SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI (Decreto Ministero dell’Università 31/07/2003) Via P. S. Mancini, 2 – 00196 - Roma TESI DI DIPLOMA DI MEDIATORE LINGUISTICO (Curriculum Interprete e Traduttore) Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei Corsi afferenti alla classe delle LAUREE UNIVERSITARIE IN SCIENZE DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICA From Page to Stage RELATORE: Prof.ssa Adriana Bisirri CORRELATORI: Prof. Paul Farrell Prof. Carlos Alberto Medina Delgado CANDIDATA: ___________________ ANNO ACCADEMICO 2014 / 2015 Livia Filippi DEDICA A mamma e papà che mi hanno insegnato ad essere fedele alle mie idee, non importa quanto bizzarre, fino al punto di tradurle in realtà. A tutte le cose a cui sono unita da legami invisibili. Che possa consegnare al teatro imprigionato dalla dottrina, che razionalizza tutto uccidendo l’inspiegabile, una goccia di intelligenza libera, di umanità, di verità. 2 INDICE / INDEX / ÍNDICE I.1. INTRODUZIONE p. 4 I.2. IL TESTO TEATRALE E LA SUA COMPOSIZIONE p. 5 I.3.1. STORIA DELLA TRADUZIONE TEATRALE p. 9 I.3.2. LA SEMIOTICA DEL TEATRO p. 12 I.4.1. LA TRADUZIONE ARTISTICA p. 17 I.4.2. IL TRADUTTORE-ATTORE p. 20 I.5. DRAMMATURGHI, TRADUTTORI, SPETTATORI p. 25 I.6. TRADURRE PER GLI ATTORI di Robert W. Corrigan p. 31 I.7. CONCLUSIONE p. 51 I.8. BIBLIOGRAFIA p. 53 I.9. SITOGRAFIA p. 56 II.1. INTRODUCTION p. 57 II.2. THE THEATRICAL TEXT AND ITS COMPOSITION p. 58 II.3.1. THE HISTORY OF THEATRICAL TRANSLATION p. 61 II.3.2. THEATRE SEMIOTICS p. 64 II.4.1. ARTISTIC TRANSLATION p. 69 II.4.2. THE TRANSLATOR-ACTOR p. 72 II. 5. PLAYWRIGHTS, TRANSLATORS, SPECTATORS p. 76 III.1. TRADUCIR PARA LOS ACTORES de Robert W. Corrigan p. 82 3 I.1. INTRODUZIONE La presente tesi nasce da un intreccio di interessi sia teorici che pratici, legati a due ambiti solo apparentemente distanti e diversi come quello teatrale e quello della traduzione. Si propone di affrontare la disciplina della traduzione teatrale da diversi punti di vista, compresa la semiotica del teatro. Per favorire il raggiungimento di tale obiettivo, questo lavoro è strutturato in quattro parti e si conclude con la traduzione e l’interpretazione del saggio «Tradurre per gli attori» di Robert W. Corrigan, pubblicato nel 1961 nella raccolta Craft and Context of Translation a cura di Arrowsmith e Shattuck. La prima parte presenta il testo teatrale e la sua composizione. La seconda, partendo da alcuni accenni storici, delinea le caratteristiche proprie che distinguono la traduzione teatrale dalle traduzioni di altri tipi di testo: la dominante della recitabilità e dell’accettabilità nella cultura ricevente è la caratteristica fondamentale. La terza parte presenta le diverse concezioni della dialettica tra testo scritto (testo drammatico) e messinscena (testo spettacolare) e le scelte che il traduttore deve fare nell’affrontare la traduzione. Infine la quarta parte analizza il rapporto tra le figure principali coinvolte nel processo traduttivo: l’autore dell’opera, il traduttore, l’attore e lo spettatore. 4 I.2. IL TESTO TEATRALE E LA SUA COMPOSIZIONE Uno spettacolo teatrale può nascere senza la necessità di svilupparsi da un testo letterario, o può svilupparsi da un testo non letterario. Ad esempio uno spettacolo di balletto nasce da un testo musicale e può o non può avere un testo letterario. Il teatro che si sviluppa a partire da un testo letterario è quel particolare tipo di teatro comunemente definito drammatico, o melodrammatico quando è costituito da una messa in musica del testo. Secondo Keir Elam l’aggettivo “drammatico” è riservato a una relazione tra l’autore e il lettore, mentre l’aggettivo “teatrale” alla relazione tra attore e pubblico. “Un testo è una storia strutturata e unificata, comica o drammatica, completa di un inizio, di una parte centrale, e di una fine, che esprima la passione e la visione della vita del drammaturgo, che mostri i conflitti che si sviluppano conducendo verso un climax e che tratti con personaggi dimensionali dotati di forti emozioni, bisogni, traguardi che possano motivare le proprie azioni. È costruito con una serie di eventi plausibili e probabili, scritto per essere rappresentato e pronunciato mediante dialoghi e azioni oltre che attraverso silenzi e non azioni, agito da attori da un palco verso un pubblico che è presente per credere agli eventi a cui sta assistendo”1. Il testo teatrale è un testo letterario concepito per essere rappresentato. È realizzato con delle caratteristiche che lo differenziano decisamente da qualunque altro tipo di testo, manca il narratore e il suo io soggettivo, mancano descrizioni o racconti di quanto avviene o è avvenuto: lo sviluppo dell’intera vicenda è affidato alle battute dei 1 Catron, 2002. 5 personaggi attraverso le quali è possibile discernere i loro tratti psicologici, i fatti anteriori all’inizio della rappresentazione e i legami tra i vari avvenimenti. Esso si suddivide generalmente in atti e questi a loro volta in scene (o quadri). Gli atti sono, in sostanza, le diverse parti in cui è articolato il testo, il cui numero varia in base al genere drammatico. Ciascun atto viene poi suddiviso in scene, che cambiano a seconda dell’entrata o dell’uscita di uno o più personaggi. Dal punto di vista letterario, gli elementi fondamentali del testo teatrale sono due: le didascalie e le battute di dialogo. Le didascalie, dal greco διδασκαλία «istruzione», sono un elemento importante del testo la cui funzione è proprio quella di dare istruzioni e suggerimenti sulla messinscena di un’opera. “Veleno” di Vitrac, così come gli “Actes sans paroles” di Beckett, sono testi che addirittura hanno solo didascalie e non battute. Sono indicazioni riassuntive date dall’autore, destinate al regista, all’attore o al lettore, che servono a dare indicazioni sul luogo e il tempo in cui si sviluppa la vicenda, sul modo in cui i personaggi entrano e escono dalla scena, sull’abbigliamento e carattere dei personaggi, sul tono con cui pronunciare le battute. La lunghezza delle didascalie può variare da poche parole a periodi più lunghi e dettagliati, generalmente scritti in corsivo o posti tra parentesi se si intervallano alle battute. Colonna portante di un testo teatrale sono le battute di dialogo che occupano la quasi totalità del testo stesso. Alle parole dei personaggi, infatti, è affidato lo svolgersi integrale dell’intera vicenda: il racconto dei fatti presenti e passati, la delineazione del carattere e dei sentimenti dei singoli personaggi, gli avvenimenti non rappresentati direttamente in scena. 6 Si distinguono diversi tipi di battute di dialogo in base al numero di persone che pronunciano le battute e alla maniera in cui esse vengono pronunciate: Dialogo: dal greco διά «attraverso» e λογος «discorso», è la parte più importante del testo teatrale e il tipo di battuta più frequente che si realizza tra due personaggi che si alternano a parlare; Concertato: è un dialogo che avviene tra tre o più personaggi; Duetto: più comunemente denotato con l’espressione «botta e risposta», è un dialogo dall’andamento incalzante e serrato che si svolge tra due personaggi; Soliloquio: dal latino solus «solo» e loquor «parlare», si ha quando un personaggio solo sulla scena, espone ad alta voce i propri pensieri e sentimenti, perché il pubblico possa venirne a conoscenza, senza la presenza di un destinatario a cui rivolgere direttamente le proprie parole. Le commedie di William Shakespeare sono spesso caratterizzate da soliloqui; Monologo: è ancora la riflessione intima di un singolo personaggio, che questa volta non è solo ma appartato sulla scena, e si rivolge direttamente al pubblico o ad un’altra persona; Tirata: è un lungo discorso relativo alle vicende passate e presenti cui il personaggio partecipa, che questo fa senza che altri interloquisca, per il quale chiede esplicitamente che si faccia silenzio; A parte: è un commento segnalato sul testo da una didascalia e posto fra parentesi, che il personaggio fa sull’argomento trattato, estraniandosi per un momento dalla rappresentazione stessa e rivolgendosi solo allo spettatore; 7 Fuori campo: sono battute affidate a un personaggio non direttamente coinvolto nell’azione scenica, ma incaricato di intervenire “fuori scena” a commentare la vicenda in atto o a interloquire con i personaggi. 8 I.3.1. STORIA DELLA TRADUZIONE TEATRALE La traduzione (dal latino traducere «trasportare») è la trasposizione del discorso da una lingua naturale a un’altra. Si dice interprete chi dà la traduzione orale e istantanea di un messaggio orale; traduttore è chi opera sulla lingua scritta. Si dice anche “interprete” colui che traduce in una lingua nota ciò che è espresso in un linguaggio non noto. La traduzione è sempre esistita; se solo recentemente si è posto il problema di una teoria scientifica della traduzione, antichissima è l’attività dell’interprete, fiorente già nell’antico Egitto. Testimonianza di traduzione sono le liste e i glossari bilingui e plurilingui in tavolette di terracotta dell’Asia Minore. A Roma la letteratura si inizia all’insegna della traduzione. Livio Andronico (poeta del III sec. a.C.), ad esempio, agli esordi della cultura latina tradusse Omero, attualizzandone però il messaggio e la forma stilistica. Abbiamo poi Tito Maccio Plauto (250 ca.-184 a.C.) traduttore delle commedie greche. Plauto viveva della propria comicità, del proprio vivace entusiasmo che lo portava a riproporre, sulle scene latine le commedie greche, tradotte con sapiente originalità per il pubblico romano. L’originalità di Plauto consiste, prima di tutto, nell’aver inaugurato la “traduzione artistica”, quel fenomeno tra i più vasti e complessi della letteratura occidentale e per il quale ogni traduzione implica, in qualche modo, una interpretazione. Il problema teorico e pratico della traduzione è di grande importanza nel mondo contemporaneo. 9 Il XX secolo, invece di fare una sintesi di tutte le precedenti esperienze valide in materia di traduzioni, si è caratterizzato per un fiorire di opinioni e di teorie su di esse. Il secolo da poco concluso non è, dunque, riuscito a creare una certa unità nel problema traduzione e i motivi di disaccordo appaiono acutizzati dalla maggiore consapevolezza teorica e dall’affinamento dei mezzi tecnici. Anche per questo motivo, gli studi sulla storia della traduzione teatrale sono davvero scarsi e non è possibile rifarsi a una teoria specifica o a un manuale con linee guida fisse e imprescindibili da seguire. L’impossibilità di costituire una teoria sulla traduzione teatrale forse è riconducibile alla stessa natura poco teorica del teatro, che in quanto «arte fragile, effimera, particolarmente esposta all’influenza del momento […] [comporta che sia necessario] correggere costantemente la teoria critica deputata a descrivere il fenomeno teatro»2. La labilità della disciplina teatrale, il suo essere contingente, e non eterno come invece molti tendono a pensare, si rispecchia anche nel lavoro di traduzione di testi teatrali. In linea generale, le norme traduttive valide per la narrativa devono essere considerate valide anche per la traduzione teatrale, anzi amplificate. Per Zuber nella traduzione teatrale si dispiegano due fasi: la prima è il processo di traduzione da una lingua all’altra; la seconda è il processo di trasposizione del testo tradotto sul palcoscenico. Zuber considera la traduzione teatrale una «sottosezione» della disciplina della traduzione narrativa e la distingue da tutte le altre forme di traduzione in primis per due dominanti: la recitabilità e la parlabilità. «A play written for a performance must be actable and speakable» pertanto nella traduzione vanno presi in considerazione anche gli aspetti non verbali e 2 Pavis, 1998: 5. 10 culturali e i problemi sul palcoscenico3. Non esisterà una traduzione giusta e una traduzione sbagliata, ma quella più o meno accettabile, che possa essere recepita dalla cultura ricevente nel migliore dei modi. «Unlike the translation of a novel, or a poem, the duality inherent in the art of the theatre requires language to be combine with spectacle, manifested through visual as well as acoustic images»4. In Europa la traduzione di opere teatrali inizia nella seconda metà del Seicento, quando la grande richiesta da parte delle compagnie teatrali porta alla produzione di numerose traduzioni affrettate e spesso poco accurate. Nell’Umanesimo nasce invece un tipo di traduzione che privilegia la lettura anziché la rappresentazione: la traduzione dei classici. Un esempio emblematico è la traduzione di Shakespeare, che nel buio della teoria sulla traduzione teatrale rappresenta il filo conduttore empirico per capire le logiche sottese alle ricerche sulla traduzione teatrale. La Routledge Enciclopedia of Translation Studies5 dedica un capitolo alla Shakespeare Translation e paragona l’impatto che questa ha avuto sulle culture a quello avuto dalla traduzione della Bibbia. Nel caso di Shakespeare, ma ciò vale per tutte le traduzioni dei classici, si contrappongono i sostenitori dell’ortodossia filologica nella traduzione del dramma, che danno meno risalto alla recitabilità, e quelli che invece si azzardano a rivitalizzare il classico e a proporre scelte di traduzione che hanno come dominante l’accettabilità da parte della cultura ricevente. Solitamente però, questi ultimi tipi di “esperimenti” trovano poco seguito tra il pubblico e invece paradossale è sapere come traduzioni filologicamente orientate abbiano avuto così successo tra i classicisti, che vanno a teatro seguendo il testo scritto e solo di rado 3 Zuber, 1988: 485. Anderman, 1998: 71. 5 Baker, Malmkjaer, 1998: 222-226. 4 11 alzano gli occhi al palcoscenico. La conseguenza estrema dell’atteggiamento classicista è considerare il testo originale qualcosa di “sacro” e rifiutare invece un approccio “relativistico”, che sappia cioè giudicare caso per caso il prototesto e la relativa traduzione. I.3.2. LA SEMIOTICA DEL TEATRO Il traduttore può considerare il testo teatrale pura letteratura oppure parte integrante di una produzione teatrale, può quindi rispettivamente avere come committente un editore oppure un regista (o un teatro). Nel primo caso il frutto del lavoro del traduttore sarà un testo drammatico, nel secondo caso un testo spettacolare, cioè l’attuazione scenica. La distinzione tra testo drammatico e testo spettacolare si deve alle riflessioni teoriche e analitiche del circolo di Praga, che agli inizi degli anni Trenta elabora la disciplina delle semiotica del teatro. In una prima fase la semiotica del teatro punta il proprio interesse sull’elemento testuale del teatro, in particolare sul testo verbale scritto che costituisce il testo drammatico (concezione linguistico-strutturalista). La preferenza per il testo scritto, considerato l’elemento fisso e invariante del teatro, è sicuramente retaggio della concezione logocentrica, che da Aristotele fino alla fine dell’Ottocento, è stata considerata l’unica risposta valida nell’analisi teatrale. Il testo scritto sarebbe portavoce del senso e quindi struttura profonda ed elemento essenziale dell’arte drammatica e le messe in scena sarebbero solo espressioni superficiali, posteriori e subordinate al testo scritto. La concezione logocentrica pone il testo e la scena in un rapporto dialettico, associato alla teologia (In principio era il verbo), che vede il testo come anima, portatrice di senso e la scena come corpo esteriore che «distoglie 12 il pubblico dalle bellezze della vicenda e dalla riflessione sul conflitto tragico»6. Dalla seconda metà degli anni Settanta, De Marinis si fa portavoce della necessità di una modifica radicale dell’approccio logocentrico: lo spettacolo concreto (il testo spettacolare) diventa vero oggetto dell’analisi semiotica. Il testo spettacolare permette di cogliere diacronicamente e sincronicamente il senso della rappresentazione. Alcuni semiotici considerano la messa in scena una traduzione intersemiotica, «una transcodifica di un sistema in un altro» e Pavis giudica ciò «una mostruosità semiologica»7. Anche continuare a concepire il testo scritto come unico elemento essenziale invariante del dramma e la messa in scena come espressione, puro «allestimento di un’evidenza testuale» è secondo Pavis sbagliato. Artaud giudica un «teatro di idioti, di pazzi, di invertiti, di pedanti, di droghieri, di antipoeti, di positivisti, in una parola di Occidentali» quel teatro che si ostina a subordinare lo spettacolo al testo8. Meno estrema sembra l’opinione di Zuber, che vede il testo scritto come elemento irrevocabile e permanente, mentre ogni messinscena basata su quel testo è diversa, unica, assolutamente contingente e legata alle varianti di tempo e spazio in cui si realizza: «a theatre performance is subject to changes according to audience reaction, acting performance, physical environment, and other factors»9. Non è possibile dunque giudicare il testo scritto e il testo spettacolare in termini gerarchici: sono parti imprescindibili del testo teatrale, che esistono e funzionano reciprocamente per creare il fatto 6 Pavis, 1998: 487-488. Pavis, 1998: 394. 8 Artaud in Pavis, 1998: 488 9 Zuber, 1988: 485. 7 13 teatrale. Il testo scritto è portatore di senso e la rappresentazione è «l’enunciazione del testo drammatico in una data messa in scena che conferisce al testo un senso e non un altro»10. Pavis pone l’attenzione su un’ulteriore corrente di pensiero che sostiene che tra testo e scena si creerebbe una distanza ermeneutica irriducibile, nel momento in cui non si considera più la scena subordinata al testo. La distanza che separa testo e scena permette di approcciarsi diversamente al testo e di interpretarlo con altri significati. Testo e scena diventerebbero così due componenti distinte, con significati diversi. Bernard Dort scrive che forse a teatro il piacere è dato dal vedere un testo, per definizione estraneo al tempo e allo spazio, inscriversi nell’istante effimero e nel tempo delimitato dello spettacolo. Così, la rappresentazione teatrale non sarebbe il luogo di una ritrovata unità, ma piuttosto quello di una tensione, mai pacificata, tra eterno ed effimero, universale e particolare, astratto e concreto, testo e scena. La rappresentazione non rappresenta più o meno un testo, ma lo critica, gli fa violenza, lo interroga; si confronta con esso e lo confronta a sé: non è un accordo, ma una lotta11. Il rapporto tra testo e rappresentazione non è d’altronde stato del tutto chiarito; le ricerche tendono a profilarsi su due binari paralleli: da una parte la semiotica del testo e dall’altra la semiotica della rappresentazione, senza individuare punti di confronto tra i risultati dei due approcci. Boselli nel suo saggio sostiene che tra testo drammatico e testo spettacolare sono da notare elementi di convergenza tipici dell’arte teatrale, vincoli reciproci che accomunano i due livelli, costituiti da codici spettacolari e convenzioni teatrali che portano a considerare alla 10 11 Pavis, 1998: 395. Dort in Pavis, 1998: 488-489. 14 base di tutto una forte intertestualità. A volte alcuni critici, per identificare ciò che è puramente teatrale e ciò che è extrateatrale, hanno stabilito codici teatrali riferendosi a un caso particolare, e hanno poi preteso di usare quei codici per tutte le altre analisi di casi diversi. Questa teoria è troppo rigida per poter descrivere il teatro. Usare il codice come elemento costitutivo, ben celato, della rappresentazione è secondo Pavis sbagliato di principio. Il codice deve essere piuttosto un metodo di analisi, che il fruitore, in quanto ermeneuta, sceglie per interpretare l’elemento rappresentato, sotto la guida dell’interprete12. Secondo Tessari la caratteristica propria di un testo drammatico è l’autenticità teatrale. Anche se scritto e non deputato a una rappresentazione, il testo drammatico deve in ogni caso essere pensato per essere recitato, non deve restare parole su carta, frutto di una lettura individuale. «I personaggi, i dialoghi, i monologhi posti su carta […] nascono e prendono forma (inconfondibile forma) da ben altra inclinazione mentale: quella che guarda alle parole della pagina scritta come a segni pienamente fruibili e collettivamente fruibili soltanto se vivificati da una finzione in atto che sappia farli propri»13. «There is pratically no teoretical literature on the translation of drama as acted and produced», scrive Lefevere nel 1980, che individua il motivo della mancanza di teorie nell’analisi testuale fallace confinata solo al testo scritto (il testo drammatico) e nella scarsa importanza data alla pragmatica nel contesto della traduzione teatrale. E pensare che sono proprio i paradigmi pragmatici a distinguere un testo drammatico da un testo “ordinario”. Searle sosteneva che «non vi sono proprietà testuali, siano esse sintattiche o semantiche, che possano identificare un testo 12 13 Pavis, 1998: 394 Tessari, 1996: 23, corsivo aggiunto. 15 come opera di finzione»14; piuttosto un testo drammatico è tale perché circoscrivibile entro la cornice della finzione, perché pensato per essere sensorialmente percebile. Il campo di interesse per un traduttore di testi teatrali deve essere dunque interdisciplinare. È «indispensabile che il traduttore di poesia teatrale lavori di conserva con tutti coloro che allestiscono lo spettacolo e prenda parte al vivo della sua preparazione»15. 14 15 Searle in Pavis, 1998: 486. Luzi, 1990: 99. 16 I.4.1. LA TRADUZIONE ARTISTICA «Ora questo prodigio può avvenire a un solo patto: che si trovi cioè la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella, propria a quel dato personaggio in quella data situazione: parole, espressioni, frasi che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole» LUIGI PIRANDELLO, L’azione parlata («Marzocco», 7 maggio 1899) Lo studio della traduzione teatrale o della cosiddetta transformance, trascurato nel fiorire di studi sulla traduzione degli ultimi decenni solleva il sipario su una serie di questioni che ricadono nella sfera della traduzione della poesia, della narrativa e persino di testi tecnici e gergali, persino della traduzione simultanea o consecutiva che necessitano della competence dell’oralità. Il fatto che tradurre (per) il teatro si confronti direttamente con testi drammatici che vivono la nostalgia della scrittura scenica, rende questa attività il vero cavallo di Troia per accedere a una considerazione teorica nuova del fatto traduttivo che non sia più dicotomica ovvero estemporanea e meramente esperienziale, ma che finalmente assuma la traduzione come un atto creativo e vitale, come un’operazione di primo grado e di portata universale che implica responsabilità e sfrontatezza allo stesso tempo e che non deve considerarsi ancillare ad altre. Nell’ambito dei fenomeni di traduzione intesi in senso ampio, la traduzione di un testo teatrale costituisce dunque un sottoinsieme 17 specifico, con caratteristiche peculiari16. Lo statuto di un testo teatrale assume la performance, la scrittura scenica, come inveramento della scrittura drammatica. La restituzione di un testo teatrale a un’altra lingua, presuppone sempre una storicizzazione e una contestualizzazione di convenzioni e codici dell’oralità17. La semiotica del teatro, arriva a configurare la messa in scena come il punto prevalente se non centrale della trasposizione di un testo drammatico, nel quale l’elemento verbale, letterario, funge da pre-testo o da geno-testo18 (Ubersfeld 1996, 20-21), cioè da testo che precede il vero testo teatrale, la scrittura scenica, senza per questo presentarsi come l’occasione per una decostruzione arbitraria quale che sia. I fattori sovra-segmentali, paralinguistici e/o illocutori (ritmici, prosodici, prossemici, cinesici) e i codici della scena (la luce, la scenografia, i costumi, la musica) trasformano radicalmente il significato letterario e letterale del segno verbale nudo e crudo fino talora a renderlo irriconoscibile19. Ogni traduzione, intesa come momento ermeneutico, lascia dei blanks, degli spazi di senso che gli interpreti sono chiamati a riempire, la parola e la frase di un testo che deve essere detto, agito, “performato”, devono sempre porsi il problema della risonanza, dell’eco, della nostalgia che la parola teatrale “soffre” nel fissarsi sulla pagina scritta. E non solo la parola, ma tutto il sistema di equilibri che si stabilisce tra visibile e non visibile, tra detto e non detto, tra presente e assente che fanno la specificità dell’evento hic et nunc. In questa specificità c’è il corpo e la voce del performer, cioè il fatto che la traduzione del segno teatrale si realizza all’istante, vive la sua acme e ne muore eroicamente nello stesso momento (ovvero lo vive fino a 16 Bassnett, 1993: 148-163; Bassnett, Lefevere, 1998: 90-108; Zatlin, 2005: 1-102. Segre, 1984: 103-118. 18 Ubersfeld, 1996: 20-21. 19 Elam, 2002: 162 sgg. 17 18 morirne), non permette il ritorno all’indietro o il giro su sé: il performer fa carne e sangue, sudore e respiro, traduzione in azione di quell’atto traduttivo che in ogni altra forma espressiva viene presupposto, agito altrove, persino dimenticato nella fruizione che si fa a posteriori dell’opera tradotta. Il performer è, per così dire, la mise en abyme del traduttore, il suo riflesso e la sua proiezione drammatica, scenica, metafora e metonimia dell’atto interpretativo che si produce davanti agli occhi e nelle orecchie del fruitore in praesentia. Se il testo drammatico dunque è un testo incompleto, l’analisi di una traduzione teatrale non può che confrontarsi da principio con questa latenza o latitanza. L’analisi di tipo storico-descrittivo di una traduzione teatrale contiene in sé un aspetto remotamente normativo che prospetta la traduzione della parola teatrale come traduzione di qualcosa non solo e non tanto di dicibile ad alta voce, di recitabile, quanto come qualcosa di non finito (che non vuol dire vago), ma artatamente codificato come incompiuto, da compiersi in infiniti atti interpretativi, attinenti al piano della realizzazione dal vivo. Susan Bassnett20 sostiene, a ragione, che concetti come speakability (dicibilità) e performability (recitabilità), resistendo a una vera e propria definizione semiotica e, nonostante questo, molto abusati come fattori distintivi di una drammaturgia naturalista, psicologista e illusionistica, risultino abbastanza inservibili come parametri ispiratori di una traduzione teatrale in senso lato e di un giudizio oggettivabile su di essa. E allora cos’è che fa della scrittura teatrale uno specifico (e forse paradigmatico) campo della traduzione? Peculiare della scrittura teatrale è la deissi; ovvero in un qualsiasi testo teatrale sono inscritti particolari 20 Bassnett, Lefevere, 1998: 94-95. 19 indicatori di spazialità, di temporalità e di movimento che si realizzano nell’uso di particelle del discorso, di certi pronomi dimostrativi, di certi avverbi, di certi verbi che forniscono suggerimenti spesso ineludibili per l’esecuzione della partitura drammaturgica (antica e moderna) e che devono essere decodificati al pari di qualsiasi altro elemento della semiosi. La questione della deissi è connessa a quella della didascalia, anche se non si identifica interamente con questa: ogni testo teatrale, in un’ottica schematica ma non arbitraria, reca in forma implicita (da Eschilo a Shakespeare e Molière) o esplicita (dalla riforma goldoniana ai nostri giorni) dei suggerimenti di scrittura scenica quasi sempre obbligati per il/i realizzatore/i della scrittura drammatica. La restituzione di questa complessità straordinaria di tipo semiotico richiede un’abilità artigianale in senso totale che traduca gli spunti deittici e didascalici della drammaturgia in segni scenici; un’operazione qual è quella del regista, dello scenografo, del costumista, del disegnatore luci e ovviamente dell’attore/performer. Non mi riferisco a quell’operazione di passaggio da un patrimonio linguistico all’altro che in un caso come la scrittura teatrale non è, se mai è, un fatto puramente linguistico, ma si configura come una vera e propria ricollocazione radicale dell’oralità/auralità del testo di partenza nell’oralità/auralità del testo di arrivo al variare delle variabili su elencate. I.4.2. IL TRADUTTORE-ATTORE Il traduttore del testo teatrale, che non si limiti a intendere Sofocle come Cechov nel senso di letteratura teatrale nella quale la rappresentazione si predispone al massimo come l’illustrazione mentale della scena di un romanzo o di un racconto, dovrebbe vestire l’habitus 20 del metteur en scène, cioè porsi nei confronti del testo di arrivo in una prospettiva comunicativa concreta. Questo non significa che si debba lasciar tradurre il teatro esclusivamente ai teatranti, ma che il traduttore teatrale dovrebbe assumere, quanto teatrale, l’atteggiamento del come se, cioè quello di una restituzione che si faccia carico di essere a ogni passo scrittura vivente, e dunque di vedere e di ascoltare le parole, le azioni, gli spazi e i tempi dell’azione scenica come se fosse il regista, lo scenografo, l’attore, il Dramaturg etc. Con l’idea produttiva di vedere e sentire in piedi, in azione, lettera viva, ciò che è disteso, addormentato, lettera morta o dormiente sulla pagina: con l’idea di essere il primo medium non solo della coerenza/correttezza linguistico-grammaticale, ma anche di quella scenico-drammatica. Kantor diceva: “Ritengo che il teatro sia un guado nel fiume. È un luogo attraverso il quale i personaggi morti dall’altra sponda, dall’altro mondo passano al nostro mondo, ora, nella nostra vita. […] E cosa succede poi? Una risposta la può dare il Dibbuk […], lo spirito di un morto che entra nel corpo di un altro uomo e parla per lui”21. Come l’attore, infatti, anche il traduttore – in particolare quello teatrale – dovrebbe “denudarsi” e liberarsi dei vari condizionamenti (compresi quelli dati dalla sua stessa “enciclopedia” e conoscenza del testo che sta traducendo) che ostacolino la libera evocazione e la comunicazione, attraverso il suo corpo e la sua voce, con corpi e voci altrui. Denudarsi e indossare – come l’attore – una maschera e panni che non sono suoi, ma “presi in prestito”. Da questa fondamentale affinità dell’arte e del mestiere del traduttore anche con quello dell’attore, deriva la sinonimia del termine “interpretazione” per entrambi i ruoli. Onde per cui il primo ruolo che il traduttore deve ricoprire è proprio quello di alter 21 Cit. in Pleśniarowicz, 1997: 221. 21 ego dell’autore, di deuteragonista in un’”azione” da ripetere (re-citare) e da interpretare, appunto, che è quella stessa della composizione dell’opera. Forse intendeva proprio questo il Maestro Agostino Lombardo, quando in una lezione affermò un po’ scherzando, ma in realtà molto seriamente: «Quando traduco Shakespeare arriva un momento in cui io sono Shakespeare». E vale proprio la pena, a questo punto, di una lunga citazione di Alessandro Serpieri22: «Come nella scrittura di primo grado, deve rimanere nella scrittura traduttiva una interazione di significati espliciti e impliciti, di un “sapere” e un “non sapere”, che investono poi quel meccanismo propulsivo del discorso che è la suspence legata alla continua domanda che il testo drammatico, fatto di un continuo trascorrere di “presenti” scenici in quanto mimesi della vita reale, offre allo spettatore: che cosa sta per succedere dopo questo? […] Il traduttore, credo, dovrebbe mettersi anche sotto questo punto di vista, nei panni dell’autore: e cioè “sapere” tutta l’azione, e quindi tutto il testo, che va a tradurre, e tuttavia, anche, “non sapere”, non ricordare ogni nesso, ogni micro svolgimento, dell’azione, in modo da poter scoprire e trasmettere l’energia propulsiva che, nello srotolarsi del testo durante il processo traduttivo, gli si presenta come sua necessità, e strategia, interna. In tal modo, la conoscenza paradigmatica del testo può unirsi alla sua progressiva conoscenza sintagmatica, conducendo alla scoperta del suo dinamismo. Io conoscevo bene Amleto e Macbeth, prima di tradurli, ma nell’atto traduttivo tendevo volutamente a dimenticare tutti gli svolgimenti interni di quei testi, appunto per potermi “stupire” della loro progressione, per poter scoprire, nel volgerli nella mia lingua, 22 Serpieri, 2001: 169. 22 quella energia che nessuna analisi e conoscenza paradigmatica o sommario di fabula può contenere in sé». Andando avanti nel ragionamento, Serpieri dispiegava la sua teoria dell’energia del dramma, «energia che si sprigiona da tutti i suoi atti linguistici, cioè dall’interazione delle battute, e dalle emozioni e dagli eventi che da quelle battute si sviluppano» ed è infatti anche energia dello spazio e del tempo teatrale, energia del corpo dell’attore e «infine o prima di tutto, energia dell’invenzione letteraria, stilistica, retorica, tematica, che tiene insieme tutte le fila dell’azione e rimarrà memorabile anche al di là del palcoscenico per cui è nata affidando il dramma al piacere della lettura»23. La traduzione deve consentire al regista, all’attore, allo spettatore, al destinatario nelle sue multiple articolazioni, di apportare il proprio contributo determinante (che può essere anche un contributo di smarrimento temporaneo), di inaugurare a ogni battuta, a ogni scena, a ogni nodo drammatico quel sano conflitto, molla dell’azione drammatica, tra autore e regista, tra attore e autore, tra spettatore e regista o tra attore e spettatore da una parte e regista dall’altra o viceversa etc., consentendo a ciascuno di farsi il proprio film. Così da contraddire o da mutare di segno all’immagine di un traduttore senza palcoscenico, proposta da Wechsler24: «Il problema del traduttore è quello di essere un performer senza palcoscenico, un artista la cui performance pare proprio quella 23 24 Ivi: 170. Wechsler, 1998: 7. 23 dell’originale, un dramma, una canzone o una composizione che resta sulla pagina». Insomma, è verissima l’avvertenza del regista teatrale e cinematografico Peter Brook25: «Restiamo vigili: dietro ogni segno visibile sulla pagina, si cela un altro invisibile, difficile da cogliere. Sul piano tecnico sono necessari minore abbandono e maggiore concentrazione, minore ampiezza e maggiore intensità», ma se pure fin qui abbiamo soprattutto sottolineato la teatralità del discorso e della traduzione teatrale, dall’altra parte non potremo non ricondurre il testo – qualunque testo d’autore – alla sua fondativa letterarietà, e ribadire la lapalissiana verità che la concentrazione e l’intensità del lavoro di traduzione poggiano innanzitutto sul terreno linguistico-letterario. Insomma, per tornare alle ormai fruste categorie jakobsoniane, ogni traduzione che si rispetti, per interlinguistica e/o intersemiotica che sia, «dovrà pur esser preceduta e accompagnata da un lavoro endolinguistico [che] è di competenza della filologia, della storia della lingua e della stilistica»26. Trascurare questo ovvio assunto deontologico significherebbe peccare di presunzione da parte del traduttore (foss’anche lo scrittore più famoso), il cui mestiere invece, e il cui talento, dipendono soprattutto da ben altre qualità, che sono quelle dell’umiltà, del rispetto e della correttezza. 25 26 Brook, 1998: 80. Serpieri, 2001: 163-164. 24 I.5. DRAMMATURGHI, TRADUTTORI, SPETTATORI Nel suo saggio Mario Luzi descrive il rapporto tra autore e traduttore nella lirica come un «duello» tra il primo che vorrebbe che il proprio lavoro rimanesse intonso, autentico, e il secondo che in quanto portatore di creatività e autonomia si sente legittimato alla creazione. Questo gioco tra le due parti può allo stesso modo capovolgersi, vedendo l’autore originale come vittima passiva dell’«immobilità dell’oggetto» creato, e il traduttore come l’artefice vero e proprio della creazione. La contesa sarà giocata non a cielo aperto bensì segretamente e quindi il vincitore e il vinto, i torti o le ragioni, insomma il giudizio, resterà completamente limitato ai princìpi sottesi riconosciuti solo da una delle due parti27. Alcune concezioni comuni che riguardano la letteratura in generale considerano il testo originale come un «ipo-testo eterno» e autentico, e le sue traduzioni come «iper-testi caduchi»28, meramente circoscritti alle varianti di tempo e spazio. Secondo tali concezioni la traduzione verrebbe vista e sentita come un rapporto padrone-servitore, in cui chi sopperisce alle leggi di autenticità e originalità è il traduttore, a discapito della «prerogativa del disporre e del fare»29. Nell’ambito della traduzione teatrale tali teorie immobiliste appaiono ingiustificate. A teatro la sottesa disputa tra autore e traduttore viene ufficializzata e il merito o il demerito dell’uno o dell’altro viene giudicato dal palcoscenico, che «registra come un sismografo le variazioni d’energia del linguaggio»30. Anche le minuscole disattenzioni che sulla carta scritta possono considerarsi innocue irrimediabilmente trapelano nella messa in 27 Luzi, 1990: 97. Boselli, 1996: 66. 29 Luzi, 1990: 97. 30 Luzi, 1990: 98. 28 25 scena per la mancanza di fluidità nel dialogo o per l’assenza vera e propria di azione, come spesso nota Corrigan nel suo saggio. Stark Young a proposito della traduzione di Čehov sostiene che «the speech lives or dies […] by its precision. In the form alone lies much of its meaning and all its point»31. Altre volte invece traduzioni corrette e dotate di senso logico non riescono a far scaturire l’azione, non assecondano la recitazione. Nell’ambito teatrale si distinguono due scuole di pensiero che descrivono due diversi approcci che il traduttore di un’opera teatrale può assumere. La prima è quella dei traduttori “gelosi” della loro autonomia che perseguono la strada dalla traduzione “eterna”, producono testi statici che verranno solo pubblicati, e lasciano quindi libero arbitrio al regista per quanto concerne la messa in scena dell’opera. La seconda scuola invece, si occupa di traduzioni in funzione di uno spettacolo che hanno quindi come dominante la recitabilità e tengono in conto soprattutto una reinterpretabilità da parte della cultura ricevente. Questa scuola si trova d’accordo con la seguente asserzione di Zuber: «as well as being a literary text, the translation of drama as a performing art is mainly dependent on the final production of the play on the stage and on the effectiveness of the play on the audience»32. Tali traduzioni, pur di ottenere un’efficace ricezione dal pubblico, tralasciano il rigore e l’esattezza filologica del testo originale. In un connubio tra immagini acustiche, visive ed emozionali, il teatro trasmette un messaggio e allo stesso tempo allieta l’animo del pubblico: quale migliore mezzo di comunicazione? Nel caso di un dramma tradotto si tratta di comunicazione interculturale. Ecco che il 31 32 Young, 1938: 740. Zuber, 1988: 485. 26 teatro riesce a diventare anche un eminente luogo d’intertestualità, assumendo «i connotati di una corsia preferenziale per il dialogo interculturale»33. Non può esistere una traduzione definitiva ed eterna, ma solo adatta alla cultura che è pronta a riceverla. L’arte teatrale è in continua evoluzione e strettamente esposta all’influenza del momento. La lontananza temporale, linguistica, culturale sono sfide che il traduttore professionista affronta quotidianamente, sono presupposti del suo lavoro come lo è conoscere la lingua straniera. Nel teatro, chi giudica il lavoro del traduttore è il pubblico, che si aspetta, a seconda dei casi, di divertirsi o di commuoversi, ma soprattutto di trovare punti di complicità, di trarne un insegnamento, insomma di comprendere l’opera e sentirsi partecipe del fatto teatrale. Sminuire il pubblico come digiuno di senso critico, passivo, incapace di cogliere messaggi, è un grave torto che si fa al destinatario del fatto teatrale. È per lo spettatore che il traduttore deve lavorare, è per ottenere la sua ricezione dell’opera che il traduttore spesso deve scendere a patti con il rigorismo della traduzione letteraria, seguire scelte coraggiose che possano rendere la fluidità dell’opera e la sua freschezza, come se fosse nata nuovamente e per la prima volta venisse presentata a quel particolare pubblico. Pirandello a tal proposito sostiene che: «Nell’esecuzione si dovrebbero trovare tutti i caratteri della concezione»34. Solo in questo modo si permette alla comunicazione interculturale di eseguirsi. Se il teatro nega alla cultura emittente il diritto di essere rappresentata in maniera completa, con pregi e difetti, questa ne esce sconfitta, sminuita. La comunicazione si svolgerà solo in termini di chiusura tra le due culture e dà adito ai soliti pregiudizi e luoghi comuni, 33 34 Boselli, 1996: 71. Pirandello, 1939: 234. 27 che purtroppo esistono proprio per una mancanza di conoscenza reciproca. Sconfitta è anche la cultura ricevente, che vede vanificato il suo andare a teatro: viene privata del diritto di giudizio spassionato di un’altra cultura, diversa e magari lontana, che il teatro avrebbe potuto rendere più vicina. Normalmente nella narrativa, in funzione dell’abbattimento della distanza spaziale e temporale che intercorre tra la cultura emittente e quella ricevente, la traduzione viene accompagnata da un apparato metatestuale, che può essere costituito da un’introduzione, da note, commenti, saggi critici che inquadrano il testo. Nel teatro un tale apparato è improbabile e poco fattibile, quindi a maggior ragione la distanza deve essere colmata nella rappresentazione, in tutto l’apparato teatrale, preceduta da un impianto teorico affidato alla collaborazione fra linguisti, letterati, comparativisti, drammaturghi e registi35. Chiaramente è impossibile ottenere l’effetto equivalente, ovvero sortire gli stessi effetti che l’autore originale voleva per il pubblico che parla la sua lingua, anche perché è difficile capire quale è. Pirandello nel suo saggio ha come leitmotiv l’impossibilità dell’interpretazione in toto. Ogni persona sente e vede alla sua maniera e quindi non esiste mai un’interpretazione perfettamente filologica, specchio di ciò che l’autore sentiva e vedeva. L’opera di mediazione tra una lingua e l’altra non è mai obiettiva perché il sentire e il vedere del traduttore non può mai venire completamente filtrato, annullato. E l’attore, che si “intromette” tra la creatura e l’autore, può solo cercare di incarnarsi nel personaggio creato dal drammaturgo e tuttavia l’immagine da lui incarnata è solo somigliante e non uguale, perché ricreata un’altra volta nel suo corpo, nella sua mente, nella sua voce, nel suo gesto. Pirandello associa il caso dell’attore a quello del traduttore: la creazione di qualcosa di altro, che 35 Anderman, 1998: 74. 28 pur perseguendo il fine della trasmissione di una «creatura» non sua, ha in sé l’espressività del traduttore, e non più dell’autore originale. La creazione da parte del traduttore di qualcosa di nuovo, di un altro originale si associa al pensiero elaborato da alcuni traduttori brasiliani, il «cannibalismo», secondo il quale il traduttore divora il prototesto e ne crea uno tutto suo36. Sia che si giudichi il traduttore un “cannibale” che si ciba del testo originale per crearne un altro, oppure un rigorista ortodosso e filologicamente fedele, è necessario affrontare la spinosa questione del lettore modello nella traduzione teatrale. Il saggio di Corrigan ripete insistentemente che la traduzione deve essere fatta per gli attori. Possiamo dunque azzardare che il lettore modello del processo traduttivo di un’opera teatrale sia l’attore? E lo spettatore, il fruitore dell’opera, che ruolo assume nel processo teatrale? Probabilmente si dispiegano due passaggi traduttivi: nel primo il lettore modello del traduttore è l’attore; nel secondo il traduttore ha come lettore modello il pubblico. Anche in questo caso non vi è purtroppo l’apporto teorico per rispondere al quesito. Le ricerche sono numerose per quanto concerne il ruolo dell’attore, il ruolo del pubblico e il lettore modello nella narrativa, ma non è ancora affiorato un confronto tra questi studi che dimostri quale sia il lettore modello nella traduzione teatrale. Se si vuole considerare il teatro come una sorta di episodio di lettura collettiva, multimediale, possiamo ben decretare il pubblico come lettore modello a cui il traduttore si indirizza, un pubblico che però diventa entità unica. Durante la fruizione, infatti, l’individualità dei singoli spettatori si uniforma almeno parzialmente. 36 Boselli, 1996: 66. 29 Non si può separare lo spettatore come individuo dal pubblico come agente collettivo. Nello spettatore-individuo passano i codici ideologici e psicologici di molti gruppi, mentre la sala costituisce, a volte, un’entità, un corpo che reagisce in blocco37. Uniformare il pubblico significa prefissarsi un pubblico ideale, che sia in grado di comprendere nell’unico modo possibile la messinscena. Questo concetto è il fulcro dell’estetica della ricezione di Jauss (Rezeptionsästethik) e Pavis ritiene assai improbabile considerare il fatto teatrale in funzione di un «ricevente onnipotente»38. Il pubblico è a rigor di logica considerato in blocco perché si trova a dover interpretare in blocco nello stesso spazio e nello stesso tempo il fatto teatrale, ma non è detto che da esso scaturisca una reazione e un’interpretazione in blocco. Tale opinione però non vuole dare adito alla legittimità di molteplici interpretazioni tutte possibili, nel teatro così come nella letteratura: come Pareyson sostiene «è sempre una persona concreta quella che, dal suo punto di vista, cerca di rendere e far vivere l’opera com’essa stessa vuole»39. 37 Pavis, 1998: 426. Pavis, 1998: 427. 39 Pareyson, 1954 [1988: 11]. 38 30 I.6. TRADURRE PER GLI ATTORI di Robert W. Corrigan Ci troviamo ora in questo paese per scoprire le opere teatrali di drammaturghi europei quali Ionesco, Beckett, Genet, Adamov e Ghelderode. Con un certo moralismo che è quasi ciò che ci si aspetta, tendiamo a rifiutare tali opere e a qualificare oltraggiosamente i loro autori come avant-garde. Tuttavia, in un certo qual modo – nonostante la nostra avversione – le opere continuano a riaffermarsi; mantengono una misteriosa presa sulle nostre sensibilità. Nonostante la loro apparente imperscrutabilità e semplicità, possiedono una vitalità nel nostro teatro che si è persa. Ma qual è il fulcro di questa vitalità? A una rapida osservazione, è la qualità non didascalica delle opere di questi drammaturghi a differenziarle da quelle forme stereotipate a cui siamo tanto abituati; non ci sono “princìpi morali” chiari e ben confezionati o gesta “ispiranti”. Tuttavia, sottolineando questa mancanza di didascalicità, scoviamo presto una questione più centrale: ciascuno di questi drammaturghi si sta rivoltando contro la tirannia delle parole del teatro moderno. Il dialogo non è un monologo ripartibile tra diversi personaggi; non c’è nessuna linea guida o rimando intertestuale evidente, ai quali siamo così avvezzi; sono presenti molteplici simboli, ma questi simboli non rappresentano nulla in particolare e allo stesso tempo evocano molte cose. In ognuna di queste opere i personaggi conducono la propria vita, esprimono i loro pensieri. I loro discorsi si ripercuotono l’uno sull’altro e scorrono altrove. Infine, in ogni dramma vi è un’insistenza sui gesti della pantomima, annoverati come mezzi di espressione teatrale più appropriati e validi; un’insistenza sul fatto che il gesto mimico preceda la parola parlata e che il gesto sia la vera 31 espressione di ciò che proviamo, mentre le parole possono soltanto descrivere ciò che proviamo. Precisamente, questi drammaturghi asseriscono che, oggettivando il sentimento nell’intento di descriverlo, le parole uccidono lo stesso sentimento che vorrebbero descrivere. Non c’è da stupirsi, dunque, che questi autori si trovino in grande sintonia con i mimi – Etienne Decroux, Marcel Marceau e Jacques Tati; non c’è da stupirsi che traggano ispirazione dai primi film di Charlie Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy, dei Keystone Cops, e dei fratelli Marx; non c’è da stupirsi infine che siano tutti sotto l’influenza di Jacques Copeau e Antonin Artaud. È solo con la recente traduzione verso l’inglese del libro di Artaud, Le Théâtre et son double [Il teatro e il suo doppio] (il primo, fondamentale, lavoro di Copeau non è stato ancora tradotto), che la maggior parte di noi ha potuto scoprire cosa fosse l’estetica dell’intero movimento teatrale dell’avant-garde. La premessa fondamentale di Artaud era che nel teatro è un errore sostenere che «in principio era il verbo». E il nostro teatro fa proprio quell’assunto. Per la maggior parte di noi, critici così come drammaturghi, il verbo è tutto; senza non vi è possibilità di espressione; il teatro è considerato un ramo della letteratura, e anche se ammettiamo una differenza tra il testo declamato sul palco e il testo letto con gli occhi, non siamo ancora in grado di separarlo dall’idea di un testo recitato. Artaud e i suoi discepoli sostengono che il nostro teatro moderno orientato psicologicamente stia sconfessando la natura storica del teatro. A loro parere, il palco è un luogo fisico concreto che deve parlare un linguaggio proprio – un linguaggio che va più in profondità rispetto alla lingua parlata, una lingua che si rivolge direttamente ai nostri sensi, 32 invece che in primis alla nostra mente, come fa il linguaggio delle parole. Questo è l’aspetto più significativo del teatro dell’avant-garde – è un teatro del gesto. «in principio era il gesto»! Il gesto non è un’aggiunta decorativa che accompagna le parole; è invece il fulcro, la causa e il regista della lingua, e per quanto il linguaggio sia drammatico, è essenzialmente gestuale. È questa insistenza sul ripristinare la base gestuale del teatro che ha condotto alla ripresa della pantomima in opere quali Les Chaises [Le sedie], En attendant Godot [Aspettando Godot], Le Ping Pong [Ping-Pong], Fin de partie [Finale di partita], Le balcon [Il balcone] e Escurial. Chiunque di voi abbia assistito a un riallestimento di queste commedie sa come questa pantomima sia diversa dalla pantomima come viene intesa dalla maggior parte dei contemporanei. Per molti di noi, la pantomima è una serie di gesti che rappresentano parole o frasi – una sciarada. Ma questa non è la pantomima storica. Per i grandi mimi, sostiene Artaud, i gesti rappresentano idee, atteggiamenti mentali, aspetti della natura che sono realizzati in un modo efficace e concreto, evocando costantemente oggetti o dettagli della natura, come fa il linguaggio orientale rappresentando la notte con un albero su cui un uccello che ha un occhio sta per chiudere l’altro. Il famoso regista Mejerhol´d al volgere del secolo si stava impegnando per raggiungere lo stesso obiettivo, nel tentativo di ridare vitalità al teatro russo. A eccezione di Čehov – e l’affinità dell’avantgarde con Čehov è maggiore di quanto si possa pensare a una prima lettura – numerosi drammaturghi di quel tempo stavano cercando di trasformare la letteratura da leggere in letteratura per il teatro. Mejerhol´d notò correttamente che questi scrittori erano in realtà romanzieri che pensavano che riducendo il numero dei passaggi 33 descrittivi e rianimando la vicenda aumentando i dialoghi tra i personaggi, ne sarebbe risultata un’opera teatrale. Quindi questo scrittore-romanziere avrebbe invitato il lettore a passare dalla biblioteca all’auditorium. Come Mejerhol´d scrisse nel suo saggio Фарс [La farsa]: «Il romanziere ha bisogno dei servizi del mimo? Certamente no. Gli stessi lettori possono salire sul palco, assumere delle parti, e leggere al pubblico ad alta voce il dialogo del loro romanziere prediletto. Questo è ciò che viene denominato «un’opera recitata armoniosamente». Al lettore-trasformato-in-attore viene subito dato un nome e viene coniato il nuovo termine di «attore intelligente». Lo stesso silenzio di tomba regna tra il pubblico, come in biblioteca. Gli spettatori sonnecchiano. Tale immobilità e solennità è appropriata solamente a una biblioteca». Vi è una certa sopravvalutazione intenzionale in tutto questo. Ovviamente, non si tratta di sopprimere il discorso nel teatro. Non è che il linguaggio sia meno importante nel teatro, piuttosto questione di cambiare il suo ruolo. Dato che l’unica preoccupazione del teatro è davvero il modo in cui i sentimenti e le passioni confliggono l’uno con l’altro, e l’uomo con l’uomo, nella vita – Arrowsmith lo descrive perfettamente usando il termine «turbulence» – il linguaggio del teatro deve essere considerato qualcosa di diverso da un mezzo per condurre i personaggi umani al loro compimento esteriore. Cambiare il ruolo del discorso nel teatro significa usarlo in un senso concreto e spaziale, combinarlo con qualsiasi altro elemento del teatro. In breve, il linguaggio del teatro deve essere sempre gestuale: deve scaturire dal gesto, deve sempre recitare e non deve mai essere descrittivo. Nel momento in cui la dichiarazione si sostituisce al un processo drammatico, il teatro muore. 34 Ciò può apparire abbastanza avulso dai problemi della traduzione, ma io non la penso proprio così. Se nel nostro tempo non siamo in grado di dare un’idea di Eschilo, Sofocle e Shakespeare che sia davvero esplicativa di ciò che stavano cercando di conseguire col teatro, è molto probabile che abbiamo perso il senso della loro concretezza nel teatro. È perché l’aspetto attivo e direttamente umano del loro modo di parlare e muoversi, tutto il loro ritmo scenico, ci sfugge. Non è abbastanza avere i testi delle loro opere, perché nessuno di questi grandi tragediografi è il teatro stesso. Il teatro è sempre questione di materializzazione scenica nello spazio. Chiamatela «arte inferiore», se volete, ma come insiste Artaud, «il teatro risiede in un certo modo di allestire e animare l’aria del palco, attraverso una conflagrazione di sentimenti e sensazioni umane a un dato punto, creando situazioni espresse in gesti concreti». Tenendo questo in mente, prima di poter affrontare i problemi specifici della traduzione per il teatro dobbiamo fare un passo avanti. E per questa parte del viaggio avremo bisogno di un nuovo Virgilio: così Antonin Artaud cede il posto a R. P. Blackmur, quel raffinato gentleman e critico cha ha guidato molti verso la critica moderna. Mi riferisco nello specifico al suo saggio, Language as gesture40. In questo saggio, Blackmur ci conduce in quei regni dove il linguaggio diventa gestuale. Blackmur vede oltre la semplice distinzione per cui la lingua è fatta di parole e il gesto è fatto di moto, fino ad arrivare alla distinzione opposta: «Le parole sono fatte di moto, fatte di azione o risposta, a qualsiasi distanza; e il gesto è fatto di linguaggio – fatto di un linguaggio al di sotto o oltre o in parallelo alla lingua delle parole». Partendo da questo presupposto è possibile per Blackmur considerare quel concetto così importante per chiunque scriva per il 40 Pubblicato in Accent nel 1943 e poi ristampato in un libro con lo stesso titolo nel 1952. 35 teatro: «Quando la lingua delle parole ha più successo diventa gestuale nelle sue parole». Blackmur nota che il gesto non è solo nativo della lingua, ma la precede, e dev’essere, in un certo senso, portato nella lingua che il contesto sia immaginativo o drammatico. Senza una qualità gestuale, nella lingua non esiste dramma. È così da quando «la gran parte della nostra conoscenza della vita e della natura – forse tutta la nostra conoscenza della loro opera e interrelazione – arriva a noi come gesto, e noi siamo maestri dell’abilità di quella conoscenza prima ancora di essere capaci di una rima o di un gioco di parole, o anche di una semplice frase. Blackmur poi procede definendo ciò che intende per «gesto nel linguaggio», e cito la sua definizione perché credo sarà utile al resto della mia argomentazione. Eccola: «Gesture, in language, is the outward and dramatic play of inward and imaged meaning. It is that play of meaningfulness among words which cannot be defined in the formulas in the dictionary, but which is defined in their use together; gesture is that meaningfulness which is moving, in every sense of that word: what moves the words and what moves us»41. Quando riusciamo a catturare quella qualità nelle parole staremo così scrivendo (o traducendo) per gli attori. E nel teatro si scrive solo per gli attori, mai per i lettori. Persino lo sguardo più affrettato alla storia del teatro dimostra che questo perde vitalità, e perde persino letteratura, nel momento in cui i drammaturghi smettono di scrivere per gli attori. Certamente, Shakespeare ci dà la prova più evidente su questo punto ma Eschilo, Sofocle, Euripide o Molière andrebbero altrettanto bene. Shakespeare è il più grande drammaturgo in lingua inglese e le sue opere sono grandi opere di letteratura, ma lui non stava scrivendo letteratura; 41 Blackmur, 1952. 36 lui scriveva soprattutto per gli attori; e, come sappiamo, scriveva per attori ben precisi. E questo è il fulcro della vitalità duratura delle opere. Inoltre, vorrei persino affermare che Shakespeare non avrebbe mai creato alcune delle sue scene se non avesse conosciuto gli attori che avrebbero dovuto recitarle. E per ciò che sappiamo dei festival greci e del teatro francese del Seicento, si può sostenere che Sofocle aveva il suo Burbage42 e Molière era il suo Will Kemp43. Ora, l’arte di scrivere per gli attori è stata quasi totalmente trascurata. L’idea che delle opere siano scritte per essere recitate sembra disturbare molte persone. Questo atteggiamento è, secondo me, in gran parte una reazione agli esercizi ottocenteschi di recitazione, che così spesso hanno dato prova di essere poco più che la prestidigitazione della tecnica. In ogni momento della storia del teatro si può trovare questo tipo di magia. Gli uomini più colpevoli erano solitamente attori; spesso erano quelli che venivano chiamati «grandi attori». Questi attori virtuosisti non possono essere del tutto condannati, dato che, con alcune importanti eccezioni, durante gli ultimi centocinquant’anni agli attori è stato dato da recitare di tutto tranne opere teatrali: pamphlet, trattati, articoli di giornale, e persino poemi epici. Ciò ha costretto gli attori che sono animali con un forte istinto di autoconservazione e considerevole ingegnosità ad abbandonare del tutto i testi letterari in favore di situazioni entusiasmanti e piene di suspense che davano loro la possibilità di esibire le proprie abilità. Arte molto scadente questa, ma business estremamente buono. Richard Burbage (1568-1619). Figlio dell’impresario James Burbage. Amico di William Shakespeare e suo collega attore nelle compagnie delle corti elisabettiane. Fu primo attore, infatti, dei The Lord Chamberlain’s Men [“servi del Lord Ciambellano], la compagnia teatrale per la quale Shakespeare componeva. 43 William Kempe (1560-1603). Attore teatrale e ballerino britannico, esperto nelle parti clownesche e considerato per questo l’erede naturale di Richard Tarlton. Kempe fu danzatore comico di giga e si produsse al Globe Theatre con la compagnia teatrale di Shakespeare, The Lord Chamberlain’s Men. 42 37 Anche se oggi tendiamo a misurare un attore dalla sua abilità nel raggiungere la completezza dell’intenzione del drammaturgo, ciò nonostante consideriamo con diffidenza qualsiasi opera che sembri scritta principalmente per gli attori. Questo è estremamente sbagliato, dato che gli attori sono il mezzo di espressione più valido del drammaturgo. Il potere dell’attore risiede nella sua umanità, non come supponiamo così spesso nella sua mente, nel suo corpo, nella sua faccia o addirittura nella sua voce. Solo nel teatro l’artista può rivolgersi agli uomini in quanto uomini per comunicare, esprimersi, e interpretare. Non ho mai capito il motivo per cui l’arte dell’attore venga così spesso sminuita per la sua transitorietà. Sicuramente la forza emotiva della rappresentazione dell’attore quella qualità che commuove il pubblico risiede nel fatto che possiede una propria mortalità, che è già andata nel passato irrevocabilmente come qualsiasi azione umana. È proprio per questa ragione che la preoccupazione dell’attore è di raggiungere, non la verità, piuttosto la correttezza. Rendere perfetta questa correttezza è il suo lavoro. Il movimento, i costumi, il trucco, e persino le parole sono accessori. Ciò che quindi l’attore chiede a un’opera non sono parole in forma di dialogo, bensì uno stimolo alla sua immaginazione. È a questo punto che il drammaturgo e i suoi attori convengono per la prima volta, ed è importante ricordare che il teatro è sempre un convenire. Questo è vero per la rappresentazione ed è vero per la creazione di tale rappresentazione. Essendo il commediografo il primo anello della catena della produzione, è una sua vanità rivendicarne la creazione. La sua opera non sarebbe mai un’opera teatrale se rimanesse solo parole su carta. 38 È per tale ragione che il commediografo – e anche il traduttore – non possono davvero preoccuparsi della “buona prosa” o del “buon verso” nel senso comune delle parole. La struttura è azione; non cosa viene detto né come viene detto, bensì quando. Per menzionare solo alcuni degli usi strutturali del linguaggio drammatico, per esempio l’uso di soliloqui,soliloqui, passaggi corali, sticomitia, dialogo indiretto e pause. Attraverso questo metodo, è possibile controllare dall’interno del testo dell’opera la velocità e il ritmo esatto che solitamente sono imposti dal regista. Soltanto capendo la dinamica teatrale dell’opera in questo modo, gli attori possono vedere la forma drammatica della parte individuale all’interno di una scena, invece di essere costretti ad affidarsi a un’intuizione che spesso è falsa e qualche volta porta a un’alterazione. Il fattore fondamentale, inalterabile del dramma è il “quando”, e la prima preoccupazione del drammaturgo deve essere questo momento dell’azione. Se non se ne cura, ed è il caso più frequente, saranno il regista o gli attori ad imporlo. In altre parole, il drammaturgo deve creare non solo il dialogo, ma anche quello che viene fatto e quando. Recentemente, commediografi e critici in egual misura si sono occupati della questione dello stile dello scrivere per il teatro. Invariabilmente, tali ricerche hanno a che fare con la forma della parola parlata. Questo è però un errore, dato che il punto di partenza non sono le parole. Oggi i nostri nuovi commediografi hanno finalmente questa percezione e ciò rappresenta la grande speranza per il nostro teatro. Dobbiamo noi stessi preoccuparci in primis dei gesti che producono i motivi che stanno dietro le parole. Ciò richiama alla mente quella vecchia e in parte umoristica massima del teatro: Mai prestare attenzione alle indicazioni sceniche del commediografo. (In questo senso è 39 interessante notare, e penso sia il fulcro del mio discorso, che nelle opere greche, o di Shakespeare, o di Molière non esistono indicazioni sceniche, se non entrate e uscite di scena. Il motivo, il significato e i gesti si trovano nelle parole stesse). Nel teatro moderno, comunque, le indicazioni sceniche sono il primo mezzo di comunicazione tra il drammaturgo e i suoi attori. Tali indicazioni non devono mai permettersi di sostituirsi al blocco44 del regista dicendo all’attore dove muoversi o come sedersi. E neppure devono istruire l’attore su come leggere le battute “pensierosamente”, “amaramente”, “allegramente”. (Si ricorda a questo punto Eugene O’Neill, il cui linguaggio “piatto” non aveva praticamente nessuna qualità emotiva. Di conseguenza è stato necessario per lui aggiungere un prefisso vicino a ogni dialogo con un’indicazione di scena per indicare come l’attore avrebbe dovuto leggere le parole, che di per sé non avevano alcun potere emozionale). Le indicazioni sceniche devono aumentare le parole da dire. Sono delle linee guida di tema e azione tra le parti individuali, e qualora realizzate nella rappresentazione diventano parti dell’opera come lo sono le parole che l’attore pronuncia. A questo punto il lettore potrebbe chiedersi se io sia consapevole del fatto che il mio argomento è la traduzione e non la stesura di opere teatrali. Lo sono, credetemi; tuttavia credo davvero fortemente che nessuno sia in grado di tradurre per il teatro – e che nessuno possa scrivere per esso – se non sa cosa significa scrivere per il teatro e come ciò si differenzia dalla narrativa. Procederei dunque a sostenere che non 44 Si definisce «blocking» o «staging»: «the precise moment-by-moment movement and the grouping of actors on stage». Il blocco consiste nelle posizioni statuarie di forze contrapposte assunte dagli attori sul palcoscenico per raggiungere un equilibrio. Trasposto nel movimento, significa controllo assoluto di tutte le sezioni del corpo da parte dell’attore. Il concetto si rifà alla concezione di Übermarionette [Supermarionetta] di Edward Gordon Craig, che vede l’attore come una marionetta, appunto, che si affida al regista, previo studio e controllo del proprio corpo. «L’artista (o la Supermarionetta) è l’attore che si preoccupa di ricordare nei dettagli, e di ripetere sempre uguale, il proprio percorso fisico e verbale. È l’attore capace, così, di creare un materiale paradossalmente solido, su cui il regista, quando ci sarà, potrà lavorare» (Schino 2001: 71). 40 scaturiranno mai buone traduzioni di opere teatrali da coloro che non abbiano avuto una certa formazione nella pratica del teatro. Senza tale formazione la tendenza sarebbe quella a tradurre le parole e i loro significati. Questa pratica non produrrebbe mai traduzioni recitabili, che è, in fondo, lo scopo di questo lavoro in prima istanza. Questo ci porta alla nostra considerazione finale. Tenuto conto che tradurre per gli attori è un’impresa diversa, quali sono le tecniche e i problemi specifici? La prima regola della traduzione per il teatro è che ogni cosa deve essere parlabile. È sempre necessario per il traduttore udire mentalmente l’attore parlare. Deve essere consapevole dei gesti della voce che parla, il ritmo, la cadenza, l’intervallo. Deve altresì essere consapevole dell’aspetto, del sentire, del movimento dell’attore mentre sta parlando. Deve, in breve, rendere ciò che può essere chiamato l’intero gesto della scena. Per fare ciò è importante sapere cosa fanno le parole e cosa significano, ma è ancora più importante sapere cosa non possono fare in quei momenti cruciali in cui l’attore ha bisogno di usare un gesto vocale o fisico. Solamente in questo modo il traduttore riesce a sentire le parole nel modo in cui si indirizzano l’una alle altre in armonia, in conflitto, e secondo uno schema e quindi come teatrali. Quello che dico, forse, è che è necessario piuttosto che dirigere un’opera, recitare l’opera, e osservarla mentre la si sta traducendo. Mi sono interessato alla traduzione per il teatro per necessità pratica. Diversi anni fa mi è stato chiesto di dirigere una produzione di Čehov, Дядя Ваня [Zio Vanja]. Avevo un cast eccellente e decisi di utilizzare quella che è generalmente considerata la traduzione migliore di Čehov. Le prove di lettura iniziali furono pietose. All’inizio credevo che ciò fosse consuetudine e che gli attori avrebbero superato la rigidità. 41 Dopo tutto, la traduzione aveva un senso logico. Ma ben presto – avevo la grande, anche se inusuale, fortuna di contare su tre mesi per preparare lo spettacolo – gli attori inconsciamente si misero a rivedere le battute. Suonavano meglio, v’era un flusso. Ora, le opere di Čehov sono tradizionalmente pensate come volubili, complesse, profonde, vaghe e impossibili da riproporre con successo sul palcoscenico americano. Tuttavia i miei attori stavano dimostrando che non era necessariamente così. Fu allora che ricordai i problemi di Čechov con Stanislavskij e come il commediografo abbia sempre insistito che il grande registaattore stava complicando ciò che in realtà era molto semplice45. E ho capito inoltre che le traduzioni non stavano esprimendo quella semplicità su cui Čechov insisteva. Invece del «But what for?» del testo, la traduzione riportava «though what his provocation may be I can’t imagine». Oppure «There is another thing too you take a drop of vodka now», quando Čechov aveva scritto semplicemente: «And you drink too». Oppure, infine, «as if the field of art were not large enough to accommodate both new and old without the necessity of jostling»; lui aveva scritto: «but there’s room for all». Poi, ecco un’illuminazione. Il significato e la complessità delle sue opere – e ne sono estremamente – ricche devono essere raggiunti indirettamente. Quando Čechov scrisse “Si richiede che l’eroe e l’eroina (di un’opera) siano drammaticamente efficaci. Solo che nella vita reale le persone non si Infatti, azzarderei a dire che Stanislavskij e la tradizione del Teatro dell’arte di Mosca hanno probabilmente fatto molto più di chiunque altro individuo o gruppo per distorcere la nostra idea su Čehov. Cosa che suggerisce quanto il traduttore debba essere sempre un critico. Non è un caso, a mio parere, che le migliori traduzioni delle tragedie greche spesso menzionate “Chicago” siano state realizzate da due dei migliori critici di tragedia greca dei nostri tempi. E dicendo questo, capisco improvvisamente che ho appena creato una specie di Craig-hianaÜbermarionette [Supermarionetta]: il traduttore è scrittore, regista, attore, spettatore, e ora persino critico. A cosa ci serve un teatro? Se tutti i traduttori si unissero, il teatro potrebbe essere definito desueto ogni quindici giorni e tutti i nostri problemi sarebbero risolti. 45 42 sparano addosso, né s’impiccano, né s’innamorano, né riportano a sé stesse proverbi ogni momento. Trascorrono la maggior parte del tempo mangiando, bevendo, rincorrendo donne, o uomini, oppure dicendo sciocchezze. È pertanto necessario che questo venga mostrato sul palcoscenico. In un’opera dev’esserci scritto che le persone vanno, vengono, cenano, parlano del tempo o giocano a carte non perché l’autore lo voglia ma perché questo è ciò che succede nella vita reale. La vita sul palcoscenico dev’essere com’è davvero, e anche le persone devono essere come sono, e non artificiose” stava cercando di dirci che le sue azioni drammatiche sono tutte racchiuse in una cornice banale e molto semplice. I piani della vita in apparenza sono riprodotti in tutta la loro familiare e naturale stupidità. Negli eventi in sé e per sé c’è ben poco di drammatico. Ciò che fa di questi episodi un teatro ricco di forza è la peculiare combinazione di sequenze, associazioni implicite e complicazioni, contrasti e ironie. È in questo modo che si creano i significati profondi. Ma se ciò vale per la drammaturgia, deve valere anche per le battute. Mi resi insomma conto che la traduzione doveva essere apparentemente facile e naturale. I significati interni e le profondità possono e devono apparire solo in forma teatrale e non dichiarativa, per mezzo di interazioni di semplicità superficiali e non battute complesse o vaghe, né di quello che Stark Young ha chiamato una «muggy, symbolic, swing-on-to-your- atmosphere sort of tone». Forse posso arrivare al punto con un esempio. Nel terzo atto di Zio Vanja vi è un lungo discorso del professor Serebrâkov, quel retrogrado pedante che ha trascorso tutta una vita a rimasticare le idee altrui sugli «ismi» della letteratura, e che ora proietta la propria inadeguatezza e il proprio inconsapevole senso di fallimento con atti di crudeltà contro chi 43 gli sta vicino. In questo discorso annuncia il suo piano di vendere la tenuta che Vanja ha lavorato così duramente per mantenere produttiva. Prendo quella che mi sembra la migliore traduzione di questo discorso: «Here is maman. I will begin, friends (a pause). I have invited you, gentlemen, to announce that the Inspector-General is coming. But let us lay aside jesting. It is a serious matter. I have called you together to ask for your advice and help, and, knowing your invariable kindness, I hope to receive it. I am a studious, bookish man, and have never had anything to do with practical life. I cannot dispense with the assistance of those who understand it, and I beg you, Ivan Petroviĉ, and you, Ilâ Iliĉ, and you, maman … The point is that manet omnes una nox that is, that we are all mortal. I am old and ill, and so I think it is high time to settle my worldly affairs so far as they concern my family. My life is over. I am not thinking of myself, but I have a young wife and an unmarried daughter (a pause). It is impossible for me to go on living in the country. We are not made for country life. But to live in town on the income we derive from this estate is impossible. If we sell the forest, for instance, that’s an exceptional measure which we cannot repeat every year. We must take some steps which would guarantee us a permanent and more or less definitive income. I have thought of such a measure, and have the honour of submitting it to your consideration. Omitting details I will put it before you in rough outline. Our estate yields on an average not more than two per cent on its capital value. I propose to sell it. If we invest the money in suitable securities, we should get from four to five per cent, and I think we might even have a few thousand roubles to spare for buying a small villa in Finland». Innanzitutto, neppure Houdini sarebbe riuscito a fare tagli a questi costrutti e nessun attore sarebbe riuscito a suonare convincente. Ma, cosa 44 più importante, alla traduzione mancavano il tono e significato della situazione nell’insieme. Qui c’è un cattivo professore che tiene una conferenza al Rotary Club. Tutti i manierismi da podio gli scherzi, le espressioni di cattivo gusto, il metodo del riassunto, i pedanti tentativi di non essere pedante, sono scartati o sottomessi a una prolissità di natura sbagliata. In più, alla traduzione manca la qualità retorica della battuta – il modo teatrale in cui l’oratore vede sé stesso. Come T. S. Eliot ha puntualizzato nel saggio Rhetoric and Poetic Drama, questo modo di fare retorica è comune a noi tutti e può essere di grande aiuto al drammaturgo moderno perché permette al pubblico di vedere un personaggio non solo come viene visto dagli altri personaggi, ma come lo stesso personaggio consapevolmente drammatizza sé stesso. Il discorso invece dovrebbe essere: «Here is mother. Ladies and gentlemen, let us begin. I have asked you to gather here, my friends, to inform you that the inspector-general is coming. (laughs) All joking aside, however, I wish to discuss a very important matter. I must ask you for your aid and advice, and realizing your unbounded kindness, I believe I can count on both. I am a scholar and bound to my library, and I am not familiar with practical affairs. I am unable, I find, to dispense with the help of well-informed people such as you, Ivan, and you, Ilya, and you mother. The truth is, manet omnes una nox, that is to say, our lives rest in the hands of God, and as I am old and ill, I realize that the time has come for me to dispose of my property in the interests of my family. My life is nearly finished, and I am thinking of myself, but I must consider my young wife and daughter. (a pause) I cannot go on living in the country; we were just not meant for country life. We might sell the forests, but that would be an expedient to which we could not resort every year. We must work out some method of 45 guaranteeing ourselves a permanent, and … ah, more or less fixed annual income. With this object in view a plan has occurred to me which I now have the honor consideration. I shall give you only a rough outline of it, omitting all the other some and trivial details. Our estate does not yield, on an average, more than two per cent on the investment. I propose to sell it. If then we invest our capital in bonds and other suitable securities, it will bring us four to five per cent, and we should probably have a surplus of several thousand roubles, with which we could buy a small villa in Finland...» Si ha teatro solo quando si ottiene il senso della parlabilità. Sono sicuro che questa è una delle cose che intendeva Hamlet quando raccomandava ai suoi attori: «Speak the speech, I pray you… trippingly on the tounge». In vista di tale obiettivo penso che i traduttori sbaglino nell’utilizzo di una risorsa importante: gli attori stessi. Ho diretto personalmente tutte le mie traduzioni di Čechov e, di volta in volta, gli attori hanno sempre fatto o suggerito modifiche che hanno migliorato molto la traduzione. Innanzitutto, due esempi di modifiche minime apportate dagli attori che non hanno fatto altro che migliorare il flusso delle parole. Originariamente avevo «It is too stifling». L’attore ha proposto «The day is too hot». Altrove «will they remember us in a kindly spirit?» è diventato «will they remember us with grateful hearts?» Tuttavia gli attori possono fare modifiche che alterano l’intera dinamica di una scena. Quando ho diretto Трисестры [Tre sorelle], per tre settimane ho cercato invano di costruire l’ultima scena del terzo atto in modo degno, o almeno di costruirla. Le mie tre sorelle erano ottime attrici e tutte avevano avuto una buona esperienza e formazione professionale. Sapevo che la costruzione doveva avere inizio con uno dei discorsi di Irina, ma non ne veniva nulla di buono. Poi una sera l’attrice 46 ha impostato il discorso a modo suo e la scena ha preso forma; era quello che volevamo. Solo in séguito mi sono reso conto che aveva cambiato una delle battute, e proprio questa modifica aveva trasformato il discorso, e quindi il resto della scena, in drammatico. La battuta originale era «Oh, I’m so miserable! I can’t work, I won’t work! I’ve had enough of it, enough!» l’attrice aveva invece detto «I’m miserable (pause). I’ve had enough, enough, enough. I can’t, I won’t, I will not work», ottenendo in questo modo una struttura che poteva essere costruita con la voce. Ovviamente, non sto suggerendo di fare modifiche azzardate o modifiche che alterino il significato del discorso. Semmai che un attore – nel dire la battuta – può essere di grande aiuto al traduttore per rendere il testo più recitabile. Oltre a rendere il testo più parlabile, il traduttore deve anche essere disposto a lasciare un residuo. Chiaramente, tutte le traduzioni sono necessariamente imperfette. Come diceva Eric Bentley, «If life begins on the other side of despair, the translator’s life begins on the other side of impossibility!» Ciò è particolarmente vero per Čechov, dato che le sue opere sono finemente intessute e si fondano su tratti specifici della cultura russa. Per esempio, nel secondo atto dello Zio Vanja vi è il battere del guardiano. È un tocco perfettamente realistico, ma funziona anche da simbolo per l’azione. Viene usato in quel momento cruciale della fine dell’atto, quando Elena e Sonja si sono appena parlate con franchezza, e proprio per questo sono capaci di un certo sentimento. Le finestre sono aperte, piove e tutto è pulito, rinfrescato. Elena pensa di poter riprendere a suonare il pianoforte. Quando Sonja va a chiedere il permesso, si sente il battere del guardiano, Elena deve chiudere la finestra e Serebrâkov dice «no». Tutta la loro vita sentimentale scorre protetta da un guardiano, al punto che non è rimasto loro alcun 47 sentimento. Tuttavia, quando nell’allestimento vengono riprodotti quei colpi, il pubblico stenta a scorgerne l’importanza pensando che il rumore venga dalle tubazioni dell’auditorium. Lo stesso vale per molte allusioni culturali di Tre sorelle. L’unico modo per renderle comprensibili è scrivere delle note a piè pagina o un programma di sala. Dio non voglia che facciamo né l’uno né l’altro. Se le opere sono allestite come si deve, questi effetti avranno comunque un impatto sui sensi del pubblico, se non la sua comprensione. Tuttavia c’è un residuo che andrebbe evitato. Per esempio, in una delle traduzioni pubblicate di Zio Vanja la scena dello sparo è resa male. La versione diffusa è: «Let me go, Helen, Let me go! (Looking for Serebryakov) Where is he? Oh, here he is! (Fires at him) Missed! Missed again! (Furiously) Damnation – damnation take it … (Flings revolver on the floor and sinks onto a chair, exhausted).» Nessun traduttore si è accorto che nel testo russo Vanja non preme il grilletto della pistola, ma dice «Bang!». È ormai talmente incapace di agire che nemmeno quando è in gioco la vita riesce ad agire, e ripiega sulle parole. È un caso in cui il senso dell’opera viene drasticamente alterato perché il traduttore non si accorge che la visione čechoviana di quel momento orrendo è più vera di qualsiasi logica semplicistica. L’ultimo punto del mio discorso è che, oltre a essere rivolta agli attori, la traduzione dev’essere scritta in buon inglese. Non mi lascio coinvolgere nella diatriba versione libera versus versione filologica, ma è evidente che il traduttore non deve necessariamente perseguire la corrispondenza parola per parola. Se si rendesse parola per parola in 48 francese «For crying out loud!», non lo si tradurrebbe. Credo che Bentley abbia ragione quando sostiene: «Accuracy must not be bought at the expense of bad English. Since we cannot have everything, we would rather surrender accuracy than style. This, I think, is the first principle of translating, though it is not yet accepted in academic circles. The clinching argument in favor of this principle is that, finally, bad English cannot be accurate translation unless the original is in bad German, bad French, or what have you.» Tuttavia, nel rendere un buon inglese, si deve sempre cercare di farlo alla maniera del commediografo. Quando questi usa ripetizioni, dobbiamo usarle anche noi, non screditarlo come prolisso. Dopo tutto, nel «Tomorrow and tomorrow and tomorrow» di Macbeth quello che conta non è certo il significato delle parole, ma il senso che assumono nella ripetizione in quel contesto. Lo stesso vale per tutti gli altri gesti della lingua, giochi di parole, rime, allitterazioni. Oppure, quando un commediografo cita un autore o una canzone sbagliando, il traduttore non deve correggere l’errore dell’autore. Čechov, per esempio, fa continuamente citare ai suoi personaggi Shakespeare ma di solito sono citazioni sbagliate. Il senso sta nella loro inesattezza. Ma i traduttori benintenzionati di Čechov hanno sempre ritenuto che il povero Anton Pavlovič non sapesse molto bene l’inglese, e gli sono quindi andati in soccorso correggendo i suoi tentativi imperfetti. Infine, è importante ricordare che nel discorso teatrale la durata fa parte del senso complessivo, e che nella scrittura teatrale i tempi sono scanditi dal respiro. Quindi potendo il traduttore deve mantenere invariato il numero delle sillabe della battuta. Lasciatemi dire in conclusione che, se terremo sempre presente che il linguaggio teatrale deve apparire come una necessità, come risultato di 49 una serie di compressioni, collisioni, frizioni sceniche ed evoluzioni, funzionerà, perché sarà gestuale. «Language as gesture», come rivelava Blackmur, «creates meaning as conscience creates judgment, by feeling the pang, the innerbite, of things forced together», e questo è il conflitto che noi definiamo «drammatico», il conflitto che si sente più a suo agio nel teatro. 50 I.7. CONCLUSIONE Il mio personale sviluppo dell’ apprendimento delle tecniche della traduzione di testi tecnico-scientifici e letterari è andato di pari passo con il lavoro e lo studio della recitazione a teatro. Questo specifico tipo di percorso mi ha messa alla prova in maniera diretta e totalizzante e ha favorito in me l’idea che non scaturiranno mai buone traduzioni di opere teatrali da coloro che non abbiano avuto una certa formazione nella pratica del teatro. Ha poi contribuito a sviluppare una concezione di testo che può essere sperimentata a partire dalla creazione di processi fisici, di movimento nello spazio, di costruzione di azioni, sullo sfondo di un pensiero pedagogico chiaro: quando si parla, lo si fa con tutto il corpo; quando si legge ad alta voce, tutto il corpo si muove idealmente nello spazio del testo e realmente in uno spazio che include chi ascolta. Entrambi gli spazi possono diventare l’uno metafora dell’altro, perché leggere è soprattutto azione, ma anche, agire equivale a tracciare segni potenzialmente leggibili, portatori di una implicita verbalità. All’esito del duplice percorso di apprendimento e attraverso il riflesso delle varie teorie dei cosiddetti Maestri della traduzione, utilizzate per intraprendere con maggior profitto il lavoro di interprete e traduttore teatrale, questo lavoro ha voluto avvalorare la necessità e l’importanza per un traduttore di concepire la traduzione come una “riscrittura viva” dei testi originali. Come si evince anche dal saggio Translating for actors di Robert W. Corrigan, il linguaggio del teatro ha bisogno di essere usato in senso concreto e spaziale, deve essere combinato cioè, con qualsiasi altro elemento del teatro. Deve scaturire dal gesto, deve sempre recitare e non 51 deve mai essere descrittivo. Nel momento in cui la dichiarazione si sostituisce al processo drammatico, il teatro muore. Tale tema si inserisce perfettamente nella problematica più ampia della traduzione di cui si discute da anni ed anni. Oggi non è più abbastanza avere i testi di grandi tragediografi quali Eschilo, Sofocle e Shakespeare se non si è davvero in grado di trasmettere l’idea di ciò che loro stavano cercando di conseguire col teatro. In conclusione, il testo di un’opera teatrale prende vita nello slancio “From page to stage” quando il traduttore si preoccupa di quanto suddetto e non della “buona prosa” o del “buon verso” nel senso comune delle parole. Il tradurre per gli attori è un’arte che al fine di rendere una traduzione recitabile, implica che il traduttore tenga conto di quel linguaggio che sta al di sotto, oltre o in parallelo alla lingua delle parole. Gli attori sono il mezzo di espressione più valido del drammaturgo, la cui opera non sarebbe mai un’opera teatrale se rimanesse solo parole su carta. 52 I.8. BIBLIOGRAFIA Anderman, 1998 G. Anderman, «Drama translation» in Routledge Encyclopedia of Translation Studies a cura di M. Baker e K. Malmkjaer, London 1998, pp. 71-74 Alter, 1990 J. Alter, A Socio-Semiotic Theory of Theatre, University of Pennsylvania Press 1990 Artaud, 1968 A. Artaud, Le Théatre et son double, Gallimard, Paris 1938, trad. Il teatro e il suo doppio e altri scritti, Einaudi, Torino 1968 Aston, Savona 1991 E. Aston, G. Savona, Theatre as Sign-System: A semiotics Performance, Routledge Editions, London 1991 Baker, Malmkjaer, 1998 M. Baker, K. Malmkjaer, a cura di, Routledge Encyclopedia of Translation Studies, London, Riutledge Bassnett, 1993 S. Bassnett, Comparative Literature: A Critical Introduction, Wiley-Blackwell 1993 Bassnett, Lefevere, 1998 S. Bassnett, A. 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Zuber, Towards a Typology of Literary Translation: Drama Translation Science, in Meta 33/4, 1988, pp. 485-490 I.9. SITOGRAFIA http://delteatro.it/dizionario_dello_spettacolo_del_900/s/semiologia_teat ro_e.php http://www.erudit.org/ http://www.piccoloteatro.org/elementi/articolo.php?idRub=4&news=78 http://win.trad.it/caliandro.htm 56 II.1. INTRODUCTION This thesis is the result of the combination of both theoretical and practical interests in two fields, only apparently different and far one from the other, such as theatre and translation. It aims to analyze the discipline behind theatrical translation from different points of view, including theatre semiotics. In order to reach this aim, this work is divided into four parts and it ends with the translation and the interpretation of the essay “Translating for Actors” by Robert W. Corrigan, published in 1961 in the collection “Craft and Context of Translation” by Arrowsmith and Shattuck. The first part introduces the theatrical text and its composition. The second part, starting from a few historical notions, depicts the main features which distinguish the theatrical translation and the translations of different kinds of texts: the dominant of the performability and the acceptability in the receiving culture is the fundamental feature. The third part presents the various conceptions of the dialectics between the written text (dramatic text) and the performance (spectacular text) and the choices that the translator has to make when he works on the translation. Finally, the fourth part analyzes the relationship between the main figures involved in the translation process: the author of the work, the translator, the actor and the spectator. 57 II.2. THE THEATRICAL TEXT AND ITS COMPOSITION A theatrical performance can be created without it being developed from a literary text, or it can be developed from a non-literary text; for instance, a ballet performance is developed from a musical text and may or may not include a literary text. The theatre developed from a literary text is that particular kind of theatre commonly defined as dramatic, or melodramatic when it consists in a text set to music. According to Keir Elam, the adjective “dramatic” indicates the relationship between the author and the reader, while the adjective “theatrical” indicates the relationship between the performer and the audience. “A play is a structured and unified story, comic or dramatic, complete in itself with a beginning, middle, and end, that expresses the playwright’s passion and vision of life, shows unfolding conflict that builds to a climax, and deals with dimensional lifelike humans who have strong emotions, needs, and objectives that motivate them to take action. It is constructed with a plausible and probable series of events, written to be performed and therefore told with speeches and actions plus silences and inactions, projected by actors from a stage to an audience that is made to believe the events are happening as they watch”46. The theatrical text is a literary text created to be performed. It has some characteristics which significantly differentiate it from any other kind of text. In the theatrical text there is no narrator, there are no descriptions or narrations of what happens or happened: the development of the entire situation is carried out through the characters’ lines, through which it is possible to perceive their psychological traits, the events 46 Catron, 2002. 58 occurred before the beginning of the representation and the connection between the various circumstances. It is generally divided into acts and acts are divided into scenes (or frames). Acts are, essentially, the different parts in which the text is articulated, and their number varies according to the dramatic genre. Each act is then divided into scenes, which change according to the entrance or the exit of one or more characters. From a literary point of view, the fundamental elements of the theatrical text are stage directions and lines. Stage directions, (didascalia from the Greek διδασκαλία, “instruction”), are an important element of the text. Their function is to provide instructions and suggestions on the mise-en-scene of a play. “Poison” by Vitrac, as well as “Actes sans parole” by Beckett, are texts which only have stage directions, and no lines. They are summary instructions given by the author, intended for the director, the actor or the reader, which give indications on the place and time in which an event occurs, on the way the characters enter and exit the scene, on the clothes and the personality of the characters, on the tone in which some lines should be pronounced. The length of stage directions can vary, going from a few words to longer and more detailed periods, generally written in italic or put into brackets if they are spaced out between lines. An essential element of the theatrical text are the lines, which cover the majority of the whole text. There are different kinds of lines based on the number of people who pronounce them and the way in which they are pronounced: Dialogue; from the Greek διά, “through” and λογος, “discourse”, it is the most important part of the theatrical text and the most frequent kind of line used between two characters who speak alternately; 59 Polylogue: it is a dialogue that occurs among three or more characters; Duologue: it is a pressing and rapid dialogue that occurs between two characters; Soliloquy: from the Latin solus, “alone” and loquor “to talk”, when a character who is alone on the scene, expresses out loud their thoughts and feelings, so that the spectators can understand them, without the presence of an interlocutor. William Shakespeare’s comedies are often characterized by soliloquies; Monologue: it is an intimate reflection of a single character, only in this case they are not alone; they are on the side of the scene, and they speak directly to the audience or to another character; Tirade: it is a long discourse related to the past and present events in which the character is involved, that is recited without anyone else speaking, as they explicitly ask for silence; Aside: it is a comment signaled on the text through stage directions and put into brackets, that the character expresses on the topic at hand, momentarily estranging themselves from the performance and talking exclusively to the audience; Voice over: these are lines spoken by a character who is not directly involved in the scenic action, with the task of intervening “off scene” to comment on the event that is occurring or to talk to the characters. 60 II.3.1. THE HISTORY OF THEATRICAL TRANSLATION A translation (from the Latin traducere, “to transport”) is the transposition of a discourse from a natural language to another. An interpreter is someone who orally and simultaneously translate an oral message; a translator is someone who works on written language. Translation has always existed; even if only recently the issue of a scientific translation theory has emerged, the job of the interpreter is ancient, and it was particularly diffused in the Ancient Egypt. Concrete proofs of translation are the bilingual and multilingual glossaries and lists on clay tablets found in Asia Minor. In Rome, literature started from translation. Livius Andronicus (a poet who lived in the III century B.C.), for example, at the dawn of the Latin culture, translated Homer’s works, modernizing its message and stylistic form. Titus Maccius Plautus (about 250-184 B.C), translator of Greek comedies, is also worth-mentioning. Plautus earned a living through his comedic skills, his vivid enthusiasm which led him to bring the Greek comedies on the Latin stages, translated with skillful originality for the Roman audience. Plauto’s innovation is, firstly, the development of the “artistic translation”, a phenomenon among the most complex and vast of the Western literature, which implies that each translation requires an interpretation. The theoretical and practical issues of translation are of utmost importance in the contemporary world. The XX century, instead of leading to a synthesis of all the previous valid experiences regarding translation, is marked by the rise of many 61 different opinions and theories on this topic. Thus, said century couldn’t produce a unique valid theory regarding the issue of translation, and the points of disagreements are exacerbated by the increase of theoretical awareness on the issue, and the improvement of technical means. This is one of the reasons why studies on the history of theatrical translation are really inadequate and it is not possible to rely on a specific theory or a handbook with precise and essential guidelines. The impossibility to create a theory on theatrical translation may be a result of the scarcely theoretical nature of theatre itself, as it is “a fragile, ephemeral art that is particularly sensitive to what is in the air. It cannot be accounted for without from time to time questioning its foundations and reviewing the critical apparatus we use to describe it”47. The volatile nature of the theatrical discipline, its contingency and the fact that it is not eternal, contrary to what many people seem to think, are reflected also in the translation of theatrical texts. In general, the translation norms valid for narrative texts should be considered valid also for the theatrical translation, if not amplified. According to Zuber, in the theatrical translation there are two phases: the first phase is the process of translating from a language into the other; the second phase is the process of transposition of the translated text on stage. Zuber considers theatrical translation as a “subsection” of narrative translation, and distinguishes it from all the other forms of translations mostly because of two dominants: “A play written for a performance must be actable and speakable”, so in the translation the non-verbal and cultural aspect and the problems on stage must also be taken into account48. A translation is not correct nor incorrect, but it can 47 48 Pavis, 1998: 5. Zuber, 1988: 485. 62 be more or less acceptable, so that it can be understood in the best possible way by the receiving culture. «Unlike the translation of a novel, or a poem, the duality inherent in the art of the theatre requires language to be combined with spectacle, manifested through visual as well as acoustic images»49. In Europe the translation of plays starts in the second half of the XVII century, when the great demand from the acting companies led to the production of numerous hasty translations, which were often very inaccurate. During the Humanism period, a translation which focuses on reading instead of performing is born: the translation of the classics. A clear example is the translation of Shakespeare’s works, which, in the absence of a theory on theatrical translation, represents the empirical theme to understand the logic underlying theatrical translation. The Routledge Encyclopedia50 includes a chapter on the Shakespeare Translation and compares the impact that it has had on cultures to the impact of the Bible translation. In Shakespeare’s case, even if this occurs also for all the translations of the classics, there is the contrast between those who stand by the philological orthodoxy in drama translation, who give less importance to the performability, and those who dare to revitalize the classics and propose translation choices that are focused on the acceptability by the receiving culture. However, usually the latter experiments are less appreciated by the audience and it is almost a paradox that philologically oriented translations have been so successful among classicists, who go to the theatre following the written text and only seldom raise their eyes to look at the stage. The extreme consequence of the classicist attitude is considering the source text as 49 50 Anderman, 1998: 71. Baker, Malmkjaer, 1998: 222-226. 63 something “sacred” and refusing a “relativistic” approach, that is an approach that analyses the source text and the related translation of each single case. II.3.2. THEATRE SEMIOTICS The translator can consider the theatrical text as pure literature or as an integral part of a theatrical production, so he can respectively have as a customer an editor or a director (or a theatre). In the first case, the result of the translator’s work will be a dramatic text, in the second case it will be a spectacular text, that is the performance. The distinction between dramatic text and spectacular text comes from the analytical and theoretical reflections of the Prague School, which, at the beginning of the Thirties developed the discipline of theatre semiotics. At first, theatre semiotics focuses on the textual element of theatre, in particular on the written verbal text which constitutes the dramatic text (linguistic-structuralist conception). The preference for the written text, which is regarded as the fixed and invariable element of theatre, is undoubtedly the result of a legacy of the logocentric conception, which from Aristotle to the end of the XIX century, was considered the only valid answer in the theatrical analysis. According to this conception, the written text is the bearer of the sense; it is a profound structure and an essential element in the dramatic art, and the performances are just superficial expressions, subsequent and subordinated to the written text. The logocentric conception puts the text and the scene in a dialectic relationship, linked to theology (In the beginning was the Word), which sees the text as the soul, the bearer of the sense, and the scene as the 64 external body which “distracts the audience from the beauty of the story and from reflecting on the tragic conflict”51. From the second half of the Seventies, De Marinis expresses the need to radically modify the logocentric approach: the concrete performance (the spectacular text) becomes the actual object of the semiotic analysis. The spectacular text makes it possible to grasp, both diachronically and synchronically, the sense of the performance. Some semioticians consider the mise-en-scene as an intersemiotic translation, “a transfer of the language-body of one system into another” and Pavis considers this “a semiological monstrosity” 52. According to him, the perseverance in seeing the written text as the only essential and constant element of the drama, and the performance as the expression, “the staging of a textual potential”, is also wrong. Artaud deems a “theatre for idiots, madmen, inverts, grammarians, grocers, antipoets, and positivists, i.e. Occidentals” that theatre which obstinately subordinates the performance to the text53. Zuber’s opinion is not as extreme: the written text is a permanent and irrevocable element, while each performance based on that text is different, unique, absolutely contingent and linked to the variants of time and space in which it is performed: «a theatre performance is subject to changes according to audience reaction, acting performance, physical environment, and other factors»54. Thus, it is not possible to consider the written text and the spectacular text in hierarchic terms: they are essential parts of the theatrical text, which exist and function reciprocally to create the 51 Pavis, 1998: 487-488. Pavis, 1998: 394. 53 Artaud, quoted in Pavis, 1998: 488. 54 Zuber, 1988: 485. 52 65 theatrical event. The written text is the bearer of sense and the performance is the production of “a global performance text incorporating the dramatic text which takes on a very specific meaning”55. Pavis then focuses on another school of thought which says that when the scene is not considered subordinated to the text, an irreducible hermeneutic distance grows between the text and the scene. This distance makes it possible to have a different approach to the text, and to interpret it by giving it other meanings. In this way, the text and the scene become two distinguished components, with different meanings. Bernard Dort wrote that in theatre the pleasure probably derives from seeing a text, by definition extraneous to time and space, inscribing itself in the ephemeral instant and within the limited timeframe of the performance. In this way, “the performance of theatre does not represent a rediscovered unity, but a never-to-be-resolved tension between the eternal and the transitory, between the universal and the particular, between the abstract and the concrete, between text and stage. It does not realise a text to a greater or lesser degree; it criticizes it, forces it, questions it”56. The relationship between text and performance has never been truly clarified; research tends to follow two parallel tracks: on the one hand, the semiotics of the text and on the other hand the semiotics of the performance, without finding points of comparison between the results of the two approaches. Boselli, in his essay, maintains that between the dramatic text and the spectacular text there are elements of convergence typical of the theatrical art, reciprocal bonds which link the two levels, constituted by 55 56 Pavis, 1988: 395. Dort, as quoted in Pavis, 1998: 488-489. 66 spectacular codes and theatrical conventions which lead to consider at the basis of all a strong intertextuality. Sometimes critics, in order to identify what is purely theatrical and what is extra-theatrical, set some theatrical codes referring to a particular case, and then they tried to use those codes in all the analysis of other different cases. This theory is too rigid to describe theatre. Considering the code as a system buried in the performance is, according to Pavis, wrong in principle. The code should be instead the method of analysis that the receiver, as a hermeneutist, decides to adopt to interpret the performance under the guidance of the interpreter57. According to Tessari, the essential characteristic of a theatrical text is the theatrical authenticity. Even if written and not intended to be performed, the dramatic text must be, in any case, thought to be performed, it must not be just words on paper, the result of an individual reading58. «There is practically no theoretical literature on the translation of drama as acted and produced», wrote Lefevere in 1980, who found the reason for the lack of theories on this kind of translation in a flawed textual analysis, only focused on the written text (the dramatic text) and also in the little importance given to the pragmatics in the context of theatrical translation. The paradox here, is that it is pragmatics itself, through its paradigms, which distinguishes a dramatic text from an “ordinary” text. Searle stated that “there is no textual property, syntactical or semantic, that will identify a text as a work of fiction»59; rather, a text is dramatic because it can be circumscribed in a fictional frame, and it is created to be perceptible through the senses. 57 Pavis, 1998: 394. Tessari, 1996: 23. 59 Searle, as quoted in Pavis, 1998: 486 58 67 The field of interest for a translator of theatrical texts must be interdisciplinary. According to Luzi, it is essential that the theatrical translator works with all those people who stage the performance and that he is personally involved in its preparation60. 60 Luzi, 1990: 99. 68 II.4.1 ARTISTIC TRANSLATION «Now this miracle can only happen on one condition: That a language can be found which is in itself spoken action, The living word that moves, the expression of immediacy At one with action, the single phrase That must belong uniquely to a given character in a given situation: Words, expressions, phrases that are not invented but are born When the author is fully at one with his creation So as to feel what it feels and to desire what it desires» LUIGI PIRANDELLO, Spoken Action («Marzocco», 7 May 1899) The study of theatrical translation or the so-called transformance, overlooked during the emergence of the studies on translation in the last decades, opens the curtains on a series of issues linked to the field of poetry, narrative, and even technical and jargon texts translation, and also to consecutive or simultaneous translation which requires oral competence. The fact that translating (for) the theatre deals directly with dramatic texts that are nostalgic of a scenic writing, makes this activity the real Trojan horse to a new theoretical consideration of translation: one that is not dichotomist, or extemporaneous and merely experiential, but that finally sees translation as a vital and creative act, an essential and universal operation that requires at the same time responsibility and audacity, and that must not be considered subordinated to others. In the field of translation phenomena in a broad sense, the translation of a theatrical text is a specific subset, with peculiar 69 characteristics61. The statute of a theatrical text sees the performance and scenic writing as the realization of dramatic writing. The conveyance of a theatrical text into another language always requires a historicizing and a contextualization of oral codes and conventions62. Theatre semiotics sees the performance as the prevalent, if not key point of the transposition of a dramatic text, in which the literal, verbal element works as a pre-text or a geno-text63, which is a text that precedes the actual theatrical text, the scenic writing, without being the occasion for an arbitrary deconstruction of any kind. The suprasegmental, paralinguistic and/or illocutory factors (rhythm, prosody, proxemics, kinesics) and scene codes (lights, scenic design, costumes, music) radically transform the literary and literal meaning of the verbal sign, sometimes making it unrecognizable64. Every translation, seen as an hermeneutical instance, leaves some blanks that interpreters have to fill: the words or the phrase of a text that has to be read, acted, “performed”, must always take into account the resonance, the echo, the melancholy that the theatrical word suffers when it is printed on a page. This goes not only for the word, but for all the balance system that regulates the visible and the invisible, the said and the unsaid, the presence and the absence that contribute to the specificity of the event here and now. In this specificity there are the performer’s body and voice, as the translation of the theatrical sign is instantaneous, it reaches its peak and then it dies, and there is no turning back from that: the performer is flesh and blood, sweat and breath, he translates with his actions that same translation act which in every other 61 Bassnett, 1993: 148-163; Bassnett and Lefevere, 1998: 90-108; Zatlin, 2005: 1-102. Segre, 1984: 103-118 63 Ubersfeld, 1996: 20-21. 64 Elam, 2002: 162 ss. 62 70 kind of expression is only presumed, carried out somewhere else, and even forgotten in the fruition of the resulting translated work. It could be said that the performer is the translator’s reflection and his dramatic and scenic projection, metaphor and metonymy of the interpretative act that develops in front of the eyes and in the ears of the spectator in the audience. Thus, if the dramatic text is an incomplete text, the analysis of a theatrical translation cannot help but face this latency from the beginning. The historical-descriptive analysis of a theatrical translation comprehends a remotely normative aspect that sees the translation of a theatrical word as the translation of something not only expressible out loud, performable, but also of something unfinished (which does not mean vague) but subtly codified as incomplete, that will be carried out in infinite interpretative acts linked to the live performance. Susan Bassnett65 maintains, reasonably, that concepts like speakability and performability resist to an actual and proper semiotic description, but they are, nonetheless, overly used as distinctive factors of a naturalistic, psychological and illusionistic dramaturgy. In her opinion, they are rather useless as parameters to spur a theatrical translation, in the broad sense, and an objectifiable judgment on it. So what makes theatrical writing a specific (and maybe paradigmatic) field of translation? An aspect of theatrical writing is the deixis; that is, in any theatrical text there are particular indicators of space, time, movement that are expressed through the use of small parts of the discourse, demonstrative pronouns, adverbs, and some verbs that provide often inescapable suggestions for the performance of the work and that must be decoded just like any other semiotic element. The 65 Bassnett and Lefevere, 1998: 94-95. 71 question of the deixis is linked to that of stage directions, even if they are not quite the same thing: every theatrical text, from a schematic but not arbitrary point of view, includes implicit (from Aeschylus to Shakespeare and Moliere) or explicit (from the Goldoni’s reform to nowadays) scenic writing advice that is almost always compelling for the creator of the dramatic writing. The restitution of this extraordinary semiotic complexity requires a total craftsmanship to translate the deictic prompts of dramaturgy into scenic signs; this is a task for the director, the stage designer, the costume designer, the light designer and of course the actor/performer. The transition from a linguistic patrimony to the other, in the case of theatrical writing, is not a purely linguistic act, but it is an actual radical movement of the oral tradition of a source text to the oral tradition of the target text with the variables aforementioned. II.4.2. THE TRANSLATOR-ACTOR The translator of the theatrical text, that does not intend Sophocles as Chekhov in the sense of a theatrical literature in which the representation is at most the mental illustration of the scene of a novel or a story, should put himself in a concrete communicative prospective toward the target text. This does not mean that theatre should be translated only by theatre experts, but that the theatrical translator should work with the mindset of actively watching and hearing, as a live action what is laying, sleeping on the page, with the idea of being the first medium not only from a linguistic-grammatical coherence/correctness point of view, but also from the scenic-dramatic coherence/correctness point of view. 72 Kantor stated: “I hold that theatre is a ford across the river. It is a place through which the dead figures from that shore, from that world, cross over into our world and now into our lives. […] And what happens next? The answer might be given by the Dybbuk […], the spirits of the dead who enter into the bodies of others and speak through them” 66. In fact, just like the actor, the translator – particularly the theatrical translator – should “undress” and free himself from those preconceptions (including those linked to his own “encyclopedia” and knowledge of the text he is translating) that obstacle the free evocation and the communication, through his body and his voice, with others’ bodies and voices. He should undress and wear – like the actor – a mask and clothes that are not his, but are “borrowed”. From this fundamental affinity between the art and the job of the translator with that of the actor, derives the synonymy of the term “interpretation” for both roles. Thus, the first role that the translator has to play is that of the author’s alter ego, the deuteragonist in an “action” to be repeated (to re-cite) and interpreted, which is, of course, the same for the composition of the play. Maybe this is what Maestro Agostino Lombardo meant, when, during a lesson, he maintained, only half jokingly, that when he translated Shakespeare, there came a moment when he was Shakespeare himself. At this point of the thesis, Alessandro Serpieri’s thought is certainly worth mentioning67: according to him, it is fundamental that a translation preserves the interaction of explicit and implicit meanings, of a “known” and an “unknown”, that leads to the suspense that the dramatic text, made up only of “present tenses” as it recreates real life, offers to the spectator: 66 67 Quote in Pleśniarowicz, 1997: 221. Serpieri, 2001: 169. 73 what is going to happen now?. For this reason, the translator should act just like the author: he should “know” the whole action and the text that he is translating, but at the same time he should “not know”, in the sense that he should forget all the cues and the links between the actions, so that he can rediscover and transmit the propulsive energy that, in the translation of the text, becomes almost like an internal strategy. In this way, the paradigmatic knowledge of the text, together with its progressive syntagmatic knowledge, can lead to the discovery of its dynamism. Serpieri stated that he knew both Hamlet and Macbeth very well before he started translating them, but during the translation act he purposefully tried to forget all the internal developments of the texts, so that he could feel the “surprise” in their progression, and he could discover, while translating them into his own language, that energy that no analysis or paradigmatic knowledge or summary can contain in itself. Advancing in this reasoning, Serpieri explained his theory on the energy of drama, stating that energy is created by each of the drama’s linguistic acts: by the interactions of the lines, the emotions and the events that are prompted by them. It is also an energy belonging to the theatrical space and time, the actor’s body and the energy of the literary, stylistic, rhetoric, thematic invention, that keeps together all the elements of the action and that will be remembered even far from the stage for which it was created in the first place68. Translation must enable the director, the actor, the spectator, the recipient in its multiple articulations, to bring their own determining contribution (which can also be a contribution of temporary bewilderment), to present in every line, or scene, in every dramatic 68 Ivi: 170. 74 development, that vital conflict, that impulse of dramatic action, between author and director, actor and author, spectator and director, or actor and spectator on one side and the director on the other, or vice versa, etc, allowing everyone to create their own film. In this way, there is a contradiction, or a change to the image of a translator without a stage, proposed by Wechsler69: “The translator’s problem is that he is a performer without a stage, an artist whose performance looks just like the original, just like a play or a song or a composition, nothing but ink on a page”. In short, the instruction by the theatre and cinema director Peter Brook is true: “We are watchful: behind each visible mark on paper lurks an invisible one that is hard to seize. Technically we now need less abandon, more focus – less breadth, more intensity”70, but even if until now I have above all underlined the theatricality of the discourse and of theatrical translation, on the other hand it is important to bring back the text – any authorial text - to its literal foundations and stress the obvious truth that the concentration and the intensity of the translation work are primarily based on a linguistic-literary ground. Thus, going back to the frayed Jakobson’s categories, every translation, be it interlinguistic or intersemiotic, should be preceded or accompanied by an intralinguistic work that is competence of philology, of the history of language and stylistics, as Serpieri maintained71. To neglect this obvious deontological assumption, could mean that the translator is presumptuous. Instead, the work of the translator and his talent, depend above all on other qualities, such as humbleness, respect and correctness. 69 Wechsler, 1998: 7. Brook, 1998: 80. 71 Serpieri, 2001: 163-164. 70 75 II.5. PLAYWRIGHTS, TRANSLATORS, SPECTATORS Mario Luzi in his essay describes the relationship between author and translator in the lyric poetry as a “duel” between the former who wants his work to remain intact, authentic, and the latter who, as a bearer of creativity and autonomy, feels entitled to creation. This game between the two parts can, in the same way, be overturned, with the original author as the passive victim of the “immobility of the object” created, and the translator as the true creator. This dispute is not played openly, quite the opposite: it is covertly played, so the winner and the defeated, the rights and wrongs, the judgment will be strictly limited to the underlying principles recognized only by one of the two parts72. Some common conceptions regarding literature in general, consider the source text as an authentic and “eternal ipo-text”, and its translations as “fleeting iper-texts”73, limited only to the temporal and spatial conditions. According to said conceptions, the translation is seen and felt as a master and servant relationship (to the point of not even considering the author and the translator on the same level in the duel!), in which who provides for the laws of authenticity and originality is the translator, to the detriment of the “prerogative of ordering and doing”74. In the field of theatrical translation said immobilistic theories seem unjustified. In theatre, the underlying dispute between author and translator becomes official and the merit and the demerit of one or the other is judged by the stage, which “like a seismograph records the variations in the character's energy”75. Even the slightest oversights that 72 Luzi, 1990: 97. Boselli, 1996: 66. 74 Luzi, 1990: 97. 75 Luzi, 1990: 98. 73 76 on paper could be considered innocuous, irremediably surface in the performance because of the lack of fluidity in the dialogue or for the downright absence of action, as Corrigan often notes in his essay. Stark Young, on the matter of the Chekov translation, maintains that “the speech lives or dies [...] by its precision. In the form alone lies much of its meaning and all its point”76. Other times, correct translations, with logical sense, cannot prompt the action, and do not support the acting. In theatre there are two schools of thought that describe two different approaches that the translator of a theatrical work can have. The first is that of the translators who are “jealous” of their autonomy, who pursue the path of the “eternal” translation, producing static texts that will only be published, and thus leave the choice to the director on the performance of the play. The second, instead, deals with translations as a function of the performance: for this reason, the dominant characteristic is the performability, and they keep into account above all a reinterpretability from the receiving culture. This school of thought agrees with the following statement by Zuber: “as well as being a literary text, the translation of drama as a performing art is mainly dependent on the final production of the play on the stage and on the effectiveness of the play on the audience”77. Such translations, with the purpose of an efficient reception from the audience, overlook the rigor and the philological exactness of the original text. In a union of acoustic, visible and emotional images, the theatre conveys a message and at the same time delights the spirit of the audience: what better means of communication is there? In the case of a translated drama, it can be considered an intercultural communication. 76 77 Young, 1938: 740. Zuber, 1988: 485. 77 Thus the theatre can also become an eminent place of intertextuality, becoming a fast track to an intercultural dialogue78. It is not possible for a translation to be ultimate and eternal, but it can be adapt to the culture which is ready to receive it. The theatrical art is constantly evolving and strictly exposed to the influence of the moment. The temporal, linguistic and cultural distance are challenges that the professional translator has to face every day, they are part of his job just as much as it is knowing a foreign language. In theatre, to judge the work of the translator is the audience, which expects, depending on the case, to have fun or to be moved, but above all to find points of empathy, to learn something, in short to understand the work and feel part of the theatrical event. Underestimating the audience by thinking it lacks of critical sense and is passive, unable to understand messages, is a serious wrong done to the recipient of the theatrical event. It is for the spectators that the translator must work, and it is to make them grasp the sense of the play the translator must often come to terms with the rigorism of literal translation, make brave choices that can convey the fluidity of the play and its freshness, to make it seems like it is reborn and is presented in front of that particular audience for the first time. On this matter, Pirandello maintains that “All the features of the conception must therefore be found likewise in the execution”79. This is the only way to make the intercultural communication happen. If theatre denies the source culture the right to be completely represented, with its virtues and vices, it ends defeated, devalued. The communication will happen only in terms of a closure between the two cultures and it will prompt the usual prejudices and clichés, that sadly 78 79 Boselli, 1996: 71. Pirandello, 1939: 234. 78 exist for the lack of reciprocal knowledge. Also the receiving culture is defeated, as it sees its going to the theatre frustrated: it is deprived of the right of impartial judgment on another culture, different and maybe far, that the theatre could have made nearer. Normally, in the narrative text, in function of the destruction of the spatial and temporal distance that is between the source culture and the target culture, translation is accompanied by a metatextual apparatus, that can be constituted by an introduction, notes, comments, critical essays that frame the text. In theatre this system is unlikely and not feasible so “the way forward for advancing a theory of translation specific to dramatic texts would seem to lie in linguists, literary scholars and comparatists joining forces with playwrights and directors in an attempt to work toward a closer understanding of the requirements of the stage, including translation for the stage”80. Clearly, it is impossible to have the equivalent effect, that is to provoke the same effects that the original author intended for an audience which spoke their same language, also because it is difficult to understand precisely what the intended effect was. Pirandello in his essay had as a leitmotiv the impossibility of the total interpretation. Each person feels and sees in their own way and thus a perfectly philological interpretation, which mirrors what the author felt and saw, does not exist. The mediation between a language and the other is never objective because the seeing and the feeling of the translator can never be completely filtered, cancelled. The actor, who “interferes” between the creature and the author, can only try to incarnate the character created by the playwright; however, the imagine he incarnates is only similar, not the same, because it was recreated another time in his body, in his mind, 80 Anderman, 1998: 74. 79 in his voice, in his gesture. Pirandello associates the case of the actor to that of the translator: the creation of something else, that, even if it pursues the aim of the transmission of a “creature” that does not belong to them, comprehends the expressivity of the translator, and no longer that of the original author. The creation by the translator of something new, of a new original, agrees with the thought elaborated by some Brazilian translators, the “cannibalism”, according to which the translator devours the prototext and creates one of his own81. Whether the translator is considered a “cannibal” who eats the original text to create another, or he is considered an orthodox and philologically loyal rigorist, it is necessary to face the controversial theme of the model reader in theatrical translation. Corrigan’s essay stresses that translation must be intended for actors. Can we then dare to say that the model reader of the translating process of a theatrical work is the actor? And the spectator, the recipient of the work, which role does he play in the theatrical process? Probably, there are two translating steps: in the first one, the model reader of the translator is the actor; in the second one, the translator sees, as a model reader, the audience. Again, in this case there is no theoretical contribution to answer this question. Research is often focused on the role of the actor, of the public and the model reader in narrative texts, but a confrontation between these studies to define who is the model reader of the theatrical translation is yet to emerge. If we want to consider theatre as a sort of episode of collective, multimedia reading, we can proclaim the audience as the model reader targeted by the translator, but it is an audience that becomes a single 81 Boselli, 1996: 66. 80 entity. As a matter of fact, during the fruition, the individuality of the single spectators uniforms at least partially. “It is not an easy matter to grasp all the implication of the fact that the spectator cannot be separated as an individual from the audience as a collective agent. Each individual spectator contains within him the ideological and psychological codes of several groups, while, on the other hand, the audience sometimes forms a single entity, a group that reacts en masse”82. To uniform the audience means to predetermine an ideal audience, that is able to understand in the only possible way the performance. This concept is the key of the aesthetic of the reception by Jauss (Rezeptionsӓstethik) and Pavis believes it is improbable to consider the theatrical event in function of an “all-powerful receiver”83. The audience is logically considered en masse because it has to interpret en masse in the same space and in the same time the theatrical event, but it is not certain that from this circumstance, a reaction and an interpretation en masse will arise. This opinion does not want to admit the validity of multiple, all possible interpretations, in theatre just like in literature: as Pareyson maintains, it is always a concrete person who, from their own point of view, tries to make the play live as they like84. 82 Pavis, 1998: 426. Pavis, 1998: 427. 84 Pareyson, 1954 [1988: 11]. 83 81 III.1. TRADUCIR PARA LOS ACTORES de Robert W. Corrigan En el estudio de las obras teatrales de los dramaturgos europeos tales como Beckett, Genet, Adamov y Ghelderode, según Robert W. Corrigan en su ensayo “Translating for Actors”85”, se detecta que con un cierto moralismo previsible, se tiende a rechazar tales obras y a calificar de manera ultrajante a sus autores como a la vanguardia. Pero, como así reconoce el autor en su ensayo, de alguna manera, a pesar de su aversión, las obras continúan reafirmándose manteniendo un agarre misterioso sobre nuestra sensibilidad. A pesar de ser inescrutables y aparentemente simples, poseen una vitalidad que en el teatro de nuestros días se ha perdido. Lo que se pregunta el autor es dónde reside la razón principal de esta vitalidad. Parece, según el autor, que lo que diferencia las obras de estos dramaturgos respecto a las formas estereotipadas a las que estamos acostumbrados de su calidad no didáctica, es decir, no hay “principios morales” claros y bien elaborados o proezas “inspiradoras”. Además de esta falta de fin didáctico de las obras, dice el autor, pronto se descubre la causa central: “cada uno de estos dramaturgos se está sublevando contra la tiranía de las palabras del teatro moderno. El diálogo no es un monólogo a distribuir entre los distintos personajes, no existe ninguna guía o remisión intertextual evidente, a los que estamos tan acostumbrados; hay múltiples símbolos, pero estos símbolos no representan nada en particular y al mismo tiempo evocan muchas cosas. En cada una de estas obras, los personajes dirigen su propia vida, expresan sus pensamientos. 85 NdT: posible traducción “Traduciendo para los actores” 82 Sus discursos se repiten los unos sobre los otros y fluyen hacia otro lugar. Al final, en cada drama se ve una insistencia sobre los gestos de la pantomima, considerados como medios de expresión teatral más apropiados y válidos; una insistencia sobre el hecho de que el gesto mímico preceda a la palabra hablada y de que el gesto sea la verdadera expresión de lo que sentimos, mientras que las palabras únicamente pueden describir lo que sentimos. Precisamente estos dramaturgos sostienen que, objetivando el sentimiento en el intento de describirlo, las palabras matan al propio sentimiento que querían describir.” Por todo lo dicho, según el autor, no hay que sorprenderse por el hecho de que estos autores estén en gran sintonía con los mimos como Etienne Decroux, Marcel Marceau y Jacques Tati; tampoco hay que sorprenderse de que obtengan la inspiración de las primeras películas de Charlie Chaplin, Buster Keaton, Laurel y Hardy (el Gordo y el Flaco), de los Keystone Cops, y de los hermanos Marx; y finalmente tampoco hay que sorprenderse de que todos estén bajo la influencia de Jacques Copeau y Antonin Artaud. El autor, Corrigan, establece que ha sido con la traducción al inglés del libro de Artaud, Le Théâtre et son double [El teatro y su doble] cuando se ha podido descubrir en qué consiste la estética de todo el movimiento teatral de vanguardia. Según Carrigan, la premisa fundamental de Artaud era que en el teatro es un error mantener que “en principio era el verbo” que es justo lo que nuestro teatro aplica. Según Carrigan, “para la mayor parte de nosotros, críticos como dramaturgos, la palabra es todo; sin ella no hay posibilidad de expresión; el teatro se considera una rama de la literatura, y aunque se admita una diferencia entre el texto declamado en el escenario y el texto leído con los ojos, todavía no somos capaces de separarlo de la idea de un texto 83 recitado. Artaud y sus seguidores sostienen que nuestro teatro moderno orientado esté renegando, de manera psicológica, la naturaleza histórica del teatro. Según su opinión, el escenario es un lugar físico concreto que debe hablar su propio lenguaje – un lenguaje que es más profundo que la lengua hablada, una lengua que se dirige directamente a nuestros sentidos, en vez de dirigirse en primer lugar a nuestra mente, como hace el lenguaje de las palabras.” Según Carrigan, este es el aspecto más significativo del teatro de vanguardia - es un teatro del gesto. “¡en el principio era el gesto!”. El gesto no es un añadido decorativo que acompaña a las palabras; sino que es el eje principal, la causa y el director de la lengua y, por mucho que el lenguaje sea dramático, es esencialmente gestual. De hecho, según el autor, esta insistencia en restablecer la base gestual del teatro es lo que ha conducido al retorno de la pantomima en obras tales como Les Chaises [Las sillas], En attendant Godot [Esperando a Godot], Le Ping Pong [Ping-Pong], Fin de partie [Fin de la partida], Le Balcon [El balcón] y Escurial. En palabras del autor, “cualquiera de vosotros que haya asistido al nuevo montaje de estas comedias habrá visto como esta mímica es distinta a la mímica tal y como la entiende la mayor parte de nuestros contemporáneos. Para muchos de nosotros, la pantomima consiste en una serie de gestos que representan palabras o frases – una charada. Pero esto no es la pantomima histórica. Para los grandes mimos, sostiene Artaud, los gestos representan las ideas, las actitudes mentales, los aspectos de la naturaleza que se realizan de un modo eficaz y concreto, evocando constantemente objetos o detalles de la naturaleza, como hace el lenguaje oriental cuando representa la noche con un árbol sobre el que un pájaro con un solo ojo está cerrando el otro. “ 84 En relación a esto, volviendo la mirada a la historia reciente, Carrigan pone de manifiesto que el famoso director Meyerhold, a inicios de siglo estaba buscando conseguir el mismo objetivo, en el intento de volver a dar vitalidad al teatro ruso. Con excepción hecha de Chéjov – cuya afinidad con la vanguardia es mayor de cuanto se puede pensar a primera vista – numerosos dramaturgos de aquella época estaban buscando transformar la literatura de leer en literatura para el teatro. Meyerhold, correctamente, se dio cuenta de que estos escritores en realidad eran novelistas que pensaban que reduciendo el número de pasajes descriptivos y reanimando los acontecimientos aumentando los diálogos entre los personajes, obtendarian una obra teatral. Por lo tanto, este escritor-novelista invitaba al lector a pasar de la biblioteca al auditórium. En relación a este hecho, el autor R. W. Carrigan, hace referencia a lo escrito por Meyerhold en su ensayo Фарс [La comedia]: “¿El novelista necesita los servicios de un mimo? Claro que no. Los propios lectores pueden subir al escenario, asumir un papel, y leer al público en voz alta el diálogo de su novelista preferido. Esto es lo que se denomina «una obra recitada armoniosamente». Al lector-transformadoen-actor se le da rápidamente un nombre y se acuña un nuevo término, «un actor inteligente». El mismo silencio que reina entre el público es el que se da en la biblioteca. Los espectadores se adormecen. Tal inmovilidad y solemnidad es apropiada solo en una biblioteca.” Según Carrigan, en todo este asunto se produce una cierta sobrevaloración de forma intencionada. Según él, no se trata de suprimir el discurso en el teatro. Es decir, no es que el lenguaje sea menos importante en el teatro, sino que más bien la cuestión es cambiar su papel. Dado que la única preocupación del teatro es realmente el modo en el que los sentimientos y las pasiones luchan el uno con el otro, y el 85 hombre con el hombre, en la vida – Arrowsmith lo describe perfectamente usando el término de «turbulence» - el lenguaje del teatro se debe considerar como algo distinto a un medio para dirigir a los personajes humanos a su realización exterior. Cambiar el papel del discurso en el teatro significa usarlo en un sentido concreto y espacial, combinarlo con cualquier otro elemento del teatro. En resumen, según Carrigan “el lenguaje del teatro debe ser siempre gestual: debe nacer del gesto, siempre se debe interpretar y nunca debe ser descriptivo. En el momento en el que se sustituye la declaración por el proceso dramático, el teatro muere.” Este hecho, según Carrigan, puede parecer bastante alejado de los problemas de la traducción, pero en su opinión no es así. Su razón es la siguiente, “si en nuestros tiempos no somos capaces de dar una idea sobre Esquilo, Sófocles y Shakespeare que sea realmente explicativa de lo que estaban intentando conseguir con el teatro, probablemente hemos perdido en sentido de su concreción en el teatro. Y esto se produce porque se nos escapa el aspecto activo y directamente humano de su modo de hablar y moverse, todo su ritmo escénico. No es suficiente tener los textos de sus obras, porque ninguno de estos grandes autores de tragedias es el propio teatro. El teatro siempre es cuestión de materialización escénica en el espacio. Si queréis, llamadla «arte inferior», pero como insiste Artaud, «en un cierto modo, el teatro consiste en escenificar y animar el ambiente del escenario, a través de un choque de sentimientos y sensaciones humanas hasta un cierto punto, creando situaciones que se expresan con gestos concretos»”. Teniendo en cuenta lo dicho, antes de afrontar los problemas específicos de la traducción para el teatro, hay que dar un paso hacia adelante tal y como propone Carrigan: “Y para esta parte del viaje vamos 86 a necesitar a un nuevo Virgilio: así Antonin Artaud cede su puesto a R. P. Blackmur, aquel caballero refinado y crítico que ha guiado a muchos hacia la crítica moderna. En concreto me refiero a su ensayo Language as Gesture86 .En este ensayo, Blackmur nos dirige a esos reinos en los que el lenguaje se convierte en gestual. Blackmur ve más allá de la simple distinción en base a la que la lengua está formada por palabras y el gesto está formado por movimiento, hasta llegar a la distinción opuesta: «Las palabras están hechas de movimiento, de acción o respuesta, a cualquier distancia; y el gesto está hecho de lenguaje – de un lenguaje por debajo o más allá o en paralelo a la lengua de las palabras»”. Empezando por esta idea es posible para Blackmur considerar ese concepto de suma importancia para cualquiera que escriba para el teatro: «Cuando la lengua de las palabras tiene más éxito se convierte en gestual en sus palabras». Según esto, Blackmur considera que el gesto no nace de la lengua, sino que la precede, y en un cierto sentido el hecho de que el contexto sea imaginativo o dramático lo debe llevar la propia lengua. Es decir, sin calidad gestual, en la lengua no existe drama. Esto es así desde cuando «la gran parte de nuestro conocimiento de la vida y de la naturaleza – quizás todo nuestro conocimiento de su obra e interrelación – llega a nosotros como un gesto, y nosotros somos maestros de la habilidad de ese conocimiento antes incluso de ser capaces de un rima o de un juego de palabras, o también de una simple frase». Más adelante, Blackmur lleva a cabo la definición de lo que él entiende por «gesto en el lenguaje». La definición original de Blackmur es la siguiente: “Gesture, in language, is the outward and dramatic play of inward and imaged meaning. It is that play of meaningfulness among words 86 Publicado en Accent en 1943 y vuelto a imprimir en un libro con el mismo título en 1952. 87 which cannot be defined in the formulas in the dictionary, but which is defined in their use together; gesture is that meaningfulness which is moving, in every sense of that word: what moves the words and what moves us.”87 En base a esto, según Carrigan, en el momento en el que seamos capaces de capturar esa capacidad en las palabras estaremos escribiendo o traduciendo para los actores. Recogiendo las palabras de Carrigan, en el teatro se escribe solo para los actores, nunca para los lectores. Incluso echando una rápida mirada a la historia del teatro se demuestra que el teatro pierde vitalidad, e incluso pierde literatura en el momento en que los dramaturgos dejan de escribir para los actores. Por ejemplo, Shakespeare es la prueba más evidente de lo que se acaba de decir pero Esquilo, Sófocles, Eurípides o Moliere también podrían servir. Shakespeare es el dramaturgo más importante en lengua inglesa y sus obras son grandes obras de literatura, pero en realidad, él no estaba escribiendo literatura; él escribía sobre todo para los actores; y, como ya sabemos, escribía para actores concretos. Este es el eje principal de la vitalidad duradera. Además, según Corrigan “Shakespeare nunca habría creado algunas de sus escenas si no hubiese conocido a los actores que tenían que interpretarlas. Y por lo que sabemos de los festivales griegos y del teatro francés del siglo XVII, se puede afirmar que Sófocles tenía su Burbage88 y Molière era su Will Kemp89.” 87 Blackmur R. P. 1952, Language as Gesture, New York. Richard Burbage (1568-1619). Hijo del empresario James Burbage. Amigo de William Shakespeare y compañero suyo en las compañías de las cortes isabelinas. Fue primer actor de hecho en The Lord Chamberlain’s Men [“siervo de Lord Chamberlain”], la compañía teatral para la que componía Shakespeare. 89 William Kempe (1560-1603). Actor teatral y bailarín británico, experto en el papel del payaso y considerado por este motivo el heredero natural de Richard Tarlton. Kempe fue danzante cómico de jiga y se dio a conocer en el Globe Theatre con la compañía teatral de Shakespeare, The Lord Chamberlain’s Men. 88 88 Comparando lo que dice Carrigan con lo que sucede ahora, si nos fijamos, en este momento el arte de escribir para los actores se ha descuidado totalmente. La idea de que las obras se escriben para ser interpretadas parece molestar a muchas personas, según Carrigan, que añade “esta actitud es, en gran parte, una reacción a las prácticas de interpretación del siglo XIX, che muy a menudo han demostrado ser poco más que la prestidigitación de la técnica. En cada momento de la historia del teatro se puede encontrar este tipo de magia. Los hombres más culpables normalmente eran los actores; a menudo eran a los que se les llamaba «grandes actores». A estos actores virtuosos no se les puede condenar totalmente, dado que, con algunas importantes excepciones, durante los últimos ciento cincuenta años, a los actores se les ha dado de todo para interpretar, salvo obras teatrales: panfletos, tratados, artículos de periódico, e incluso poemas épicos. Esto ha llevado a los actores, que son animales con un fuerte instinto para la auto conservación y bastante ingeniosos, a abandonar totalmente los textos literarios en favor de situaciones apasionantes y llenas de suspense que les daban la posibilidad de exhibir sus propias habilidades. Arte decadente, pero un gran negocio.” Es verdad que en la actualidad se valora a los actores por su habilidad en la captación de la intención del dramaturgo en su interpretación pero aún así, todavía se ve con desconfianza cualquier obra que parezca escrita sobre todo para los actores. Según Carrigan esta forma de pensar es totalmente equivocada dado que los actores son el medio de expresión mejor del dramaturgo. Añade: “El poder del actor reside en su humanidad, no como suponemos a menudo en su mente, en su cuerpo, en su cara o incluso en su voz. Solo en el teatro, el artista se puede dirigir a los hombres en cuanto hombres para comunicarse, 89 expresarse e interpretar. Nunca he entendido el motivo por el que el arte del actor se disminuya por su transitoriedad. Seguramente la fuerza emotiva de la representación del actor, esa cualidad que conmueve al público, reside en el hecho de que posee su propia mortalidad, que ya se ha ido al pasado irrevocablemente como cualquier acción humana. Es justo por esta razón por la que la preocupación del actor se centra en el conseguir, no la verdad, sino más bien la corrección. Hacer perfecta esta corrección es su trabajo. El movimiento, el vestuario, el maquillaje, e incluso las palabras son accesorios. Por lo tanto, lo que el actor pide a una obra no son las palabras en forma de diálogo, sino un estímulo a su imaginación. Es en ese momento en el que el dramaturgo y sus actores confluyen por primera vez, y es importante recordar que el teatro es siempre una confluencia. Esto es verdad para la representación y es verdad para la creación de tal representación. Siendo el comediógrafo el primer eslabón de la cadena de producción, está en su vanidad reivindicar su creación. Su obra nunca sería una obra teatral si se quedase solo en un conjunto de palabras en un papel. Es por esa razón por la que el comediógrafo – y también el traductor – no pueden preocuparse verdaderamente por la «buena prosa » o por el «buen verso» en el sentido estricto de la palabra.” Según el autor, la estructura es acción; lo importante es no lo que se dice ni cómo se dice sino cuándo se dice. Por ejemplo algunos de los usos estructurales del lenguaje dramático con el soliloquio, pasajes corales, diálogos de un verso, diálogo indirecto y pausas. De este modo, es posible controlar desde el interior del texto de la obra la velocidad y el ritmo exacto que normalmente impone el director. Con lo que solo si entendemos la dinámica teatral de la obra así, los actores pueden ver la forma dramática de la parte individual en el interior de una escena, en 90 vez de verse obligados a confiar en su intuición que a menudo es falsa y que alguna vez lleva a una alteración de la obra. Por lo tanto, el factor fundamental e inalterable del drama es el “cuando”, y la primera preocupación del dramaturgo debe ser ese momento de la acción. Si no se cuida este factor, que es lo que suele ocurrir, serán el director y los actores los que lo impondrán. Es decir, el dramaturgo debe crear no solo el diálogo sino también lo que se hace y cuándo se hace. Recientemente, comediógrafos y críticos en la misma medida, se han ocupado del tema del estilo a la hora de escribir para el teatro. Estos estudios se refieren casi siempre a la forma de la palabra hablada aunque, según Carrigan, “esto es un error puesto que el punto de partida no son las palabras”. Actualmente los nuevos comediógrafos finalmente tienen esta percepción, lo que representa una gran esperanza para el teatro. Siguiendo a Carrigan: “Nosotros mismos nos debemos ocupar en primer lugar de los gestos que producen los motivos que se encuentran tras las palabras. Eso nos recuerda la vieja y humorística máxima del teatro que dice que: no hay que prestar atención a las indicaciones escénicas del comediógrafo. (En este sentido es interesante subrayar, ya que pienso sea el eje central de mi discurso, que en las obras griegas, o de Shakespeare, o de Moliere no existen indicaciones escénicas, salvo las entradas y salidas de escena. El motivo, es que el significado y los gestos se encuentran en las propias palabras).” De todas formas, en el teatro moderno, las indicaciones escénicas son el principal medio de comunicación entre el dramaturgo y los actores. Tales indicaciones no deben en ningún modo sustituir el trabajo90 del director diciendo al actor 90 Se denomina «blocking» o «staging»: «the precise moment-by-moment movement and the grouping of actors on stage». La inmovilización se basa en la paralización in situ de fuerzas representadas por 91 dónde moverse y cómo sentarse. Y ni siquiera deben enseñar al actor como leer su papel “pensativo”, “amargado”, “alegre”. (En relación a este punto, Carrigan se refiere a Eugene O’Neill cuyo lenguaje «monotono» no tenía prácticamente ninguna cualidad emotiva por lo que le era necesario añadir un prefijo cercano a cada diálogo con una indicación de escena para indicar al actor cómo debía leer las palabras, que de por sí no tenían ningún poder emocional). La definición y aplicación de líneas de actuación escenográficas nos permite reforzar las palabras. Son directrices que conducen el tema y la acción entre las partes individuales y cuando entran en juego en la representación se convierten en partes de la obra al mismo nivel que las palabras que pronuncia el actor. Ante esta reflexión el lector podría preguntarse si yo soy consciente del hecho de que debo desarrollar un tema sobre la traducción y no sobre la escritura de obras teatrales. Creedme, lo soy; sin embargo, creo firmemente que nadie puede traducir para el teatro – y que nadie pueda escribir para él – si no sabe lo que significa escribir para el teatro y qué diferencias hay entre esto y la narración. Me apresuraré por lo tanto a demostrar que nadie, que nunca haya recibido formación en un contexto de práctica teatral, podrá ser autor de buenas traducciones de obras teatrales. La falta de esa formación llevaría a traducir solo las palabras y sus significados. Con ese método nunca se conseguirían traducciones los actores que se contraponen en el escenario para lograr un equilibrio. Si lo traducimos en términos de movimiento significa control absoluto de todas las secciones del cuerpo por parte del actor. Se retoma aquí el concepto de Übermarionette [Supermarioneta] de Edward Gordon Craig, en el que el actor es efectivamente concebido como una marioneta que se deja llevar por el director una vez estudiado y controlado su propio cuerpo. «El artista (o la Supermarioneta) es el actor que se ocupa de recordar en cada detalle, y de repetirlo siempre igual, su personal recorrido físico y verbal. Así el actor es capaz de crear una materia paradójicamente sólida sobre la cual el director, cuando esté presente, pueda trabajar» [Schino 2001: 71]. 92 aptas para ser recitadas, que es, al fin y al cabo, la finalidad esencial de este trabajo. En función de estas consideraciones nos preguntamos: dado que para los actores traducir es una labor diferente... ¿cuáles son las técnicas y los problemas concretos? La primera regla de la traducción para el teatro es que cualquier cosa puede ser hablada. Para el traductor es siempre necesario escuchar mentalmente al actor que habla. Debe tener conciencia de los gestos que acompañan a la voz que recita, del ritmo, de la inflexión de la voz, de la pausa. Tiene que tener en cuenta así mismo del aspecto, de sus sentimientos, del movimiento del actor mientras habla. Debe, en resumidas cuentas, comunicar la acción completa de la escena así como se quiere transmitir. Para ello es importante saber qué objetivo tienen las palabras y lo que significan, pero todavía es más importante ser conscientes de lo que no deben generar en esos momentos cruciales en los que el actor está por manifestar un gesto vocal o físico. Solo de esta manera el traductor consigue percibir las palabras de la manera en la que se dirigen entre ellas mismas con armonía o en contradicción, según el esquema establecido, y por lo tanto con un sentido teatral. Lo que quiero decir, quizás, es que más que dirigir una obra es necesario recitar la obra y observarla mientras se está traduciendo. Me tomé interés por la traducción en el teatro por necesidades prácticas. Hace algunos años me pidieron que dirigiera una producción de Chéjov, Дядя Ваня [Tío Vania]. Contaba con un reparto excelente y decidí aplicar lo que habitualmente se consideraba la mejor traducción de Chéjov. Las primeras pruebas de literatura fueron espantosas. Al principio creí que aquello era una costumbre y que los actores habrían 93 superado aquella rigidez. Después de todo, la traducción tenía su sentido lógico. Pero enseguida – tuve la gran suerte, aunque poco común, de tener tres meses por delante para preparar el espectáculo – los actores inconscientemente se pusieron a improvisar las entradas. Sonaban mejor, se entreveía una corriente. Hoy, las obras de Chéjov, por tradición, se consideran volubles, complejas, profundas, nebulosas e imposibles de representar con éxito en el escenario estadounidense. De cualquier modo, mis actores estaban demostrando que no era así necesariamente. Entonces me acordé de los problemas de Chéjov con Stanislavski y de cómo el comediógrafo siempre se obstinaba con que el gran directoractor se dedicaba a complicar lo que en realidad era muy sencillo91. Y entendí además que las traducciones no reflejaban aquella sencillez sobre la que insistía Chéjov. En lugar del «But what for?»92 del texto en la traducción encontrábamos «though what his provocation may be I can’t imagine»93. O mejor «There is another thing too you take a drop of vodka now», cuando Chéjov había escrito simplemente: «And you drink too». O por último, «as if the field of art were not large enough to accommodate both new and old without the necessity of jostling»; él había escrito: «but there’s room for all». Pero se me encendió de repente una bombilla cuando decidí que al significado y a la complejidad de sus obras – que es enorme – hay que llegar indirectamente. Cuando Chéjov escribió: 91 Por ello, me atrevería a decir que muy probablemente Stanislavski y la tradición del Teatro del arte de Moscú han contribuido a desfigurar nuestra idea sobre Chéjov mucho más que cualquier otro grupo o individuo, lo que pone de manifiesto cuánto un traductor debe ser ante todo un crítico. En mi opinión, no es una casualidad que las mejores traducciones de las tragedias griegas que a menudo se denominan “Chicago” hayan sido realizadas por dos de los mejores críticos de tragedia griega de nuestros tiempos. Y al decir esto me doy cuenta de repente de que acabo de crear una especie de Craig-hiana Übermarionette [Supermarioneta]: el traductor es escritor, director, actor, espectador, y ahora incluso crítico. ¿Para qué nos sirve un teatro? Si todos los traductores se unieran el teatro pasaría de moda cada quince días y todos nuestros problemas se resolverían. 92 NdT: Pero, ¿para qué? 93 NdT: no puedo imaginar lo que podría ser su provocación 94 “Es necesario que el héroe o la heroína (de una obra) demuestren una eficacia dramática relevante. Solo que en la vida real las personas no se disparan a sí mismas o se ahorcan o se enamoran o se aplican proverbios a sí mismos cada dos por tres. Pasan la mayor parte del tiempo comiendo, bebiendo, acosando a las mujeres o a los hombres, o simplemente diciendo tonterías. Por lo tanto, esto es lo que se espera ver en el escenario. En una obra debe quedar constancia escrita de que las personas van, vienen, cenan, comentan el tiempo o juegan a las cartas no porque el autor lo quiera sino porque esto es lo que ocurre en la vida real. La vida en el escenario tiene que ser como realmente es y también las personas deben reflejarse como son y no de manera postiza.” Intentaba decirnos que sus acciones dramáticas se recogen todas en un marco básico caracterizado por la sencillez. Los matices de la vida aparecen reflejados desde una visión familiar y con estupidez natural. En un acontecimiento en sí, hay bien poco dramatismo. Lo que convierte estos episodios en un teatro rico de fuerza es la peculiar encrucijada de secuencias, asociaciones implícitas, contrastes e ironía. De esta manera se transmite un significado profundo. Pero si esta teoría vale para entender la dramaturgia, debe valer también para interpretar las entradas. Es decir, me da cuenta de que la traducción debía resultar fácil y natural. La profundidad y el significado interior pueden y deben manifestarse solo de forma teatral y no enunciativa, a través de sencillas interacciones superficiales y no de entradas complejas y ambiguas, o de lo que Stark Young llamó una «muggy, symbolic, swing-on-to-your-atmosphere sort of tone». Quizás pueda expresar mejor el concepto con un ejemplo. En el tercer acto de Tío Vania observamos un largo discurso del profesor Serebriakov, aquel meticuloso retrógrado que pasó su vida masticando 95 las ideas ajenas en los “-ismos” de la literatura, y que día a día transforma su incapacidad y su inconsciente sentimiento de frustración en actos de crueldad contra los que le rodean. En este discurso anuncia su plan de vender la finca en la que Vania trabajó duramente para mantenerla productiva. Cito la que, en mi opinión, es la mejor traducción de este discurso: “Aquí tenemos también a «maman». Empiezo a hablar. (Pausa.) Les he invitado, señores, a venir aquí con el fin de comunicarles que viene el inspector... Pero, bueno... Dejemos a un lado las bromas; el asunto es serio. Les he reunido con el fin de solicitar su ayuda y consejo..., cosas ambas que, conocida su proverbial amabilidad, espero recibir. Soy hombre de ciencia, de libros... Y, por tanto, me mantuve siempre ajeno a la vida práctica. No me es posible, pues, prescindir de las indicaciones de gente ducha en la materia..., por lo que te ruego, Iván Petrovich, y ruego a ustedes, Ilia Ilich y «maman»... Es el caso que «manet omnis una nox»..., o sea, que todos dependemos de la providencia de Dios... Yo soy ya viejo y estoy enfermo..., por lo que considero llegada la hora de ordenar mis bienes en cuanto estos se relacionan con mi familia. No pienso en mí. Mi vida acabó ya, pero tengo una mujer joven y una hija. (Pausa.) Seguir viviendo en el campo es imposible. No estamos hechos para el campo. Ahora bien..., vivir en la ciudad, con los ingresos que produce esta finca, tampoco es posible. Suponiendo, por ejemplo, que vendiéramos el bosque, esta sería una de esas medidas extraordinarias que no pueden tomarse todos los años... Es preciso, por tanto, encontrar un medio que nos garantizara una cifra de renta fija más o menos segura. Así, pues, habiéndoseme ocurrido cuál podría ser uno de esos medios, tengo el honor de someterlo a su juicio... Pasando por alto los detalles, les explicaré mi idea en sus rasgos generales... Nuestra hacienda no 96 rinde, por término medio, más del dos por ciento de renta. Propongo venderla... Si el dinero obtenido con su venta fuera invertido en papel del Estado, podríamos obtener de un cuatro a un cinco por ciento, e incluso creo que podría conseguirse algún «plus» de varios millones de rublos, que nos permitirían comprar una «dacha» en Finlandia”. Ante todo, ni siquiera Houdini habría conseguido limitar estas acepciones y ningún autor habría conseguido resultar convincente. Pero, aún más importante, a la traducción le faltaban el tono y el significado de la escena en su conjunto. Aquí introduce a un malvado profesor que se presenta con su perorata en el Rotary Club. Expresiones amaneradas de las que se ven sobre un pódium, las bromas, las frases de mal gusto, hacer uso del resumen, los intentos meticulosos por no resultar meticuloso…, todo esto se desecha o de forma equivocada se sustituye con prolijos discursos. Además de esto, a la traducción le falta la calidad retórica de la entrada – la forma teatral en la que el orador se refleja. Como T. S. Eliot comentó en el ensayo Rhetoric and Poetic Drama, lo que todos nosotros tenemos en común es esta tendencia a ser retóricos lo que puede ser de gran ayuda para el dramaturgo moderno porque permite enseñarle al público un personaje no solo tal y como lo ven otros personajes sino como el mismo personaje de forma consciente se auto dramatiza. El discurso, sin embargo, debería ser: “Here is mother. Ladies and gentlemen, let us begin. I have asked you to gather here, my friends, to inform you that the inspector-general is coming. (laughs) All joking aside, however, I wish to discuss a very important matter. I must ask you for your aid and advice, and realizing your unbounded kindness, I believe I can count on both. I am a scholar and bound to my library, and I am not familiar with practical affairs. I am unable, I find, to dispense with the help of well-informed people such 97 as you, Ivan, and you, Ilya, and you mother. The truth is, manet omnes una nox, that is to say, our lives rest in the hands of God, and as I am old and ill, I realize that the time has come for me to dispose of my property in the interests of my family. My life is nearly finished, and I am thinking of myself, but I must consider my young wife and daughter. (a pause) I cannot go on living in the country; we were just not meant for country life. We might sell the forests, but that would be an expedient to which we could not resort every year. We must work out some method of guaranteeing ourselves a permanent, and . . . ah, more or less fixed annual income. With this object in view a plan has occurred to me which I now have the honor consideration. I shall give you only a rough outline of it, omitting all the othersome and trivial details. Our estate does not yield, on an average, more than two per cent on the investment. I propose to sell it. If then we invest our capital in bonds and other suitable securities, it will bring us four to five per cent, and we should probably have a surplus of several thousand roubles, with which we could buy a small villa in Finland ...” Se obtiene teatro solo cuando se consigue un texto apto para la disertación. El autor está seguro de que ésta es una de esas cosas a las que se refería Hamlet cuando se dirigía a sus actores: «Speak the speech, I pray you… trippingly on the tounge». Una vez asumida esta teoría, creo que los traductores no utilizan bien un recurso importante: los actores mismos. He coordinado personalmente todas mis traducciones de Chéjov y, de una vez para otra, los actores han efectuado o me han sugerido variaciones que han mejorado mucho la traducción. Para empezar, dos ejemplos modificados, aunque en menor medida, por los actores que no hicieron otra cosa que mejorar el flujo de las palabras. En origen tenía «It is too stifling». El actor propuso «The day is too hot». 98 En otro párrafo «will they remember us in a kindly spirit?» dice «will they remember us with grateful hearts?». Sin embargo, los actores pueden aportar variaciones que alteran la dinámica completa de una escena. Cuando dirigí Три сестры [Tres hermanas], durante tres semanas intenté construir en vano la última escena del tercer actor de forma aceptable, o por lo menos construirla. Mis tres hermanas eran excelentes actrices y todas contaban con una buena experiencia y formación profesional. Sabía que había que empezar a construirla con uno de los discursos de Irina, pero no había modo. Llegó una tarde en la que la actriz modeló el discurso a su manera y por sí sola empezó a darle forma a la escena; era lo que queríamos. Fue solo después que me di cuenta de que había cambiado una de las entradas, y de este modo su modificación había convertido el discurso, y por consiguiente el resto de la escena, en dramático. La entrada original era «Oh, I’m so miserable! I can’t work, I won’t work! I’ve had enough of it, enough!» sin embargo, la actriz había recitado «I’m miserable (pause). I’ve had enough, enough, enough. I can’t, I won’t, I will not work», y obtuvo así una estructura que se podía construir con la voz. Por supuesto, no pretendo dejar caer la idea de que se efectúen variaciones arriesgadas o variaciones que alteren el significado del discurso. Más bien de que un actor – al pronunciar su entrada – puede proporcionar una gran ayuda al traductor para que le permita recitar con más facilidad. Además de conseguir un texto más apto para ser hablado, el traductor tiene que estar también dispuesto a salvar alguna parte. Está claro que, por necesidad, todas las traducciones son imperfectas. Como decía Eric Bentley, «If life begins on the other side of despair, the translator’s life begins on the other side of impossibility!». Especialmente para Chéjov esta es una gran verdad pues sus obras se 99 entretejen con fineza y se basan en rasgos peculiares de la cultura rusa. Por ejemplo, en el segundo acto del Tío Vania observamos la entrada del guardián. Es un toque de inmenso realismo pero funciona también como símbolo para la acción. Se utiliza en ese momento crucial al final del acto, cuando Elena y Sonia acaban de terminar de confesarse con toda su franqueza y justo por esto son capaces de experimentar una emoción. Las ventanas están abiertas, llueve y todo se ve limpio, lleno de frescor. Elena piensa que podrá volver a tocar el piano. Cuando Sonia va a pedir permiso, se oye el toque del guardián, Elena tiene que cerrar la ventana y Serebriakov dice «no». Toda su vida sentimental transcurre protegida por un guardián, por lo que no deja lugar a ningún tipo de sentimiento. De cualquier modo, cuando se reproducen esos sonidos en el ambiente, el público percibe con dificultad su importancia pensando que el ruido está provocado por las tuberías del auditorio. Lo mismo ocurre con algunas alusiones culturales de Tres hermanas. La única forma de que sean comprensibles es escribiendo notas a pié de página o un programa para repartir en sala. No quiera Dios que tengamos que hacer ni una cosa ni otra. Si las obras se decoran como es debido estos efectos impactarán seguramente al público, o incluso llegarán a comprenderlos. Pero sin embargo, hay un fragmento que habría que evitar. Por ejemplo, en una de las traducciones publicadas por Tío Vania la escena del disparo no se presenta correctamente. La versión difundida es: “¡Déjeme, «Helène»! ¡Déjeme! (Logrando soltarse de ella, entra precipitadamente y busca con los ojos a Serebriakov.) ¿Dónde está? ¡Ah! ¡Está aquí! (Apuntándole disparando.) ¡Pum!... (Pausa.) 100 ¿No le he dado? ¿Me falló otra vez el tiro? (Con ira.) ¡Ah diablos! ¡Diablos!... (Golpea con la pistola sobre la mesa y se deja caer, agotado, en una silla. Serebriakov parece aturdido, y, Elena Andreevna, presa de un mareo, se apoya contra la pared.)” Ningún traductor se ha dado cuenta de que en el texto ruso Vania no aprieta el gatillo de la pistola sino que dice «Bang!». Llega a ser tan incapaz de actuar que ni siquiera cuando se está jugando la vida consigue actuar y recurre a las palabras. Es un caso en el que el sentido de la obra se altera drásticamente porque el traductor no se da cuenta de que la visión chejoviana de ese horrible momento es más verdadera que cualquier otra lógica simplificativa. En el último punto de mi exposición quiero dejar constancia de que, además de dirigirse a los actores, la traducción debe estar escrita en un buen inglés. No quiero dejarme influenciar por la diatriba versión libre contra versión filológica, pero es evidente que el traductor no tiene por qué respetar una correspondencia palabra por palabra. Si razonáramos palabra por palabra en francés «For crying out loud!»no se podría traducir. Creo que Bentley tiene razón cuando declara: “Accuracy must not be bought at the expense of bad English. Since we cannot have everything, we would rather surrender accuracy than style. This, I think, is the first principle of translating, though it is not yet accepted in academic circles. The clinching argument in favor of this principle is that, finally, bad English cannot be accurate translation unless the original is in bad German, bad French, or what have you.” Sin embargo, preocuparse por un buen inglés quiere decir intentar colocarse siempre en el lugar del comediógrafo. Cuando éste usa repeticiones deberíamos usarlas también nosotros, no tacharlo de prolijo. 101 Al fin y al cabo en el «Tomorrow and tomorrow and tomorrow» de Macbeth es evidente que lo que cuenta no es el significado de las palabras sino el sentido que éstas asumen en la repetición en aquel contexto. Lo mismo vale para todas las demás expresiones de la lengua, juegos de palabras, rimas, aliteraciones. O cuando un comediógrafo se equivoca al citar un autor o una canción el traductor no debe corregir el error del autor. Chejov, por ejemplo, pone continuamente en boca de sus personajes citaciones de Shakespeare aunque a menudo son citaciones erróneas. Su inexactitud es lo que le da sentido. Pero aun con toda su buena voluntad los traductores de Chejov siempre han considerado que los conocimientos de inglés del pobre Antón Pávlovich no fueran muy allá e intentaban por lo tanto ir en su ayuda corrigiendo sus intentos imperfectos. Por último, es importante recordar que el sentido global en el discurso teatral depende en parte de su duración, y que en la escritura teatral el ritmo lo marca la respiración. Por ello en lo que es posible el traductor debe mantener sin variaciones el número de las sílabas de la entrada. Dejadme que para terminar diga que si nos mantenemos firmes en la idea de que el lenguaje teatral debe representar una necesidad, como resultado de una serie de compresiones, colisiones, fricciones escenográficas y evoluciones, tendrá éxito siempre y cuando se base en los gestos. «Language as gesture», como indicaba Blackmur, «creates meaning as conscience creates judgment, by feeling the pang, the inner bite, of things forced together», y éste es el conflicto que nosotros definimos «dramático», el conflicto que encuentra mejor su lugar de ser en el teatro. 102 BIBLIOGRAFIA Čehov, A. 1991 Zio Vanja, Torino: Einaudi Osimo, B. 2004 Manuale del traduttore, Milano: Hoepli. Pavis, P. 1998 Dizionario del teatro, edición italiana realizada por Paolo Bosisio, Bologna: Zanichelli. Peja, L. 2004 La supermarionetta, artículo disponible en la página http://www.piccoloteatro.org/elementi/articolo.php?idRub=4&news=78 Milano: Annamaria Cascetta, última actualización de abril 2004, consultado en febrero de 2009. Schino, M. 2001, «Teorici, registi e pedagoghi» en Storia del teatro Einaudi, vol. III, Torino: Einaudi. 103