SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI
(Decreto Ministero dell’Università 31/07/2003)
Via P. S. Mancini, 2 – 00196 - Roma
TESI DI DIPLOMA
DI
MEDIATORE LINGUISTICO
(Curriculum Interprete e Traduttore)
Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università
al termine dei Corsi afferenti alla classe delle
LAUREE UNIVERSITARIE
IN
SCIENZE DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICA
From Page to Stage
RELATORE:
Prof.ssa Adriana Bisirri
CORRELATORI:
Prof. Paul Farrell
Prof. Carlos Alberto Medina Delgado
CANDIDATA:
___________________
ANNO ACCADEMICO 2014 / 2015
Livia Filippi
DEDICA
A mamma e papà che mi hanno insegnato ad essere fedele alle mie
idee, non importa quanto bizzarre, fino al punto di tradurle in realtà.
A tutte le cose a cui sono unita da legami invisibili.
Che possa consegnare al teatro imprigionato dalla dottrina, che
razionalizza tutto uccidendo l’inspiegabile, una goccia di intelligenza libera,
di umanità, di verità.
2
INDICE / INDEX / ÍNDICE
I.1. INTRODUZIONE
p. 4
I.2. IL TESTO TEATRALE E LA SUA COMPOSIZIONE
p. 5
I.3.1. STORIA DELLA TRADUZIONE TEATRALE
p. 9
I.3.2. LA SEMIOTICA DEL TEATRO
p. 12
I.4.1. LA TRADUZIONE ARTISTICA
p. 17
I.4.2. IL TRADUTTORE-ATTORE
p. 20
I.5. DRAMMATURGHI, TRADUTTORI, SPETTATORI
p. 25
I.6. TRADURRE PER GLI ATTORI di Robert W. Corrigan
p. 31
I.7. CONCLUSIONE
p. 51
I.8. BIBLIOGRAFIA
p. 53
I.9. SITOGRAFIA
p. 56
II.1. INTRODUCTION
p. 57
II.2. THE THEATRICAL TEXT AND ITS COMPOSITION
p. 58
II.3.1. THE HISTORY OF THEATRICAL TRANSLATION
p. 61
II.3.2. THEATRE SEMIOTICS
p. 64
II.4.1. ARTISTIC TRANSLATION
p. 69
II.4.2. THE TRANSLATOR-ACTOR
p. 72
II. 5. PLAYWRIGHTS, TRANSLATORS, SPECTATORS
p. 76
III.1. TRADUCIR PARA LOS ACTORES de Robert W. Corrigan p. 82
3
I.1. INTRODUZIONE
La presente tesi nasce da un intreccio di interessi sia teorici che
pratici, legati a due ambiti solo apparentemente distanti e diversi come
quello teatrale e quello della traduzione. Si propone di affrontare la
disciplina della traduzione teatrale da diversi punti di vista, compresa la
semiotica del teatro.
Per favorire il raggiungimento di tale obiettivo, questo lavoro è
strutturato in quattro parti e si conclude con la traduzione e
l’interpretazione del saggio «Tradurre per gli attori» di Robert W.
Corrigan, pubblicato nel 1961 nella raccolta Craft and Context of
Translation a cura di Arrowsmith e Shattuck.
La prima parte presenta il testo teatrale e la sua composizione.
La seconda, partendo da alcuni accenni storici, delinea le
caratteristiche proprie che distinguono la traduzione teatrale dalle
traduzioni di altri tipi di testo: la dominante della recitabilità e
dell’accettabilità nella cultura ricevente è la caratteristica fondamentale.
La terza parte presenta le diverse concezioni della dialettica tra testo
scritto (testo drammatico) e messinscena (testo spettacolare) e le scelte
che il traduttore deve fare nell’affrontare la traduzione.
Infine la quarta parte analizza il rapporto tra le figure principali
coinvolte nel processo traduttivo: l’autore dell’opera, il traduttore,
l’attore e lo spettatore.
4
I.2. IL TESTO TEATRALE E LA SUA COMPOSIZIONE
Uno spettacolo teatrale può nascere senza la necessità di svilupparsi
da un testo letterario, o può svilupparsi da un testo non letterario. Ad
esempio uno spettacolo di balletto nasce da un testo musicale e può o
non può avere un testo letterario.
Il teatro che si sviluppa a partire da un testo letterario è quel
particolare tipo di teatro comunemente definito drammatico, o
melodrammatico quando è costituito da una messa in musica del testo.
Secondo Keir Elam l’aggettivo “drammatico” è riservato a una
relazione tra l’autore e il lettore, mentre l’aggettivo “teatrale” alla
relazione tra attore e pubblico.
“Un testo è una storia strutturata e unificata, comica o drammatica,
completa di un inizio, di una parte centrale, e di una fine, che esprima la
passione e la visione della vita del drammaturgo, che mostri i conflitti
che si sviluppano conducendo verso un climax e che tratti con
personaggi dimensionali dotati di forti emozioni, bisogni, traguardi che
possano motivare le proprie azioni. È costruito con una serie di eventi
plausibili e probabili, scritto per essere rappresentato e pronunciato
mediante dialoghi e azioni oltre che attraverso silenzi e non azioni, agito
da attori da un palco verso un pubblico che è presente per credere agli
eventi a cui sta assistendo”1.
Il testo teatrale è un testo letterario concepito per essere
rappresentato. È realizzato con delle caratteristiche che lo differenziano
decisamente da qualunque altro tipo di testo, manca il narratore e il suo
io soggettivo, mancano descrizioni o racconti di quanto avviene o è
avvenuto: lo sviluppo dell’intera vicenda è affidato alle battute dei
1
Catron, 2002.
5
personaggi attraverso le quali è possibile discernere i loro tratti
psicologici, i fatti anteriori all’inizio della rappresentazione e i legami tra
i vari avvenimenti.
Esso si suddivide generalmente in atti e questi a loro volta in scene
(o quadri). Gli atti sono, in sostanza, le diverse parti in cui è articolato il
testo, il cui numero varia in base al genere drammatico. Ciascun atto
viene poi suddiviso in scene, che cambiano a seconda dell’entrata o
dell’uscita di uno o più personaggi.
Dal punto di vista letterario, gli elementi fondamentali del testo
teatrale sono due: le didascalie e le battute di dialogo.
Le didascalie, dal greco διδασκαλία «istruzione», sono un elemento
importante del testo la cui funzione è proprio quella di dare istruzioni e
suggerimenti sulla messinscena di un’opera. “Veleno” di Vitrac, così
come gli “Actes sans paroles” di Beckett, sono testi che addirittura
hanno solo didascalie e non battute. Sono indicazioni riassuntive date
dall’autore, destinate al regista, all’attore o al lettore, che servono a dare
indicazioni sul luogo e il tempo in cui si sviluppa la vicenda, sul modo in
cui i personaggi entrano e escono dalla scena, sull’abbigliamento e
carattere dei personaggi, sul tono con cui pronunciare le battute. La
lunghezza delle didascalie può variare da poche parole a periodi più
lunghi e dettagliati, generalmente scritti in corsivo o posti tra parentesi se
si intervallano alle battute.
Colonna portante di un testo teatrale sono le battute di dialogo che
occupano la quasi totalità del testo stesso. Alle parole dei personaggi,
infatti, è affidato lo svolgersi integrale dell’intera vicenda: il racconto dei
fatti presenti e passati, la delineazione del carattere e dei sentimenti dei
singoli personaggi, gli avvenimenti non rappresentati direttamente in
scena.
6
Si distinguono diversi tipi di battute di dialogo in base al numero di
persone che pronunciano le battute e alla maniera in cui esse vengono
pronunciate:
 Dialogo: dal greco διά «attraverso» e λογος «discorso», è la parte
più importante del testo teatrale e il tipo di battuta più frequente che si
realizza tra due personaggi che si alternano a parlare;
 Concertato: è un dialogo che avviene tra tre o più personaggi;
 Duetto: più comunemente denotato con l’espressione «botta e
risposta», è un dialogo dall’andamento incalzante e serrato che si svolge
tra due personaggi;
 Soliloquio: dal latino solus «solo» e loquor «parlare», si ha
quando un personaggio solo sulla scena, espone ad alta voce i propri
pensieri e sentimenti, perché il pubblico possa venirne a conoscenza,
senza la presenza di un destinatario a cui rivolgere direttamente le
proprie parole. Le commedie di William Shakespeare sono spesso
caratterizzate da soliloqui;
 Monologo: è ancora la riflessione intima di un singolo
personaggio, che questa volta non è solo ma appartato sulla scena, e si
rivolge direttamente al pubblico o ad un’altra persona;
 Tirata: è un lungo discorso relativo alle vicende passate e presenti
cui il personaggio partecipa, che questo fa senza che altri interloquisca,
per il quale chiede esplicitamente che si faccia silenzio;
 A parte: è un commento segnalato sul testo da una didascalia e
posto fra parentesi, che il personaggio fa sull’argomento trattato,
estraniandosi per un momento dalla rappresentazione stessa e
rivolgendosi solo allo spettatore;
7
 Fuori campo: sono battute affidate a un personaggio non
direttamente coinvolto nell’azione scenica, ma incaricato di intervenire
“fuori scena” a commentare la vicenda in atto o a interloquire con i
personaggi.
8
I.3.1. STORIA DELLA TRADUZIONE TEATRALE
La traduzione (dal latino traducere «trasportare») è la trasposizione
del discorso da una lingua naturale a un’altra. Si dice interprete chi dà la
traduzione orale e istantanea di un messaggio orale; traduttore è chi
opera sulla lingua scritta.
Si dice anche “interprete” colui che traduce in una lingua nota ciò
che è espresso in un linguaggio non noto.
La traduzione è sempre esistita; se solo recentemente si è posto il
problema di una teoria scientifica della traduzione, antichissima è
l’attività dell’interprete, fiorente già nell’antico Egitto.
Testimonianza di traduzione sono le liste e i glossari bilingui e
plurilingui in tavolette di terracotta dell’Asia Minore.
A Roma la letteratura si inizia all’insegna della traduzione. Livio
Andronico (poeta del III sec. a.C.), ad esempio, agli esordi della cultura
latina tradusse Omero, attualizzandone però il messaggio e la forma
stilistica.
Abbiamo poi Tito Maccio Plauto (250 ca.-184 a.C.) traduttore delle
commedie greche. Plauto viveva della propria comicità, del proprio
vivace entusiasmo che lo portava a riproporre, sulle scene latine le
commedie greche, tradotte con sapiente originalità per il pubblico
romano.
L’originalità di Plauto consiste, prima di tutto, nell’aver inaugurato
la “traduzione artistica”, quel fenomeno tra i più vasti e complessi della
letteratura occidentale e per il quale ogni traduzione implica, in qualche
modo, una interpretazione.
Il problema teorico e pratico della traduzione è di grande
importanza nel mondo contemporaneo.
9
Il XX secolo, invece di fare una sintesi di tutte le precedenti
esperienze valide in materia di traduzioni, si è caratterizzato per un
fiorire di opinioni e di teorie su di esse. Il secolo da poco concluso non è,
dunque, riuscito a creare una certa unità nel problema traduzione e i
motivi di disaccordo appaiono acutizzati dalla maggiore consapevolezza
teorica e dall’affinamento dei mezzi tecnici.
Anche per questo motivo, gli studi sulla storia della traduzione
teatrale sono davvero scarsi e non è possibile rifarsi a una teoria
specifica o a un manuale con linee guida fisse e imprescindibili da
seguire. L’impossibilità di costituire una teoria sulla traduzione teatrale
forse è riconducibile alla stessa natura poco teorica del teatro, che in
quanto «arte fragile, effimera, particolarmente esposta all’influenza del
momento […] [comporta che sia necessario] correggere costantemente la
teoria critica deputata a descrivere il fenomeno teatro»2. La labilità della
disciplina teatrale, il suo essere contingente, e non eterno come invece
molti tendono a pensare, si rispecchia anche nel lavoro di traduzione di
testi teatrali.
In linea generale, le norme traduttive valide per la narrativa devono
essere considerate valide anche per la traduzione teatrale, anzi
amplificate. Per Zuber nella traduzione teatrale si dispiegano due fasi: la
prima è il processo di traduzione da una lingua all’altra; la seconda è il
processo di trasposizione del testo tradotto sul palcoscenico. Zuber
considera la traduzione teatrale una «sottosezione» della disciplina della
traduzione narrativa e la distingue da tutte le altre forme di traduzione in
primis per due dominanti: la recitabilità e la parlabilità. «A play written
for a performance must be actable and speakable» pertanto nella
traduzione vanno presi in considerazione anche gli aspetti non verbali e
2
Pavis, 1998: 5.
10
culturali e i problemi sul palcoscenico3. Non esisterà una traduzione
giusta e una traduzione sbagliata, ma quella più o meno accettabile, che
possa essere recepita dalla cultura ricevente nel migliore dei modi.
«Unlike the translation of a novel, or a poem, the duality inherent in the
art of the theatre requires language to be combine with spectacle,
manifested through visual as well as acoustic images»4.
In Europa la traduzione di opere teatrali inizia nella seconda metà
del Seicento, quando la grande richiesta da parte delle compagnie teatrali
porta alla produzione di numerose traduzioni affrettate e spesso poco
accurate. Nell’Umanesimo nasce invece un tipo di traduzione che
privilegia la lettura anziché la rappresentazione: la traduzione dei
classici. Un esempio emblematico è la traduzione di Shakespeare, che
nel buio della teoria sulla traduzione teatrale rappresenta il filo
conduttore empirico per capire le logiche sottese alle ricerche sulla
traduzione teatrale. La Routledge Enciclopedia of Translation Studies5
dedica un capitolo alla Shakespeare Translation e paragona l’impatto
che questa ha avuto sulle culture a quello avuto dalla traduzione della
Bibbia. Nel caso di Shakespeare, ma ciò vale per tutte le traduzioni dei
classici, si contrappongono i sostenitori dell’ortodossia filologica nella
traduzione del dramma, che danno meno risalto alla recitabilità, e quelli
che invece si azzardano a rivitalizzare il classico e a proporre scelte di
traduzione che hanno come dominante l’accettabilità da parte della
cultura ricevente. Solitamente però, questi ultimi tipi di “esperimenti”
trovano poco seguito tra il pubblico e invece paradossale è sapere come
traduzioni filologicamente orientate abbiano avuto così successo tra i
classicisti, che vanno a teatro seguendo il testo scritto e solo di rado
3
Zuber, 1988: 485.
Anderman, 1998: 71.
5
Baker, Malmkjaer, 1998: 222-226.
4
11
alzano
gli
occhi
al
palcoscenico.
La
conseguenza
estrema
dell’atteggiamento classicista è considerare il testo originale qualcosa di
“sacro” e rifiutare invece un approccio “relativistico”, che sappia cioè
giudicare caso per caso il prototesto e la relativa traduzione.
I.3.2. LA SEMIOTICA DEL TEATRO
Il traduttore può considerare il testo teatrale pura letteratura oppure
parte integrante di una produzione teatrale, può quindi rispettivamente
avere come committente un editore oppure un regista (o un teatro). Nel
primo caso il frutto del lavoro del traduttore sarà un testo drammatico,
nel secondo caso un testo spettacolare, cioè l’attuazione scenica.
La distinzione tra testo drammatico e testo spettacolare si deve alle
riflessioni teoriche e analitiche del circolo di Praga, che agli inizi degli
anni Trenta elabora la disciplina delle semiotica del teatro.
In una prima fase la semiotica del teatro punta il proprio interesse
sull’elemento testuale del teatro, in particolare sul testo verbale scritto
che costituisce il testo drammatico (concezione linguistico-strutturalista).
La preferenza per il testo scritto, considerato l’elemento fisso e
invariante del teatro, è sicuramente retaggio della concezione
logocentrica, che da Aristotele fino alla fine dell’Ottocento, è stata
considerata l’unica risposta valida nell’analisi teatrale. Il testo scritto
sarebbe portavoce del senso e quindi struttura profonda ed elemento
essenziale dell’arte drammatica e le messe in scena sarebbero solo
espressioni superficiali, posteriori e subordinate al testo scritto. La
concezione logocentrica pone il testo e la scena in un rapporto dialettico,
associato alla teologia (In principio era il verbo), che vede il testo come
anima, portatrice di senso e la scena come corpo esteriore che «distoglie
12
il pubblico dalle bellezze della vicenda e dalla riflessione sul conflitto
tragico»6.
Dalla seconda metà degli anni Settanta, De Marinis si fa portavoce
della necessità di una modifica radicale dell’approccio logocentrico: lo
spettacolo concreto (il testo spettacolare) diventa vero oggetto
dell’analisi semiotica. Il testo spettacolare permette di cogliere
diacronicamente e sincronicamente il senso della rappresentazione.
Alcuni semiotici considerano la messa in scena una traduzione
intersemiotica, «una transcodifica di un sistema in un altro» e Pavis
giudica ciò «una mostruosità semiologica»7. Anche continuare a
concepire il testo scritto come unico elemento essenziale invariante del
dramma e la messa in scena come espressione, puro «allestimento di
un’evidenza testuale» è secondo Pavis sbagliato. Artaud giudica un
«teatro di idioti, di pazzi, di invertiti, di pedanti, di droghieri, di
antipoeti, di positivisti, in una parola di Occidentali» quel teatro che si
ostina a subordinare lo spettacolo al testo8. Meno estrema sembra
l’opinione di Zuber, che vede il testo scritto come elemento irrevocabile
e permanente, mentre ogni messinscena basata su quel testo è diversa,
unica, assolutamente contingente e legata alle varianti di tempo e spazio
in cui si realizza: «a theatre performance is subject to changes according
to audience reaction, acting performance, physical environment, and
other factors»9.
Non è possibile dunque giudicare il testo scritto e il testo
spettacolare in termini gerarchici: sono parti imprescindibili del testo
teatrale, che esistono e funzionano reciprocamente per creare il fatto
6
Pavis, 1998: 487-488.
Pavis, 1998: 394.
8
Artaud in Pavis, 1998: 488
9
Zuber, 1988: 485.
7
13
teatrale. Il testo scritto è portatore di senso e la rappresentazione è
«l’enunciazione del testo drammatico in una data messa in scena che
conferisce al testo un senso e non un altro»10. Pavis pone l’attenzione su
un’ulteriore corrente di pensiero che sostiene che tra testo e scena si
creerebbe una distanza ermeneutica irriducibile, nel momento in cui non
si considera più la scena subordinata al testo. La distanza che separa
testo e scena permette di approcciarsi diversamente al testo e di
interpretarlo con altri significati. Testo e scena diventerebbero così due
componenti distinte, con significati diversi. Bernard Dort scrive che
forse a teatro il piacere è dato dal vedere un testo, per definizione
estraneo al tempo e allo spazio, inscriversi nell’istante effimero e nel
tempo delimitato dello spettacolo. Così, la rappresentazione teatrale non
sarebbe il luogo di una ritrovata unità, ma piuttosto quello di una
tensione, mai pacificata, tra eterno ed effimero, universale e particolare,
astratto e concreto, testo e scena. La rappresentazione non rappresenta
più o meno un testo, ma lo critica, gli fa violenza, lo interroga; si
confronta con esso e lo confronta a sé: non è un accordo, ma una lotta11.
Il rapporto tra testo e rappresentazione non è d’altronde stato del
tutto chiarito; le ricerche tendono a profilarsi su due binari paralleli: da
una parte la semiotica del testo e dall’altra la semiotica della
rappresentazione, senza individuare punti di confronto tra i risultati dei
due approcci.
Boselli nel suo saggio sostiene che tra testo drammatico e testo
spettacolare sono da notare elementi di convergenza tipici dell’arte
teatrale, vincoli reciproci che accomunano i due livelli, costituiti da
codici spettacolari e convenzioni teatrali che portano a considerare alla
10
11
Pavis, 1998: 395.
Dort in Pavis, 1998: 488-489.
14
base di tutto una forte intertestualità. A volte alcuni critici, per
identificare ciò che è puramente teatrale e ciò che è extrateatrale, hanno
stabilito codici teatrali riferendosi a un caso particolare, e hanno poi
preteso di usare quei codici per tutte le altre analisi di casi diversi.
Questa teoria è troppo rigida per poter descrivere il teatro. Usare il
codice come elemento costitutivo, ben celato, della rappresentazione è
secondo Pavis sbagliato di principio. Il codice deve essere piuttosto un
metodo di analisi, che il fruitore, in quanto ermeneuta, sceglie per
interpretare l’elemento rappresentato, sotto la guida dell’interprete12.
Secondo Tessari la caratteristica propria di un testo drammatico è
l’autenticità teatrale. Anche se scritto e non deputato a una
rappresentazione, il testo drammatico deve in ogni caso essere pensato
per essere recitato, non deve restare parole su carta, frutto di una lettura
individuale. «I personaggi, i dialoghi, i monologhi posti su carta […]
nascono e prendono forma (inconfondibile forma) da ben altra
inclinazione mentale: quella che guarda alle parole della pagina scritta
come a segni pienamente fruibili e collettivamente fruibili soltanto se
vivificati da una finzione in atto che sappia farli propri»13.
«There is pratically no teoretical literature on the translation of
drama as acted and produced», scrive Lefevere nel 1980, che individua
il motivo della mancanza di teorie nell’analisi testuale fallace confinata
solo al testo scritto (il testo drammatico) e nella scarsa importanza data
alla pragmatica nel contesto della traduzione teatrale. E pensare che sono
proprio i paradigmi pragmatici a distinguere un testo drammatico da un
testo “ordinario”. Searle sosteneva che «non vi sono proprietà testuali,
siano esse sintattiche o semantiche, che possano identificare un testo
12
13
Pavis, 1998: 394
Tessari, 1996: 23, corsivo aggiunto.
15
come opera di finzione»14; piuttosto un testo drammatico è tale perché
circoscrivibile entro la cornice della finzione, perché pensato per essere
sensorialmente percebile.
Il campo di interesse per un traduttore di testi teatrali deve essere
dunque interdisciplinare. È «indispensabile che il traduttore di poesia
teatrale lavori di conserva con tutti coloro che allestiscono lo spettacolo e
prenda parte al vivo della sua preparazione»15.
14
15
Searle in Pavis, 1998: 486.
Luzi, 1990: 99.
16
I.4.1. LA TRADUZIONE ARTISTICA
«Ora questo prodigio può avvenire a un solo patto:
che si trovi cioè la parola che sia l’azione stessa parlata,
la parola viva che muova, l’espressione immediata,
connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella,
propria a quel dato personaggio in quella data situazione:
parole, espressioni, frasi che non s’inventano, ma che nascono,
quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura
fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole»
LUIGI PIRANDELLO, L’azione parlata («Marzocco», 7 maggio 1899)
Lo studio della traduzione teatrale o della cosiddetta transformance,
trascurato nel fiorire di studi sulla traduzione degli ultimi decenni solleva
il sipario su una serie di questioni che ricadono nella sfera della
traduzione della poesia, della narrativa e persino di testi tecnici e gergali,
persino della traduzione simultanea o consecutiva che necessitano della
competence dell’oralità. Il fatto che tradurre (per) il teatro si confronti
direttamente con testi drammatici che vivono la nostalgia della scrittura
scenica, rende questa attività il vero cavallo di Troia per accedere a una
considerazione teorica nuova del fatto traduttivo che non sia più
dicotomica ovvero estemporanea e meramente esperienziale, ma che
finalmente assuma la traduzione come un atto creativo e vitale, come
un’operazione di primo grado e di portata universale che implica
responsabilità e sfrontatezza allo stesso tempo e che non deve
considerarsi ancillare ad altre.
Nell’ambito dei fenomeni di traduzione intesi in senso ampio, la
traduzione di un testo teatrale costituisce dunque un sottoinsieme
17
specifico, con caratteristiche peculiari16. Lo statuto di un testo teatrale
assume la performance, la scrittura scenica, come inveramento della
scrittura drammatica. La restituzione di un testo teatrale a un’altra
lingua, presuppone sempre una storicizzazione e una contestualizzazione
di convenzioni e codici dell’oralità17. La semiotica del teatro, arriva a
configurare la messa in scena come il punto prevalente se non centrale
della trasposizione di un testo drammatico, nel quale l’elemento verbale,
letterario, funge da pre-testo o da geno-testo18 (Ubersfeld 1996, 20-21),
cioè da testo che precede il vero testo teatrale, la scrittura scenica, senza
per questo presentarsi come l’occasione per una decostruzione arbitraria
quale che sia. I fattori sovra-segmentali, paralinguistici e/o illocutori
(ritmici, prosodici, prossemici, cinesici) e i codici della scena (la luce, la
scenografia, i costumi, la musica) trasformano radicalmente il significato
letterario e letterale del segno verbale nudo e crudo fino talora a renderlo
irriconoscibile19. Ogni traduzione, intesa come momento ermeneutico,
lascia dei blanks, degli spazi di senso che gli interpreti sono chiamati a
riempire, la parola e la frase di un testo che deve essere detto, agito,
“performato”, devono sempre porsi il problema della risonanza, dell’eco,
della nostalgia che la parola teatrale “soffre” nel fissarsi sulla pagina
scritta. E non solo la parola, ma tutto il sistema di equilibri che si
stabilisce tra visibile e non visibile, tra detto e non detto, tra presente e
assente che fanno la specificità dell’evento hic et nunc. In questa
specificità c’è il corpo e la voce del performer, cioè il fatto che la
traduzione del segno teatrale si realizza all’istante, vive la sua acme e ne
muore eroicamente nello stesso momento (ovvero lo vive fino a
16
Bassnett, 1993: 148-163; Bassnett, Lefevere, 1998: 90-108; Zatlin, 2005: 1-102.
Segre, 1984: 103-118.
18
Ubersfeld, 1996: 20-21.
19
Elam, 2002: 162 sgg.
17
18
morirne), non permette il ritorno all’indietro o il giro su sé: il performer
fa carne e sangue, sudore e respiro, traduzione in azione di quell’atto
traduttivo che in ogni altra forma espressiva viene presupposto, agito
altrove, persino dimenticato nella fruizione che si fa a posteriori
dell’opera tradotta. Il performer è, per così dire, la mise en abyme del
traduttore, il suo riflesso e la sua proiezione drammatica, scenica,
metafora e metonimia dell’atto interpretativo che si produce davanti agli
occhi e nelle orecchie del fruitore in praesentia.
Se il testo drammatico dunque è un testo incompleto, l’analisi di
una traduzione teatrale non può che confrontarsi da principio con questa
latenza o latitanza. L’analisi di tipo storico-descrittivo di una traduzione
teatrale contiene in sé un aspetto remotamente normativo che prospetta
la traduzione della parola teatrale come traduzione di qualcosa non solo e
non tanto di dicibile ad alta voce, di recitabile, quanto come qualcosa di
non finito (che non vuol dire vago), ma artatamente codificato come
incompiuto, da compiersi in infiniti atti interpretativi, attinenti al piano
della realizzazione dal vivo. Susan Bassnett20 sostiene, a ragione, che
concetti come speakability (dicibilità) e performability (recitabilità),
resistendo a una vera e propria definizione semiotica e, nonostante
questo, molto abusati come fattori distintivi di una drammaturgia
naturalista, psicologista e illusionistica, risultino abbastanza inservibili
come parametri ispiratori di una traduzione teatrale in senso lato e di un
giudizio oggettivabile su di essa.
E allora cos’è che fa della scrittura teatrale uno specifico (e forse
paradigmatico) campo della traduzione? Peculiare della scrittura teatrale
è la deissi; ovvero in un qualsiasi testo teatrale sono inscritti particolari
20
Bassnett, Lefevere, 1998: 94-95.
19
indicatori di spazialità, di temporalità e di movimento che si realizzano
nell’uso di particelle del discorso, di certi pronomi dimostrativi, di certi
avverbi, di certi verbi che forniscono suggerimenti spesso ineludibili per
l’esecuzione della partitura drammaturgica (antica e moderna) e che
devono essere decodificati al pari di qualsiasi altro elemento della
semiosi. La questione della deissi è connessa a quella della didascalia,
anche se non si identifica interamente con questa: ogni testo teatrale, in
un’ottica schematica ma non arbitraria, reca in forma implicita (da
Eschilo a Shakespeare e Molière) o esplicita (dalla riforma goldoniana ai
nostri giorni) dei suggerimenti di scrittura scenica quasi sempre obbligati
per il/i realizzatore/i della scrittura drammatica. La restituzione di questa
complessità straordinaria di tipo semiotico richiede un’abilità artigianale
in senso totale che traduca gli spunti deittici e didascalici della
drammaturgia in segni scenici; un’operazione qual è quella del regista,
dello scenografo, del costumista, del disegnatore luci e ovviamente
dell’attore/performer. Non mi riferisco a quell’operazione di passaggio
da un patrimonio linguistico all’altro che in un caso come la scrittura
teatrale non è, se mai è, un fatto puramente linguistico, ma si configura
come una vera e propria ricollocazione radicale dell’oralità/auralità del
testo di partenza nell’oralità/auralità del testo di arrivo al variare delle
variabili su elencate.
I.4.2. IL TRADUTTORE-ATTORE
Il traduttore del testo teatrale, che non si limiti a intendere Sofocle
come Cechov nel senso di letteratura teatrale nella quale la
rappresentazione si predispone al massimo come l’illustrazione mentale
della scena di un romanzo o di un racconto, dovrebbe vestire l’habitus
20
del metteur en scène, cioè porsi nei confronti del testo di arrivo in una
prospettiva comunicativa concreta. Questo non significa che si debba
lasciar tradurre il teatro esclusivamente ai teatranti, ma che il traduttore
teatrale dovrebbe assumere, quanto teatrale, l’atteggiamento del come se,
cioè quello di una restituzione che si faccia carico di essere a ogni passo
scrittura vivente, e dunque di vedere e di ascoltare le parole, le azioni, gli
spazi e i tempi dell’azione scenica come se fosse il regista, lo
scenografo, l’attore, il Dramaturg etc. Con l’idea produttiva di vedere e
sentire in piedi, in azione, lettera viva, ciò che è disteso, addormentato,
lettera morta o dormiente sulla pagina: con l’idea di essere il primo
medium non solo della coerenza/correttezza linguistico-grammaticale,
ma anche di quella scenico-drammatica.
Kantor diceva: “Ritengo che il teatro sia un guado nel fiume. È un
luogo attraverso il quale i personaggi morti dall’altra sponda, dall’altro
mondo passano al nostro mondo, ora, nella nostra vita. […] E cosa
succede poi? Una risposta la può dare il Dibbuk […], lo spirito di un
morto che entra nel corpo di un altro uomo e parla per lui”21.
Come l’attore, infatti, anche il traduttore – in particolare quello
teatrale – dovrebbe “denudarsi” e liberarsi dei vari condizionamenti
(compresi quelli dati dalla sua stessa “enciclopedia” e conoscenza del
testo che sta traducendo) che ostacolino la libera evocazione e la
comunicazione, attraverso il suo corpo e la sua voce, con corpi e voci
altrui. Denudarsi e indossare – come l’attore – una maschera e panni che
non sono suoi, ma “presi in prestito”. Da questa fondamentale affinità
dell’arte e del mestiere del traduttore anche con quello dell’attore, deriva
la sinonimia del termine “interpretazione” per entrambi i ruoli. Onde per
cui il primo ruolo che il traduttore deve ricoprire è proprio quello di alter
21
Cit. in Pleśniarowicz, 1997: 221.
21
ego dell’autore, di deuteragonista in un’”azione” da ripetere (re-citare) e
da interpretare, appunto, che è quella stessa della composizione
dell’opera. Forse intendeva proprio questo il Maestro Agostino
Lombardo, quando in una lezione affermò un po’ scherzando, ma in
realtà molto seriamente: «Quando traduco Shakespeare arriva un
momento in cui io sono Shakespeare». E vale proprio la pena, a questo
punto, di una lunga citazione di Alessandro Serpieri22:
«Come nella scrittura di primo grado, deve rimanere nella scrittura
traduttiva una interazione di significati espliciti e impliciti, di un
“sapere” e un “non sapere”, che investono poi quel meccanismo
propulsivo del discorso che è la suspence legata alla continua domanda
che il testo drammatico, fatto di un continuo trascorrere di “presenti”
scenici in quanto mimesi della vita reale, offre allo spettatore: che cosa
sta per succedere dopo questo? […] Il traduttore, credo, dovrebbe
mettersi anche sotto questo punto di vista, nei panni dell’autore: e cioè
“sapere” tutta l’azione, e quindi tutto il testo, che va a tradurre, e
tuttavia, anche, “non sapere”, non ricordare ogni nesso, ogni micro
svolgimento, dell’azione, in modo da poter scoprire e trasmettere
l’energia propulsiva che, nello srotolarsi del testo durante il processo
traduttivo, gli si presenta come sua necessità, e strategia, interna. In tal
modo, la conoscenza paradigmatica del testo può unirsi alla sua
progressiva conoscenza sintagmatica, conducendo alla scoperta del suo
dinamismo. Io conoscevo bene Amleto e Macbeth, prima di tradurli, ma
nell’atto traduttivo tendevo volutamente a dimenticare tutti gli
svolgimenti interni di quei testi, appunto per potermi “stupire” della
loro progressione, per poter scoprire, nel volgerli nella mia lingua,
22
Serpieri, 2001: 169.
22
quella energia che nessuna analisi e conoscenza paradigmatica o
sommario di fabula può contenere in sé».
Andando avanti nel ragionamento, Serpieri dispiegava la sua teoria
dell’energia del dramma, «energia che si sprigiona da tutti i suoi atti
linguistici, cioè dall’interazione delle battute, e dalle emozioni e dagli
eventi che da quelle battute si sviluppano» ed è infatti anche energia
dello spazio e del tempo teatrale, energia del corpo dell’attore e «infine o
prima di tutto, energia dell’invenzione letteraria, stilistica, retorica,
tematica, che tiene insieme tutte le fila dell’azione e rimarrà memorabile
anche al di là del palcoscenico per cui è nata affidando il dramma al
piacere della lettura»23.
La traduzione deve consentire al regista, all’attore, allo spettatore,
al destinatario nelle sue multiple articolazioni, di apportare il proprio
contributo determinante (che può essere anche un contributo di
smarrimento temporaneo), di inaugurare a ogni battuta, a ogni scena, a
ogni nodo drammatico quel sano conflitto, molla dell’azione
drammatica, tra autore e regista, tra attore e autore, tra spettatore e
regista o tra attore e spettatore da una parte e regista dall’altra o
viceversa etc., consentendo a ciascuno di farsi il proprio film. Così da
contraddire o da mutare di segno all’immagine di un traduttore senza
palcoscenico, proposta da Wechsler24:
«Il problema del traduttore è quello di essere un performer senza
palcoscenico, un artista la cui performance pare proprio quella
23
24
Ivi: 170.
Wechsler, 1998: 7.
23
dell’originale, un dramma, una canzone o una composizione che resta
sulla pagina».
Insomma, è verissima l’avvertenza del regista teatrale e
cinematografico Peter Brook25: «Restiamo vigili: dietro ogni segno
visibile sulla pagina, si cela un altro invisibile, difficile da cogliere. Sul
piano tecnico sono necessari minore abbandono e maggiore
concentrazione, minore ampiezza e maggiore intensità», ma se pure fin
qui abbiamo soprattutto sottolineato la teatralità del discorso e della
traduzione teatrale, dall’altra parte non potremo non ricondurre il testo –
qualunque testo d’autore – alla sua fondativa letterarietà, e ribadire la
lapalissiana verità che la concentrazione e l’intensità del lavoro di
traduzione poggiano innanzitutto sul terreno linguistico-letterario.
Insomma, per tornare alle ormai fruste categorie jakobsoniane, ogni
traduzione che si rispetti, per interlinguistica e/o intersemiotica che sia,
«dovrà
pur
esser
preceduta
e
accompagnata
da
un
lavoro
endolinguistico [che] è di competenza della filologia, della storia della
lingua e della stilistica»26. Trascurare questo ovvio assunto deontologico
significherebbe peccare di presunzione da parte del traduttore
(foss’anche lo scrittore più famoso), il cui mestiere invece, e il cui
talento, dipendono soprattutto da ben altre qualità, che sono quelle
dell’umiltà, del rispetto e della correttezza.
25
26
Brook, 1998: 80.
Serpieri, 2001: 163-164.
24
I.5. DRAMMATURGHI, TRADUTTORI, SPETTATORI
Nel suo saggio Mario Luzi descrive il rapporto tra autore e
traduttore nella lirica come un «duello» tra il primo che vorrebbe che il
proprio lavoro rimanesse intonso, autentico, e il secondo che in quanto
portatore di creatività e autonomia si sente legittimato alla creazione.
Questo gioco tra le due parti può allo stesso modo capovolgersi, vedendo
l’autore originale come vittima passiva dell’«immobilità dell’oggetto»
creato, e il traduttore come l’artefice vero e proprio della creazione. La
contesa sarà giocata non a cielo aperto bensì segretamente e quindi il
vincitore e il vinto, i torti o le ragioni, insomma il giudizio, resterà
completamente limitato ai princìpi sottesi riconosciuti solo da una delle
due parti27. Alcune concezioni comuni che riguardano la letteratura in
generale considerano il testo originale come un «ipo-testo eterno» e
autentico, e le sue traduzioni come «iper-testi caduchi»28, meramente
circoscritti alle varianti di tempo e spazio. Secondo tali concezioni la
traduzione verrebbe vista e sentita come un rapporto padrone-servitore,
in cui chi sopperisce alle leggi di autenticità e originalità è il traduttore, a
discapito della «prerogativa del disporre e del fare»29. Nell’ambito della
traduzione teatrale tali teorie immobiliste appaiono ingiustificate. A
teatro la sottesa disputa tra autore e traduttore viene ufficializzata e il
merito o il demerito dell’uno o dell’altro viene giudicato dal
palcoscenico, che «registra come un sismografo le variazioni d’energia
del linguaggio»30. Anche le minuscole disattenzioni che sulla carta scritta
possono considerarsi innocue irrimediabilmente trapelano nella messa in
27
Luzi, 1990: 97.
Boselli, 1996: 66.
29
Luzi, 1990: 97.
30
Luzi, 1990: 98.
28
25
scena per la mancanza di fluidità nel dialogo o per l’assenza vera e
propria di azione, come spesso nota Corrigan nel suo saggio. Stark
Young a proposito della traduzione di Čehov sostiene che «the speech
lives or dies […] by its precision. In the form alone lies much of its
meaning and all its point»31. Altre volte invece traduzioni corrette e
dotate di senso logico non riescono a far scaturire l’azione, non
assecondano la recitazione.
Nell’ambito teatrale si distinguono due scuole di pensiero che
descrivono due diversi approcci che il traduttore di un’opera teatrale può
assumere. La prima è quella dei traduttori “gelosi” della loro autonomia
che perseguono la strada dalla traduzione “eterna”, producono testi
statici che verranno solo pubblicati, e lasciano quindi libero arbitrio al
regista per quanto concerne la messa in scena dell’opera. La seconda
scuola invece, si occupa di traduzioni in funzione di uno spettacolo che
hanno quindi come dominante la recitabilità e tengono in conto
soprattutto una reinterpretabilità da parte della cultura ricevente. Questa
scuola si trova d’accordo con la seguente asserzione di Zuber: «as well
as being a literary text, the translation of drama as a performing art is
mainly dependent on the final production of the play on the stage and on
the effectiveness of the play on the audience»32. Tali traduzioni, pur di
ottenere un’efficace ricezione dal pubblico, tralasciano il rigore e
l’esattezza filologica del testo originale.
In un connubio tra immagini acustiche, visive ed emozionali, il
teatro trasmette un messaggio e allo stesso tempo allieta l’animo del
pubblico: quale migliore mezzo di comunicazione? Nel caso di un
dramma tradotto si tratta di comunicazione interculturale. Ecco che il
31
32
Young, 1938: 740.
Zuber, 1988: 485.
26
teatro riesce a diventare anche un eminente luogo d’intertestualità,
assumendo «i connotati di una corsia preferenziale per il dialogo
interculturale»33. Non può esistere una traduzione definitiva ed eterna,
ma solo adatta alla cultura che è pronta a riceverla. L’arte teatrale è in
continua evoluzione e strettamente esposta all’influenza del momento.
La lontananza temporale, linguistica, culturale sono sfide che il
traduttore professionista affronta quotidianamente, sono presupposti del
suo lavoro come lo è conoscere la lingua straniera. Nel teatro, chi
giudica il lavoro del traduttore è il pubblico, che si aspetta, a seconda dei
casi, di divertirsi o di commuoversi, ma soprattutto di trovare punti di
complicità, di trarne un insegnamento, insomma di comprendere l’opera
e sentirsi partecipe del fatto teatrale. Sminuire il pubblico come digiuno
di senso critico, passivo, incapace di cogliere messaggi, è un grave torto
che si fa al destinatario del fatto teatrale. È per lo spettatore che il
traduttore deve lavorare, è per ottenere la sua ricezione dell’opera che il
traduttore spesso deve scendere a patti con il rigorismo della traduzione
letteraria, seguire scelte coraggiose che possano rendere la fluidità
dell’opera e la sua freschezza, come se fosse nata nuovamente e per la
prima volta venisse presentata a quel particolare pubblico. Pirandello a
tal proposito sostiene che: «Nell’esecuzione si dovrebbero trovare tutti i
caratteri della concezione»34. Solo in questo modo si permette alla
comunicazione interculturale di eseguirsi.
Se il teatro nega alla cultura emittente il diritto di essere
rappresentata in maniera completa, con pregi e difetti, questa ne esce
sconfitta, sminuita. La comunicazione si svolgerà solo in termini di
chiusura tra le due culture e dà adito ai soliti pregiudizi e luoghi comuni,
33
34
Boselli, 1996: 71.
Pirandello, 1939: 234.
27
che purtroppo esistono proprio per una mancanza di conoscenza
reciproca. Sconfitta è anche la cultura ricevente, che vede vanificato il
suo andare a teatro: viene privata del diritto di giudizio spassionato di
un’altra cultura, diversa e magari lontana, che il teatro avrebbe potuto
rendere più vicina. Normalmente nella narrativa, in funzione
dell’abbattimento della distanza spaziale e temporale che intercorre tra la
cultura emittente e quella ricevente, la traduzione viene accompagnata da
un apparato metatestuale, che può essere costituito da un’introduzione,
da note, commenti, saggi critici che inquadrano il testo. Nel teatro un tale
apparato è improbabile e poco fattibile, quindi a maggior ragione la
distanza deve essere colmata nella rappresentazione, in tutto l’apparato
teatrale, preceduta da un impianto teorico affidato alla collaborazione fra
linguisti, letterati, comparativisti, drammaturghi e registi35.
Chiaramente è impossibile ottenere l’effetto equivalente, ovvero
sortire gli stessi effetti che l’autore originale voleva per il pubblico che
parla la sua lingua, anche perché è difficile capire quale è. Pirandello nel
suo saggio ha come leitmotiv l’impossibilità dell’interpretazione in toto.
Ogni persona sente e vede alla sua maniera e quindi non esiste mai
un’interpretazione perfettamente filologica, specchio di ciò che l’autore
sentiva e vedeva. L’opera di mediazione tra una lingua e l’altra non è
mai obiettiva perché il sentire e il vedere del traduttore non può mai
venire completamente filtrato, annullato. E l’attore, che si “intromette”
tra la creatura e l’autore, può solo cercare di incarnarsi nel personaggio
creato dal drammaturgo e tuttavia l’immagine da lui incarnata è solo
somigliante e non uguale, perché ricreata un’altra volta nel suo corpo,
nella sua mente, nella sua voce, nel suo gesto. Pirandello associa il caso
dell’attore a quello del traduttore: la creazione di qualcosa di altro, che
35
Anderman, 1998: 74.
28
pur perseguendo il fine della trasmissione di una «creatura» non sua, ha
in sé l’espressività del traduttore, e non più dell’autore originale. La
creazione da parte del traduttore di qualcosa di nuovo, di un altro
originale si associa al pensiero elaborato da alcuni traduttori brasiliani, il
«cannibalismo», secondo il quale il traduttore divora il prototesto e ne
crea uno tutto suo36.
Sia che si giudichi il traduttore un “cannibale” che si ciba del testo
originale per crearne un altro, oppure un rigorista ortodosso e
filologicamente fedele, è necessario affrontare la spinosa questione del
lettore modello nella traduzione teatrale.
Il saggio di Corrigan ripete insistentemente che la traduzione deve
essere fatta per gli attori. Possiamo dunque azzardare che il lettore
modello del processo traduttivo di un’opera teatrale sia l’attore? E lo
spettatore, il fruitore dell’opera, che ruolo assume nel processo teatrale?
Probabilmente si dispiegano due passaggi traduttivi: nel primo il lettore
modello del traduttore è l’attore; nel secondo il traduttore ha come lettore
modello il pubblico.
Anche in questo caso non vi è purtroppo l’apporto teorico per
rispondere al quesito. Le ricerche sono numerose per quanto concerne il
ruolo dell’attore, il ruolo del pubblico e il lettore modello nella narrativa,
ma non è ancora affiorato un confronto tra questi studi che dimostri
quale sia il lettore modello nella traduzione teatrale.
Se si vuole considerare il teatro come una sorta di episodio di
lettura collettiva, multimediale, possiamo ben decretare il pubblico come
lettore modello a cui il traduttore si indirizza, un pubblico che però
diventa entità unica. Durante la fruizione, infatti, l’individualità dei
singoli spettatori si uniforma almeno parzialmente.
36
Boselli, 1996: 66.
29
Non si può separare lo spettatore come individuo dal pubblico come
agente collettivo. Nello spettatore-individuo passano i codici ideologici e
psicologici di molti gruppi, mentre la sala costituisce, a volte, un’entità,
un corpo che reagisce in blocco37.
Uniformare il pubblico significa prefissarsi un pubblico ideale, che
sia in grado di comprendere nell’unico modo possibile la messinscena.
Questo concetto è il fulcro dell’estetica della ricezione di Jauss
(Rezeptionsästethik) e Pavis ritiene assai improbabile considerare il fatto
teatrale in funzione di un «ricevente onnipotente»38. Il pubblico è a rigor
di logica considerato in blocco perché si trova a dover interpretare in
blocco nello stesso spazio e nello stesso tempo il fatto teatrale, ma non è
detto che da esso scaturisca una reazione e un’interpretazione in blocco.
Tale opinione però non vuole dare adito alla legittimità di molteplici
interpretazioni tutte possibili, nel teatro così come nella letteratura: come
Pareyson sostiene «è sempre una persona concreta quella che, dal suo
punto di vista, cerca di rendere e far vivere l’opera com’essa stessa
vuole»39.
37
Pavis, 1998: 426.
Pavis, 1998: 427.
39
Pareyson, 1954 [1988: 11].
38
30
I.6. TRADURRE PER GLI ATTORI
di Robert W. Corrigan
Ci troviamo ora in questo paese per scoprire le opere teatrali di
drammaturghi europei quali Ionesco, Beckett, Genet, Adamov e
Ghelderode. Con un certo moralismo che è quasi ciò che ci si aspetta,
tendiamo a rifiutare tali opere e a qualificare oltraggiosamente i loro
autori come avant-garde. Tuttavia, in un certo qual modo – nonostante la
nostra avversione – le opere continuano a riaffermarsi; mantengono una
misteriosa presa sulle nostre sensibilità. Nonostante la loro apparente
imperscrutabilità e semplicità, possiedono una vitalità nel nostro teatro
che si è persa. Ma qual è il fulcro di questa vitalità?
A una rapida osservazione, è la qualità non didascalica delle opere
di questi drammaturghi a differenziarle da quelle forme stereotipate a cui
siamo tanto abituati; non ci sono “princìpi morali” chiari e ben
confezionati o gesta “ispiranti”. Tuttavia, sottolineando questa mancanza
di didascalicità, scoviamo presto una questione più centrale: ciascuno di
questi drammaturghi si sta rivoltando contro la tirannia delle parole del
teatro moderno. Il dialogo non è un monologo ripartibile tra diversi
personaggi; non c’è nessuna linea guida o rimando intertestuale evidente,
ai quali siamo così avvezzi; sono presenti molteplici simboli, ma questi
simboli non rappresentano nulla in particolare e allo stesso tempo
evocano molte cose. In ognuna di queste opere i personaggi conducono
la propria vita, esprimono i loro pensieri. I loro discorsi si ripercuotono
l’uno sull’altro e scorrono altrove. Infine, in ogni dramma vi è
un’insistenza sui gesti della pantomima, annoverati come mezzi di
espressione teatrale più appropriati e validi; un’insistenza sul fatto che il
gesto mimico preceda la parola parlata e che il gesto sia la vera
31
espressione di ciò che proviamo, mentre le parole possono soltanto
descrivere ciò che proviamo. Precisamente, questi drammaturghi
asseriscono che, oggettivando il sentimento nell’intento di descriverlo, le
parole uccidono lo stesso sentimento che vorrebbero descrivere.
Non c’è da stupirsi, dunque, che questi autori si trovino in grande
sintonia con i mimi – Etienne Decroux, Marcel Marceau e Jacques Tati;
non c’è da stupirsi che traggano ispirazione dai primi film di Charlie
Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy, dei Keystone Cops, e dei fratelli
Marx; non c’è da stupirsi infine che siano tutti sotto l’influenza di
Jacques Copeau e Antonin Artaud. È solo con la recente traduzione
verso l’inglese del libro di Artaud, Le Théâtre et son double [Il teatro e il
suo doppio] (il primo, fondamentale, lavoro di Copeau non è stato ancora
tradotto), che la maggior parte di noi ha potuto scoprire cosa fosse
l’estetica dell’intero movimento teatrale dell’avant-garde.
La premessa fondamentale di Artaud era che nel teatro è un errore
sostenere che «in principio era il verbo». E il nostro teatro fa proprio
quell’assunto. Per la maggior parte di noi, critici così come
drammaturghi, il verbo è tutto; senza non vi è possibilità di espressione;
il teatro è considerato un ramo della letteratura, e anche se ammettiamo
una differenza tra il testo declamato sul palco e il testo letto con gli
occhi, non siamo ancora in grado di separarlo dall’idea di un testo
recitato.
Artaud e i suoi discepoli sostengono che il nostro teatro moderno
orientato psicologicamente stia sconfessando la natura storica del teatro.
A loro parere, il palco è un luogo fisico concreto che deve parlare un
linguaggio proprio – un linguaggio che va più in profondità rispetto alla
lingua parlata, una lingua che si rivolge direttamente ai nostri sensi,
32
invece che in primis alla nostra mente, come fa il linguaggio delle
parole.
Questo è l’aspetto più significativo del teatro dell’avant-garde – è
un teatro del gesto. «in principio era il gesto»! Il gesto non è un’aggiunta
decorativa che accompagna le parole; è invece il fulcro, la causa e il
regista della lingua, e per quanto il linguaggio sia drammatico, è
essenzialmente gestuale. È questa insistenza sul ripristinare la base
gestuale del teatro che ha condotto alla ripresa della pantomima in opere
quali Les Chaises [Le sedie], En attendant Godot [Aspettando Godot],
Le Ping Pong [Ping-Pong], Fin de partie [Finale di partita], Le balcon [Il
balcone] e Escurial. Chiunque di voi abbia assistito a un riallestimento di
queste commedie sa come questa pantomima sia diversa dalla
pantomima come viene intesa dalla maggior parte dei contemporanei.
Per molti di noi, la pantomima è una serie di gesti che rappresentano
parole o frasi – una sciarada. Ma questa non è la pantomima storica. Per i
grandi mimi, sostiene Artaud, i gesti rappresentano idee, atteggiamenti
mentali, aspetti della natura che sono realizzati in un modo efficace e
concreto, evocando costantemente oggetti o dettagli della natura, come
fa il linguaggio orientale rappresentando la notte con un albero su cui un
uccello che ha un occhio sta per chiudere l’altro.
Il famoso regista Mejerhol´d al volgere del secolo si stava
impegnando per raggiungere lo stesso obiettivo, nel tentativo di ridare
vitalità al teatro russo. A eccezione di Čehov – e l’affinità dell’avantgarde con Čehov è maggiore di quanto si possa pensare a una prima
lettura – numerosi drammaturghi di quel tempo stavano cercando di
trasformare la letteratura da leggere in letteratura per il teatro.
Mejerhol´d notò correttamente che questi scrittori erano in realtà
romanzieri che pensavano che riducendo il numero dei passaggi
33
descrittivi e rianimando la vicenda aumentando i dialoghi tra i
personaggi, ne sarebbe risultata un’opera teatrale. Quindi questo
scrittore-romanziere avrebbe invitato il lettore a passare dalla biblioteca
all’auditorium. Come Mejerhol´d scrisse nel suo saggio Фарс [La farsa]:
«Il romanziere ha bisogno dei servizi del mimo? Certamente no. Gli
stessi lettori possono salire sul palco, assumere delle parti, e leggere al
pubblico ad alta voce il dialogo del loro romanziere prediletto. Questo è
ciò che viene denominato «un’opera recitata armoniosamente». Al
lettore-trasformato-in-attore viene subito dato un nome e viene coniato il
nuovo termine di «attore intelligente». Lo stesso silenzio di tomba regna
tra il pubblico, come in biblioteca. Gli spettatori sonnecchiano. Tale
immobilità e solennità è appropriata solamente a una biblioteca».
Vi è una certa sopravvalutazione intenzionale in tutto questo.
Ovviamente, non si tratta di sopprimere il discorso nel teatro. Non è che
il linguaggio sia meno importante nel teatro, piuttosto questione di
cambiare il suo ruolo. Dato che l’unica preoccupazione del teatro è
davvero il modo in cui i sentimenti e le passioni confliggono l’uno con
l’altro, e l’uomo con l’uomo, nella vita – Arrowsmith lo descrive
perfettamente usando il termine «turbulence» – il linguaggio del teatro
deve essere considerato qualcosa di diverso da un mezzo per condurre i
personaggi umani al loro compimento esteriore. Cambiare il ruolo del
discorso nel teatro significa usarlo in un senso concreto e spaziale,
combinarlo con qualsiasi altro elemento del teatro. In breve, il
linguaggio del teatro deve essere sempre gestuale: deve scaturire dal
gesto, deve sempre recitare e non deve mai essere descrittivo. Nel
momento in cui la dichiarazione si sostituisce al un processo
drammatico, il teatro muore.
34
Ciò può apparire abbastanza avulso dai problemi della traduzione,
ma io non la penso proprio così. Se nel nostro tempo non siamo in grado
di dare un’idea di Eschilo, Sofocle e Shakespeare che sia davvero
esplicativa di ciò che stavano cercando di conseguire col teatro, è molto
probabile che abbiamo perso il senso della loro concretezza nel teatro. È
perché l’aspetto attivo e direttamente umano del loro modo di parlare e
muoversi, tutto il loro ritmo scenico, ci sfugge. Non è abbastanza avere i
testi delle loro opere, perché nessuno di questi grandi tragediografi è il
teatro stesso. Il teatro è sempre questione di materializzazione scenica
nello spazio. Chiamatela «arte inferiore», se volete, ma come insiste
Artaud, «il teatro risiede in un certo modo di allestire e animare l’aria del
palco, attraverso una conflagrazione di sentimenti e sensazioni umane a
un dato punto, creando situazioni espresse in gesti concreti».
Tenendo questo in mente, prima di poter affrontare i problemi
specifici della traduzione per il teatro dobbiamo fare un passo avanti. E
per questa parte del viaggio avremo bisogno di un nuovo Virgilio: così
Antonin Artaud cede il posto a R. P. Blackmur, quel raffinato gentleman
e critico cha ha guidato molti verso la critica moderna. Mi riferisco nello
specifico al suo saggio, Language as gesture40.
In questo saggio, Blackmur ci conduce in quei regni dove il
linguaggio diventa gestuale. Blackmur vede oltre la semplice distinzione
per cui la lingua è fatta di parole e il gesto è fatto di moto, fino ad
arrivare alla distinzione opposta: «Le parole sono fatte di moto, fatte di
azione o risposta, a qualsiasi distanza; e il gesto è fatto di linguaggio –
fatto di un linguaggio al di sotto o oltre o in parallelo alla lingua delle
parole». Partendo da questo presupposto è possibile per Blackmur
considerare quel concetto così importante per chiunque scriva per il
40
Pubblicato in Accent nel 1943 e poi ristampato in un libro con lo stesso titolo nel 1952.
35
teatro: «Quando la lingua delle parole ha più successo diventa gestuale
nelle sue parole». Blackmur nota che il gesto non è solo nativo della
lingua, ma la precede, e dev’essere, in un certo senso, portato nella
lingua che il contesto sia immaginativo o drammatico. Senza una qualità
gestuale, nella lingua non esiste dramma. È così da quando «la gran parte
della nostra conoscenza della vita e della natura – forse tutta la nostra
conoscenza della loro opera e interrelazione – arriva a noi come gesto, e
noi siamo maestri dell’abilità di quella conoscenza prima ancora di
essere capaci di una rima o di un gioco di parole, o anche di una
semplice frase. Blackmur poi procede definendo ciò che intende per
«gesto nel linguaggio», e cito la sua definizione perché credo sarà utile al
resto della mia argomentazione. Eccola:
«Gesture, in language, is the outward and dramatic play of inward
and imaged meaning. It is that play of meaningfulness among words
which cannot be defined in the formulas in the dictionary, but which is
defined in their use together; gesture is that meaningfulness which is
moving, in every sense of that word: what moves the words and what
moves us»41.
Quando riusciamo a catturare quella qualità nelle parole staremo
così scrivendo (o traducendo) per gli attori. E nel teatro si scrive solo per
gli attori, mai per i lettori. Persino lo sguardo più affrettato alla storia del
teatro dimostra che questo perde vitalità, e perde persino letteratura, nel
momento in cui i drammaturghi smettono di scrivere per gli attori.
Certamente, Shakespeare ci dà la prova più evidente su questo punto ma
Eschilo, Sofocle, Euripide o Molière andrebbero altrettanto bene.
Shakespeare è il più grande drammaturgo in lingua inglese e le sue opere
sono grandi opere di letteratura, ma lui non stava scrivendo letteratura;
41
Blackmur, 1952.
36
lui scriveva soprattutto per gli attori; e, come sappiamo, scriveva per
attori ben precisi. E questo è il fulcro della vitalità duratura delle opere.
Inoltre, vorrei persino affermare che Shakespeare non avrebbe mai
creato alcune delle sue scene se non avesse conosciuto gli attori che
avrebbero dovuto recitarle. E per ciò che sappiamo dei festival greci e
del teatro francese del Seicento, si può sostenere che Sofocle aveva il suo
Burbage42 e Molière era il suo Will Kemp43.
Ora, l’arte di scrivere per gli attori è stata quasi totalmente
trascurata. L’idea che delle opere siano scritte per essere recitate sembra
disturbare molte persone. Questo atteggiamento è, secondo me, in gran
parte una reazione agli esercizi ottocenteschi di recitazione, che così
spesso hanno dato prova di essere poco più che la prestidigitazione della
tecnica. In ogni momento della storia del teatro si può trovare questo tipo
di magia. Gli uomini più colpevoli erano solitamente attori; spesso erano
quelli che venivano chiamati «grandi attori». Questi attori virtuosisti non
possono essere del tutto condannati, dato che, con alcune importanti
eccezioni, durante gli ultimi centocinquant’anni agli attori è stato dato da
recitare di tutto tranne opere teatrali: pamphlet, trattati, articoli di
giornale, e persino poemi epici. Ciò ha costretto gli attori che sono
animali con un forte istinto di autoconservazione e considerevole
ingegnosità
ad abbandonare del tutto i testi letterari in favore di
situazioni entusiasmanti e piene di suspense che davano loro la
possibilità di esibire le proprie abilità. Arte molto scadente questa, ma
business estremamente buono.
Richard Burbage (1568-1619). Figlio dell’impresario James Burbage. Amico di William
Shakespeare e suo collega attore nelle compagnie delle corti elisabettiane. Fu primo attore, infatti, dei
The Lord Chamberlain’s Men [“servi del Lord Ciambellano], la compagnia teatrale per la quale
Shakespeare componeva.
43
William Kempe (1560-1603). Attore teatrale e ballerino britannico, esperto nelle parti clownesche e
considerato per questo l’erede naturale di Richard Tarlton. Kempe fu danzatore comico di giga e si
produsse al Globe Theatre con la compagnia teatrale di Shakespeare, The Lord Chamberlain’s Men.
42
37
Anche se oggi tendiamo a misurare un attore dalla sua abilità nel
raggiungere la completezza dell’intenzione del drammaturgo, ciò
nonostante consideriamo con diffidenza qualsiasi opera che sembri
scritta principalmente per gli attori. Questo è estremamente sbagliato,
dato che gli attori sono il mezzo di espressione più valido del
drammaturgo. Il potere dell’attore risiede nella sua umanità, non come
supponiamo così spesso nella sua mente, nel suo corpo, nella sua faccia
o addirittura nella sua voce. Solo nel teatro l’artista può rivolgersi agli
uomini in quanto uomini per comunicare, esprimersi, e interpretare. Non
ho mai capito il motivo per cui l’arte dell’attore venga così spesso
sminuita per la sua transitorietà. Sicuramente la forza emotiva della
rappresentazione dell’attore quella qualità che commuove il pubblico
risiede nel fatto che possiede una propria mortalità, che è già andata nel
passato irrevocabilmente come qualsiasi azione umana.
È proprio per questa ragione che la preoccupazione dell’attore è di
raggiungere, non la verità, piuttosto la correttezza. Rendere perfetta
questa correttezza è il suo lavoro. Il movimento, i costumi, il trucco, e
persino le parole sono accessori. Ciò che quindi l’attore chiede a
un’opera non sono parole in forma di dialogo, bensì uno stimolo alla sua
immaginazione. È a questo punto che il drammaturgo e i suoi attori
convengono per la prima volta, ed è importante ricordare che il teatro è
sempre un convenire. Questo è vero per la rappresentazione ed è vero per
la creazione di tale rappresentazione. Essendo il commediografo il primo
anello della catena della produzione, è una sua vanità rivendicarne la
creazione. La sua opera non sarebbe mai un’opera teatrale se rimanesse
solo parole su carta.
38
È per tale ragione che il commediografo – e anche il traduttore –
non possono davvero preoccuparsi della “buona prosa” o del “buon
verso” nel senso comune delle parole.
La struttura è azione; non cosa viene detto né come viene detto,
bensì quando. Per menzionare solo alcuni degli usi strutturali del
linguaggio drammatico, per esempio l’uso di soliloqui,soliloqui,
passaggi corali, sticomitia, dialogo indiretto e pause. Attraverso questo
metodo, è possibile controllare dall’interno del testo dell’opera la
velocità e il ritmo esatto che solitamente sono imposti dal regista.
Soltanto capendo la dinamica teatrale dell’opera in questo modo, gli
attori possono vedere la forma drammatica della parte individuale
all’interno di una scena, invece di essere costretti ad affidarsi a
un’intuizione che spesso è falsa e qualche volta porta a un’alterazione.
Il fattore fondamentale, inalterabile del dramma è il “quando”, e la
prima preoccupazione del drammaturgo deve essere questo momento
dell’azione. Se non se ne cura, ed è il caso più frequente, saranno il
regista o gli attori ad imporlo. In altre parole, il drammaturgo deve creare
non solo il dialogo, ma anche quello che viene fatto e quando.
Recentemente, commediografi e critici in egual misura si sono
occupati della questione dello stile dello scrivere per il teatro.
Invariabilmente, tali ricerche hanno a che fare con la forma della parola
parlata. Questo è però un errore, dato che il punto di partenza non sono
le parole. Oggi i nostri nuovi commediografi hanno finalmente questa
percezione e ciò rappresenta la grande speranza per il nostro teatro.
Dobbiamo noi stessi preoccuparci in primis dei gesti che producono i
motivi che stanno dietro le parole. Ciò richiama alla mente quella
vecchia e in parte umoristica massima del teatro: Mai prestare attenzione
alle indicazioni sceniche del commediografo. (In questo senso è
39
interessante notare, e penso sia il fulcro del mio discorso, che nelle opere
greche, o di Shakespeare, o di Molière non esistono indicazioni sceniche,
se non entrate e uscite di scena. Il motivo, il significato e i gesti si
trovano nelle parole stesse). Nel teatro moderno, comunque, le
indicazioni sceniche sono il primo mezzo di comunicazione tra il
drammaturgo e i suoi attori. Tali indicazioni non devono mai permettersi
di sostituirsi al blocco44 del regista dicendo all’attore dove muoversi o
come sedersi. E neppure devono istruire l’attore su come leggere le
battute “pensierosamente”, “amaramente”, “allegramente”. (Si ricorda a
questo punto Eugene O’Neill, il cui linguaggio “piatto” non aveva
praticamente nessuna qualità emotiva. Di conseguenza è stato necessario
per lui aggiungere un prefisso vicino a ogni dialogo con un’indicazione
di scena per indicare come l’attore avrebbe dovuto leggere le parole, che
di per sé non avevano alcun potere emozionale). Le indicazioni sceniche
devono aumentare le parole da dire. Sono delle linee guida di tema e
azione tra le parti individuali, e qualora realizzate nella rappresentazione
diventano parti dell’opera come lo sono le parole che l’attore pronuncia.
A questo punto il lettore potrebbe chiedersi se io sia consapevole
del fatto che il mio argomento è la traduzione e non la stesura di opere
teatrali. Lo sono, credetemi; tuttavia credo davvero fortemente che
nessuno sia in grado di tradurre per il teatro – e che nessuno possa
scrivere per esso – se non sa cosa significa scrivere per il teatro e come
ciò si differenzia dalla narrativa. Procederei dunque a sostenere che non
44
Si definisce «blocking» o «staging»: «the precise moment-by-moment movement and the grouping
of actors on stage». Il blocco consiste nelle posizioni statuarie di forze contrapposte assunte dagli
attori sul palcoscenico per raggiungere un equilibrio. Trasposto nel movimento, significa controllo
assoluto di tutte le sezioni del corpo da parte dell’attore. Il concetto si rifà alla concezione di
Übermarionette [Supermarionetta] di Edward Gordon Craig, che vede l’attore come una marionetta,
appunto, che si affida al regista, previo studio e controllo del proprio corpo. «L’artista (o la
Supermarionetta) è l’attore che si preoccupa di ricordare nei dettagli, e di ripetere sempre uguale, il
proprio percorso fisico e verbale. È l’attore capace, così, di creare un materiale paradossalmente
solido, su cui il regista, quando ci sarà, potrà lavorare» (Schino 2001: 71).
40
scaturiranno mai buone traduzioni di opere teatrali da coloro che non
abbiano avuto una certa formazione nella pratica del teatro. Senza tale
formazione la tendenza sarebbe quella a tradurre le parole e i loro
significati. Questa pratica non produrrebbe mai traduzioni recitabili, che
è, in fondo, lo scopo di questo lavoro in prima istanza.
Questo ci porta alla nostra considerazione finale. Tenuto conto che
tradurre per gli attori è un’impresa diversa, quali sono le tecniche e i
problemi specifici?
La prima regola della traduzione per il teatro è che ogni cosa deve
essere parlabile. È sempre necessario per il traduttore udire mentalmente
l’attore parlare. Deve essere consapevole dei gesti della voce che parla, il
ritmo, la cadenza, l’intervallo. Deve altresì essere consapevole
dell’aspetto, del sentire, del movimento dell’attore mentre sta parlando.
Deve, in breve, rendere ciò che può essere chiamato l’intero gesto della
scena. Per fare ciò è importante sapere cosa fanno le parole e cosa
significano, ma è ancora più importante sapere cosa non possono fare in
quei momenti cruciali in cui l’attore ha bisogno di usare un gesto vocale
o fisico. Solamente in questo modo il traduttore riesce a sentire le parole
nel modo in cui si indirizzano l’una alle altre in armonia, in conflitto, e
secondo uno schema e quindi come teatrali. Quello che dico, forse, è
che è necessario piuttosto che dirigere un’opera, recitare l’opera, e
osservarla mentre la si sta traducendo.
Mi sono interessato alla traduzione per il teatro per necessità
pratica. Diversi anni fa mi è stato chiesto di dirigere una produzione di
Čehov, Дядя Ваня [Zio Vanja]. Avevo un cast eccellente e decisi di
utilizzare quella che è generalmente considerata la traduzione migliore di
Čehov. Le prove di lettura iniziali furono pietose. All’inizio credevo che
ciò fosse consuetudine e che gli attori avrebbero superato la rigidità.
41
Dopo tutto, la traduzione aveva un senso logico. Ma ben presto – avevo
la grande, anche se inusuale, fortuna di contare su tre mesi per preparare
lo spettacolo – gli attori inconsciamente si misero a rivedere le battute.
Suonavano meglio, v’era un flusso. Ora, le opere di Čehov sono
tradizionalmente pensate come volubili, complesse, profonde, vaghe e
impossibili da riproporre con successo sul palcoscenico americano.
Tuttavia i miei attori stavano dimostrando che non era necessariamente
così. Fu allora che ricordai i problemi di Čechov con Stanislavskij e
come il commediografo abbia sempre insistito che il grande registaattore stava complicando ciò che in realtà era molto semplice45. E ho
capito inoltre che le traduzioni non stavano esprimendo quella semplicità
su cui Čechov insisteva. Invece del «But what for?» del testo, la
traduzione riportava «though what his provocation may be I can’t
imagine». Oppure «There is another thing too you take a drop of vodka
now», quando Čechov aveva scritto semplicemente: «And you drink
too». Oppure, infine, «as if the field of art were not large enough to
accommodate both new and old without the necessity of jostling»; lui
aveva scritto: «but there’s room for all».
Poi, ecco un’illuminazione. Il significato e la complessità delle sue
opere – e ne sono estremamente – ricche devono essere raggiunti
indirettamente. Quando Čechov scrisse
“Si
richiede
che
l’eroe
e
l’eroina
(di
un’opera)
siano
drammaticamente efficaci. Solo che nella vita reale le persone non si
Infatti, azzarderei a dire che Stanislavskij e la tradizione del Teatro dell’arte di Mosca hanno
probabilmente fatto molto più di chiunque altro individuo o gruppo per distorcere la nostra idea su
Čehov. Cosa che suggerisce quanto il traduttore debba essere sempre un critico. Non è un caso, a mio
parere, che le migliori traduzioni delle tragedie greche spesso menzionate “Chicago” siano state
realizzate da due dei migliori critici di tragedia greca dei nostri tempi. E dicendo questo, capisco
improvvisamente che ho appena creato una specie di Craig-hianaÜbermarionette [Supermarionetta]: il
traduttore è scrittore, regista, attore, spettatore, e ora persino critico. A cosa ci serve un teatro? Se tutti
i traduttori si unissero, il teatro potrebbe essere definito desueto ogni quindici giorni e tutti i nostri
problemi sarebbero risolti.
45
42
sparano addosso, né s’impiccano, né s’innamorano, né riportano a sé
stesse proverbi ogni momento. Trascorrono la maggior parte del tempo
mangiando, bevendo, rincorrendo donne, o uomini, oppure dicendo
sciocchezze. È pertanto necessario che questo venga mostrato sul
palcoscenico. In un’opera dev’esserci scritto che le persone vanno,
vengono, cenano, parlano del tempo o giocano a carte non perché
l’autore lo voglia ma perché questo è ciò che succede nella vita reale. La
vita sul palcoscenico dev’essere com’è davvero, e anche le persone
devono essere come sono, e non artificiose”
stava cercando di dirci che le sue azioni drammatiche sono tutte
racchiuse in una cornice banale e molto semplice. I piani della vita in
apparenza sono riprodotti in tutta la loro familiare e naturale stupidità.
Negli eventi in sé e per sé c’è ben poco di drammatico. Ciò che fa di
questi episodi un teatro ricco di forza è la peculiare combinazione di
sequenze, associazioni implicite e complicazioni, contrasti e ironie. È in
questo modo che si creano i significati profondi. Ma se ciò vale per la
drammaturgia, deve valere anche per le battute. Mi resi insomma conto
che la traduzione doveva essere apparentemente facile e naturale. I
significati interni e le profondità possono e devono apparire solo in
forma teatrale e non dichiarativa, per mezzo di interazioni di semplicità
superficiali e non battute complesse o vaghe, né di quello che Stark
Young
ha
chiamato
una
«muggy,
symbolic,
swing-on-to-your-
atmosphere sort of tone».
Forse posso arrivare al punto con un esempio. Nel terzo atto di Zio
Vanja vi è un lungo discorso del professor Serebrâkov, quel retrogrado
pedante che ha trascorso tutta una vita a rimasticare le idee altrui sugli
«ismi» della letteratura, e che ora proietta la propria inadeguatezza e il
proprio inconsapevole senso di fallimento con atti di crudeltà contro chi
43
gli sta vicino. In questo discorso annuncia il suo piano di vendere la
tenuta che Vanja ha lavorato così duramente per mantenere produttiva.
Prendo quella che mi sembra la migliore traduzione di questo discorso:
«Here is maman. I will begin, friends (a pause). I have invited you,
gentlemen, to announce that the Inspector-General is coming. But let us
lay aside jesting. It is a serious matter. I have called you together to ask
for your advice and help, and, knowing your invariable kindness, I hope
to receive it. I am a studious, bookish man, and have never had anything
to do with practical life. I cannot dispense with the assistance of those
who understand it, and I beg you, Ivan Petroviĉ, and you, Ilâ Iliĉ, and
you, maman … The point is that manet omnes una nox that is, that we
are all mortal. I am old and ill, and so I think it is high time to settle my
worldly affairs so far as they concern my family. My life is over. I am not
thinking of myself, but I have a young wife and an unmarried daughter
(a pause). It is impossible for me to go on living in the country. We are
not made for country life. But to live in town on the income we derive
from this estate is impossible. If we sell the forest, for instance, that’s an
exceptional measure which we cannot repeat every year. We must take
some steps which would guarantee us a permanent and more or less
definitive income. I have thought of such a measure, and have the
honour of submitting it to your consideration. Omitting details I will put
it before you in rough outline. Our estate yields on an average not more
than two per cent on its capital value. I propose to sell it. If we invest the
money in suitable securities, we should get from four to five per cent,
and I think we might even have a few thousand roubles to spare for
buying a small villa in Finland».
Innanzitutto, neppure Houdini sarebbe riuscito a fare tagli a questi
costrutti e nessun attore sarebbe riuscito a suonare convincente. Ma, cosa
44
più importante, alla traduzione mancavano il tono e significato della
situazione nell’insieme. Qui c’è un cattivo professore che tiene una
conferenza al Rotary Club. Tutti i manierismi da podio gli scherzi, le
espressioni di cattivo gusto, il metodo del riassunto, i pedanti tentativi di
non essere pedante, sono scartati o sottomessi a una prolissità di natura
sbagliata. In più, alla traduzione manca la qualità retorica della battuta –
il modo teatrale in cui l’oratore vede sé stesso. Come T. S. Eliot ha
puntualizzato nel saggio Rhetoric and Poetic Drama, questo modo di
fare retorica è comune a noi tutti e può essere di grande aiuto al
drammaturgo moderno perché permette al pubblico di vedere un
personaggio non solo come viene visto dagli altri personaggi, ma come
lo stesso personaggio consapevolmente drammatizza sé stesso. Il
discorso invece dovrebbe essere:
«Here is mother. Ladies and gentlemen, let us begin. I have asked
you to gather here, my friends, to inform you that the inspector-general
is coming. (laughs) All joking aside, however, I wish to discuss a very
important matter. I must ask you for your aid and advice, and realizing
your unbounded kindness, I believe I can count on both. I am a scholar
and bound to my library, and I am not familiar with practical affairs. I
am unable, I find, to dispense with the help of well-informed people such
as you, Ivan, and you, Ilya, and you mother. The truth is, manet omnes
una nox, that is to say, our lives rest in the hands of God, and as I am
old and ill, I realize that the time has come for me to dispose of my
property in the interests of my family. My life is nearly finished, and I am
thinking of myself, but I must consider my young wife and daughter. (a
pause) I cannot go on living in the country; we were just not meant for
country life. We might sell the forests, but that would be an expedient to
which we could not resort every year. We must work out some method of
45
guaranteeing ourselves a permanent, and … ah, more or less fixed
annual income. With this object in view a plan has occurred to me which
I now have the honor consideration. I shall give you only a rough outline
of it, omitting all the other some and trivial details. Our estate does not
yield, on an average, more than two per cent on the investment. I
propose to sell it. If then we invest our capital in bonds and other
suitable securities, it will bring us four to five per cent, and we should
probably have a surplus of several thousand roubles, with which we
could buy a small villa in Finland...»
Si ha teatro solo quando si ottiene il senso della parlabilità. Sono
sicuro che questa è una delle cose che intendeva Hamlet quando
raccomandava ai suoi attori: «Speak the speech, I pray you… trippingly
on the tounge». In vista di tale obiettivo penso che i traduttori sbaglino
nell’utilizzo di una risorsa importante: gli attori stessi. Ho diretto
personalmente tutte le mie traduzioni di Čechov e, di volta in volta, gli
attori hanno sempre fatto o suggerito modifiche che hanno migliorato
molto la traduzione. Innanzitutto, due esempi di modifiche minime
apportate dagli attori che non hanno fatto altro che migliorare il flusso
delle parole. Originariamente avevo «It is too stifling». L’attore ha
proposto «The day is too hot». Altrove «will they remember us in a
kindly spirit?» è diventato «will they remember us with grateful hearts?»
Tuttavia gli attori possono fare modifiche che alterano l’intera dinamica
di una scena. Quando ho diretto Трисестры [Tre sorelle], per tre
settimane ho cercato invano di costruire l’ultima scena del terzo atto in
modo degno, o almeno di costruirla. Le mie tre sorelle erano ottime
attrici e tutte avevano avuto una buona esperienza e formazione
professionale. Sapevo che la costruzione doveva avere inizio con uno dei
discorsi di Irina, ma non ne veniva nulla di buono. Poi una sera l’attrice
46
ha impostato il discorso a modo suo e la scena ha preso forma; era quello
che volevamo. Solo in séguito mi sono reso conto che aveva cambiato
una delle battute, e proprio questa modifica aveva trasformato il
discorso, e quindi il resto della scena, in drammatico. La battuta
originale era «Oh, I’m so miserable! I can’t work, I won’t work! I’ve had
enough of it, enough!» l’attrice aveva invece detto «I’m miserable
(pause). I’ve had enough, enough, enough. I can’t, I won’t, I will not
work», ottenendo in questo modo una struttura che poteva essere
costruita con la voce. Ovviamente, non sto suggerendo di fare modifiche
azzardate o modifiche che alterino il significato del discorso. Semmai
che un attore – nel dire la battuta – può essere di grande aiuto al
traduttore per rendere il testo più recitabile.
Oltre a rendere il testo più parlabile, il traduttore deve anche essere
disposto a lasciare un residuo. Chiaramente, tutte le traduzioni sono
necessariamente imperfette. Come diceva Eric Bentley, «If life begins on
the other side of despair, the translator’s life begins on the other side of
impossibility!» Ciò è particolarmente vero per Čechov, dato che le sue
opere sono finemente intessute e si fondano su tratti specifici della
cultura russa. Per esempio, nel secondo atto dello Zio Vanja vi è il
battere del guardiano. È un tocco perfettamente realistico, ma funziona
anche da simbolo per l’azione. Viene usato in quel momento cruciale
della fine dell’atto, quando Elena e Sonja si sono appena parlate con
franchezza, e proprio per questo sono capaci di un certo sentimento. Le
finestre sono aperte, piove e tutto è pulito, rinfrescato. Elena pensa di
poter riprendere a suonare il pianoforte. Quando Sonja va a chiedere il
permesso, si sente il battere del guardiano, Elena deve chiudere la
finestra e Serebrâkov dice «no». Tutta la loro vita sentimentale scorre
protetta da un guardiano, al punto che non è rimasto loro alcun
47
sentimento. Tuttavia, quando nell’allestimento vengono riprodotti quei
colpi, il pubblico stenta a scorgerne l’importanza pensando che il rumore
venga dalle tubazioni dell’auditorium. Lo stesso vale per molte allusioni
culturali di Tre sorelle. L’unico modo per renderle comprensibili è
scrivere delle note a piè pagina o un programma di sala. Dio non voglia
che facciamo né l’uno né l’altro. Se le opere sono allestite come si deve,
questi effetti avranno comunque un impatto sui sensi del pubblico, se
non la sua comprensione.
Tuttavia c’è un residuo che andrebbe evitato. Per esempio, in una
delle traduzioni pubblicate di Zio Vanja la scena dello sparo è resa male.
La versione diffusa è:
«Let me go, Helen, Let me go! (Looking for Serebryakov)
Where is he? Oh, here he is! (Fires at him) Missed!
Missed again! (Furiously) Damnation – damnation take it
… (Flings revolver on the floor and sinks onto a chair, exhausted).»
Nessun traduttore si è accorto che nel testo russo Vanja non preme
il grilletto della pistola, ma dice «Bang!». È ormai talmente incapace di
agire che nemmeno quando è in gioco la vita riesce ad agire, e ripiega
sulle parole.
È un caso in cui il senso dell’opera viene drasticamente alterato
perché il traduttore non si accorge che la visione čechoviana di quel
momento orrendo è più vera di qualsiasi logica semplicistica.
L’ultimo punto del mio discorso è che, oltre a essere rivolta agli
attori, la traduzione dev’essere scritta in buon inglese. Non mi lascio
coinvolgere nella diatriba versione libera versus versione filologica, ma è
evidente che il traduttore non deve necessariamente perseguire la
corrispondenza parola per parola. Se si rendesse parola per parola in
48
francese «For crying out loud!», non lo si tradurrebbe. Credo che
Bentley abbia ragione quando sostiene:
«Accuracy must not be bought at the expense of bad English. Since
we cannot have everything, we would rather surrender accuracy than
style. This, I think, is the first principle of translating, though it is not yet
accepted in academic circles. The clinching argument in favor of this
principle is that, finally, bad English cannot be accurate translation
unless the original is in bad German, bad French, or what have you.»
Tuttavia, nel rendere un buon inglese, si deve sempre cercare di
farlo alla maniera del commediografo. Quando questi usa ripetizioni,
dobbiamo usarle anche noi, non screditarlo come prolisso. Dopo tutto,
nel «Tomorrow and tomorrow and tomorrow» di Macbeth quello che
conta non è certo il significato delle parole, ma il senso che assumono
nella ripetizione in quel contesto. Lo stesso vale per tutti gli altri gesti
della lingua, giochi di parole, rime, allitterazioni. Oppure, quando un
commediografo cita un autore o una canzone sbagliando, il traduttore
non deve correggere l’errore dell’autore. Čechov, per esempio, fa
continuamente citare ai suoi personaggi Shakespeare ma di solito sono
citazioni sbagliate. Il senso sta nella loro inesattezza. Ma i traduttori
benintenzionati di Čechov hanno sempre ritenuto che il povero Anton
Pavlovič non sapesse molto bene l’inglese, e gli sono quindi andati in
soccorso correggendo i suoi tentativi imperfetti. Infine, è importante
ricordare che nel discorso teatrale la durata fa parte del senso
complessivo, e che nella scrittura teatrale i tempi sono scanditi dal
respiro. Quindi potendo il traduttore deve mantenere invariato il numero
delle sillabe della battuta.
Lasciatemi dire in conclusione che, se terremo sempre presente che
il linguaggio teatrale deve apparire come una necessità, come risultato di
49
una serie di compressioni, collisioni, frizioni sceniche ed evoluzioni,
funzionerà, perché sarà gestuale. «Language as gesture», come rivelava
Blackmur, «creates meaning as conscience creates judgment, by feeling
the pang, the innerbite, of things forced together», e questo è il conflitto
che noi definiamo «drammatico», il conflitto che si sente più a suo agio
nel teatro.
50
I.7. CONCLUSIONE
Il mio personale sviluppo dell’ apprendimento delle tecniche della
traduzione di testi tecnico-scientifici e letterari è andato di pari passo con
il lavoro e lo studio della recitazione a teatro.
Questo specifico tipo di percorso mi ha messa alla prova in maniera
diretta e totalizzante e ha favorito in me l’idea che non scaturiranno mai
buone traduzioni di opere teatrali da coloro che non abbiano avuto una
certa formazione nella pratica del teatro.
Ha poi contribuito a sviluppare una concezione di testo che può
essere sperimentata a partire dalla creazione di processi fisici, di
movimento nello spazio, di costruzione di azioni, sullo sfondo di un
pensiero pedagogico chiaro: quando si parla, lo si fa con tutto il corpo;
quando si legge ad alta voce, tutto il corpo si muove idealmente nello
spazio del testo e realmente in uno spazio che include chi ascolta.
Entrambi gli spazi possono diventare l’uno metafora dell’altro, perché
leggere è soprattutto azione, ma anche, agire equivale a tracciare segni
potenzialmente leggibili, portatori di una implicita verbalità.
All’esito del duplice percorso di apprendimento e attraverso il
riflesso delle varie teorie dei cosiddetti Maestri della traduzione,
utilizzate per intraprendere con maggior profitto il lavoro di interprete e
traduttore teatrale, questo lavoro ha voluto avvalorare la necessità e
l’importanza per un traduttore di concepire la traduzione come una
“riscrittura viva” dei testi originali.
Come si evince anche dal saggio Translating for actors di Robert
W. Corrigan, il linguaggio del teatro ha bisogno di essere usato in senso
concreto e spaziale, deve essere combinato cioè, con qualsiasi altro
elemento del teatro. Deve scaturire dal gesto, deve sempre recitare e non
51
deve mai essere descrittivo. Nel momento in cui la dichiarazione si
sostituisce al processo drammatico, il teatro muore.
Tale tema si inserisce perfettamente nella problematica più ampia
della traduzione di cui si discute da anni ed anni. Oggi non è più
abbastanza avere i testi di grandi tragediografi quali Eschilo, Sofocle e
Shakespeare se non si è davvero in grado di trasmettere l’idea di ciò che
loro stavano cercando di conseguire col teatro.
In conclusione, il testo di un’opera teatrale prende vita nello slancio
“From page to stage” quando il traduttore si preoccupa di quanto
suddetto e non della “buona prosa” o del “buon verso” nel senso comune
delle parole. Il tradurre per gli attori è un’arte che al fine di rendere una
traduzione recitabile, implica che il traduttore tenga conto di quel
linguaggio che sta al di sotto, oltre o in parallelo alla lingua delle parole.
Gli attori sono il mezzo di espressione più valido del drammaturgo, la
cui opera non sarebbe mai un’opera teatrale se rimanesse solo parole su
carta.
52
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http://win.trad.it/caliandro.htm
56
II.1. INTRODUCTION
This thesis is the result of the combination of both theoretical and
practical interests in two fields, only apparently different and far one
from the other, such as theatre and translation. It aims to analyze the
discipline behind theatrical translation from different points of view,
including theatre semiotics.
In order to reach this aim, this work is divided into four parts and it
ends with the translation and the interpretation of the essay “Translating
for Actors” by Robert W. Corrigan, published in 1961 in the collection
“Craft and Context of Translation” by Arrowsmith and Shattuck.
The first part introduces the theatrical text and its composition.
The second part, starting from a few historical notions, depicts the
main features which distinguish the theatrical translation and the
translations of different kinds of texts: the dominant of the
performability and the acceptability in the receiving culture is the
fundamental feature.
The third part presents the various conceptions of the dialectics
between the written text (dramatic text) and the performance (spectacular
text) and the choices that the translator has to make when he works on
the translation.
Finally, the fourth part analyzes the relationship between the main
figures involved in the translation process: the author of the work, the
translator, the actor and the spectator.
57
II.2. THE THEATRICAL TEXT AND ITS COMPOSITION
A theatrical performance can be created without it being developed
from a literary text, or it can be developed from a non-literary text; for
instance, a ballet performance is developed from a musical text and may
or may not include a literary text.
The theatre developed from a literary text is that particular kind of
theatre commonly defined as dramatic, or melodramatic when it consists
in a text set to music. According to Keir Elam, the adjective “dramatic”
indicates the relationship between the author and the reader, while the
adjective “theatrical” indicates the relationship between the performer
and the audience.
“A play is a structured and unified story, comic or dramatic,
complete in itself with a beginning, middle, and end, that expresses the
playwright’s passion and vision of life, shows unfolding conflict that
builds to a climax, and deals with dimensional lifelike humans who have
strong emotions, needs, and objectives that motivate them to take action.
It is constructed with a plausible and probable series of events, written to
be performed and therefore told with speeches and actions plus silences
and inactions, projected by actors from a stage to an audience that is
made to believe the events are happening as they watch”46.
The theatrical text is a literary text created to be performed. It has
some characteristics which significantly differentiate it from any other
kind of text. In the theatrical text there is no narrator, there are no
descriptions or narrations of what happens or happened: the development
of the entire situation is carried out through the characters’ lines, through
which it is possible to perceive their psychological traits, the events
46
Catron, 2002.
58
occurred before the beginning of the representation and the connection
between the various circumstances.
It is generally divided into acts and acts are divided into scenes (or
frames). Acts are, essentially, the different parts in which the text is
articulated, and their number varies according to the dramatic genre.
Each act is then divided into scenes, which change according to the
entrance or the exit of one or more characters.
From a literary point of view, the fundamental elements of the
theatrical text are stage directions and lines.
Stage directions, (didascalia
from the Greek
διδασκαλία,
“instruction”), are an important element of the text. Their function is to
provide instructions and suggestions on the mise-en-scene of a play.
“Poison” by Vitrac, as well as “Actes sans parole” by Beckett, are texts
which only have stage directions, and no lines. They are summary
instructions given by the author, intended for the director, the actor or
the reader, which give indications on the place and time in which an
event occurs, on the way the characters enter and exit the scene, on the
clothes and the personality of the characters, on the tone in which some
lines should be pronounced. The length of stage directions can vary,
going from a few words to longer and more detailed periods, generally
written in italic or put into brackets if they are spaced out between lines.
An essential element of the theatrical text are the lines, which cover
the majority of the whole text. There are different kinds of lines based on
the number of people who pronounce them and the way in which they
are pronounced:
 Dialogue; from the Greek διά, “through” and λογος, “discourse”, it
is the most important part of the theatrical text and the most frequent
kind of line used between two characters who speak alternately;
59
 Polylogue: it is a dialogue that occurs among three or more
characters;
 Duologue: it is a pressing and rapid dialogue that occurs between
two characters;
 Soliloquy: from the Latin solus, “alone” and loquor “to talk”,
when a character who is alone on the scene, expresses out loud their
thoughts and feelings, so that the spectators can understand them,
without the presence of an interlocutor. William Shakespeare’s comedies
are often characterized by soliloquies;
 Monologue: it is an intimate reflection of a single character, only
in this case they are not alone; they are on the side of the scene, and they
speak directly to the audience or to another character;
 Tirade: it is a long discourse related to the past and present events
in which the character is involved, that is recited without anyone else
speaking, as they explicitly ask for silence;
 Aside: it is a comment signaled on the text through stage
directions and put into brackets, that the character expresses on the topic
at hand, momentarily estranging themselves from the performance and
talking exclusively to the audience;
 Voice over: these are lines spoken by a character who is not
directly involved in the scenic action, with the task of intervening “off
scene” to comment on the event that is occurring or to talk to the
characters.
60
II.3.1. THE HISTORY OF THEATRICAL TRANSLATION
A translation (from the Latin traducere, “to transport”) is the
transposition of a discourse from a natural language to another. An
interpreter is someone who orally and simultaneously translate an oral
message; a translator is someone who works on written language.
Translation has always existed; even if only recently the issue of a
scientific translation theory has emerged, the job of the interpreter is
ancient, and it was particularly diffused in the Ancient Egypt.
Concrete proofs of translation are the bilingual and multilingual
glossaries and lists on clay tablets found in Asia Minor.
In Rome, literature started from translation. Livius Andronicus (a
poet who lived in the III century B.C.), for example, at the dawn of the
Latin culture, translated Homer’s works, modernizing its message and
stylistic form.
Titus Maccius Plautus (about 250-184 B.C), translator of Greek
comedies, is also worth-mentioning. Plautus earned a living through his
comedic skills, his vivid enthusiasm which led him to bring the Greek
comedies on the Latin stages, translated with skillful originality for the
Roman audience.
Plauto’s innovation is, firstly, the development of the “artistic
translation”, a phenomenon among the most complex and vast of the
Western literature, which implies that each translation requires an
interpretation.
The theoretical and practical issues of translation are of utmost
importance in the contemporary world.
The XX century, instead of leading to a synthesis of all the previous
valid experiences regarding translation, is marked by the rise of many
61
different opinions and theories on this topic. Thus, said century couldn’t
produce a unique valid theory regarding the issue of translation, and the
points of disagreements are exacerbated by the increase of theoretical
awareness on the issue, and the improvement of technical means.
This is one of the reasons why studies on the history of theatrical
translation are really inadequate and it is not possible to rely on a
specific theory or a handbook with precise and essential guidelines. The
impossibility to create a theory on theatrical translation may be a result
of the scarcely theoretical nature of theatre itself, as it is “a fragile,
ephemeral art that is particularly sensitive to what is in the air. It cannot
be accounted for without from time to time questioning its foundations
and reviewing the critical apparatus we use to describe it”47. The volatile
nature of the theatrical discipline, its contingency and the fact that it is
not eternal, contrary to what many people seem to think, are reflected
also in the translation of theatrical texts.
In general, the translation norms valid for narrative texts should be
considered valid also for the theatrical translation, if not amplified.
According to Zuber, in the theatrical translation there are two phases: the
first phase is the process of translating from a language into the other;
the second phase is the process of transposition of the translated text on
stage. Zuber considers theatrical translation as a “subsection” of
narrative translation, and distinguishes it from all the other forms of
translations mostly because of two dominants: “A play written for a
performance must be actable and speakable”, so in the translation the
non-verbal and cultural aspect and the problems on stage must also be
taken into account48. A translation is not correct nor incorrect, but it can
47
48
Pavis, 1998: 5.
Zuber, 1988: 485.
62
be more or less acceptable, so that it can be understood in the best
possible way by the receiving culture. «Unlike the translation of a novel,
or a poem, the duality inherent in the art of the theatre requires language
to be combined with spectacle, manifested through visual as well as
acoustic images»49.
In Europe the translation of plays starts in the second half of the
XVII century, when the great demand from the acting companies led to
the production of numerous hasty translations, which were often very
inaccurate. During the Humanism period, a translation which focuses on
reading instead of performing is born: the translation of the classics. A
clear example is the translation of Shakespeare’s works, which, in the
absence of a theory on theatrical translation, represents the empirical
theme to understand the logic underlying theatrical translation. The
Routledge Encyclopedia50 includes a chapter on the Shakespeare
Translation and compares the impact that it has had on cultures to the
impact of the Bible translation. In Shakespeare’s case, even if this occurs
also for all the translations of the classics, there is the contrast between
those who stand by the philological orthodoxy in drama translation, who
give less importance to the performability, and those who dare to
revitalize the classics and propose translation choices that are focused on
the acceptability by the receiving culture. However, usually the latter
experiments are less appreciated by the audience and it is almost a
paradox that philologically oriented translations have been so successful
among classicists, who go to the theatre following the written text and
only seldom raise their eyes to look at the stage. The extreme
consequence of the classicist attitude is considering the source text as
49
50
Anderman, 1998: 71.
Baker, Malmkjaer, 1998: 222-226.
63
something “sacred” and refusing a “relativistic” approach, that is an
approach that analyses the source text and the related translation of each
single case.
II.3.2. THEATRE SEMIOTICS
The translator can consider the theatrical text as pure literature or as
an integral part of a theatrical production, so he can respectively have as
a customer an editor or a director (or a theatre). In the first case, the
result of the translator’s work will be a dramatic text, in the second case
it will be a spectacular text, that is the performance.
The distinction between dramatic text and spectacular text comes
from the analytical and theoretical reflections of the Prague School,
which, at the beginning of the Thirties developed the discipline of theatre
semiotics.
At first, theatre semiotics focuses on the textual element of theatre,
in particular on the written verbal text which constitutes the dramatic text
(linguistic-structuralist conception). The preference for the written text,
which is regarded as the fixed and invariable element of theatre, is
undoubtedly the result of a legacy of the logocentric conception, which
from Aristotle to the end of the XIX century, was considered the only
valid answer in the theatrical analysis. According to this conception, the
written text is the bearer of the sense; it is a profound structure and an
essential element in the dramatic art, and the performances are just
superficial expressions, subsequent and subordinated to the written text.
The logocentric conception puts the text and the scene in a dialectic
relationship, linked to theology (In the beginning was the Word), which
sees the text as the soul, the bearer of the sense, and the scene as the
64
external body which “distracts the audience from the beauty of the story
and from reflecting on the tragic conflict”51.
From the second half of the Seventies, De Marinis expresses the
need to radically modify the logocentric approach: the concrete
performance (the spectacular text) becomes the actual object of the
semiotic analysis. The spectacular text makes it possible to grasp, both
diachronically and synchronically, the sense of the performance. Some
semioticians consider the mise-en-scene as an intersemiotic translation,
“a transfer of the language-body of one system into another” and Pavis
considers this “a semiological monstrosity” 52. According to him, the
perseverance in seeing the written text as the only essential and constant
element of the drama, and the performance as the expression, “the
staging of a textual potential”, is also wrong.
Artaud deems a “theatre for idiots, madmen, inverts, grammarians,
grocers, antipoets, and positivists, i.e. Occidentals” that theatre which
obstinately subordinates the performance to the text53. Zuber’s opinion is
not as extreme: the written text is a permanent and irrevocable element,
while each performance based on that text is different, unique, absolutely
contingent and linked to the variants of time and space in which it is
performed: «a theatre performance is subject to changes according to
audience reaction, acting performance, physical environment, and other
factors»54.
Thus, it is not possible to consider the written text and the
spectacular text in hierarchic terms: they are essential parts of the
theatrical text, which exist and function reciprocally to create the
51
Pavis, 1998: 487-488.
Pavis, 1998: 394.
53
Artaud, quoted in Pavis, 1998: 488.
54
Zuber, 1988: 485.
52
65
theatrical event. The written text is the bearer of sense and the
performance is the production of
“a global performance text
incorporating the dramatic text which takes on a very specific
meaning”55. Pavis then focuses on another school of thought which says
that when the scene is not considered subordinated to the text, an
irreducible hermeneutic distance grows between the text and the scene.
This distance makes it possible to have a different approach to the text,
and to interpret it by giving it other meanings. In this way, the text and
the scene become two distinguished components, with different
meanings. Bernard Dort wrote that in theatre the pleasure probably
derives from seeing a text, by definition extraneous to time and space,
inscribing itself in the ephemeral instant and within the limited timeframe of the performance. In this way, “the performance of theatre does
not represent a rediscovered unity, but a never-to-be-resolved tension
between the eternal and the transitory, between the universal and the
particular, between the abstract and the concrete, between text and stage.
It does not realise a text to a greater or lesser degree; it criticizes it,
forces it, questions it”56.
The relationship between text and performance has never been truly
clarified; research tends to follow two parallel tracks: on the one hand,
the semiotics of the text and on the other hand the semiotics of the
performance, without finding points of comparison between the results
of the two approaches.
Boselli, in his essay, maintains that between the dramatic text and
the spectacular text there are elements of convergence typical of the
theatrical art, reciprocal bonds which link the two levels, constituted by
55
56
Pavis, 1988: 395.
Dort, as quoted in Pavis, 1998: 488-489.
66
spectacular codes and theatrical conventions which lead to consider at
the basis of all a strong intertextuality. Sometimes critics, in order to
identify what is purely theatrical and what is extra-theatrical, set some
theatrical codes referring to a particular case, and then they tried to use
those codes in all the analysis of other different cases. This theory is too
rigid to describe theatre.
Considering the code as a system buried in the performance is,
according to Pavis, wrong in principle. The code should be instead the
method of analysis that the receiver, as a hermeneutist, decides to adopt
to interpret the performance under the guidance of the interpreter57.
According to Tessari, the essential characteristic of a theatrical text
is the theatrical authenticity. Even if written and not intended to be
performed, the dramatic text must be, in any case, thought to be
performed, it must not be just words on paper, the result of an individual
reading58.
«There is practically no theoretical literature on the translation of
drama as acted and produced», wrote Lefevere in 1980, who found the
reason for the lack of theories on this kind of translation in a flawed
textual analysis, only focused on the written text (the dramatic text) and
also in the little importance given to the pragmatics in the context of
theatrical translation. The paradox here, is that it is pragmatics itself,
through its paradigms, which distinguishes a dramatic text from an
“ordinary” text. Searle stated that “there is no textual property,
syntactical or semantic, that will identify a text as a work of fiction»59;
rather, a text is dramatic because it can be circumscribed in a fictional
frame, and it is created to be perceptible through the senses.
57
Pavis, 1998: 394.
Tessari, 1996: 23.
59
Searle, as quoted in Pavis, 1998: 486
58
67
The field of interest for a translator of theatrical texts must be
interdisciplinary. According to Luzi, it is essential that the theatrical
translator works with all those people who stage the performance and
that he is personally involved in its preparation60.
60
Luzi, 1990: 99.
68
II.4.1 ARTISTIC TRANSLATION
«Now this miracle can only happen on one condition:
That a language can be found which is in itself spoken action,
The living word that moves, the expression of immediacy
At one with action, the single phrase
That must belong uniquely to a given character in a given situation:
Words, expressions, phrases that are not invented but are born
When the author is fully at one with his creation
So as to feel what it feels and to desire what it desires»
LUIGI PIRANDELLO, Spoken Action («Marzocco», 7 May 1899)
The study of theatrical translation or the so-called transformance,
overlooked during the emergence of the studies on translation in the last
decades, opens the curtains on a series of issues linked to the field of
poetry, narrative, and even technical and jargon texts translation, and
also to consecutive or simultaneous translation which requires oral
competence. The fact that translating (for) the theatre deals directly with
dramatic texts that are nostalgic of a scenic writing, makes this activity
the real Trojan horse to a new theoretical consideration of translation:
one that is not dichotomist, or extemporaneous and merely experiential,
but that finally sees translation as a vital and creative act, an essential
and universal operation that requires at the same time responsibility and
audacity, and that must not be considered subordinated to others.
In the field of translation phenomena in a broad sense, the
translation of a theatrical text is a specific subset, with peculiar
69
characteristics61. The statute of a theatrical text sees the performance and
scenic writing as the realization of dramatic writing. The conveyance of
a theatrical text into another language always requires a historicizing and
a contextualization of oral codes and conventions62. Theatre semiotics
sees the performance as the prevalent, if not key point of the
transposition of a dramatic text, in which the literal, verbal element
works as a pre-text or a geno-text63, which is a text that precedes the
actual theatrical text, the scenic writing, without being the occasion for
an arbitrary deconstruction of any kind.
The suprasegmental, paralinguistic and/or illocutory factors
(rhythm, prosody, proxemics, kinesics) and scene codes (lights, scenic
design, costumes, music) radically transform the literary and literal
meaning of the verbal sign, sometimes making it unrecognizable64.
Every translation, seen as an hermeneutical instance, leaves some blanks
that interpreters have to fill: the words or the phrase of a text that has to
be read, acted, “performed”, must always take into account the
resonance, the echo, the melancholy that the theatrical word suffers
when it is printed on a page. This goes not only for the word, but for all
the balance system that regulates the visible and the invisible, the said
and the unsaid, the presence and the absence that contribute to the
specificity of the event here and now. In this specificity there are the
performer’s body and voice, as the translation of the theatrical sign is
instantaneous, it reaches its peak and then it dies, and there is no turning
back from that: the performer is flesh and blood, sweat and breath, he
translates with his actions that same translation act which in every other
61
Bassnett, 1993: 148-163; Bassnett and Lefevere, 1998: 90-108; Zatlin, 2005: 1-102.
Segre, 1984: 103-118
63
Ubersfeld, 1996: 20-21.
64
Elam, 2002: 162 ss.
62
70
kind of expression is only presumed, carried out somewhere else, and
even forgotten in the fruition of the resulting translated work. It could be
said that the performer is the translator’s reflection and his dramatic and
scenic projection, metaphor and metonymy of the interpretative act that
develops in front of the eyes and in the ears of the spectator in the
audience.
Thus, if the dramatic text is an incomplete text, the analysis of a
theatrical translation cannot help but face this latency from the
beginning. The historical-descriptive analysis of a theatrical translation
comprehends a remotely normative aspect that sees the translation of a
theatrical word as the translation of something not only expressible out
loud, performable, but also of something unfinished (which does not
mean vague) but subtly codified as incomplete, that will be carried out in
infinite interpretative acts linked to the live performance. Susan
Bassnett65 maintains, reasonably, that concepts like speakability and
performability resist to an actual and proper semiotic description, but
they are, nonetheless, overly used as distinctive factors of a naturalistic,
psychological and illusionistic dramaturgy. In her opinion, they are
rather useless as parameters to spur a theatrical translation, in the broad
sense, and an objectifiable judgment on it.
So what makes theatrical writing a specific (and maybe
paradigmatic) field of translation? An aspect of theatrical writing is the
deixis; that is, in any theatrical text there are particular indicators of
space, time, movement that are expressed through the use of small parts
of the discourse, demonstrative pronouns, adverbs, and some verbs that
provide often inescapable suggestions for the performance of the work
and that must be decoded just like any other semiotic element. The
65
Bassnett and Lefevere, 1998: 94-95.
71
question of the deixis is linked to that of stage directions, even if they are
not quite the same thing: every theatrical text, from a schematic but not
arbitrary point of view, includes implicit (from Aeschylus to
Shakespeare and Moliere) or explicit (from the Goldoni’s reform to
nowadays) scenic writing advice that is almost always compelling for the
creator of the dramatic writing. The restitution of this extraordinary
semiotic complexity requires a total craftsmanship to translate the deictic
prompts of dramaturgy into scenic signs; this is a task for the director,
the stage designer, the costume designer, the light designer and of course
the actor/performer. The transition from a linguistic patrimony to the
other, in the case of theatrical writing, is not a purely linguistic act, but it
is an actual radical movement of the oral tradition of a source text to the
oral tradition of the target text with the variables aforementioned.
II.4.2. THE TRANSLATOR-ACTOR
The translator of the theatrical text, that does not intend Sophocles
as Chekhov in the sense of a theatrical literature in which the
representation is at most the mental illustration of the scene of a novel or
a story, should put himself in a concrete communicative prospective
toward the target text. This does not mean that theatre should be
translated only by theatre experts, but that the theatrical translator should
work with the mindset of actively watching and hearing, as a live action
what is laying, sleeping on the page, with the idea of being the first
medium not only from a linguistic-grammatical coherence/correctness
point of view, but also from the scenic-dramatic coherence/correctness
point of view.
72
Kantor stated: “I hold that theatre is a ford across the river. It is a
place through which the dead figures from that shore, from that world,
cross over into our world and now into our lives. […] And what happens
next? The answer might be given by the Dybbuk […], the spirits of the
dead who enter into the bodies of others and speak through them” 66.
In fact, just like the actor, the translator – particularly the theatrical
translator – should “undress” and free himself from those preconceptions
(including those linked to his own “encyclopedia” and knowledge of the
text he is translating) that obstacle the free evocation and the
communication, through his body and his voice, with others’ bodies and
voices. He should undress and wear – like the actor – a mask and clothes
that are not his, but are “borrowed”. From this fundamental affinity
between the art and the job of the translator with that of the actor, derives
the synonymy of the term “interpretation” for both roles. Thus, the first
role that the translator has to play is that of the author’s alter ego, the
deuteragonist in an “action” to be repeated (to re-cite) and interpreted,
which is, of course, the same for the composition of the play. Maybe this
is what Maestro Agostino Lombardo meant, when, during a lesson, he
maintained, only half jokingly, that when he translated Shakespeare,
there came a moment when he was Shakespeare himself. At this point of
the thesis, Alessandro Serpieri’s thought is certainly worth mentioning67:
according to him, it is fundamental that a translation preserves the
interaction of explicit and implicit meanings, of a “known” and an
“unknown”, that leads to the suspense that the dramatic text, made up
only of “present tenses” as it recreates real life, offers to the spectator:
66
67
Quote in Pleśniarowicz, 1997: 221.
Serpieri, 2001: 169.
73
what is going to happen now?. For this reason, the translator should act
just like the author: he should “know” the whole action and the text that
he is translating, but at the same time he should “not know”, in the sense
that he should forget all the cues and the links between the actions, so
that he can rediscover and transmit the propulsive energy that, in the
translation of the text, becomes almost like an internal strategy. In this
way, the paradigmatic knowledge of the text, together with its
progressive syntagmatic knowledge, can lead to the discovery of its
dynamism. Serpieri stated that he knew both Hamlet and Macbeth very
well before he started translating them, but during the translation act he
purposefully tried to forget all the internal developments of the texts, so
that he could feel the “surprise” in their progression, and he could
discover, while translating them into his own language, that energy that
no analysis or paradigmatic knowledge or summary can contain in itself.
Advancing in this reasoning, Serpieri explained his theory on the
energy of drama, stating that energy is created by each of the drama’s
linguistic acts: by the interactions of the lines, the emotions and the
events that are prompted by them. It is also an energy belonging to the
theatrical space and time, the actor’s body and the energy of the literary,
stylistic, rhetoric, thematic invention, that keeps together all the elements
of the action and that will be remembered even far from the stage for
which it was created in the first place68.
Translation must enable the director, the actor, the spectator, the
recipient in its multiple articulations, to bring their own determining
contribution (which can also be a contribution of temporary
bewilderment), to present in every line, or scene, in every dramatic
68
Ivi: 170.
74
development, that vital conflict, that impulse of dramatic action, between
author and director, actor and author, spectator and director, or actor and
spectator on one side and the director on the other, or vice versa, etc,
allowing everyone to create their own film. In this way, there is a
contradiction, or a change to the image of a translator without a stage,
proposed by Wechsler69:
“The translator’s problem is that he is a performer without a stage,
an artist whose performance looks just like the original, just like a play
or a song or a composition, nothing but ink on a page”.
In short, the instruction by the theatre and cinema director Peter
Brook is true: “We are watchful: behind each visible mark on paper lurks
an invisible one that is hard to seize. Technically we now need less
abandon, more focus – less breadth, more intensity”70, but even if until
now I have above all underlined the theatricality of the discourse and of
theatrical translation, on the other hand it is important to bring back the
text – any authorial text - to its literal foundations and stress the obvious
truth that the concentration and the intensity of the translation work are
primarily based on a linguistic-literary ground. Thus, going back to the
frayed Jakobson’s categories, every translation, be it interlinguistic or
intersemiotic, should be preceded or accompanied by an intralinguistic
work that is competence of philology, of the history of language and
stylistics, as Serpieri maintained71. To neglect this obvious deontological
assumption, could mean that the translator is presumptuous. Instead, the
work of the translator and his talent, depend above all on other qualities,
such as humbleness, respect and correctness.
69
Wechsler, 1998: 7.
Brook, 1998: 80.
71
Serpieri, 2001: 163-164.
70
75
II.5. PLAYWRIGHTS, TRANSLATORS, SPECTATORS
Mario Luzi in his essay describes the relationship between author
and translator in the lyric poetry as a “duel” between the former who
wants his work to remain intact, authentic, and the latter who, as a bearer
of creativity and autonomy, feels entitled to creation. This game between
the two parts can, in the same way, be overturned, with the original
author as the passive victim of the “immobility of the object” created,
and the translator as the true creator. This dispute is not played openly,
quite the opposite: it is covertly played, so the winner and the defeated,
the rights and wrongs, the judgment will be strictly limited to the
underlying principles recognized only by one of the two parts72. Some
common conceptions regarding literature in general, consider the source
text as an authentic and “eternal ipo-text”, and its translations as
“fleeting iper-texts”73, limited only to the temporal and spatial
conditions. According to said conceptions, the translation is seen and felt
as a master and servant relationship (to the point of not even considering
the author and the translator on the same level in the duel!), in which
who provides for the laws of authenticity and originality is the translator,
to the detriment of the “prerogative of ordering and doing”74.
In the field of theatrical translation said immobilistic theories seem
unjustified. In theatre, the underlying dispute between author and
translator becomes official and the merit and the demerit of one or the
other is judged by the stage, which “like a seismograph records the
variations in the character's energy”75. Even the slightest oversights that
72
Luzi, 1990: 97.
Boselli, 1996: 66.
74
Luzi, 1990: 97.
75
Luzi, 1990: 98.
73
76
on paper could be considered innocuous, irremediably surface in the
performance because of the lack of fluidity in the dialogue or for the
downright absence of action, as Corrigan often notes in his essay. Stark
Young, on the matter of the Chekov translation, maintains that “the
speech lives or dies [...] by its precision. In the form alone lies much of
its meaning and all its point”76. Other times, correct translations, with
logical sense, cannot prompt the action, and do not support the acting.
In theatre there are two schools of thought that describe two
different approaches that the translator of a theatrical work can have. The
first is that of the translators who are “jealous” of their autonomy, who
pursue the path of the “eternal” translation, producing static texts that
will only be published, and thus leave the choice to the director on the
performance of the play. The second, instead, deals with translations as a
function of the performance: for this reason, the dominant characteristic
is the performability, and they keep into account above all a
reinterpretability from the receiving culture. This school of thought
agrees with the following statement by Zuber: “as well as being a literary
text, the translation of drama as a performing art is mainly dependent on
the final production of the play on the stage and on the effectiveness of
the play on the audience”77. Such translations, with the purpose of an
efficient reception from the audience, overlook the rigor and the
philological exactness of the original text.
In a union of acoustic, visible and emotional images, the theatre
conveys a message and at the same time delights the spirit of the
audience: what better means of communication is there? In the case of a
translated drama, it can be considered an intercultural communication.
76
77
Young, 1938: 740.
Zuber, 1988: 485.
77
Thus the theatre can also become an eminent place of intertextuality,
becoming a fast track to an intercultural dialogue78. It is not possible for
a translation to be ultimate and eternal, but it can be adapt to the culture
which is ready to receive it. The theatrical art is constantly evolving and
strictly exposed to the influence of the moment. The temporal, linguistic
and cultural distance are challenges that the professional translator has to
face every day, they are part of his job just as much as it is knowing a
foreign language. In theatre, to judge the work of the translator is the
audience, which expects, depending on the case, to have fun or to be
moved, but above all to find points of empathy, to learn something, in
short to understand the work and feel part of the theatrical event.
Underestimating the audience by thinking it lacks of critical sense and is
passive, unable to understand messages, is a serious wrong done to the
recipient of the theatrical event. It is for the spectators that the translator
must work, and it is to make them grasp the sense of the play the
translator must often come to terms with the rigorism of literal
translation, make brave choices that can convey the fluidity of the play
and its freshness, to make it seems like it is reborn and is presented in
front of that particular audience for the first time. On this matter,
Pirandello maintains that “All the features of the conception must
therefore be found likewise in the execution”79. This is the only way to
make the intercultural communication happen.
If theatre denies the source culture the right to be completely
represented, with its virtues and vices, it ends defeated, devalued. The
communication will happen only in terms of a closure between the two
cultures and it will prompt the usual prejudices and clichés, that sadly
78
79
Boselli, 1996: 71.
Pirandello, 1939: 234.
78
exist for the lack of reciprocal knowledge. Also the receiving culture is
defeated, as it sees its going to the theatre frustrated: it is deprived of the
right of impartial judgment on another culture, different and maybe far,
that the theatre could have made nearer. Normally, in the narrative text,
in function of the destruction of the spatial and temporal distance that is
between the source culture and the target culture, translation is
accompanied by a metatextual apparatus, that can be constituted by an
introduction, notes, comments, critical essays that frame the text. In
theatre this system is unlikely and not feasible so “the way forward for
advancing a theory of translation specific to dramatic texts would seem
to lie in linguists, literary scholars and comparatists joining forces with
playwrights and directors in an attempt to work toward a closer
understanding of the requirements of the stage, including translation for
the stage”80.
Clearly, it is impossible to have the equivalent effect, that is to
provoke the same effects that the original author intended for an
audience which spoke their same language, also because it is difficult to
understand precisely what the intended effect was. Pirandello in his
essay had as a leitmotiv the impossibility of the total interpretation. Each
person feels and sees in their own way and thus a perfectly philological
interpretation, which mirrors what the author felt and saw, does not exist.
The mediation between a language and the other is never objective
because the seeing and the feeling of the translator can never be
completely filtered, cancelled. The actor, who “interferes” between the
creature and the author, can only try to incarnate the character created by
the playwright; however, the imagine he incarnates is only similar, not
the same, because it was recreated another time in his body, in his mind,
80
Anderman, 1998: 74.
79
in his voice, in his gesture. Pirandello associates the case of the actor to
that of the translator: the creation of something else, that, even if it
pursues the aim of the transmission of a “creature” that does not belong
to them, comprehends the expressivity of the translator, and no longer
that of the original author. The creation by the translator of something
new, of a new original, agrees with the thought elaborated by some
Brazilian translators, the “cannibalism”, according to which the
translator devours the prototext and creates one of his own81.
Whether the translator is considered a “cannibal” who eats the
original text to create another, or he is considered an orthodox and
philologically loyal rigorist, it is necessary to face the controversial
theme of the model reader in theatrical translation.
Corrigan’s essay stresses that translation must be intended for
actors. Can we then dare to say that the model reader of the translating
process of a theatrical work is the actor? And the spectator, the recipient
of the work, which role does he play in the theatrical process? Probably,
there are two translating steps: in the first one, the model reader of the
translator is the actor; in the second one, the translator sees, as a model
reader, the audience.
Again, in this case there is no theoretical contribution to answer this
question. Research is often focused on the role of the actor, of the public
and the model reader in narrative texts, but a confrontation between
these studies to define who is the model reader of the theatrical
translation is yet to emerge.
If we want to consider theatre as a sort of episode of collective,
multimedia reading, we can proclaim the audience as the model reader
targeted by the translator, but it is an audience that becomes a single
81
Boselli, 1996: 66.
80
entity. As a matter of fact, during the fruition, the individuality of the
single spectators uniforms at least partially.
“It is not an easy matter to grasp all the implication of the fact that
the spectator cannot be separated as an individual from the audience as a
collective agent. Each individual spectator contains within him the
ideological and psychological codes of several groups, while, on the
other hand, the audience sometimes forms a single entity, a group that
reacts en masse”82.
To uniform the audience means to predetermine an ideal audience,
that is able to understand in the only possible way the performance. This
concept is the key of the aesthetic of the reception by Jauss
(Rezeptionsӓstethik) and Pavis believes it is improbable to consider the
theatrical event in function of an “all-powerful receiver”83. The audience
is logically considered en masse because it has to interpret en masse in
the same space and in the same time the theatrical event, but it is not
certain that from this circumstance, a reaction and an interpretation en
masse will arise. This opinion does not want to admit the validity of
multiple, all possible interpretations, in theatre just like in literature: as
Pareyson maintains, it is always a concrete person who, from their own
point of view, tries to make the play live as they like84.
82
Pavis, 1998: 426.
Pavis, 1998: 427.
84
Pareyson, 1954 [1988: 11].
83
81
III.1. TRADUCIR PARA LOS ACTORES de Robert W. Corrigan
En el estudio de las obras teatrales de los dramaturgos europeos
tales como Beckett, Genet, Adamov y Ghelderode, según Robert W.
Corrigan en su ensayo “Translating for Actors”85”, se detecta que con un
cierto moralismo previsible, se tiende a rechazar tales obras y a calificar
de manera ultrajante a sus autores como a la vanguardia. Pero, como así
reconoce el autor en su ensayo, de alguna manera, a pesar de su aversión,
las obras continúan reafirmándose manteniendo un agarre misterioso
sobre nuestra sensibilidad. A pesar de ser inescrutables y aparentemente
simples, poseen una vitalidad que en el teatro de nuestros días se ha
perdido. Lo que se pregunta el autor es dónde reside la razón principal de
esta vitalidad.
Parece, según el autor, que lo que diferencia las obras de estos
dramaturgos respecto a las formas estereotipadas a las que estamos
acostumbrados de su calidad no didáctica, es decir, no hay “principios
morales” claros y bien elaborados o proezas “inspiradoras”. Además de
esta falta de fin didáctico de las obras, dice el autor, pronto se descubre
la causa central:
“cada uno de estos dramaturgos se está sublevando contra la tiranía
de las palabras del teatro moderno. El diálogo no es un monólogo a
distribuir entre los distintos personajes, no existe ninguna guía o
remisión intertextual evidente, a los que estamos tan acostumbrados; hay
múltiples símbolos, pero estos símbolos no representan nada en
particular y al mismo tiempo evocan muchas cosas. En cada una de estas
obras, los personajes dirigen su propia vida, expresan sus pensamientos.
85
NdT: posible traducción “Traduciendo para los actores”
82
Sus discursos se repiten los unos sobre los otros y fluyen hacia otro
lugar. Al final, en cada drama se ve una insistencia sobre los gestos de la
pantomima, considerados como medios de expresión teatral más
apropiados y válidos; una insistencia sobre el hecho de que el gesto
mímico preceda a la palabra hablada y de que el gesto sea la verdadera
expresión de lo que sentimos, mientras que las palabras únicamente
pueden describir lo que sentimos. Precisamente estos dramaturgos
sostienen que, objetivando el sentimiento en el intento de describirlo, las
palabras matan al propio sentimiento que querían describir.”
Por todo lo dicho, según el autor, no hay que sorprenderse por el
hecho de que estos autores estén en gran sintonía con los mimos como Etienne Decroux, Marcel Marceau y Jacques Tati; tampoco hay que
sorprenderse de que obtengan la inspiración de las primeras películas de
Charlie Chaplin, Buster Keaton, Laurel y Hardy (el Gordo y el Flaco), de
los Keystone Cops, y de los hermanos Marx; y finalmente tampoco hay
que sorprenderse de que todos estén bajo la influencia de Jacques
Copeau y Antonin Artaud. El autor, Corrigan, establece que ha sido con
la traducción al inglés del libro de Artaud, Le Théâtre et son double [El
teatro y su doble] cuando se ha podido descubrir en qué consiste la
estética de todo el movimiento teatral de vanguardia. Según Carrigan, la
premisa fundamental de Artaud era que en el teatro es un error mantener
que “en principio era el verbo” que es justo lo que nuestro teatro aplica.
Según Carrigan, “para la mayor parte de nosotros, críticos como
dramaturgos, la palabra es todo; sin ella no hay posibilidad de expresión;
el teatro se considera una rama de la literatura, y aunque se admita una
diferencia entre el texto declamado en el escenario y el texto leído con
los ojos, todavía no somos capaces de separarlo de la idea de un texto
83
recitado. Artaud y sus seguidores sostienen que nuestro teatro moderno
orientado esté renegando, de manera psicológica, la naturaleza histórica
del teatro. Según su opinión, el escenario es un lugar físico concreto que
debe hablar su propio lenguaje – un lenguaje que es más profundo que la
lengua hablada, una lengua que se dirige directamente a nuestros
sentidos, en vez de dirigirse en primer lugar a nuestra mente, como hace
el lenguaje de las palabras.”
Según Carrigan, este es el aspecto más significativo del teatro de
vanguardia - es un teatro del gesto. “¡en el principio era el gesto!”. El
gesto no es un añadido decorativo que acompaña a las palabras; sino que
es el eje principal, la causa y el director de la lengua y, por mucho que el
lenguaje sea dramático, es esencialmente gestual. De hecho, según el
autor, esta insistencia en restablecer la base gestual del teatro es lo que
ha conducido al retorno de la pantomima en obras tales como Les
Chaises [Las sillas], En attendant Godot [Esperando a Godot], Le Ping
Pong [Ping-Pong], Fin de partie [Fin de la partida], Le Balcon [El
balcón] y Escurial. En palabras del autor, “cualquiera de vosotros que
haya asistido al nuevo montaje de estas comedias habrá visto como esta
mímica es distinta a la mímica tal y como la entiende la mayor parte de
nuestros contemporáneos. Para muchos de nosotros, la pantomima
consiste en una serie de gestos que representan palabras o frases – una
charada. Pero esto no es la pantomima histórica. Para los grandes mimos,
sostiene Artaud, los gestos representan las ideas, las actitudes mentales,
los aspectos de la naturaleza que se realizan de un modo eficaz y
concreto, evocando constantemente objetos o detalles de la naturaleza,
como hace el lenguaje oriental cuando representa la noche con un árbol
sobre el que un pájaro con un solo ojo está cerrando el otro. “
84
En relación a esto, volviendo la mirada a la historia reciente,
Carrigan pone de manifiesto que el famoso director Meyerhold, a inicios
de siglo estaba buscando conseguir el mismo objetivo, en el intento de
volver a dar vitalidad al teatro ruso. Con excepción hecha de Chéjov –
cuya afinidad con la vanguardia es mayor de cuanto se puede pensar a
primera vista – numerosos dramaturgos de aquella época estaban
buscando transformar la literatura de leer en literatura para el teatro.
Meyerhold, correctamente, se dio cuenta de que estos escritores en
realidad eran novelistas que pensaban que reduciendo el número de
pasajes descriptivos y reanimando los acontecimientos aumentando los
diálogos entre los personajes, obtendarian una obra teatral. Por lo tanto,
este escritor-novelista invitaba al lector a pasar de la biblioteca al
auditórium. En relación a este hecho, el autor R. W. Carrigan, hace
referencia a lo escrito por Meyerhold en su ensayo Фарс [La comedia]:
“¿El novelista necesita los servicios de un mimo? Claro que no. Los
propios lectores pueden subir al escenario, asumir un papel, y leer al
público en voz alta el diálogo de su novelista preferido. Esto es lo que se
denomina «una obra recitada armoniosamente». Al lector-transformadoen-actor se le da rápidamente un nombre y se acuña un nuevo término,
«un actor inteligente». El mismo silencio que reina entre el público es el
que se da en la biblioteca. Los espectadores se adormecen. Tal
inmovilidad y solemnidad es apropiada solo en una biblioteca.”
Según Carrigan, en todo este asunto se produce una cierta
sobrevaloración de forma intencionada. Según él, no se trata de suprimir
el discurso en el teatro. Es decir, no es que el lenguaje sea menos
importante en el teatro, sino que más bien la cuestión es cambiar su
papel. Dado que la única preocupación del teatro es realmente el modo
en el que los sentimientos y las pasiones luchan el uno con el otro, y el
85
hombre con el hombre, en la vida – Arrowsmith lo describe
perfectamente usando el término de «turbulence» - el lenguaje del teatro
se debe considerar como algo distinto a un medio para dirigir a los
personajes humanos a su realización exterior. Cambiar el papel del
discurso en el teatro significa usarlo en un sentido concreto y espacial,
combinarlo con cualquier otro elemento del teatro. En resumen, según
Carrigan “el lenguaje del teatro debe ser siempre gestual: debe nacer del
gesto, siempre se debe interpretar y nunca debe ser descriptivo. En el
momento en el que se sustituye la declaración por el proceso dramático,
el teatro muere.”
Este hecho, según Carrigan, puede parecer bastante alejado de los
problemas de la traducción, pero en su opinión no es así. Su razón es la
siguiente, “si en nuestros tiempos no somos capaces de dar una idea
sobre Esquilo, Sófocles y Shakespeare que sea realmente explicativa de
lo que estaban intentando conseguir con el teatro, probablemente hemos
perdido en sentido de su concreción en el teatro. Y esto se produce
porque se nos escapa el aspecto activo y directamente humano de su
modo de hablar y moverse, todo su ritmo escénico. No es suficiente tener
los textos de sus obras, porque ninguno de estos grandes autores de
tragedias es el propio teatro. El teatro siempre es cuestión de
materialización escénica en el espacio. Si queréis, llamadla «arte
inferior», pero como insiste Artaud, «en un cierto modo, el teatro
consiste en escenificar y animar el ambiente del escenario, a través de un
choque de sentimientos y sensaciones humanas hasta un cierto punto,
creando situaciones que se expresan con gestos concretos»”.
Teniendo en cuenta lo dicho, antes de afrontar los problemas
específicos de la traducción para el teatro, hay que dar un paso hacia
adelante tal y como propone Carrigan: “Y para esta parte del viaje vamos
86
a necesitar a un nuevo Virgilio: así Antonin Artaud cede su puesto a R.
P. Blackmur, aquel caballero refinado y crítico que ha guiado a muchos
hacia la crítica moderna. En concreto me refiero a su ensayo Language
as Gesture86 .En este ensayo, Blackmur nos dirige a esos reinos en los
que el lenguaje se convierte en gestual. Blackmur ve más allá de la
simple distinción en base a la que la lengua está formada por palabras y
el gesto está formado por movimiento, hasta llegar a la distinción
opuesta: «Las palabras están hechas de movimiento, de acción o
respuesta, a cualquier distancia; y el gesto está hecho de lenguaje – de un
lenguaje por debajo o más allá o en paralelo a la lengua de las
palabras»”.
Empezando por esta idea es posible para Blackmur considerar ese
concepto de suma importancia para cualquiera que escriba para el teatro:
«Cuando la lengua de las palabras tiene más éxito se convierte en gestual
en sus palabras». Según esto, Blackmur considera que el gesto no nace
de la lengua, sino que la precede, y en un cierto sentido el hecho de que
el contexto sea imaginativo o dramático lo debe llevar la propia lengua.
Es decir, sin calidad gestual, en la lengua no existe drama. Esto es así
desde cuando «la gran parte de nuestro conocimiento de la vida y de la
naturaleza – quizás todo nuestro conocimiento de su obra e interrelación
– llega a nosotros como un gesto, y nosotros somos maestros de la
habilidad de ese conocimiento antes incluso de ser capaces de un rima o
de un juego de palabras, o también de una simple frase». Más adelante,
Blackmur lleva a cabo la definición de lo que él entiende por «gesto en
el lenguaje». La definición original de Blackmur es la siguiente:
“Gesture, in language, is the outward and dramatic play of inward
and imaged meaning. It is that play of meaningfulness among words
86
Publicado en Accent en 1943 y vuelto a imprimir en un libro con el mismo título en 1952.
87
which cannot be defined in the formulas in the dictionary, but which is
defined in their use together; gesture is that meaningfulness which is
moving, in every sense of that word: what moves the words and what
moves us.”87
En base a esto, según Carrigan, en el momento en el que seamos
capaces de capturar esa capacidad en las palabras estaremos escribiendo
o traduciendo para los actores. Recogiendo las palabras de Carrigan, en
el teatro se escribe solo para los actores, nunca para los lectores. Incluso
echando una rápida mirada a la historia del teatro se demuestra que el
teatro pierde vitalidad, e incluso pierde literatura en el momento en que
los dramaturgos dejan de escribir para los actores. Por ejemplo,
Shakespeare es la prueba más evidente de lo que se acaba de decir pero
Esquilo, Sófocles, Eurípides o Moliere también podrían servir.
Shakespeare es el dramaturgo más importante en lengua inglesa y sus
obras son grandes obras de literatura, pero en realidad, él no estaba
escribiendo literatura; él escribía sobre todo para los actores; y, como ya
sabemos, escribía para actores concretos. Este es el eje principal de la
vitalidad duradera. Además, según Corrigan “Shakespeare nunca habría
creado algunas de sus escenas si no hubiese conocido a los actores que
tenían que interpretarlas. Y por lo que sabemos de los festivales griegos
y del teatro francés del siglo XVII, se puede afirmar que Sófocles tenía
su Burbage88 y Molière era su Will Kemp89.”
87
Blackmur R. P. 1952, Language as Gesture, New York.
Richard Burbage (1568-1619). Hijo del empresario James Burbage. Amigo de William Shakespeare
y compañero suyo en las compañías de las cortes isabelinas. Fue primer actor de hecho en The Lord
Chamberlain’s Men [“siervo de Lord Chamberlain”], la compañía teatral para la que componía
Shakespeare.
89
William Kempe (1560-1603). Actor teatral y bailarín británico, experto en el papel del payaso y
considerado por este motivo el heredero natural de Richard Tarlton. Kempe fue danzante cómico de
jiga y se dio a conocer en el Globe Theatre con la compañía teatral de Shakespeare, The Lord
Chamberlain’s Men.
88
88
Comparando lo que dice Carrigan con lo que sucede ahora, si nos
fijamos, en este momento el arte de escribir para los actores se ha
descuidado totalmente. La idea de que las obras se escriben para ser
interpretadas parece molestar a muchas personas, según Carrigan, que
añade “esta actitud es, en gran parte, una reacción a las prácticas de
interpretación del siglo XIX, che muy a menudo han demostrado ser
poco más que la prestidigitación de la técnica. En cada momento de la
historia del teatro se puede encontrar este tipo de magia. Los hombres
más culpables normalmente eran los actores; a menudo eran a los que se
les llamaba «grandes actores». A estos actores virtuosos no se les puede
condenar totalmente, dado que, con algunas importantes excepciones,
durante los últimos ciento cincuenta años, a los actores se les ha dado de
todo para interpretar, salvo obras teatrales: panfletos, tratados, artículos
de periódico, e incluso poemas épicos. Esto ha llevado a los actores, que
son animales con un fuerte instinto para la auto conservación y bastante
ingeniosos, a abandonar totalmente los textos literarios en favor de
situaciones apasionantes y llenas de suspense que les daban la
posibilidad de exhibir sus propias habilidades. Arte decadente, pero un
gran negocio.”
Es verdad que en la actualidad se valora a los actores por su
habilidad en la captación de la intención del dramaturgo en su
interpretación pero aún así, todavía se ve con desconfianza cualquier
obra que parezca escrita sobre todo para los actores. Según Carrigan esta
forma de pensar es totalmente equivocada dado que los actores son el
medio de expresión mejor del dramaturgo. Añade: “El poder del actor
reside en su humanidad, no como suponemos a menudo en su mente, en
su cuerpo, en su cara o incluso en su voz. Solo en el teatro, el artista se
puede dirigir a los hombres en cuanto hombres para comunicarse,
89
expresarse e interpretar. Nunca he entendido el motivo por el que el arte
del actor se disminuya por su transitoriedad. Seguramente la fuerza
emotiva de la representación del actor, esa cualidad que conmueve al
público, reside en el hecho de que posee su propia mortalidad, que ya se
ha ido al pasado irrevocablemente como cualquier acción humana. Es
justo por esta razón por la que la preocupación del actor se centra en el
conseguir, no la verdad, sino más bien la corrección. Hacer perfecta esta
corrección es su trabajo. El movimiento, el vestuario, el maquillaje, e
incluso las palabras son accesorios. Por lo tanto, lo que el actor pide a
una obra no son las palabras en forma de diálogo, sino un estímulo a su
imaginación. Es en ese momento en el que el dramaturgo y sus actores
confluyen por primera vez, y es importante recordar que el teatro es
siempre una confluencia. Esto es verdad para la representación y es
verdad para la creación de tal representación. Siendo el comediógrafo el
primer eslabón de la cadena de producción, está en su vanidad
reivindicar su creación. Su obra nunca sería una obra teatral si se
quedase solo en un conjunto de palabras en un papel. Es por esa razón
por la que el comediógrafo – y también el traductor – no pueden
preocuparse verdaderamente por la «buena prosa » o por el «buen verso»
en el sentido estricto de la palabra.”
Según el autor, la estructura es acción; lo importante es no lo que se
dice ni cómo se dice sino cuándo se dice. Por ejemplo algunos de los
usos estructurales del lenguaje dramático con el soliloquio, pasajes
corales, diálogos de un verso, diálogo indirecto y pausas. De este modo,
es posible controlar desde el interior del texto de la obra la velocidad y el
ritmo exacto que normalmente impone el director. Con lo que solo si
entendemos la dinámica teatral de la obra así, los actores pueden ver la
forma dramática de la parte individual en el interior de una escena, en
90
vez de verse obligados a confiar en su intuición que a menudo es falsa y
que alguna vez lleva a una alteración de la obra.
Por lo tanto, el factor fundamental e inalterable del drama es el
“cuando”, y la primera preocupación del dramaturgo debe ser ese
momento de la acción. Si no se cuida este factor, que es lo que suele
ocurrir, serán el director y los actores los que lo impondrán. Es decir, el
dramaturgo debe crear no solo el diálogo sino también lo que se hace y
cuándo se hace.
Recientemente, comediógrafos y críticos en la misma medida, se
han ocupado del tema del estilo a la hora de escribir para el teatro. Estos
estudios se refieren casi siempre a la forma de la palabra hablada aunque,
según Carrigan, “esto es un error puesto que el punto de partida no son
las palabras”. Actualmente los nuevos comediógrafos finalmente tienen
esta percepción, lo que representa una gran esperanza para el teatro.
Siguiendo a Carrigan: “Nosotros mismos nos debemos ocupar en primer
lugar de los gestos que producen los motivos que se encuentran tras las
palabras. Eso nos recuerda la vieja y humorística máxima del teatro que
dice que: no hay que prestar atención a las indicaciones escénicas del
comediógrafo. (En este sentido es interesante subrayar, ya que pienso sea
el eje central de mi discurso, que en las obras griegas, o de Shakespeare,
o de Moliere no existen indicaciones escénicas, salvo las entradas y
salidas de escena. El motivo, es que el significado y los gestos se
encuentran en las propias palabras).” De todas formas, en el teatro
moderno, las indicaciones escénicas son el principal medio de
comunicación entre el dramaturgo y los actores. Tales indicaciones no
deben en ningún modo sustituir el trabajo90 del director diciendo al actor
90
Se denomina «blocking» o «staging»: «the precise moment-by-moment movement and the grouping
of actors on stage». La inmovilización se basa en la paralización in situ de fuerzas representadas por
91
dónde moverse y cómo sentarse. Y ni siquiera deben enseñar al actor
como leer su papel “pensativo”, “amargado”, “alegre”. (En relación a
este punto, Carrigan se refiere a Eugene O’Neill cuyo lenguaje
«monotono» no tenía prácticamente ninguna cualidad emotiva por lo que
le era necesario añadir un prefijo cercano a cada diálogo con una
indicación de escena para indicar al actor cómo debía leer las palabras,
que de por sí no tenían ningún poder emocional).
La definición y aplicación de líneas de actuación escenográficas nos
permite reforzar las palabras. Son directrices que conducen el tema y la
acción entre las partes individuales y cuando entran en juego en la
representación se convierten en partes de la obra al mismo nivel que las
palabras que pronuncia el actor.
Ante esta reflexión el lector podría preguntarse si yo soy consciente
del hecho de que debo desarrollar un tema sobre la traducción y no sobre
la escritura de obras teatrales. Creedme, lo soy; sin embargo, creo
firmemente que nadie puede traducir para el teatro – y que nadie pueda
escribir para él – si no sabe lo que significa escribir para el teatro y qué
diferencias hay entre esto y la narración. Me apresuraré por lo tanto a
demostrar que nadie, que nunca haya recibido formación en un contexto
de práctica teatral, podrá ser autor de buenas traducciones de obras
teatrales. La falta de esa formación llevaría a traducir solo las palabras y
sus significados. Con ese método nunca se conseguirían traducciones
los actores que se contraponen en el escenario para lograr un equilibrio. Si lo traducimos en términos
de movimiento significa control absoluto de todas las secciones del cuerpo por parte del actor. Se
retoma aquí el concepto de Übermarionette [Supermarioneta] de Edward Gordon Craig, en el que el
actor es efectivamente concebido como una marioneta que se deja llevar por el director una vez
estudiado y controlado su propio cuerpo. «El artista (o la Supermarioneta) es el actor que se ocupa de
recordar en cada detalle, y de repetirlo siempre igual, su personal recorrido físico y verbal. Así el actor
es capaz de crear una materia paradójicamente sólida sobre la cual el director, cuando esté presente,
pueda trabajar» [Schino 2001: 71].
92
aptas para ser recitadas, que es, al fin y al cabo, la finalidad esencial de
este trabajo.
En función de estas consideraciones nos preguntamos: dado que
para los actores traducir es una labor diferente... ¿cuáles son las técnicas
y los problemas concretos?
La primera regla de la traducción para el teatro es que cualquier
cosa puede ser hablada. Para el traductor es siempre necesario escuchar
mentalmente al actor que habla. Debe tener conciencia de los gestos que
acompañan a la voz que recita, del ritmo, de la inflexión de la voz, de la
pausa. Tiene que tener en cuenta así mismo del aspecto, de sus
sentimientos, del movimiento del actor mientras habla. Debe, en
resumidas cuentas, comunicar la acción completa de la escena así como
se quiere transmitir. Para ello es importante saber qué objetivo tienen las
palabras y lo que significan, pero todavía es más importante ser
conscientes de lo que no deben generar en esos momentos cruciales en
los que el actor está por manifestar un gesto vocal o físico.
Solo de esta manera el traductor consigue percibir las palabras de la
manera en la que se dirigen entre ellas mismas con armonía o en
contradicción, según el esquema establecido, y por lo tanto con un
sentido teatral. Lo que quiero decir, quizás, es que más que dirigir una
obra es necesario recitar la obra y observarla mientras se está
traduciendo.
Me tomé interés por la traducción en el teatro por necesidades
prácticas. Hace algunos años me pidieron que dirigiera una producción
de Chéjov, Дядя Ваня [Tío Vania]. Contaba con un reparto excelente y
decidí aplicar lo que habitualmente se consideraba la mejor traducción
de Chéjov. Las primeras pruebas de literatura fueron espantosas. Al
principio creí que aquello era una costumbre y que los actores habrían
93
superado aquella rigidez. Después de todo, la traducción tenía su sentido
lógico. Pero enseguida – tuve la gran suerte, aunque poco común, de
tener tres meses por delante para preparar el espectáculo – los actores
inconscientemente se pusieron a improvisar las entradas. Sonaban mejor,
se entreveía una corriente. Hoy, las obras de Chéjov, por tradición, se
consideran volubles, complejas, profundas, nebulosas e imposibles de
representar con éxito en el escenario estadounidense. De cualquier modo,
mis actores estaban demostrando que no era así necesariamente.
Entonces me acordé de los problemas de Chéjov con Stanislavski y de
cómo el comediógrafo siempre se obstinaba con que el gran directoractor se dedicaba a complicar lo que en realidad era muy sencillo91. Y
entendí además que las traducciones no reflejaban aquella sencillez sobre
la que insistía Chéjov. En lugar del «But what for?»92 del texto en la
traducción encontrábamos «though what his provocation may be I can’t
imagine»93. O mejor «There is another thing too you take a drop of
vodka now», cuando Chéjov había escrito simplemente: «And you drink
too». O por último, «as if the field of art were not large enough to
accommodate both new and old without the necessity of jostling»; él
había escrito: «but there’s room for all».
Pero se me encendió de repente una bombilla cuando decidí que al
significado y a la complejidad de sus obras – que es enorme – hay que
llegar indirectamente. Cuando Chéjov escribió:
91
Por ello, me atrevería a decir que muy probablemente Stanislavski y la tradición del Teatro del arte
de Moscú han contribuido a desfigurar nuestra idea sobre Chéjov mucho más que cualquier otro grupo
o individuo, lo que pone de manifiesto cuánto un traductor debe ser ante todo un crítico. En mi
opinión, no es una casualidad que las mejores traducciones de las tragedias griegas que a menudo se
denominan “Chicago” hayan sido realizadas por dos de los mejores críticos de tragedia griega de
nuestros tiempos. Y al decir esto me doy cuenta de repente de que acabo de crear una especie de
Craig-hiana Übermarionette [Supermarioneta]: el traductor es escritor, director, actor, espectador, y
ahora incluso crítico. ¿Para qué nos sirve un teatro? Si todos los traductores se unieran el teatro
pasaría de moda cada quince días y todos nuestros problemas se resolverían.
92
NdT: Pero, ¿para qué?
93
NdT: no puedo imaginar lo que podría ser su provocación
94
“Es necesario que el héroe o la heroína (de una obra) demuestren
una eficacia dramática relevante. Solo que en la vida real las personas no
se disparan a sí mismas o se ahorcan o se enamoran o se aplican
proverbios a sí mismos cada dos por tres. Pasan la mayor parte del
tiempo comiendo, bebiendo, acosando a las mujeres o a los hombres, o
simplemente diciendo tonterías. Por lo tanto, esto es lo que se espera ver
en el escenario. En una obra debe quedar constancia escrita de que las
personas van, vienen, cenan, comentan el tiempo o juegan a las cartas no
porque el autor lo quiera sino porque esto es lo que ocurre en la vida
real. La vida en el escenario tiene que ser como realmente es y también
las personas deben reflejarse como son y no de manera postiza.”
Intentaba decirnos que sus acciones dramáticas se recogen todas en un
marco básico caracterizado por la sencillez. Los matices de la vida
aparecen reflejados desde una visión familiar y con estupidez natural. En
un acontecimiento en sí, hay bien poco dramatismo. Lo que convierte
estos episodios en un teatro rico de fuerza es la peculiar encrucijada de
secuencias, asociaciones implícitas, contrastes e ironía. De esta manera
se transmite un significado profundo. Pero si esta teoría vale para
entender la dramaturgia, debe valer también para interpretar las entradas.
Es decir, me da cuenta de que la traducción debía resultar fácil y natural.
La profundidad y el significado interior pueden y deben manifestarse
solo de forma teatral y no enunciativa, a través de sencillas interacciones
superficiales y no de entradas complejas y ambiguas, o de lo que Stark
Young llamó una «muggy, symbolic, swing-on-to-your-atmosphere sort
of tone».
Quizás pueda expresar mejor el concepto con un ejemplo. En el
tercer acto de Tío Vania observamos un largo discurso del profesor
Serebriakov, aquel meticuloso retrógrado que pasó su vida masticando
95
las ideas ajenas en los “-ismos” de la literatura, y que día a día
transforma su incapacidad y su inconsciente sentimiento de frustración
en actos de crueldad contra los que le rodean. En este discurso anuncia
su plan de vender la finca en la que Vania trabajó duramente para
mantenerla productiva. Cito la que, en mi opinión, es la mejor traducción
de este discurso:
“Aquí tenemos también a «maman». Empiezo a hablar. (Pausa.) Les
he invitado, señores, a venir aquí con el fin de comunicarles que viene el
inspector... Pero, bueno... Dejemos a un lado las bromas; el asunto es
serio. Les he reunido con el fin de solicitar su ayuda y consejo..., cosas
ambas que, conocida su proverbial amabilidad, espero recibir. Soy
hombre de ciencia, de libros... Y, por tanto, me mantuve siempre ajeno a
la vida práctica. No me es posible, pues, prescindir de las indicaciones de
gente ducha en la materia..., por lo que te ruego, Iván Petrovich, y ruego
a ustedes, Ilia Ilich y «maman»... Es el caso que «manet omnis una
nox»..., o sea, que todos dependemos de la providencia de Dios... Yo soy
ya viejo y estoy enfermo..., por lo que considero llegada la hora de
ordenar mis bienes en cuanto estos se relacionan con mi familia. No
pienso en mí. Mi vida acabó ya, pero tengo una mujer joven y una hija.
(Pausa.) Seguir viviendo en el campo es imposible. No estamos hechos
para el campo. Ahora bien..., vivir en la ciudad, con los ingresos que
produce esta finca, tampoco es posible. Suponiendo, por ejemplo, que
vendiéramos el bosque, esta sería una de esas medidas extraordinarias
que no pueden tomarse todos los años... Es preciso, por tanto, encontrar
un medio que nos garantizara una cifra de renta fija más o menos segura.
Así, pues, habiéndoseme ocurrido cuál podría ser uno de esos medios,
tengo el honor de someterlo a su juicio... Pasando por alto los detalles,
les explicaré mi idea en sus rasgos generales... Nuestra hacienda no
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rinde, por término medio, más del dos por ciento de renta. Propongo
venderla... Si el dinero obtenido con su venta fuera invertido en papel del
Estado, podríamos obtener de un cuatro a un cinco por ciento, e incluso
creo que podría conseguirse algún «plus» de varios millones de rublos,
que nos permitirían comprar una «dacha» en Finlandia”.
Ante todo, ni siquiera Houdini habría conseguido limitar estas
acepciones y ningún autor habría conseguido resultar convincente. Pero,
aún más importante, a la traducción le faltaban el tono y el significado de
la escena en su conjunto. Aquí introduce a un malvado profesor que se
presenta con su perorata en el Rotary Club. Expresiones amaneradas de
las que se ven sobre un pódium, las bromas, las frases de mal gusto,
hacer uso del resumen, los intentos meticulosos por no resultar
meticuloso…, todo esto se desecha o de forma equivocada se sustituye
con prolijos discursos. Además de esto, a la traducción le falta la calidad
retórica de la entrada – la forma teatral en la que el orador se refleja.
Como T. S. Eliot comentó en el ensayo Rhetoric and Poetic Drama, lo
que todos nosotros tenemos en común es esta tendencia a ser retóricos lo
que puede ser de gran ayuda para el dramaturgo moderno porque permite
enseñarle al público un personaje no solo tal y como lo ven otros
personajes sino como el mismo personaje de forma consciente se auto
dramatiza. El discurso, sin embargo, debería ser:
“Here is mother. Ladies and gentlemen, let us begin. I have asked
you to gather here, my friends, to inform you that the inspector-general
is coming. (laughs) All joking aside, however, I wish to discuss a very
important matter. I must ask you for your aid and advice, and realizing
your unbounded kindness, I believe I can count on both. I am a scholar
and bound to my library, and I am not familiar with practical affairs. I
am unable, I find, to dispense with the help of well-informed people such
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as you, Ivan, and you, Ilya, and you mother. The truth is, manet omnes
una nox, that is to say, our lives rest in the hands of God, and as I am
old and ill, I realize that the time has come for me to dispose of my
property in the interests of my family. My life is nearly finished, and I am
thinking of myself, but I must consider my young wife and daughter. (a
pause) I cannot go on living in the country; we were just not meant for
country life. We might sell the forests, but that would be an expedient to
which we could not resort every year. We must work out some method of
guaranteeing ourselves a permanent, and . . . ah, more or less fixed
annual income. With this object in view a plan has occurred to me which
I now have the honor consideration. I shall give you only a rough outline
of it, omitting all the othersome and trivial details. Our estate does not
yield, on an average, more than two per cent on the investment. I
propose to sell it. If then we invest our capital in bonds and other
suitable securities, it will bring us four to five per cent, and we should
probably have a surplus of several thousand roubles, with which we
could buy a small villa in Finland ...”
Se obtiene teatro solo cuando se consigue un texto apto para la
disertación. El autor está seguro de que ésta es una de esas cosas a las
que se refería Hamlet cuando se dirigía a sus actores: «Speak the speech,
I pray you… trippingly on the tounge». Una vez asumida esta teoría,
creo que los traductores no utilizan bien un recurso importante: los
actores mismos. He coordinado personalmente todas mis traducciones de
Chéjov y, de una vez para otra, los actores han efectuado o me han
sugerido variaciones que han mejorado mucho la traducción. Para
empezar, dos ejemplos modificados, aunque en menor medida, por los
actores que no hicieron otra cosa que mejorar el flujo de las palabras. En
origen tenía «It is too stifling». El actor propuso «The day is too hot».
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En otro párrafo «will they remember us in a kindly spirit?» dice
«will they remember us with grateful hearts?». Sin embargo, los actores
pueden aportar variaciones que alteran la dinámica completa de una
escena. Cuando dirigí Три сестры [Tres hermanas], durante tres
semanas intenté construir en vano la última escena del tercer actor de
forma aceptable, o por lo menos construirla. Mis tres hermanas eran
excelentes actrices y todas contaban con una buena experiencia y
formación profesional. Sabía que había que empezar a construirla con
uno de los discursos de Irina, pero no había modo. Llegó una tarde en la
que la actriz modeló el discurso a su manera y por sí sola empezó a darle
forma a la escena; era lo que queríamos. Fue solo después que me di
cuenta de que había cambiado una de las entradas, y de este modo su
modificación había convertido el discurso, y por consiguiente el resto de
la escena, en dramático. La entrada original era «Oh, I’m so miserable! I
can’t work, I won’t work! I’ve had enough of it, enough!» sin embargo,
la actriz había recitado «I’m miserable (pause). I’ve had enough, enough,
enough. I can’t, I won’t, I will not work», y obtuvo así una estructura
que se podía construir con la voz. Por supuesto, no pretendo dejar caer la
idea de que se efectúen variaciones arriesgadas o variaciones que alteren
el significado del discurso. Más bien de que un actor – al pronunciar su
entrada – puede proporcionar una gran ayuda al traductor para que le
permita recitar con más facilidad.
Además de conseguir un texto más apto para ser hablado, el
traductor tiene que estar también dispuesto a salvar alguna parte. Está
claro que, por necesidad, todas las traducciones son imperfectas. Como
decía Eric Bentley, «If life begins on the other side of despair, the
translator’s life begins on the other side of impossibility!».
Especialmente para Chéjov esta es una gran verdad pues sus obras se
99
entretejen con fineza y se basan en rasgos peculiares de la cultura rusa.
Por ejemplo, en el segundo acto del Tío Vania observamos la entrada del
guardián. Es un toque de inmenso realismo pero funciona también como
símbolo para la acción. Se utiliza en ese momento crucial al final del
acto, cuando Elena y Sonia acaban de terminar de confesarse con toda su
franqueza y justo por esto son capaces de experimentar una emoción.
Las ventanas están abiertas, llueve y todo se ve limpio, lleno de frescor.
Elena piensa que podrá volver a tocar el piano. Cuando Sonia va a pedir
permiso, se oye el toque del guardián, Elena tiene que cerrar la ventana y
Serebriakov dice «no». Toda su vida sentimental transcurre protegida
por un guardián, por lo que no deja lugar a ningún tipo de sentimiento.
De cualquier modo, cuando se reproducen esos sonidos en el ambiente,
el público percibe con dificultad su importancia pensando que el ruido
está provocado por las tuberías del auditorio. Lo mismo ocurre con
algunas alusiones culturales de Tres hermanas. La única forma de que
sean comprensibles es escribiendo notas a pié de página o un programa
para repartir en sala. No quiera Dios que tengamos que hacer ni una cosa
ni otra. Si las obras se decoran como es debido estos efectos impactarán
seguramente al público, o incluso llegarán a comprenderlos.
Pero sin embargo, hay un fragmento que habría que evitar. Por
ejemplo, en una de las traducciones publicadas por Tío Vania la escena
del disparo no se presenta correctamente. La versión difundida es:
“¡Déjeme, «Helène»! ¡Déjeme! (Logrando soltarse de ella, entra
precipitadamente y busca con los ojos a Serebriakov.)
¿Dónde está? ¡Ah! ¡Está aquí! (Apuntándole disparando.) ¡Pum!...
(Pausa.)
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¿No le he dado? ¿Me falló otra vez el tiro? (Con ira.) ¡Ah diablos!
¡Diablos!... (Golpea con la pistola sobre la mesa y se deja caer, agotado,
en una silla. Serebriakov parece aturdido, y, Elena Andreevna, presa
de un mareo, se apoya contra la pared.)”
Ningún traductor se ha dado cuenta de que en el texto ruso Vania
no aprieta el gatillo de la pistola sino que dice «Bang!». Llega a ser tan
incapaz de actuar que ni siquiera cuando se está jugando la vida consigue
actuar y recurre a las palabras.
Es un caso en el que el sentido de la obra se altera drásticamente
porque el traductor no se da cuenta de que la visión chejoviana de ese
horrible momento es más verdadera que cualquier otra lógica
simplificativa.
En el último punto de mi exposición quiero dejar constancia de que,
además de dirigirse a los actores, la traducción debe estar escrita en un
buen inglés. No quiero dejarme influenciar por la diatriba versión libre
contra versión filológica, pero es evidente que el traductor no tiene por
qué respetar una correspondencia palabra por palabra. Si razonáramos
palabra por palabra en francés «For crying out loud!»no se podría
traducir. Creo que Bentley tiene razón cuando declara:
“Accuracy must not be bought at the expense of bad English. Since
we cannot have everything, we would rather surrender accuracy than
style. This, I think, is the first principle of translating, though it is not yet
accepted in academic circles. The clinching argument in favor of this
principle is that, finally, bad English cannot be accurate translation
unless the original is in bad German, bad French, or what have you.”
Sin embargo, preocuparse por un buen inglés quiere decir intentar
colocarse siempre en el lugar del comediógrafo. Cuando éste usa
repeticiones deberíamos usarlas también nosotros, no tacharlo de prolijo.
101
Al fin y al cabo en el «Tomorrow and tomorrow and tomorrow» de
Macbeth es evidente que lo que cuenta no es el significado de las
palabras sino el sentido que éstas asumen en la repetición en aquel
contexto. Lo mismo vale para todas las demás expresiones de la lengua,
juegos de palabras, rimas, aliteraciones. O cuando un comediógrafo se
equivoca al citar un autor o una canción el traductor no debe corregir el
error del autor. Chejov, por ejemplo, pone continuamente en boca de sus
personajes citaciones de Shakespeare aunque a menudo son citaciones
erróneas. Su inexactitud es lo que le da sentido. Pero aun con toda su
buena voluntad los traductores de Chejov siempre han considerado que
los conocimientos de inglés del pobre Antón Pávlovich no fueran muy
allá e intentaban por lo tanto ir en su ayuda corrigiendo sus intentos
imperfectos. Por último, es importante recordar que el sentido global en
el discurso teatral depende en parte de su duración, y que en la escritura
teatral el ritmo lo marca la respiración. Por ello en lo que es posible el
traductor debe mantener sin variaciones el número de las sílabas de la
entrada.
Dejadme que para terminar diga que si nos mantenemos firmes en
la idea de que el lenguaje teatral debe representar una necesidad, como
resultado de una serie de compresiones, colisiones, fricciones
escenográficas y evoluciones, tendrá éxito siempre y cuando se base en
los gestos. «Language as gesture», como indicaba Blackmur, «creates
meaning as conscience creates judgment, by feeling the pang, the inner
bite, of things forced together», y éste es el conflicto que nosotros
definimos «dramático», el conflicto que encuentra mejor su lugar de ser
en el teatro.
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BIBLIOGRAFIA
Čehov, A. 1991 Zio Vanja, Torino: Einaudi
Osimo, B. 2004 Manuale del traduttore, Milano: Hoepli.
Pavis, P. 1998 Dizionario del teatro, edición italiana realizada por
Paolo Bosisio, Bologna: Zanichelli.
Peja, L. 2004 La supermarionetta, artículo disponible en la página
http://www.piccoloteatro.org/elementi/articolo.php?idRub=4&news=78
Milano: Annamaria Cascetta, última actualización de abril 2004,
consultado en febrero de 2009.
Schino, M. 2001, «Teorici, registi e pedagoghi» en Storia del teatro
Einaudi, vol. III, Torino: Einaudi.
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