per chi sia completamente digiuno di musica cubana, Buena Vista Social Club è a oggi, con la sua sfilata di classici in interpretazioni spesso definitive, un’introduzione ideale. «La cosa migliore nella quale sia mai rimasto coinvolto», dichiarava Ry Cooder ed era affermazione impegnativa considerando una vicenda che comprende esordi a fianco di Taj Mahal e di Captain Beefheart, una discografia in proprio prodiga di album che sono sensazionali cataloghi di americana, colonne sonore per il cinema di eccezionale livello e un tot di altre esplorazioni etniche (condotte con Ali Farka Toure piuttosto che con Vishwa Mohan Bhatt) da restare a bocca aperta. Ma non c’è che da ascoltare per dargli ragione, non c’è che da vedere il film di Wenders per innamorarsi di quelli che sono/erano, oltre che grandi artisti, bellissima gente. con un certo stile Storia secolare quella della musica cubana e per molti versi simile a quella di una musica nordamericana sulla quale ha esercitato una notevole e misconosciuta influenza, sin dacché catturò l’attenzione di Duke Ellington. Una forma autoctona nasceva dall’incontro fra i ritmi degli schiavi importati dall’Africa Occidentale e le melodie dei colonizzatori spagnoli. Nel tardo XIX secolo, l’arrivo da Haiti di migliaia di rifugiati aggiungeva un’influenza francese. Se la rumba primigenia, una faccenda essenzialmente per voci e percussioni assai diversa dallo stile sofisticato che va attualmente sotto tale nome, era un portato della metà nera della popolazione, il danzón era un’evoluzione dei balli europei infiltrata dalle bande militari, con archi e plettri aggiunti a legni e ottoni. Il pianoforte (eredità francese) diveniva un elemento chiave nelle orchestrine e le cadenze del danzón si facevano più veloci e sincopate e insomma negre. Esito: il son, risultato di un’attitudine sempre più meticcia. Da una sua variazione ancora più svelta, il son montuno, sarebbe nata la salsa. Altre filiazioni: la romantica habanera, il non meno sentimentale bolero, la scarna guajira, sorta di blues isolano. Anche il chachachá, semplificazione di ritmi in partenza ben più complessi che negli anni ’50 fece furore sia negli USA che in Europa. Era per quasi un quarantennio l’ultimo momento di gloria per la musica cubana, giacché la rivoluzione castrista e l’embargo deciso dal governo degli Stati Uniti per combatterla facevano sì che solo gli artisti espatriati, in tempi diversi e per non 09 AUTUNNO 2010 citare che i più noti, Celia Cruz, Arturo Sandoval e Paquito D’Rivera, conservassero un pubblico internazionale. Loro e, per motivi opposti, Silvio Rodríguez, l’esponente di maggior rilievo della cosiddetta nueva trova, la canzone politica schierata a favore della rivoluzione, riverito in tutta l’America Latina. Proprio con Rodríguez quel benemerito curioso di David Byrne inaugurava nel 1991 la collana su Luaka Bop Cuban Classics, sfidando l’embargo e riportando la nostra attenzione su un patrimonio ricchissimo e ignorato. Con i due volumi seguenti, Dancing With The Enemy e Diablo al infierno!, offriva poi, rispettivamente, una panoramica sul meglio degli anni ’60 e ’70 e sui nuovi suoni emersi negli ’80 e nei primi ’90. Restano due delle antologie più rappresentative fra le decine (centinaia?) pubblicate da allora. Senza di esse non ci sarebbe forse stato il Buena Vista Social Club. E senza l’entusiasmo da questo suscitato non ci sarebbero stati né il massiccio, conseguente recupero di materiali di archivio né il contemporaneo florilegio di dischi nuovi. usa cuba, cuba usa Ma che musica ascoltano i giovani cubani? All’incirca quella che ascoltano i giovani americani e da ben prima di Internet, visto che sull’isola le radio della Florida si captano eccome e con esse, oltre alla propaganda anticastrista, hip hop e metal, indie rock e dance, country e nuovo soul e punk e quant’altro. Intenso prima della rivoluzione, con reciproche e vistose influenze, lo scambio fra la musica cubana e quella statunitense si è poi pressoché fermato, a tutto favore della seconda. Ma le suddette radio venivano ascoltate, fino almeno ai primi ’90, di nascosto e a Cuba c’era spazio solo per musiche rigorosamente locali. Difficile anche per gli artisti più popolari, vista la penuria di tutto che rendeva il vinile un lusso, arrivare a pubblicare per l’unica casa discografica, la statale Egrem, e si trattava sempre di tirature minuscole che, una volta esaurite, non davano adito a ristampe. La caduta dell’impero sovietico apriva giocoforza l’isola ai flussi turistici occidentali e a una progressiva liberalizzazione dell’economia. Rimarchevole la ricaduta sul panorama musicale e non solo perché per gli artisti diventava facile suonare all’estero e venivano anzi incoraggiati in tal senso, mentre l’Egrem cominciava a concedere in licenza i suoi favolosi archivi. Nella fioritura di una nuova scena aperta a influenze straniere, ma nondimeno orgogliosa della propria unicità, aveva avuto in precedenza un ruolo pionieristico NG La Banda, formazione fondata nel 1988 dal flautista, 09 AUTUNNO 2010 16 TRIO MATAMOROS Son de la loma Artex, 2002 Dice bene Marcello Lorrai nel puntiglioso Cuba (Editori Riuniti, 2003): «Non c’è moltissima musica del Novecento che possa rivaleggiare con le incisioni classiche del Trio Matamoros quanto a influenza sulla musica mondiale. Al di là dell’enorme valore storico… le esecuzioni del trio ci si ripropongono con un’incredibile freschezza». Compact di reperibilità fattasi ardua. Una valida alternativa è rappresentata da Todos sus exitos (Yoyo, 2005). 17 Cuba Mondomix.com / MUSICA AAVV Cuba – I Am Time Blue Jackel, 1997 Fantastica la confezione, facilmente scambiabile a prima vista per una scatola di sigari. Fantastico il contenuto: un libretto in inglese di un centinaio di pagine e quattro cd “a tema” (Invocazioni, Cantare, Ballare e Jazz) che valgono come un corso propedeutico di livello universitario alla musica dell’isola caraibica. Però di solito studiare non è così divertente. E non vi fossero bastati… IBRAHIM FERRER Buena Vista Social Club Presents World Circuit, 1999 Eterna coppoletta in testa, il già ultrasettantenne Ibrahim Ferrer, riscoperto mentre lustrava scarpe all’Havana ma prima per mezzo secolo un protagonista della musica di Cuba, sfodera una voce guascona e undici canzoni da urlo fra bolero e son montuno. ESTRELLAS DE AREITO Los heroes World Circuit, 1999 Un antesignano di Buena Vista Social Club, sfortunatamente senza un Ry Cooder e un Wim Wenders a promuoverlo e addirittura rimasto nei cassetti per quei venti tondi anni. RUBÉN GONZÁLEZ Introducing World Circuit, 1997 «Una via di mezzo fra Felix il Gatto e Thelonious Monk», nell’indimenticabile definizione di Cooder, il quasi ottuagenario pianista registra Introducing in due giorni, come una sorta di PS al Buena Vista: seicentomila le copie vendute nei primi due anni nei negozi. CHANO POZO Manteca: The Real Birth Of Cubop Tumbao, 2003 Il più pregiato Chano Pozo fra il poco disponibile attualmente (oramai una rarità il box triplo El tambor de Cuba) è questo CD singolo dal titolo programmatico. Incisioni del ’48 con l’orchestra di Dizzy Gillespie. ARSENIO RODRÍGUEZ Y SU CONJUNTO Dundunbanza Tumbao, 1995 Registrazioni dal 1946 al 1951 di questo percussionista e direttore d’orchestra, nonché compositore fra i più prolifici, detto “El ciego maravilloso” per la cecità che lo affliggeva sin dai sette anni. Fra i maestri massimi del son, è ritenuto uno dei precursori della salsa. SEXTETO HABANERO 1926-1931 Harlequin, 1995 Un’antologia che sta alla musica cubana come le Sun Sessions di Elvis Presley al rock’n’roll. Originariamente un trio formatosi in ambito militare, il Sexteto Habanero fu il primo gruppo ad adattare il son alle esigenze dell’industria discografica. ORLANDO CACHAITO LOPEZ Cachaito World Circuit, 2001 Il debutto di questo maestro del contrabbasso, unico musicista presente in ogni brano di ogni disco della serie del Buena Vista, lungi dal proporre un’altra parata di mambo, descarga e danzon corteggia il jazz, inscenando sperimentazioni che fanno sobbalzare i puristi. LOS ZAFIROS Bossa cubana World Circuit, 1999 Pensate al migliore complesso doo wop ipotizzabile, speziatelo di rumba e bossanova, aggiungeteci un tocco di beat (siamo in pieni anni ’60), melodie impossibilmente orecchiabili, struggimenti infiniti e spumeggiante gioia di vivere ed ecco: erano questo Los Zafiros. OMARA PORTUONDO Flor de amor World Circuit, 2004 Politicamente l’opposto di Celia Cruz, la Portuondo paga restando una sconosciuta fuori da Cuba fino alla lacrima asciugatale da Ferrer nella scena più memorabile di Buena Vista il film. Un lavoro di classe e sentimento inaggettivabili, con echi di Africa, tango e flamenco. AAVV Dancing With The Enemy/ Diablo al infierno! Luaka Bop, 1991/1993 Pubblicate dall’etichetta di David Byrne, curate da Ned Sublette, sono le due raccolte che prima di Cooder e Wenders stuzzicano l’interesse del pubblico nordamericano ed europeo per musiche allora di un esotismo assoluto. Storicamente imprescindibili. 09 AUTUNNO 2010 AfroCubism 15 anni dopo il Buena Vista Social Club. di Paolo Ferrari Nick Gold ci ha messo tre lustri, e ora ha finalmente tra le mani l’oggetto dei suoi desideri targati metà Anni Novanta. Non che l’episodio cui allora dovette qualche buon mal di pancia abbia prodotto soltanto disagio: dal mancato arrivo dei musicisti del Mali invitati a suonare all’Avana con un gruppo di anziani artisti cubani fuori moda nacque uno dei più grandi successi world di sempre, l’operazione Buena Vista Social Club. Però al boss dell’etichetta inglese il sassolino nella scarpa era rimasto, e ora se lo toglie. Da Bamako Da Bamako sono davvero sbarcati Bassekou Kouyate con il suo pluridecorato ngoni e il chitarrista Djelimady Tounkara della Rail Band, decisi a dialogare con il contadino Eliades Ochoa. Intorno alle tre colonne, fiorisce un bel giardino di talenti: Ochoa ci mette la band, il Grupo Patria, e i soci africano portano con sé il fuoriclasse della kora Toumani Diabaté, lo storico griot Kasse Mady Diabaté e l’uomo balafon Lassana Diabaté. Gold gode in cabina di regia con Jerry Boys, fonico noto nel mondo proprio per il lavoro con il Buena Vista. Formazione eccellente, dunque; anche se il rammarico per quanto avrebbe potuto produrre la miscela con ancora disponibili Ibrahim Ferrer, Compay Segundo, Rubén González e Ali Farka Touré resterà per sempre agli appassionati del pingpong emotivo, storico, sonoro e spirituale tra Africa e Caraibi. finale, mirabile tessitura di corde intercontinentali senza l’apporto di un cantante. E fanno cinque boe, intorno a cui nuotano nove canzoni. Il caleidoscopio di emozioni è ricco e vario, per quanto mai si perda una coerenza di fondo nella direzione del progetto. Al Viavén de mi Carreta è una cover di Nico Saquito in cui dialogano le voci di Eliades e Kasse, e A la Luna Yo me Voy vive in una dimensione guajira, ma l’Africa è sempre in agguato a punteggiare la trama; in Karamo e Mariama gli accenti latini, contrabbasso su tutti, restituiscono la visita e non lasciano in pace l’incedere griotico di Bassekou. Sono di Tounkara le corde desertiche che fanno de La Culebra un classico rinnovato e messo al servizio del combo multi continentale, e sfiora la perfezione apolide una Jarabi serrata, da capogiro per la pioggia di botta e risposta tra gli strumenti di provenienza diversa. Nima Diyala ribadisce il concetto, con il balafon travolgente di Lassa Diabaté a fare amabilmente di chiacchiera con il Grupo Patria e la sua concezione sonera. In Para los Pinares se va Montoro l’affinità scende in profondità, con il rapporto tra vivi e morti che affonda nelle radici più lontane del cordone ombelicale che lega Africa e Caraibi, mentre Benséma sfoggia spigoli che giustificano la chiamata di correità emotiva per il Cubismo, dal momento che su semplici presupposti descrittivi il progetto avrebbe assunto la definizione di Afro – Cubanismo. Disco prezioso, dunque. Che si spera possa quanto prima avere un destino live più fortunato di quanto toccato al Buena Vista Social Club, penalizzato fin dall’inizio dalle difficoltà di mettere d’accordo agenti e familiari dei musicisti, fino a ridurre il numero di esibizioni al completo a un conto da punta delle dita di una mano. Grazie al Cielo con Wim Wenders a salvare il salvabile. il manifesto sonoro L’inizio dell’ora di viaggio ha il sapore del manifesto; sia per il titolo, Mali Cuba, che per la scelta di mettere in testa al convoglio di quattordici tracce uno strumentale, quasi il cantato potesse sbilanciare in una o nell’altra direzione l’alchimia ricercata. Più per istinto che per forzatura strumentale, come si apprezza per l’appunto nella conversazione esemplare tra le corde della chitarra latina e quelle della kora. La magia senza parole si ripete in Djelimady Rumba, in un folgorante intermezzo di Ochoa che sembra muoversi in Eliades Tumbaro 27 su una partitura da griot, nella movimentata Dakan, nonché nella Guantanamera Titolo AfroCubism Etichetta World Circuit / IRD Online www.myspace.com/afrocubism 09 AUTUNNO 2010 18 Sì, sono cento e fin dal primo momento decidemmo di organizzare un’orchestra cui abbiamo dato il nome di Sonora One Hundred o Sonora Cien per realizzare i 5 CD e il documentario con la storia del son in 87 minuti. Edesio Alejandro Tu t t o i l S o n i n u n D v d e 5 C d Edesio Alejandro Rodriguez di Gian Franco Grilli Un documentario di 87 minuti e 100 canzoni raccolte in 5 CD raccontano tutta la storia e l’evoluzione del son cubano, il blues dell’Isla Grande. È Los 100 Sones Cubanos, ultimo progetto firmato dal musicista-regista Edesio Alejandro Rodriguez e prodotto da JN records, nominato al Grammy Latino Los 100 Sones Cubanos di Edesio Alejandro presentato con elegante cofanetto è un preziosissimo regalo per gli appassionati di musiche latinoamericane e i cultori di world music. Tutti ora potranno conoscere in modo approfondito e in forma avvincente il son, che «più che un genere musicale, dice Edesio, è un fenomeno artistico-sociale radicato nell’idiosincrasia del cubano», e alcuni suoi cugini come nengón, melcocha e changüi. Si tratta dell’indagine più completa e ad ampio spettro realizzata finora su questo pilastro della musica popolare cubana, con il pregio di aver saputo fondere in modo armonioso rigore musicologico, ritmicità narrativa, freschezza di linguaggio, spontaneità della gente cubana e bellissime immagini. Edesio, prima di parlare dell’ultima produzione, raccontaci quando è cominciata la tua relazione tra musica e cinema e quanto è importante l’immagine per te. I primi passi risalgono al 1976 componendo musica per l’opera teatrale il Guerrigliero dell’Altipiano di Nelson Dor del Teatro Martì. Questo mi affascinò tantissimo perché anche il teatro è immagine, lì devi creare un’atmosfera a ciò che stai vedendo. Nel 1978, appena diplomato, cominciai a lavorare nel Teatro Rita Montaner dove restai per circa 14 anni e contemporaneamente collaboravo a produzioni televisive. E man mano che realizzavo nuove opere mi immergevo sempre più in quel mondo, tanto che oggi se devo comporre una canzone slegata dal cine o dal teatro debbo ricreare nella mia mente una storia affinchè la musica scorra liberamente. Adriano Rodriguez Hai firmato alcune delle colonne sonore più importanti del cinema cubano moderno. Vuoi ricordarci i film con i quali hai ottenuto riconoscimenti internazionali come compositore delle musiche e anche i nomi dei tuoi album? Posso citarti Clandestinos, La vida es silbar (La vita è un fischio), Suite Habana, Madrigal del notissimo regista Fernando Perez o Hacerse el sueco di Daniel Diaz, ma ci sono altri lavori per documentari e telenovelas che tralascio. Come dischi ho inciso Corason de Son, con il cantante Adriano Rodriguez; Orisha Dreams; Black Angel (da questo cd è nato il remix del mio brano Blen Blen Blen (1998), che ha fatto ballare mezzo mondo e ha venduto oltre mezzo milione di copie in Europa); poi La Orquesta Magica de La Habana, che oltre al già citato Adriano annoverava altri due grandi cantanti della tradizione, Alfonsín Quintana e Natalia Herrera, e lo stesso album è stato successivamente pubblicato con il titolo Calentando la Ilusión dalla Pimienta Records di Miami. Infine, Cubatronix. 09 AUTUNNO 2010 19 Cuba Mondomix.com / MUSICA Dopo una vita tra rock, funk, rap, hip hop, elettronica e afro-cu-hop fai un grande salto nel passato sulle radici più autentiche del Son ma come regista. Questo cambiamento di ruolo significa che oggi preferisci le immagini alle note? Circa 18 anni fa incominciai a fare una musica più personale intrecciando ritmi come son, rumba e conga ai linguaggi che sviluppavo da tempo, cioè hip hop, elettronica, chitarra rock. Quindi in tutti questi anni ho fatto un po’ di tutto e improvvisamente ho sentito l’esigenza di tornare indietro. Un giorno parlando con Juan and Nelson, discografici di JN Records è sorta l’idea di fare la storia del son cubano e realizzare Los 100 Sones Cubanos. È stata un’esperienza fantastica e realmente è la prima volta che ho fatto una grande ricerca sulla musica più importante del mio paese. Musica o Cinema? In questa fase la mia espressione artistica preferita è quella che sto facendo. Questo è il mio esordio cinematografico, mi sono divertito e ho imparato tantissimo creando il progetto che mi auguro incontri i favori del pubblico internazionale. Tu sai che da molti anni scrivo musiche per il cinema e non è che mi sono annoiato. Questo è solo il desiderio di esprimermi in modo differente e di concretizzare idee che spesso mi frullano in testa su cose che nessuno finora ha affrontato, e invece io ritengo che vadano fatte. Così ho deciso di cimentarmi con altri linguaggi ma sempre attorno alla musica. Il filmato mostra che avete attraversato campagne, fiumi e monti con le attrezzature in spalla per andare a scovare rari tesori musicali (organo de Manzanillo, bongò di bambù, marimbula, grupo Cañambù ecc.) di cui forse si erano perse le tracce. È vero, è stato un lavoro massacrante, ma ne è valsa la pena perchè anch’io non conoscevo gran parte di quella realtà musicale, culturale e sociale che poi abbiamo filmato. Quadretti con tradizioni d’altri tempi, strumenti originalissimi come quelli che hai citato o come la botija, un recipiente speciale di argilla che funge da basso e tante altri aspetti incredibili. Come hai organizzato il progetto e quanto tempo ti è costato? Per prima cosa abbiamo interpellato moltissima gente per raccogliere idee e informazioni. Fondamentale è stato il contributo del musicologo Daniel Orozco, esperto di son ma anche lui non era aggiornatissimo sull’esistenza di certe tradizioni. Poi oltre 500 persone intervistate ci hanno indicato i loro son preferiti. Da qui è nata la selezione dei brani da incidere a cui sono stati aggiunti quelli interpretati dal vivo da gruppi tipici dell’oriente di Cuba. Il proposito era di filmare gente che ha vissuto il secolo intero, o quasi, del son, come gli ultranovantenni Pepecito Reyes o Don Eduardo o orchestrine che portano avanti la tradizione famigliare. E il concetto base del progetto era di riuscire a trasmettere lo spirito autentico del cubano, che è un tipo che si diverte con poco, allegro, scherza e prende in giro se stesso nonostante stia attraversando momenti duri. Il primo ciak è avvenuto a Santiago de Cuba e complessivamente ci sono voluti tre anni. Il momento, o il gruppo, che ti ha provocato maggiore emozione durante questo viaggio dentro il son? Guasimal, il gruppo che suona la melcocha, che esprime qualcosa di arcaico, incredibilmente autentico; ma ce ne sono tanti altri tra cui quello con Pedro Fornaris che piange raccontando la sua ragione di vita legata all’organo oriental di Manzanillo. È stato un viaggio straordinario, una delle esperienze umane e musicali più importanti della mia vita. Titolo Los 100 Sones Cubanos Etichetta JN records Online www.jnrecords.com Tra i brani raccolti nel cofanetto ci sono classici come Echale Salsita, Guantanamera, El Punto Cubano, Sarandonga, El Cuarto de Tula e Pare Cochero. Ma sono veramente 100? Pepecito Reyes 09 AUTUNNO 2010 20 I vestiti colorati, il senso di festa che esprimete nei concerti è anche una provocazione nei confronti dei cliché del fado scuro e malinconico? Ana «No, non è assolutamente nostra intenzione, dal momento che amiamo le nostre tradizioni e siamo cresciuti con il fado. Però quando ci siamo messi insieme per suonare abbiamo voluto esprimere noi stessi in tutto e per tutto, mostrare chi siamo veramente». Deolinda Il rinnovamento del fado di Paolo Ferrari Se Mariza e Ana Moura sono i due volti più in vista del rinnovamento del fado, i Deolinda si stanno affermando come un caso nel panorama del pop folk portoghese con ambizioni internazionali. Il loro secondo album si intitola Dois selos e um carimbo (Due francobolli e un timbro), conferma freschezza e lucidità che due anni fa fecero la fortuna di Canção ao lado e ha scalato la classifica di vendita lusitana. Altre quattordici canzoni per dipingere una Lisbona popolare e cosmopolita, in cui le tinte pastello prevalgono sul nero della malinconia di vecchia scuola; tutte composizioni di Pedro Da Silva Martins, fondatore del gruppo con il fratello Luís José; alle loro chitarre si aggiunge il contrabbasso di Zé Pedro Leitão. Chi però si trovi di fronte per la prima volta a uno show del quartetto è portato a identificare l’immaginaria Deolinda con la voce e la figura sbarazzina di Ana Bacalhau, cantante e intrattenitrice spiritosa e arguta dai colori sgargianti. A suo agio nei grandi festival come nei ristoranti a conduzione familiare, con una malcelata vocazione per la sceneggiatura on stage dei testi e una spiccata propensione al ballo. Di tutto ciò e di tanto altro ancora ci parlano Ana e Pedro. Come è nato il nuovo disco, le canzoni erano pronte o le avete create in studio? Pedro «Avevo già iniziato a scrivere le canzoni durante il tour di Canção ao lado. In bus, in aereo, nelle stanze degli hotel. Alcune erano vecchie idee; Ignaras Vedetas era stata tra le prime della storia dei Deolinda. La suonammo nel nostro primo concerto, però per inciderla non trovavamo l’arrangiamento giusto». Cercavate continuità con il primo disco o sentivate la necessità di andare oltre, portare avanti il progetto? Ana e Pedro «Per il primo disco i pezzi erano già maturi, li avevamo suonati dal vivo per un paio d’anni. Il suono del gruppo era formato, e così pure il carattere Deolinda, per cui scegliere i brani fu facile. Nel caso del secondo CD volevamo continuare a fare esperimenti con le tradizioni musicali portoghesi, sondare quanto questa formazione può fare in materia di arrangiamenti e di suono senza mai perdere la propria personalità. L’obiettivo principale alla fine è sempre quello di fare in modo che il nostro sound possa immediatamente essere riconosciuto come Deolinda». Siete di nuovo saliti al vertice della classifica portoghese: qual è la vostra audience in patriao? Ana e Pedro «Davvero ampia, spazia dai bambini di 3 anni ai nonni di 70 e 80. Ma quel che ci ha sorpresi di più è stata la risposta dei teenager, quella è la fascia di pubblico più difficile da conquistare per chi propone un suono basato sulla tradizione». Il primo brano, Se Uma Onda, fa pensare a una metafora; è importante la metafora nei vostri testi, ed è un’eredità del fado? 09 AUTUNNO 2010 21 Deolinda Mondomix.com / MUSICA Spesso le cantanti giovani citano quali fonti di ispirazione star come Nina Simone, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Edith Piaf. Quali sono i tuoi riferimenti? Ana «Beh, quelle ci stanno tutte. Con qualche aggiunta: Janis Joplin, Odetta, Maria Callas, Amália Rodrigues e Maria João, una grande cantante jazz portoghese». capacità di essere percepita sotto forme differenti. C’è la Lisbona tipica dei barrios, come quello di Alfama che tuttora è la culla del fado. C’è quella trendy e vivace del Barrio Alto e del Chiado, o ancora quella moderna e contemporanea del Parco delle Nazioni. E poi la capitale multiculturale di Mouraria e dell’Avenida Almirante Reis, ma anche la periferia popolare di Lisboeta, dove vive la maggior parte di noi. Qui all’esterno trovi strade piene di blocchi di case brutte e tutt’altro che caratteristiche, mentre all’interno c’è gente che arriva da ogni angolo del Portogallo, immigrata per varie ragioni nella capitale portando con sé un patrimonio vivente di tradizioni regionali. E poi chissà, magari venendo da fuori potrete trovare qualche pezzo di Lisbona di cui io non so niente. Anzi, se vi capita mettetemene al corrente». Fai lunghe tournée con un gruppo di tutti maschi, non ti manca una complice, un’altra donna con cui condividere il tempo e i segreti tra ragazze? Ana «Sì, a volte mi piacerebbe avere nel gruppo un’altra ragazza con cui parlare o fare shopping nei giorni buchi delle tournée. Però sono sposata con Zé Pedro, il nostro bassista, e ciò rende tutto più facile, non mi capita mai di sentirmi sola in viaggio». Pedro «Le metafore sono sempre buone soluzioni. Il fado le adopera molto bene, ma non si tratta di una tecnica esclusivamente sua; si usa la metafora in altre espressioni della musica popolare e tradizionale portoghese. E nel nostro paese se ne fa largo uso nel linguaggio di tutti i giorni. Anche per questo un antico adagio recita che il Portogallo è una terra di poeti». E quanto pesa invece lo humour nella poetica dei Deolinda? Pedro «È molto importante. Siamo spiritosi, creiamo gag da qualsiasi cosa. Io scrivevo testi comici per la tivù portoghese e sono abituato a esprimermi attraverso lo humour; mi permette di arrivare alla gente da una prospettiva positiva». L’idea di rinnovare il fado è in un certo senso anche un pò punk; può far pensare a quello che fa Manu Chao con la canzone francese. C’è il punk nelle vostre radici? Ana e Pedro «L’argomento è interessante. In un certo senso potremmo affermare che anche Amália Rodrigues aveva un’attitudine punk; lei portò nel fado nuove idee grazie alle quali quella musica non sarebbe mai più stata la stessa. Più in generale, il fado e la musica popolare sono in uno stato di evoluzione e rivoluzione permanente di cui noi facciamo parte». Che studi avete fatto e quale sarebbe stata la vostra strada se la musica non fosse diventata un lavoro? Ana «Io ho studiato inglese e lingua e letteratura portoghese, come pure archivistica; in quest’ultimo ruolo ho lavorato all’Archivio del Ministero del Tesoro. Pedro scriveva per la televisione di Stato, Luís teneva corsi di chitarra nei conservatori e Zé Pedro faceva l’ingegnere civile». Il nome del gruppo e il fatto che la cantante sia una donna possono generare un equivoco, la gente a volte pensa che Ana sia Deolinda. Chi è invece Deolinda? Ana «A volte vengo confusa con il suo carattere, invece Deolinda è un personaggio femminile, un io narrante che racconta le storie nelle canzoni e la cui personalità è data dalla somma dei quattro componenti della band. Decidemmo il nome dopo aver composto una prima decina di canzoni; fu lì che ci rendemmo conto che i brani esprimevano una specifica identità comune femminile. Così decidemmo di trasformare questa caratteristica in un nome di donna, e Deolinda ci parve perfetto». Siete spesso citati come innovatori del fado insieme a Mariza, Ana Moura e altri artisti già famosi; ma cosa c’è sotto di voi, una scena o gli under 25 preferiscono l’indie rock e l’elettronica anche in Portogallo? Ana e Pedro «C’è una generazione che cerca di portare qualcosa di nuovo nella musica portoghese, e il pubblico, i giornalisti e l’industria musicale sono molto interessati a questo movimento. Noi amiamo il fado, ma anche l’indie rock, il pop, il jazz e l’elettronica. Per esempio, al Festival di Coimbra abbiamo aperto lo show dei Morcheeba. In generale siamo convinti che sia davvero un buon momento per fare musica in Portogallo». È un Portogallo che ha conosciuto la Rivoluzione appena 35 anni fa, una democrazia giovane reduce da stagioni di grande rilancio nel cinema, nella letteratura e nella musica. Oggi c’è ancora quell’entusiasmo o il peso della crisi, il ritorno di incubi come il razzismo, il crollo degli investimenti sull’istruzione e sulla cultura stanno uccidendo l’ottimismo? Ana «Non ci sono molte ragioni per essere ottimisti oggi in Portogallo. Ma noi ci sforziamo di avere un approccio positivo. Siamo cresciuti sentendo la gente dire che le cose vanno male, però vogliamo fronteggiare tutto questo da un punto di vista ottimista. Sedersi a piangere non è il modo migliore per migliorare la situazione». Qual è la tua Lisbona e cosa non deve perdersi un lettore italiano che pensa di trascorrere un lungo weekend nella tua città? Ana «La mia Lisbona è un insieme di diverse Lisbona. Credo che il suo principale motivo di fascino consista proprio nella Titolo Dois selos e um carimbo Etichetta World Connection / Egea Titolo Canção ao lado Etichetta World Connection / Egea Online www.deolinda.com.pt 09 AUTUNNO 2010 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE Cuba www.felmay.it FELMAY FELMAY Mamud Band fy 8171 Antonio Castrignanò Opposite People The Music of Fela Kuti file under mamud band afrobeat word music Mara la fatìa Storie di Pizziche Tarante e Tarantelle 1 2 3 11 classici del compositore nigeriano in versioni originali, 5 6 sorprendentemente fresche 4 10 Ensemble Marâghî 7 Lalgudi G Jayaraman Lalgudi G Jayaraman Anwâr Sublime Strings From Samarqand to Costantinople 8 on the Footsteps of Marâghî Da Samarcanda a Costantinopoli Brani della Tradizione Classica Ottomana e Persiana interpretati da un ensemble arricchito dalla voce di Sepideh Raissadat In due lunghi brani la grande capacità del violinista indiano di dispiegare le meraviglie improvvisate della musica dell’India del Sud Sublime Strings South Indian Classical Music 8171 mamud.indd 1 9 8-07-2010 10:45:17 10 8161 Lalgudi Pallavi IIIpk.indd 1 31-05-2010 16:54:28 Gamelan of Central Java Trance Gamelan in Bali XIV. Ritual Sounds of Sekaten 12 13 Birkin Tree 16 Virginia 14 thiopiques 19 Nuovo CD in solo del chitarrista di origini spagnole. Una serie di brani originali nel più puro stile flamenco. new Tri Muzike Sweet Limbo Dopo le intense esplorazioni del repertorio balcanico i Tri Muzike coniugano 21 in questo nuovo CD la 22 tradizione dell’Est con quella della canzone d’autore italiana. Un elogio laico al libero territorio del’anima, affrancato dall’assillo delle categorie e25delle 24 appartenenze. Felmay • 16 strada 16 •AL15033 san germano AL • italy ph. +39 0142 50577 fax +39roncaglia 0142 [email protected] Felmay roncaglia • 15033 san50780 germano • italy www.felmay.it FELMAY• strada FELMAY FELMAY ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it FELMAY vol. 5 - Tigrigna Music 1970-75 vol. 10 - Tezeta - Ethiopian Blues and Ballads ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it fy 8154 La Moresca vol. 6 - Mahmoud Ahmed vol. 11 - Alèmu Aga - The Ammore, Trivolo,Harp of King David Almaz 1973 Currivo e Devozione 12 - Konso Music la moresca vol. 7 - Mahmoud (vota laAhmed rota de lavol. vita mia…) vol. 3 - L'age d'or de la & Songs Erè mèla mèla 1975 musique ethiopienne vol. 13 - The Golden moderne 1969-1975 Erede della grande tradizione vol. 8 - Swinging Addis ammore Seventies popolare campana, la Moresca- Ethiopian Groove vol. 4 - Mulatu Astatke trivolo 1969-1974in un album incentrato sui temi currivo vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya Ethio Jazz & Musique e dell’amore, tribolazioni, collera e devozione Instrumentale, 1969-1974 vol. 9 - Alèmayehu Eshété Negus of Ethiopian Sax devozione. la moresca - ammore, trivolo, currivo e devozione file under la moresca italy vol. 2 - Azmaris urbains des annèes 90 7033 Fabio barovero_DIGIPACK.indd 1 8158_libretto.indd 1 felmay EGEA distributore esclusivo per l’Italia P Felmay 2009 P Felmay 2009 Felmay • strada roncaglia 16 • 15033 san germano AL • italy 23 2010 2010 P Felmay 2009 P Felmay 2009 ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it ts traditional & arranged Duca except Migliaccio; io Del Duca o Migliaccio d by Felmay new Fabio Barovero Pause Felmay • strada roncaglia 16 • 15033 san germano AL • italy FELMAY FELMAY vol. 1 - L'age d'or de la musique ethhiopenne moderne 1969-1975 I manifesti sparsi per le strade sono pieni di tagli. Piccoli sfregi che li trasformano in tele attraversate da una scarica di pallettoni. Per un attimo abbiamo pensato fossero provocati da qualche teppistello ebete. In realtà tagliare le tele è l’unico modo per non farle gonfiare troppo, per far sì che non vengano strappate dal vento, per non farle volare via. A Essaouira il vento non cessa mai. Può essere una piacevole brezza durante il giorno, può essere un aliseo un pò più freddo e insistente di sera, può essere una corrente gelida di notte. Ma il vento che batte sulla città in questi giorni è di tutt’altro tipo. È un vento innescato dalle raqs e dal guimbri, un vento pilotato dai Maâlem che lo fanno crescere e sferzare come una vertigine addomesticata a fatica. Il vento di Essaouira è quello della musica Gnaoua, la musica fortemente sincretica che è diventata il vessillo della città, non più solo quello della comunità di ex schiavi subsahariani che l’ha codificata molti secoli fa. I maâlem sono appunto i suonatori di guimbri (una sorta di basso arabo a tre corde che si suona slappando), ma sono anche i depositari del rito gnaoua, verrebbe da dire che sono i custodi della vertigine. Al loro fianco ci sono puntualmente i suonatori di raqs (nacchere in ferraglia) che sembrano un pò dei cherichetti al servizio del maâlem. È lui che li imbecca, lui che li instrada sul binario ritmico, lui che li proietta verso il ballo e verso la trance. E sono sempre i maâlem che guidano gli incontri fertili che il festival propizia ogni anno coi musicisti di altre culture sonore. Juan Lorenzo La tradizione musicale irlandese interpretata in un modo originale ed innovativo. 20 testo e foto di Valerio Corzani Flamenco de Concierto 17 18 E ssaouira Gnaoua Festival Il nome Trance trova giustificazione nello stato psico-fisico al quale, in teoria, produzioni di questo stampo dovrebbero condurre i 15 ascoltatori (Wikipedia) propri Musiche rituali legate alle cerimonie religiose islamiche. 11 23 Essaouira vol. 15 - Europe meets Ethiopia - Jump to Addis vol. 21 - Emahoy Tsegué & Maryam Guèbrou Piano Solo Massimo Ferrante vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu The Lady with the Krar Jamu vol. 22 - Alèmayèhu Eshèté 1972/1974 vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè Il cantore con un Ethiopia vol.calabrese 23 - Orchestra vol. 18 - Asguèbba ! programma di brani originali e vol. 24 - L'age d'or de la tradizionali presentanti da una vol. 19 - Mahamoud Ahmed musique ethiopienneil formazione comprendente 1974 - Alèmyè moderne 1969-1975 bravissimo chitarrista Lutte Berg. Nuova linfa per la musicaRoots popolare vol. 20 - Either Orchestra & vol. 25 - Modern italiana1971/1975 Guests - Live in Addis 6-05-2010 15:33:57 5-08-2009 14:41:49 felmay distribuzioni • vendita per corrispondenza • richiedete il catalogo strada Roncaglia 16 - 15033 San Germano AL - Italy 09 AUTUNNO 2010 ph +39 0142 50 577 fax +39 0142 50 780 [email protected] www.felmay.it 09 AUTUNNO 2010 24 25 Essaouira Mondomix.com / 360° Essaouira viene considerata una sorta di San Francisco nordafricana, mentre durante i giorni del festival Gnaoua la definizione più ricorrente è quella di Woodstock del maghreb. Hendrix e Jagger ci hanno fatto una capatina in passato, così come Pasolini, Orson Wells, Ridley Scott che ci hanno girato scene dei loro film. È una città che accoglie una decina di festival nel corso dell’anno, piazzati negli slarghi della sua bellissima casbah o su qualche recinto della spiaggia lunga 12 chilometri, la stessa che un plotone di surfisti sceglie di popolare ogni giorno per le onde invitanti dell’oceano. I paragoni con Woodstock non sono un iperbole. L’atmosfera di questa città è davvero peace & love. Gnaoua e rastafari, rapper e hippie, asceti e gaudenti si abbracciano in unica grande crew giovanile. Gente di tutto il mondo che trova in Essaouira uno sfogo alle proprie pulsioni liberatorie, ma soprattutto la nuova gioventù marocchina che approfitta di questa enclave libertaria per dare sfogo alle proprie trasgressioni. Tutte pacifiche. Pulsioni che naturalmente accolgono a braccia aperte le performance dei musicisti e degli adepti. Strano destino quello di Essaouira. Una cittadina che di giorno rimbalza e rifrange centinaia di colori, deve la sua notorietà planetaria a un rituale notturno. A svelare Mogador (come la chiamavano gli spagnoli) non bastano le sue gallerie d’arte, i suoi hammam, il suo suq speziato, il suo porticciolo che ogni mattina celebra il teatrino del ritorno dei pescherecci pedinati dai gabbiani. A spiegare questo luogo luminoso e speciale, affacciato sull’oceano e sferzato dagli alisei, ci vuole la notte. Un particolare tipo di notte, la lila, la notte rituale dei musicisti Gnaoua, ma anche quella pagana e ludica dei ragazzi marocchini più freak che nei giorni del festival Gnaoua invadono la spiaggia per dormire, fumare e seguire i concerti delle star della nuova generazione musicale del Maghreb: Oba Oba Spirit, Haoussa, H-Kaine, Darga... Ascoltare il Maâlem Rachid El Hamzaoui slappare con forza sul suo guimbri, il basso a tre corde che è lo strumento sacro di questa confraternita, e incitare i suonatori di raqs (le nacchere metalliche) a una danza sempre più frenetica e ossessiva è un’esperienza che apre le porte della percezione. La Zaouia Gnaoua dove è stata celebrata la lila sabato sera è una specie di casa con un cortile interno, un riad adibito alle ceremonie come la Zaouia Hmadcha, altra luogo scelto per queste pratiche musicali che vanno avanti per ore e ore e trovano nel Gnaoua Festival il suo zenith di notorietà e di frequentazione. A Chez Kebir si esibiscono anche il cantante pakistano Faiz Ali Faiz e il mandolinista francese Titi Robin che dopo aver sposato i propri differenti mondi musicali trovano la forza e l’ispirazione per aggiungere anche il suono acre del mizmar (una sorta di oboe di origine egiziana), perno timbrico di ogni esternazione sonora degli Issaoua di Meknés. «Si è celebrata istantaneamente una vera e propria fusione, ha dichiarato il pianista jazz Scott Kinsey, altro convitato dell’edizione 2010, anche se non riuscirei a definirla con schemi musicali o con bozzetti teorici». La notte fa la sua parte in questo gioco di concessioni e di svelamenti, ma c’è anche una disponibilità di fondo dei musicisti che si avvicinano a questa cultura cosi forte e vivificata con un rispetto che evidentemente protegge la caratura di esperimenti sulla carta spericolati. «La musica è una questione di linguaggi più che di dialetti, notava Pat Metheny in una delle edizioni passate, noi e i Gnaoua non parliamo lo stesso dialetto, ma parliamo la stessa lingua». Ce ne andiamo da Essaouira di notte, così come di notte eravamo arrivati. Poco prima di partire dalla Porta Sbaa, siamo riusciti ad approfittare di un ultimo set del Maâlem Mahjoub El Gnawa. A due passi dalla porta infatti c’è Chez Kébir, uno spazio molto intimo dove la cerimonia gnaoua assume contorni ancora più sfrenati e lo spirito originario viene interamente preservato. Sulla strada che ci porta a Marrakech continua a tornare l’immagine di un’anziana (per le strade della città ci sono sempre molti ragazzini e molti anziani) impegnata a danzare sui passaggi ritmici del maâlem. Al Chez Kébir si agitava coperta da un velo. La stessa mossa iterativa, ripetuta per quasi un’ora, in un equilibrio instabile che pure non la faceva mai cadere. Dove Essaouira (Marocco) Quando giugno 2011 Online www.festival-gnaoua.net Anche il popolo della spiaggia dove si esibiscono i nuovi gruppi marocchini è emblematico. Una fotografia del nuovo Marocco, scattata in questa città che da sempre viene definita la San Francisco del Maghreb per la sua attitudine tollerante e libertaria, un’esprit illuminato che negli anni sessanta aveva già attirato tanti rockers e scrittori occidentali. I giovani e gli adolescenti sono interessati al rap barricadero degli H-Kaine, crew hip hop di Meknés che parla spesso di temi sociali e di politica, ma sono anche infatuati della musica Gnaoua al punto che negli angoli del suq o nel marciapiede che costeggia le mura fortificate si trovano drappelli di musicisti di strada, con giovanissimi pretendenti maâlem (maestri) che improvvisano interminabili sessions armati di guimbri, raqs e voci. Il festival vero e proprio è giunto alla sua tredicesima edizione. Un festival che non è un artificio, perchè la musica gnaoua fa davvero parte del dna di questa cittadina, e che allo stesso tempo ha allargato a dismisura il numero degli adepti, grazie alla sua forza propositiva e alla sua spregiudicatezza artistica. Gli adepti con passaporto sono i musicisti guidati dai vari maâlem che per l’occasione arrivano non solo da Essaouira, ma anche da Casablanca, Rabat, Tangeri, Marrakech...: mettono in scena il cerimoniale misterico di questa etnia che ha meticciato riti ancestrali degli schiavi africani (giunti in questa zona nel sedicesimo secolo), cultura berbera e islam. Quelli senza passaporto sono gli artisti coinvolti nel cast del festival per contaminare ulteriormente questa musica che si presta evidentemente molto bene a fungere da scheletro, da perno ritmico, da tavolozza. 09 AUTUNNO 2010 09 AUTUNNO 2010 26 27 Mondomix.com Dove trovare Mondomix Abruzzo Gong (Pescara) Basilicata Discoland (Matera) Shibuya (Matera) Hobby Music (Potenza) Calabria Musica In Senso (Catanzaro) Il Pentagramma (Crotone) Punto Disco (Lamezia Terme – Cz) Overture Diffusione (Roccella Ionica - Rc) Campania Top Dischi Di Minicozzi Luigi (Benevento) Juke Box (Caserta) Casa Del Disco (Faenza – Ra) Diapason (Napoli) Tattoo Records (Napoli) Disclan (Salerno) Idea Disco (Sorrento – Na) Emilia Romagna 8 Ball Records (Arceto – Re) Fornaciari Music (Barco – Re) Disco Frisco (Bologna) Libreria Mel Bookstore (Ferrara) Birdland (Modena) Max Records (Modena) Folk Studio (Ravenna) Discoland (Reggio Emilia) Infoshop (Reggio Emilia) Friuli Venezia Giulia Musicatelli (Pordenone) Vilevich Fausto (Trieste) Lazio Arion Z (Roma) df Point (Roma) Gelmar Novamusa (Roma) Griot (Roma) L'Allegretto (Roma) La Discoteca Al Pantheon (Roma) Libreria Amore E Psiche (Roma) Libreria Mel Bookstore (Roma) Underground (Viterbo) Liguria Disco Club (Genova) Music Store (Genova) Jazzanto (Genova) Libreria Ragazzi (Imperia) 09 AUTUNNO 2010 Casa Musicale (La Spezia) Casa Del Disco (Rapallo – Ge) Pop Off Tuttomusica (Sanremo – Im) Refrain (Sanremo – Im) Lombardia Cotton Club Musica (Bormio – So) Cavalli Strumenti Musicali (Castrezzato – Bs) F.Lli Frigerio (Como) Carù (Gallarate – Va) Il Pensatoio (Mantova) Buscemi Dischi (Milano) La Cerchia (Milano) Libreria Birdland (Milano) Libreria Carla Sozzani (Milano) Libreria Largo Mahler (Milano) Norma Libri (Milano) Stradivarius (Milano) Veneto Libri (Milano) Carillon Dischi (Monza – Mi) Bergamo Musica (Seriate – Bg) Casa Del Disco (Varese) Musicando (Vimercate – Mi) Marche Discostory (Civitanova Marche - Mc) Transylvania Dischi (Jesi – An) Pietroni Dischi (Macerata) Amadeus Dischi (Porto San Giorgio - AP) Musiquarium (Porto Sant'elpidio - AP) Piemonte Palio Di Morino Elio & C. 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Emanuele II) Monza Via Azzone Visconti, 1 Napoli Via Santa Caterina a Chiaia, 23 Padova Piazza Garibaldi 1 Roma Via del Corso 506 Roma Galleria A. Sordi, Piazza Colonna 31/35 Roma Largo Torre Argentina, 7/11 Roma Viale G. Cesare, 88 Roma C. Comm.le Forum Termini Roma Viale Marconi 184,186,188,190,192,194 Roma Viale Libia 186 Roma Via Camilla 8/C Salerno C.So Vittorio Emanuele I, 230 Salerno C.so Vittorio Emanuele 131/133 Torino Piazza C.L.N. 251 Umbria Egea Store (Perugia) Mipatrini 1962 (Perugia) Musica Musica (Perugia) Centro Musicale Ialenti (Terni) Valle d'Aosta Il Disco (Aosta) Veneto Discoteca Pick Up (Bassano del Grappa – Vi) Dischiponte (Bassano del Grappa – Vi) L'Opera Al Nero (Castelfranco Vto - Tv) Drop Sound (Conegliano - Tv) Casa Del Disco (Mestre – Ve) Feliciotto (Mestre – Ve) Good Music (Mestre – Ve) Gabbia (Padova) Musical Box (Portogruaro – Ve) Mezzoforte (Treviso) Saxophone (Vicenza) Firenze Via San Quirico 165 (Campi Bisenzio) Genova Via XX Settembre, 46/R Milano Via della Palla, 2 Napoli Via Luca Giordano, 59 Roma Via Alberto Lionello, 201 Torino Via Roma, 56 Torino Shopville Le Gru Verona Via Cappello, 34 Consulta la versione digitale interattiva di Mondomix Italia da www.mondomix.com 09 AUTUNNO 2010 28 Specchi Afghani di giovanissimi registi, tra cui i già citati Razi e Shoeila, che cercano in qualche modo di ricomporre i frammenti dello specchio culturale afghano. Uno specchio mandato in frantumi da decenni di guerra. Mettere insieme quelle schegge è stato il loro sogno: ricostruire una superficie su cui si possa riflettere nella sua interezza la complessità della cultura afghana. La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendo riflessa in esso la propria immagine, credette di possedere l’intera verità. Mevlana Jalaluddin Rumi (sec.XIII) di Enrico Verra Kabul, primavera 1996: la città è assediata dai talebani. Letteralmente sotto le bombe Timur Akimyar sta girando il suo primo lungometraggio negli studi dell’Afghan Film, la Cinecittà afgana, fondata nel 1968 dal re Zahir Shah. Il film si intitola Vortex (Ghrdaab) ed è un melodramma ambientato nel mondo della droga e dello spaccio. Durante le riprese una granata colpisce il set. «Morirono sette persone, ricorda oggi il regista, e io stesso sono vivo per miracolo». Le immagini dei corpi dilaniati degli attori e dei tecnici sono visibili ancora oggi, nella sequenza iniziale dell’unica copia rimasta di Vortex. Sono cadaveri veri, non comparse e sangue finto. La morte ha devastato il set di Vortex, e, in questo, non c’è nulla di simbolico. C’è la cruda realtà del dramma afgano. C’è la volontà di esistere come popolo e di produrre un cinema in cui ci si rispecchia e c’è l’ennesima guerra afgana, che come sempre è nata altrove, è stata decisa in altra sede e che, devastante, impone le sue leggi. Storie Kabul, autunno 1996: i talebani conquistano la città. Il 5 dicembre emanano il decreto che proibisce, tra le altre cose, il cinema e la televisione. Cito testualmente: Articolo 6: Divieto dell’idolatria. Nei vicoli, nei negozi, negli alberghi, nelle stanze e in ogni altro luogo le immagini e i ritratti sono aboliti. I controllori distruggeranno tutte le immagini nei luoghi suddetti. Si portano al macero i televisori e si demoliscono le sale cinematografiche. L’Afghan Film viene chiusa e le pellicole in essa custodite vengono bruciate con un grande falò a Pul-i-Charki, un sobborgo a nord della capitale. Registi ed ex impiegati cercano di salvare il salvabile e, correndo rischi personali altissimi, nascondono le copie dei film afgani che riescono a recuperare nelle proprie case, nelle intercapedini dei muri, sotto i pavimenti. In tutto vengono salvati una sessantina di film, tra lungometraggi di finzione e documentari. Praticamente sono le uniche immagini rimaste dell’Afghanistan prima dei quasi trenta anni di guerre che l’hanno travolto. «Dovete dirlo, aggiunge Timur Akimyar, esiste ancora un’immagine dell’Afghanistan diversa da quella di Rambo. Abbiamo rischiato tutti i giorni, ma qualcosa è rimasto». E vedere quei film fa impressione: sono film di valore diseguale ma film che raccontano un paese oggi quasi inimmaginabile. Film in costume che riprendono leggende tradizionali, melodrammi e storie di conflitti sociali che raccontano un paese che cercava una sua strada tra tradizione e modernizzazione, tra cultura propria e influenze occidentali. Non si vede una sola donna con il burqa in questi film, ma, al contrario, c’è addirittura del glamour: 09 AUTUNNO 2010 29 Cinema Afghano Mondomix.com / 360° rossetti, tacchi a spillo, scollature, feste danzanti e bottiglie di whisky. Le Statue che Ridono (Mujasema ha Mekhandan) di Toryalai Shafaq filma i conflitti tra classi sociali, Ceneri (Khakestar) di Saeed Orokzai racconta il problema delle tossicodipendenze con allucinate sequenze nelle fumerie clandestine e in Akhter Il Buffone (Akhter Maskaneh), probabilmente il miglior film afgano prebellico, Latif Armadi inquadra una sensualissima e per nulla castigata Bassira Khatera con uno stile quasi da Nouvelle Vague. E poi ci sono i documentari. In primis quelli che raccontano la straordinaria arte buddista preislamica, saccheggiata da tutti i signori della guerra e distrutta definitivamente dai talebani che hanno tirato giù a cannonate i due Buddha di Bamiyan. Soheila Javaheri Soheila Javaheri è una giovane regista iraniana. Moglie del realizzatore afgano Razi Mohebi. I due sono rientrati a Kabul, dall’esilio iraniano, dopo la caduta dei talebani. Soheila ha lavorato per far si che questi film fossero visti nei festival europei (Locarno, Nantes, Museo del Cinema di Torino) e dà un giudizio significativo su queste pellicole: «In questi primi film afgani, nonostante la qualità diseguale, senti l’energia di un cinema che sta nascendo. Vedi che c’è uno stile che si sta inventando. Non posso dimenticare queste prime pellicole: è un inizio da cui si poteva continuare, il cinema afgano a partire di lì si poteva sviluppare. Ma già durante la guerra tra i russi e i mujaheddin era iniziata la distruzione sistematica della cultura afgana». Già perché i russi imponevano la loro propaganda e i mujaheddin distruggevano scuole e biblioteche: erano gestite da un governo filosovietico e quindi dovevano sparire. Kabul inverno 2001: l’Afghanistan post talebano è saturo di immagini. Alla caduta del regime di Mullah Omar si precipitano nel paese televisioni da ogni dove e la rete si intasa delle immagini amatoriali di tutti quelli che passano per il paese: dai soldati spediti a combattere fino ai volontari delle Ogn. Mohsen Makhmalbaf L’Afghanistan, da sempre terreno di battaglia degli eserciti di mezzo mondo, diventa terreno predatorio del sistema mediatico contemporaneo. Telecamere rapaci raccontano una loro verità che sembra anche essa costruita altrove e le immagini diventano spesso e volentieri pezze d’appoggio per teorie sul paese costruite fuori dal paese e sulla testa degli Afgani . In questa marmellata visuale il cinema afgano, un cinema di cultura e identità afgana, cerca disperatamente di crearsi un suo spazio e vive una brevissima ma straordinaria stagione. Figura cardine di questa rinascita è il regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, intellettuale in continuo movimento tra Iran, Tagikistan lembi di Turchia e Afghanistan, in ogni paese, cioè, dell’area culturale persiana . Considerato a ragione uno dei grandi assoluti del cinema contemporaneo ha lavorato indefessamente per la causa afgana. Dopo aver girato il documentario Afghan Alphabet sui drammatici problemi dei campi profughi afgani in Iran, ha fondato l’Afghan Children Education Movement, movimento che dopo il 2001 ha trasferito la sua sede a Kabul. Ha viaggiato clandestinamente nell’Afghanistan talebano per preparare il suo film di denuncia Viaggio a Kandahar e ha prodotto i film afgani delle sue due figlie: Alle Cinque della Sera e il recente Two-Legged Horse di Samira e Buddha Collapsed Out of Shame di Hana. È stato direttamente maestro di quasi tutti i giovani registi afgani contemporanei che, esuli in Iran, hanno potuto frequentarlo e seguire i suoi insegnamenti. Da Parigi, invece, rientra a Kabul il franco-afgano Atiq Rahimi che filma nel suo paese di origine Terre et Cendres, film che fin dalla sceneggiatura gioca su storie che si rispecchiano l’una nell’altra. Siddiq Barmak E soprattutto, a Kabul, da dove di fatto non si era mai allontanato, riprende a filmare Siddiq Barmak, sicuramente il più interessante regista afgano contemporaneo. Ha studiato giovanissimo nella scuola di cinema di Mosca, nella paradossale posizione dell’occupato che impara a costruire immagini nelle scuole dell’occupante. Ha raccolto l’eredità estetica dei film afgani di Makhmalbaf. Lo ha sostituito a capo della Afghan Children Education Movement. Ha realizzato con Osama, storia di una bambina che nei giorni bui del dominio talebano si traveste da ragazzo per poter frequentare la scuola, un’opera di successo e impatto internazionale. Nato nel 1962 ha fatto in tempo a conoscere l’Afghanistan e il cinema afgano prebellico ed è diventato un modello per i realizzatori più giovani. Proprio intorno alla figura di Barmak si coagula un gruppo Purtroppo ai pochi mesi di entusiasmo seguiti alla cacciata dei talebani ha fatto seguito una situazione di instabilità e conflittualità diffusa. La situazione nel paese sembra incancrenita su un brutto stabile con intere aree completamente fuori controllo. E per molti realizzatori afgani l’esilio è stata di nuovo l’unica strada praticabile. L’Esodo dalla Liberazione In Italia ci sono: Razi Mohebi e Shoeila Javaheri, autentici capofila del nuovo cinema afgano; Mirvais Rekab, autore di un corto che è una sorta di Nuovo Cinema Paradiso ambientato tra i ruderi delle sale cinematografiche afgane; Ehsan Ehsani, produttore del corto Buddha, The Girl, the Water. E’ stato presidente e animatore della tv di Bamiyan. Mohammad Khadem che dopo aver diretto in Afghanistan il corto Mama, sto ora lavorando in Italia a un nuovo film Il Burattino Rosso. Amin Validi, regista del corto Ganj Dar Veirane, è dovuto fuggire dal suo paese colpito dalle minacce di morte dei talebani. Stava lavorando a un progetto che raccontava le ultime 24 ore di un mullah aspirante suicida e che all’ultimo momento rinuncia a premere il bottone. Doveva intitolarsi Le Chiavi del Paradiso. «Erano email, testimonia, all’inizio pensavo fossero spamming. Ma poi sono diventati più chiari, sapevano cose precise sul mio conto. Hanno telefonato al mio numero di casa, hanno mandato una lettera con minacce di morte. La mia famiglia è dovuta scappare in un’altra città. All’inizio erano solo versi del Corano, un’esortazione a tornare all’Islam. Poi sono arrivati ad accusarmi di essere un kafir, un infedele… è molto pericoloso essere indicati come kafir in Afghanistan. E purtroppo vedo che i talebani stanno infiltrando di nuovo loro uomini nei ministeri della cultura, dell’informazione e delle telecomunicazioni…». Amin Validi non ci stà, tiene un aggiornatissimo e seguitissimo blog, prende lezione di Italiano e lotta per riuscire a realizzare due cortometraggi che ha in testa. Per questi registi esuli, che non accettano imposizioni, che rischiano la vita per poter filmare e che filmano per sentirsi vivi in una guerra infinita, calza alla perfezione la definizione che Hamid Dabashi, grande studioso del cinema medioorientale ha dato di Mohsen Makhmalbaf: the last rebel filmaker. Gli ultimi cineasti ribelli, registi per cui filmare è l’unico modo per ribellarsi all’inferno in cui la guerra li ha precipitati. 09 AUTUNNO 2010 30 Razi e Soheila Essere ancora vivi di Enrico Verra Razi Mohebi è un adolescente quando i russi invadono l’Afghanistan .Fugge in Iran: l’approdo naturale per lui che è di etnia hazara e quindi, come gli iraniani, di religione sciita e di lingua e cultura persiane. Ma in Iran le condizioni di vita per i profughi afgani sono durissime. Non hanno diritto a nulla e ogni forma di istruzione gli è praticamente preclusa. Superando esami durissimi Razi riesce a iscriversi all’unica scuola che a stento lo accetta: la facoltà di teologia nel paese degli ayatollah. Studia teologia per quindici anni e intanto frequenta clandestinamente un corso di pittura, pratica assolutamente vietata dalle regole coraniche. È in questo contesto che scopre il cinema. Sono gli anni in cui esplode la new wave iraniana e Kiarostami, Panahi e Makhmalbaf si stanno imponendo alla critica internazionale. «Dipingo quando mi serve il silenzio, racconta Razi, Il cinema è un’arte “socievole”, non puoi fare i film da solo. Quando dipingo faccio un viaggio dentro di me. Quando faccio il cinema, invece, gli altri entrano dentro di me, io divento gli altri e tutto questo diventa un film». Appena in famiglia capiscono e che è pronto a gettare alle ortiche la carriera di mullah per diventare regista lo prendono per pazzo: è un disonore davanti a tutta la comunità. Makhmalbaf Razi non molla e diventa allievo di Mohsen Makhmalbaf. La scuola di cinema si trova a Teheran, a quattro ore di pullman dalla scuola di teologia. Razi fa la spola per tre massacranti anni. Studia contemporaneamente su due fronti, insegna pittura per arrotondare, e usa le ore in pullman per dormire. In questo delirio incontra Soheila Javaheri. Soheila studia ingegneria, insegna nella scuola in cui Razi tiene corsi di pittura e sta scoprendo il cinema alla cineteca di Teheran dove passano i classici del neorealismo italiano e la nouvelle vague francese. I film europei sono una boccata di libertà per una donna che cerca di sfuggire alle costrizioni della teocrazia iraniana. Innamorati l’uno dell’altra, drogati di cinema e convinti di fare del cinema la loro vita, Razi e Soheila decidono di rientrare in Afghanistan alla caduta del regime talebano. Kabul Film La Kabul che li accoglie è una città fantasma, devastata da oltre venti anni di guerre. Soheila gira un cortometraggio che racconta il suo primo impatto con la città distrutta. È la storia di un soldato che torna a casa, dopo una delle mille guerre afgane e si muove come un automa in una Kabul spettrale. Lungo le strade deserte incontra, come in un incubo, persone che non riconosce e che non lo riconoscono. Una donna potrebbe essere sua moglie, o forse è sua figlia cresciuta durante la sua assenza. Una foto appesa a un muro ritrae lui da giovane, o un fratello o un amico. «Il mio soldato, dice Soheila, non sa perché ha combattuto. Non sa più chi è sua moglie o sua madre. Entra in casa sua e non percepisce più nulla, non ha più nostalgia, e non è più un essere umano. Uccidere la nostalgia, vuol dire uccidere la memoria. È questa la conseguenza più grave della guerra: le case si possono ricostruire la memoria una volta persa è persa per sempre. Per uccidere un popolo devi ucciderne la memoria, 09 AUTUNNO 2010 31 Cinema Afghano Mondomix.com / 360° per questo in Afghanistan sono stati distrutti i film, le opere d’arte, i libri». Ed è anche per combattere tutto questo che Razi e Soheila fondano con un’altra ventina di professionisti, tutti afgani, la Kabul Film, prima casa di produzione privata mai apparsa in Afghanistan. In un momento in cui sembra che tutti vogliano filmare l’Afghanistan, si trovano ad essere al centro di quell’infinito gioco di specchi che è il delirio di immagini sull’Afghanistan che si riversa sul mondo. La Kabul Film si muove lungo tre direzioni: produrre opere di giovani registi afgani, fornire supporto tecnico e artistico alle produzioni cinematografiche straniere che arrivano nel paese e collaborare con le televisioni di tutto il mondo fornendo servizi e news. Razi Mohebi, nell’arco di pochi mesi si trova ad essere l’attore protagonista di Alle Cinque della Sera di Samira Makhmalbaf, a fare l’aiuto regista di Siddir Barmak sul film Osama, del regista franco afgano Atiqe Rahimi su Terre et Cendres e di Cristophe de Ponfilly, il leggendario documentarista francese che per anni ha raccontato l’Afghanistan con la sua telecamera. Nel frattempo produce i cortometraggi di numerosi suoi giovani colleghi, dirige i propri e realizza un numero notevole di documentari. Il tutto rischiando in prima persona in un paese per nulla pacificato. Una sera alla fine di una giornata di riprese di Osama, viene rapito, massacrato di botte per tutta la notte e scaricato pesto sul set, da una macchina in corsa, il mattino dopo. Soheila, intanto, realizza un quantitativo impressionante di servizi e documentari per la televisione francese e per alcune emittenti arabe e afgane. Online www.ina.fr Online www.cinformi.it Per scoprire la musica afgana si suggerisce di procurarsi il DVD dell’ottimo documentario Breaking the Silence (Aditi Image / Egea) di Simon Broughton prodotto dalla BBC. il miraggio Afghanistan C’è della schizofrenia in tutto questo perché ognuno chiede a te afgano un immagine diversa del tuo paese, fondamentalmente l’immagine che lui ha in testa a priori. «In Afghanistan, dice Soheila, siamo come in un film in cui l’Afghanistan è una location, i registi stanno altrove, i protagonisti sono importati e gli afgani fanno le comparse sullo sfondo». È un drammatico giudizio politico sulla storia afgana ed è nello stesso tempo la radiografia del massacro della cultura del paese. La lotta della Kabul Film era proprio quella: imparare lavorando con gli stranieri, produrre immagini proprie in cui ci si rispecchiava come afgani e utilizzare la collaborazione con le televisioni per cercare di far arrivare al mondo una propria immagine del proprio paese. I film di Razi e di Soheila sono però poetici e lenti, tutto il contrario del montaggio rapido e ossessivo che richiede la televisione. «La televisione è uno strumento politico, dice Soheila. Nell’anima della tv non ci sono né arte, né democrazia, ma solo propaganda. Le televisioni ci chiedevano servizi fatti a sostegno di una linea politica piuttosto che un’altra, ma lavorando in contemporanea per televisioni diverse riuscivamo in qualche modo a far passare anche il nostro punto di vista». La Kabul Film con il suo iper attivismo si trova però improvvisamente allo scoperto: «Avevamo un energia, dice Razi, talmente forte che a un certo punto non ha più trovato nessuna continuità nella società che ci circondava e politicamente non siamo riusciti a gestire la situazione». La Kabul Film viene fatta chiudere d’autorità e mentre si trovano in Italia, per presentare i loro cortometraggi a un festival trentino, una telefonata di amici li avverte di non rientrare: non sarebbero sopravissuti. ancora vivi «Stavamo lavorando a un documentario sulla produzione dell’oppio, racconta Soheila, e a un altro sulle numerose giornaliste uccise in Afganistan negli ultimi anni. Due argomenti tabù. Avevamo portato le nostre telecamere nei territori controllati dal governo, in quelli controllati dalle mafie e in quelli controllati dai talebani. Svelavamo le connessioni nascoste e ci siamo ritrovati a essere scomodi per tutti , così ci hanno fatto fuori». Quello che rimane sono ore e ore di immagini inedite, ancora da montare, di un Afghanistan segreto e mai mostrato sugli schermi. Rimasti a Trento e ottenuto l’asilo politico Razi e Soheila, continuano a filmare.Nasce così una trilogia di Razi: il corto Carceri, il medio Reame del Nulla e il lungo Gridami che sono una riflessione disperata sull’esilio. Una trilogia che grida forte al mondo il loro voler essere afgani. Non sono reportages adrenalinici. Sono immagini “persiane” dell’Italia, racconti afghani sull’immigrazione, sequenze liriche che gridano poeticamente un diritto che è negato. «Potremmo mangiare e avere una casa facendo altri lavori, ma così non potremmo essere vivi mentalmente, dice Soheila, questo significa il cinema per noi: essere ancora vivi». musiques et cultures dans le monde AAVV MIX MON DO ma Mi a The Rough Guide to the music of Afghanistan doppio cd World Music Network / Egea Una grande occasione per il pubblico italiano che con questa raccolta The Rough Guide to the music of Afghanistan ha la possibilità di avvicinarsi alla ricchezza musicale e culturale di un paese e di un popolo che sta soffrendo da più di trenta anni guerre decise da altri e dove musica e arti hanno subito persecuzioni tali da riuscire in sole tre decadi a falciare secoli di storia e di tradizioni musicali. Situato al crocevia fra l’Impero Persiano, l’India e l’Asia Centrale, l’Afghanistan ha storicamente assorbito la fusione di queste influenze arrivando a creare quella propria identità culturale che faticosamente è riuscita a sopravvivere nonostante gli attacchi dei suoi persecutori. Questi trenta anni di musica sono raccontati dal primo disco che apre con un brano pop di Setara Hussainzada.Tanto per ricordarci che il bourqua è solo una realtà relativamente recente, la voce di una donna che interpreta una canzonetta è seguita dalla voce di un’altra donna, Farida Mahwash, che esegue una meravigliosa melodia sufi. Per mancanza di spazio è impossibile raccontare nel dettaglio ognuna di queste proposte fra le quali si annoverano voci, strumenti e sonorità diverse proprie di questa terra e che da qui si sono diramate in varie parti del mondo. Proprio come il contenuto del bonus cd, del Ahmad Sham Sufi Qawwali, il genere musicale religioso nato in terra afgana ed oggi diffuso in Pakistan e nell’India del Nord, che peraltro ha vissuto un momento di popolarità internazionale attraverso la figura e l’indimenticabile voce del compianto Nusrat Fateh Ali Khan. Elisabetta Sermenghi 09 AUTUNNO 2010 32 33 Zanzibar Mondomix.com //3 6 0 ° Il mio nome è taarab di Emanuele Enria Ed è proprio nel club Ikhwani che viene fondata la prima orchestra, che andrà man mano ingrandendosi dietro l’influsso esercitato dai film egiziani e indiani che si potevano vedere anche a Zanzibar, in cui comparivano grandi orchestre. Questo spiega anche il perché si ritrovino strumenti come la tabla e l’harmonium indiano: le concezioni ritmiche e la sensibilità vocale africana fanno eco agli strumenti del mondo arabo, d’Asia o d’Europa. Seduzione Uno dei momenti più belli del Festival des Musiques sacrées du Monde, tenutosi nella prima settimana di giugno 2010 a Fez, è stata la presenza del Rajab Suleiman Qanum Trio insieme alla voce di Shakila Saidi, una delle grandi figure del taarab di Zanzibar. E dire Zanzibar, in un luogo già così suggestivo come è Fez, ha significato viaggiare ancora di più verso l’immaginario che questa parola e quest’ isola sanno evocare, ovvero un crogiuolo di scambi tra mondo arabo, persiano, Asia, Africa che la musica del taarab, nel suo nascere, ha amalgamato come una rete da pesca gettata nelle acque dell’Oceano Indiano. Grande è il merito di Werner Graebner, produttore delle musiche del Trio, nell’aver portato avanti in questi anni una costante attività di concerti e pubblicazioni per far conoscere questo genere, ad esempio nella collana di cd dal titolo Zanzibara. storia Storicamente, le prime registrazioni di taarab datano 1928, quando alcuni rappresentanti dell’allora nascente HMV inviarono un gruppo di musicisti di Zanzibar a registrare i loro pezzi in uno studio di Bombay: facevano parte della spedizione alcuni nomi storici come Maalim Shaaban, Budda Swedi e Mbaruk Talsam, a cui si aggiunse poi, in una seconda sessione, quella che è considerata la più celebre voce femminile del taarab, Siti bin Saad. Ne seguirono altre, da parte di nomi come la canadese Columbia e la tedesca Odeon che, nell’insieme, andranno a costituire l’archivio della prima fase in cui si suonava il taarab, svelandone quella sua caratteristica assimilazione di musiche orientali, egiziane, indiane e swahili. In fondo, traducono nella musica ciò che Zanzibar è stata nei secoli, la porta d’entrata di tutta l’Africa orientale. Molto di quel che sappiamo sulle origini del taarab lo conosciamo grazie alle memorie di Shaib Abeid, uno dei fondatori di quello che è ancora oggi il club storico di Zanzibar, l’Ikhwani Safaa Musical Club (letteralmente: fratelli che si amano l’un l’altro), fondato nel 1905. È lui ad attribuire al taarab un’origine egiziana, insistendo su un fatto storico: sembra infatti che nel 1870 il sultano Seyyid Barghash bin Said abbia mandato un suo suddito al Cairo a imparare a suonare il qanum per poi goderne i frutti nel suo palazzo. Era l’epoca in cui i sultani eccellevano nei divertimenti a corte, per i quali erano disposti a far venire fanfare turche, orchestre dall’India e ogni genere di esotismo. 09 AUTUNNO 2010 Il taarab, come lo definiscono i suoi interpreti, è una musica nata per sedurre l’orecchio dell’ascoltatore e per farlo meditare sul mondo, l’amore o le numerose cose che arrivano nella vita. È una musica introspettiva, come lo mostra il significato originale della radice araba tariba, “essere commosso o sedotto” dal suono di uno strumento o da una voce, suonando della musica o ascoltandola. Con questo, la pratica del taarab swahili ha aggiunto delle nuove dimensioni a questa definizione. La sua poesia, infatti, che rispettava una volta le regole della prosodia araba, si esprime in maniera sempre più libera, descrive le vicissitudini e le gioie del quotidiano ed evoca altrettanto bene l’amore sacro come l’amor profano, per dirla alla de André. Così, al sillabare stridulo e dolce della voce accompagnata dalle percussioni, (il dumbak, la tabla e la rika, legate ai ritmi dell ngoma, una danza rituale di tutta la Tanzania) si gode anche del suono nitido dell’oud e del qanum, lo strumento cordofono a 72 corde della tradizione classica araba, insieme al giapponese taishokoto, una sorta di banjo passato attraverso l’India e divenuto strumento principe nei taarab dell’isola di Mombasa. Ascoltando la voce di Shakila Saidi insieme al Rajab Suleiman Qanum Trio (nella primavera 2011 uscirà la loro prima registrazione insieme), sembra di sentire ancora vibrare nelle corde l’essenza stessa del taarab, una musica profumata di viaggio, quasi i suoi stessi strumenti fossero spezie. Gli Album Culture Musical Club, Shime! WorldVillage / Ducale Zanzibara 1 Buda / Felmay Zanzibara 2 Buda / Felmay Dove Sauti za Busara Music Festival di Zanzibar Quando 9-13 febbraio 2011 Online www.busaramusic.org/festivals/2011/index.php 09 AUTUNNO 2010 34 Festival au Desert Presenze d’Africa African Brothers di Elisabetta Sermenghi di Mauro Zanda A 4 0 a n n i d a l l a v i s i t a a L a g o s d e i J B ’s , r e t r o s c e n a e aneddoti sull’incontro tra due rivoluzionari del ritmo… separati alla nascita. Se è vero che c’è un’Europa che ancora stenta a definire i propri confini, a trovare territori e intenti comuni su cui costruire la propria identità e un futuro possibile, è altresì innegabile che esiste anche un’Europa che superando confini e barriere culturali punta invece sull’incontro fra le culture e promuove scambi, ben consapevole dell’enorme ricchezza che da ciò può derivare. il programma firenze A Firenze, nel cuore dell’Italia e nello splendido scenario del Parco delle Cascine, riconsegnato all’uso collettivo della cittadinanza dopo quasi un decennio di chiusura e di degrado, si è tenuta dall’8 al 10 luglio scorso sotto il nome di Festival au Desert / Presenze d’Africa, una manifestazione in gemellaggio con il festival Tuareg originale che si tiene in Mali, nel mese di gennaio, da ben 10 anni. Si respira aria dal deserto nel caldo torrido dell’estate fiorentina, un odore d’ Africa che sembra aleggiare, curiosamente senza stridere, sul grande prato d’erba verdissima che ospita la manifestazione dove è stata allestita una tenda Tuareg, diventata un po’ il simbolo di questo evento. Voluto e pensato in primis dalla Fondazione Fabbrica Europa (organizzazione attiva sul territorio fiorentino soprattutto per quanto concerne arte, teatro e danza contemporanei), nelle persone di Maurizia Settembri e di Lorenzo Pallini, i quali, seguendo un percorso artistico che affonda le proprie radici in alcune fra le manifestazioni da loro curate in passato, hanno deciso di imbarcarsi nella non facile operazione di creare un evento italiano da gemellare con quello già esistente in Mali. Fondamentali in questa scelta la vissuta partecipazione di Maurizia, in veste di spettatrice, alla decima edizione del Festival au Desert e l’incontro con il direttore Manny Ansar con il quale è partita quest’idea di collaborazione. Questa stessa formula musicale verrà infatti riproposta a Timbuctu nell’edizione del gennaio 2011. 35 Lagos Mondomix.com / 360° L’intento è quello di creare una magnifica occasione di incontro e uno scambio fra artisti italiani e non solo (fra i partecipanti anche il tastierista francese Jean Philippe Rykiel e l’afroamericano batterista Hamid Drake) con alcuni musicisti africani residenti in Italia da diversi anni e che da noi hanno trovato una nuova dimensione artistica (fra i quali Badara Seck e Gabin Dabiré) alternandosi sul palco con gruppi e artisti venuti per l’occasione dal Mali come gli ipnotici Amanar, gruppo rivelazione dell’ultima edizione del Festival. Durante la tre giorni africana, sotto le tende montate sul grande prato verde si sono avvicendati mercatini, conferenze, letture, performance vocali, musicali e sciamanico - coreografiche a partire dal tramonto sino al calar della notte lasciando infine spazio al concerto che ogni sera si teneva sul grande palco dello splendido anfiteatro. Concerto che nella prima sera è stato una sferzata di energia allo stato puro convogliata sul palco principalmente da Badara Seck, accompagnato dal suo ensemble e arricchito dalle performance acrobatiche dei ballerini al seguito. La seconda serata ha visto come principale star il gruppo tuareg Amanar, dal Mali, che con le loro chitarre dal blues ipnotico di netta derivazione Tinariwen hanno trasportato il pubblico fra le dune del Sahara. Nella terza serata infine ha primeggiato l’abile e attesissimo Vieux Farka Toure, figlio del compianto Ali Farka, il cui travolgente blues abbraccia più volentieri il rock alla Hendrix che la sabbia del deserto. Durante tutte e tre le serate sul palco si sono poi avvicendati moltissimi musicisti, anche italiani, che hanno duettato a fasi alterne gli uni con gli altri, con esiti non sempre brillanti. Spesso si è trattato più di una fusion di stampo jazzistico che dell’incontro fra culture popolari. Lo stesso si può dire per lo spettacolo collettivo con più di trenta artisti sul palco, che ha chiuso la rassegna. Si è trattato di una prima edizione e l’augurio è che questa esperienza, il cui bilancio chiude sicuramente in positivo, sia stata solo l’apripista per un evento che sappia consolidarsi nel corso del tempo e raccogliere idee e iniziative da tutto il territorio italiano che già da tempo dialoga con l’Africa. Lagos, dicembre 1970. Il padrino del soul ha appena licenziato alcuni storici membri della sua band, rei d’aver osato chiedere un aumento di stipendio proprio a lui, il più infaticabile lavoratore dello show business. Con la risolutezza di sempre, Mr. Brown decide d’arruolare alcuni ragazzini terribili, in primis il formidabile ‘Bootsy’ Collins, bassista allora appena diciassettenne. Sarà un cambio di marcia pazzesco per il gruppo, in quel momento considerato a ragione la cosa funk più potente del globo… peccato solo che i nostri non avevano ancora fatto i conti coi misteriosi Afrika 70, la band di questo musicista nigeriano di cui già allora cominciavano a girare aneddoti in odor di leggenda. È lo stesso Bootsy a ricordare al giornalista Jay Babcock come andarono esattamente le cose: «Non appena arrivammo a Lagos cominciarono tutti a parlarci di Fela, il James Brown africano, THE Man. Fu così che ogni sera, dopo i nostri concerti, ci recammo nel suo locale, l’AfroSpot. Eravamo più o meno tutti, tranne James.» Assenza che Collins inscrive con sarcasmo nei domini dell’ego: «Probabilmente non voleva vedere nessun altro sul palco all’infuori di se stesso.» Bootsy ricorda l’esperienza in maniera nitida, e il suo racconto somiglia a tratti ad una vera e propria epifania: «Ci portarono nel camerino. La band già suonava, ma Fela stette un po’ a fumare con noi. Ci furono subito delle grandi vibrazioni, poi salì sul palco… e allora fu semplicemente sconvolgente! Pensavo che i JB’s, prima ancora di farne parte, fossero i numeri uno, ma vedere loro dal vivo fu un’esperienza senza precedenti. È difficile da spiegare, si trattava dello stesso non-stop groove di James Brown, solo portato in un’altra dimensione, più profonda.» Guardando a quel periodo, col senno di poi, è facile individuare tra i due un forte orizzonte comune; che per entrambi partiva dal ritmo e sconfinava nella filosofia pura: «L’accento sulla prima battuta non fu semplicemente un nuovo ritmo» racconta Brown nella sua autobiografia, «fu un’affermazione della nostra razza, della nostra statura, del nostro avanzare… Non c’era in gioco la musica, c’era in gioco la vita.» Rigore neo-primitivo e purezza mantrica, il ritmo come liberazione e catarsi. La loro influenza reciproca d’altronde appare difficile da sminuire. Sappiamo con certezza che Fela trovò la sua identità africana proprio in un soggiorno USA del 1969, folgorato dall’autobiografia di Malcolm X, ma anche da un pezzo-detonatore come Say It Loud, I’m Black and I’m Proud. Anche da un punto di vista strettamente strutturale, la rivoluzione apportata da Mr. Dynamyte alla musica soul nella seconda metà degli anni ‘60 (riduzione all’osso degli arrangiamenti e ‘trasfromazione’ di ogni singolo strumento in elemento percussivo) funzionò innegabilmente da stella polare per Fela Kuti e un’altra miriade di musicisti. A ben guardare però, lo stesso Brown sembrò aver metabolizzato quel viaggio molto più di quanto non avrebbe mai ammesso. Il batterista Tony Allen racconta che durante quelle notti all’Afro-Spot, David Matthews, l’arrangiatore dei JB’s, si posizionò davanti a lui con un bloc notes, nel disperato tentativo di trascrivere i suoi tentacolari movimenti di gambe e braccia. Michael Veal in Fela va oltre, e suggerisce un raffronto tra le versioni studio e live di alcuni brani (Mother Popcorn, Super Bad, Brother Rapp…) registrati dal padrino a cavallo tra il ‘70 e il ‘71; nelle versioni live, successive, la conclamata foga ritmica d’improvviso lascia spazio ad un groove inconsueto, più morbido; un groove che, come l’afrobeat, cuoceva il ritmo a fuoco lento. Inesorabile. Dagli Antibalas alla Budos Band, passando per i Daktaris, sono innumerevoli d’altonde le formazioni di moderno afrobeat che hanno utilizzato brani di James Brown riarrangiandoli nello stile di Fela. Perché l’incesto appare obbligato agli addetti di entrambi i culti. Ginger Baker, amico di Fela dai tempi degli studi londinesi e testimone diretto dei suoi gloriosi giorni a Lagos, sostiene che i due gruppi una volta suonarono addirittura nella stessa occasione. Ci piace pensare ad un disseppellimento postumo, audio o video non importa. Sarebbe il giusto ricongiungimento tra due grandi spiriti affini, gemelli del ritmo separati alla nascita da un oceano sconfinato e la tragedia del Middle Passage. Dove Mali Quando 6-8 gennaio 2011 Online www.festival-au-desert.org 09 AUTUNNO 2010 09 AUTUNNO 2010 36 ispirazione. E mi sembra ironico che, di tutta la tua ricerca di un equilibrio di identità, venga premiato il lavoro che uno potrebbe pensare come il più univoco. La ricetta dell’equilibrio di Luca Vergano illustrazioni Cristina Amodeo Ma non lo è affatto! Non è un disco di radici. È la celebrazione della loro complessità e ricchezza, in barba ai puristi. Per questo sono ancora più orgogliosa del risultato. Il ristorante di cucina ayurvedica è un rifugio di silenzio che stupisce, nel centro del traffico romano. Evoca la spiritualità dell'India a due passi da Piazza Del Gesù, sede storica della DC e della sua religione da elezioni. Che se uno volesse trovare dei segni a tutti i costi, questo sarebbe il primo, perché tutto questo incontro, alla fine, si rivela un esercizio di equilibrio. Saba è perennemente in bilico tra ingredienti all’apparenza inconciliabili. Ha recitato nella fiction La Squadra ma ha lavorato per la Manifesto Libri. Sul palco è colorata come Fela Kuti, ma quando la incontro è austera come Naomi Klein. Esplora la sua parte africana ma cucina pasta e risotti, perché non riesce a venire a patti con le sue tradizioni gastronomiche. Ok. The Street Foodie non vuole certo il posto di Woodward e Bernstein. Però è interessante questo, perché molti sono convinti che Jidka sia la tua prima esperienza discografica. Beh lo è nel senso che è il punto di equilibrio, è il primo lavoro in cui mi sono esposta in prima persona, il primo in cui mi riconosco parecchio. È minuta, ma cammina con passi lunghi due metri, facendo spostare i turisti che ingolfano la strada senza sfiorarli. E appena ci sediamo a tavola mi racconta di come sia stato difficile il mese e mezzo passato in Etiopia per registrare il nuovo disco. L’arrivo dei piatti interrompe la discussione. Ma anche il cibo si rivela una questione di equilibri, quasi a non volersi distinguere dal resto di questo incontro. Non conoscevo la cucina ayurvedica, mi sorprende per le sue sfumature. È rarefatta, dilatata, come l'atmosfera di questo posto. I gusti forti delle spezie sembrano essere stati distillati. L'India è una presenza discreta, come un cameriere attento alle tue richieste ma che non ti chiede ogni tre minuti se va tutto bene. Mentre iniziamo a mangiare, penso all’accoglienza riservata al suo disco. Non riesco proprio a digerire la maggior parte dei piatti tradizionali. Non so cosa sia, forse ho passato troppo tempo altrove e non ho più gli enzimi per assimilare certe cose, ma non ce la faccio. E pensare che mia sorella adora mangiare quelle ricette. È un peccato, perché ovviamente la sento proprio come una parte che manca. Bisogna averne la forza senz'altro. Ma bisogna averne anche l'energia, ché non è mica facile tenere vive tutte queste anime, no? Uno torna a casa alla sera e rischia sempre di averne lasciato un pezzo da qualche parte. Anche questa è una questione di digestione, in un certo senso. Sono bene allenata perché è dai tempi dell'Università che mi nutro di ingredienti che sembrano fare a pugni. Davo gli esami, poi saltavo sull'aereo per andare in Francia, dove un singolo di dance sul quale avevo cantato aveva avuto un 09 AUTUNNO 2010 Raggiungere il punto di equilibrio però non significa aver raggiunto la meta. C'è sempre modo di rimescolare le dosi. E siccome la sua eredità africana materna fa i conti quotidianamente con il lascito coloniale del padre, Saba ha deciso di non lasciare inesplorato neanche quel conflitto. Diciamo che ho trovato un’ennesima lente attraverso cui cercare di leggere una parte della mia storia. Sto lavorando con un amico a un progetto teatrale che dovrebbe andare in scena tra poco. Su Italo Balbo. Lo so, questo dettaglio è un po' imbarazzante per me che indago così sulle mie origini dice ridendo. Saba aveva cinque anni quando è arrivata in Italia dalla Mogadishu caduta in mano a Siad Barre. E dopo qualche anno pubblica Jidka, il suo primo disco. Jidka è la linea, in somalo, la linea che separa i diversi, quelli che si uniscono in matrimonio contro tutti, come i miei genitori, la linea che divide l'Etiopia dalla Somalia, a causa della quale ci sono ancora oggi problemi di confine. È la linea su cui nascono le paure e che bisogna avere la forza di attraversare spiegava in un’intervista, qualche tempo fa. 37 The Street Foodie Mondomix.com Ovviamente, le dico, siccome tu ti ci riconosci in pieno, altri fanno fatica a catalogarlo. Certi suoni sono troppo patinati per quelli che world music è solo se la registrazione è stata effettuata nel deserto, senza luce e bevendo dalle pozzanghere con la cannuccia depurante. E chi ama Rihanna forse viene disorientato dal suono del masinko (una specie di violino a una corda) e certe consonanti gutturali della lingua amarica. È un po' come questa zuppa che ci è appena arrivata. Non ha un gusto indiano per uno nato a Delhi ma non è cucina italiana per chi vive qui. È una sintesi di qualcosa che è diventato qualcos'altro. È la mia idea di World Music. La musica somala e quella etiope sono parte della storia della mia famiglia. Ma io, che sono cresciuta in Italia negli anni 80, come faccio a non portarmi dietro anche il pop elettronico? certo successo, facevo le mie serate e poi tornavo ad essere una studentessa qualsiasi. Un singolo dance? Saba ride. In realtà più di uno, ma è un pezzo della mia vita che tendo a non raccontare. Perché già all'epoca sapevo che non era quello che volevo essere. Mi serviva per pagarmi l'università ma a livello artistico sapevo che anni dopo non mi avrebbe rappresentato. Ma non ti dirò mai sotto quale nome ho registrato queste cose. Sorrido, ripensando ad un disco intitolato Zambian Hits Of The 80s. Un ping pong straordinario: i pezzi avevano le classiche melodie quasi caraibiche dell’Africa Occidentale, ma era come se fossero stati arrangiati dai Depeche Mode. Era chiaro che nello Zambia avessero sentito quello che andava in Europa e che volessero farne parte. Ma Zambian Hits è considerato un disco di world music tout-court, pur con quegli elementi estranei. Comunque alla fine la tua ricetta di sintesi è stata premiata. Il tuo secondo lavoro, Biyo, a ottobre è entrato nella Top 20 della European Chart Of World Music. Registrato nei tuoi luoghi d'origine, con musicisti locali. Un disco più tradizionale, se non altro in termini di assorbimento di Il governatore della Libia coloniale, solo. Il cuore della questione. Io incarnerò l'Africa Coloniale, e quindi volevo che le mie intenzioni e il mio ruolo fossero molto chiari e poco fraintendibili. Ma siccome il mio amico aveva delle idee diverse dalle mie, abbiamo dovuto discutere a lungo per arrivare ad un risultato che soddisfacesse entrambi. Lo definirei un altro grande lavoro di equilibrio. Saba deve andare, ha un aereo da prendere. Sta per partire per Torino, dove si esibirà a Terra Madre. Ci salutiamo col rumore di Roma che è un assalto fisico dopo il tempo passato nel ristorante. Mentre torno verso casa penso a come mi senta stranamente sazio, pur avendo avuto la sensazione di mangiare qualcosa di quasi impalpabile. Forse il trucco della sintesi sta tutto lì. Riuscire ad evitare la gravità di origini diverse senza perderne la forza. E questa conclusione da psicologo di talk show mi soddisfa abbastanza per smettere di filosofeggiare. E realizzare ancora una cosa. Sono riuscito a incontrare Saba per un pelo, e soprattutto grazie alla sua disponibilità. Non è sempre facile riuscirci, però c'è il suo sito (sabaanglana.com) che ha un sacco di materiale per conoscerla meglio. Il ristorante ayurvedico in cui abbiamo mangiato si chiama Bibliothé (bibliothe.blogspot.com) ed è in Via Celsa 4/5, dietro Piazza Del Gesù a Roma. Cosa The Street Foodie è un progetto di Luca Vergano e Cristina Amodeo. Luca scrive e Cristina illustra. Online www.thestreetfoodie.com Chi Saba suona, scrive, viaggia, recita. Due suoi reportage sull’Ethiopia sono stati pubblicati sui numero 06 e 08. A suo nome ha pubblicato due CD Jidka – Riverboat / Egea Biyo – Egea (recensito su Mondomix n. 07) Dove Siamo a Roma, ma Saba suonerà a Torino nel mezzo di Terra Madre manifestazione legata al cibo. Proprio dove The Street Foodie ha le sue radici. Voilà, l’ultimo equilibrio di oggi. 09 AUTUNNO 2010 38 Recensioni Samy Izy Tsara Madagasikara Network Medien / Evolution musiques et cultures dans le monde Asa MIX MON DO ma Mi a Beautiful Imperfection musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a musiques et cultures dans le monde Lobi Traoré MIX MON DO ma Mi a Cheikh Lô Rainy Season Blues Jamm Glitterhouse / Venus World Circuit / IRD Era il 1995 e Lobi Traoré aveva trentaquattro anni quando Bamako lo faceva conoscere fuori dal Mali. Naturalmente contava tanto, come raccomandazione, che la produzione fosse di un Ali Farka Touré a un apice di visibilità dopo la collaborazione l’anno prima con Ry Cooder. Però l’album brillava di luce propria, e a tratti abbagliante, nessuno si sarebbe stupito di una rapida ascesa allo stardom del chitarrista e casomai sorprendeva che altri tre ottimi lavori non ne facessero lievitare la fama più di tanto. Giungerà in soccorso nel 2005 un secondo sponsor illustre, Damon Albarn dei Blur, per la cui etichetta Honest Jon’s (e di conseguenza per EMI) vedeva la luce l’elettrico ed elettrizzante Lobi Traoré Group. L’ultima rockstar, sebbene piccola confronto ad Albarn, a innamorarsi del nostro sfortunato eroe era Chris Eckman dei Walkabouts. Lui a registrare in loco questo disco in cui, accompagnandosi da solo alla chitarra, più che mai Lobi Traoré sembra un John Lee Hooker d’Africa. Non è arrivato a invecchiare come certi bluesman, visto che senza preavviso un infarto ce l’ha portato via lo scorso 1° giugno. È una perdita che Rainy Season Blues contribuisce forse più di tutti i predecessori a fare incommensurabile. Eddy Cilìa Arricchite da una nascita in Burkina Faso e da un’esistenza in Senegal, le trecce di Cheikh Lô continuano a ondeggiare e a produrre suoni accattivanti. L’impeccabile produzione World Circuit mette in risalto un mazzo di brani variato nello stile ma coeso nel risultato finale. Dieuf Dieuf è il tipico ritmo mbalax che va di fretta, però in generale Jamm mostra una velocità ridotta, quasi downtempo in molti tratti. La voce appuntita di Cheikh ha così modo di esprimersi al meglio, diversificando gli strumenti linguistici (dal jula al wolof, dal francese allo spagnolo) e modulando un canto che risulta di grande attrattiva anche per chi non è particolarmente attento ai destini della musica africana. In Jamm e Senyi vengono fuori i sentori dell’eredità cubana importata negli anni Cinquanta-Sessanta, mentre Warico e Sankara intervengono su questioni socio-politiche rilevanti (il degrado consumista, la corruzione senza freni). La formazione che circonda il leader tiene il passo in modo ineccepibile e le incursioni di Tony Allen e ancor più di Pee Wee Ellis al sax non sono semplici ospitate. Piercarlo Poggio Vieux Farka Touré Live Six Degrees / Family Affair La confezione economica e il ricordo di un recente concerto alla Boule Noire mi avevano indotto a credere di aver capito qualcosa di questo disco. Errore. Contando su un’ottima qualità di registrazione in presa diretta, le versioni di questi nove pezzi registrati negli Stati Uniti nel settembre 2009 e in Australia all’inizio del 2010, offrono una rimarchevole prospettiva della musica di Vieux Farka Toure il quale continua ad affermare la singolarità della sua voce nonostante la pesante eredità paterna. Affiancato da una sezione ritmica rock (basso, batteria, chitarra e percussioni) Vieux sprigiona una carica di energia che pur partendo da un blues di stampo rock si trasforma nei virtuosismi malinconici e misteriosi propri di Ali Farka. La rilettura di Walaïdu ne è un esempio calzante con la chitarra slide di Jeff Lang al posto di quella di Ry Cooder. Anche le sue composizioni originali sono altrettanto pregevoli. Fino ad oggi non erano mai stati registrati album live importanti nella musica maliana, questo dovrebbe aprire la strada agli altri. Bertrand Bouard, 09 AUTUNNO 2010 39 AFRICA Mondomix.com / RECENSIONI Naive / Edel «Il mondo ha tante imperfezioni e in un certo modo è forse questo che lo rende bellissimo. Accettarne l’imperfezione costituisce per noi tutti uno stimolo a creare un luogo migliore». Con queste poche parole Asa riassume il senso del suo nuovo disco Beautiful Imperfection. Nata a Parigi ma cresciuta a Lagos, in Nigeria, nella gremita capitale di un paese travolto da mille contraddizioni spesso in violento conflitto fra loro, Asa e il suo afro-funky- popsoul spesso cantato in yoruba e dal suono anni settanta (chiari i riferimenti a Marvin Gaye, Bob Marley, Lauryn Hill) sono presto diventati il simbolo di un paese e della sua incredibile energia di cui a noi purtroppo nulla o quasi arriva. Dopo il felice esordio inizio anni 2000, con l’album omonimo uscito nel 2007, Asa è arrivata a scalare le classifiche di mezza Europa, cosa che le ha permesso di essere conosciuta ed apprezzata anche da noi. Oggi si ripresenta con un nuovo disco forse molto pop ma di ottima fattura: piacevole e di innegabile freschezza. Adatto ad animare le fredde serate invernali. Elisabetta Sermenghi Puoi scaricare gratuitamente il PDF di Mondomix Italia dal sito www.mondomix.com Kasbah Rockers with Bill Laswell Barraka El Farnatshi / Evolution Dalla mente ibrida di Pat Jabbar, pioniere del suono elettro arabo con gli Aisha Kandisha’a Jarring Effects e con questa combattiva etichetta svizzero marocchina, nasce questo supergruppo che pesca dalle assortite realtà della scuderia, spaziando da Youssef El Mejjad dei pluridecorati Amira Saqati ai rapper della crew di radici turche Makale. Ospite d’onore è un Bill Laswell sempre attento al dialogo Nord Sud, che con umiltà e tocco inconfondibile si mette al servizio della truppa multicolore. Progetto è in questo caso definizione inattaccabile: il viaggio è coerente, può avere in una Bred Atay sospesa tra archi e rap, nell’impegno politico di Falludjah Car o nell’ipnosi dub del manifesto Kasbah Rockers i suoi picchi, ma l’equilibrio tra Maghreb, house, trip hop, raï e rap è sempre perfetto. Paolo Ferrari Samolea Andriamalalaharijaona, meglio noto come Samy, è uno dei migliori interpreti della musica tradizionale del Madagascar, con alle spalle una trentennale carriera all’insegna della riscoperta delle tante tradizioni musicali dell’Isola Rossa. Tsara Madagasikara è un album che raccoglie attorno a papà Samy un gran numero di giovani talenti malgasci, primi fra tutti i vocalist Bosco e Amizou. Lo straordinario numero di strumenti impiegati, dal liuto, alla kora ai flauti tradizionali non è il frutto di un esercizio eclettico dell’autore bensì dell’esplorazione in lungo e in largo della vastissima ricchezza musicale che contraddistingue l’isola. Basti pensare che in 1500 anni di storia diciotto diverse popolazioni vi si sono insediate portando con sè usi e costumi. La giovane orchestra di Samy ci offre un disco capace di riconciliare il passato e il futuro di un’isola tutta da scoprire. David Valderrama Daara J Family School Of Life Wrasse / Evolution Ci sono dischi che mentre ti portano in Paradiso già ti consegnano il biglietto per l’Inferno. È stato il caso di Boomerang, il terzo e più ambizioso nella carriera dei rapper di Dakar: ospiti come Rokia Traoré, China e Sergent Garcia, il successo internazionale, l’Award in sezione Africa di BBC 3 nel 2004. Poi la crisi, l’abbandono di Aladji e la ripartenza di Ndongo D e Faada Freddy come Daara J Family nel 2007. Questa è dunque la prima prova del nuovo corso. Undici tracce discontinue, in cui impennate come il reggae Anni Settanta di Children, la splendida apertura afro country di Bayi Yon, il crossover di School Of Life, la vena ragga griotica di Tomorrow si alternano a passaggi meno convincenti, a partire dal party un po’ squinternato di Celebrate e dalla disco generica di Potu Nda. Paolo Ferrari Bola Johnson Man No Die VampiSoul / Goodfellas L’afrobeat ha avuto il suo re in Fela Kuti, la juju in King Sunny Adé, la highlife in Victor Olaiya. E Bola Johnson? Nessuno lo aveva mai sentito nominare fuori dalla Nigeria fintanto che VampiSoul non ha allestito questa raccolta doppia. A dire il vero, anche a Lagos e dintorni in pochissimi devono conservare memoria (e non solo perché da quelle parti la terza età non è un problema, il problema è arrivarci alla terza età) di questo oggi sessantatreenne che pubblicava i primi singoli quando di anni non ne aveva che diciassette e già intorno ai ventitre-ventiquattro era scomparso dai radar. Pensatelo come un rimarchevole incrocio fra i tre nomi citati all’inizio. Una domanda sorge spontanea: ma se materiale di questo valore era andato perso di quante altre mirabilie siamo all’oscuro? Eddy Cilìa 09 AUTUNNO 2010 40 FELMAY 41 AMERICHE Mondomix.com / RECENSIONI Quinteto Porteño TRADIZIONE&INNOVAZIONE Desiderata Per un Natale Popolare Alfa Music / Egea musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Roberto Fonseca Live In Marciac Enja / Egea Roberto Fonseca oggi ha trentacinque anni. Ne aveva quindici quando teneva il primo concerto importante, a un festival jazz nella sua città natale, L’Havana. Qualche centinaio o più probabilmente migliaio (oltre quattrocento solo quelli da accompagnatore di Ibrahim Ferrer) di spettacoli dopo, pubblica il primo live da leader (monumentale: CD + DVD) avendo scelto per registrarlo un altro festival, francese, e un’esibizione del 2009. Si astengano quanti del nostro uomo conoscono solo le diverse collaborazioni con il giro del Buena Vista Social Club e da lui quello si aspettano. Qui si dispensa, evidenziando il solito virtuosismo e alla testa di un quintetto parimenti dotato tecnicamente, jazz spumeggiante quanto aguzzo, sofisticato ed espanso. Cuba un colore che si intravvede qui e là nell’ordito. Eddy Cilìa Lars-Ante Kuhmunen Chief Dancing Thunder Spiridon Shishigin Quando il Quinteto Porteño nacque, nel 2006, inizialmente si prefiggeva lo scopo di esplorare e riproporre il mondo e la musica di Astor Piazzolla. Il loro primo lavoro discografico Decarisimo (2008) era infatti un omaggio all’opera del grande Astor e ottenne un buon consenso di critica e di pubblico. Sostenuto da tale successo, il quintetto abruzzese ci propone oggi, con Desiderata, una serie di brani inediti, da loro appositamente composti, quali espressione della raggiunta maturità. Il rigore che pervade il suono e la particolare solennità di alcune delle parti cantate conferiscono a questo lavoro una dimensione profondamente personale nel panorama milonguero italiano ed internazionale. Elisabetta Sermenghi Los de abajo Actitud Calle Wrasse Records / Evolution Anche se nati nel 1992 i messicani Los de abajo non hanno perso freschezza ed entusiasmo all’ora di pubblicare il loro nuovo album: Actitud Calle. Uno Ska misto a ritmi latini e ricco di graffianti testi che infilano il dito nella piaga dei tanti problemi irrisolti del Messico dei giorni nostri. Non mancano temi più sentimentali e leggeri che bene si accompagnano con son e rumbe ben orchestrate. Ma il filo conduttore è una musica popolare che nasce dal basso, dal ventre della società che preme e si scaglia contro le élite che stanno in alto e che schiacciano le speranze di emancipazione dei tanti diseredati del nostro tempo. David Valderrama Rhythms of the Tundra Arc / Evolution Un viaggio musicale nei suoni e nei canti del grande Nord, nelle terre sub-polari dove il vento gelido spira su spazi infinitamente aperti. Tra licheni e vegetazioni sempre più rade, protette dal lunghissimo inverno, le popolazioni tribali hanno potuto sopravvivere per moltissimo tempo dedicandosi alla caccia e alla pesca. Queste terre sono state a lungo ignorate dall’uomo che solo negli ultimi due secoli le ha trovate allettanti sia per lo sfruttamento del petrolio, sia per il collaudo di armi chimiche che ne hanno segnato irreversibilmente il futuro. Da questi luoghi arrivano gli esponenti di tre diverse culture tribali (etnie visivamente diverse come si evince anche dalla copertina del cd) che hanno voluto con questo incontro musicale mostrare quante similitudini e parallelismi esistono fra culture sorte in spazi fisicamente anche molto lontani. Sia i canti che gli strumenti utilizzati riconducono ad una matrice comune, così la cultura Sami della Lapponia incontra quella dei nativi Nord Americani con la quale condivide sicuramente le origini. La storia dell’uomo e delle sue migrazioni per quanto antichissime è ancora a un passo da noi e la si può toccare con mano… basta aprire le orecchie! Elisabetta Sermenghi 09 AUTUNNO 2010 Marcos Valle Estática Far Out/Audioglobe Rieccolo qua, l’unico uomo che possa vantarsi di essere stato citato sia da Frank Sinatra che da Homer Simpson. Il solo con tre versioni di un suo brano contemporaneamente nei Top 40 USA. Accadeva nel 1966 con So Nice (Summer Samba). Quarantaquattro anni dopo, e a cinque dall’ultima prova in studio, l’ormai sessantasettenne Marcos Valle ritorna con un album che lo testimonia in forma smagliante, come sempre dacché dopo un lungo silenzio si rimetteva in gioco nel ’99 con Nova Bossa Nova. Si potrebbe azzardare che Estática sia la prova migliore (e sì che le altre erano splendide) di questa sua seconda vita. Addirittura: il suo secondo disco da portarsi a casa dopo l’epocale Samba ’68. Se non altro perché perfetto riassunto di un canone capace di mettere insieme pop brasiliano e psichedelia, lounge e jazz. Eddy Cilìa www.felmay.it FELMAY Canti scelti fra i «Novés Occitani», brani tradizionali che venivano eseguiti e rappresentati nel periodo natalizio. L’interpretazione dei Gai Saber fa riferimento alle molteplici influenze della musica popolare di ieri e di oggi, da sempre attenta al mescolarsi delle genti e delle loro culture. Un riuscito incontro fra melodie tradizionali e sonorità elettroniche musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Paula Morelenbaum Telecoteco Sud / Egea Esibitasi lo scorso 9 ottobre all’Auditorium Parco della Musica di Roma, Paula Morelenbaum torna al pubblico italiano con un disco in realtà registrato tra il 2007 e il 2008 ma solo ora disponibile nel nostro paese. Un bel disco di morbida bossa, dove la voce di Paula accarezza suoni dal sapore un po’ retrò. Gustose reinterpretazioni di brani composti in un periodo che spazia dalla fine degli anni ’30 fino ad arrivare ai favolosi ’60 dove ritroviamo il tono un po’ giocoso dei primi autori di questo genere. Fra i più che autorevoli ospiti di questo lavoro annoveriamo ovviamente il marito Jacques, Ryuichi Sakamoto (con il quale aveva lavorato in Casa, dedicato a Jobim) e ancora Marcos Valle, Joao Donato, Leo Gandelman e Chico Pinheiro. Da segnalare il terzo brano, un’accattivante cover di O samba e o tango che omaggia Carmen Miranda (e pure Caetano Veloso che ne fece un’ottima versione) richiamando nei suoni, unico brano dell’album, le visioni elettroniche dei Gotan Project. Elisabetta Sermenghi Attenzione! Nuovo indirizzo postale Mondomix Corso Moncalieri 331 10133 Torino Italia Gai Saber Angels Pastres Miracles Una raccolta di brani concepiti per santificare il Natale è l'originale colonna sonora per le festività che ci propone la Bregada Berard, alter ego collettivo di Sergio Berardo leader dei Lou Dalfin Bregada Berard Bon Nadal Occitania Ambrogio Sparagna Fermarono i Cieli AAVV Eagle Dance Ceremonial music of the American Indians Arc / Evolution A metà strada fra il documento sonoro e la testimonianza di una cultura irrimediabilmente trasformata dagli eventi storico sociali avvicendatisi nel corso del tempo, questa pubblicazione, corredata da un libretto in quattro lingue, ripropone con rigore canti e danze dei nativi d’America senza nulla concedere a modernismi o contaminazioni musicali di sorta. Di non facile ascolto per chi ama il mondo pellerossa new age che occhieggia dalle pubblicità ma interessante per chi invece ricerca suoni e atmosfere dal sapore autentico. Elisabetta Sermenghi Barabàn Santa Notte dell'Oriente felmay EGEA distributore esclusivo per l’Italia Attorno alla metà del Settecento Alfonso Maria de' Liguori cominciò ad accompagnare il suo lavoro pastorale fra i poveri del Regno di Napoli con la pratica di canzoni composte sia in dialetto che in italiano. In breve questo repertorio si diffuse in tutto il territorio del Regno. Fermarono i Cieli propone alcuni di questi canti popolari ed altri appositamente composti da Ambrogio Sparagna affidandoli all'interpretazione originalissima di Peppe Servillo, di un ottetto vocale e di un trio di strumenti popolari In un mosaico di voci, suoni e atmosfere, Barabàn ripropone uno spaccato della colonna sonora che per anni ha accompagnato i riti natalizi dei contadini del nord Italia: canti eseguiti nelle stalle, pastorelle suonate dai bandin, Pive dei suonatori girovaghi, canti sul tema della Natività veneti e friulani, canzoni di questua romagnole, arie del gregoriano, canti un tempo eseguiti durante le drammatizzazioni popolari del Gelindo, canti della Stella delle montagne lombarde felmay distribuzioni strada Roncaglia 16 - 15033 San Germano AL - Italy 09 AUTUNNO 2010 ph +39 0142 50 577 [email protected] 42 Alla Bua Scattuni Autoprodotto musiques et cultures dans le monde musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a MIX MON DO ma Mi a Lucilla Galeazzi Moussu T e lei Jovents Helikonia / Egea Manivette / Ducale Ancora Bella Ciao La cantante umbra si ripresenta ai suoi estimatori con un’incisione asciutta ed essenziale. A essere omaggiati sono gli anni del Nuovo Canzoniere Italiano, quei Sessanta in cui i canti popolari tornarono ad assumere un valore culturale, oltre che di impegno sociale e di lotta. Quella stagione non passò invano e aprì le finestre al folk revival italiano, venuto prima, è bene ricordarlo, di quello anglosassone e francese. La Galeazzi ha una voce potente ed emozionante, perfettamente accoppiata alla chitarra battente di Davide Polizzotto o a quella più quieta di Stefano Scatozza. Oltre a brani d’epoca di Rosa Balistrieri A’ virrinedda e Matteo Salvatore Lu furastiero, a tradizionali siciliani e laziali, troviamo testi e melodie della stessa cantante. Improntati alla stretta attualità La tarantella de lu terremotu, al passato recente Per Sergio o al recupero del sentimento Quelle parole che siano, essi non fanno altro che testimoniare la vitalità del patrimonio folklorico italiano. L’intensa e vibrante Bella ciao finale è il degno suggello a un disco di pregio. Piercarlo Poggio Radiodervish & Livio Minafra & La banda di Sannicandro Putan de Cançon Quarto disco in studio in sei anni di lavoro per la formazione nata come costola del Massilia Sound System e oggi tra le punte di diamante della scena world continentale. Prolifici, se si considera che nel frattempo Moussu T ha anche dedicato tempo e idee al System; e sempre più convincenti in questo loro assetto mirabilmente in bilico tra immaginario dei cantieri navali da Terza Internazionale, cultura occitana, spirito freak, seduzione tropicale e malinconia blues. A rendere naturali e sempre gradevoli i risultati di questo frullatore c’è una straordinaria facilità compositiva, che porta il cd al vertice artistico di quanto finora prodotto da Tatou, Blu, Zerbino e Jamilson. Con La Ciotat al centro del mondo e il mondo al centro del cuore, il viaggio si articola in tredici tappe varie e sanguigne. Guidato dal singolo omonimo, il tragitto non elude il richiamo partigiano di Alba 7, sprofonda nel delirio etilico della zuccherina Comme 2 mouches, vira al Sud un’immagine classica per Bons baisers de Marseille, convoca il Brasile alla foce del Rodano per Lo dintre, tesse filastrocche d’amore in Quand je la vois, je fonds, vola tra mare ed entroterra rurale D’Oc per la struggente Dins la nuech de mon astre. In generale non ci sono cali di tensione, la materia si snoda con continuità ancor maggiore di quanto già apprezzato nei dischi precedenti, e davvero non si vedono limiti alla crescita del progetto. Utile anche per capire a fondo le radici dello stesso Massilia Sound System. Paolo Ferrari Bandervish Il Manifesto / Goodfellas Nabil Salameh, Michele Lobaccaro e Alessandro Pipino optano nell’occasione per un salutare allargamento di confini. Bandervish non è nuovo nella sostanza bensì nella forma (che in questo caso diventa il contenuto). Vi ritroviamo infatti brani tra i più noti del repertorio del gruppo: L’immagine di te, Les lions, L’esigenza, Ti protegge. La nuova luce sotto cui sono posti deriva dal lavoro certosino di Livio Minafra, pianista jazz figlio di cotanto padre (il trombettista Pino Minafra, anch’egli presente in due brani) e responsabile di arrangiamenti in grado di allontanare il suono dei Radiodervish dal modello battiatesco a cui sin troppo sono stati sinora attaccati come ad un cordone ombelicale. A tagliarlo danno una mano pure i giovani della banda di Sannicandro di Bari, fragorosi quando serve oppure essenziali e circospetti. Il grembo del Mediterraneo diviene così meno onirico e fiabesco, più concreto. Un mutamento di prospettiva nella musica dei Radiodervish appariva necessario. Che sia stato fatto in questo modo rende merito ai musicisti e alla loro apertura mentale. Piercarlo Poggio 09 AUTUNNO 2010 43 EUROPA Mondomix.com / RECENSIONI Talisman Russian Gypsy Soul Arc / Evolution Formazione creata dal chitarrista Vadim Kulitskii, già con il trio gitano Loyko scioltosi nel 2000, a cui si sono aggiunti l’ucraino Oleksandr Klimas (violino) e il fisarmonicista Oleg Nehis di San Pietroburgo. Una carrellata di brani del repertorio tradizionale gitano russo arrangiati con maestria ed interpretati con virtuosismo da questo ensemble di musicisti che vanta una preparazione classica impeccabile. Uno splendido disco per gli amanti del genere e di piacevole ascolto anche per chi ancora non lo fosse. Impossibile non apprezzare le splendide versioni di Gypsy Soul o Waltztango per non parlare dell’infuocato flamenco, è proprio il caso di dirlo, Flames. Il cd contiene anche una curiosa bonus track: il brano Sin regreso degli argentini Zingaros. Elisabetta Sermenghi Per celebrare i venti anni di attività il gruppo salentino Alla Bua produce un quarto disco, Scattuni, dopo i precedenti Stella Lucente (1999), Alla Bua (2002), Limamo (2004) e Saratambula (2007). Provenienti da esperienze musicali diverse ma completamente immersi nell’humus della cultura tradizionale della loro terra, il gruppo degli Alla Bua nasce nel 1990 con l’intento di condividere il proprio sentirsi parte di un patrimonio musicale legato alla tradizione popolare, soprattutto contadina, appresa direttamente nelle proprie case e dalle proprie famiglie, quando il produrre musica era un’attività legata ai momenti di riposo e di festa che nella società rurale erano abbastanza rari e soprattutto legati all’alternanza stagionale. Si pensi che da stornelli un po’ grezzi per sola voce, tamburello e armonica oggi nel mondo della pizzica si trovano flauti, violoncelli, fisarmoniche e a volte anche basi elettroniche con risultati non sempre esaltanti. Gigi Toma, leader del gruppo, consapevole dell’evolversi continuo di ciò che oggi va sotto il nome di tradizione, afferma che dopo anni di recupero e di omaggi operati dalle ultime generazioni di musicisti salentini, dopo aver tanto «preso» da questo territorio, sia ora giunto il momento di lasciare qualcosa, cioè una produzione di musica che rispecchia l’oggi e che in qualche modo è già parte della tradizione di domani. Elisabetta Sermenghi Puoi scaricare gratuitamente il PDF di Mondomix Italia dal sito www.mondomix.com Daniele Sepe Fessbuk Il Manifesto / Goodfellas Diavolaccio di un Sepe, ne ha fatto un altro dei suoi. Dove prende a calci senza riserve l’Italia di oggi. Che sarà pure come bombardare una nave ospedale già in piena tempesta di suo, ma poi non si capisce perché è rimasto lui soltanto a farlo. L’uso politico della musica è sempre stata una questione complicata, figuriamoci oggi, in epoca di totale ritorno all’ordine. Sepe semplicemente non ci sta, si indigna, voce nel deserto della comunicazione ridotta a bleep e tweet-tweet. Le stilettate a destra (Samba do tremone) e a manca (Democratic Party) possono apparire qualunquiste soltanto a chi si è ben adattato al peggio. Histoire de l’ouvrier e Cronache di Napoli inutili denunce per chi ha abbandonato le speranze e vive nell’indifferenza. La verità è un’altra, e Sepe non è il reduce settantasettino che continua a combattere nella giungla perché nessuno gli ha fatto sapere che la guerra è finita. Reducisti sono i restanti, gli alfieri di quel cantautorame esangue che con il passare del tempo evidenzia sempre di più la sua doppiezza. Comunque tranquilli, anche volendo chiudere gli occhi, rimane tanto per le orecchie, sia nelle riprese vigorose di Mackie Messer, Luglio agosto settembre (nero), Campagna, Bulls On Parade sia nella rigenerazione del folklore greco (La vedova) e messicano (Carabina 30-30). Piercarlo Poggio Oriana Civile e Maurizio Curcio Arie di Sicilia Officina Palermo Non ha ancora una distribuzione nazionale il lavoro Arie di Sicilia firmato da Oriana Civile e Maurizio Curcio. Si tratta di un interessante percorso fra melodie e canti della tradizione popolare siciliana e della rivisitazione di un paio di brani tratti dal repertorio di due autori siciliani contemporanei: Giancarlo Parisi e la compianta Rosa Balistreri. Sia Curcio che la Civile lavorano da anni in sedi accademiche preposte al recupero e alla conservazione della tradizione della loro terra. Rendendo omaggio ad un mondo in via di estinzione, con questo progetto attingono al lavoro di ricercatori ed etnomusicologi che dall’800 in poi hanno scandagliato il territorio registrando e classificando canti di lavoro, d’amore, di sdegno e ninne nanne. Spaccati di vita popolare narrati con rigore dalla voce armoniosa di Oriana Civile e che gli arrangiamenti, anche elettronici, di Maurizio Curcio modificano solo con misurata attenzione. Elisabetta Sermenghi Josephine Foster & The Victor Herrero Band Anda Jaleo Fire / Goodfellas L’aggettivo che meglio descrive questa americana trapiantata in Spagna? Proteiforme. Si potrebbe dire sia stato inventato apposta per un’artista capace di passare, in una parabola lunga ormai un decennio, da un folk e/o un blues pre-bellici alla psichedelia, da Tin Pan Alley al jazz ai lieder. Più incredibile ancora dell’eclettismo e dell’originalità di ogni proposta è che ogni volta la Foster sembri nata per fare esattamente quella cosa lì. Ad esempio reinterpretare, in collaborazione con il chitarrista suo compagno e relativo gruppo, quella Collecion de canciones populares españolas che nel 1931 Federico Garcia Lorca raccoglieva, arrangiava ed eseguiva al pianoforte, affidandole alla voce di Encarnación López Júlvez detta la Argentinita. È l’ennesima scommessa vinta dalla bella e bravissima Josephine. Eddy Cilìa Alina Orlova Laukinis Suo Dingo Fargo / Self Forse di etnico in senso stretto ha solo il nome, la provenienza e la lingua in cui scrive e canta le sue canzoni, ma la giovanissima poetessa, cantante e pittrice lituana, classe 1988, Alina Orlova, ha prodotto un album d’esordio davvero degno di menzione. La fanciulla, i cui primi successi risalgono ai tempi del liceo, canta con voce sottile le sue ballate accompagnandosi col pianoforte. Brani in lingua inglese o russa, oltre che lituana, che rimandano per stile e atmosfere alla violinista ceca Iva Bittova. Laukinis Suo Dingo (Wild Dog Dingo) titolo scippato ad un libro per ragazzi che parla dell’amore ai tempi del liceo, è stato prodotto dall’etichetta indipendente Metro Music e dopo aver ricevuto diversi riconoscimenti in Lituania è stato presentato con successo anche in Inghilterra e Francia dove per tutto l’autunno 2010 Alina si esibisce in tour. Belli anche i suoi dipinti visionabili tramite la rete. Se sono rose… Elisabetta Sermenghi 09 AUTUNNO 2010 44 45 FUSION Mondomix.com / RECENSIONI Bob Brozman John Mcsherry Donald O’connor OGNI MESE IN EDICOLA Six Days in Down musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Mamud Band Opposite People Felmay / Egea Se Fela avesse amato l’ortodossia, non avrebbe mai inventato l’afrobeat. È coerente dunque la formazione milanese nell’affrontare la materia sottotitolata The Music Of Fela Kuti alla propria maniera, anteponendo la passione alla soggezione. Piovono in questo modo dentro le undici tracce elementi maturati in vent’anni di attività da un combo che non vive nella Lagos Anni Settanta, ma nell’Europa sanguemisto di oggi. Opposite People stessa, per esempio, infligge al corpo nigeriano pertinenti pizzicotti brasiliani; Colonial Mentality, invece, si sporge verso il reggae, complice la voce di Bunna degli Africa Unite che guida anche il superclassico No Agreement non esente da sensazioni acid jazz. E così via, lungo una via di adesione ribelle al verbo del maestro riottoso percorsa con il giusto spirito.Se invece cercate la genesi della band, Singing Sisters è la canzone che fa per voi grazie alla polifonia del trio con Sylvie Nawasadio e Sabine Kabongo, unica traccia facilmente accostabile ai dischi degli esordi. Per il resto i richiami ai canti delle donne congolesi sono pressoché un ricordo sbiadito del passato che soltanto un’altra rigenerazione potrebbe rinvigorire. Intanto gustiamoci la disinvolta freschezza di questa ricreazione. Paolo Ferrari Pink Martini Joy to the world Naïve / Self Con l’inverno e l’avvicinarsi per periodo natalizio ecco giungere la nuova proposta musicale dal gruppo di Portland. Il sesto lavoro (considerando anche il DVD uscito l'anno scorso) è una strenna natalizia che come recita il titolo augura un mondo di pace e di gioia alla Terra. Canti di Natale classici e rivisitazioni di brani a carattere religioso interpretati come sempre dalla voce caratteristica di China Forbes e dai vari elementi internazionali che compongono l’ensemble. Su tutto prevale l’arrangiamento alla Pink Martini di Mr. Lauderdale, ovvero quel tanto di lounge che ne converte subito la vocazione musicale trasformandolo in un disco che potrebbe camminare da solo anche una volta dissolte le nevi del bianco Natale. Ribadisco “potrebbe” poiché nonostante le ineccepibili interpretazioni a cui Pink Martini ci hanno ormai abituati, temo che questa volta non siano riusciti nell’intento di toccarci l’anima e neppure a regalarci almeno l’illusione di un’idea nuova. Elisabetta Sermenghi 09 AUTUNNO 2010 World Music Network / Egea Inciso in appena sei giorni presso il Down Arts Centre di Downpatrik (Irlanda del Nord) questo album è un magnifico incontro tra l’infaticabile chitarrista Bob Brozman e due grandi custodi della musica irlandese: i maestri del flauto John McSherry e del violino Donald O’Connor. Sensazionali gli arrangiamenti, impeccabile l’audio e riuscitissima l’integrazione tra brani della tradizione sette e ottocentesca irlandese e le più recenti composizioni arricchite con chitarre hawaiane e spunti arabi e maliani. Ciliegina sulla torta la voce mistica e suadente che Stephanie Makem ci regala in perfetto gaelico nelle tracce tre e otto. David Valderrama Zazou Eramo Saletti Oriental Night Fever Materiali Sonori Dalla disco alla world music. Questo dichiara l’ambizioso progetto che ripropone una serie di brani ormai evergreen della disco music fine anni settanta ri-arrangiati in chiave world e cantati dalla voce delicata di Barbara Eramo. Il lavoro è nato da un’idea del compianto Hector Zazou (musicista e produttore che ci ha lasciatI nel 2008 e che ha prodotto capolavori come Sahara Blue e Chansons des Mers Froides), Barbara Eramo e Stefano Saletti che l’hanno realizzato e portato a termine dopo la sua scomparsa. Interessante l’arrangiamento musicale, per questa febbre notturna ormai anche feriale, ma soprattutto la scelta dei brani che non mancheranno di suscitare nostalgie anche in chi quegli anni li ha vissuti senza abbracciare o condividere la disco. Elisabetta Sermenghi musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Gabor Szabo Jazz Raga Light In The Attic / Goodfellas Non metta fuori strada la buffa copertina che nel tipico contesto della grafica Impulse! del periodo sistema sulla sinistra due improbabilissimi mod, con tanto di sitar, e a destra un quadro di gusto etnico che più che all’India rimanda all’Africa: anche riascoltato con l’orecchio dei giorni nostri Jazz Raga è assai meno kitsch di quanto non ci si potrebbe aspettare. Non inganni la data di pubblicazione, 1967: il disco contiene registrazioni dell’anno prima e dunque questo chitarrista di scuola jazz e natali ungheresi non andava affatto a rimorchio della moda indiana lanciata dai Beatles. La anticipava semmai, come anticipava tanta psichedelia e un interesse per le musiche “del mondo” che era allora di pochi illuminati. I Santana lo coverizzeranno, i Doors lo copieranno: spudoratamente. Eddy Cilìa AAVV Sangennarobar 2010 Microcosmo Dischi / Edel Natacha Atlas Mounqaliba In A State Of Reversal World Village / Ducale La cantante e il suo doppio, per scomodare Antonin Artaud. Natacha si specchia in copertina, dà due titoli al disco, diventa corpo, anima e voce delle tante vite in bilico tra Europa e mondo arabo. Lo fa con tinte scure, orchestrazioni dark world; canzoni scritte con Samy Bishai e classici come River Man di Nick Drake e La Nuit est sur la Ville di Françoise Hardy; incidendo a Londra con i piedi ammollo nel Nilo. Il suo è un canto regale e popolare, in Batkallim ci trovi «la tirannia senza fine dei politici e la marea della tossicodipendenza», la gioia eterna dell’amore in Lahzat Nashwa, la morte che diventa vita in Chorus. E tanti interludi, a sottolineare o esorcizzare i cambi di scenario. Bishai è encomiabile anche per gli arrangiamenti degli archi e la produzione artistica, peraltro condivisa con la stessa protagonista. Paolo Ferrari Da dieci anni Dj UèCervone, principe partenopeo della consolle, produce ogni anno una nuova edizione di SanGennaroBar, raccolta di brani da lui selezionati, con grande gioia dei suoi sostenitori. Dopo sette numeri autoprodotti e distribuiti direttamente ai pochi eletti, ne venivano stampate solo alcune centinaia di copie, la Microcosmo Dischi ha deciso di contribuire alla nascita e alla divulgazione di queste raccolte producendole in prima persona. Dopo le riuscitissime 2008 e 2009, ecco ora l’edizione 2010, evento celebrato con una mega festaconcerto il 27 giugno scorso. Consolidato il repertorio festoso e ballabile etno-partenopeo che abbraccia i Balcani con l’immancabile dj Shantel, ma anche la musica giudeo araba e nomade dei Watcha Clan. La tarantella messicana di Tobias Ganzalez Jimenez qui balla fianco a fianco con la tradizione napoletana (la Montemaranese) di Eugenio Bennato e l’accattivante cabaret sonoro dei portoghesi Deolinda o i ritmi afro-caraibici dei congolesi Staff Benda Bilili, la band composta da musicisti poliomielitici che si è imposta al pubblico della World Music nel 2009. Le scoperte saranno tante, così come la possibilità, sempre ballando, di ampliare i propri orizzonti musicali. Elisabetta Sermenghi Avanguardia, Blues, Country, Etno, Exotica, Folk, Free, Funk, Glitch, Hip Hop, House, Improvvisata, Indie Rock, Industrial, Jazz, Lounge, New Wave, Pop, Post Rock, Progressive, Psichedelia, Rhythm’n’Blues, Rock’n’Roll, Soul, Sperimentale, Techno... www.blowupmagazine.com 09 AUTUNNO 2010 46 Mondomix.com / RECENSIONI ASIA / OCEANIA Lalgudi G. Jayaraman Sublime Strings South Indian Classical Music Felmay / Egea musiques et cultures dans le monde AAVV MIX MON DO ma Mi a Trance Gamelan in Bali Felmay / Egea Nella cultura musicale di Bali è ben difficile separare la musica dal rito e, allo stesso modo, la trance dalla sua sublimazione culturale, estetica, coreografica. Le tre registrazioni sul campo nelle quali si articola il CD, effettuate nel 1994 da John Noise Manis, illustrano questa complessa e affascinante interazione. Nella prima, dedicata a una cerimonia svoltasi nei pressi di Ubud, si ascoltano diversi ensemble gamelan che suonano contemporaneamente sottolineando varie attività cerimoniali della comunità: il culmine è dato dall’inquietante apparizione dei danzatori con maschere bianche, simbolo degli spiriti. La seconda documenta i preparativi per un rituale dell’etnia Aga, nel villaggio di Tenganan che raggiunge nel finale tratti frenetici e parossistici. L’ultima registrazione documenta la danza Barong che vede la lotta tra gli spiriti benigni capeggiati dal loro re, il Barong, opposti alle forze negative capeggiate da Rangda, il signore del caos. Pur senza poter partecipare fisicamente al rito, grazie al potere di in/canto di questo CD l’ascoltatore può entrare in un’altra dimensione. Giovanni De Zorzi AAVV Gamelan of Central Java XIV. Ritual Sounds of Sekaten Felmay / Egea La preziosa collana dedicata al Gamelan centro-giavanese giunge con questa alla quattordicesima perla: congratulazioni! Le registrazioni sul campo dello studioso John Noise Manis si concentrano qui sui particolari repertori che risuonano quasi ininterrottamente per un’intera settimana in occasione della festa islamica detta Sekaten, dedicata alla nascita (maulid) del Profeta Muhammad. L’album si divide in tre registrazioni principali, tripartite secondo i complessi strumentali e i loro luoghi di provenienza. Su tutte regna un’atmosfera sospesa e senza tempo nella quale i suoni minimali interagiscono con il silenzio. È notevole come si sia lontani dal fervore che anima i repertori musicali per il maulid del mondo arabo, ottomano turco, iranico, centrasiatico e indopakistano. Ciononostante, a prescindere dalla diversa temperie emotiva, il terzo brano rappresenta secondo gli studiosi il maggiore esempio di vicinanza tra il mondo giavanese e la tradizione mediorientale, reso evidente dall’inedito gamelan composto da tamburi a cornice (terbang, rebana) di varie dimensioni e intonazioni che sembrano esser giunti a Giava proprio dal medioriente. Giovanni De Zorzi 09 AUTUNNO 2010 Questo disco è un doveroso omaggio ad uno dei più autorevoli maestri viventi (n. 1930) della tradizione musicale dell’India del Sud, il violinista Lalgudi G. Jayaraman. In esso è implicita una profonda dimensione temporale poiché mostra la tradizione e, allo stesso tempo, la sua evoluzione. Il maestro, esponente della scuola stilistica che risale a Thyagaraja, duetta infatti con il suo più brillante allievo ed erede, Lalgudi GJR Krishnan. Come tipico della tradizione carnatica essi sono accompagnati dai tamburi bifacciali mridangam e ghatam suonati rispettivamente da Karaikudi R. Mani e T. H. Vinayakram. Vanno segnalati due ulteriori meriti del disco: consentire a violinisti ed amanti di ampliare il quadro delle tradizioni musicali nelle quale risuona il violino eurocolto e introdurre l’ascoltatore ad una forma musicale della tradizione carnatica oggi quasi scomparsa, il Ragam Tanam Pallavi. La prima parte (ragam) prevede l’esposizione del raga a cui fa seguito il suo svolgimento (tanam) concluso da una terza parte (pallavi) fatta di brevi composizioni. Ovunque la maestria è indicibile, non raccontabile, e in ogni istante l’ascoltatore è sommerso da sfumature e virtuosismi mai fini a se stessi. Giovanni De Zorzi Brian Keane & Omar Faruk Tekbilek Kelebek/The Butterfly Celestial Harmonies / Evolution Nel 1979 il musicologo Philip Tagg (www.tagg.org), analizzando la sigla della serie televisiva Il tenente Kojak, metteva in luce la rete di stereotipi musicali presenti nel brano. In essi era implicita l’intera storia della musica euroamericana: gli ottoni marziali del tema rinviavano a Wagner, le quarte sospese a Debussy, la ritmica funky di scuola Motown evocava il ghetto metropolitano, eccetera. Bene: la colonna sonora del film Kelebek/The Butterfly dispiega tutta la rete di stereotipi collaudati durante i vari film di ambiente mediorientale della storia del cinema, a partire da Il Ladro di Baghdad (1924) sino ai vari episodi di Indiana Jones: aggiornati e updated ci sono la fuga, il duello e la patetica scena d’amore a cui si aggiunge, qui, il profumo della spiritualità. Nella trama, infatti, gli allievi di un maestro dell’ordine dei dervisci rotanti (mevlevî) si recano in Afghanistan durante la guerra civile del 1996. In questo senso si spera il film svolga un ruolo politico/culturale tra USA e mondo mediorientale. Dal punto di vista musicale, invece, con tutto l’autentico rispetto per un solista come Tekbilek e per i bravi musicisti tutti, le composizioni e il concept lasciano davvero perplessi: con la delicatezza di un marine che arrivi nell’area, si ascolta un mix di generi e stili mediorientali espressi in un linguaggio hollywoodiano temperato e tonale, mentre le frasi di Tekbilek speziano l’hamburger. Giovanni De Zorzi 47 COMPILATION AAVV L’oggetto è clamoroso: confezione cartonata a libro con il davanti di copertina traforato che si apre e sollevandosi rivela una stratificazione a sette livelli con sul primo un bovaro a cavallo, nell’ultimo un interno di fazenda e in mezzo esterni e interni di ordinaria vita mitologica argentina. Si presenta così Mañana, el tango: perlas del label, raccolta catalogo dell’etichetta di Eduardo Makaroff del Gotan Project, marchio del resto non nuovo a sensazionali teatrini grafici che al lettore più attempato faranno venire in mente l’età aurea del progressive e del vinile. Ma… la sostanza? C’è. La quindicina di brani di Melingo e Gustavo Beytelmann, Cáceres e Horacio Molina e dello stesso padrone di casa che sfilano in poco meno di un’ora offrono un panorama giocoforza lacunoso ma di piacevolezza estrema degli ultimi cinque o sei anni di tango. Va da sé che un’operazione simile si rivolga non allo specialista bensì all’acquirente occasionale. Magari, vista la bellezza del manufatto, a chi nelle prossime feste vorrà, regalandolo, fare bella figura spendendo poco. A proposito di sostanza… Ce n’è tantissima in The World Ends, doppia collezione di Afro Rock & Psychedelia In 1970’s Nigeria. Trentadue le tracce in due CD che all’ascolto lasciano increduli: in secondo luogo per l’eccezionale qualità media; in primo per l’ambito stilistico in cui ci si muove. Per quanti dischi di Fela Kuti si possano conoscere, è spiazzante scoprire che dalle parti di una Lagos devastata dalla guerra civile nei primissimi ’70 una moltitudine di gruppi sconosciuti e formidabili declinava il verbo di Jimi Hendrix mischiandolo a quello di James Brown o di Santana, o persino dei Doors. Chi leggendo ha avanzato l’obiezione «ma non è world music!» ha sbagliato rivista. Restando in Africa ma cambiando genere e paese è parimenti caldamente consigliata Roots Of OK Jazz, benvenuta ristampa di un titolo pubblicato per la prima volta nel ’93. Sono registrazioni del 1955-’56, effettuate a Kinshasa, di varie formazioni che poi confluiranno nella leggendaria orchestra di Franco. Lampante l’influenza cubana, l’antologia mostra rumba e soukous in culla. Lodevolissimo il lavoro di chi, partendo da vetusti e non intonsi 78 giri ha ricavato suoni miracolosamente non distanti dallo standard odierno. Sono passati alcuni mesi dacché si diede l’imprimatur al numero precedente di “Mondomix” e la pila delle nuove Rough Guide To si è fatta nel frattempo imponente. Soffermandoci per un’ultima volta nel Continente Nero, la segnalazione è d’obbligo per il possibile, probabile, praticamente certo titolo campione di vendite fra queste ultime emissioni. Con tutto il parlare che si è fatto negli ultimi anni dei Tinariwen (nel mentre il compianto Ali Farka Touré non passava certo di moda) che Desert Blues andrà a ruba è una scommessa sicura. Fra nomi già celebri, altri in ascesa (davvero gradito in questo caso il consueto bonus CD, che ci omaggia un album del 2006 di Etran Finatawa) e gente conosciuta per ora giusto dagli addetti ai lavori, la raccolta per un verso esalta e per un altro insinua un dubbio: quanto ha pesato sullo straordinario impatto dei Tinariwen che l’Occidente fosse digiuno di una musica che alle sue orecchie suona sostanzialmente “rock” ma di una specie inaudita? Magari fossero arrivati prima, ad esempio, i Tamikrest il fenomeno avrebbe avuto sviluppi analoghi. A proposito di campioni di vendite… Nel 2000 già c’era stata una Rough Guide To Bhangra, seguita nel 2006 da una Rough Guide To Bhangra Dance. Arriva adesso una seconda, o se preferite terza, Rough Guide To Bhangra e l’effetto è il solito: esilarante. Impossibile resistere alla carica adrenalinica del pop più danzabile e bastardo – nel senso di ibridato – del mondo, con la musica punjabi a fare da base sulla quale si innesta di tutto e di più, come hanno eloquentemente dimostrato in una vicenda ventennale gli Achanak, maestri del genere del cui folto catalogo il secondo compact offre cospicua sinossi. Quanto a Bollywood, di Rough Guide To ce n’erano già state, fra collezioni di autori vari e volumi dedicati a nomi specifici, una mezza dozzina. L’ennesima non guasta. Sarà pur vero che il kitsch è, come nel bhangra, sempre in agguato (ovvio: se si ascolta con le sole orecchie che abbiamo, quelle da europei), ma nelle colonne sonore dei film indiani ci si imbatte spesso in melodie memorabili e raffinatezze negli arrangiamenti assolutamente accostabili alla Hollywood originale. Per una volta non un CD in omaggio bensì un DVD, il documentario dell’84 There’ll Always Be Stars In The Sky. Intrigante. C’è un DVD accluso pure (nel caso desideriate imparare a ballarla) alla guida numero tre (non è che cominciano a essere a corto di argomenti?) alla Salsa Dance. Com’è che si dice in spagnolo “spumeggiante”? Clima meno festoso e decisamente più tendente al melò nella (finalmente un debutto) Rough Guide To Flamenco Dance, cui si accompagna un album del virtuoso della chitarra Eduardo Niebla. Anche molto jazz nelle sue corde. Chitarre e soprattutto fisarmoniche in resta, e un profumo di jazz, pure in una indiavolata Rough Guide To Paris Café, la seconda. Les Négresses Vertes non sbucavano dal nulla, né sbucano dal nulla i Beltuner, alfieri del gypsy swing revival e protagonisti del secondo dischetto con una generosa selezione di brani dai loro primi due album. Chiudiamo con la prima Rough Guide To Greek Café, dimostrazione che non soltanto, sebbene soprattutto, di rebétika si vive da quelle parti. Qualche purista avrà da ridire su taluni evidenti influssi rock, ma si sa:i puristi non sono mai contenti. Eddy Cilìa Abbiamo parlato di… Mañana, el tango: perlas del label (Mañana / Self) The World Ends: Afro Rock & Psychedelia In 1970’s Nigeria (Soundway / Family Affair) Roots Of OK Jazz (Crammed / Ma.So.) The Rough Guide To Desert Blues The Rough Guide To Bhangra The Rough Guide To Bollywood The Rough Guide To Salsa Dance The Rough Guide To Flamenco Dance The Rough Guide To Paris Café The Rough Guide To Greek Café (tutte World Music Network / Egea) 09 AUTUNNO 2010 Musica e tradizione in Asia orientale. Gli scenari contemporanei di Cina, Corea e Giappone Daniele Sestili Squilibri edizioni 2010 288 pp., cd allegato, 65 ill. a colori € 28,00 Squilibri pubblica il nuovo lavoro di Daniele Sestili, etnomusicologo esperto di Asia orientale, uno strumento prezioso per avvicinarsi alle tradizioni musicali di quest’area, argomento affrontato da pochissime pubblicazioni in lingua italiana. Misurandosi anche con gli studi dei maggiori musicologi cinesi, coreani e giapponesi, l’autore guida il lettore alla conoscenza di stili, repertori, pratiche, strumenti e concezioni delle musiche tradizionali estasiatiche. L’approccio comprensivo di Sestili, che sceglie di trattare un’area vastissima e ricchissima di tradizioni, appare tuttavia fondato: Cina e Taiwan, le due Coree, il Giappone, pur presentando panorami culturali estremamente variegati, e ben distinti tra loro, non sono mai stati entità separate e aliene tra loro. Al contrario, esse sono strettamente legate da un fitto intreccio di relazioni, influenze reciproche e sostrati culturali comuni, messo in luce dall’attenta disamina storica dell’autore. Sestili quindi indaga le tradizioni musicali dei singoli Paesi senza però perdere di vista il quadro complessivo dell’area, evidenziando similitudini e differenze tra di essi, ma anche rispetto a Mongolia e Viêt-Nam. Non mancano inoltre cenni alle musiche delle minoranze etniche le quali, numerose in particolare in un Paese vasto come la Cina, costituiscono parte integrante del panorama musicale locale, accanto alle musiche d’arte. Se il lavoro è essenzialmente di tipo etnomusicologico, di particolare rilievo è l’approccio sociologico tramite il quale Sestili mette in luce il divenire di queste tradizioni e la loro collocazione nell’ambito della modernità. Il volume è completato da un ricchissimo apparato fotografico che illustra strumenti, tecniche e luoghi di esecuzione, gestualità degli esecutori, nella loro concretezza. Il cd allegato, contenente numerose tracce inedite, permette infine l’ascolto dei generi maggiormente rappresentativi dell’area. Fabrizio Giuffrida Musiche di Turchia. Tradizioni e transiti tra Oriente e Occidente Giovanni De Zorzi con un saggio di Kudsi Erguner Ricordi/Universal Music 2010 326 pp. + illustrazioni € 25,00 Il libro di De Zorzi, etnomusicologo e valente suonatore di ney, il flauto tipico della musica sufi (si veda la recensione del cd nel riquadro), è uno dei rarissimi studi in un lingua occidentale dedicato alle musiche delle Turchia. Basato sulle ricerche dell’Autore e sullo studio della (poca) letteratura pre-esistente, il volume è un’introduzione a generi, forme, stili, strumenti e maestri delle tradizioni musicali turche. Sebbene queste siano sempre state considerate l’“altro” sonoro per antonomasia, 09 AUTUNNO 2010 49 49 VISIONI Mondomix.com / RECENSIONI illuminante è il fatto, opportunamente sottolineato da De Zorzi, che la maggior parte dei musicologi turchi parlino di originaria identità musicale, determinate da comuni radici teoriche greco-ellenistiche, tra Oriente, ovvero il mondo arabo-islamico, ed Occidente, dalle quali gli occidentali si sarebbero inopinatamente allontanati. Il testo si apre con un panorama storico, da cui emergono dati di grandissimo interesse. Per esempio: Giuseppe Donizetti pascià, fratello del più noto Gaetano, giunto a Istanbul nel 1828, guida l’introduzione della musica occidentale in Turchia, istruendo le nuove bande di stile europeo volute dal sultano. L’altra faccia della medaglia è il contemporaneo scioglimento dei Giannizzeri e delle loro bande musicali, che tanto avevano affascinato i compositori europei sin dal Settecento. Segue una chiara disanima dei generi, delle forme e degli strumenti musicali. Particolare attenzione è dedicata alla tradizione sufi (quella dei cosiddetti “dervisci rotanti”), ma lo studioso non manca di edurci sulla tradizione folklorica, spesso negletta, e sulla fascinosa popular music turca. Nel complesso, De Zorzi ci guida con passo sicuro in un universo sonoro ricchissimo e poco conosciuto. Il linguaggio chiaro è coadiuvato dalla belle foto che corredano il volume. Chiude il libro il prezioso saggio di Kudsi Erguner, uno dei maggiori suonatori contemporanei di ney, in cui si propone un inedito approfondimento sul sistema musicale ottomano. Daniele Sestili Inception 2010 Regia Chrisptopher Nolan Sceneggiatura Chrisptopher Nolan Musica Hans Zimmer Attori Leonardo DiCaprio, Ken Watanabe, Joseph GordonLevitt, Ellen Page, Marion Cotillard e Cillian Murphy Si può fare un film sulla confusione sogno/realtà senza ripetere quello che è stato detto e mostrato innumerevoli volte? Beh, Christopher Nolan ci è riuscito con Inception, un film affascinante narrativamente e visivamente. Leonardo di Caprio, ormai specializzato in personaggi dolenti e confusi (del genere The Departed e Shutter Island), è Dom Cobb, esperto nella tecnologia di penetrare nei sogni altrui per dominarne il subconscio, insieme alla sua squadra. Publi VpSDiA5-10-10:manchette 12:39 Pagina 1ma stavolta riceve solito lo fa per 25/10/10 rubare informazioni, da un potentissimo uomo d’affari (Ken Watanabe, bravo La sfida alle oligarchie del cibo Ensemble Marâghî Anwâr From Samarqand to Costantinople on the Footsteps of Marâghî Felmay / Egea Il viaggio proposto dagli italianissimi Marâghî inizia a Samarcanda, una delle corti frequentate dall’omonimo compositore e centro della cultura islamica nei secc. XIV e XV, per giungere alla tradizione musicale ottomana. ‘Abd ul-Qadir Marâghî è esempio paradigmatico dell’interculturalità arabo-islamica, perseguita dai musicisti che compongono l’ensemble. Il flauto ney di De Zorzi, i tamburi zarb e bendir di Clera e il liuto ‘ūd di Tufano si uniscono alla voce dell’ospite, la cantante iraniana Sepideh Raissadat, che si accompagna con il liuto setâr. Sotto la direzione di De Zorzi, il quartetto attraversa secoli e luoghi. Dopo i primi quattro brani, attribuiti a Marâghî, il gruppo affronta con passione la tradizione classica ottomana, che tanto deve alle musiche sorte in seno al Sufismo. Daniele Sestili Credito ai contadini Sovranità alimentare in Italia Poste Italiane S.p.A. - Sped. in abb. post. DL. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1 CNS/CBPA/TORINO - agosto settembre 2010 - anno XXV - foto: Bilderberg 48 come sempre) l’incarico di entrare nei sogni di un giovane magnate, per impiantarci un’idea, cioè per spingerlo a svendere l’impero del padre appena morto. È un’operazione difficile e mai tentata che prevede tre livelli di sogno per funzionare (cioè un sogno dentro un sogno dentro un sogno) e la capacità di uscire da tutti e tre allo stesso momento, per non rimanere perduti in una sorta di limbo della coscienza. In cambio, il committente aiuterà Cobb a sistemare i suoi problemi col governo e a riavere la custodia dei figli, affidati ai suoceri dopo la morte della moglie, anche lei ex ladra di sogni. Il tema della perdita e della memoria (con la moglie che si mescola ai sogni programmati con cui Cobb interagisce con le sue vittime) oltre al dilemma realtà/ sogno, è il grande protagonista del film, che si ricollega idealmente al film che diede fama a Nolan, Memento (2000). Spiccano l’interpretazione di Joseph Gordon-Levitt, visto in (500) giorni insieme, Marion Cotillard (che ricordiamo in Nemico pubblico di Mann), entrambi membri della squadra di Di Caprio/Cobb, e dello splendido Michael Caine, (il suocero di Cobb): su di lui non si può che sottoscrivere quanto afferma il critico Roger Ebert «Di questi tempi basta che Caine compaia sullo schermo e immediatamente diamo per scontato che sia più saggio di tutti gli altri personaggi. È un dono». È la realtà ‘vera’ o sto sognando di sognare di sognare di sognare (ripetere ad libitum, secondo i livelli onirici desiderati) la realtà? Tutto il film non è altro che un sogno di Cobb? Per i più nerd tra noi, c’è un apposito sito su cui confrontare e discutere le proprie interpretazioni del finale di inception: www.inceptionending.com; può dare assuefazione, ma anche il desiderio di rivedere Inception: e ne vale la pena. Paola Valpreda La rivista di chi abita il mondo Reportage e notizie dai cinque continenti, progetti di solidarietà, ricerca volontari delle associazioni, proposte di turismo alternativo, viaggi responsabili e molto altro... DIVORATORI DI FUTURO Come riappropriarci di quel che mangiamo VpS Volontari per lo sviluppo La rivista di chi abita il mondo www.volontariperlosviluppo.it social: Ci trovi anche su VpS èFacebook e Twitter! Sfoglia anche online il nostro numero speciale su alimentazione e agricoltura: dalle sfide italiane a quelle mondiali, con esempi e indicazioni pratiche per passare dall’idea di sicurezza alimentare (avere cibo) a quella di sovranità alimentare (avere il controllo su come procurarselo). Cosa trovi in questo numero: PRIMO PIANO ITALIA AFFAMATA Latifondi e cementificazione mettono a rischio il Belpaese REPORTAGE SEMI-LIBERTÀ Gli effetti dei brevetti sulle sementi DOSSIER PALATI FINI La sovranità alimentare in Italia riconquistata dalla società civile Per copia omaggio 011/8993823 [email protected] Per ricevere la rivista tutto l’anno il contributo è di 28 Euro, da versare sul ccp 37515889 intestato a: Volontari per lo Sviluppo, Corso Chieri 121, Torino 09 AUTUNNO 2010 50 51 Cuba Mondomix.com La World Music che non sapevamo di avere in casa Rei Momo David Byrne di Eddy Cilìa Nato in Scozia da genitori irlandesi, cresciuto in Canada per poi trasferirsi – ancora bambino – nel Maryland e da ormai trentacinque anni newyorkese di adozione benché tuttora abbia passaporto britannico: un po’ ce l’aveva nel destino David Byrne di essere cittadino del mondo, mentre doveva essere iscritta nel DNA la curiosità per musiche non appiattite sul gusto corrente. Tant’è che, liceale appena dopo il giro di boa dei ’60, non dava vita al complessino garage canonico per il tempo, con l’usuale catalogo di cover di blues elettrico o della British Invasion, bensì a un duo con in repertorio Frank Sinatra piuttosto che Rodgers & Hart o cose disneyane, decenni prima che ci pensasse Hal Willner. E per certo in quel movimento pure molto variegato che fu la new wave i suoi Talking Heads furono fra i più propensi a infiltrare nel rock musiche “altre”: il soul e il funk già nel secondo LP, More Songs About Buildings And Food (1978), e quindi assortite suggestioni di Africa e Asia nei monumentali Fear Of Music e Remain In Light (’79 e ’80). E che dire di My Life In The Bush Of Ghosts? Disco dell’81 (ma le registrazioni avevano in realtà preceduto quelle di Remain In Light) realizzato dal Nostro congiuntamente con Brian Eno e a tal punto in anticipo sui tempi da parere all’epoca un oggetto alieno: fenomenale intreccio di ritmi tenuti assieme da melodie etniche provenienti da ogni dove nonché ponte, con le sue manipolazioni di nastri, fra Cage e Stockhausen da un lato e l’hip hop allora in divenire dall’altro. Quando nel 1989 Byrne mette mano a Rei Momo i Talking Heads di fatto non esistono più, benché a saperlo sia forse solo lui, ignari i sodali che l’anno prima gli hanno dato man forte in Naked, ottimo congedo pregno nuovamente 09 AUTUNNO 2010 d’Africa dopo che Little Creatures e True Stories erano sembrati disegnare per il gruppo orizzonti relativamente convenzionali in uno scenario di pop-rock a stelle e strisce. Non fa per il nostro uomo, avrete inteso, riposare sugli allori. In proprio ha già pubblicato, oltre a My Life In The Bush Of Ghosts, tre colonne sonore: una, la prima, per il teatro (Music For “The Knee Plays”, 1985) e quindi due per il cinema (Sounds From True Stories nell’86 e l’anno dopo The Last Emperor, in collaborazione con Ryuichi Sakamoto e Cong Su). È dunque come fosse un esordio, Rei Momo, e a debuttare sono anzi contemporaneamente il David Byrne solista e l’etichetta, Luaka Bop, che ha appena fondato con il benestare di Sire e Warner. Il disegno si farà più chiaro quando il marchio comincerà a griffare storiche raccolte di musica latina (le collane Brazil Classics e Cuban Classics) per poi allargare il suo sguardo al mondo intero (ed ecco gli Asia Classics) e infine offrire un tetto discografico a Susana Baca come a Jim White, a Tom Zé come alle Zap Mama e ristampare Shuggie Otis o gli Os Mutantes. Fosse uscito in mezzo a tutto ciò, l’album sarebbe stato probabilmente meno equivocato, l’accoglienza più benevola. Con il senno di poi… Con il senno di poi Rei Momo (che in Brasile è il re del Carnevale) non sembra affatto – o lo pare molto di meno – l’esercitazione stilistica che molti bollarono come intellettualoide, frigida, magari anche (fatta salva la buona fede dell’artefice) di impronta colonialista nel suo espropriare tradizioni altrui rispetto a quella dell’autore. È una collezione di canzoni in cui l’ex-Talking Heads si misura (specificandolo fra parentesi dopo il titolo di ogni brano!) con cumbia e merengue, cha cha cha e samba, charanga e bolero, saltabeccando fra Caraibi, Brasile e Africa. Non sempre la proverbiale ciambella riesce col buco e nondimeno la scrittura è mediamente fresca, il divertimento dei musicisti coinvolti – qualcuno anche in fase compositiva: Johnny Pacheco cofirma tre canzoni, Willie Colón e Arto Lindsay una a testa – lampante. È un raro caso di disco che più passano gli anni e meno rughe mostra. 09 AUTUNNO 2010 Ossigeno Digital Distribution alcune nostre promozioni Sir Oliver Skardy & Fahrenheit 451 Fame un spritz Remo Anzovino Igloo Mirco Menna & Banda di Avola …e l’italiano ride Giovanni Nuti canta Alda Merini Una piccola ape furibonda Various Artists Trance Gamelan In Bali Gamelan of Central Java XIV. Ritual Sounds Of Sekaten Sir Oliver Skardy & Fahrenheit 451 Piragna Giovanna Marini La Torre di Babele Linglin Yu Xu Lai Massimo Bubola & Circolo Sociale del Liscio Romagna nostra Gastone Pietrucci - La Macina Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto Vol. 3 1° Classifica Album Reggae Italia - iTunes Novità Reggae Italia - iTunes Novità Reggae Svizzera - iTunes Novità Reggae Spagna - iTunes Novità World Italia - iTunes Novità Reggae Italia - iTunes 1° Classifica Album Reggae Italia - iTunes home page Italia - iTunes banner home page Musica Italia, banner home page Italia e Newsletter - iTunes home page e home page Musica Grecia, Svezia, Portogallo, Norvegia, Svizzera - iTunes Novità World Italia - iTunes banner “highlight” in home page Europa e Newsletter - Mondomix home page Italia - iTunes banner “discovery” in home page Europa - Mondomix home page World USA, Spagna, Belgio, Svizzera, Svezia, Danimarca - iTunes Novità World Italia - iTunes banner “highlight” in home page Asia - Mondomix Alessandro Benvenuti e gli Indipendenti per l’Abruzzo Decidilo tu - Canzone per l’Abruzzo home page e Newsletter - Nokia Music Store home page - Mondadori Shop 13 album da noi distribuiti nei primi 200 della Classifica Reggae Italiana su iTunes Hector Zazou, Barbara Eramo & Stefano Saletti Oriental Night Fever home page - Mondadori Shop 1° Sir Oliver Skardy & Fahrenheit 451 Piragna 16° Brusco Amore Vero 40° Sir Oliver Skardy & Fahrenheit 451 Fame un spritz 43° Sir Oliver Skardy Grande Bidello 60° Africa Unite People Pie 75° Various Artists Riddimup#2: Maria riddim 79° Pitura Freska Sound System Piatti Roventi il 100° Various Artists Riddimup#1: Acqua/Bandolero 106° Pitura Freska Murassi 118° Pitura Freska Saria beo 123° Gioman & Killacat Fruscia 132 Stiliti Nella Strada 185° Sir Oliver Skardy & Fahrenheit 451 Destra Sinistra Gamelan of Central Java XII. Pangkur one e XIII. Pangkur two banner “highlight” in home page Asia - Mondomix Ossigeno Srl via Marovich, 5 30174 Chirignago Venezia 041 - 5441558 [email protected] www.ossigenodigitaldistribution.com