deolinda - Egea Distribution

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musiche e culture nel mondo
primavera 2010
07
D E O LAMBROGIO
I N SPARAGNA
D A
09
autunno 2010 www.mondomix.com
www.mondomix.com
nuoveORCHESTRA
cartoline POPOLARE
dal portogallo
ITALIANA
ALI
FARKA
TOURE .•Concha
ELENABuika
LEDDA
• SQUILIBRI
• BRASILE
IN MUSICA
. Afghanistan
. Essaouira
. David
Cuba
Byrne . Recensioni
Sommario
Mondomix Italia — n°9 autunno 2010
04 Editoriale
06 / 11 AttualitÀ
06 - AttualitÀ-Mondo
07 - AttualitÀ-Sei domande a
Giovanna Marini
Fabio Barovero
08 - AttualitÀ-Babele
09 - AttualitÀ-Profili
09 - Antonio Castrignanò
10 - luigi cinque
11 - rosa balistreri
12 / 21 MUSICA
12 - concha buika
14 - cuba
17 - afrocubism
18 - Edesio Alejandro
20 - deolinda
23 / 37 360°
09
Antonio Castrignanò
23 - essaouira
28 - specchi afghani
30 - razi mohebi e soheila javaheri
33 - zanzibar festival
34 - festival au desert
35 - african brothers
36 - The Street Foodie
38 / 50 RECENSIONI
38 - Africa
40 - Americhe
42 - Europa
44 - Fusion
46 - Asia
47 - Compilation
48 - Visioni
50 - La World Music che non sapevamo di avere
Periodico gratuito
Editore FM2
Direttore responsabile Luca Rastello
Redazione Elisabetta Sermenghi, Renzo Pognant, David Valderrama, Luca Vergano
[email protected]
Hanno collaborato Akenataa Hammagaadji, Bertrand Bouard, Ciro De Rosa, Daniele
Sestili, Eddy Cilia, Emanuele Enria, Enrico Verra, Fabrizio Giuffrida, Gian Franco
Grilli, Giancarlo Susanna, Giovanni De Zorzi, Giulio Cancelliere, Mauro Zanda, Paola
Valpreda, Paolo Ferrari, Piercarlo Poggio, Valerio Corzani
Pubblicità [email protected]
Impaginazione Chiara Tappero / Volumina [email protected]
Redazione Corso Moncalieri 331, 10133 Torino (nuovo recapito)
Stampa Ages Arti Grafiche Corso Traiano 124, 10127 Torino
Registrazione al tribunale di Torino n° 49 del 9 luglio 2008 (periodico culturale)
Il logo e il marchio Mondomix sono registrati e di esclusiva proprietà di Mondomix Media SAS. Il
logo e il marchio Mondomix in Italia sono licenziati in esclusiva a FM2.
Solo Mondomix Media SAS e i suoi licenziatari possono utilizzare il logo Mondomix in pubblicazioni,
pubblicità e materiali promozionali.
12
Concha Buika
14
Cuba
23
Essaouira
38
Lobi Traoré
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David Byrne - Rey Momo
04 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
Mondomix.com
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FELMAY
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NEW!!
VOLUME 26
eDITORIALE
Trent’anni. Anzi trent’anni e qualche mese visto che era il 24 dicembre 1979. Quasi trentuno anni fa i carri armati di
Breznev entravano in Afghanistan per completare una liberazione iniziata qualche anno prima con la cacciata di re
Mohammed Zahir Shah. Una liberazione continuata con Mujahideen, Talebani, ISI Pakistano, Al Qaeda, Arabi, Massud
(no Massud no. È stato ucciso da emissari di Osama Bin Laden due giorni prima dell’attacco alle Torri gemelle) e poi
gli Americani di Enduring Freedom, la Nato e l’ISAF. Ultimi in ordine di importanza e di tempo gli F16 dotati di bombe
di La Russa. E prima inglesi, Sikh, arabi, mongoli, persiani. Innumerevoli sono coloro che hanno cercato di liberare
l’Afghanistan nel corso dei secoli. Il risultato è un paese in cui solo il 6% della popolazione ha la corrente elettrica, nel
quale le mine antiuomo sono superiori, per numero, agli abitanti del paese stesso. Il numero di rifugiati delle guerre degli
ultimi anni ammonta a milioni. Forse è venuto il momento che Farsi, Pashtu, Hazara, Uzbeki, Tagichi, Kirghisi,Turkmeni
e Dio solo sa quanti altri clan e tribù si liberino da soli e trovino la loro via. Difficilmente possono fare peggio di quanto è
stato fatto fino ad oggi.
Mondomix racconta questo paese attraverso il cinema, di come esistano ancora uomini, donne, spiriti liberi che non
possono fare a meno seguire il loro destino, una spinta più forte di ogni ostacolo. Una bella lezione di vita.
E Cuba?
Ricordo la mia prima ricerca scolastica al liceo: la Rivoluzione Cubana.
Nomi mitici: Che Guevara, Cienfuegos, Fidel Castro. Un altro tempo, un’altra giovinezza.
Oggi ci resta una musica bellissima, unica, piena di sentimento e originalità.
Il resto è evaporato come il fumo dei suoi famosi sigari.
In occasione dell’uscita di AfroCubism ripercorriamo un pò della sua storia musicale, per chi se ne fosse perso qualche
capitolo.
In copertina i Deolinda, una delle più belle realtà uscite da quel confine dell’Impero che è il Portogallo. Dopo Cristina
Branco e Mariza, Misia, Dulce Pontes, i Madredeus e Rodrigo Leao, ultimi in ordine di tempo i Deolinda ci presentano una
personale versione del Fado, musica lusitana par excellence. Ancora poco noti in Italia sono già un fenomeno in patria e
nel resto d’Europa. L’uscita del loro secondo CD ci fornisce l’occasione per presentarli anche al nostro pubblico.
E poi Antonio Castrignanò, Giovanna Marini, Concha Buika, qualche festival e molto altro.
Da questo numero oltre alla versione in PDF scaricabile gratuitamente dal sito www.mondomix.com vi segnaliamo la
possibilità di consultare la versione digitale interattiva con link a file audio e video, negozi online,...
Veniteci a trovare e fateci sapere cosa ve ne sembra.
La redazione
[email protected]
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15
thiopiques
new
20
vol. 1 - L'age d'or de la
musique ethhiopenne
moderne 1969-1975
vol. 2 - Azmaris urbains
des annèes 90
vol. 3 - L'age d'or de la
musique ethiopienne
moderne 1969-1975
vol. 4 - Mulatu Astatke
Ethio Jazz & Musique
Instrumentale, 1969-1974
felmay
09 AUTUNNO 2010
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EGEA
distributore esclusivo
per l’Italia
21
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new
24
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vol. 5 - Tigrigna Music
1970-75
vol. 10 - Tezeta - Ethiopian
Blues and Ballads
vol. 15 - Europe meets
Ethiopia - Jump to Addis
vol. 6 - Mahmoud Ahmed
Almaz 1973
vol. 11 - Alèmu Aga - The
Harp of King David
vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu
The Lady with the Krar
vol. 12 - Konso Music
& Songs
vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè
vol. 13 - The Golden
Seventies - Ethiopian Groove
vol. 19 - Mahamoud Ahmed
1974 - Alèmyè
vol. 24 - L'age d'or de la
musique ethiopienne
moderne 1969-1975
vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya
Negus of Ethiopian Sax
vol. 20 - Either Orchestra &
Guests - Live in Addis
vol. 25 - Modern Roots
1971/1975
vol. 7 - Mahmoud Ahmed
Erè mèla mèla 1975
vol. 8 - Swinging Addis
1969-1974
vol. 9 - Alèmayehu Eshété
vol. 18 - Asguèbba !
vol. 21 - Emahoy Tsegué
& Maryam Guèbrou
Piano Solo
vol. 22 - Alèmayèhu Eshèté
1972/1974
vol. 23 - Orchestra Ethiopia
felmay distribuzioni • vendita per corrispondenza • richiedete il catalogo
strada Roncaglia 16 - 15033 San Germano AL - Italy
ph +39 0142 50 577 fax +39 0142 50 780 [email protected] www.felmay.it
06 Attualità
Uccio Aloisi
Mentre andiamo in stampa giunge la
notizia che il 21 ottobre scorso, all’età
di ottantadue anni, se ne è andato
Uccio Aloisi. Un lutto che lascia un
vuoto incolmabile in quanti hanno avuto
modo di conoscerlo e di ascoltarlo. Ci
lascia soprattutto la consapevolezza che con lui se ne
sia andata una delle ultime testimonianze dirette di un
passato recente ma ormai irrimediabilmente perduto della
tradizione canora popolare salentina; un’ennesima parte
di quel mondo di inconsapevole sapienza contadina che
ha gettato radici profonde che ancora oggi continuano
a produrre frutti anche se ogni tanto geneticamente
modificati. «Amo e mi faccio amare... amo e mi amano…
questa è la cosa più importante» disse Uccio in occasione
della registrazione del documentario Ritratti dal Salento –
Storie di Canti di Piero Cannizzaro del 2005. Un messaggio
che nella sua semplicità può apparire ingenuo ma che,
in realta, racchiude in sé tutta la forza di un commiato
indimenticabile.
Online www.myspace.com/uccioaloisi
Giovanna Marini
Lobi Traoré
È inusuale che ad occuparsi della
promozione di un disco sia il suo produttore
ma è ciò che sta succedendo a Chris
Eckman il quale, un po’ alla Alan Lomax,
ha registrato in presa diretta (quasi sempre
“buona la prima”) l’ultimo disco per voce
e chitarra di Lobi Traoré. Pur avendo a disposizione ben
altri mezzi tecnici rispetto al grande studioso, nessuno
oggi può raccontare meglio di lui, che l’ha registrato, Rainy
season blues vista la prematura scomparsa dell’artista.
Lobi Traoré se ne è andato stroncato da un infarto prima
dell’uscita dell’album, lo scorso 1° giugno, proprio in quella
Bamako che aveva dato il titolo al suo primo album con cui
aveva raggiunto una visibilità internazionale. Considerato
il più plausibile erede di Ali Farka Touré, che ne fu primo
mentore, Lobi Traoré lascia un vuoto incolmabile nel
mondo della musica africana e non solo.
Online www.mali-music.com/Cat/CatL/LobiTraore/
LobiIndex.htm
Attenzione!
Nuovo indirizzo postale
Mondomix
Corso Moncalieri 331
10133 Torino
Italia
Cantante, compositrice,
musicologa e ricercatrice
Che cosa stai ascoltando in questo periodo?
In questo periodo sto ascoltando delle bellissime ballate
monodiche e polifoniche da una raccolta fatta dalla
regione Piemonte, mi sembrano piuttosto antiche per non
dire vecchie e interessanti, quando ne sento una adatta la
trascrivo per portarla a scuola e insegnarla ai miei allievi.
Quali sono i tuoi dischi preferiti?
I miei dischi preferiti sono alcuni di musica di tradizione
orale, e molti di musica classica, le suites per violoncello di
Bach, la sua Passione di San Matteo, i quartetti e le sonate
di Beethoven, il Requiem di Verdi, il Requiem di Mozart,
le prime canzoni di Modugno, parecchio Woody Guthrie,
Alcune canzoni di De Gregori, come San Lorenzo, il Titanic,
La donna cannone, e poche altre cose perché passo sempre
il tempo a suonare o preparare pezzi miei e ho poco spazio
per altra musica, purtroppo.
Qual’è il musicista che ammiri di più?
Proprio ora il musicista che ammiro di più è mio padre,
Giovanni Salviucci, perché mi sono decisa finalmente a
mettermi seriamente ad ascoltare la sua musica per sapere
com’era lui, visto che non l’ho potuto conoscere (io nascevo
e lui moriva) e devo dire che come compositore giovane,
morto a 29 anni, ha scritto pezzi veramente emozionanti per
la musica che contengono, la libertà rispetto ai canoni sterili
del suo periodo di vita: il neoclassico, anni 30. Li superava
con musicalità libera e grande tecnica, permettendosi anche
di essere lirico ed emozionante.
Con chi ti piacerebbe collaborare, se si creasse l’occasione?
In genere io ammiro J.S. Bach, per il senso della struttura
musicale che lui ha dato a secoli di musica che venivano
dopo di lui, per la sua capacità comunque, mentre è molto
geometrico, di essere anche lirico e ispirato. Se volete un
musicista d’oggi Arvo Part più o meno per gli stessi motivi
per cui ammiro la musica di mio padre.
«Più contadini,
meno politici»
Terra Madre – Torino Ottobre 2010
Si è chiusa con un discorso appassionato e pieno di
speranza di Carlo Petrini la terza edizione di Terra Madre.
Incontro biennale che si tiene a Torino in concomitanza
con il Salone del Gusto e che ha visto la partecipazione di
oltre 6.400 persone, provenienti da 160 Paesi del mondo,
tra contadini, allevatori, cuochi, pescatori, artigiani, ma
pure studenti, studiosi, musicisti e docenti universitari.
I lavori del Convegno si possono riassumere nella frase
di Edgar Morin «Tutto deve ricominciare e tutto è già
ricominciato». Più di una speranza. Una certezza.
Online www.terramadre.info
09 AUTUNNO 2010
07
Sei domande a
Mondomix.com / ATTUALITà
Quali concerti ricordi con più piacere?
Con più piacere ricordo i concerti che facevamo negli anni
70, con l’invenzione scatenata di tutto il gruppo,(il Nuovo
Canzoniere Italiano, ormai vecchio) e ora molto più recenti,
i concerti che faccio con i miei allievi, di canti politici con
banda, o di canti contadini, mi diverto molto in quei
concerti, ma certo che anche i concerti che faccio con il mio
Quartetto Vocale sono una continua gioia, non mi manca il
divertimento in questo mio faticoso lavoro, e meno male!
Hai artisti giovani che conosci o ascoltato e che ci
consigli di seguire?
Seguirei con attenzione Carlo Crivelli non più giovanissimo
ma autore di bella musica e Franco Piersanti che fa
musica da film veramente bella, anche Ennio Morricone
mi piace molto nella sua musica da film (C’era una volta
in America, Mission tutte le musiche per i film di Sergio
Leone, sono magnifiche!). Nel campo della canzone trovo
molto interessante Vinicio Capossela che ha invenzione e
genialità. Di gente non conosciuta ma da scoprire in questo
momento non mi viene in mente nessuno, dovrei pensarci
molto e forse andare in giro a ascoltare, il mio problema è
sempre lo stesso, dovendo scrivere, preparare i corsi ecc.
ho poco tempo da dedicare all’ascolto.
Fabio Barovero
Compositore, musicista,
produttore
Che cosa stai ascoltando in questo periodo?
Brazzaville in Istanbul, Kanye West Graduation, Krzystof
Penderecki Symphony N2 e 4 si sa, capita che alcuni
dischi rimangano sul tavolo per mesi, incelofanati, e da
lì ti guardano e ti supplicano di essere ascoltati almeno
una volta. Confesso che ci sono casi che il mio ascolto
non dura più di 5 secondi. E poi ci sono casi in cui questi
dischi restano nel vano porta cd a suonare mille volte, per
mesi, per un anno intero. È il caso di Brazzaville in Istanbul:
canzoni lievi, nostalgiche, con una bella strumentazione...
e il caso della fragorosa creatività musicale contenuta nell’
album Graduation di Kanye West.
Quali sono i tuoi dischi preferiti?
John Coltrane Crescent, Ali Farka Tourè
Crescent di John Coltrane è amore musicale ascoltato a 12
anni e mai dimenticato. La musica blues maliana corrisponde
ad una possibile idea di massimo confort fuori dal tempo e
dalle mode, una specie di focolare domestico e sane radici.
Qual’è il musicista che ammiri di più?
Ryuichi Sakamoto per la disinvoltura e l’autorevolezza con
cui si è approciato a collaborazioni fertilissime pur creando
la sua musica originale. Per le qualità del musicista colto
capace di creare nel pop contemporaneo.
Con chi ti piacerebbe collaborare, se si creasse l’occasione?
Djivan Gasparyan / Lauryn Hill un espertissimo veterano che
suona uno strumento dal suono sublime, che sa di terra e
di vita. Se mi venisse a trovare in studio Lauryn Hill «non mi
dispiacerebbe»...
Quali concerti ricordi con più piacere?
Nusrat Fateh Ali Khan / Prince passai una giornata intera
prima di un concerto con i musicisti del “party” di Nusrat.
Un vero happening fuori dal tempo con la musica che ti
porta via.
Hai artisti giovani che conosci o ascoltato e che ci
consigli di seguire?
Francesco Loccisano, chitarra battente. Ho scoperto
Francesco grazie ad alcuni amici musicisti della Locride.
Un maestro della chitarra battente, strumento versatilissimo
che ho utilizzato fuori dal contesto abituale della tarantella,
e inserito in colonne sonore di atmosfera. Un pò liuto arabo,
ma anche dobro volendo, e sound angelico, stupefacente.
Titolo Sweet Limbo
Etichetta Felmay / Egea
Online www.barovero.org
09 AUTUNNO 2010
8 Mondomix.com / ATTUALITà
Il Folklore
immaginario
di Valerio Corzani
Il Folklore immaginario non è un genere musicale. Piuttosto
una predisposizione. Ha a che fare con il tema dell’“altrove” e
con il desiderio di trasfigurare le culture. Immaginare i luoghi
piuttosto che attraversarli, parafrasare le caratteristiche
di una cultura anziché appropiarsene, evocare il suono di
una tradizione musicale anzichè recuperarlo integralmente:
sono attitudini privilegiate che permettono di sviluppare
punti di vista davvero esotici. Alle volte l’estro dei musicisti
risolve questi viaggi creativi elaborando soluzioni impreviste
e convincenti, in altri casi l’esercizio si tramuta in un ardito
equilibrismo molto più vicino al kitsch che alla genialità
inventiva. La simultaneità conoscitiva della globalizzazione
ha per certi versi accellerato e implementato questo tipo di
“escursioni”, per altri ne ha ridicolizzato l’aspetto mitico ed
il portato poetico. Sta di fatto che la categoria del folklore
“immaginato” è in realtà una categoria frequentata dai
musicisti d’ogni tempo e d’ogni dove, mentre, per far le
pulci ai termini, quella del folklore “immaginario” è forse una
predisposizione più recente che lascia rimbalzare il segno
di una pratica meticcia, di un soggetto alchemico, di una
continua e sofisticata attività sincretica legata non solo alla
sincronizzazione delle culture ma anche a quella dei media,
dei commerci, dei linguaggi e delle distanze.
Periglioso ma divertente il percorso di chi, da questo punto di
vista, decidesse di non formalizzarsi troppo sulle definizioni e
di racchiudere nello stesso orizzonte esplorativo qualunque
tipo di sguardo rivolto all’altrove. Una delle prime proposte,
dal punto di vista storico, arriverebbe dalla penna di Luis
Milan e dalla raccolta El Maestro pubblicata a Valencia
nel 1536 sul tema della cosiddetta “Pavana Spagnola”.
Da lì in avanti si sono susseguite continue elaborazioni
del concetto di folk: come citazione, come travestimento,
come elaborazione, come reinvenzione di un patrimonio
popolare che poteva servire e ispirare il patrimonio colto.
Ma, in realtà, sono state le musiche extracolte a fungere
insieme da laboratorio e da matrice. Il folk del mondo si è
rifranto su se stesso e sui generi guida (il jazz, il pop, il rock,
la canzone d’autore), in un continuo gioco di specchi che ha
trovato menti illuminate e pronte a “immaginarlo”. In questo
senso negli ultimi decenni si sono rivelate anche genìe di
musicisti sostanzialmente specializzate in questo folk che
non appartiene a niente e a nessuno e che si nutre dell’idea
di folk, più che degli stilemi veri e propri. Il folk immaginario
come sorprendente testimonianza di un’inclinazione, di
una “predisposizione” che diventa abitudine creativa in un
senso, se non affine, senz’altro limitrofo a quello raccontato
da Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger in un saggio dal
titolo L’invenzione della Tradizione. «Le tradizioni che ci
appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine
piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta»
scrive Hobsbawm e senza saperlo evoca gente come Jon
Hassell, Jan Garbarek, Stephan Micus, Steve Tibbets,
Arild Andersen, le islandesi Amiina, i francesi Yann Tiersen
e René Aubry, i nostri Giovanni Seneca, Rocco de Rosa,
Nicola Alesini, l’ensemble pugliese de L’Escargot, tutti
artisti che possono essere definiti etnici solo se l’idea di
“matrice etnica” viene declinata in maniera randomica,
approssimativa, sfuggente, camaleontica. Un’idea e una
matrice in cui il folk immaginario diventa sinonimo di “mondi
musicali immaginari”, non piu’ soltanto folk.
09
Profili
Babele
La tradizione in divenire
di Antonio Castrignanò
di Ciro De Rosa
Di tempo ne è trascorso dagli anni ‘90, quando Antonio
Castrignanò si rivolse al musicista e ricercatore Luigi
Chiriatti per imparare a suonare il tamburello. Gli disse:
«Se nu ‘mparu cu sonu lu tamburu me tajiu la manu», vale
a dire «se non riuscirò a suonare il tamburello mi taglio la
mano». Erano i tempi delle feste nelle corti, di quel revival
della tradizione partito dal basso, prima che accademici,
politici e musicisti di tutta Italia comprendessero l’entità
del fenomeno. Da lì è partito l’incontro con i testimoni
della tradizione, tra i quali Luigi Stifani, Gli Ucci, Lucia De
Pascalis, i Zimba, Cici Cafaro per coltivare la passione con
una «musica dall’identità nobile», come rimarca nella nostra
chiacchierata telefonica Antonio, trentatré anni, nativo di
Calimera, cuore della Grecìa salentina. Segue la militanza
in formazioni centrali nella riproposta del repertorio orale
salentino, come Canzoniere di Terra d’Otranto, Canzoniere
Grecanico Salentino, Aramiré. Poi arriva in pieno boom
l’esperienza come vocalist e tamburellista nell’Orchestra
della Notte della Taranta. Alla notorietà perviene però con la
colonna sonora di Nuovomondo, bella pellicola di Emanuele
Crialese. Lavoro articolato, con frammenti di arie, voci e
cori arcaici, che racconta emigrazione, viaggio, nostalgie
e speranze, che ha richiesto un «approccio istintivo», rileva
Castrignanò,«ma anche la necessità di uscire fuori dalla
musica tradizionale salentina».
Mara la fatia
Il suo nuovo album Mara la fatia, che in salentino significa
amara è la fatica, persegue l’idea forte di rendere omogenei
repertorio tradizionale e nuove composizioni, in nome di
una permanenza che Antonio ricerca, persuaso che nel
Salento «sia ancora poco sviluppato il lavoro di continuità
con la tradizione». Da qui, nasce un disco che intreccia
lavoro e notte, quest’ultima intesa come momento di
riflessione, di sofferenza, d’emozioni, d’amori ma ancora di
vita segnata da dura fatica e sfruttamento. Le due anime
dell’album si sviluppano in 11 episodi: liriche tradizionali,
musicate dall’artista di Calimera e scrittura originale. «Scelta
emozionale», dice ancora Castrignanò, «che mi ha spinto ad
incidere i brani che rappresentano un mio percorso di vita».
Al suo fianco sono Attilio Turrisi (chitarra classica e battente),
Gianluca Longo (mandola, mandolino, cetra), Giulio Bianco
(zampogna, flauti, armonica), Ninfa Giannuzzi (voce), Rocco
Nigro (fisarmonica), oltre ad alcuni ospiti. L’album è stato
registrato in presa diretta nelle sale di Palazzo Palmieri a
Martignano (Le). Il sottotitolo Storie di pizziche tarante e
tarantelle è accattivante ma anche fuorviante, perché qui
non siamo di fronte all’abusato e ormai stereotipato mix di
classici salentini, ma alla conferma di un artista originale
che, pur rispettoso per l’insegnamento della tradizione,
invita a pensare la musica come un divenire.
LA SCALETTA
Apertura con l’energia ritmica impressa ad Aradeo, una
pizzica pizzica, trascinante per la presenza di chitarra
battente, tamburello ed armonica a bocca. Mara la fatia, con
l’incipit delle voci del mondo del lavoro rurale, ha una ritmica
insistente con daf e tamburello in primo piano e sequenze
irresistibili delle corde di Gianluca Longo e del violoncello di
Redi Hasa. È un commento al lavoro, con un contrasto tra
rassegnazione e volontà nell’affrontare le fatiche quotidiane
della campagna. Anche Lu Sule Calau, tratta dal repertorio
dei Cantori di Spongano, insiste sul tema dello sfruttamento
del lavoro: il caporalato è storia ancora attuale di sfruttamento
di uomini e donne di Puglia, di uomini e donne d’Africa. Qui
spicca l’intervento nitido di Giancarlo Parisi alla zurna e ai
flauti. Il tema dell’amore irraggiungibile domina nella pizzica
Tremulaterra, che contiene versi di rara bellezza e un abile
ordito di corde, zampogna e tamburello. La delicata Canto
al Buio è contraddistinta da eccellente ricerca timbrica. La
scrittura di Castrignanò si ispira alle nenie raccolte negli anni
‘50 da Alan Lomax nella regione. Qui il violoncello di Redi
Hasa è messaggero di fascinazione. Vena ironica e storie di
donne protagoniste in Signora Madama, con un irresistibile
pianoforte di Luana Ricci, e Maria Nicola. Racconto di un
amore lontano La luna gira, che richiama nello stile vocale
e nei versi il cantastorie garganico Matteo Salvatore. Altro
episodio di punta, altamente evocativo, è Cantu a Trainiere,
un canto a distesa, rielaborazione con marcata matrice
ritmica mediterranea di un canto di carrettieri. Mula pietra,
ballata del poeta contadino Cici Cufaro, racconta come
pazienza e determinazione siano viatico per l’agognato
amore. La chiusura con la serenata Muntanara, in cui ancora
primeggia il pianoforte della Ricci, è il tributo al repertorio di
un altro gigante della tradizione garganica, Andrea Sacco da
Carpino.
Titolo Mara la fatìa
Etichetta Felmay / Egea
Online www.felmay.it
09 AUTUNNO 2010
09 AUTUNNO 2010
10 Nata in una famiglia poverissima a Licata, in provincia
di Agrigento il 21 marzo 1927, fu scoperta a Firenze da
Mario De Micheli, un critico d’arte, e cominciò a cantare in
pubblico all’inizio degli anni ‘60. Fu inserita da Dario Fo nello
spettacolo Ci ragiono e canto, cui partecipavano cantastorie
provenienti da varie regioni italiane. Pochi mesi prima della
sua morte, nel 1990, Rosa raccontò la sua vita all’amico
scrittore Giuseppe Cantavenere e dalle loro conversazioni
quest’ultimo pubblicò un libro, Rosa Balistreri, Una grande
cantante folk racconta la sua vita, edito da La Luna nel 1992
(e oggi purtroppo fuori catalogo).
L u i g i
Cinque
Scienza
e
magia
di Giulio Cancelliere
Da sempre Luigi Cinque intende la cultura come integrazione di linguaggi, sensibilità, intelligenze. È tra le personalità
artistiche italiane che più hanno dato impulso a quella che oggi si definisce multiculturalità: ha lavorato nel cinema, nel
teatro, nel balletto, in televisione, in campo letterario, ha collaborato col Canzoniere del Lazio, ha inciso per Cramps, si è
impegnato in iniziative sociali e civili, ha girato il mondo offrendo la sua musica e ricevendo stimoli ed elementi per nuove
imprese artistiche. Anche l’ultimo disco, Luna Reverse, realizzato con la sua formazione base, Hypertext Orchestra, nasce
da un viaggio per la realizzazione di un prossimo film, Transeurope Hotel.
Sarà una storia che coniugherà il pensiero magico con la razionalità scientifica, in linea con le nuove tendenze della fisica
quantistica che concepiscono l’universo, non più come un meccanismo, ma come una sorta di pensiero, dove tutto è
possibile.
E dal punto di vista musicale come si articolerà?
Attraverso la relazione tra jazz, musica contemporanea e
musica tradizionale e tra musicisti italiani e brasiliani. Ci sono
brani registrati con l’Hypertext, il Balanescu Quartet, Andrea
Biondi, Mauro Palmas, Sal Bonafede, eccetera; altri brani che
sono il risultato di incontri fatti durante questo viaggio: in Brasile
ho conosciuto Luizinho do Gege, percussionista magico
e Armandinho, che suona il bandolin come un bluesman;
a Buenos Aires ho incontrato Daniel Berardi, suonatore di
charango e così via. Di fatto non è molto diverso da quello che
faccio di solito, solo che il viaggio tra Roma, Palermo, Bahia,
Rio, Berlino, Buenos Aires lo ha reso più vivo.
In che senso?
Nel senso di persone che avevano studiato nei licei, nei
conservatori e avevano un controllo del materiale musicale.
Poi il mondo si è completamente contaminato e il processo
ha perso valore.
Come capita spesso nei tuoi dischi, anche qui c’è parecchia
tecnologia, oltre ad una forte componente “umana”.
È un sistema che uso da molto tempo: partire con un groove,
come una specie di binario che da Roma ti porta fino in
Africa o in America Latina, per poi rispedirti in Italia in una
dimensione tecnoitinerante.
Tra i miglioramenti non noti anche l’acquisizione di
elementi e capacità tecniche da parte di quelle culture
che venti-trent’anni fa si andava ad esplorare?
Non solo gli elementi, ma anche gli strumenti: a Lahore, dove
siamo stati ospiti, ho visto gruppi con cantanti pazzeschi,
che avevano sostituito gli accompagnamenti di harmonium
con tastiere Farfisa degli anni 70 dal suono devastante.
Tu sei stato tra i pionieri di quella che oggi si chiama
world music. Come hai visto cambiare l’integrazione
culturale nella musica e non solo?
Diciamo che dalla metà degli anni settanta e per circa un
decennio nell’Italietta democristiana, contaminarsi aveva
un senso e un forte significato politico in senso lato. Area e
Canzoniere del Lazio erano all’avanguardia in questo senso,
nella mescolanza di jazz, musica colta e popolare, con un
approccio borghese e progressive.
Musicalmente cos’è cambiato?
È migliorata molto la tecnica, sia strumentale, sia teoricocompositiva, però si è perso quell’impatto esplosivo che
una melodia araba in cinque ottavi provocava su un groove
rock. Oggi un pezzo come Settembre Nero è quasi ordinaria
amministrazione.
Ho notato che la tua area di interesse musicale punta
grosso modo a est verso l’India, a sud verso l’Africa
subsahariana e a ovest verso l‘America Latina. E il nord?
È singolare come lettura geografica, però è abbastanza
vera. In realtà è tutto molto casuale, ma il grande nord
europeo mi piace: il jazz europeo è straordinario, trovo che
abbia una notevole capacità di introiettare le altre culture, il
nuovo rock islandese mi interessa parecchio e prendo la tua
osservazione come stimolo per il futuro.
Il futuro?
Un fiore che canta.
Titolo Luna reverse
Etichetta MRF/MyFavoriteRecords / Edel
Online www.luigicinque.it
09 AUTUNNO 2010
11
Profili
Mondomix.com / ATTUALITà
Rosa Balistreri
La voce della Sicilia
Un popolo diventa povero e servo quando gli
rubano la lingua ricevuta dai padri: è perso
per sempre.
Ignazio Buttitta
di Giancarlo Susanna
Difficile dare torto a chi afferma che l’Italia è un paese senza
memoria. In un altro luogo o in una realtà parallela l’eredità
umana e culturale di un’artista come Rosa Balistreri sarebbe
oggetto di studio nelle scuole.
E Rosa potrebbe essere, se ci consentite un paragone forse
un po’ tranchant e molto sintetico, conosciuta, popolare e
amata come lo è ancor oggi Amalia Rodrigues in Portogallo.
Di certo chi ha avuto occasione di ascoltare la sua voce dal
vivo o su disco non potrà più dimenticarla. Rosa è stata la più
grande folksinger italiana. L’unico artista a lei paragonabile
è Matteo Salvatore, che di recente è stato scoperto anche
da un pubblico molto giovane. All’appello della critica e
degli studiosi manca ancora lei e anche per questo ci è
sembrato giusto scriverne su queste pagine. Straordinaria
nel recupero di canzoni tradizionali, Rosa fu anche in grado
di mettere in musica le poesie di un poeta come Ignazio
Buttitta e di creare un repertorio che ancora oggi colpisce
per la sua intensità e la sua dolorosa bellezza.
Nun lu sapiti l’amuri ca v’haju / Nun lu sapiti
quantu vi disiu / nun lu sapiti comu chiamciu
e staju / quannu ca p’un mumentu nun vi
viju. (…) Cchiù nun m’amati e cchiù vi vogliu
beni / chiù tempu passa e mannu cristiani /
nun mi lassati amuri ntra sti peni / pirchì siti
pi mia l’acqua e lu pani.
(Non lo sapete l’amore che ho per voi / non lo sapete
quanto vi desidero / non lo sapete come piango e come
sto / quando per un momento non vi vedo (…) Più non mi
amate e più vi voglio bene / più tempo passa e più ve lo
farò sapere / non mi lasciate amore in queste pene / perché
siete per me l’acqua e il pane.) (1)
«Una vita da romanzo popolare, riscattata dal canto: una
voce, un grido, che conosce anche il calore del sole e la
tenerezza, l’antica civiltà contadina mediterranea. La storia
di Rosa Balistreri è come la sua voce: rude, rabbiosa,
drammatica, ma percorsa da una vitalità irriducibile. Le
sue vicende scorrono attraverso le regole di una società
abbrutita, segnata da un classismo arrogante. Un matrimonio
senza amore e senza rispetto, il carcere, l’ospedale, la fuga
dalla miseria oggi inimmaginabile di una Sicilia arcigna e
crudele. Poi, la liberazione e la svolta, l’amore, i rapporti con
gli artisti e gli intellettuali, il ritorno in Sicilia dopo il successo
e di nuovo il Nord, Firenze, il primo luogo dove la giovane
siciliana di Licata aveva appreso che è possibile vivere
senza rinunciare alla propria dignità». (2)
Non è possibile rendere sulla pagina l’impatto di una voce
che racchiude in sé la sofferenza e il dolore di secoli. Rosa
ebbe la gioia di essere conosciuta e amata. E anche oggi, a
distanza di vent’anni dalla sua scomparsa, Rosa è morta in
seguito a un ictus il 20 settembre 1990, la sua musica può
essere ascoltata grazie alle incisioni da lei realizzate negli
anni della sua vicenda pubblica.
Segnaliamo soprattutto le ristampe dei dischi della collana
Folk della Fonit Cetra, curate con infinito rispetto dal Teatro
del Sole di Francesco Giunta.
Ma anche la sua città, Licata, ha voluto ricordarla con alcuni
cd, mentre la Lucky Planet ha realizzato due cd antologici
facilmente reperibili in un buon negozio di dischi o in rete.
Online www.rosabalistreri.it
(1) da L’amuri ca v’haju, una delle canzoni scritte da Rosa. È inclusa
nell’album Vinni a cantari all’ariu scuvertu, pubblicato nel 1978 dalla
Fonit Cetra.
(2) dal risvolto di copertina del libro di Giuseppe Cantavenere.
Rosa canta e cunta
Teatro del Sole / Egea
Collection
Lucky Planets
Rosa Balistreri
Teatro del Sole
09 AUTUNNO 2010
CONCHA
BUIKA
La regina nera del flamenco
Qual’é l’ispirazione che sta dietro le differenti direzioni
musicali che hai seguito fino ad oggi nella tua carriera? Che
cosa ti ispira? E come decidi quale sarà il prossimo passo?
Beh, non lo faccio. Penso che l’ispirazione sia qualcosa
che viene da dentro di ognuno di noi. E sono convinta che
noi tutti abbiamo davvero dentro a noi stessi gli elementi
per capire ogni cosa. Così io non decido mai cosa fare. Mi
lascio andare e trasportare da ciò che sento dentro di me e il
risultato è ciò che ascolti. Vivo nel mio studio. Il mio contatto
con la realtà è il mio manager. Scrivo i miei libri, dipingo i
miei quadri e scrivo le mie canzoni, poi affido tutto al mio
manager e alla mia casa discografica e me ne dimentico.
di Akenaata Hammagaadji
Sei diventata una star globale e sei famosa in diversi
paesi, io però sono curioso di sapere come il tuo lavoro è
stato accolto nel tuo di paese: la Spagna.
Penso che il mio paese natale sia il mio cuore e che lo stesso
valga per tutti gli altri. Penso che ognuno di noi abbia nel suo
cuore il proprio paese natale così come per me ogni individuo
è un po’ il mio compagno, mio marito, mia moglie. Tutti voi lo
siete. Penso che tutti ricevano qualche cosa dal mio lavoro
così come io ricevo da ciò che gli altri fanno. Intendo dire che
siamo tutti uguali. Non che siamo tutti la stessa cosa ma che
siamo tutti uguali. Così quando canto sento che tu che ascolti
sai di cosa sto parlando. Anche se so dove sto cantando ma
non so dove tu mi stia ascoltando. E questa cosa ha un che
di miracoloso, come una benedizione per noi tutti.
La cantante Concha Buika è sicuramente da considerarsi un
fenomeno unico nel mondo musicale contemporaneo. Nata
nell’isola di Mallorca (già colonia spagnola) da una coppia
di rifugiati politici provenienti dalla Guinea Equatoriale, la
piccola Concha trova la sua seconda casa nel quartiere in cui
vivono, una comunità gitana, dove la famiglia Buika é l’unica
di colore. Curiosamente, cantare il flamenco ed assorbire
quella cultura a lei originariamente estranea è stato ciò che
l’ha aiutata a formare e a trovare la sua identità personale.
Con quattro acclamati album presenti sul mercato
internazionale Concha Buika è oggi una star cui la sorte ha
voluto donare una voce contralto a dir poco unica. Sul palco
il suo carisma è sorprendente e incontrandola di persona la
si potrebbe definire un irresistibile mix di candore e senso
dello humor, comunque non privo di una grande sicurezza, in
grado di mettere l’interlocutore a suo agio con facilità.
Akenaata Hammagaadji a New York l’ha incontrata poco
prima che si imbarcasse in un lungo tour americano che la
porterà in 21 città degli Stati Uniti. (è stata in Italia la scorsa
primavera).Il suo ultimo album, El Último Trago, è un tributo
alla cantate ranchera messicana Chavela Vargas, per il quale
ha avuto una nomination al Grammy Latino.
La prima domanda naturalmente riguarda la sua scoperta
della musica ranchera.
L’ho ascoltata quando ero ancora una bambina. Mio padre
se n’era andato di casa e mia madre nascondeva le sue
lacrime dietro questa musica per non piangere di fronte a
noi bambini. Sai come sono le mamme africane. Così soleva
ascoltare musica messicana e in particolare la musica di
Chavela Vargas. Si metteva a piangere e diceva «Oh che
bella canzone». Ma adesso che sono cresciuta ho capito
che in realtà piangeva per mio padre.
Quindi quando finalmente hai incontrato Chavela Vargas
conoscevi già molto bene il suo repertorio.
Certo. Conosco le sue canzoni e la passionalità della sua
musica fin da quando ero piccola e averla incontrata è stato
come un miracolo per me.
09 AUTUNNO 2010
13
Buika
Mondomix.com / MUSICA
Vedi delle somiglianze fra la musica ranchera ed il
Flamenco?
Sento delle somiglianze fra musica ranchera, flamenco, jazz,
blues, tutte questi generi musicali parlano delle stesse cose.
E chiedono le stesse cose: pace nel cuore, pace qui. Voglio
dire che tutti siamo sempre alla ricerca delle stesse cose.
È stata una tua idea quella di reinterpretare alcune delle
canzoni che Chavela Vargas aveva registrato e rese
famose all’inizio della sua carriera?
No, non è stata una mia idea. Penso che ogni volta che suono
un disco di Chavela o di Duke Ellington, li sto ricordando e
chiamando in qualche modo. Non è stata una mia idea. È
un’idea propria della magia della musica. E la magia delle
musica esiste anche grazie a tutte quelle persone che
non si vedono mai ma che stanno dietro ai vari progetti.
Noi vediamo sempre l’artista sul palco o nei video ma non
vediamo la gente che sta dietro le quinte. Così questa
curiosa idea è venuta dalla piccola squadra di persone con
cui lavoro e naturalmente ho detto di sì perché era un’ idea
meravigliosa.
I tuoi genitori vengono dalla Guinea Equatoriale.
C’è qualcosa della musica di quella terra che si può
rintracciare nella musica che hai registrato fino ad oggi?
Certo. La parte africana della musica è nella mia voce, nel
colore della mia voce, nel mio sorriso, nel colore della mia pelle,
nel mio sangue, nella mia intelligenza, nel mio amore, nella mia
bellezza. L’Africa è dentro e tutta intorno a me. Non la vedi?
Parlando della realizzazione di questo album in studio.
Come è stato lavorare con un grande pianista come
Chuco Valdes?
Oh certo. È stato veramente facile. Penso che gente come
me, come te (Akenaata) come Chuco Valdes rappresentino
una nuova idea dell’Africa. Una meravigliosa espressione
di un’Africa che non è più spaventata. Credo che ogni volta
che ci troviamo insieme con queste nuove energie riusciamo
ad ottenere degli ottimi risultati. Per me è veramente facile
lavorare con gli africani.
appartengono al passato. Non voglio sedermi a guardarle di
nuovo. Lo trovo stupido. Non ho mai visto un uccello volare
due volte di fronte alla mia faccia. È ridicolo. Non sento alcun
bisogno di rivivere il passato. Inoltre ho fiducia nel mio canto,
credo in me stessa e non mi preoccupo del risultato finale.
Tu dici di non pensare al passato. Ciò che è fatto è fatto.
Dimmi allora che cosa stai progettando per il futuro.
Penso che il futuro sia una grossa bugia. Una grande bugia
perché noi viviamo in un costante adesso. Pensiamo a
domani ma domani non arriva mai. È adesso. Il momento.. è
ora! E quello che sto facendo adesso è la musica elettronica,
perché sono una grande programmatrice, programmatrice
elettronica, e sto registrando il mio prossimo album.
foto Michael Mann
12 C’è un cantante con vorresti lavorare in futuro?
Certo. Mi piacerebbe molto lavorare con Miguel Poveda perché
penso che sia una cantante libero. Canta dalla sua libertà e
quello è un dono divino, una cosa che mi piace moltissimo.
Hai un insegnante di canto?
Che cos’è?
Qualcuno che insegna ai cantanti come migliorare la loro
tecnica, come curarla e svilupparla.
Oh certo. Mio figlio, mia madre, mia nonna e la mia bisnonna.
Capisci? E naturalmente l’amore per me stessa. Non penso
che qualcuno possa mostrarti come cantare, per la stessa
ragione per cui nessuno può insegnarti a piangere, a
mangiare, a fare l’amore.
Ma per una cantante le corde vocali sono muscoli come
per tutti noi e debbono essere curate con esercizi e
facendo attenzione a ciò che si mangia.
No. Vivere. Questo è ciò che si prende cura delle corde
vocali. Non appena hai la consapevolezza di essere una
brava persona che desidera la felicità per ogni essere umano
tu ami tutti e non ti preoccupi più di nulla, neppure della tua
voce. La tua voce è qui. E non importa se tu hai una voce
bella o brutta. La brutta voce non esiste. La voce che vuole
cantare è bella. Cantare è bello. Non importa se lo fai bene
o lo fai male. Farlo male non è cantare. Se tu non canti,
questo è male. Ma se tu canti allora tutto va bene. Prendersi
cura della propria voce è vivere, mangiare, abbracciare gli
amici, amare chi vuoi tu. Capisci? Sì e il sesso è bello e
molto importante per la voce. Anzi è la cosa migliore, perché
quando qualcuno ti tocca, tu capisci chi sei. Per la voce tutto
ciò che ti serve è amore. Amore!
Appartieni a quella categoria di artisti che si critica
ascoltando il risultato finale di una registrazione? Ti
ascolti e dici «Forse avrei dovuto fare in questo o in
quell’altro modo»?
Mai. Prima di tutto perché non riascolto mai un lavoro una
volta che l'ho completato. Non ascolto mai quello che ho
registrato. Non leggo mai le interviste che ho rilasciato.
Non guardo i miei video. Mai, perché sono cose già fatte ed
Quante città visiterai nel prossimo tour? Sono previste
date in Messico e Canada?
Non lo so. Sono un pò come un soldato. Mi dicono di andare
in un posto e io ci vado. Mi dicono questo è il momento per
un’intervista e io la faccio. Sono proprio soldato!
E cosa possiamo aspettarci da te nel prossimo tour?
Normalmente non ho aspettative nei confronti del mondo né
da parte di nessuno perché penso che sia il miglior modo
per rispettare i ritmi naturali della vita. Quindi non mi aspetto
nulla e non so cosa tu ti aspetti.
Be ti ho visto in concerto. È stato spettacolare ma quella
volta non hai cantato le canzoni di Chavela Vargas.
Quindi mi aspetto qualcosa di altrettanto spettacolare
ma differente.
Penso che ogni giorno sia diverso, ogni cuore è diverso, ogni
volta che vedo la mia faccia nello specchio è diversa e questo
mi piace molto. Mi piace la continua improvvisazione della vita.
Molto bello. Hai delle parole con cui ci vuoi lasciare?
Vi amo.
Le accetto con piacere… grazie!
Titolo El Último Trago
Etichetta Dro / Warner
Online http://buika.casalimon.tv/
09 AUTUNNO 2010
14 15
Cuba
Mondomix.com / MUSICA
Guida
minima alla musica cubana
Ovvero: prima e dopo il Buena Vista Social Club.
ex-Irakere e Los Van Van, José Luis Cortes con l’esplicito
proposito di contribuire a plasmare «la musica cubana del
futuro». Programma ardito che la portava a conquistare
un’immensa popolarità con atteggiamenti inusualmente
aggressivi e mischiando al son elementi di jazz e soprattutto
di rap. A proposito… Nell’attesa che l’isola di Fidel produca
i propri Sepultura (vedrete che accadrà) esiste da tempo un
vibrante underground hip hop. Appunto: underground. Ove la
timba – un miscuglio di son, rumba, salsa e rap – ha grande
e ufficiale visibilità (nonostante qualche problema causato
dagli ambigui legami con il mondo della prostituzione), l’hip
hop più duro resta appannaggio, a dispetto del successo
internazionale degli Orishas, di frange giovanili in rapporto
spesso conflittuale con le autorità.
BUENA VISTA SOCIAL CLUB
Buena Vista Social Club
World Circuit, 1997
Quasi figlio del caso questo che è
non solo il disco cubano ma il disco
di world più venduto di sempre
(cinque milioni di copie). Sull’isola
per un progetto di collaborazione
con musicisti africani che non si concretizzerà, Cooder
raduna una folla di eroi locali molti dei quali ormai anziani e
dimenticati e fa rispolverare loro un repertorio di classici che
conquistano in un colpo l’immortalità e le classifiche.
CELIA CRUZ
Queen Of Cuban Rhythm
Music Club, 2000
Nella marea di raccolte disponibili
dell’esponente più celebre e
più
risolutamente
antiregime
della diaspora anticastrista (la
sua popolarità sull’isola restava
nondimeno enorme) spicca questa (economicissima) che
raduna incisioni dal ’59 al ’65. Salsa e mambo non hanno
forse mai avuto un’inteprete al pari raffinata e incisiva, colta
(molto jazz nelle sue corde) e pop.
IRAKERE
La collección cubana
Nascente, 1998
Aperta nel 1973 dal pianista Jesus
“Chucho” Valdes, Irakere è palestra
straordinaria per la quale da allora
passano molti se non tutti i principali
jazzisti locali, a cominciare da
Paquito D’Rivera e Arturo Sandoval. L’ecumenismo di una
compagnia capace di coniugare la ballata sentimentale
con il ballabile più sfrenato è rimarcato da un’antologia che
ora evoca Dizzy Gillespie, ora – addirittura – rifà Mozart e
Beethoven.
BENY MORÉ
Cuban Originals
RCA/BMG, 1999
Bolero, mambo e son della varietà più
accesamente ritmica in una collezione
di incisioni dal 1949 al 1958 della
voce maschile più popolare (tuttora,
a quasi mezzo secolo da una morte
che lo coglieva appena quarantatreenne) della musica
cubana. Nessuna sovrapposizione con la al pari eccellente
e consigliata Collección cubana (Nascente, 1998; brani
dal ’53 al ’59). In caso probabile di impazzimento: i suoi
altrettanto strepitosi anni ’40 sono raccontati a menadito da
un’integrale Egrem.
NG LA BANDA
The Best Of
Emi Hemisphere, 1999
Basti dire per inquadrarla che NG
sta per Nueva Generacion. Basti dire
che il primo dei dieci titoli che sfilano
in questa ben calibrata raccolta,
Papa Chango, è un’invocazione a un
dio guerriero yoruba, non proprio ciò che che ti aspetteresti
da un disco di salsa. La new wave della musica cubana
parte da qui, ma è un innovare che – pur radicale a tratti
– non dimentica né sminuisce la tradizione: fanno fede le
splendide riprese di due sempreverdi di Beny Moré.
ORQUESTA ARAGÓN
Cuban Originals
RCA/BMG, 1999
Va bene: Cuba è famosa anche per
la longevità dei suoi musicisti (prima
di Compay Segundo, il leggendario
Sindo Garay moriva a centouno anni
dopo avere dato l’ultimo concerto a
novantanove), ma un’orchestra fresca di celebrazione del
settantennale è un’esagerazione persino da quelle parti.
Elegante e aguzza, romantica e gioiosa la sua è charanga
eternamente allo stato dell’arte. Come si dice in spagnolo
“intramontabile”?
PÉREZ PRADO
Mondo Mambo: The Best Of
Rhino, 1995
Venti grandi successi (avrebbero
potuto
essere
tranquillamente
quaranta o sessanta, i CD due o tre)
di colui che venne acclamato in vita
ed è tuttora ricordato come “il re del
Mambo”. Melodie sfacciate, ritmi ultrasincopati, tante idee
armoniche rubate al jazz e reinventate in un contesto che
più pop non si potrebbe. Fra trombe ficcanti, sassofoni
sinuosi, tastiere che propendono all’atmosferico siccome al
groove provvede tutto il resto.
SILVIO RODRÍGUEZ
Canciones urgentes
Luaka Bop, 1991
Avendo una passabile dimestichezza
con lo spagnolo (o l’inglese: nel
libretto sono presenti i testi tradotti),
in questo elenco di titoli le Canzoni
urgenti di Silvio Rodríguez sono le
sole che merita conoscere più per le parole che per spartiti
nella non esaltante media dei cantautori di casa nostra. E
tuttavia: l’assieme tocca vette di poesia autentica, fra odi
d’amore e riflessioni politiche. Un po’ Phil Ochs, un po’
Victor Jara.
di Eddy Cilìa
Partiamo dall’ovvio, ché non si sa mai: per chi sia
completamente digiuno di musica cubana, Buena Vista
Social Club è a oggi, con la sua sfilata di classici in
interpretazioni spesso definitive, un’introduzione ideale.
«La cosa migliore nella quale sia mai rimasto coinvolto»,
dichiarava Ry Cooder ed era affermazione impegnativa
considerando una vicenda che comprende esordi a fianco
di Taj Mahal e di Captain Beefheart, una discografia in
proprio prodiga di album che sono sensazionali cataloghi
di americana, colonne sonore per il cinema di eccezionale
livello e un tot di altre esplorazioni etniche (condotte con
Ali Farka Toure piuttosto che con Vishwa Mohan Bhatt) da
restare a bocca aperta. Ma non c’è che da ascoltare per
dargli ragione, non c’è che da vedere il film di Wenders per
innamorarsi di quelli che sono/erano, oltre che grandi artisti,
bellissima gente.
con un certo stile
Storia secolare quella della musica cubana e per molti versi
simile a quella di una musica nordamericana sulla quale
ha esercitato una notevole e misconosciuta influenza,
sin dacché catturò l’attenzione di Duke Ellington. Una
forma autoctona nasceva dall’incontro fra i ritmi degli
schiavi importati dall’Africa Occidentale e le melodie dei
colonizzatori spagnoli. Nel tardo XIX secolo, l’arrivo da Haiti
di migliaia di rifugiati aggiungeva un’influenza francese.
Se la rumba primigenia, una faccenda essenzialmente per
voci e percussioni assai diversa dallo stile sofisticato che
va attualmente sotto tale nome, era un portato della metà
nera della popolazione, il danzón era un’evoluzione dei
balli europei infiltrata dalle bande militari, con archi e plettri
aggiunti a legni e ottoni. Il pianoforte (eredità francese)
diveniva un elemento chiave nelle orchestrine e le cadenze
del danzón si facevano più veloci e sincopate e insomma
negre. Esito: il son, risultato di un’attitudine sempre più
meticcia. Da una sua variazione ancora più svelta, il son
montuno, sarebbe nata la salsa. Altre filiazioni: la romantica
habanera, il non meno sentimentale bolero, la scarna
guajira, sorta di blues isolano. Anche il chachachá,
semplificazione di ritmi in partenza ben più complessi che
negli anni ’50 fece furore sia negli USA che in Europa. Era
per quasi un quarantennio l’ultimo momento di gloria per la
musica cubana, giacché la rivoluzione castrista e l’embargo
deciso dal governo degli Stati Uniti per combatterla facevano
sì che solo gli artisti espatriati, in tempi diversi e per non
09 AUTUNNO 2010
citare che i più noti, Celia Cruz, Arturo Sandoval e Paquito
D’Rivera, conservassero un pubblico internazionale. Loro
e, per motivi opposti, Silvio Rodríguez, l’esponente di
maggior rilievo della cosiddetta nueva trova, la canzone
politica schierata a favore della rivoluzione, riverito in tutta
l’America Latina. Proprio con Rodríguez quel benemerito
curioso di David Byrne inaugurava nel 1991 la collana su
Luaka Bop Cuban Classics, sfidando l’embargo e riportando
la nostra attenzione su un patrimonio ricchissimo e ignorato.
Con i due volumi seguenti, Dancing With The Enemy e Diablo
al infierno!, offriva poi, rispettivamente, una panoramica sul
meglio degli anni ’60 e ’70 e sui nuovi suoni emersi negli ’80 e
nei primi ’90. Restano due delle antologie più rappresentative
fra le decine (centinaia?) pubblicate da allora. Senza di esse
non ci sarebbe forse stato il Buena Vista Social Club. E senza
l’entusiasmo da questo suscitato non ci sarebbero stati né il
massiccio, conseguente recupero di materiali di archivio né il
contemporaneo florilegio di dischi nuovi.
usa
cuba, cuba
usa
Ma che musica ascoltano i giovani cubani? All’incirca quella
che ascoltano i giovani americani e da ben prima di Internet,
visto che sull’isola le radio della Florida si captano eccome
e con esse, oltre alla propaganda anticastrista, hip hop e
metal, indie rock e dance, country e nuovo soul e punk e
quant’altro. Intenso prima della rivoluzione, con reciproche
e vistose influenze, lo scambio fra la musica cubana e quella
statunitense si è poi pressoché fermato, a tutto favore della
seconda. Ma le suddette radio venivano ascoltate, fino
almeno ai primi ’90, di nascosto e a Cuba c’era spazio solo
per musiche rigorosamente locali. Difficile anche per gli artisti
più popolari, vista la penuria di tutto che rendeva il vinile un
lusso, arrivare a pubblicare per l’unica casa discografica,
la statale Egrem, e si trattava sempre di tirature minuscole
che, una volta esaurite, non davano adito a ristampe. La
caduta dell’impero sovietico apriva giocoforza l’isola ai
flussi turistici occidentali e a una progressiva liberalizzazione
dell’economia. Rimarchevole la ricaduta sul panorama
musicale e non solo perché per gli artisti diventava facile
suonare all’estero e venivano anzi incoraggiati in tal senso,
mentre l’Egrem cominciava a concedere in licenza i suoi
favolosi archivi. Nella fioritura di una nuova scena aperta a
influenze straniere, ma nondimeno orgogliosa della propria
unicità, aveva avuto in precedenza un ruolo pionieristico
NG La Banda, formazione fondata nel 1988 dal flautista,
09 AUTUNNO 2010
16 TRIO MATAMOROS
Son de la loma
Artex, 2002
Dice bene Marcello Lorrai nel
puntiglioso Cuba (Editori Riuniti,
2003):
«Non
c’è
moltissima
musica del Novecento che possa
rivaleggiare con le incisioni classiche
del Trio Matamoros quanto a influenza sulla musica
mondiale. Al di là dell’enorme valore storico… le esecuzioni
del trio ci si ripropongono con un’incredibile freschezza».
Compact di reperibilità fattasi ardua. Una valida alternativa
è rappresentata da Todos sus exitos (Yoyo, 2005).
17
Cuba
Mondomix.com / MUSICA
AAVV
Cuba – I Am Time
Blue Jackel, 1997
Fantastica la confezione, facilmente
scambiabile a prima vista per
una scatola di sigari. Fantastico il
contenuto: un libretto in inglese di
un centinaio di pagine e quattro cd
“a tema” (Invocazioni, Cantare, Ballare e Jazz) che valgono
come un corso propedeutico di livello universitario alla
musica dell’isola caraibica. Però di solito studiare non è così
divertente.
E non vi fossero bastati…
IBRAHIM FERRER
Buena Vista Social Club Presents
World Circuit, 1999
Eterna coppoletta in testa, il già
ultrasettantenne Ibrahim Ferrer, riscoperto
mentre lustrava scarpe all’Havana ma prima
per mezzo secolo un protagonista della musica di Cuba,
sfodera una voce guascona e undici canzoni da urlo fra
bolero e son montuno.
ESTRELLAS DE AREITO
Los heroes
World Circuit, 1999
Un antesignano di Buena Vista Social Club,
sfortunatamente senza un Ry Cooder e un
Wim Wenders a promuoverlo e addirittura
rimasto nei cassetti per quei venti tondi anni.
RUBÉN GONZÁLEZ
Introducing
World Circuit, 1997
«Una via di mezzo fra Felix il Gatto e
Thelonious Monk», nell’indimenticabile
definizione di Cooder, il quasi ottuagenario
pianista registra Introducing in due giorni,
come una sorta di PS al Buena Vista: seicentomila le copie
vendute nei primi due anni nei negozi.
CHANO POZO
Manteca: The Real Birth Of Cubop
Tumbao, 2003
Il più pregiato Chano Pozo fra il poco
disponibile attualmente (oramai una rarità
il box triplo El tambor de Cuba) è questo
CD singolo dal titolo programmatico. Incisioni del ’48 con
l’orchestra di Dizzy Gillespie.
ARSENIO RODRÍGUEZ Y SU CONJUNTO
Dundunbanza
Tumbao, 1995
Registrazioni dal 1946 al 1951 di questo
percussionista e direttore d’orchestra,
nonché compositore fra i più prolifici, detto
“El ciego maravilloso” per la cecità che lo
affliggeva sin dai sette anni. Fra i maestri massimi del son, è
ritenuto uno dei precursori della salsa.
SEXTETO HABANERO
1926-1931
Harlequin, 1995
Un’antologia che sta alla musica cubana
come le Sun Sessions di Elvis Presley al
rock’n’roll. Originariamente un trio formatosi
in ambito militare, il Sexteto Habanero fu il primo gruppo ad
adattare il son alle esigenze dell’industria discografica.
ORLANDO CACHAITO LOPEZ
Cachaito
World Circuit, 2001
Il debutto di questo maestro del
contrabbasso, unico musicista presente in
ogni brano di ogni disco della serie del Buena
Vista, lungi dal proporre un’altra parata di mambo, descarga
e danzon corteggia il jazz, inscenando sperimentazioni che
fanno sobbalzare i puristi.
LOS ZAFIROS
Bossa cubana
World Circuit, 1999
Pensate al migliore complesso doo
wop ipotizzabile, speziatelo di rumba
e bossanova, aggiungeteci un tocco di
beat (siamo in pieni anni ’60), melodie impossibilmente
orecchiabili, struggimenti infiniti e spumeggiante gioia di
vivere ed ecco: erano questo Los Zafiros.
OMARA PORTUONDO
Flor de amor
World Circuit, 2004
Politicamente l’opposto di Celia Cruz, la
Portuondo paga restando una sconosciuta
fuori da Cuba fino alla lacrima asciugatale
da Ferrer nella scena più memorabile di Buena Vista il film.
Un lavoro di classe e sentimento inaggettivabili, con echi di
Africa, tango e flamenco.
AAVV
Dancing With The Enemy/
Diablo al infierno!
Luaka Bop, 1991/1993
Pubblicate
dall’etichetta
di David Byrne, curate da
Ned Sublette, sono le due raccolte che prima di Cooder e
Wenders stuzzicano l’interesse del pubblico nordamericano
ed europeo per musiche allora di un esotismo assoluto.
Storicamente imprescindibili.
09 AUTUNNO 2010
AfroCubism
15 anni dopo il Buena Vista
Social Club.
di Paolo Ferrari
Nick Gold ci ha messo tre lustri, e ora ha finalmente tra le
mani l’oggetto dei suoi desideri targati metà Anni Novanta.
Non che l’episodio cui allora dovette qualche buon mal di
pancia abbia prodotto soltanto disagio: dal mancato arrivo
dei musicisti del Mali invitati a suonare all’Avana con un
gruppo di anziani artisti cubani fuori moda nacque uno dei
più grandi successi world di sempre, l’operazione Buena
Vista Social Club. Però al boss dell’etichetta inglese il
sassolino nella scarpa era rimasto, e ora se lo toglie.
Da Bamako
Da Bamako sono davvero sbarcati Bassekou Kouyate con
il suo pluridecorato ngoni e il chitarrista Djelimady Tounkara
della Rail Band, decisi a dialogare con il contadino Eliades
Ochoa. Intorno alle tre colonne, fiorisce un bel giardino
di talenti: Ochoa ci mette la band, il Grupo Patria, e i soci
africano portano con sé il fuoriclasse della kora Toumani
Diabaté, lo storico griot Kasse Mady Diabaté e l’uomo
balafon Lassana Diabaté. Gold gode in cabina di regia con
Jerry Boys, fonico noto nel mondo proprio per il lavoro con
il Buena Vista. Formazione eccellente, dunque; anche se il
rammarico per quanto avrebbe potuto produrre la miscela
con ancora disponibili Ibrahim Ferrer, Compay Segundo,
Rubén González e Ali Farka Touré resterà per sempre
agli appassionati del pingpong emotivo, storico, sonoro e
spirituale tra Africa e Caraibi.
finale, mirabile tessitura di corde intercontinentali senza
l’apporto di un cantante. E fanno cinque boe, intorno a cui
nuotano nove canzoni.
Il caleidoscopio di emozioni è ricco e vario, per quanto mai
si perda una coerenza di fondo nella direzione del progetto.
Al Viavén de mi Carreta è una cover di Nico Saquito in cui
dialogano le voci di Eliades e Kasse, e A la Luna Yo me
Voy vive in una dimensione guajira, ma l’Africa è sempre in
agguato a punteggiare la trama; in Karamo e Mariama gli
accenti latini, contrabbasso su tutti, restituiscono la visita e
non lasciano in pace l’incedere griotico di Bassekou. Sono
di Tounkara le corde desertiche che fanno de La Culebra
un classico rinnovato e messo al servizio del combo multi
continentale, e sfiora la perfezione apolide una Jarabi
serrata, da capogiro per la pioggia di botta e risposta tra
gli strumenti di provenienza diversa. Nima Diyala ribadisce
il concetto, con il balafon travolgente di Lassa Diabaté a
fare amabilmente di chiacchiera con il Grupo Patria e la
sua concezione sonera. In Para los Pinares se va Montoro
l’affinità scende in profondità, con il rapporto tra vivi e morti
che affonda nelle radici più lontane del cordone ombelicale
che lega Africa e Caraibi, mentre Benséma sfoggia spigoli
che giustificano la chiamata di correità emotiva per il
Cubismo, dal momento che su semplici presupposti
descrittivi il progetto avrebbe assunto la definizione di Afro
– Cubanismo.
Disco prezioso, dunque. Che si spera possa quanto prima
avere un destino live più fortunato di quanto toccato al
Buena Vista Social Club, penalizzato fin dall’inizio dalle
difficoltà di mettere d’accordo agenti e familiari dei musicisti,
fino a ridurre il numero di esibizioni al completo a un conto
da punta delle dita di una mano. Grazie al Cielo con Wim
Wenders a salvare il salvabile.
il manifesto sonoro
L’inizio dell’ora di viaggio ha il sapore del manifesto;
sia per il titolo, Mali Cuba, che per la scelta di mettere in
testa al convoglio di quattordici tracce uno strumentale,
quasi il cantato potesse sbilanciare in una o nell’altra
direzione l’alchimia ricercata. Più per istinto che per
forzatura strumentale, come si apprezza per l’appunto
nella conversazione esemplare tra le corde della chitarra
latina e quelle della kora. La magia senza parole si ripete in
Djelimady Rumba, in un folgorante intermezzo di Ochoa che
sembra muoversi in Eliades Tumbaro 27 su una partitura da
griot, nella movimentata Dakan, nonché nella Guantanamera
Titolo AfroCubism
Etichetta World Circuit / IRD
Online www.myspace.com/afrocubism
09 AUTUNNO 2010
18 Sì, sono cento e fin dal primo momento decidemmo di
organizzare un’orchestra cui abbiamo dato il nome di
Sonora One Hundred o Sonora Cien per realizzare i 5 CD e il
documentario con la storia del son in 87 minuti.
Edesio Alejandro
Tu t t o i l S o n i n u n D v d e 5 C d
Edesio Alejandro Rodriguez
di Gian Franco Grilli
Un documentario di 87 minuti e 100 canzoni raccolte in 5 CD raccontano tutta la storia e l’evoluzione
del son cubano, il blues dell’Isla Grande. È Los 100 Sones Cubanos, ultimo progetto firmato dal
musicista-regista Edesio Alejandro Rodriguez e prodotto da JN records, nominato al Grammy Latino
Los 100 Sones Cubanos di Edesio Alejandro presentato con elegante cofanetto è un preziosissimo regalo per gli
appassionati di musiche latinoamericane e i cultori di world music. Tutti ora potranno conoscere in modo approfondito
e in forma avvincente il son, che «più che un genere musicale, dice Edesio, è un fenomeno artistico-sociale radicato
nell’idiosincrasia del cubano», e alcuni suoi cugini come nengón, melcocha e changüi. Si tratta dell’indagine più completa
e ad ampio spettro realizzata finora su questo pilastro della musica popolare cubana, con il pregio di aver saputo fondere
in modo armonioso rigore musicologico, ritmicità narrativa, freschezza di linguaggio, spontaneità della gente cubana e
bellissime immagini.
Edesio, prima di parlare dell’ultima produzione, raccontaci
quando è cominciata la tua relazione tra musica e cinema
e quanto è importante l’immagine per te.
I primi passi risalgono al 1976 componendo musica per
l’opera teatrale il Guerrigliero dell’Altipiano di Nelson Dor
del Teatro Martì. Questo mi affascinò tantissimo perché
anche il teatro è immagine, lì devi creare un’atmosfera a ciò
che stai vedendo. Nel 1978, appena diplomato, cominciai
a lavorare nel Teatro Rita Montaner dove restai per circa
14 anni e contemporaneamente collaboravo a produzioni
televisive. E man mano che realizzavo nuove opere mi
immergevo sempre più in quel mondo, tanto che oggi se
devo comporre una canzone slegata dal cine o dal teatro
debbo ricreare nella mia mente una storia affinchè la musica
scorra liberamente.
Adriano Rodriguez
Hai firmato alcune delle colonne sonore più importanti
del cinema cubano moderno. Vuoi ricordarci i film con
i quali hai ottenuto riconoscimenti internazionali come
compositore delle musiche e anche i nomi dei tuoi album?
Posso citarti Clandestinos, La vida es silbar (La vita è un
fischio), Suite Habana, Madrigal del notissimo regista
Fernando Perez o Hacerse el sueco di Daniel Diaz, ma ci
sono altri lavori per documentari e telenovelas che tralascio.
Come dischi ho inciso Corason de Son, con il cantante
Adriano Rodriguez; Orisha Dreams; Black Angel (da questo
cd è nato il remix del mio brano Blen Blen Blen (1998), che
ha fatto ballare mezzo mondo e ha venduto oltre mezzo
milione di copie in Europa); poi La Orquesta Magica de
La Habana, che oltre al già citato Adriano annoverava altri
due grandi cantanti della tradizione, Alfonsín Quintana e
Natalia Herrera, e lo stesso album è stato successivamente
pubblicato con il titolo Calentando la Ilusión dalla Pimienta
Records di Miami. Infine, Cubatronix.
09 AUTUNNO 2010
19
Cuba
Mondomix.com / MUSICA
Dopo una vita tra rock, funk, rap, hip hop, elettronica
e afro-cu-hop fai un grande salto nel passato sulle
radici più autentiche del Son ma come regista. Questo
cambiamento di ruolo significa che oggi preferisci le
immagini alle note?
Circa 18 anni fa incominciai a fare una musica più personale
intrecciando ritmi come son, rumba e conga ai linguaggi
che sviluppavo da tempo, cioè hip hop, elettronica, chitarra
rock. Quindi in tutti questi anni ho fatto un po’ di tutto e
improvvisamente ho sentito l’esigenza di tornare indietro.
Un giorno parlando con Juan and Nelson, discografici di
JN Records è sorta l’idea di fare la storia del son cubano
e realizzare Los 100 Sones Cubanos. È stata un’esperienza
fantastica e realmente è la prima volta che ho fatto una
grande ricerca sulla musica più importante del mio paese.
Musica o Cinema? In questa fase la mia espressione
artistica preferita è quella che sto facendo. Questo è il mio
esordio cinematografico, mi sono divertito e ho imparato
tantissimo creando il progetto che mi auguro incontri i
favori del pubblico internazionale. Tu sai che da molti anni
scrivo musiche per il cinema e non è che mi sono annoiato.
Questo è solo il desiderio di esprimermi in modo differente
e di concretizzare idee che spesso mi frullano in testa su
cose che nessuno finora ha affrontato, e invece io ritengo
che vadano fatte. Così ho deciso di cimentarmi con altri
linguaggi ma sempre attorno alla musica.
Il filmato mostra che avete attraversato campagne,
fiumi e monti con le attrezzature in spalla per andare
a scovare rari tesori musicali (organo de Manzanillo,
bongò di bambù, marimbula, grupo Cañambù ecc.) di
cui forse si erano perse le tracce.
È vero, è stato un lavoro massacrante, ma ne è valsa la
pena perchè anch’io non conoscevo gran parte di quella
realtà musicale, culturale e sociale che poi abbiamo filmato.
Quadretti con tradizioni d’altri tempi, strumenti originalissimi
come quelli che hai citato o come la botija, un recipiente
speciale di argilla che funge da basso e tante altri aspetti
incredibili.
Come hai organizzato il progetto e quanto tempo ti è
costato?
Per prima cosa abbiamo interpellato moltissima gente per
raccogliere idee e informazioni. Fondamentale è stato il
contributo del musicologo Daniel Orozco, esperto di son
ma anche lui non era aggiornatissimo sull’esistenza di
certe tradizioni. Poi oltre 500 persone intervistate ci hanno
indicato i loro son preferiti. Da qui è nata la selezione dei
brani da incidere a cui sono stati aggiunti quelli interpretati
dal vivo da gruppi tipici dell’oriente di Cuba. Il proposito
era di filmare gente che ha vissuto il secolo intero, o quasi,
del son, come gli ultranovantenni Pepecito Reyes o Don
Eduardo o orchestrine che portano avanti la tradizione
famigliare. E il concetto base del progetto era di riuscire a
trasmettere lo spirito autentico del cubano, che è un tipo
che si diverte con poco, allegro, scherza e prende in giro se
stesso nonostante stia attraversando momenti duri. Il primo
ciak è avvenuto a Santiago de Cuba e complessivamente ci
sono voluti tre anni.
Il momento, o il gruppo, che ti ha provocato maggiore
emozione durante questo viaggio dentro il son?
Guasimal, il gruppo che suona la melcocha, che esprime
qualcosa di arcaico, incredibilmente autentico; ma ce ne
sono tanti altri tra cui quello con Pedro Fornaris che piange
raccontando la sua ragione di vita legata all’organo oriental
di Manzanillo. È stato un viaggio straordinario, una delle
esperienze umane e musicali più importanti della mia vita.
Titolo Los 100 Sones Cubanos
Etichetta JN records
Online www.jnrecords.com
Tra i brani raccolti nel cofanetto ci sono classici come
Echale Salsita, Guantanamera, El Punto Cubano,
Sarandonga, El Cuarto de Tula e Pare Cochero. Ma sono
veramente 100?
Pepecito Reyes
09 AUTUNNO 2010
20 I vestiti colorati, il senso di festa che esprimete nei
concerti è anche una provocazione nei confronti dei
cliché del fado scuro e malinconico?
Ana «No, non è assolutamente nostra intenzione, dal
momento che amiamo le nostre tradizioni e siamo cresciuti
con il fado. Però quando ci siamo messi insieme per
suonare abbiamo voluto esprimere noi stessi in tutto e per
tutto, mostrare chi siamo veramente».
Deolinda
Il rinnovamento del fado
di Paolo Ferrari
Se Mariza e Ana Moura sono i due volti
più in vista del rinnovamento del fado, i
Deolinda si stanno affermando come un
caso nel panorama del pop folk portoghese
con ambizioni internazionali. Il loro secondo
album si intitola Dois selos e um carimbo
(Due francobolli e un timbro), conferma
freschezza e lucidità che due anni fa fecero
la fortuna di Canção ao lado e ha scalato la
classifica di vendita lusitana. Altre quattordici
canzoni per dipingere una Lisbona popolare
e cosmopolita, in cui le tinte pastello
prevalgono sul nero della malinconia di
vecchia scuola; tutte composizioni di Pedro
Da Silva Martins, fondatore del gruppo
con il fratello Luís José; alle loro chitarre
si aggiunge il contrabbasso di Zé Pedro
Leitão. Chi però si trovi di fronte per la prima
volta a uno show del quartetto è portato a
identificare l’immaginaria Deolinda con la
voce e la figura sbarazzina di Ana Bacalhau,
cantante e intrattenitrice spiritosa e arguta
dai colori sgargianti. A suo agio nei grandi
festival come nei ristoranti a conduzione
familiare, con una malcelata vocazione per
la sceneggiatura on stage dei testi e una
spiccata propensione al ballo. Di tutto ciò e
di tanto altro ancora ci parlano Ana e Pedro.
Come è nato il nuovo disco, le canzoni erano pronte o le
avete create in studio?
Pedro «Avevo già iniziato a scrivere le canzoni durante il
tour di Canção ao lado. In bus, in aereo, nelle stanze degli
hotel. Alcune erano vecchie idee; Ignaras Vedetas era stata
tra le prime della storia dei Deolinda. La suonammo nel
nostro primo concerto, però per inciderla non trovavamo
l’arrangiamento giusto».
Cercavate continuità con il primo disco o sentivate la
necessità di andare oltre, portare avanti il progetto?
Ana e Pedro «Per il primo disco i pezzi erano già maturi,
li avevamo suonati dal vivo per un paio d’anni. Il suono
del gruppo era formato, e così pure il carattere Deolinda,
per cui scegliere i brani fu facile. Nel caso del secondo CD
volevamo continuare a fare esperimenti con le tradizioni
musicali portoghesi, sondare quanto questa formazione
può fare in materia di arrangiamenti e di suono senza mai
perdere la propria personalità. L’obiettivo principale alla fine
è sempre quello di fare in modo che il nostro sound possa
immediatamente essere riconosciuto come Deolinda».
Siete di nuovo saliti al vertice della classifica portoghese:
qual è la vostra audience in patriao?
Ana e Pedro «Davvero ampia, spazia dai bambini di 3 anni
ai nonni di 70 e 80. Ma quel che ci ha sorpresi di più è stata
la risposta dei teenager, quella è la fascia di pubblico più
difficile da conquistare per chi propone un suono basato
sulla tradizione».
Il primo brano, Se Uma Onda, fa pensare a una metafora;
è importante la metafora nei vostri testi, ed è un’eredità
del fado?
09 AUTUNNO 2010
21
Deolinda
Mondomix.com / MUSICA
Spesso le cantanti giovani citano quali fonti di ispirazione
star come Nina Simone, Ella Fitzgerald, Billie Holiday,
Edith Piaf. Quali sono i tuoi riferimenti?
Ana «Beh, quelle ci stanno tutte. Con qualche aggiunta:
Janis Joplin, Odetta, Maria Callas, Amália Rodrigues e Maria
João, una grande cantante jazz portoghese».
capacità di essere percepita sotto forme differenti. C’è la
Lisbona tipica dei barrios, come quello di Alfama che tuttora
è la culla del fado. C’è quella trendy e vivace del Barrio Alto
e del Chiado, o ancora quella moderna e contemporanea
del Parco delle Nazioni. E poi la capitale multiculturale di
Mouraria e dell’Avenida Almirante Reis, ma anche la periferia
popolare di Lisboeta, dove vive la maggior parte di noi.
Qui all’esterno trovi strade piene di blocchi di case brutte
e tutt’altro che caratteristiche, mentre all’interno c’è gente
che arriva da ogni angolo del Portogallo, immigrata per varie
ragioni nella capitale portando con sé un patrimonio vivente
di tradizioni regionali. E poi chissà, magari venendo da fuori
potrete trovare qualche pezzo di Lisbona di cui io non so
niente. Anzi, se vi capita mettetemene al corrente».
Fai lunghe tournée con un gruppo di tutti maschi, non ti
manca una complice, un’altra donna con cui condividere
il tempo e i segreti tra ragazze?
Ana «Sì, a volte mi piacerebbe avere nel gruppo un’altra
ragazza con cui parlare o fare shopping nei giorni buchi
delle tournée. Però sono sposata con Zé Pedro, il nostro
bassista, e ciò rende tutto più facile, non mi capita mai di
sentirmi sola in viaggio».
Pedro «Le metafore sono sempre buone soluzioni. Il fado
le adopera molto bene, ma non si tratta di una tecnica
esclusivamente sua; si usa la metafora in altre espressioni
della musica popolare e tradizionale portoghese. E nel
nostro paese se ne fa largo uso nel linguaggio di tutti i giorni.
Anche per questo un antico adagio recita che il Portogallo è
una terra di poeti».
E quanto pesa invece lo humour nella poetica dei
Deolinda?
Pedro «È molto importante. Siamo spiritosi, creiamo gag da
qualsiasi cosa. Io scrivevo testi comici per la tivù portoghese
e sono abituato a esprimermi attraverso lo humour; mi
permette di arrivare alla gente da una prospettiva positiva».
L’idea di rinnovare il fado è in un certo senso anche un
pò punk; può far pensare a quello che fa Manu Chao con
la canzone francese. C’è il punk nelle vostre radici?
Ana e Pedro «L’argomento è interessante. In un certo senso
potremmo affermare che anche Amália Rodrigues aveva
un’attitudine punk; lei portò nel fado nuove idee grazie alle
quali quella musica non sarebbe mai più stata la stessa. Più
in generale, il fado e la musica popolare sono in uno stato
di evoluzione e rivoluzione permanente di cui noi facciamo
parte».
Che studi avete fatto e quale sarebbe stata la vostra
strada se la musica non fosse diventata un lavoro?
Ana «Io ho studiato inglese e lingua e letteratura portoghese,
come pure archivistica; in quest’ultimo ruolo ho lavorato
all’Archivio del Ministero del Tesoro. Pedro scriveva per
la televisione di Stato, Luís teneva corsi di chitarra nei
conservatori e Zé Pedro faceva l’ingegnere civile».
Il nome del gruppo e il fatto che la cantante sia una
donna possono generare un equivoco, la gente a volte
pensa che Ana sia Deolinda. Chi è invece Deolinda?
Ana «A volte vengo confusa con il suo carattere, invece
Deolinda è un personaggio femminile, un io narrante che
racconta le storie nelle canzoni e la cui personalità è data
dalla somma dei quattro componenti della band. Decidemmo
il nome dopo aver composto una prima decina di canzoni;
fu lì che ci rendemmo conto che i brani esprimevano una
specifica identità comune femminile. Così decidemmo di
trasformare questa caratteristica in un nome di donna, e
Deolinda ci parve perfetto».
Siete spesso citati come innovatori del fado insieme a
Mariza, Ana Moura e altri artisti già famosi; ma cosa c’è
sotto di voi, una scena o gli under 25 preferiscono l’indie
rock e l’elettronica anche in Portogallo?
Ana e Pedro «C’è una generazione che cerca di portare
qualcosa di nuovo nella musica portoghese, e il pubblico,
i giornalisti e l’industria musicale sono molto interessati a
questo movimento. Noi amiamo il fado, ma anche l’indie
rock, il pop, il jazz e l’elettronica. Per esempio, al Festival
di Coimbra abbiamo aperto lo show dei Morcheeba. In
generale siamo convinti che sia davvero un buon momento
per fare musica in Portogallo».
È un Portogallo che ha conosciuto la Rivoluzione
appena 35 anni fa, una democrazia giovane reduce da
stagioni di grande rilancio nel cinema, nella letteratura e
nella musica. Oggi c’è ancora quell’entusiasmo o il peso
della crisi, il ritorno di incubi come il razzismo, il crollo
degli investimenti sull’istruzione e sulla cultura stanno
uccidendo l’ottimismo?
Ana «Non ci sono molte ragioni per essere ottimisti oggi
in Portogallo. Ma noi ci sforziamo di avere un approccio
positivo. Siamo cresciuti sentendo la gente dire che le cose
vanno male, però vogliamo fronteggiare tutto questo da un
punto di vista ottimista. Sedersi a piangere non è il modo
migliore per migliorare la situazione».
Qual è la tua Lisbona e cosa non deve perdersi un lettore
italiano che pensa di trascorrere un lungo weekend nella
tua città?
Ana «La mia Lisbona è un insieme di diverse Lisbona. Credo
che il suo principale motivo di fascino consista proprio nella
Titolo Dois selos e um carimbo
Etichetta World Connection / Egea
Titolo Canção ao lado
Etichetta World Connection / Egea
Online www.deolinda.com.pt
09 AUTUNNO 2010
FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
Cuba
www.felmay.it
FELMAY
FELMAY
Mamud Band
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Antonio Castrignanò
Opposite People
The Music of Fela Kuti
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mamud band
afrobeat
word music
Mara la fatìa
Storie di Pizziche Tarante e
Tarantelle
1
2
3
11 classici del compositore
nigeriano in versioni originali,
5
6
sorprendentemente fresche
4
10
Ensemble Marâghî
7
Lalgudi G Jayaraman
Lalgudi G Jayaraman
Anwâr
Sublime Strings
From Samarqand
to Costantinople
8
on the Footsteps of Marâghî
Da Samarcanda a Costantinopoli
Brani della Tradizione Classica
Ottomana e Persiana interpretati
da un ensemble arricchito dalla
voce di Sepideh Raissadat
In due lunghi brani la grande
capacità del violinista indiano
di dispiegare le meraviglie
improvvisate della musica dell’India
del Sud
Sublime Strings
South Indian Classical Music
8171 mamud.indd 1
9
8-07-2010 10:45:17
10
8161 Lalgudi Pallavi IIIpk.indd 1
31-05-2010 16:54:28
Gamelan of Central Java
Trance Gamelan in Bali
XIV. Ritual Sounds of Sekaten
12
13
Birkin Tree
16
Virginia
14
thiopiques
19
Nuovo CD in solo del chitarrista
di origini spagnole. Una serie di
brani originali nel più puro stile
flamenco.
new
Tri Muzike
Sweet Limbo
Dopo le intense esplorazioni del
repertorio balcanico i Tri Muzike
coniugano
21 in questo nuovo CD la
22
tradizione dell’Est con quella della
canzone d’autore italiana.
Un elogio laico al libero
territorio del’anima, affrancato
dall’assillo
delle categorie e25delle
24
appartenenze.
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strada
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san50780
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FELMAY• strada
FELMAY
FELMAY
ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it
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vol. 5 - Tigrigna Music
1970-75
vol. 10 - Tezeta - Ethiopian
Blues and Ballads
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La Moresca
vol. 6 - Mahmoud Ahmed vol. 11 - Alèmu Aga - The
Ammore, Trivolo,Harp of King David
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Currivo e Devozione
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la moresca vol. 7 - Mahmoud
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& Songs
Erè mèla mèla 1975
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moderne 1969-1975
Erede della grande tradizione
vol. 8 - Swinging Addis
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Seventies
popolare
campana,
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Moresca- Ethiopian Groove
vol. 4 - Mulatu Astatke trivolo
1969-1974in un album incentrato sui temi
currivo
vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya
Ethio Jazz & Musique
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dell’amore, tribolazioni, collera e
devozione
Instrumentale, 1969-1974
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vol. 2 - Azmaris urbains
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FELMAY
FELMAY
vol. 1 - L'age d'or de la
musique ethhiopenne
moderne 1969-1975
I manifesti sparsi per le strade sono pieni di tagli. Piccoli sfregi che li
trasformano in tele attraversate da una scarica di pallettoni. Per un
attimo abbiamo pensato fossero provocati da qualche teppistello ebete.
In realtà tagliare le tele è l’unico modo per non farle gonfiare troppo,
per far sì che non vengano strappate dal vento, per non farle volare via.
A Essaouira il vento non cessa mai. Può essere una piacevole brezza
durante il giorno, può essere un aliseo un pò più freddo e insistente di
sera, può essere una corrente gelida di notte. Ma il vento che batte sulla
città in questi giorni è di tutt’altro tipo. È un vento innescato dalle raqs
e dal guimbri, un vento pilotato dai Maâlem che lo fanno crescere e
sferzare come una vertigine addomesticata a fatica. Il vento di Essaouira
è quello della musica Gnaoua, la musica fortemente sincretica che è
diventata il vessillo della città, non più solo quello della comunità di ex schiavi subsahariani che l’ha codificata molti secoli fa.
I maâlem sono appunto i suonatori di guimbri (una sorta di basso arabo a tre corde che si suona slappando), ma sono anche
i depositari del rito gnaoua, verrebbe da dire che sono i custodi della vertigine. Al loro fianco ci sono puntualmente i suonatori
di raqs (nacchere in ferraglia) che sembrano un pò dei cherichetti al servizio del maâlem. È lui che li imbecca, lui che li instrada
sul binario ritmico, lui che li proietta verso il ballo e verso la trance. E sono sempre i maâlem che guidano gli incontri fertili che
il festival propizia ogni anno coi musicisti di altre culture sonore.
Juan Lorenzo
La tradizione musicale irlandese
interpretata in un modo originale
ed innovativo.
20
testo e foto di Valerio Corzani
Flamenco de Concierto
17
18
E ssaouira
Gnaoua Festival
Il nome Trance trova giustificazione
nello stato psico-fisico al quale,
in teoria, produzioni di questo
stampo dovrebbero condurre i
15 ascoltatori (Wikipedia)
propri
Musiche rituali legate alle
cerimonie religiose islamiche.
11
23
Essaouira
vol. 15 - Europe meets
Ethiopia - Jump to Addis
vol. 21 - Emahoy Tsegué
& Maryam Guèbrou
Piano Solo
Massimo
Ferrante
vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu
The Lady with the Krar Jamu vol. 22 - Alèmayèhu Eshèté
1972/1974
vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè
Il cantore
con un Ethiopia
vol.calabrese
23 - Orchestra
vol. 18 - Asguèbba !
programma di brani originali e
vol. 24
- L'age d'or
de la
tradizionali
presentanti
da una
vol. 19 - Mahamoud Ahmed
musique
ethiopienneil
formazione
comprendente
1974 - Alèmyè
moderne
1969-1975
bravissimo
chitarrista
Lutte Berg.
Nuova
linfa
per
la
musicaRoots
popolare
vol. 20 - Either Orchestra & vol. 25 - Modern
italiana1971/1975
Guests - Live in Addis
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09 AUTUNNO 2010
24 25
Essaouira
Mondomix.com / 360°
Essaouira viene considerata una sorta di San Francisco
nordafricana, mentre durante i giorni del festival Gnaoua
la definizione più ricorrente è quella di Woodstock del
maghreb. Hendrix e Jagger ci hanno fatto una capatina
in passato, così come Pasolini, Orson Wells, Ridley Scott
che ci hanno girato scene dei loro film. È una città che
accoglie una decina di festival nel corso dell’anno, piazzati
negli slarghi della sua bellissima casbah o su qualche
recinto della spiaggia lunga 12 chilometri, la stessa che
un plotone di surfisti sceglie di popolare ogni giorno per le
onde invitanti dell’oceano. I paragoni con Woodstock non
sono un iperbole. L’atmosfera di questa città è davvero
peace & love. Gnaoua e rastafari, rapper e hippie, asceti
e gaudenti si abbracciano in unica grande crew giovanile.
Gente di tutto il mondo che trova in Essaouira uno sfogo
alle proprie pulsioni liberatorie, ma soprattutto la nuova
gioventù marocchina che approfitta di questa enclave
libertaria per dare sfogo alle proprie trasgressioni. Tutte
pacifiche. Pulsioni che naturalmente accolgono a braccia
aperte le performance dei musicisti e degli adepti.
Strano destino quello di Essaouira. Una cittadina che
di giorno rimbalza e rifrange centinaia di colori, deve la
sua notorietà planetaria a un rituale notturno. A svelare
Mogador (come la chiamavano gli spagnoli) non bastano
le sue gallerie d’arte, i suoi hammam, il suo suq speziato,
il suo porticciolo che ogni mattina celebra il teatrino del
ritorno dei pescherecci pedinati dai gabbiani. A spiegare
questo luogo luminoso e speciale, affacciato sull’oceano
e sferzato dagli alisei, ci vuole la notte. Un particolare
tipo di notte, la lila, la notte rituale dei musicisti Gnaoua,
ma anche quella pagana e ludica dei ragazzi marocchini
più freak che nei giorni del festival Gnaoua invadono la
spiaggia per dormire, fumare e seguire i concerti delle star
della nuova generazione musicale del Maghreb: Oba Oba
Spirit, Haoussa, H-Kaine, Darga...
Ascoltare il Maâlem Rachid El Hamzaoui slappare con forza
sul suo guimbri, il basso a tre corde che è lo strumento
sacro di questa confraternita, e incitare i suonatori di raqs
(le nacchere metalliche) a una danza sempre più frenetica e
ossessiva è un’esperienza che apre le porte della percezione.
La Zaouia Gnaoua dove è stata celebrata la lila sabato sera
è una specie di casa con un cortile interno, un riad adibito
alle ceremonie come la Zaouia Hmadcha, altra luogo scelto
per queste pratiche musicali che vanno avanti per ore e ore
e trovano nel Gnaoua Festival il suo zenith di notorietà e di
frequentazione.
A Chez Kebir si esibiscono anche il cantante pakistano Faiz
Ali Faiz e il mandolinista francese Titi Robin che dopo aver
sposato i propri differenti mondi musicali trovano la forza e
l’ispirazione per aggiungere anche il suono acre del mizmar
(una sorta di oboe di origine egiziana), perno timbrico di ogni
esternazione sonora degli Issaoua di Meknés. «Si è celebrata
istantaneamente una vera e propria fusione, ha dichiarato il
pianista jazz Scott Kinsey, altro convitato dell’edizione 2010,
anche se non riuscirei a definirla con schemi musicali o con
bozzetti teorici». La notte fa la sua parte in questo gioco di
concessioni e di svelamenti, ma c’è anche una disponibilità
di fondo dei musicisti che si avvicinano a questa cultura cosi
forte e vivificata con un rispetto che evidentemente protegge
la caratura di esperimenti sulla carta spericolati. «La musica
è una questione di linguaggi più che di dialetti, notava Pat
Metheny in una delle edizioni passate, noi e i Gnaoua non
parliamo lo stesso dialetto, ma parliamo la stessa lingua».
Ce ne andiamo da Essaouira di notte, così come di notte
eravamo arrivati. Poco prima di partire dalla Porta Sbaa,
siamo riusciti ad approfittare di un ultimo set del Maâlem
Mahjoub El Gnawa. A due passi dalla porta infatti c’è Chez
Kébir, uno spazio molto intimo dove la cerimonia gnaoua
assume contorni ancora più sfrenati e lo spirito originario
viene interamente preservato. Sulla strada che ci porta a
Marrakech continua a tornare l’immagine di un’anziana (per
le strade della città ci sono sempre molti ragazzini e molti
anziani) impegnata a danzare sui passaggi ritmici del maâlem.
Al Chez Kébir si agitava coperta da un velo. La stessa mossa
iterativa, ripetuta per quasi un’ora, in un equilibrio instabile
che pure non la faceva mai cadere.
Dove Essaouira (Marocco)
Quando giugno 2011
Online www.festival-gnaoua.net
Anche il popolo della spiaggia dove si esibiscono i nuovi
gruppi marocchini è emblematico. Una fotografia del
nuovo Marocco, scattata in questa città che da sempre
viene definita la San Francisco del Maghreb per la sua
attitudine tollerante e libertaria, un’esprit illuminato
che negli anni sessanta aveva già attirato tanti rockers
e scrittori occidentali. I giovani e gli adolescenti sono
interessati al rap barricadero degli H-Kaine, crew hip hop
di Meknés che parla spesso di temi sociali e di politica,
ma sono anche infatuati della musica Gnaoua al punto
che negli angoli del suq o nel marciapiede che costeggia
le mura fortificate si trovano drappelli di musicisti di
strada, con giovanissimi pretendenti maâlem (maestri)
che improvvisano interminabili sessions armati di guimbri,
raqs e voci.
Il festival vero e proprio è giunto alla sua tredicesima
edizione. Un festival che non è un artificio, perchè la musica
gnaoua fa davvero parte del dna di questa cittadina, e
che allo stesso tempo ha allargato a dismisura il numero
degli adepti, grazie alla sua forza propositiva e alla sua
spregiudicatezza artistica. Gli adepti con passaporto sono
i musicisti guidati dai vari maâlem che per l’occasione
arrivano non solo da Essaouira, ma anche da Casablanca,
Rabat, Tangeri, Marrakech...: mettono in scena il cerimoniale
misterico di questa etnia che ha meticciato riti ancestrali
degli schiavi africani (giunti in questa zona nel sedicesimo
secolo), cultura berbera e islam. Quelli senza passaporto
sono gli artisti coinvolti nel cast del festival per contaminare
ulteriormente questa musica che si presta evidentemente
molto bene a fungere da scheletro, da perno ritmico, da
tavolozza.
09 AUTUNNO 2010
09 AUTUNNO 2010
26 27
Mondomix.com
Dove trovare Mondomix
Abruzzo
Gong (Pescara)
Basilicata
Discoland (Matera)
Shibuya (Matera)
Hobby Music (Potenza)
Calabria
Musica In Senso (Catanzaro)
Il Pentagramma (Crotone)
Punto Disco (Lamezia Terme – Cz)
Overture Diffusione (Roccella Ionica - Rc)
Campania
Top Dischi Di Minicozzi Luigi (Benevento)
Juke Box (Caserta)
Casa Del Disco (Faenza – Ra)
Diapason (Napoli)
Tattoo Records (Napoli)
Disclan (Salerno)
Idea Disco (Sorrento – Na)
Emilia Romagna
8 Ball Records (Arceto – Re)
Fornaciari Music (Barco – Re)
Disco Frisco (Bologna)
Libreria Mel Bookstore (Ferrara)
Birdland (Modena)
Max Records (Modena)
Folk Studio (Ravenna)
Discoland (Reggio Emilia)
Infoshop (Reggio Emilia)
Friuli Venezia Giulia
Musicatelli (Pordenone)
Vilevich Fausto (Trieste)
Lazio
Arion Z (Roma)
df Point (Roma)
Gelmar Novamusa (Roma)
Griot (Roma)
L'Allegretto (Roma)
La Discoteca Al Pantheon (Roma)
Libreria Amore E Psiche (Roma)
Libreria Mel Bookstore (Roma)
Underground (Viterbo)
Liguria
Disco Club (Genova)
Music Store (Genova)
Jazzanto (Genova)
Libreria Ragazzi (Imperia)
09 AUTUNNO 2010
Casa Musicale (La Spezia)
Casa Del Disco (Rapallo – Ge)
Pop Off Tuttomusica (Sanremo – Im)
Refrain (Sanremo – Im)
Lombardia
Cotton Club Musica (Bormio – So)
Cavalli Strumenti Musicali (Castrezzato – Bs)
F.Lli Frigerio (Como)
Carù (Gallarate – Va)
Il Pensatoio (Mantova)
Buscemi Dischi (Milano)
La Cerchia (Milano)
Libreria Birdland (Milano)
Libreria Carla Sozzani (Milano)
Libreria Largo Mahler (Milano)
Norma Libri (Milano)
Stradivarius (Milano)
Veneto Libri (Milano)
Carillon Dischi (Monza – Mi)
Bergamo Musica (Seriate – Bg)
Casa Del Disco (Varese)
Musicando (Vimercate – Mi)
Marche
Discostory (Civitanova Marche - Mc)
Transylvania Dischi (Jesi – An)
Pietroni Dischi (Macerata)
Amadeus Dischi (Porto San Giorgio - AP)
Musiquarium (Porto Sant'elpidio - AP)
Piemonte
Palio Di Morino Elio & C. S.A.S. (Biella)
Underground Di Fornara Antonella & C. S.N.C.
(Borgomanero - No)
Costanzo (Casale M.to – Al)
Muzak (Cuneo)
Musica (Cuneo)
Pace Music (Nizza Mto – At)
Maison Musique (Rivoli – To)
Merula Marco (Roreto Di Cherasco - Cn)
Andromeda Distribuzioni (Strevi - Al)
Il Gatto, Gli Stivali E Gli Amici (Torino)
Moisio (Torino)
Onde (Torino)
Puglia
Centro Musica (Bari)
Radici Emirandira (Conversano - Ba)
Idea Suono (Fasano – Br)
Youm! Youmusic (Lecce)
Diapason (Monopoli – Ba)
Discoshop (Monopoli – Ba)
Anima Mundi (Otranto – Le)
Sicilia
Pagine & Note (Caltanissetta)
Graffagnini Distribuzione (Catania)
Annie Roses (Messina)
Diskery (Palermo)
Magic Music (Ragusa)
Moscuzza (Siracusa)
Sardegna
Alta Fedeltà (Cagliari)
Casa Del Disco (Cagliari)
Brillantina Dischi (Nuoro)
Travelling Music (Oristano)
Toscana
Co-Ry Music (Arezzo)
Alberti (Firenze)
Discoteca Fiorentina (Firenze)
Libreria Mel Bookstore (Firenze)
Piccadilly Sound (Firenze)
Twisted (Firenze)
Disco Shop (Poggibonsi - Si)
Materiali Sonori (San Giovanni Valdarno – Ar)
Discolaser (Siena)
Trentino Alto Adige
Altri Suoni (Bolzano)
Diapason Music Point (Rovereto – Tn)
Bari Via Melo, 119
Bologna Via Ugo Bassi 1/2
Brescia C.so Zanardelli 3
Catania Via S. Euplio 38
Firenze Via Brunelleschi 8R
Genova Via Fieschi 20 r
Mestre Centro Le Barche P.zza XXVII Ottobre 1
Milano Piazza Piemonte 1
Milano C.so Buenos Aires 33/35
Milano Via Ugo Foscolo 3 (Gall. Vitt. Emanuele II)
Monza Via Azzone Visconti, 1
Napoli Via Santa Caterina a Chiaia, 23
Padova Piazza Garibaldi 1
Roma Via del Corso 506
Roma Galleria A. Sordi, Piazza Colonna 31/35
Roma Largo Torre Argentina, 7/11
Roma Viale G. Cesare, 88
Roma C. Comm.le Forum Termini
Roma Viale Marconi 184,186,188,190,192,194
Roma Viale Libia 186
Roma Via Camilla 8/C
Salerno C.So Vittorio Emanuele I, 230
Salerno C.so Vittorio Emanuele 131/133
Torino Piazza C.L.N. 251
Umbria
Egea Store (Perugia)
Mipatrini 1962 (Perugia)
Musica Musica (Perugia)
Centro Musicale Ialenti (Terni)
Valle d'Aosta
Il Disco (Aosta)
Veneto
Discoteca Pick Up (Bassano del Grappa – Vi)
Dischiponte (Bassano del Grappa – Vi)
L'Opera Al Nero (Castelfranco Vto - Tv)
Drop Sound (Conegliano - Tv)
Casa Del Disco (Mestre – Ve)
Feliciotto (Mestre – Ve)
Good Music (Mestre – Ve)
Gabbia (Padova)
Musical Box (Portogruaro – Ve)
Mezzoforte (Treviso)
Saxophone (Vicenza)
Firenze Via San Quirico 165 (Campi Bisenzio)
Genova Via XX Settembre, 46/R
Milano Via della Palla, 2
Napoli Via Luca Giordano, 59
Roma Via Alberto Lionello, 201
Torino Via Roma, 56
Torino Shopville Le Gru
Verona Via Cappello, 34
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09 AUTUNNO 2010
28 Specchi
Afghani
di giovanissimi registi, tra cui i già citati Razi e Shoeila, che
cercano in qualche modo di ricomporre i frammenti dello
specchio culturale afghano. Uno specchio mandato in
frantumi da decenni di guerra.
Mettere insieme quelle schegge è stato il loro sogno:
ricostruire una superficie su cui si possa riflettere nella sua
interezza la complessità della cultura afghana.
La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe
Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendo riflessa in esso la
propria immagine, credette di possedere l’intera verità.
Mevlana Jalaluddin Rumi (sec.XIII)
di Enrico Verra
Kabul,
primavera
1996: la città è
assediata dai talebani.
Letteralmente
sotto
le
bombe
Timur Akimyar sta
girando il suo primo
lungometraggio negli
studi
dell’Afghan
Film, la Cinecittà
afgana, fondata nel
1968 dal re Zahir
Shah. Il film si intitola
Vortex (Ghrdaab) ed
è un melodramma
ambientato nel mondo della droga e dello spaccio. Durante
le riprese una granata colpisce il set. «Morirono sette
persone, ricorda oggi il regista, e io stesso sono vivo per
miracolo». Le immagini dei corpi dilaniati degli attori e dei
tecnici sono visibili ancora oggi, nella sequenza iniziale
dell’unica copia rimasta di Vortex.
Sono cadaveri veri, non comparse e sangue finto. La morte
ha devastato il set di Vortex, e, in questo, non c’è nulla di
simbolico. C’è la cruda realtà del dramma afgano. C’è la
volontà di esistere come popolo e di produrre un cinema
in cui ci si rispecchia e c’è l’ennesima guerra afgana, che
come sempre è nata altrove, è stata decisa in altra sede e
che, devastante, impone le sue leggi.
Storie
Kabul, autunno 1996: i talebani conquistano la città. Il 5
dicembre emanano il decreto che proibisce, tra le altre cose,
il cinema e la televisione.
Cito testualmente: Articolo 6: Divieto dell’idolatria. Nei vicoli,
nei negozi, negli alberghi, nelle stanze e in ogni altro luogo le
immagini e i ritratti sono aboliti. I controllori distruggeranno
tutte le immagini nei luoghi suddetti.
Si portano al macero i televisori e si demoliscono le sale
cinematografiche. L’Afghan Film viene chiusa e le pellicole
in essa custodite vengono bruciate con un grande falò a
Pul-i-Charki, un sobborgo a nord della capitale. Registi ed
ex impiegati cercano di salvare il salvabile e, correndo rischi
personali altissimi, nascondono le copie dei film afgani che
riescono a recuperare nelle proprie case, nelle intercapedini
dei muri, sotto i pavimenti.
In tutto vengono salvati una sessantina di film, tra
lungometraggi di finzione e documentari. Praticamente
sono le uniche immagini rimaste dell’Afghanistan prima dei
quasi trenta anni di guerre che l’hanno travolto. «Dovete
dirlo, aggiunge Timur Akimyar, esiste ancora un’immagine
dell’Afghanistan diversa da quella di Rambo. Abbiamo
rischiato tutti i giorni, ma qualcosa è rimasto».
E vedere quei film fa impressione: sono film di valore
diseguale ma film che raccontano un paese oggi quasi
inimmaginabile. Film in costume che riprendono leggende
tradizionali, melodrammi e storie di conflitti sociali che
raccontano un paese che cercava una sua strada tra
tradizione e modernizzazione, tra cultura propria e influenze
occidentali. Non si vede una sola donna con il burqa in
questi film, ma, al contrario, c’è addirittura del glamour:
09 AUTUNNO 2010
29
Cinema Afghano
Mondomix.com / 360°
rossetti, tacchi a spillo, scollature, feste danzanti e bottiglie
di whisky.
Le Statue che Ridono (Mujasema ha Mekhandan) di
Toryalai Shafaq filma i conflitti tra classi sociali, Ceneri
(Khakestar) di Saeed Orokzai racconta il problema delle
tossicodipendenze con allucinate sequenze nelle fumerie
clandestine e in Akhter Il Buffone (Akhter Maskaneh),
probabilmente il miglior film afgano prebellico, Latif Armadi
inquadra una sensualissima e per nulla castigata Bassira
Khatera con uno stile quasi da Nouvelle Vague.
E poi ci sono i documentari. In primis quelli che raccontano
la straordinaria arte buddista preislamica, saccheggiata
da tutti i signori della guerra e distrutta definitivamente dai
talebani che hanno tirato giù a cannonate i due Buddha di
Bamiyan.
Soheila Javaheri
Soheila Javaheri è una giovane regista iraniana. Moglie
del realizzatore afgano Razi Mohebi. I due sono rientrati a
Kabul, dall’esilio iraniano, dopo la caduta dei talebani.
Soheila ha lavorato per far si che questi film fossero visti
nei festival europei (Locarno, Nantes, Museo del Cinema di
Torino) e dà un giudizio significativo su queste pellicole: «In
questi primi film afgani, nonostante la qualità diseguale, senti
l’energia di un cinema che sta nascendo. Vedi che c’è uno
stile che si sta inventando. Non posso dimenticare queste
prime pellicole: è un inizio da cui si poteva continuare, il
cinema afgano a partire di lì si poteva sviluppare. Ma già
durante la guerra tra i russi e i mujaheddin era iniziata la
distruzione sistematica della cultura afgana».
Già perché i russi imponevano la loro propaganda e i
mujaheddin distruggevano scuole e biblioteche: erano
gestite da un governo filosovietico e quindi dovevano
sparire.
Kabul inverno 2001: l’Afghanistan post talebano è saturo di
immagini.
Alla caduta del regime di Mullah Omar si precipitano
nel paese televisioni da ogni dove e la rete si intasa delle
immagini amatoriali di tutti quelli che passano per il paese:
dai soldati spediti a combattere fino ai volontari delle Ogn.
Mohsen
Makhmalbaf
L’Afghanistan,
da
sempre
terreno
di
battaglia degli eserciti di
mezzo mondo, diventa
terreno predatorio del
sistema
mediatico
contemporaneo.
Telecamere
rapaci
raccontano una loro
verità che sembra anche
essa costruita altrove e
le immagini diventano
spesso e volentieri pezze
d’appoggio per teorie
sul paese costruite fuori
dal paese e sulla testa
degli Afgani .
In questa marmellata visuale il cinema afgano, un cinema di
cultura e identità afgana, cerca disperatamente di crearsi un
suo spazio e vive una brevissima ma straordinaria stagione.
Figura cardine di questa rinascita è il regista iraniano
Mohsen Makhmalbaf, intellettuale in continuo movimento
tra Iran, Tagikistan lembi di Turchia e Afghanistan, in ogni
paese, cioè, dell’area culturale persiana .
Considerato a ragione uno dei grandi assoluti del cinema
contemporaneo ha lavorato indefessamente per la causa
afgana. Dopo aver girato il documentario Afghan Alphabet
sui drammatici problemi dei campi profughi afgani in Iran, ha
fondato l’Afghan Children Education Movement, movimento
che dopo il 2001 ha trasferito la sua sede a Kabul. Ha
viaggiato clandestinamente nell’Afghanistan talebano per
preparare il suo film di denuncia Viaggio a Kandahar e ha
prodotto i film afgani delle sue due figlie: Alle Cinque della
Sera e il recente Two-Legged Horse di Samira e Buddha
Collapsed Out of Shame di Hana.
È stato direttamente maestro di quasi tutti i giovani registi
afgani contemporanei che, esuli in Iran, hanno potuto
frequentarlo e seguire i suoi insegnamenti.
Da Parigi, invece, rientra a Kabul il franco-afgano Atiq
Rahimi che filma nel suo paese di origine Terre et Cendres,
film che fin dalla sceneggiatura gioca su storie che si
rispecchiano l’una nell’altra.
Siddiq Barmak
E soprattutto, a Kabul,
da dove di fatto non
si era mai allontanato,
riprende a filmare Siddiq
Barmak, sicuramente
il
più
interessante
regista
afgano
contemporaneo.
Ha
studiato giovanissimo
nella scuola di cinema
di
Mosca,
nella
paradossale posizione
dell’occupato
che
impara
a
costruire
immagini nelle scuole
dell’occupante.
Ha
raccolto
l’eredità
estetica dei film afgani
di Makhmalbaf. Lo ha
sostituito a capo della Afghan Children Education Movement.
Ha realizzato con Osama, storia di una bambina che nei
giorni bui del dominio talebano si traveste da ragazzo per
poter frequentare la scuola, un’opera di successo e impatto
internazionale.
Nato nel 1962 ha fatto in tempo a conoscere l’Afghanistan e
il cinema afgano prebellico ed è diventato un modello per i
realizzatori più giovani.
Proprio intorno alla figura di Barmak si coagula un gruppo
Purtroppo ai pochi mesi di entusiasmo seguiti alla
cacciata dei talebani ha fatto seguito una situazione di
instabilità e conflittualità diffusa. La situazione nel paese
sembra incancrenita su un brutto stabile con intere aree
completamente fuori controllo.
E per molti realizzatori afgani l’esilio è stata di nuovo l’unica
strada praticabile.
L’Esodo dalla Liberazione
In Italia ci sono: Razi Mohebi e Shoeila Javaheri, autentici
capofila del nuovo cinema afgano; Mirvais Rekab, autore
di un corto che è una sorta di Nuovo Cinema Paradiso
ambientato tra i ruderi delle sale cinematografiche afgane;
Ehsan Ehsani, produttore del corto Buddha, The Girl, the
Water. E’ stato presidente e animatore della tv di Bamiyan.
Mohammad Khadem che dopo aver diretto in Afghanistan
il corto Mama, sto ora lavorando in Italia a un nuovo film Il
Burattino Rosso.
Amin Validi, regista del corto Ganj Dar Veirane, è dovuto
fuggire dal suo paese colpito dalle minacce di morte dei
talebani. Stava lavorando a un progetto che raccontava le
ultime 24 ore di un mullah aspirante suicida e che all’ultimo
momento rinuncia a premere il bottone. Doveva intitolarsi
Le Chiavi del Paradiso.
«Erano email, testimonia, all’inizio pensavo fossero
spamming. Ma poi sono diventati più chiari, sapevano cose
precise sul mio conto. Hanno telefonato al mio numero di
casa, hanno mandato una lettera con minacce di morte.
La mia famiglia è dovuta scappare in un’altra città. All’inizio
erano solo versi del Corano, un’esortazione a tornare
all’Islam. Poi sono arrivati ad accusarmi di essere un kafir,
un infedele… è molto pericoloso essere indicati come kafir
in Afghanistan. E purtroppo vedo che i talebani stanno
infiltrando di nuovo loro uomini nei ministeri della cultura,
dell’informazione e delle telecomunicazioni…». Amin Validi
non ci stà, tiene un aggiornatissimo e seguitissimo blog,
prende lezione di Italiano e lotta per riuscire a realizzare due
cortometraggi che ha in testa.
Per questi registi esuli, che non accettano imposizioni, che
rischiano la vita per poter filmare e che filmano per sentirsi
vivi in una guerra infinita, calza alla perfezione la definizione
che Hamid Dabashi, grande studioso del cinema medioorientale ha dato di Mohsen Makhmalbaf: the last rebel
filmaker. Gli ultimi cineasti ribelli, registi per cui filmare è
l’unico modo per ribellarsi all’inferno in cui la guerra li ha
precipitati.
09 AUTUNNO 2010
30 Razi e Soheila
Essere ancora vivi
di Enrico Verra
Razi Mohebi è un adolescente quando i russi invadono
l’Afghanistan .Fugge in Iran: l’approdo naturale per lui che è
di etnia hazara e quindi, come gli iraniani, di religione sciita e
di lingua e cultura persiane.
Ma in Iran le condizioni di vita per i profughi afgani sono
durissime. Non hanno diritto a nulla e ogni forma di istruzione
gli è praticamente preclusa.
Superando esami durissimi Razi riesce a iscriversi all’unica
scuola che a stento lo accetta: la facoltà di teologia nel
paese degli ayatollah. Studia teologia per quindici anni e
intanto frequenta clandestinamente un corso di pittura,
pratica assolutamente vietata dalle regole coraniche.
È in questo contesto che scopre il cinema. Sono gli anni
in cui esplode la new wave iraniana e Kiarostami, Panahi e
Makhmalbaf si stanno imponendo alla critica internazionale.
«Dipingo quando mi serve il silenzio, racconta Razi, Il cinema
è un’arte “socievole”, non puoi fare i film da solo. Quando
dipingo faccio un viaggio dentro di me. Quando faccio il
cinema, invece, gli altri entrano dentro di me, io divento gli
altri e tutto questo diventa un film».
Appena in famiglia capiscono e che è pronto a gettare alle
ortiche la carriera di mullah per diventare regista lo prendono
per pazzo: è un disonore davanti a tutta la comunità.
Makhmalbaf
Razi non molla e diventa allievo di Mohsen Makhmalbaf. La
scuola di cinema si trova a Teheran, a quattro ore di pullman
dalla scuola di teologia. Razi fa la spola per tre massacranti
anni. Studia contemporaneamente su due fronti, insegna
pittura per arrotondare, e usa le ore in pullman per dormire.
In questo delirio incontra Soheila Javaheri. Soheila studia
ingegneria, insegna nella scuola in cui Razi tiene corsi di
pittura e sta scoprendo il cinema alla cineteca di Teheran
dove passano i classici del neorealismo italiano e la nouvelle
vague francese.
I film europei sono una boccata di libertà per una donna che
cerca di sfuggire alle costrizioni della teocrazia iraniana.
Innamorati l’uno dell’altra, drogati di cinema e convinti di fare
del cinema la loro vita, Razi e Soheila decidono di rientrare
in Afghanistan alla caduta del regime talebano.
Kabul Film
La Kabul che li accoglie è una città fantasma, devastata da
oltre venti anni di guerre.
Soheila gira un cortometraggio che racconta il suo primo
impatto con la città distrutta. È la storia di un soldato
che torna a casa, dopo una delle mille guerre afgane e
si muove come un automa in una Kabul spettrale. Lungo
le strade deserte incontra, come in un incubo, persone
che non riconosce e che non lo riconoscono. Una donna
potrebbe essere sua moglie, o forse è sua figlia cresciuta
durante la sua assenza. Una foto appesa a un muro ritrae
lui da giovane, o un fratello o un amico. «Il mio soldato, dice
Soheila, non sa perché ha combattuto. Non sa più chi è sua
moglie o sua madre. Entra in casa sua e non percepisce più
nulla, non ha più nostalgia, e non è più un essere umano.
Uccidere la nostalgia, vuol dire uccidere la memoria. È
questa la conseguenza più grave della guerra: le case si
possono ricostruire la memoria una volta persa è persa per
sempre. Per uccidere un popolo devi ucciderne la memoria,
09 AUTUNNO 2010
31
Cinema Afghano
Mondomix.com / 360°
per questo in Afghanistan sono stati distrutti i film, le opere
d’arte, i libri». Ed è anche per combattere tutto questo che
Razi e Soheila fondano con un’altra ventina di professionisti,
tutti afgani, la Kabul Film, prima casa di produzione privata
mai apparsa in Afghanistan.
In un momento in cui sembra che tutti vogliano filmare
l’Afghanistan, si trovano ad essere al centro di quell’infinito
gioco di specchi che è il delirio di immagini sull’Afghanistan
che si riversa sul mondo.
La Kabul Film si muove lungo tre direzioni: produrre opere
di giovani registi afgani, fornire supporto tecnico e artistico
alle produzioni cinematografiche straniere che arrivano
nel paese e collaborare con le televisioni di tutto il mondo
fornendo servizi e news.
Razi Mohebi, nell’arco di pochi mesi si trova ad essere
l’attore protagonista di Alle Cinque della Sera di Samira
Makhmalbaf, a fare l’aiuto regista di Siddir Barmak sul
film Osama, del regista franco afgano Atiqe Rahimi su
Terre et Cendres e di Cristophe de Ponfilly, il leggendario
documentarista francese che per anni ha raccontato
l’Afghanistan con la sua telecamera.
Nel frattempo produce i cortometraggi di numerosi suoi
giovani colleghi, dirige i propri e realizza un numero notevole
di documentari. Il tutto rischiando in prima persona in un
paese per nulla pacificato. Una sera alla fine di una giornata
di riprese di Osama, viene rapito, massacrato di botte per
tutta la notte e scaricato pesto sul set, da una macchina in
corsa, il mattino dopo.
Soheila, intanto, realizza un quantitativo impressionante
di servizi e documentari per la televisione francese e per
alcune emittenti arabe e afgane.
Online www.ina.fr
Online www.cinformi.it
Per scoprire la musica afgana si suggerisce di procurarsi il
DVD dell’ottimo documentario Breaking the Silence
(Aditi Image / Egea) di Simon Broughton prodotto dalla BBC.
il miraggio Afghanistan
C’è della schizofrenia in tutto questo perché ognuno
chiede a te afgano un immagine diversa del tuo paese,
fondamentalmente l’immagine che lui ha in testa a priori.
«In Afghanistan, dice Soheila, siamo come in un film in
cui l’Afghanistan è una location, i registi stanno altrove, i
protagonisti sono importati e gli afgani fanno le comparse
sullo sfondo». È un drammatico giudizio politico sulla storia
afgana ed è nello stesso tempo la radiografia del massacro
della cultura del paese.
La lotta della Kabul Film era proprio quella: imparare
lavorando con gli stranieri, produrre immagini proprie in cui
ci si rispecchiava come afgani e utilizzare la collaborazione
con le televisioni per cercare di far arrivare al mondo una
propria immagine del proprio paese.
I film di Razi e di Soheila sono però poetici e lenti, tutto il
contrario del montaggio rapido e ossessivo che richiede
la televisione. «La televisione è uno strumento politico,
dice Soheila. Nell’anima della tv non ci sono né arte,
né democrazia, ma solo propaganda. Le televisioni ci
chiedevano servizi fatti a sostegno di una linea politica
piuttosto che un’altra, ma lavorando in contemporanea per
televisioni diverse riuscivamo in qualche modo a far passare
anche il nostro punto di vista».
La Kabul Film con il suo iper attivismo si trova però
improvvisamente allo scoperto: «Avevamo un energia,
dice Razi, talmente forte che a un certo punto non ha più
trovato nessuna continuità nella società che ci circondava e
politicamente non siamo riusciti a gestire la situazione».
La Kabul Film viene fatta chiudere d’autorità e mentre si
trovano in Italia, per presentare i loro cortometraggi a un
festival trentino, una telefonata di amici li avverte di non
rientrare: non sarebbero sopravissuti.
ancora vivi
«Stavamo lavorando a un documentario sulla produzione
dell’oppio, racconta Soheila, e a un altro sulle numerose
giornaliste uccise in Afganistan negli ultimi anni. Due
argomenti tabù. Avevamo portato le nostre telecamere nei
territori controllati dal governo, in quelli controllati dalle mafie
e in quelli controllati dai talebani. Svelavamo le connessioni
nascoste e ci siamo ritrovati a essere scomodi per tutti , così
ci hanno fatto fuori».
Quello che rimane sono ore e ore di immagini inedite, ancora
da montare, di un Afghanistan segreto e mai mostrato sugli
schermi.
Rimasti a Trento e ottenuto l’asilo politico Razi e Soheila,
continuano a filmare.Nasce così una trilogia di Razi: il corto
Carceri, il medio Reame del Nulla e il lungo Gridami che
sono una riflessione disperata sull’esilio. Una trilogia che
grida forte al mondo il loro voler essere afgani. Non sono
reportages adrenalinici. Sono immagini “persiane” dell’Italia,
racconti afghani sull’immigrazione, sequenze liriche che
gridano poeticamente un diritto che è negato.
«Potremmo mangiare e avere una casa facendo altri lavori,
ma così non potremmo essere vivi mentalmente, dice Soheila,
questo significa il cinema per noi: essere ancora vivi».
musiques et cultures dans le monde
AAVV
MIX
MON DO ma
Mi a
The Rough Guide to
the music of Afghanistan
doppio cd
World Music Network / Egea
Una grande occasione per il pubblico italiano che
con questa raccolta The Rough Guide to the music of
Afghanistan ha la possibilità di avvicinarsi alla ricchezza
musicale e culturale di un paese e di un popolo che sta
soffrendo da più di trenta anni guerre decise da altri e
dove musica e arti hanno subito persecuzioni tali da
riuscire in sole tre decadi a falciare secoli di storia e
di tradizioni musicali. Situato al crocevia fra l’Impero
Persiano, l’India e l’Asia Centrale, l’Afghanistan ha
storicamente assorbito la fusione di queste influenze
arrivando a creare quella propria identità culturale che
faticosamente è riuscita a sopravvivere nonostante gli
attacchi dei suoi persecutori. Questi trenta anni di musica
sono raccontati dal primo disco che apre con un brano
pop di Setara Hussainzada.Tanto per ricordarci che il
bourqua è solo una realtà relativamente recente, la voce
di una donna che interpreta una canzonetta è seguita
dalla voce di un’altra donna, Farida Mahwash, che
esegue una meravigliosa melodia sufi. Per mancanza
di spazio è impossibile raccontare nel dettaglio ognuna
di queste proposte fra le quali si annoverano voci,
strumenti e sonorità diverse proprie di questa terra e
che da qui si sono diramate in varie parti del mondo.
Proprio come il contenuto del bonus cd, del Ahmad
Sham Sufi Qawwali, il genere musicale religioso nato in
terra afgana ed oggi diffuso in Pakistan e nell’India del
Nord, che peraltro ha vissuto un momento di popolarità
internazionale attraverso la figura e l’indimenticabile
voce del compianto Nusrat Fateh Ali Khan.
Elisabetta Sermenghi
09 AUTUNNO 2010
32 33
Zanzibar
Mondomix.com //3 6 0 °
Il mio nome è taarab
di Emanuele Enria
Ed è proprio nel club Ikhwani che viene fondata la prima
orchestra, che andrà man mano ingrandendosi dietro
l’influsso esercitato dai film egiziani e indiani che si
potevano vedere anche a Zanzibar, in cui comparivano
grandi orchestre. Questo spiega anche il perché si ritrovino
strumenti come la tabla e l’harmonium indiano: le concezioni
ritmiche e la sensibilità vocale africana fanno eco agli
strumenti del mondo arabo, d’Asia o d’Europa.
Seduzione
Uno dei momenti più belli del Festival des Musiques sacrées
du Monde, tenutosi nella prima settimana di giugno 2010
a Fez, è stata la presenza del Rajab Suleiman Qanum Trio
insieme alla voce di Shakila Saidi, una delle grandi figure del
taarab di Zanzibar.
E dire Zanzibar, in un luogo già così suggestivo come è Fez,
ha significato viaggiare ancora di più verso l’immaginario
che questa parola e quest’ isola sanno evocare, ovvero un
crogiuolo di scambi tra mondo arabo, persiano, Asia, Africa
che la musica del taarab, nel suo nascere, ha amalgamato
come una rete da pesca gettata nelle acque dell’Oceano
Indiano.
Grande è il merito di Werner Graebner, produttore delle
musiche del Trio, nell’aver portato avanti in questi anni
una costante attività di concerti e pubblicazioni per far
conoscere questo genere, ad esempio nella collana di cd
dal titolo Zanzibara.
storia
Storicamente, le prime registrazioni di taarab datano 1928,
quando alcuni rappresentanti dell’allora nascente HMV
inviarono un gruppo di musicisti di Zanzibar a registrare i
loro pezzi in uno studio di Bombay: facevano parte della
spedizione alcuni nomi storici come Maalim Shaaban,
Budda Swedi e Mbaruk Talsam, a cui si aggiunse poi,
in una seconda sessione, quella che è considerata la
più celebre voce femminile del taarab, Siti bin Saad.
Ne seguirono altre, da parte di nomi come la canadese
Columbia e la tedesca Odeon che, nell’insieme, andranno
a costituire l’archivio della prima fase in cui si suonava il
taarab, svelandone quella sua caratteristica assimilazione
di musiche orientali, egiziane, indiane e swahili. In fondo,
traducono nella musica ciò che Zanzibar è stata nei secoli,
la porta d’entrata di tutta l’Africa orientale.
Molto di quel che sappiamo sulle origini del taarab lo
conosciamo grazie alle memorie di Shaib Abeid, uno dei
fondatori di quello che è ancora oggi il club storico di
Zanzibar, l’Ikhwani Safaa Musical Club (letteralmente: fratelli
che si amano l’un l’altro), fondato nel 1905. È lui ad attribuire
al taarab un’origine egiziana, insistendo su un fatto storico:
sembra infatti che nel 1870 il sultano Seyyid Barghash bin
Said abbia mandato un suo suddito al Cairo a imparare a
suonare il qanum per poi goderne i frutti nel suo palazzo.
Era l’epoca in cui i sultani eccellevano nei divertimenti a
corte, per i quali erano disposti a far venire fanfare turche,
orchestre dall’India e ogni genere di esotismo.
09 AUTUNNO 2010
Il taarab, come lo definiscono i suoi interpreti, è una
musica nata per sedurre l’orecchio dell’ascoltatore e per
farlo meditare sul mondo, l’amore o le numerose cose
che arrivano nella vita. È una musica introspettiva, come
lo mostra il significato originale della radice araba tariba,
“essere commosso o sedotto” dal suono di uno strumento
o da una voce, suonando della musica o ascoltandola.
Con questo, la pratica del taarab swahili ha aggiunto delle
nuove dimensioni a questa definizione. La sua poesia,
infatti, che rispettava una volta le regole della prosodia
araba, si esprime in maniera sempre più libera, descrive le
vicissitudini e le gioie del quotidiano ed evoca altrettanto
bene l’amore sacro come l’amor profano, per dirla alla
de André. Così, al sillabare stridulo e dolce della voce
accompagnata dalle percussioni, (il dumbak, la tabla e la
rika, legate ai ritmi dell ngoma, una danza rituale di tutta
la Tanzania) si gode anche del suono nitido dell’oud e del
qanum, lo strumento cordofono a 72 corde della tradizione
classica araba, insieme al giapponese taishokoto, una sorta
di banjo passato attraverso l’India e divenuto strumento
principe nei taarab dell’isola di Mombasa.
Ascoltando la voce di Shakila Saidi insieme al Rajab
Suleiman Qanum Trio (nella primavera 2011 uscirà la loro
prima registrazione insieme), sembra di sentire ancora
vibrare nelle corde l’essenza stessa del taarab, una musica
profumata di viaggio, quasi i suoi stessi strumenti fossero
spezie.
Gli Album
Culture Musical Club, Shime!
WorldVillage / Ducale
Zanzibara 1
Buda / Felmay
Zanzibara 2
Buda / Felmay
Dove Sauti za Busara Music Festival di Zanzibar
Quando 9-13 febbraio 2011
Online www.busaramusic.org/festivals/2011/index.php
09 AUTUNNO 2010
34 Festival
au
Desert
Presenze d’Africa
African Brothers
di Elisabetta Sermenghi
di Mauro Zanda
A 4 0 a n n i d a l l a v i s i t a a L a g o s d e i J B ’s , r e t r o s c e n a e
aneddoti sull’incontro tra due rivoluzionari del ritmo…
separati alla nascita.
Se è vero che c’è un’Europa che ancora stenta a definire
i propri confini, a trovare territori e intenti comuni su cui
costruire la propria identità e un futuro possibile, è altresì
innegabile che esiste anche un’Europa che superando
confini e barriere culturali punta invece sull’incontro fra le
culture e promuove scambi, ben consapevole dell’enorme
ricchezza che da ciò può derivare.
il programma
firenze
A Firenze, nel cuore dell’Italia e nello splendido scenario
del Parco delle Cascine, riconsegnato all’uso collettivo
della cittadinanza dopo quasi un decennio di chiusura e di
degrado, si è tenuta dall’8 al 10 luglio scorso sotto il nome
di Festival au Desert / Presenze d’Africa, una manifestazione
in gemellaggio con il festival Tuareg originale che si tiene
in Mali, nel mese di gennaio, da ben 10 anni. Si respira
aria dal deserto nel caldo torrido dell’estate fiorentina, un
odore d’ Africa che sembra aleggiare, curiosamente senza
stridere, sul grande prato d’erba verdissima che ospita la
manifestazione dove è stata allestita una tenda Tuareg,
diventata un po’ il simbolo di questo evento. Voluto e
pensato in primis dalla Fondazione Fabbrica Europa
(organizzazione attiva sul territorio fiorentino soprattutto
per quanto concerne arte, teatro e danza contemporanei),
nelle persone di Maurizia Settembri e di Lorenzo Pallini,
i quali, seguendo un percorso artistico che affonda le
proprie radici in alcune fra le manifestazioni da loro curate
in passato, hanno deciso di imbarcarsi nella non facile
operazione di creare un evento italiano da gemellare con
quello già esistente in Mali. Fondamentali in questa scelta
la vissuta partecipazione di Maurizia, in veste di spettatrice,
alla decima edizione del Festival au Desert e l’incontro con
il direttore Manny Ansar con il quale è partita quest’idea di
collaborazione. Questa stessa formula musicale verrà infatti
riproposta a Timbuctu nell’edizione del gennaio 2011.
35
Lagos
Mondomix.com / 360°
L’intento è quello di creare una magnifica occasione di
incontro e uno scambio fra artisti italiani e non solo (fra i
partecipanti anche il tastierista francese Jean Philippe
Rykiel e l’afroamericano batterista Hamid Drake) con
alcuni musicisti africani residenti in Italia da diversi anni e
che da noi hanno trovato una nuova dimensione artistica
(fra i quali Badara Seck e Gabin Dabiré) alternandosi sul
palco con gruppi e artisti venuti per l’occasione dal Mali
come gli ipnotici Amanar, gruppo rivelazione dell’ultima
edizione del Festival. Durante la tre giorni africana, sotto le
tende montate sul grande prato verde si sono avvicendati
mercatini, conferenze, letture, performance vocali, musicali
e sciamanico - coreografiche a partire dal tramonto sino al
calar della notte lasciando infine spazio al concerto che ogni
sera si teneva sul grande palco dello splendido anfiteatro.
Concerto che nella prima sera è stato una sferzata di energia
allo stato puro convogliata sul palco principalmente da
Badara Seck, accompagnato dal suo ensemble e arricchito
dalle performance acrobatiche dei ballerini al seguito. La
seconda serata ha visto come principale star il gruppo
tuareg Amanar, dal Mali, che con le loro chitarre dal blues
ipnotico di netta derivazione Tinariwen hanno trasportato il
pubblico fra le dune del Sahara. Nella terza serata infine ha
primeggiato l’abile e attesissimo Vieux Farka Toure, figlio
del compianto Ali Farka, il cui travolgente blues abbraccia
più volentieri il rock alla Hendrix che la sabbia del deserto.
Durante tutte e tre le serate sul palco si sono poi avvicendati
moltissimi musicisti, anche italiani, che hanno duettato a
fasi alterne gli uni con gli altri, con esiti non sempre brillanti.
Spesso si è trattato più di una fusion di stampo jazzistico
che dell’incontro fra culture popolari. Lo stesso si può dire
per lo spettacolo collettivo con più di trenta artisti sul palco,
che ha chiuso la rassegna.
Si è trattato di una prima edizione e l’augurio è che questa
esperienza, il cui bilancio chiude sicuramente in positivo, sia
stata solo l’apripista per un evento che sappia consolidarsi
nel corso del tempo e raccogliere idee e iniziative da tutto il
territorio italiano che già da tempo dialoga con l’Africa.
Lagos, dicembre 1970. Il padrino del soul ha appena
licenziato alcuni storici membri della sua band, rei d’aver
osato chiedere un aumento di stipendio proprio a lui, il più
infaticabile lavoratore dello show business. Con la risolutezza
di sempre, Mr. Brown decide d’arruolare alcuni ragazzini
terribili, in primis il formidabile ‘Bootsy’ Collins, bassista
allora appena diciassettenne. Sarà un cambio di marcia
pazzesco per il gruppo, in quel momento considerato a
ragione la cosa funk più potente del globo… peccato solo
che i nostri non avevano ancora fatto i conti coi misteriosi
Afrika 70, la band di questo musicista nigeriano di cui già
allora cominciavano a girare aneddoti in odor di leggenda.
È lo stesso Bootsy a ricordare al giornalista Jay Babcock
come andarono esattamente le cose: «Non appena
arrivammo a Lagos cominciarono tutti a parlarci di Fela, il
James Brown africano, THE Man. Fu così che ogni sera,
dopo i nostri concerti, ci recammo nel suo locale, l’AfroSpot. Eravamo più o meno tutti, tranne James.» Assenza
che Collins inscrive con sarcasmo nei domini dell’ego:
«Probabilmente non voleva vedere nessun altro sul palco
all’infuori di se stesso.» Bootsy ricorda l’esperienza in
maniera nitida, e il suo racconto somiglia a tratti ad una vera
e propria epifania: «Ci portarono nel camerino. La band già
suonava, ma Fela stette un po’ a fumare con noi. Ci furono
subito delle grandi vibrazioni, poi salì sul palco… e allora fu
semplicemente sconvolgente! Pensavo che i JB’s, prima
ancora di farne parte, fossero i numeri uno, ma vedere loro
dal vivo fu un’esperienza senza precedenti. È difficile da
spiegare, si trattava dello stesso non-stop groove di James
Brown, solo portato in un’altra dimensione, più profonda.»
Guardando a quel periodo, col senno di poi, è facile
individuare tra i due un forte orizzonte comune; che per
entrambi partiva dal ritmo e sconfinava nella filosofia pura:
«L’accento sulla prima battuta non fu semplicemente un
nuovo ritmo» racconta Brown nella sua autobiografia, «fu
un’affermazione della nostra razza, della nostra statura, del
nostro avanzare… Non c’era in gioco la musica, c’era in
gioco la vita.» Rigore neo-primitivo e purezza mantrica, il
ritmo come liberazione e catarsi. La loro influenza reciproca
d’altronde appare difficile da sminuire. Sappiamo con
certezza che Fela trovò la sua identità africana proprio in
un soggiorno USA del 1969, folgorato dall’autobiografia di
Malcolm X, ma anche da un pezzo-detonatore come Say It
Loud, I’m Black and I’m Proud. Anche da un punto di vista
strettamente strutturale, la rivoluzione apportata da Mr.
Dynamyte alla musica soul nella seconda metà degli anni
‘60 (riduzione all’osso degli arrangiamenti e ‘trasfromazione’
di ogni singolo strumento in elemento percussivo) funzionò
innegabilmente da stella polare per Fela Kuti e un’altra
miriade di musicisti. A ben guardare però, lo stesso Brown
sembrò aver metabolizzato quel viaggio molto più di quanto
non avrebbe mai ammesso. Il batterista Tony Allen racconta
che durante quelle notti all’Afro-Spot, David Matthews,
l’arrangiatore dei JB’s, si posizionò davanti a lui con un bloc
notes, nel disperato tentativo di trascrivere i suoi tentacolari
movimenti di gambe e braccia. Michael Veal in Fela va
oltre, e suggerisce un raffronto tra le versioni studio e live di
alcuni brani (Mother Popcorn, Super Bad, Brother Rapp…)
registrati dal padrino a cavallo tra il ‘70 e il ‘71; nelle versioni
live, successive, la conclamata foga ritmica d’improvviso
lascia spazio ad un groove inconsueto, più morbido; un
groove che, come l’afrobeat, cuoceva il ritmo a fuoco lento.
Inesorabile. Dagli Antibalas alla Budos Band, passando
per i Daktaris, sono innumerevoli d’altonde le formazioni
di moderno afrobeat che hanno utilizzato brani di James
Brown riarrangiandoli nello stile di Fela. Perché l’incesto
appare obbligato agli addetti di entrambi i culti.
Ginger Baker, amico di Fela dai tempi degli studi londinesi
e testimone diretto dei suoi gloriosi giorni a Lagos, sostiene
che i due gruppi una volta suonarono addirittura nella
stessa occasione. Ci piace pensare ad un disseppellimento
postumo, audio o video non importa. Sarebbe il giusto
ricongiungimento tra due grandi spiriti affini, gemelli del
ritmo separati alla nascita da un oceano sconfinato e la
tragedia del Middle Passage.
Dove Mali
Quando 6-8 gennaio 2011
Online www.festival-au-desert.org
09 AUTUNNO 2010
09 AUTUNNO 2010
36 ispirazione. E mi sembra ironico che, di tutta la tua ricerca
di un equilibrio di identità, venga premiato il lavoro che uno
potrebbe pensare come il più univoco.
La ricetta dell’equilibrio
di Luca Vergano
illustrazioni Cristina Amodeo
Ma non lo è affatto! Non è un disco di radici. È la celebrazione
della loro complessità e ricchezza, in barba ai puristi. Per
questo sono ancora più orgogliosa del risultato.
Il ristorante di cucina ayurvedica è un rifugio di silenzio che stupisce, nel centro del traffico romano.
Evoca la spiritualità dell'India a due passi da Piazza Del Gesù, sede storica della DC e della sua
religione da elezioni. Che se uno volesse trovare dei segni a tutti i costi, questo sarebbe il primo,
perché tutto questo incontro, alla fine, si rivela un esercizio di equilibrio.
Saba è perennemente in bilico tra
ingredienti all’apparenza inconciliabili.
Ha recitato nella fiction La Squadra
ma ha lavorato per la Manifesto Libri.
Sul palco è colorata come Fela Kuti,
ma quando la incontro è austera come
Naomi Klein. Esplora la sua parte
africana ma cucina pasta e risotti,
perché non riesce a venire a patti con
le sue tradizioni gastronomiche.
Ok. The Street Foodie non vuole certo il posto di Woodward
e Bernstein. Però è interessante questo, perché molti sono
convinti che Jidka sia la tua prima esperienza discografica.
Beh lo è nel senso che è il punto di equilibrio, è il primo
lavoro in cui mi sono esposta in prima persona, il primo in
cui mi riconosco parecchio.
È minuta, ma cammina con passi
lunghi due metri, facendo spostare
i turisti che ingolfano la strada senza
sfiorarli. E appena ci sediamo a tavola
mi racconta di come sia stato difficile
il mese e mezzo passato in Etiopia per
registrare il nuovo disco.
L’arrivo dei piatti interrompe la discussione. Ma anche il
cibo si rivela una questione di equilibri, quasi a non volersi
distinguere dal resto di questo incontro.
Non conoscevo la cucina ayurvedica, mi sorprende per le
sue sfumature. È rarefatta, dilatata, come l'atmosfera di
questo posto. I gusti forti delle spezie sembrano essere stati
distillati. L'India è una presenza discreta, come un cameriere
attento alle tue richieste ma che non ti chiede ogni tre
minuti se va tutto bene. Mentre iniziamo a mangiare, penso
all’accoglienza riservata al suo disco.
Non riesco proprio a digerire la
maggior parte dei piatti tradizionali.
Non so cosa sia, forse ho passato
troppo tempo altrove e non ho più gli
enzimi per assimilare certe cose, ma
non ce la faccio. E pensare che mia
sorella adora mangiare quelle ricette.
È un peccato, perché ovviamente la
sento proprio come una parte che
manca.
Bisogna averne la forza senz'altro. Ma bisogna averne anche
l'energia, ché non è mica facile tenere vive tutte queste
anime, no? Uno torna a casa alla sera e rischia sempre di
averne lasciato un pezzo da qualche parte. Anche questa è
una questione di digestione, in un certo senso.
Sono bene allenata perché è dai tempi dell'Università che
mi nutro di ingredienti che sembrano fare a pugni. Davo gli
esami, poi saltavo sull'aereo per andare in Francia, dove un
singolo di dance sul quale avevo cantato aveva avuto un
09 AUTUNNO 2010
Raggiungere il punto di equilibrio però non significa aver
raggiunto la meta. C'è sempre modo di rimescolare le
dosi. E siccome la sua eredità africana materna fa i conti
quotidianamente con il lascito coloniale del padre, Saba ha
deciso di non lasciare inesplorato neanche quel conflitto.
Diciamo che ho trovato un’ennesima lente attraverso cui
cercare di leggere una parte della mia storia. Sto lavorando
con un amico a un progetto teatrale che dovrebbe andare in
scena tra poco. Su Italo Balbo.
Lo so, questo dettaglio è un po'
imbarazzante per me che indago così
sulle mie origini dice ridendo.
Saba aveva cinque anni quando è
arrivata in Italia dalla Mogadishu
caduta in mano a Siad Barre. E dopo
qualche anno pubblica Jidka, il suo
primo disco. Jidka è la linea, in somalo,
la linea che separa i diversi, quelli che
si uniscono in matrimonio contro tutti,
come i miei genitori, la linea che divide
l'Etiopia dalla Somalia, a causa della
quale ci sono ancora oggi problemi di
confine. È la linea su cui nascono le
paure e che bisogna avere la forza di
attraversare spiegava in un’intervista, qualche tempo fa.
37
The Street Foodie
Mondomix.com
Ovviamente, le dico, siccome tu ti ci riconosci in pieno,
altri fanno fatica a catalogarlo. Certi suoni sono troppo
patinati per quelli che world music è solo se la registrazione
è stata effettuata nel deserto, senza luce e bevendo dalle
pozzanghere con la cannuccia depurante. E chi ama
Rihanna forse viene disorientato dal suono del masinko (una
specie di violino a una corda) e certe consonanti gutturali
della lingua amarica.
È un po' come questa zuppa che ci è appena arrivata. Non
ha un gusto indiano per uno nato a Delhi ma non è cucina
italiana per chi vive qui. È una sintesi di qualcosa che è
diventato qualcos'altro. È la mia idea di World Music. La
musica somala e quella etiope sono parte della storia della
mia famiglia. Ma io, che sono cresciuta in Italia negli anni 80,
come faccio a non portarmi dietro anche il pop elettronico?
certo successo, facevo le mie serate e poi tornavo ad essere
una studentessa qualsiasi.
Un singolo dance?
Saba ride. In realtà più di uno, ma è un pezzo della mia vita
che tendo a non raccontare. Perché già all'epoca sapevo
che non era quello che volevo essere. Mi serviva per pagarmi
l'università ma a livello artistico sapevo che anni dopo non
mi avrebbe rappresentato. Ma non ti dirò mai sotto quale
nome ho registrato queste cose.
Sorrido, ripensando ad un disco intitolato Zambian Hits
Of The 80s. Un ping pong straordinario: i pezzi avevano le
classiche melodie quasi caraibiche dell’Africa Occidentale,
ma era come se fossero stati arrangiati dai Depeche Mode.
Era chiaro che nello Zambia avessero sentito quello che
andava in Europa e che volessero farne parte. Ma Zambian
Hits è considerato un disco di world music tout-court, pur
con quegli elementi estranei.
Comunque alla fine la tua ricetta di sintesi è stata premiata.
Il tuo secondo lavoro, Biyo, a ottobre è entrato nella Top
20 della European Chart Of World Music. Registrato nei
tuoi luoghi d'origine, con musicisti locali. Un disco più
tradizionale, se non altro in termini di assorbimento di
Il governatore della Libia coloniale, solo. Il cuore della
questione.
Io incarnerò l'Africa Coloniale, e quindi volevo che le
mie intenzioni e il mio ruolo fossero molto chiari e poco
fraintendibili. Ma siccome il mio amico aveva delle idee
diverse dalle mie, abbiamo dovuto discutere a lungo per
arrivare ad un risultato che soddisfacesse entrambi. Lo
definirei un altro grande lavoro di equilibrio.
Saba deve andare, ha un aereo da prendere. Sta per partire
per Torino, dove si esibirà a Terra Madre. Ci salutiamo
col rumore di Roma che è un assalto fisico dopo il tempo
passato nel ristorante.
Mentre torno verso casa penso a come mi senta stranamente
sazio, pur avendo avuto la sensazione di mangiare qualcosa
di quasi impalpabile. Forse il trucco della sintesi sta tutto
lì. Riuscire ad evitare la gravità di origini diverse senza
perderne la forza. E questa conclusione da psicologo di talk
show mi soddisfa abbastanza per smettere di filosofeggiare.
E realizzare ancora una cosa.
Sono riuscito a incontrare Saba per un pelo, e soprattutto
grazie alla sua disponibilità. Non è sempre facile riuscirci,
però c'è il suo sito (sabaanglana.com) che ha un sacco di
materiale per conoscerla meglio.
Il ristorante ayurvedico in cui abbiamo mangiato si chiama
Bibliothé (bibliothe.blogspot.com) ed è in Via Celsa 4/5,
dietro Piazza Del Gesù a Roma.
Cosa The Street Foodie è un progetto di Luca Vergano e
Cristina Amodeo. Luca scrive e Cristina illustra.
Online www.thestreetfoodie.com
Chi Saba suona, scrive, viaggia, recita. Due suoi reportage
sull’Ethiopia sono stati pubblicati sui numero 06 e 08.
A suo nome ha pubblicato due CD
Jidka – Riverboat / Egea
Biyo – Egea (recensito su Mondomix n. 07)
Dove Siamo a Roma, ma Saba suonerà a Torino nel mezzo
di Terra Madre manifestazione legata al cibo. Proprio dove
The Street Foodie ha le sue radici. Voilà, l’ultimo equilibrio
di oggi.
09 AUTUNNO 2010
38 Recensioni
Samy Izy
Tsara Madagasikara
Network Medien / Evolution
musiques et cultures dans le monde
Asa
MIX
MON DO ma
Mi a
Beautiful Imperfection
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
musiques et cultures dans le monde
Lobi Traoré
MIX
MON DO ma
Mi a
Cheikh Lô
Rainy Season Blues
Jamm
Glitterhouse / Venus
World Circuit / IRD
Era il 1995 e Lobi Traoré aveva trentaquattro anni
quando Bamako lo faceva conoscere fuori dal Mali.
Naturalmente contava tanto, come raccomandazione,
che la produzione fosse di un Ali Farka Touré a un
apice di visibilità dopo la collaborazione l’anno prima
con Ry Cooder. Però l’album brillava di luce propria, e
a tratti abbagliante, nessuno si sarebbe stupito di una
rapida ascesa allo stardom del chitarrista e casomai
sorprendeva che altri tre ottimi lavori non ne facessero
lievitare la fama più di tanto. Giungerà in soccorso nel
2005 un secondo sponsor illustre, Damon Albarn dei
Blur, per la cui etichetta Honest Jon’s (e di conseguenza
per EMI) vedeva la luce l’elettrico ed elettrizzante
Lobi Traoré Group. L’ultima rockstar, sebbene piccola
confronto ad Albarn, a innamorarsi del nostro sfortunato
eroe era Chris Eckman dei Walkabouts. Lui a registrare
in loco questo disco in cui, accompagnandosi da solo
alla chitarra, più che mai Lobi Traoré sembra un John
Lee Hooker d’Africa. Non è arrivato a invecchiare come
certi bluesman, visto che senza preavviso un infarto
ce l’ha portato via lo scorso 1° giugno. È una perdita
che Rainy Season Blues contribuisce forse più di tutti i
predecessori a fare incommensurabile.
Eddy Cilìa
Arricchite da una nascita in Burkina Faso e da
un’esistenza in Senegal, le trecce di Cheikh Lô
continuano a ondeggiare e a produrre suoni accattivanti.
L’impeccabile produzione World Circuit mette in risalto
un mazzo di brani variato nello stile ma coeso nel risultato
finale. Dieuf Dieuf è il tipico ritmo mbalax che va di fretta,
però in generale Jamm mostra una velocità ridotta, quasi
downtempo in molti tratti. La voce appuntita di Cheikh
ha così modo di esprimersi al meglio, diversificando gli
strumenti linguistici (dal jula al wolof, dal francese allo
spagnolo) e modulando un canto che risulta di grande
attrattiva anche per chi non è particolarmente attento ai
destini della musica africana. In Jamm e Senyi vengono
fuori i sentori dell’eredità cubana importata negli
anni Cinquanta-Sessanta, mentre Warico e Sankara
intervengono su questioni socio-politiche rilevanti (il
degrado consumista, la corruzione senza freni). La
formazione che circonda il leader tiene il passo in modo
ineccepibile e le incursioni di Tony Allen e ancor più di
Pee Wee Ellis al sax non sono semplici ospitate.
Piercarlo Poggio
Vieux Farka Touré
Live
Six Degrees / Family Affair
La confezione economica e il ricordo di un recente concerto alla Boule Noire mi avevano indotto a
credere di aver capito qualcosa di questo disco. Errore. Contando su un’ottima qualità di registrazione
in presa diretta, le versioni di questi nove pezzi registrati negli Stati Uniti nel settembre 2009 e in Australia all’inizio del 2010,
offrono una rimarchevole prospettiva della musica di Vieux Farka Toure il quale continua ad affermare la singolarità della sua
voce nonostante la pesante eredità paterna. Affiancato da una sezione ritmica rock (basso, batteria, chitarra e percussioni)
Vieux sprigiona una carica di energia che pur partendo da un blues di stampo rock si trasforma nei virtuosismi malinconici
e misteriosi propri di Ali Farka. La rilettura di Walaïdu ne è un esempio calzante con la chitarra slide di Jeff Lang al posto
di quella di Ry Cooder. Anche le sue composizioni originali sono altrettanto pregevoli. Fino ad oggi non erano mai stati
registrati album live importanti nella musica maliana, questo dovrebbe aprire la strada agli altri.
Bertrand Bouard,
09 AUTUNNO 2010
39
AFRICA
Mondomix.com / RECENSIONI
Naive / Edel
«Il mondo ha tante imperfezioni e in un certo modo è forse
questo che lo rende bellissimo. Accettarne l’imperfezione
costituisce per noi tutti uno stimolo a creare un luogo
migliore».
Con queste poche parole Asa riassume il senso del
suo nuovo disco Beautiful Imperfection. Nata a Parigi
ma cresciuta a Lagos, in Nigeria, nella gremita capitale
di un paese travolto da mille contraddizioni spesso in
violento conflitto fra loro, Asa e il suo afro-funky- popsoul spesso cantato in yoruba e dal suono anni settanta
(chiari i riferimenti a Marvin Gaye, Bob Marley, Lauryn
Hill) sono presto diventati il simbolo di un paese e della
sua incredibile energia di cui a noi purtroppo nulla o quasi
arriva. Dopo il felice esordio inizio anni 2000, con l’album
omonimo uscito nel 2007, Asa è arrivata a scalare le
classifiche di mezza Europa, cosa che le ha permesso
di essere conosciuta ed apprezzata anche da noi. Oggi
si ripresenta con un nuovo disco forse molto pop ma
di ottima fattura: piacevole e di innegabile freschezza.
Adatto ad animare le fredde serate invernali.
Elisabetta Sermenghi
Puoi scaricare gratuitamente il PDF di
Mondomix Italia dal sito
www.mondomix.com
Kasbah Rockers
with Bill Laswell
Barraka El Farnatshi / Evolution
Dalla mente ibrida di Pat Jabbar,
pioniere del suono elettro arabo con gli
Aisha Kandisha’a Jarring Effects e con questa combattiva
etichetta svizzero marocchina, nasce questo supergruppo
che pesca dalle assortite realtà della scuderia, spaziando
da Youssef El Mejjad dei pluridecorati Amira Saqati ai
rapper della crew di radici turche Makale. Ospite d’onore
è un Bill Laswell sempre attento al dialogo Nord Sud, che
con umiltà e tocco inconfondibile si mette al servizio della
truppa multicolore. Progetto è in questo caso definizione
inattaccabile: il viaggio è coerente, può avere in una
Bred Atay sospesa tra archi e rap, nell’impegno politico
di Falludjah Car o nell’ipnosi dub del manifesto Kasbah
Rockers i suoi picchi, ma l’equilibrio tra Maghreb, house,
trip hop, raï e rap è sempre perfetto.
Paolo Ferrari
Samolea Andriamalalaharijaona, meglio
noto come Samy, è uno dei migliori
interpreti della musica tradizionale del Madagascar, con alle
spalle una trentennale carriera all’insegna della riscoperta
delle tante tradizioni musicali dell’Isola Rossa. Tsara
Madagasikara è un album che raccoglie attorno a papà
Samy un gran numero di giovani talenti malgasci, primi fra
tutti i vocalist Bosco e Amizou. Lo straordinario numero di
strumenti impiegati, dal liuto, alla kora ai flauti tradizionali
non è il frutto di un esercizio eclettico dell’autore bensì
dell’esplorazione in lungo e in largo della vastissima ricchezza
musicale che contraddistingue l’isola. Basti pensare che
in 1500 anni di storia diciotto diverse popolazioni vi si
sono insediate portando con sè usi e costumi. La giovane
orchestra di Samy ci offre un disco capace di riconciliare il
passato e il futuro di un’isola tutta da scoprire.
David Valderrama
Daara J Family
School Of Life
Wrasse / Evolution
Ci sono dischi che mentre ti portano in
Paradiso già ti consegnano il biglietto
per l’Inferno. È stato il caso di Boomerang, il terzo e
più ambizioso nella carriera dei rapper di Dakar: ospiti
come Rokia Traoré, China e Sergent Garcia, il successo
internazionale, l’Award in sezione Africa di BBC 3 nel 2004.
Poi la crisi, l’abbandono di Aladji e la ripartenza di Ndongo
D e Faada Freddy come Daara J Family nel 2007. Questa
è dunque la prima prova del nuovo corso. Undici tracce
discontinue, in cui impennate come il reggae Anni Settanta
di Children, la splendida apertura afro country di Bayi
Yon, il crossover di School Of Life, la vena ragga griotica
di Tomorrow si alternano a passaggi meno convincenti, a
partire dal party un po’ squinternato di Celebrate e dalla
disco generica di Potu Nda.
Paolo Ferrari
Bola Johnson
Man No Die
VampiSoul / Goodfellas
L’afrobeat ha avuto il suo re in Fela Kuti,
la juju in King Sunny Adé, la highlife
in Victor Olaiya. E Bola Johnson? Nessuno lo aveva mai
sentito nominare fuori dalla Nigeria fintanto che VampiSoul
non ha allestito questa raccolta doppia. A dire il vero,
anche a Lagos e dintorni in pochissimi devono conservare
memoria (e non solo perché da quelle parti la terza età
non è un problema, il problema è arrivarci alla terza età) di
questo oggi sessantatreenne che pubblicava i primi singoli
quando di anni non ne aveva che diciassette e già intorno
ai ventitre-ventiquattro era scomparso dai radar. Pensatelo
come un rimarchevole incrocio fra i tre nomi citati all’inizio.
Una domanda sorge spontanea: ma se materiale di questo
valore era andato perso di quante altre mirabilie siamo
all’oscuro?
Eddy Cilìa
09 AUTUNNO 2010
40 FELMAY
41
AMERICHE
Mondomix.com / RECENSIONI
Quinteto Porteño
TRADIZIONE&INNOVAZIONE
Desiderata
Per un Natale Popolare
Alfa Music / Egea
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Roberto Fonseca
Live In Marciac
Enja / Egea
Roberto Fonseca oggi ha trentacinque anni. Ne aveva
quindici quando teneva il primo concerto importante,
a un festival jazz nella sua città natale, L’Havana.
Qualche centinaio o più probabilmente migliaio (oltre
quattrocento solo quelli da accompagnatore di Ibrahim
Ferrer) di spettacoli dopo, pubblica il primo live da
leader (monumentale: CD + DVD) avendo scelto per
registrarlo un altro festival, francese, e un’esibizione del
2009. Si astengano quanti del nostro uomo conoscono
solo le diverse collaborazioni con il giro del Buena
Vista Social Club e da lui quello si aspettano. Qui si
dispensa, evidenziando il solito virtuosismo e alla testa
di un quintetto parimenti dotato tecnicamente, jazz
spumeggiante quanto aguzzo, sofisticato ed espanso.
Cuba un colore che si intravvede qui e là nell’ordito.
Eddy Cilìa
Lars-Ante Kuhmunen Chief
Dancing Thunder
Spiridon Shishigin
Quando il Quinteto Porteño nacque,
nel 2006, inizialmente si prefiggeva
lo scopo di esplorare e riproporre il
mondo e la musica di Astor Piazzolla. Il loro primo lavoro
discografico Decarisimo (2008) era infatti un omaggio
all’opera del grande Astor e ottenne un buon consenso
di critica e di pubblico. Sostenuto da tale successo, il
quintetto abruzzese ci propone oggi, con Desiderata, una
serie di brani inediti, da loro appositamente composti,
quali espressione della raggiunta maturità. Il rigore che
pervade il suono e la particolare solennità di alcune delle
parti cantate conferiscono a questo lavoro una dimensione
profondamente personale nel panorama milonguero
italiano ed internazionale.
Elisabetta Sermenghi
Los de abajo
Actitud Calle
Wrasse Records / Evolution
Anche se nati nel 1992 i messicani Los
de abajo non hanno perso freschezza
ed entusiasmo all’ora di pubblicare il loro nuovo album:
Actitud Calle. Uno Ska misto a ritmi latini e ricco di graffianti
testi che infilano il dito nella piaga dei tanti problemi
irrisolti del Messico dei giorni nostri. Non mancano temi
più sentimentali e leggeri che bene si accompagnano con
son e rumbe ben orchestrate. Ma il filo conduttore è una
musica popolare che nasce dal basso, dal ventre della
società che preme e si scaglia contro le élite che stanno
in alto e che schiacciano le speranze di emancipazione dei
tanti diseredati del nostro tempo.
David Valderrama
Rhythms of the Tundra
Arc / Evolution
Un viaggio musicale nei suoni e nei canti del grande Nord,
nelle terre sub-polari dove il vento gelido spira su spazi
infinitamente aperti. Tra licheni e vegetazioni sempre più
rade, protette dal lunghissimo inverno, le popolazioni
tribali hanno potuto sopravvivere per moltissimo tempo
dedicandosi alla caccia e alla pesca. Queste terre sono
state a lungo ignorate dall’uomo che solo negli ultimi due
secoli le ha trovate allettanti sia per lo sfruttamento del
petrolio, sia per il collaudo di armi chimiche che ne hanno
segnato irreversibilmente il futuro. Da questi luoghi arrivano
gli esponenti di tre diverse culture tribali (etnie visivamente
diverse come si evince anche dalla copertina del cd) che
hanno voluto con questo incontro musicale mostrare
quante similitudini e parallelismi esistono fra culture sorte
in spazi fisicamente anche molto lontani. Sia i canti che gli
strumenti utilizzati riconducono ad una matrice comune,
così la cultura Sami della Lapponia incontra quella dei
nativi Nord Americani con la quale condivide sicuramente le
origini. La storia dell’uomo e delle sue migrazioni per quanto
antichissime è ancora a un passo da noi e la si può toccare
con mano… basta aprire le orecchie!
Elisabetta Sermenghi
09 AUTUNNO 2010
Marcos Valle
Estática
Far Out/Audioglobe
Rieccolo qua, l’unico uomo che possa
vantarsi di essere stato citato sia
da Frank Sinatra che da Homer Simpson. Il solo con tre
versioni di un suo brano contemporaneamente nei Top 40
USA. Accadeva nel 1966 con So Nice (Summer Samba).
Quarantaquattro anni dopo, e a cinque dall’ultima prova
in studio, l’ormai sessantasettenne Marcos Valle ritorna
con un album che lo testimonia in forma smagliante, come
sempre dacché dopo un lungo silenzio si rimetteva in
gioco nel ’99 con Nova Bossa Nova. Si potrebbe azzardare
che Estática sia la prova migliore (e sì che le altre erano
splendide) di questa sua seconda vita. Addirittura: il suo
secondo disco da portarsi a casa dopo l’epocale Samba
’68. Se non altro perché perfetto riassunto di un canone
capace di mettere insieme pop brasiliano e psichedelia,
lounge e jazz.
Eddy Cilìa
www.felmay.it
FELMAY
Canti scelti fra i «Novés Occitani»,
brani tradizionali che venivano
eseguiti e rappresentati nel periodo
natalizio. L’interpretazione dei Gai
Saber fa riferimento alle molteplici
influenze della musica popolare di
ieri e di oggi, da sempre attenta al
mescolarsi delle genti e delle loro
culture.
Un riuscito incontro fra melodie
tradizionali e sonorità elettroniche
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Paula Morelenbaum
Telecoteco
Sud / Egea
Esibitasi lo scorso 9 ottobre all’Auditorium Parco della
Musica di Roma, Paula Morelenbaum torna al pubblico
italiano con un disco in realtà registrato tra il 2007 e il 2008
ma solo ora disponibile nel nostro paese. Un bel disco di
morbida bossa, dove la voce di Paula accarezza suoni
dal sapore un po’ retrò. Gustose reinterpretazioni di brani
composti in un periodo che spazia dalla fine degli anni ’30
fino ad arrivare ai favolosi ’60 dove ritroviamo il tono un
po’ giocoso dei primi autori di questo genere. Fra i più che
autorevoli ospiti di questo lavoro annoveriamo ovviamente
il marito Jacques, Ryuichi Sakamoto (con il quale aveva
lavorato in Casa, dedicato a Jobim) e ancora Marcos
Valle, Joao Donato, Leo Gandelman e Chico Pinheiro. Da
segnalare il terzo brano, un’accattivante cover di O samba
e o tango che omaggia Carmen Miranda (e pure Caetano
Veloso che ne fece un’ottima versione) richiamando nei
suoni, unico brano dell’album, le visioni elettroniche dei
Gotan Project.
Elisabetta Sermenghi
Attenzione!
Nuovo indirizzo postale
Mondomix
Corso Moncalieri 331
10133 Torino
Italia
Gai Saber
Angels Pastres Miracles
Una raccolta di brani concepiti
per santificare il Natale è
l'originale colonna sonora per le
festività che ci propone la Bregada
Berard, alter ego collettivo di
Sergio Berardo leader dei Lou
Dalfin
Bregada Berard
Bon Nadal Occitania
Ambrogio Sparagna
Fermarono i Cieli
AAVV
Eagle Dance
Ceremonial music of the
American Indians
Arc / Evolution
A metà strada fra il documento sonoro e la testimonianza
di una cultura irrimediabilmente trasformata dagli eventi
storico sociali avvicendatisi nel corso del tempo, questa
pubblicazione, corredata da un libretto in quattro lingue,
ripropone con rigore canti e danze dei nativi d’America
senza nulla concedere a modernismi o contaminazioni
musicali di sorta. Di non facile ascolto per chi ama il
mondo pellerossa new age che occhieggia dalle pubblicità
ma interessante per chi invece ricerca suoni e atmosfere
dal sapore autentico.
Elisabetta Sermenghi
Barabàn
Santa Notte dell'Oriente
felmay
EGEA
distributore esclusivo
per l’Italia
Attorno alla metà del Settecento
Alfonso Maria de' Liguori cominciò
ad accompagnare il suo lavoro
pastorale fra i poveri del Regno di
Napoli con la pratica di canzoni
composte sia in dialetto che in
italiano. In breve questo repertorio
si diffuse in tutto il territorio del
Regno. Fermarono i Cieli propone
alcuni di questi canti popolari ed
altri appositamente composti da
Ambrogio Sparagna affidandoli
all'interpretazione originalissima di
Peppe Servillo, di un ottetto vocale
e di un trio di strumenti popolari
In un mosaico di voci, suoni e
atmosfere, Barabàn ripropone uno
spaccato della colonna sonora
che per anni ha accompagnato i
riti natalizi dei contadini del nord
Italia: canti eseguiti nelle stalle,
pastorelle suonate dai bandin,
Pive dei suonatori girovaghi, canti
sul tema della Natività veneti
e friulani, canzoni di questua
romagnole, arie del gregoriano,
canti un tempo eseguiti durante
le drammatizzazioni popolari del
Gelindo, canti della Stella delle
montagne lombarde
felmay distribuzioni
strada Roncaglia 16 - 15033
San Germano AL - Italy
09 AUTUNNO 2010
ph +39 0142 50 577 [email protected]
42 Alla Bua
Scattuni
Autoprodotto
musiques et cultures dans le monde
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
MIX
MON DO ma
Mi a
Lucilla Galeazzi
Moussu T e lei Jovents
Helikonia / Egea
Manivette / Ducale
Ancora Bella Ciao
La cantante umbra si ripresenta ai suoi estimatori con
un’incisione asciutta ed essenziale. A essere omaggiati
sono gli anni del Nuovo Canzoniere Italiano, quei
Sessanta in cui i canti popolari tornarono ad assumere
un valore culturale, oltre che di impegno sociale e di
lotta. Quella stagione non passò invano e aprì le finestre
al folk revival italiano, venuto prima, è bene ricordarlo,
di quello anglosassone e francese. La Galeazzi ha una
voce potente ed emozionante, perfettamente accoppiata
alla chitarra battente di Davide Polizzotto o a quella più
quieta di Stefano Scatozza. Oltre a brani d’epoca di Rosa
Balistrieri A’ virrinedda e Matteo Salvatore Lu furastiero,
a tradizionali siciliani e laziali, troviamo testi e melodie
della stessa cantante. Improntati alla stretta attualità La
tarantella de lu terremotu, al passato recente Per Sergio o
al recupero del sentimento Quelle parole che siano, essi
non fanno altro che testimoniare la vitalità del patrimonio
folklorico italiano. L’intensa e vibrante Bella ciao finale è il
degno suggello a un disco di pregio.
Piercarlo Poggio
Radiodervish & Livio
Minafra & La banda di
Sannicandro
Putan de Cançon
Quarto disco in studio in sei anni di lavoro per la formazione
nata come costola del Massilia Sound System e oggi tra le
punte di diamante della scena world continentale. Prolifici,
se si considera che nel frattempo Moussu T ha anche
dedicato tempo e idee al System; e sempre più convincenti
in questo loro assetto mirabilmente in bilico tra immaginario
dei cantieri navali da Terza Internazionale, cultura occitana,
spirito freak, seduzione tropicale e malinconia blues. A
rendere naturali e sempre gradevoli i risultati di questo
frullatore c’è una straordinaria facilità compositiva, che
porta il cd al vertice artistico di quanto finora prodotto da
Tatou, Blu, Zerbino e Jamilson. Con La Ciotat al centro del
mondo e il mondo al centro del cuore, il viaggio si articola
in tredici tappe varie e sanguigne. Guidato dal singolo
omonimo, il tragitto non elude il richiamo partigiano
di Alba 7, sprofonda nel delirio etilico della zuccherina
Comme 2 mouches, vira al Sud un’immagine classica
per Bons baisers de Marseille, convoca il Brasile alla foce
del Rodano per Lo dintre, tesse filastrocche d’amore
in Quand je la vois, je fonds, vola tra mare ed entroterra
rurale D’Oc per la struggente Dins la nuech de mon astre.
In generale non ci sono cali di tensione, la materia si snoda
con continuità ancor maggiore di quanto già apprezzato
nei dischi precedenti, e davvero non si vedono limiti alla
crescita del progetto. Utile anche per capire a fondo le
radici dello stesso Massilia Sound System.
Paolo Ferrari
Bandervish
Il Manifesto / Goodfellas
Nabil Salameh, Michele Lobaccaro e Alessandro Pipino
optano nell’occasione per un salutare allargamento di
confini. Bandervish non è nuovo nella sostanza bensì
nella forma (che in questo caso diventa il contenuto). Vi
ritroviamo infatti brani tra i più noti del repertorio del gruppo:
L’immagine di te, Les lions, L’esigenza, Ti protegge. La
nuova luce sotto cui sono posti deriva dal lavoro certosino
di Livio Minafra, pianista jazz figlio di cotanto padre (il
trombettista Pino Minafra, anch’egli presente in due brani) e
responsabile di arrangiamenti in grado di allontanare il suono
dei Radiodervish dal modello battiatesco a cui sin troppo
sono stati sinora attaccati come ad un cordone ombelicale.
A tagliarlo danno una mano pure i giovani della banda
di Sannicandro di Bari, fragorosi quando serve oppure
essenziali e circospetti. Il grembo del Mediterraneo diviene
così meno onirico e fiabesco, più concreto. Un mutamento
di prospettiva nella musica dei Radiodervish appariva
necessario. Che sia stato fatto in questo modo rende merito
ai musicisti e alla loro apertura mentale.
Piercarlo Poggio
09 AUTUNNO 2010
43
EUROPA
Mondomix.com / RECENSIONI
Talisman
Russian Gypsy Soul
Arc / Evolution
Formazione creata dal chitarrista
Vadim Kulitskii, già con il trio gitano
Loyko scioltosi nel 2000, a cui si sono aggiunti l’ucraino
Oleksandr Klimas (violino) e il fisarmonicista Oleg Nehis
di San Pietroburgo. Una carrellata di brani del repertorio
tradizionale gitano russo arrangiati con maestria ed
interpretati con virtuosismo da questo ensemble di musicisti
che vanta una preparazione classica impeccabile. Uno
splendido disco per gli amanti del genere e di piacevole
ascolto anche per chi ancora non lo fosse. Impossibile non
apprezzare le splendide versioni di Gypsy Soul o Waltztango per non parlare dell’infuocato flamenco, è proprio
il caso di dirlo, Flames. Il cd contiene anche una curiosa
bonus track: il brano Sin regreso degli argentini Zingaros.
Elisabetta Sermenghi
Per celebrare i venti anni di attività il
gruppo salentino Alla Bua produce un
quarto disco, Scattuni, dopo i precedenti Stella Lucente
(1999), Alla Bua (2002), Limamo (2004) e Saratambula
(2007). Provenienti da esperienze musicali diverse
ma completamente immersi nell’humus della cultura
tradizionale della loro terra, il gruppo degli Alla Bua nasce
nel 1990 con l’intento di condividere il proprio sentirsi parte
di un patrimonio musicale legato alla tradizione popolare,
soprattutto contadina, appresa direttamente nelle proprie
case e dalle proprie famiglie, quando il produrre musica era
un’attività legata ai momenti di riposo e di festa che nella
società rurale erano abbastanza rari e soprattutto legati
all’alternanza stagionale. Si pensi che da stornelli un po’
grezzi per sola voce, tamburello e armonica oggi nel mondo
della pizzica si trovano flauti, violoncelli, fisarmoniche e
a volte anche basi elettroniche con risultati non sempre
esaltanti. Gigi Toma, leader del gruppo, consapevole
dell’evolversi continuo di ciò che oggi va sotto il nome di
tradizione, afferma che dopo anni di recupero e di omaggi
operati dalle ultime generazioni di musicisti salentini, dopo
aver tanto «preso» da questo territorio, sia ora giunto il
momento di lasciare qualcosa, cioè una produzione di
musica che rispecchia l’oggi e che in qualche modo è già
parte della tradizione di domani.
Elisabetta Sermenghi
Puoi scaricare gratuitamente il PDF di
Mondomix Italia dal sito
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Daniele Sepe
Fessbuk
Il Manifesto / Goodfellas
Diavolaccio di un Sepe, ne ha fatto un
altro dei suoi. Dove prende a calci senza
riserve l’Italia di oggi. Che sarà pure come bombardare una
nave ospedale già in piena tempesta di suo, ma poi non si
capisce perché è rimasto lui soltanto a farlo. L’uso politico della
musica è sempre stata una questione complicata, figuriamoci
oggi, in epoca di totale ritorno all’ordine. Sepe semplicemente
non ci sta, si indigna, voce nel deserto della comunicazione
ridotta a bleep e tweet-tweet. Le stilettate a destra (Samba
do tremone) e a manca (Democratic Party) possono apparire
qualunquiste soltanto a chi si è ben adattato al peggio.
Histoire de l’ouvrier e Cronache di Napoli inutili denunce per
chi ha abbandonato le speranze e vive nell’indifferenza. La
verità è un’altra, e Sepe non è il reduce settantasettino che
continua a combattere nella giungla perché nessuno gli ha
fatto sapere che la guerra è finita. Reducisti sono i restanti,
gli alfieri di quel cantautorame esangue che con il passare del
tempo evidenzia sempre di più la sua doppiezza. Comunque
tranquilli, anche volendo chiudere gli occhi, rimane tanto per
le orecchie, sia nelle riprese vigorose di Mackie Messer, Luglio
agosto settembre (nero), Campagna, Bulls On Parade sia
nella rigenerazione del folklore greco (La vedova) e messicano
(Carabina 30-30).
Piercarlo Poggio
Oriana Civile e
Maurizio Curcio
Arie di Sicilia
Officina Palermo
Non ha ancora una distribuzione
nazionale il lavoro Arie di Sicilia firmato da Oriana Civile e
Maurizio Curcio. Si tratta di un interessante percorso fra
melodie e canti della tradizione popolare siciliana e della
rivisitazione di un paio di brani tratti dal repertorio di due
autori siciliani contemporanei: Giancarlo Parisi e la compianta
Rosa Balistreri. Sia Curcio che la Civile lavorano da anni in
sedi accademiche preposte al recupero e alla conservazione
della tradizione della loro terra. Rendendo omaggio ad un
mondo in via di estinzione, con questo progetto attingono
al lavoro di ricercatori ed etnomusicologi che dall’800 in poi
hanno scandagliato il territorio registrando e classificando
canti di lavoro, d’amore, di sdegno e ninne nanne. Spaccati
di vita popolare narrati con rigore dalla voce armoniosa di
Oriana Civile e che gli arrangiamenti, anche elettronici, di
Maurizio Curcio modificano solo con misurata attenzione.
Elisabetta Sermenghi
Josephine Foster & The
Victor Herrero Band
Anda Jaleo
Fire / Goodfellas
L’aggettivo che meglio descrive questa
americana trapiantata in Spagna? Proteiforme. Si potrebbe
dire sia stato inventato apposta per un’artista capace di
passare, in una parabola lunga ormai un decennio, da un
folk e/o un blues pre-bellici alla psichedelia, da Tin Pan
Alley al jazz ai lieder. Più incredibile ancora dell’eclettismo
e dell’originalità di ogni proposta è che ogni volta la Foster
sembri nata per fare esattamente quella cosa lì. Ad esempio
reinterpretare, in collaborazione con il chitarrista suo
compagno e relativo gruppo, quella Collecion de canciones
populares españolas che nel 1931 Federico Garcia
Lorca raccoglieva, arrangiava ed eseguiva al pianoforte,
affidandole alla voce di Encarnación López Júlvez detta
la Argentinita. È l’ennesima scommessa vinta dalla bella e
bravissima Josephine.
Eddy Cilìa
Alina Orlova
Laukinis Suo Dingo
Fargo / Self
Forse di etnico in senso stretto ha solo
il nome, la provenienza e la lingua in cui
scrive e canta le sue canzoni, ma la giovanissima poetessa,
cantante e pittrice lituana, classe 1988, Alina Orlova, ha
prodotto un album d’esordio davvero degno di menzione.
La fanciulla, i cui primi successi risalgono ai tempi del liceo,
canta con voce sottile le sue ballate accompagnandosi col
pianoforte. Brani in lingua inglese o russa, oltre che lituana,
che rimandano per stile e atmosfere alla violinista ceca Iva
Bittova. Laukinis Suo Dingo (Wild Dog Dingo) titolo scippato
ad un libro per ragazzi che parla dell’amore ai tempi del liceo,
è stato prodotto dall’etichetta indipendente Metro Music e
dopo aver ricevuto diversi riconoscimenti in Lituania è stato
presentato con successo anche in Inghilterra e Francia dove
per tutto l’autunno 2010 Alina si esibisce in tour. Belli anche
i suoi dipinti visionabili tramite la rete. Se sono rose…
Elisabetta Sermenghi
09 AUTUNNO 2010
44 45
FUSION
Mondomix.com / RECENSIONI
Bob Brozman
John Mcsherry
Donald O’connor
OGNI MESE
IN EDICOLA
Six Days in Down
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Mamud Band
Opposite People
Felmay / Egea
Se Fela avesse amato l’ortodossia, non avrebbe mai
inventato l’afrobeat. È coerente dunque la formazione
milanese nell’affrontare la materia sottotitolata The
Music Of Fela Kuti alla propria maniera, anteponendo
la passione alla soggezione. Piovono in questo modo
dentro le undici tracce elementi maturati in vent’anni
di attività da un combo che non vive nella Lagos Anni
Settanta, ma nell’Europa sanguemisto di oggi. Opposite
People stessa, per esempio, infligge al corpo nigeriano
pertinenti pizzicotti brasiliani; Colonial Mentality, invece,
si sporge verso il reggae, complice la voce di Bunna
degli Africa Unite che guida anche il superclassico
No Agreement non esente da sensazioni acid jazz.
E così via, lungo una via di adesione ribelle al verbo
del maestro riottoso percorsa con il giusto spirito.Se
invece cercate la genesi della band, Singing Sisters è
la canzone che fa per voi grazie alla polifonia del trio
con Sylvie Nawasadio e Sabine Kabongo, unica traccia
facilmente accostabile ai dischi degli esordi. Per il resto
i richiami ai canti delle donne congolesi sono pressoché
un ricordo sbiadito del passato che soltanto un’altra
rigenerazione potrebbe rinvigorire. Intanto gustiamoci la
disinvolta freschezza di questa ricreazione.
Paolo Ferrari
Pink Martini
Joy to the world
Naïve / Self
Con l’inverno e l’avvicinarsi per periodo
natalizio ecco giungere la nuova
proposta musicale dal gruppo di Portland. Il sesto lavoro
(considerando anche il DVD uscito l'anno scorso) è una
strenna natalizia che come recita il titolo augura un mondo
di pace e di gioia alla Terra. Canti di Natale classici e
rivisitazioni di brani a carattere religioso interpretati come
sempre dalla voce caratteristica di China Forbes e dai
vari elementi internazionali che compongono l’ensemble.
Su tutto prevale l’arrangiamento alla Pink Martini di Mr.
Lauderdale, ovvero quel tanto di lounge che ne converte
subito la vocazione musicale trasformandolo in un disco
che potrebbe camminare da solo anche una volta dissolte
le nevi del bianco Natale. Ribadisco “potrebbe” poiché
nonostante le ineccepibili interpretazioni a cui Pink Martini
ci hanno ormai abituati, temo che questa volta non siano
riusciti nell’intento di toccarci l’anima e neppure a regalarci
almeno l’illusione di un’idea nuova.
Elisabetta Sermenghi
09 AUTUNNO 2010
World Music Network / Egea
Inciso in appena sei giorni presso il Down Arts Centre di
Downpatrik (Irlanda del Nord) questo album è un magnifico
incontro tra l’infaticabile chitarrista Bob Brozman e due
grandi custodi della musica irlandese: i maestri del flauto
John McSherry e del violino Donald O’Connor. Sensazionali
gli arrangiamenti, impeccabile l’audio e riuscitissima
l’integrazione tra brani della tradizione sette e ottocentesca
irlandese e le più recenti composizioni arricchite con
chitarre hawaiane e spunti arabi e maliani. Ciliegina sulla
torta la voce mistica e suadente che Stephanie Makem ci
regala in perfetto gaelico nelle tracce tre e otto.
David Valderrama
Zazou Eramo Saletti
Oriental Night Fever
Materiali Sonori
Dalla disco alla world music. Questo
dichiara l’ambizioso progetto che
ripropone una serie di brani ormai evergreen della disco
music fine anni settanta ri-arrangiati in chiave world e cantati
dalla voce delicata di Barbara Eramo. Il lavoro è nato da
un’idea del compianto Hector Zazou (musicista e produttore
che ci ha lasciatI nel 2008 e che ha prodotto capolavori come
Sahara Blue e Chansons des Mers Froides), Barbara Eramo
e Stefano Saletti che l’hanno realizzato e portato a termine
dopo la sua scomparsa. Interessante l’arrangiamento
musicale, per questa febbre notturna ormai anche feriale,
ma soprattutto la scelta dei brani che non mancheranno
di suscitare nostalgie anche in chi quegli anni li ha vissuti
senza abbracciare o condividere la disco.
Elisabetta Sermenghi
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Gabor Szabo
Jazz Raga
Light In The Attic / Goodfellas
Non metta fuori strada la buffa copertina che nel tipico
contesto della grafica Impulse! del periodo sistema sulla
sinistra due improbabilissimi mod, con tanto di sitar, e a
destra un quadro di gusto etnico che più che all’India
rimanda all’Africa: anche riascoltato con l’orecchio dei
giorni nostri Jazz Raga è assai meno kitsch di quanto
non ci si potrebbe aspettare. Non inganni la data di
pubblicazione, 1967: il disco contiene registrazioni
dell’anno prima e dunque questo chitarrista di scuola
jazz e natali ungheresi non andava affatto a rimorchio
della moda indiana lanciata dai Beatles. La anticipava
semmai, come anticipava tanta psichedelia e un
interesse per le musiche “del mondo” che era allora di
pochi illuminati. I Santana lo coverizzeranno, i Doors lo
copieranno: spudoratamente.
Eddy Cilìa
AAVV
Sangennarobar 2010
Microcosmo Dischi / Edel
Natacha Atlas
Mounqaliba
In A State Of Reversal
World Village / Ducale
La cantante e il suo doppio, per
scomodare Antonin Artaud. Natacha si specchia in
copertina, dà due titoli al disco, diventa corpo, anima e
voce delle tante vite in bilico tra Europa e mondo arabo.
Lo fa con tinte scure, orchestrazioni dark world; canzoni
scritte con Samy Bishai e classici come River Man di
Nick Drake e La Nuit est sur la Ville di Françoise Hardy;
incidendo a Londra con i piedi ammollo nel Nilo. Il suo è
un canto regale e popolare, in Batkallim ci trovi «la tirannia
senza fine dei politici e la marea della tossicodipendenza»,
la gioia eterna dell’amore in Lahzat Nashwa, la morte che
diventa vita in Chorus. E tanti interludi, a sottolineare o
esorcizzare i cambi di scenario. Bishai è encomiabile anche
per gli arrangiamenti degli archi e la produzione artistica,
peraltro condivisa con la stessa protagonista.
Paolo Ferrari
Da dieci anni Dj UèCervone, principe
partenopeo della consolle, produce ogni
anno una nuova edizione di SanGennaroBar, raccolta di
brani da lui selezionati, con grande gioia dei suoi sostenitori.
Dopo sette numeri autoprodotti e distribuiti direttamente ai
pochi eletti, ne venivano stampate solo alcune centinaia di
copie, la Microcosmo Dischi ha deciso di contribuire alla
nascita e alla divulgazione di queste raccolte producendole
in prima persona. Dopo le riuscitissime 2008 e 2009, ecco
ora l’edizione 2010, evento celebrato con una mega festaconcerto il 27 giugno scorso. Consolidato il repertorio
festoso e ballabile etno-partenopeo che abbraccia i Balcani
con l’immancabile dj Shantel, ma anche la musica giudeo
araba e nomade dei Watcha Clan. La tarantella messicana
di Tobias Ganzalez Jimenez qui balla fianco a fianco con
la tradizione napoletana (la Montemaranese) di Eugenio
Bennato e l’accattivante cabaret sonoro dei portoghesi
Deolinda o i ritmi afro-caraibici dei congolesi Staff Benda
Bilili, la band composta da musicisti poliomielitici che
si è imposta al pubblico della World Music nel 2009. Le
scoperte saranno tante, così come la possibilità, sempre
ballando, di ampliare i propri orizzonti musicali.
Elisabetta Sermenghi
Avanguardia, Blues, Country, Etno, Exotica, Folk,
Free, Funk, Glitch, Hip Hop, House,
Improvvisata, Indie Rock, Industrial, Jazz,
Lounge, New Wave, Pop, Post Rock,
Progressive, Psichedelia, Rhythm’n’Blues,
Rock’n’Roll, Soul, Sperimentale, Techno...
www.blowupmagazine.com
09 AUTUNNO 2010
46 Mondomix.com / RECENSIONI
ASIA / OCEANIA
Lalgudi G. Jayaraman
Sublime Strings
South Indian Classical Music
Felmay / Egea
musiques et cultures dans le monde
AAVV
MIX
MON DO ma
Mi a
Trance Gamelan in Bali
Felmay / Egea
Nella cultura musicale di Bali è ben difficile separare la
musica dal rito e, allo stesso modo, la trance dalla sua
sublimazione culturale, estetica, coreografica. Le tre
registrazioni sul campo nelle quali si articola il CD, effettuate
nel 1994 da John Noise Manis, illustrano questa complessa
e affascinante interazione. Nella prima, dedicata a una
cerimonia svoltasi nei pressi di Ubud, si ascoltano diversi
ensemble gamelan che suonano contemporaneamente
sottolineando varie attività cerimoniali della comunità: il
culmine è dato dall’inquietante apparizione dei danzatori
con maschere bianche, simbolo degli spiriti. La seconda
documenta i preparativi per un rituale dell’etnia Aga, nel
villaggio di Tenganan che raggiunge nel finale tratti frenetici
e parossistici. L’ultima registrazione documenta la danza
Barong che vede la lotta tra gli spiriti benigni capeggiati dal
loro re, il Barong, opposti alle forze negative capeggiate da
Rangda, il signore del caos. Pur senza poter partecipare
fisicamente al rito, grazie al potere di in/canto di questo
CD l’ascoltatore può entrare in un’altra dimensione.
Giovanni De Zorzi
AAVV
Gamelan of Central Java XIV.
Ritual Sounds of Sekaten
Felmay / Egea
La preziosa collana dedicata al Gamelan
centro-giavanese giunge con questa alla quattordicesima
perla: congratulazioni! Le registrazioni sul campo dello
studioso John Noise Manis si concentrano qui sui particolari
repertori che risuonano quasi ininterrottamente per un’intera
settimana in occasione della festa islamica detta Sekaten,
dedicata alla nascita (maulid) del Profeta Muhammad.
L’album si divide in tre registrazioni principali, tripartite
secondo i complessi strumentali e i loro luoghi di provenienza.
Su tutte regna un’atmosfera sospesa e senza tempo nella
quale i suoni minimali interagiscono con il silenzio. È notevole
come si sia lontani dal fervore che anima i repertori musicali
per il maulid del mondo arabo, ottomano turco, iranico,
centrasiatico e indopakistano. Ciononostante, a prescindere
dalla diversa temperie emotiva, il terzo brano rappresenta
secondo gli studiosi il maggiore esempio di vicinanza tra il
mondo giavanese e la tradizione mediorientale, reso evidente
dall’inedito gamelan composto da tamburi a cornice (terbang,
rebana) di varie dimensioni e intonazioni che sembrano esser
giunti a Giava proprio dal medioriente.
Giovanni De Zorzi
09 AUTUNNO 2010
Questo disco è un doveroso omaggio
ad uno dei più autorevoli maestri viventi (n. 1930) della
tradizione musicale dell’India del Sud, il violinista Lalgudi
G. Jayaraman. In esso è implicita una profonda dimensione
temporale poiché mostra la tradizione e, allo stesso tempo,
la sua evoluzione. Il maestro, esponente della scuola
stilistica che risale a Thyagaraja, duetta infatti con il suo
più brillante allievo ed erede, Lalgudi GJR Krishnan. Come
tipico della tradizione carnatica essi sono accompagnati
dai tamburi bifacciali mridangam e ghatam suonati
rispettivamente da Karaikudi R. Mani e T. H. Vinayakram.
Vanno segnalati due ulteriori meriti del disco: consentire
a violinisti ed amanti di ampliare il quadro delle tradizioni
musicali nelle quale risuona il violino eurocolto e introdurre
l’ascoltatore ad una forma musicale della tradizione
carnatica oggi quasi scomparsa, il Ragam Tanam Pallavi.
La prima parte (ragam) prevede l’esposizione del raga a
cui fa seguito il suo svolgimento (tanam) concluso da una
terza parte (pallavi) fatta di brevi composizioni. Ovunque
la maestria è indicibile, non raccontabile, e in ogni istante
l’ascoltatore è sommerso da sfumature e virtuosismi mai
fini a se stessi.
Giovanni De Zorzi
Brian Keane &
Omar Faruk Tekbilek
Kelebek/The Butterfly
Celestial Harmonies / Evolution
Nel 1979 il musicologo Philip Tagg
(www.tagg.org), analizzando la sigla
della serie televisiva Il tenente Kojak, metteva in luce la
rete di stereotipi musicali presenti nel brano. In essi era
implicita l’intera storia della musica euroamericana: gli
ottoni marziali del tema rinviavano a Wagner, le quarte
sospese a Debussy, la ritmica funky di scuola Motown
evocava il ghetto metropolitano, eccetera. Bene: la
colonna sonora del film Kelebek/The Butterfly dispiega
tutta la rete di stereotipi collaudati durante i vari film di
ambiente mediorientale della storia del cinema, a partire
da Il Ladro di Baghdad (1924) sino ai vari episodi di Indiana
Jones: aggiornati e updated ci sono la fuga, il duello e la
patetica scena d’amore a cui si aggiunge, qui, il profumo
della spiritualità. Nella trama, infatti, gli allievi di un
maestro dell’ordine dei dervisci rotanti (mevlevî) si recano
in Afghanistan durante la guerra civile del 1996. In questo
senso si spera il film svolga un ruolo politico/culturale tra
USA e mondo mediorientale. Dal punto di vista musicale,
invece, con tutto l’autentico rispetto per un solista come
Tekbilek e per i bravi musicisti tutti, le composizioni e il
concept lasciano davvero perplessi: con la delicatezza di
un marine che arrivi nell’area, si ascolta un mix di generi e
stili mediorientali espressi in un linguaggio hollywoodiano
temperato e tonale, mentre le frasi di Tekbilek speziano
l’hamburger.
Giovanni De Zorzi
47
COMPILATION
AAVV
L’oggetto è clamoroso: confezione cartonata a libro
con il davanti di copertina traforato che si apre e
sollevandosi rivela una stratificazione a sette livelli
con sul primo un bovaro a cavallo, nell’ultimo un
interno di fazenda e in mezzo esterni e interni di
ordinaria vita mitologica argentina. Si presenta così
Mañana, el tango: perlas del label, raccolta catalogo
dell’etichetta di Eduardo Makaroff del Gotan
Project, marchio del resto non nuovo a sensazionali
teatrini grafici che al lettore più attempato faranno
venire in mente l’età aurea del progressive e del
vinile. Ma… la sostanza? C’è. La quindicina di
brani di Melingo e Gustavo Beytelmann, Cáceres e
Horacio Molina e dello stesso padrone di casa che
sfilano in poco meno di un’ora offrono un panorama
giocoforza lacunoso ma di piacevolezza estrema
degli ultimi cinque o sei anni di tango. Va da sé che
un’operazione simile si rivolga non allo specialista
bensì all’acquirente occasionale. Magari, vista la
bellezza del manufatto, a chi nelle prossime feste
vorrà, regalandolo, fare bella figura spendendo
poco. A proposito di sostanza… Ce n’è tantissima
in The World Ends, doppia collezione di Afro Rock
& Psychedelia In 1970’s Nigeria. Trentadue le tracce
in due CD che all’ascolto lasciano increduli: in
secondo luogo per l’eccezionale qualità media; in
primo per l’ambito stilistico in cui ci si muove. Per
quanti dischi di Fela Kuti si possano conoscere,
è spiazzante scoprire che dalle parti di una Lagos
devastata dalla guerra civile nei primissimi ’70
una moltitudine di gruppi sconosciuti e formidabili
declinava il verbo di Jimi Hendrix mischiandolo
a quello di James Brown o di Santana, o persino
dei Doors. Chi leggendo ha avanzato l’obiezione
«ma non è world music!» ha sbagliato rivista.
Restando in Africa ma cambiando genere e paese è
parimenti caldamente consigliata Roots Of OK Jazz,
benvenuta ristampa di un titolo pubblicato per la
prima volta nel ’93. Sono registrazioni del 1955-’56,
effettuate a Kinshasa, di varie formazioni che poi
confluiranno nella leggendaria orchestra di Franco.
Lampante l’influenza cubana, l’antologia mostra
rumba e soukous in culla. Lodevolissimo il lavoro
di chi, partendo da vetusti e non intonsi 78 giri ha
ricavato suoni miracolosamente non distanti dallo
standard odierno.
Sono passati alcuni mesi dacché si diede
l’imprimatur al numero precedente di “Mondomix”
e la pila delle nuove Rough Guide To si è fatta nel
frattempo imponente. Soffermandoci per un’ultima
volta nel Continente Nero, la segnalazione è
d’obbligo per il possibile, probabile, praticamente
certo titolo campione di vendite fra queste ultime
emissioni. Con tutto il parlare che si è fatto negli
ultimi anni dei Tinariwen (nel mentre il compianto Ali
Farka Touré non passava certo di moda) che Desert
Blues andrà a ruba è una scommessa sicura. Fra
nomi già celebri, altri in ascesa (davvero gradito in
questo caso il consueto bonus CD, che ci omaggia
un album del 2006 di Etran Finatawa) e gente
conosciuta per ora giusto dagli addetti ai lavori, la
raccolta per un verso esalta e per un altro insinua un
dubbio: quanto ha pesato sullo straordinario impatto
dei Tinariwen che l’Occidente fosse digiuno di una
musica che alle sue orecchie suona sostanzialmente
“rock” ma di una specie inaudita? Magari fossero
arrivati prima, ad esempio, i Tamikrest il fenomeno
avrebbe avuto sviluppi analoghi.
A proposito di campioni di vendite… Nel 2000
già c’era stata una Rough Guide To Bhangra,
seguita nel 2006 da una Rough Guide To Bhangra
Dance. Arriva adesso una seconda, o se preferite
terza, Rough Guide To Bhangra e l’effetto è il
solito: esilarante. Impossibile resistere alla carica
adrenalinica del pop più danzabile e bastardo –
nel senso di ibridato – del mondo, con la musica
punjabi a fare da base sulla quale si innesta di tutto
e di più, come hanno eloquentemente dimostrato
in una vicenda ventennale gli Achanak, maestri del
genere del cui folto catalogo il secondo compact
offre cospicua sinossi. Quanto a Bollywood, di
Rough Guide To ce n’erano già state, fra collezioni
di autori vari e volumi dedicati a nomi specifici, una
mezza dozzina. L’ennesima non guasta. Sarà pur
vero che il kitsch è, come nel bhangra, sempre in
agguato (ovvio: se si ascolta con le sole orecchie
che abbiamo, quelle da europei), ma nelle colonne
sonore dei film indiani ci si imbatte spesso in melodie
memorabili e raffinatezze negli arrangiamenti
assolutamente accostabili alla Hollywood originale.
Per una volta non un CD in omaggio bensì un DVD,
il documentario dell’84 There’ll Always Be Stars In
The Sky. Intrigante. C’è un DVD accluso pure (nel
caso desideriate imparare a ballarla) alla guida
numero tre (non è che cominciano a essere a corto
di argomenti?) alla Salsa Dance. Com’è che si dice
in spagnolo “spumeggiante”? Clima meno festoso e
decisamente più tendente al melò nella (finalmente
un debutto) Rough Guide To Flamenco Dance, cui
si accompagna un album del virtuoso della chitarra
Eduardo Niebla. Anche molto jazz nelle sue corde.
Chitarre e soprattutto fisarmoniche in resta, e un
profumo di jazz, pure in una indiavolata Rough Guide
To Paris Café, la seconda. Les Négresses Vertes
non sbucavano dal nulla, né sbucano dal nulla i
Beltuner, alfieri del gypsy swing revival e protagonisti
del secondo dischetto con una generosa selezione
di brani dai loro primi due album. Chiudiamo con la
prima Rough Guide To Greek Café, dimostrazione
che non soltanto, sebbene soprattutto, di rebétika
si vive da quelle parti. Qualche purista avrà da ridire
su taluni evidenti influssi rock, ma si sa:i puristi non
sono mai contenti.
Eddy Cilìa
Abbiamo parlato di…
Mañana, el tango: perlas del label (Mañana / Self)
The World Ends: Afro Rock & Psychedelia In 1970’s
Nigeria (Soundway / Family Affair)
Roots Of OK Jazz (Crammed / Ma.So.)
The Rough Guide To Desert Blues
The Rough Guide To Bhangra
The Rough Guide To Bollywood
The Rough Guide To Salsa Dance
The Rough Guide To Flamenco Dance
The Rough Guide To Paris Café
The Rough Guide To Greek Café
(tutte World Music Network / Egea)
09 AUTUNNO 2010
Musica e tradizione in Asia orientale.
Gli scenari contemporanei di Cina, Corea e Giappone
Daniele Sestili
Squilibri edizioni 2010
288 pp., cd allegato, 65 ill. a colori
€ 28,00
Squilibri pubblica il nuovo lavoro di
Daniele Sestili, etnomusicologo esperto
di Asia orientale, uno strumento
prezioso per avvicinarsi alle tradizioni
musicali di quest’area, argomento
affrontato da pochissime pubblicazioni
in lingua italiana. Misurandosi anche con gli studi dei
maggiori musicologi cinesi, coreani e giapponesi, l’autore
guida il lettore alla conoscenza di stili, repertori, pratiche,
strumenti e concezioni delle musiche tradizionali estasiatiche. L’approccio comprensivo di Sestili, che sceglie di
trattare un’area vastissima e ricchissima di tradizioni, appare
tuttavia fondato: Cina e Taiwan, le due Coree, il Giappone,
pur presentando panorami culturali estremamente variegati,
e ben distinti tra loro, non sono mai stati entità separate e
aliene tra loro. Al contrario, esse sono strettamente legate
da un fitto intreccio di relazioni, influenze reciproche e
sostrati culturali comuni, messo in luce dall’attenta disamina
storica dell’autore. Sestili quindi indaga le tradizioni musicali
dei singoli Paesi senza però perdere di vista il quadro
complessivo dell’area, evidenziando similitudini e differenze
tra di essi, ma anche rispetto a Mongolia e Viêt-Nam. Non
mancano inoltre cenni alle musiche delle minoranze etniche
le quali, numerose in particolare in un Paese vasto come la
Cina, costituiscono parte integrante del panorama musicale
locale, accanto alle musiche d’arte.
Se il lavoro è essenzialmente di tipo etnomusicologico, di
particolare rilievo è l’approccio sociologico tramite il quale
Sestili mette in luce il divenire di queste tradizioni e la loro
collocazione nell’ambito della modernità.
Il volume è completato da un ricchissimo apparato
fotografico che illustra strumenti, tecniche e luoghi di
esecuzione, gestualità degli esecutori, nella loro concretezza.
Il cd allegato, contenente numerose tracce inedite, permette
infine l’ascolto dei generi maggiormente rappresentativi
dell’area.
Fabrizio Giuffrida
Musiche di Turchia.
Tradizioni e transiti tra Oriente e Occidente
Giovanni De Zorzi
con un saggio di Kudsi Erguner
Ricordi/Universal Music 2010
326 pp. + illustrazioni
€ 25,00
Il libro di De Zorzi, etnomusicologo
e valente suonatore di ney, il flauto
tipico della musica sufi (si veda la
recensione del cd nel riquadro), è
uno dei rarissimi studi in un lingua
occidentale dedicato alle musiche
delle Turchia. Basato sulle ricerche dell’Autore e sullo
studio della (poca) letteratura pre-esistente, il volume è
un’introduzione a generi, forme, stili, strumenti e maestri
delle tradizioni musicali turche. Sebbene queste siano
sempre state considerate l’“altro” sonoro per antonomasia,
09 AUTUNNO 2010
49
49
VISIONI
Mondomix.com / RECENSIONI
illuminante è il fatto, opportunamente sottolineato da De
Zorzi, che la maggior parte dei musicologi turchi parlino di
originaria identità musicale, determinate da comuni radici
teoriche greco-ellenistiche, tra Oriente, ovvero il mondo
arabo-islamico, ed Occidente, dalle quali gli occidentali si
sarebbero inopinatamente allontanati.
Il testo si apre con un panorama storico, da cui emergono
dati di grandissimo interesse. Per esempio: Giuseppe
Donizetti pascià, fratello del più noto Gaetano, giunto
a Istanbul nel 1828, guida l’introduzione della musica
occidentale in Turchia, istruendo le nuove bande di stile
europeo volute dal sultano. L’altra faccia della medaglia
è il contemporaneo scioglimento dei Giannizzeri e delle
loro bande musicali, che tanto avevano affascinato i
compositori europei sin dal Settecento. Segue una chiara
disanima dei generi, delle forme e degli strumenti musicali.
Particolare attenzione è dedicata alla tradizione sufi (quella
dei cosiddetti “dervisci rotanti”), ma lo studioso non manca
di edurci sulla tradizione folklorica, spesso negletta, e sulla
fascinosa popular music turca.
Nel complesso, De Zorzi ci guida con passo sicuro in
un universo sonoro ricchissimo e poco conosciuto.
Il linguaggio chiaro è coadiuvato dalla belle foto che
corredano il volume. Chiude il libro il prezioso saggio di
Kudsi Erguner, uno dei maggiori suonatori contemporanei
di ney, in cui si propone un inedito approfondimento sul
sistema musicale ottomano.
Daniele Sestili
Inception 2010
Regia Chrisptopher Nolan
Sceneggiatura Chrisptopher Nolan
Musica Hans Zimmer
Attori Leonardo DiCaprio, Ken Watanabe, Joseph GordonLevitt, Ellen Page, Marion Cotillard e Cillian Murphy
Si può fare un film sulla confusione sogno/realtà senza
ripetere quello che è stato detto e mostrato innumerevoli
volte? Beh, Christopher Nolan ci è riuscito con Inception,
un film affascinante narrativamente e visivamente. Leonardo
di Caprio, ormai specializzato in personaggi dolenti e
confusi (del genere The Departed e Shutter Island), è Dom
Cobb, esperto nella tecnologia di penetrare nei sogni altrui
per dominarne il subconscio, insieme alla sua squadra.
Publi VpSDiA5-10-10:manchette
12:39 Pagina 1ma stavolta riceve
solito lo fa per 25/10/10
rubare informazioni,
da un potentissimo uomo d’affari (Ken Watanabe, bravo
La sfida alle oligarchie del cibo
Ensemble Marâghî
Anwâr
From Samarqand to Costantinople
on the Footsteps of Marâghî
Felmay / Egea
Il viaggio proposto dagli italianissimi Marâghî inizia a
Samarcanda, una delle corti frequentate dall’omonimo
compositore e centro della cultura islamica nei secc. XIV
e XV, per giungere alla tradizione musicale ottomana.
‘Abd ul-Qadir Marâghî è esempio paradigmatico
dell’interculturalità arabo-islamica, perseguita dai
musicisti che compongono l’ensemble. Il flauto ney di
De Zorzi, i tamburi zarb e bendir di Clera e il liuto ‘ūd
di Tufano si uniscono alla voce dell’ospite, la cantante
iraniana Sepideh Raissadat, che si accompagna con
il liuto setâr. Sotto la direzione di De Zorzi, il quartetto
attraversa secoli e luoghi. Dopo i primi quattro brani,
attribuiti a Marâghî, il gruppo affronta con passione
la tradizione classica ottomana, che tanto deve alle
musiche sorte in seno al Sufismo.
Daniele Sestili
Credito ai contadini
Sovranità alimentare in Italia
Poste Italiane S.p.A. - Sped. in abb. post. DL. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1 CNS/CBPA/TORINO - agosto settembre 2010 - anno XXV - foto: Bilderberg
48 come sempre) l’incarico di entrare nei sogni di un giovane
magnate, per impiantarci un’idea, cioè per spingerlo a
svendere l’impero del padre appena morto. È un’operazione
difficile e mai tentata che prevede tre livelli di sogno
per funzionare (cioè un sogno dentro un sogno dentro
un sogno) e la capacità di uscire da tutti e tre allo stesso
momento, per non rimanere perduti in una sorta di limbo
della coscienza. In cambio, il committente aiuterà Cobb a
sistemare i suoi problemi col governo e a riavere la custodia
dei figli, affidati ai suoceri dopo la morte della moglie, anche
lei ex ladra di sogni. Il tema della perdita e della memoria
(con la moglie che si mescola ai sogni programmati con cui
Cobb interagisce con le sue vittime) oltre al dilemma realtà/
sogno, è il grande protagonista del film, che si ricollega
idealmente al film che diede fama a Nolan, Memento (2000).
Spiccano l’interpretazione di Joseph Gordon-Levitt, visto
in (500) giorni insieme, Marion Cotillard (che ricordiamo in
Nemico pubblico di Mann), entrambi membri della squadra
di Di Caprio/Cobb, e dello splendido Michael Caine, (il
suocero di Cobb): su di lui non si può che sottoscrivere
quanto afferma il critico Roger Ebert «Di questi tempi basta
che Caine compaia sullo schermo e immediatamente diamo
per scontato che sia più saggio di tutti gli altri personaggi.
È un dono».
È la realtà ‘vera’ o sto sognando di sognare di sognare di
sognare (ripetere ad libitum, secondo i livelli onirici desiderati)
la realtà? Tutto il film non è altro che un sogno di Cobb? Per
i più nerd tra noi, c’è un apposito sito su cui confrontare
e discutere le proprie interpretazioni del finale di inception:
www.inceptionending.com; può dare assuefazione, ma
anche il desiderio di rivedere Inception: e ne vale la pena.
Paola Valpreda
La rivista
di chi abita il mondo
Reportage e notizie dai cinque continenti, progetti di
solidarietà, ricerca volontari delle associazioni, proposte
di turismo alternativo, viaggi responsabili e molto altro...
DIVORATORI DI FUTURO
Come riappropriarci di quel che mangiamo
VpS
Volontari per lo sviluppo
La rivista di chi abita il mondo
www.volontariperlosviluppo.it
social: Ci trovi anche su
VpS èFacebook
e Twitter!
Sfoglia anche online il nostro numero speciale su
alimentazione e agricoltura: dalle sfide italiane a
quelle mondiali, con esempi e indicazioni pratiche
per passare dall’idea di sicurezza alimentare (avere
cibo) a quella di sovranità alimentare
(avere il controllo su come procurarselo).
Cosa trovi in questo numero:
PRIMO PIANO ITALIA AFFAMATA
Latifondi e cementificazione mettono a rischio il Belpaese
REPORTAGE SEMI-LIBERTÀ
Gli effetti dei brevetti sulle sementi
DOSSIER PALATI FINI
La sovranità alimentare in Italia riconquistata dalla società civile
Per copia omaggio 011/8993823 [email protected]
Per ricevere la rivista tutto l’anno il contributo è di 28 Euro, da versare sul ccp 37515889 intestato a: Volontari per lo Sviluppo, Corso Chieri 121, Torino
09 AUTUNNO 2010
50 51
Cuba
Mondomix.com
La World Music che non sapevamo di avere in casa
Rei
Momo
David Byrne
di Eddy Cilìa
Nato in Scozia da genitori irlandesi, cresciuto in Canada
per poi trasferirsi – ancora bambino – nel Maryland e da
ormai trentacinque anni newyorkese di adozione benché
tuttora abbia passaporto britannico: un po’ ce l’aveva nel
destino David Byrne di essere cittadino del mondo, mentre
doveva essere iscritta nel DNA la curiosità per musiche non
appiattite sul gusto corrente. Tant’è che, liceale appena
dopo il giro di boa dei ’60, non dava vita al complessino
garage canonico per il tempo, con l’usuale catalogo di
cover di blues elettrico o della British Invasion, bensì a un
duo con in repertorio Frank Sinatra piuttosto che Rodgers &
Hart o cose disneyane, decenni prima che ci pensasse Hal
Willner. E per certo in quel movimento pure molto variegato
che fu la new wave i suoi Talking Heads furono fra i più
propensi a infiltrare nel rock musiche “altre”: il soul e il funk
già nel secondo LP, More Songs About Buildings And Food
(1978), e quindi assortite suggestioni di Africa e Asia nei
monumentali Fear Of Music e Remain In Light (’79 e ’80). E
che dire di My Life In The Bush Of Ghosts? Disco dell’81 (ma
le registrazioni avevano in realtà preceduto quelle di Remain
In Light) realizzato dal Nostro congiuntamente con Brian
Eno e a tal punto in anticipo sui tempi da parere all’epoca un
oggetto alieno: fenomenale intreccio di ritmi tenuti assieme
da melodie etniche provenienti da ogni dove nonché ponte,
con le sue manipolazioni di nastri, fra Cage e Stockhausen
da un lato e l’hip hop allora in divenire dall’altro.
Quando nel 1989 Byrne mette mano a Rei Momo i Talking
Heads di fatto non esistono più, benché a saperlo sia forse
solo lui, ignari i sodali che l’anno prima gli hanno dato
man forte in Naked, ottimo congedo pregno nuovamente
09 AUTUNNO 2010
d’Africa dopo che Little Creatures e True Stories erano
sembrati disegnare per il gruppo orizzonti relativamente
convenzionali in uno scenario di pop-rock a stelle e strisce.
Non fa per il nostro uomo, avrete inteso, riposare sugli
allori. In proprio ha già pubblicato, oltre a My Life In The
Bush Of Ghosts, tre colonne sonore: una, la prima, per il
teatro (Music For “The Knee Plays”, 1985) e quindi due per
il cinema (Sounds From True Stories nell’86 e l’anno dopo
The Last Emperor, in collaborazione con Ryuichi Sakamoto
e Cong Su). È dunque come fosse un esordio, Rei Momo, e
a debuttare sono anzi contemporaneamente il David Byrne
solista e l’etichetta, Luaka Bop, che ha appena fondato con
il benestare di Sire e Warner. Il disegno si farà più chiaro
quando il marchio comincerà a griffare storiche raccolte di
musica latina (le collane Brazil Classics e Cuban Classics)
per poi allargare il suo sguardo al mondo intero (ed ecco gli
Asia Classics) e infine offrire un tetto discografico a Susana
Baca come a Jim White, a Tom Zé come alle Zap Mama
e ristampare Shuggie Otis o gli Os Mutantes. Fosse uscito
in mezzo a tutto ciò, l’album sarebbe stato probabilmente
meno equivocato, l’accoglienza più benevola. Con il senno
di poi…
Con il senno di poi Rei Momo (che in Brasile è il re del
Carnevale) non sembra affatto – o lo pare molto di meno
– l’esercitazione stilistica che molti bollarono come
intellettualoide, frigida, magari anche (fatta salva la buona
fede dell’artefice) di impronta colonialista nel suo espropriare
tradizioni altrui rispetto a quella dell’autore. È una collezione
di canzoni in cui l’ex-Talking Heads si misura (specificandolo
fra parentesi dopo il titolo di ogni brano!) con cumbia
e merengue, cha cha cha e samba, charanga e bolero,
saltabeccando fra Caraibi, Brasile e Africa. Non sempre
la proverbiale ciambella riesce col buco e nondimeno la
scrittura è mediamente fresca, il divertimento dei musicisti
coinvolti – qualcuno anche in fase compositiva: Johnny
Pacheco cofirma tre canzoni, Willie Colón e Arto Lindsay
una a testa – lampante. È un raro caso di disco che più
passano gli anni e meno rughe mostra.
09 AUTUNNO 2010
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