Quando il godimento diventa routine.la cultura di consumo …

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Quando il godimento diventa routine: la cultura di consumo tra iperstimolazione e
disciplina
di Pierluigi Musarò
Premessa
Nonostante dietro gli oggetti di consumo che riempiono la nostra esistenza quotidiana si
nascondano valori e significati in grado di influire sul nostro immaginario, sulle relazioni sociali,
sulla formazione dell’identità individuale e collettiva, sulla stessa organizzazione del territorio, che
si struttura come luogo di consumo e di produzione; i nostri atteggiamenti dinanzi a questo processo
(il consumo) oscillano spesso tra posizioni contraddittorie.
Da un lato, infatti, all’espandersi delle pratiche di consumo viene associata la crisi di un’epoca
caratterizzata da “un’ambiguità morale profondamente sentita. Un’epoca che – così la descrive
Bauman - ci offre una libertà di scelta mai goduta prima, ma che ci getta anche in uno stato di
incertezza mai prima d’ora così angoscioso”1 . Crisi che l’intellettuale polacco identifica, appunto,
con l’avvento della cosiddetta società dei consumi, vista come la società che incarna i vizi
dell’epoca attuale: edonismo e superficialità, massificazione e insoddisfazione, depravazione e
disordine morale. Al punto che per ‘società dei consumi’ non si intende una entità corrispondente
alla somma totale dei consumatori, bensì una totalità, per usare un’espressione di Durkheim, più
grande della somma dei suoi costituenti. “E’ una società che – scrive Bauman – ‘interpella’ i suoi
membri principalmente, se non esclusivamente, come consumatori; una società che giudica i suoi
membri soprattutto in relazione alla loro condotta e alla loro capacità di consumo”2 . Una società
che, a differenza di quella precedente a centralità produttiva, dischiude ai propri consociati
l’apoteosi del vuoto normativo, seppur in “tecnhicolor”3 .
Dall’altro lato, proprio nell’area esperienziale del consumo, ormai una delle aree esperienziali
centrali del nostro vivere, altri autori individuano una nascente etica della responsabilità, una
progressiva presa di coscienza che conduce ad un superamento della ricerca del piacere effimero e
ad una autodisciplina che muove dalla vita personale del singolo consumatore per influenzare la vita
sociale ed economica, compresa la sfera produttiva e politica. Non mancano, d’altronde, studi e
ricerche empiriche a supportare la tesi di una maggior consapevolezza del “valore sociale” dell’atto
di consumo, una maggior disponibilità ad una graduale semplificazione del proprio stile di vita, e
una crescente valorizzazione di comportamenti “socialmente responsabili”. Al punto che da più
1
Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 26
2
Z. Bauman, I consumatori in una società liquida e moderna, atti del convegno Cum Sumo, Bologna, 7-8 ottobre
2004.
3
G. Lipovetsky, L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo, Luni editrice, Milano, 1995.
1
voci si ode l’affermarsi di una nuova tipologia di cittadino-consumatore (o anche consum/attore),
caratterizzato per essere sensibile al bene collettivo oltre che a quello personale, disponibile a
comportamenti “pro-sociali”, interessato alle tematiche ambientali e soprattutto disponibile a
partecipare alla vita pubblica attraverso le scelte di consumo 4 .
L’intento di questo breve saggio è dunque mettere in relazione letture diverse che possano
fornire un contributo valido nel ragionare in termini critici sul nostro rapporto con le merci, con le
pratiche di consumo e con gli stessi luoghi del consumo, svelando quel che vi è di datato nei nostri
atteggiamenti. L’auspicio è di riuscire a sollevare alcuni nodi problematici che caratterizzano il
nostro vivere quotidiano nella società dei consumi.
1. Per uno sguardo tridimensionale sul consumo
“La nostra è un’epoca caratterizzata da un’ambiguità morale profondamente sentita. Un’epoca
che ci offre una libertà di scelta mai goduta prima, ma che ci getta anche in uno stato di incertezza
mai prima d’ora così angoscioso”. Così Bauman descrive la situazione del mondo sociale
contemporaneo.
Che ruolo ha il consumo in questa epoca di crisi? E rispetto al senso di incertezza diffuso?
“L’ingresso nella società dei consumi significa, più di ogni altro cambiamento sociale, l’uscita dalla
società moderna”5 . Sebbene, apparentemente, molti studiosi sottoscriverebbero questa affermazione
del sociologo francese, meno chiaro appare il significato che ognuno di essi attribuirebbe alla stessa.
La natura della frase è, d’altronde, paradossale. Che cosa contrappone, infatti, così radicalmente la
società dei consumi e la società moderna? Le caratteristiche del consumo sono di per sé in contrasto
con i tratti essenziali dell’epoca moderna, o si è invece verificato un cambiamento generale, di cui il
consumo è tutt’al più un indicatore privilegiato? Per rispondere a questi interrogativi è necessaria
una chiarificazione del significato del consumo, un’analisi che riveli le diverse dimensioni e valenze
che questi porta con sé, soprattutto alla luce di quelle che sono state le caratteristiche della
modernità (razionalizzazione e soggettivizzazione, secondo Touraine).
Se è vero che siamo usciti dalla modernità per entrare nella società dei consumi, sarà soprattutto
attraverso un riconoscimento di quello che è in gioco nel consumo che potrà essere indagata la
società postmoderna e, in particolare, l’emergere di processi viziosi e virtuosi che sembrano
caratterizzarla. Eppure, al contempo, per capire la posizione del consumo e il ruolo svolto dallo
stesso, occorrerà situarlo all’interno dell’agire umano, dei sistemi (politici, economici, culturali,
4
I primi segnali dell’emergere di questa nuova tipologia di cittadino-consumatore si trovano già in Buckley N., Raise
of the Ethical Consumer, in “Financial Times”, 27 aprile 1995; Dunne N., Burch S., Clinton Moves on Sweatshops, in
“Financial Times”, 5 agosto 1996. Per i risultati delle indagini più recenti, una raccolta significativa la si può trovare in
R. Paltrinieri e M. L. Parmigiani (a cura di), Sostenibilità ed etica, Carocci, Roma, 2005.
5
A. Touraine, 1993, Critica della modernità, Milano, Il Saggiatore, p. 174
2
religiosi) in cui è inserito, dell’ecosistema più ampio in cui viviamo. Solo così potremo disvelarne il
potenziale esplicativo, senza ridurlo a dimensioni uniche e/o in analisi univoche.
Occorre prendere atto, infatti, da un lato che il consumo ha origini antichissime ed è stato
“oggetto di riflessione secondo chiavi a tutt’oggi interessanti anche in tempi antecedenti la
rivoluzione tecnologica”6 . Dall’altro lato, però, la maggior parte delle riflessioni sull’argomento,
che considerano la Rivoluzione industriale come momento d’inizio delle riflessioni sul consumo 7 ,
hanno avuto la tendenza a circoscriverlo e ridurlo “ad una dimensione”, misurandolo in termini di
utilità e/o felicità individuale e collettiva, oppure a giudicarlo, condannandolo come spreco, fonte di
alienazione e falsa coscienza. Tendenza che, con l’entrata nella società postmoderna, sembra
destinata a convivere con altre descrizioni che, al contrario, ne enfatizzano altri aspetti,
prevalentemente di tipo culturale e simbolico. E ciò, con tutta probabilità, è potuto avvenire perché
le griglie concettuali imposte dai “paradigmi moderni” hanno allargato le loro maglie.
Se, infatti, la società moderna aveva relegato il consumo ad una nota della sinfonia suonata
secondo lo spartito proposto dalla logica della produzione capitalista 8 , relegandolo dunque a
fenomeno asservito alle logiche della produzione e descrivendolo quasi esclusivamente in termini di
funzionalità, status symbol, indicatore di prestigio e classe sociale, quando non come vera e propria
alienazione; con il passaggio al postmoderno, avviene non solo una “graduale conversione da una
società orientata alla produzione ad una società rivolta al consumo”9 , che porta ad una progressiva
neutralizzazione del consumo sotto il profilo ideologico 10 , ma allo stesso viene riconosciuta una
nuova legittimazione sociale, tanto da assumerlo come elemento centrale per nuovo paradigma
interpretativo dei fondamentali cambiamenti che avvengono nella società. Lo stesso Ritzer, che non
facciamo fatica ad annoverare tra i detrattori del consumo, afferma che: “nelle epoche precedenti
erano i mezzi di produzione a predominare, ma al giorno d’oggi la supremazia è passata ai mezzi di
consumo, così che il centro commerciale ha rimpiazzato la fabbrica come struttura caratteristica
dell’epoca”11 .
Se riconosciamo, dunque, tra le caratteristiche della società postmoderna, lo slittamento del
binomio produzione- lavoro verso una maggiore centralità del processo di consumo (che include la
produzione ma non si esaurisce in questa), dobbiamo riconoscere al consumo la possibilità di
ampliare il proprio potenziale di autonomia. Non solo e non più solo linguaggio della produzione, il
consumo diviene oggi linguaggio di se stesso. Come suggerisce Di Nallo, “i termini utilità,
6
Di Nallo E. (a cura di), 1997, Il significato sociale del consumo, Roma–Bari, Laterza, p. 5.
Codeluppi V., 2003, La sociologia dei consumi. Teorie classiche e prospettive contemporanee, Carocci, Roma
8
Di Nallo E. (a cura di), 1997, p. 14.
9
Fabris G., 1970, Il comportamento del consumatore: psicologia e sociologia dei consumi, Angeli, Milano, p. 16
10
Fabris G., Il nuovo consumatore verso il postmoderno, Angeli, Milano, 2003, p. 64
11
Ritzer G., La religione dei consumi, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 197
7
3
individualità e convenienza, che avevano connotato la ricerca sul consumo, vengono a perdere il
loro monopolio di quadri di analisi, a favore di categorie più vaste e soddisfacenti” 12 . Il consumo
appare così nella sua veste di linguaggio 13 , in grado di oggettivare categorie e, attraverso i suoi
rituali, rendere intelligibile il mondo e dare un senso al flusso indistinto degli eventi14 . Interpretato
come rituale comunicativo, il linguaggio del consumo permette di selezionare e stabilire i significati
condivisi, tracciando così definizioni collettive visibili e valori indispensabili per la comunicazione
intersoggettiva, la cui natura normativa, permette di inserirlo nel processo intersoggettivo di
costruzione della realtà sociale.
Riconoscere al consumo le proprietà del linguaggio, nelle sue dimensioni - cognitiva, normativa
e, soprattutto, produttiva 15 – significa riconoscere la sua capacità poietica, creativa, produttiva, di
elemento indispensabile nel processo di oggettivazione e risoggettivizzazione della cultura,
dell’orizzonte simbolico di un individuo, in quanto inserito all’interno di una realtà intersoggettiva.
Tematizzare il processo di riappropriazione simbolica 16 , permette di comprendere come le pratiche
di consumo divengano luoghi fondamentali del processo di costruzione intersoggettiva non solo
della realtà, ma, in quanto tale, anche del soggetto, della sua identità sociale 17 . Letto alla luce delle
diverse dimensioni che lo caratterizzano, il consumo, nelle sue pratiche di rituale, da un lato apre la
possibilità per il soggetto di utilizzare le merci per la costruzione del proprio sè; e dall’altro, grazie
alla sua capacità di definire e ridefinire simboli e significati (dunque, valori), contribuisce alla
costruzione di una base consensuale minima della società. Per dirla con Mary Douglas, “il consumo
è un’attività di produzione congiunta, con gli altri consumatori, di un universo di valori” 18 .
Il postmoderno riconduce, dunque, il consumo alle ambi- valenze che da sempre lo hanno
connotato, già presenti, fra l’altro, nella stessa etimologia del termine: da un lato cumsumere e/o
cumsumma, che rievoca le antiche valenze religiose e riporta a una circolarità giocata fra le cose gli
uomini e Dio; dall’altro distruzione, logorio, annullamento, consunzione finale di un bene, come
descrizione di un processo entropico che conduce sempre dall’ordine del prodotto manufatto ad un
disordine irreversibile, conseguente alla sua fruizione e al soddisfacimento di un bisogno 19 ;
accezione che porta implicito quel concetto di spreco che ha, da sempre, alimentato la posizione
anticonsumista.
12
Di Nallo E. (a cura di), 1997, p. 44
Paltrinieri R., 1998, Il consumo come linguaggio, Milano, Angeli
14
Douglas M., Isherwood B., 1984, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Il Mulino, Bologna
15
R. Paltrinieri, 1998.
16
De Certau M., 1980, The practice of Everyday Life, University California Press
17
Parmiggiani P., 2001, Consumatori alla ricerca di sé, Angeli, Milano
18
Douglas M., Isherwood B., 1984, p. 74
19
Tirelli D., 1996, Elementi di socioeconomia dei consumi, Coopli IULM, Milano
13
4
2. Rovesci e diritti del consumo
E’ tra le ambi-valenze di cui il consumo è portatore, dunque, che conviene destreggiarsi.
Un’analisi delle relazioni tra merci, consumatori, imprese e organizzazione del territorio ci
costringe a prendere atto di come il processo di consumo sia entrato pienamente nel territorio
dell’etica e della politica. Con tutti i suoi rovesci e i suoi diritti.
Un’idea comunemente diffusa è che il processo di mercificazione possa intaccare
pericolosamente, se non sottoposto a critica culturale e ad un cont rollo sociale, lo spazio pubblico e
le forme spontanee di associazione affettiva. Al contempo, però, proprio in funzione dell’estendersi
del mercato capitalistico, il consumo diviene oggi uno dei luoghi più importanti non solo nel
riprodurre le regole e i significati esistenti, ma anche nel produrre nuove costellazioni simboliche e
nuovi universi valoriali, e con ciò una differente idea di virtù, da cui possono anche derivare
principi morali e regole di comportamento. L’area del consumo andrebbe così oltre il mero luogo di
riproduzione di una società vuota e mercificata per divenire, invece, una tra le tante aree
esperienziali in cui nascono e si affermano le ragioni e i criteri per giudicare il lecito e l’illecito, il
giusto e l’ingiusto. Secondo l’ipotesi di diversi autori, proprio questo avanzamento del mercato
capitalistico, con le sue regole strumentali- funzionali e con la sua razionalità formale che tende alla
progressiva colonizzazione di tutti gli ambiti del vivere sociale, induce oggi alla ricerca di valori
etici, di principi normativi che siano in grado di regolare il mercato e attenuare questo “potere del
consumo”. Anti-capitalisticamente inteso come consumismo, e come tale condannato.
A proposito del “potere del consumo”, siamo concordi con Codeluppi nel ritenere la condizione
della società contemporanea caratterizzata dall’eccesso 20 . La comunicazione pubblicitaria, che con
la sua funzione ideologica “può essere considerata una delle forme culturali dominanti delle società
capitalistiche contemporanee”21 , pervade lo spazio fisico e prende sempre più tempo nell’esistenza
delle persone. I luoghi sono diventati luoghi di consumo con lo scopo di amplificare la modalità
comunicativa della merce, mentre un numero crescente di beni immateriali diventano essi stessi
delle merci, come ad esempio il tempo libero, il divertimento e i servizi alla persona. Al vuoto
lasciato dalla crisi delle ideologie e dei valori si sostituiscono modelli sociali legati al mondo del
consumo. Anzi, seguendo questo ragionamento, le regole del marketing e del consumo diventano le
regole della società lasciando che settori tradizionalmente estranei a questa logica – scuola, sanità e
politica - ne siano progressivamente coinvolti.
20
Codeluppi V., 2003, Il potere del consumo: viaggio nei processi di mercificazione della società, Bollati Boringheri,
Milano
21
“La pubblicità è una forma simbolica essenzialmente ambigua: può sia riprodurre le distinzioni socioculturali
dominanti, sia, per quanto più di rado, appoggiarsi a nuovi orientamenti culturali e a tendenze sociali innovative”. R.
Sassatelli, Consumo, cultura e società, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 151-170
5
Al contempo, non si può trascurare che proprio questo ragionare dall’interno dell’economia del
simbolico che le merci rappresentano ci permetta di indagare senza pregiudizi su temi inediti: la
paradossale compresenza di ostentata opulenza e agonia estrema, i consumi devastanti in termini
atmosferici, i consumi che aumentano la domanda di cultura e di informazione, le merci che
rappresentano le passioni, il conflitto latente tra il piacere edonistico e il rispetto dei diritti umani. Si
tratta di una riflessione inedita e urgente che potrebbe condurre a nuovi livelli di cultura politica e
riattivare quel dibattito tra produttori e consumatori che da lungo tempo ristagna attorno a categorie
economiciste. Riflessione che può rivelarsi interessante per sviluppare un dibattito sui luoghi del
consumo, come forme di una cultura sociale in espansione. Luoghi che, in seguito al
depotenziamento delle istituzioni tradizionali (Stato, partiti, fabbrica, sindacato) e al processo di
desocializzazione in atto (che vede il progressivo svuotamento normativo della famiglia o della
scuola), divengono non solo distributori di prodotti e marche, ma anche di comunicazioni volte a
influenzare l’immaginario collettivo, di modelli da seguire, di regole di comportamento. In questo
senso, un esempio tra gli altri è una lettura dei supermercati Coop come “nuove chiese”, all’interno
dei quali viene distribuito “senso etico”22 .
Il tema degli spazi pubblici, ad esempio, diviene centrale anche in vista del fatto che nel
consumo vengono oggi a ridefinirsi le stesse categorie borghesi di pubblico e privato. Se, infatti,
nelle società industriali i consumi privati venivano considerati come strumento per il
soddisfacimento di bisogni privati, mentre il consumo pubblico era inteso come il soddisfacimento
di bisogni afferenti l’intera società, oggi non è più così. Beni e bisogni pubblici e privati si
mescolano dando origine a mix inediti che vedono la caduta dell’antica concezione che interpretava
pubblico e privato come momenti di vita nettamente contrapposti.
Ciò significa che, da un lato l’espandersi del mercato provoca “una crescente sostituzione della
cultura pubblica da parte della cultura commerciale”, con la conseguenza che “il linguaggio delle
merci sostituisce il linguaggio della democrazia e il consumismo sembra essere il solo tipo di
cittadinanza offerto”23 . Dall’altro, il proliferare dell’offerta di servizi pubblici, che il cittadino
finanzia direttamente o indirettamente, contribuisce - secondo l’analisi di Hirschman - a radicare
l’idea che il servizio o il bene, possano diventare oggettivazione di diritti24 . Venendosi così a creare
una doppia relazione che lega il bisogno al diritto e il diritto al consumo. Al punto che il consumo
“diviene proposta di un bene o di un servizio mediato dal mercato, pubblico o privato che sia,
diventando risposta attuale ai bisogni degli uomini” 25 .
22
E. Di Nallo, “Gestire le contraddizioni: la RSI nella società dei consumi”, in R. Paltrinieri e M.L. Parmigiani, ibidem.
Codeluppi V., 2003, p. 28
24
Hirschman A.O., 1982, Felicità pubblica Felicità privata, Il Mulino, Bologna
25
Di Nallo E., 1986, Dalla società della produzione alla società del consumo, (collana), Sociologia Urbana e Rurale,
Angeli, Milano, n. 20
23
6
A dar vita ad una serie di ingiunzioni problematiche contribuisce l’ideologia liberista, e più in
generale la filosofia “liberal” oggi in voga. Facendo perno sulla nota “teoria del consumatore
sovrano ” (basata sull’assunto che l’aumento di consumo è in grado di migliorare il benessere di
tutti), una “élite di esperti” di politica economica che siede a capo delle più note agenzie
governative internazionali, spinge i governi a privatizzare, deregolamentare e liberalizzare sempre
più gli scambi commerciali costringendo le persone a subire una radicale trasformazione per opera
di un processo di “monetarizzazione”, che investe sia la vita pubblica che quella privata. Come
sostiene Habermas, la colonizzazione avvenuta attraverso l’estensione del mercato in spazi di
“mondo vitale” retti un tempo da principi di ordine sociale, ha portato alla creazione di modalità di
vita unilateralizzate, nonchè all’espressione di bisogni insoddisfatti di legittimazione. Sfere la cui
modalità di comunicazione si caratterizzavano per un agire orientato all’intesa, alla comprensione,
all’ascolto, sono oggi fatte preda del meccanismo di mercato, che affonda le sue radici in una logica
mercantile, dominata dal potere d’acquisto 26 . Con l’inevitabile conseguenza che gli individui si
ritrovano ad aver diritto, nel privato, alle differenze e alle scelte soggettive e, nel pubblico, a
volere/dover godere tutti delle medesime libertà. Il che provoca – secondo Donati – il moltiplicarsi
di diritti in tutte le sfere di cui il sociale si compone 27 . Ma con una novità: godere di un diritto non
significa necessariamente averne un altro ad esso associato. Il che rende abbastanza evidente
l’interdipendenza che esiste nell’orientamento sociale, per cui “il comportamento individualistico
può essere un ostacolo alla soddisfazione delle (stesse) preferenze individuali”: dilemma che Fred
Hirsch ha ben evidenziato ne I limiti sociali allo sviluppo.
L’economista, supportato dai risultati simili derivanti dalla teoria dei giochi28 , ha rilevato come
oggi esista una vasta gamma di consumi privati che contengono un elemento sociale, per i quali la
soddisfazione dipende anche dal consumo degli altri. Il che significa che la chiave del benessere
individuale non può più ricondursi all’abilità di stare davanti a tutti gli altri, pena la congestione
generalizzata. Al contrario - come sottolinea lo stesso Hirsch - “l’unico modo per evitare una
concorrenza destinata all’insuccesso è che le persone interessate coordinino i loro obiettivi in modo
esplicito, abbandonando in questa sfera il principio della competizione individuale isolata. In altre
26
Nelle parole di Habermas: “Tempo libero, cultura, ricreazione, turismo, sono investiti dalle leggi dell’economia
mercantile e dalle definizioni del consumo massificato.”. Cfr. Habermas J., 1986, Teoria dell’agire comunicativo, II
voll., Bologna, Il Mulino, p. 1039.
27
Donati P., 1993, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari
28
La teoria dei giochi offre un insieme di strumenti per creare modelli della realtà in cui viviamo. Per definire un
modello siamo costretti a scegliere fra differenti rappresentazioni della realtà. Questa è una delle conclusioni a cui
giunge la teoria dei giochi: le rappresentazioni che ci facciamo della realtà sono diverse; la teoria dei giochi ci dice che
la realtà non è una, ma molteplice. Non esiste un unico modo di vedere le cose perché le cose si fanno vedere in molti
modi possibili.
7
parole, solo un approccio collettivo al problema può offrire agli individui la guida necessaria per
arrivare a una soluzione preferibile anche per loro individualmente”29 .
Ciò che ne va di mezzo son dunque le regole considerate legittime, ovvero adatte al contesto
sociale di riferimento. Occorre prender coscienza –ammonisce Hirsch – che se il beneficio
individuale ricavato da un’azione isolata risulta ben delineato, così non è quando si consideri la
somma dei benefici di tutte le azioni nel loro insieme 30 . Questa somma è infatti uguale a zero,
perché “se all’azione individuale corrisponde un beneficio positivo, i benefici individuali di questo
genere semplicemente non si possono sommare, (per cui) la connessione tra avanzamento
individuale e aggregato risulta interrotta”. L’istituzione del mercato, dunque, risulta impossibilitata
alla fornitura di beni e servizi collettivi, la cui caratteristica principale appare essere quella di
rendersi disponibili a tutti.
Ma se questo aspetto è quello maggiormente correlato con il problema dell’accesso alle risorse e che ha portato gruppi, associazioni, Ong e singoli individui di tutto il pianeta a rimettere in
discussione le logiche del mercato capitalistico ed i suoi effetti perversi – vi è poi, in secondo luogo,
il problema del deterioramento dei beni e dell’ambiente in cui è possibile usufruirne.
A proposito della legittimità delle regole che presiedono il consumo, la novità sta nel fatto che
oggi la maggior parte delle persone acquistano coscienza che il mercato e le sue condizioni di
scambio vanno a modificare profondamente l’ambiente circostante riferito al bene e al servizio
offerto. L’esclusione operata dal sistema capitalistico, infatti, conseguenza di un rapporto
mercantile basato sul diritto di proprietà, finisce inevitabilmente per modificare le caratteristiche
“ambientali” dei beni collettivi forniti. Ciò che muta non è solo la modalità con la quale si
raggiunge una decisione, o si fruisce di un servizio o di un bene, ma la trasformazione riguarda la
natura del bene stesso.
Centrale diviene dunque il concetto di “scarsità sociale”, secondo
cui fino a quando la
privazione materiale è diffusa, la preoccupazione dominante è quella di superare la scarsità
materiale; man mano che la domanda di beni puramente privati viene soddisfatta, diventa sempre
più attiva la domanda di beni e servizi che hanno un carattere pubblico-sociale. In questo secondo
caso, ne deriva che la soddisfazione delle preferenze individuali altera di per sè la situazione in cui
29
Hirsch F., 1976, I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano, p.19
Per comprendere la portata del suo ragionamento è necessario rilevarne le premesse. Un concetto centrale della sua
analisi è costituito dalla scarsità sociale: “essa esprime l’idea che le buone cose della vita sono limitate non solo da
vincoli fisici che impediscono di produrne di più, ma anche da limiti di assorbimento per quanto riguarda il loro uso”.
Infatti, dove il contesto sociale ha una limitata capacità di estenderne l’uso senza un deterioramento di qualità, il
consumo subisce limiti sociali. Più precisamente, il limite viene imposto alle soddisfazioni che dipendono non dal
prodotto o dal servizio presi in sè, ma dalle condizioni d’uso circostanti.
30
8
vengono a trovarsi gli altri che cercano di soddisfare bisogni simili31 . L’esempio classico è la casa
in collina immersa nel verde, destinata a trasformarsi in un paese o addirittura in una città nel
momento in cui diviene un’aspirazione (ed una possibilità di realizzarla) collettiva. Un altro
esempio ci è fornito dalla qualità dell’aria che il cittadino respira oggi nel centro della città, un puro
bene sociale (come sono anche l’acqua, i parchi, l’istruzione o l’informazione) che dipende dal
contributo che i cittadini danno alla battaglia contro l’inquinamento, o direttamente attraverso la
spesa pubblica o indirettamente attraverso la normativa pubblica.
Per dirlo con uno slogan: “se l’orgasmo diventa diritto del consumatore, smette di essere
un’esperienza spirituale”32 . Frase ad effetto che Hirsch usa per evidenziare l’incapacità del mercato
di fornire beni e servizi pubblici senza modificarne le caratteristiche ambientali, intendendo qui per
ambiente le condizioni d’uso. Proprio come avviene per il rapporto sessuale basato sull’amore, sulla
fiducia e sul romanticismo, dove viene presupposta l’assenza del calcolo individualistico, la fatica
del corteggiamento e l’incertezza della meta anelata, che lo differenzia dal rapporto sessuale a
pagamento, disponibile a tutti e con clausole evidenti prima del compimento dell’atto. Allo stesso
modo avviene per i beni e servizi offerti a pagamento dal mercato.
3. La fredda seduzione dell’oscenità
Prendiamo spunto dall’analisi economica dell’orgasmo proposta da Hirsch, e proviamo ad
avanzare una lettura in chiave sociologica del rapporto tra sovrabbondanza (di beni come di
immagini) e livello di felicità.
Negli anni Ottanta, la fe mminista Andrea Dworkin sosteneva che, una volta aperta la diga, la
pornografia avrebbe inondato il mondo. Secondo lei, il dilagare delle oscenità avrebbe portato gli
uomini a trattare le donne in modo sessualmente degradante. Con un conseguente vertiginoso
aumento degli strupri.
A rifletterci oltre vent’anni dopo, sembra che pur avendo ragione a proposito dell’ondata di
pornografia (e-mail spam del tipo “enlarge your size”, immagini oscene sui computers, sitcom… la
pornografia è diventata davvero la carta da parati della nostra vita), la Dworkin si sia sbagliata sui
suoi effetti. Il porno, piuttosto che trasformare gli uomini in bestie rozze e affamate, che
considerano tutte le donne come pornostar, sta provocando una generazione di uomini eroticamente
meno capaci di connettersi alle donne intese come persone. Piuttosto che liberare la libido maschile,
infatti, il proliferare di immagini erotico-pornografiche sembra averla affievolita. Essere circondati
“Le occasioni di avanzamento economico, mentre si presentano di volta in volta a una persona dopo l’altra, non
costituiscono occasioni equivalenti di avanzamento economico per tutti. Quel che ciascuno di noi può ottenere, non
possiamo ottenerlo tutti” F. Hirsch, ibidem, p. 18
32
Ibidem, p. 109
9
da immagini di sesso non libera l’Eros, caso mai lo diluisce. Come sanno bene altre culture diverse
da quella occidentale, che ancora salvaguardano il potere e il fascino del sesso circondandolo di un
alone di mistero misto a sacralità.
E gli effetti sembrano essersi fatti sentire anche sull’autostima sessuale delle donne, il cui valore
reale o immaginato appare svilito. Al punto che Naomi Wolf - secondo la quale i rapporti tra
l’industria del porno, la compulsione e l’appetito sessuale sono diventati gli stessi esistenti fra il
settore agroindustriale, i cibi trattati, le maxi-porzioni e l’obesità - si chiede: “come fa una donna
normale con la cellulite, un seno naturale, esigenze proprie a competere con una cibervisione della
perfezione, scaricabile a proprio piacimento, sottomessa e confezionata secondo i gusti del
consumatore?”33 .
Così, se da un lato Sassatelli sostiene che il fitness mostra molto bene che, soprattutto per le
donne, ancora oggi il tempo libero ha a che fare con la fatica di rendersi fisicamente desiderabili34 ;
dall’altro si registra un generale aumento di fenomeni attribuibili al senso di inadeguatezza
femminile e alla costante inquietudine provocata dalle immagini pubblicitarie: dai corsi di
“emotional fitness” per frenare l’insicurezza (i corsi insegnano tecniche di rafforzamento
dell'autostima, di maggiore consapevolezza di sè, di fiducia nelle proprie capacità), all’aumento dei
casi di anoressia (malattia tipica di un contesto socioculturale che detta precise regole estetiche
improntate al connubio “successo-belle- magrezza”), sino alla diffusione dell’uso di cocaina tra le
donne di 30-40 anni “con stipendi medi, libere profesioniste, managers, impiegate, madri con figli
piccoli o single palestrate e attente alla dieta, che la usano per combattere la depressione.”35
Ritornando alla profezia non avveratasi della Dworkin, una spiegazione plausibile di questo
rapporto inversamente proporzionale esistente fra seduzione/sesso facile e piacere, la si trova
nell’effetto che Baudrillard chiama “fascinazione”, cioè una seduzione interamente artificiale e
figlia dell’oscenità. Secondo l’intellettuale francese, infatti, nella società contemporanea le strategie
di seduzione stanno assumendo una forma diversa rispetto al passato. Si tratta di una seduzione
“fredda”, che passa “dalla sua accezione radicale (duale, rituale, agonistica, con una posta in gioco
massima) alla sua accezione molle, la seduzione d’atmosfera, erotizzazione ludica di un universo
senza poste in gioco”36 . Seduzione che caratterizza le merci e che da queste ultime si è diffusa a
tutta la società.
33
N. Wolf, “Il porno che ha ucciso il desiderio”, D di Repubblica, 10 gennaio 2004, p. 38.
Cfr. R. Sassatelli, Anatomia della palestra. Cultura commerciale e disciplina del corpo, Il Mulino, Bologna, 2000
35
Secondo lo studio realizzato da Repubblica, le nuove consumatrici iniziano ad usarla per stare "più allegre", "più sù",
rendere meglio in ufficio e fare tardi la notte. E’ in più un eccitante, utile dunque per dimagrire. E non si esclude che,
paradossalmente, le consumatrici siano spesso salutiste, pronte a "un tiro ogni tanto" contro lo stress. Cfr. D, la
Repubblica delle donne, 28/6/2003
36
Cfr. V. codeluppi, 2003, ibidem.
34
10
Allo stesso modo Foucault sostiene la tesi della quotidianità “desessualizzata”. Secondo l’autore,
infatti, le società occidentali avanzate, a differenza di quelle che le hanno precedute, producono
moltissimi discorsi sul sesso, il quale, però, più se ne parla, più si indebolisce sul piano sociale. E
qualcosa di simile afferma anche Roland Barthes a proposito della natura dello spettacolo di striptease, che a suo parere “poggia su una contraddizione: desessualizzare la donna nel momento stesso
in cui la si spoglia”. Questo, secondo Barthes, costituirebbe una sorta di vaccino necessario per
immunizzare il pubblico: “alcuni atomi di erotismo, designati dalla situazione stessa dello
spettacolo, sono infatti assorbiti in un rituale rassicurante che cancella l’elemento carnale”. Il male
viene dunque ostentato, su un corpo femminile carico di segni vestimentari artificiali, per poterlo
esorcizzare meglio. “Il fine dello strip – conclude Barthes – non è più allora quello di portare alla
luce una profondità segreta, ma, attraverso l’eliminazione di un vestimento barocco e artificiale, di
significare la nudità come abito naturale della donna, che equivale a ritrovare in fondo uno stato
perfettamente pudico della donna”.
In linea con esse è la lettura che propone Codeluppi a proposito del sesso globale che pervade la
società dei consumi. Secondo il sociologo italiano, la seduzione tradizionalmente intesa (che
richiede soprattutto tempo) è “incompatibile con la società attuale, che è caratterizzata
dall’intensificazione dei ritmi dell’esistenza”. Tra le cause di ciò, Codeluppi indica “la
sovrabbondante circolazione odierna di segni relativi al sesso, l’incontrollata proliferazione di
immagini sessuali sulle strade, sulla carta stampata e sugli schermi, il dilagare dei codici del porno
al di fuori dei confini in cui erano stati tradizionalmente rinchiusi”. Tutti fenomeni che rendono
disponibile l’eros in ogni luogo, indebolendo di conseguenza il desiderio “perché facendo diventare
normale ciò che era eccezionale, tolgono il piacere della scoperta”37 .
E’ nostra convinzione, però, che questo processo diffuso di “desessualizzazione”, sebbene
provochi un’indebolimento del desiderio, non è affatto destinato a scomparire. Piuttosto, da questo
punto di vista, ci sembra di vivere in una società in cui la soddisfazione del piacere come modalità
di soddisfazione specifica viene progressivamente sostituita sia da uno stato di eccitazione
generalizzata che rinnova costantemente il desiderio, sia da una ricerca di felicità che supera il
piacere e, anzi, si caratterizza proprio per una rinuncia al piacere immediato in vista di un piacere
maggiore. L’affermarsi del wellness accanto al fitness, della slow life accanto al fast food, della
prevenzione medica e delle terapie orientali che tengono in conto la salute psicofisica accanto
all’abuso di farmaci da banco, sono alcuni esempi di come l’ottundimento del desiderio conviva e,
anzi, stimoli una riflessione verso la rinuncia del godimento immediato.
37
Ibidem, p. 101
11
4. Del bisogno di aver desideri
La definizione può apparire estrema, eppure se focalizziamo la società contemporanea attraverso
l’antico e controverso rapporto tra godimento e felicità, ci appare l’immagine di un corpo che vive
continuamente in bilico tra l’euforia ossessivo-compulsiva e l’apatia post-orgasmica. Osservato da
questo angolo, l’Occidente appare abitato da una moltitudine alla ricerca del desiderio perduto 38 .
Tra le cause di queste “oscillazioni sociali” possiamo annoverare il meccanismo perverso del
capitalismo consumistico, che tende a iperstimolare il desiderio sino ad annullarlo in nome del
piacere immediato. Piacere che, anche a causa del fatto che la società del consumo esalta e dilata il
tempo presente rispetto al futuro, tende spesso a coincidere con il godimento compulsivo, che si
realizza senza sacrificio e che tende ad auto-rinnovarsi in maniera ossessiva, incosciente: come per
riempire il vuoto di un contenitore che esige solamente di essere riempito.
La grande astuzia del meccanismo capitalista d’altronde consiste proprio, da un lato,
nell’alimentare l’illusione che il consumo di beni possa realizzare un godimento senza limiti e,
dunque, un’otturazione del vuoto, ma dall’altro, nel rinnovare in modo continuo questa stessa
domanda di consumo attraverso la creazione di sempre nuove pseudomancanze. L’obesità
generalizzata della nostra società, come altri comportamenti compulsivi odierni (dallo shopping al
sesso compulsivo, dalla tossicomania alla bulimia, all’abuso giovanile di alcool) mostrano
precisamente l’effetto asfissiante che l’oggetto troppo prossimo può provocare nei confronti del
desiderio 39 .
Eppure nel consumo convivono iperstimolazione e disciplina, inquietudine e controllo del
desiderio. Se da un lato, infatti, determinati atteggiamenti verso il consumo favoriscono lo sviluppo
di personalità deboli e perennemente insoddisfatte, che vanno alla continua ricerca di una
gratificazione negli acquisti; dall’altro si sviluppano sensibilità nuove orientate, per esempio, alla
diffusione di fenomeni di sobrietà e riduzione volontaria dei consumi.
Vi è poi la nostra ambivalente condizione di consumatori e produttori al contempo, che oltre ad
una “schizofrenia” economica chiama in causa le diverse “ingiunzioni etiche” a cui siamo
38
Non è di nostra competenza una definizione in chiave psicanalitica di questi che potremmo definire “comportamenti
associati a disturbo mentale”, ma l’impressione è che vi sia una sorta di predisposizione verso l’isteria, il cui confine
con la simulazione è spesso molto labile, o verso la nevrosi, in quanto in genere la persona non confonde le proprie
esperienze e fantasie patologiche soggettive con la realtà esterna. Di certo, l’aumento di farmaci psicotropi (consumati
negli USA dal 10% della popolazione; giunti ormai in Italia – dove sono quintuplicati in due anni - al quarto posto tra le
classi di medicinali pagati dal Sistema sanitario nazionale; in Italia è tornato in commercio il Ritalin, dopo che era stato
ritirato perché usato come stupefacente o dimagrante dagli adulti) può far pensare ad una sintomatologia che tende
spesso a caratterizzarsi come risposta all'ambiente o a reazioni emozionali opprimenti ed apparentemente inaffrontabili
dal soggetto; con un comportamento che, seppur alterato, tende a rimanere entro limiti sociali accettabili
39
Cfr. Recalcati M., La clinica del vuoto: anoressie, dipendenze, psicosi, FrancoAngeli, Milano, 2002; Kristeva J., Le
nuove malattie dell’anima, Borla, 1998; Freda H., Psicoanalisi e tossicomania, Mondatori, Milano, 2001.
12
sottoposti40 . Uno dei temi della studiosa femminista Susan Bordo, ad esempio, sostiene che il self
contemporaneo tende a costruirsi sulla base di richieste contraddittorie che ci inducono ad
incorporare tanto la disciplina dell’etica del lavoro quanto la capacità di consumare quanti più
oggetti possibili, sì da abbandonarsi al godimento immediato. “Da un lato, in quanto produttori di
beni e servizi dobbiamo sublimare, inibire, reprimere il desiderio di una gratificazione immediata:
dobbiamo coltivare l’etica del lavoro. Dall’altro – continua la studiosa – in quanto consumatori
dobbiamo esibire una capacità illimitata di cedere al desiderio e assecondare l’impulso: dobbiamo
anelare a una soddisfazione costante e immediata”41 .
E’ d’altra parte proprio questo che, secondo Bauman, distingue l’attuale “società sotto assedio”.
Se la vita organizzata intorno al produttore tendeva ad essere regolata normativamente – scrive
Bauman –, “la vita organizzata intorno al consumo, per contro, è priva di norme: è guidata dalla
seduzione, da desideri sempre maggiori e da capricci volubili, non più da una regolamentazione
normativa”42 . L’attitudine diffusa di trovare nel consumo un’attività gratificante, che l’intellettuale
polacco definisce “sindrome consumista”, sembra operare un vero e proprio capovolgimento dei
valori: velocità, eccesso e spreco costituiscono le mete della libertà individuale offerta dalla società
dei consumi. Dove però, a ben vedere, si tratta di una pseudo libertà, che “non può fare a meno di
gadget e prodotti forniti dal mercato”, dettata dalla dipendenza dello “shopping come rito di
esorcismo”, “dall’autoidentificazione tramite l’uso di articoli pubblicizzati e prodotti in massa”43 .
Così che il nucleo del problema etico postmoderno non sembra essere tanto la mancanza di certezze
sulle quali basare le proprie scelte, bensì la mercificazione consumistica della vita quotidiana, che
costringe gli individui ad essere “vagabondi o turisti”, spinti da disillusione e speranze frustrate,
pellegrini senza meta che girovagano nel mondo senza “l’ingombrante, paralizzante, deprimente,
angosciante fardello della responsabilità morale”.
Letto in questa prospettiva, il diritto al consumo, dunque, non solo non trova un corrispondente
dovere che lo garantisca, bensì corre il rischio di ridursi ad un semplice “godimento” delle
sensazioni fornite dall’esteriorità delle immagini stesse, al punto da provocare comportamenti
“schizofrenici”, provocati dall’impulso di riempire il proprio vuoto interiore tramite la momentanea
40
In questa citata ambivalente condizione che ci contraddistingue in quanto consumatori e produttori al contempo, e
che può contribuire a creare in noi una sorta di “schizofrenia”, vi sono gli effettei derivanti dal processo di concorrenza
tra le imprese che porta, attraverso il contenimento dei costi, ad una maggiore varietà di beni con prezzi sempre più
vantaggiosi. Dall’altro lato però, questa stessa concorrenza crea una tensione al ribasso dei costi dei fattori produttivi
che si traduce in riduzioni del salario. Al punto che, sottolinea Becchetti: “l’individuo viene esaltato dalla concorrenza
perfetta in qualità di consumatore, con lo stesso processo attraverso il quale riduce il suo benessere e rischia di essere
precarizzato in qualità di lavoratore”. Cfr. Becchetti L., “Responsabilità sociale e consumatori”, in R. Paltrinieri e M.L.
Parmigiani, op. cit., p. 85
41
S. Bordo, Il peso del corpo, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 134.
42
Bauman Z., Modernità liquida, 2000, pp. 79 - 80
43
Ibidem, p. 88
13
intensità emotiva di rinnovati possessi materiali. La “sindrome consumista” appare allora “molto
più che una fascinazione connessa al piacere di ingerire e digerire, all’esistenza di sensazioni
piacevoli, al divertimento, ai bei momenti”, poiché addirittura innalzata ad un programma di vita
basato sul rifiuto di quelle virtù che sono la procrastinazione e il “ritardo della gratificazione” – i
due pilastri assiologici della “società a centralità produttiva.
Di certo, rispetto alla società precedente, esistono ingiunzioni contraddittorie proprio dell’attuale
epoca. Non a caso Ehrenberg sostiene che “siamo diventati puri individui, nel senso che non vi è
più alcuna legge morale né alcuna tradizione a indicarci dall’esterno chi dobbiamo essere e come
dobbiamo comportarci” 44 . Dal ’68 in avanti, la società della disciplina, una macchina che si
alimentava della contrapposizione permesso/proibito e regolava l'individualità fino a tutti gli anni
'50 e '60, ha perduto ogni efficacia. Oggi, il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere
di diventare se stessi pongono l’individualità in una condizione di continuo movimento. Sì che nel
rapporto tra individuo e società, la misura dell'individuo ideale non è più data dalla docilità e
dall'obbedienza disciplinare, ma dall'iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è
in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L'individuo non è più regolato da un ordine
esterno, da una conformità alla legge, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue
competenze per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato.
E ciò sconvolge l’intimità di ciascuno di noi, costretto nella morsa angosciante delle “infinite
possibilità”, a dover giudicare da solo, con l’obiettivo di riuscire a fare un minimo di ordine in
un’esperienza frammentata e a cogliere almeno qualcuna delle tante possibilità a disposizione.
Nell’attuale società dell’incertezza – scrive Sennet -
il dogma sociale non è più quello
dell’inibizione, ma quello della performance. In un mondo che manca di certezze, è l’individuo che
deve fare la fatica di ricomporre dentro la propria biografia le direttive che la vita sociale gli
impone, con le sue esigenze di senso e di sopravvivenza 45 .
Il passaggio dall’inibizione alla performance rappresenta bene il meccanismo in atto per colmare
il vuoto lasciato dai vecchi legami ormai logori. L’estrema fragilità dei legami umani è
probabilmente la cartina di tornasole dell’epoca contemporanea. L’epoca dell’“amore liquido”,
direbbe Bauman46 . Un’epoca di individualismo rampante, in cui le relazioni vacillano
costantemente tra un dolce sogno e un incubo orribile, tra l’attrazione e la repulsione estrema, la
soddisfazione e la frustrazione, la speranza e la paura. Stringere i legami o mantenerli allentati?
44
Ehrenberg A., La fatica di essere se stessi: depressione e società, Einaudi, Torino, 1999, pp. 8-9
45
Cfr. Sennet R, 1999, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita delle persone, Feltrinelli,
Milano; Beck U., 1996, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma
46
Cfr. Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2004.
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Coltivare l’amore attraverso una relazione seria o lasciar sempre aperta la porta alle nuove
possibilità romantiche, che si riveleranno magari più soddisfacenti e appaganti? Opposti desideri
che contribuiscono ad alimentare la sensazione di insicurezza, quando non di vera e propria ansia.
Tornando al controverso rapporto tra godimento e felicità, ovvero tra l’infelicità che si crea
quando viene bruciata la distanza tra il desiderio e il suo appagamento, Recalcati sottolinea come
“l’euforia del consumo può distrarre dalla depressione”. Ma lo stesso nota che, come la psicanalisi
insegna : la passione del volere non si esaurisce nel consumo di nessun oggetto, perché l’oggetto del
desiderio è, come tale, da sempre perduto. In luogo della mancanza subentra allora un senso di
soffocamento, l’ottund imento del pensiero, il ripiegamento su di sé che taglia la dimensione sociale
della relazione con l’altro. Al punto che il godimento diventa routine. E smette di essere
un’esperienza spirituale.
Letto da un diverso punto di vista, allora, il passaggio dal piacere immediato alla ricerca della
felicità riguarda la coltivazione del desiderio, che può avvenire attraverso l’auto- imposizione di
limiti che modulino il nostro rapporto con il godimento. La ricerca della felicità, oggi, sembra
manifestarsi proprio attraverso il recupero del sacrificio e della rinuncia: dimensioni che rimandano
al tempo futuro, tempo che Eugenio Borgna – in un saggio di riflessione sul mondo della follia –
definisce dell’attesa e della speranza. “Senza attesa e senza speranza il tempo si fa deserto che, in
assenza di futuro, si espande dal presente muto in cui, per invivibilità, il depresso disabita ogni
evento, al passato che ha desertificato amori che non si sono radicati, creatività estinte al loro
sorgere, ricordi che non hanno nulla a cui riaccordarsi, in quella solitudine frammentata dove
l’identico, nella sua immobilità senza espressione, coglie quella’altra faccia della verità che è
l’insignificanza dell’esistere”47
In mancanza di un’autorità esterna, alla felicità si giunge allora attraverso l’auto- imposizione di
regole che hanno come scopo quello di ritardare il piacere, di ricreare una mancanza, un vuoto che è
appunto la radice del desiderio.
Si tratta, così focalizzata, della ricerca di una felicità volta a ridurre la schiavitù contemporanea:
un recupero del vecchio imperativo del sacrificio (quello del “Devi!”) contro il (o accanto al) nuovo
imperativo dell’esigenza di godere (“Godi!”). La ricerca della felicità attraverso la rinuncia appare
la dimensione propria di una società post-coitale. Una società ormai giunta, attraverso il passaggio
dal bisogno (dovuto alla scarsità materiale dei beni) al desiderio (in una situazione storica di
produzione e consumo di massa) all’attuale fase che potremmo chiamare “del bisogno di aver
desideri”. In questo senso, la ricerca della felicità si configura come una tra le tendenze più
47
E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano, 2005.
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interessanti di una società sovrastimolata di immagini e beni, eppure annoiata e stanca di rincorrere
sempre il godimento, di vivere in uno stato di eccitazione continuo.
La felicità risponderebbe dunque – come sostiene Di Nallo - ad un progetto auto-normativo, la
cui ascesi rimane comunque intramondana 48 . Un progetto soggettivo e individuale volto non solo ad
aggirare la classica “delusione post-acquisto”49 , ma soprattutto a superare il senso di angoscia
derivante dalla mancanza di desideri; una sorta di propria ecologia della mente volta a superare
l’ottundimento del pensiero causato dal perseguimento ossessivo del godimento.
48
Cfr. R. Paltrinieri, Consumi e globalizzazione, Carocci, Ro ma, 2004.
Questo senso di delusione, dovuta al dover trasporre continuamente il “significato rimosso”, è ben spiegato da G.
Mc Cracken. Ma il meccanismo che l’antropologo canadese individua alla base di questa delusione è ben sintetizzato
da un aforisma di Oscar Wilde: “Gli dei ci puniscono quando esaudiscono i nostri desideri”.
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