Quando il godimento diventa routine: la cultura di consumo tra iperstimolazione e disciplina di Pierluigi Musarò Premessa Nonostante dietro gli oggetti di consumo che riempiono la nostra esistenza quotidiana si nascondano valori e significati in grado di influire sul nostro immaginario, sulle relazioni sociali, sulla formazione dell’identità individuale e collettiva, sulla stessa organizzazione del territorio, che si struttura come luogo di consumo e di produzione; i nostri atteggiamenti dinanzi a questo processo (il consumo) oscillano spesso tra posizioni contraddittorie. Da un lato, infatti, all’espandersi delle pratiche di consumo viene associata la crisi di un’epoca caratterizzata da “un’ambiguità morale profondamente sentita. Un’epoca che – così la descrive Bauman - ci offre una libertà di scelta mai goduta prima, ma che ci getta anche in uno stato di incertezza mai prima d’ora così angoscioso”1 . Crisi che l’intellettuale polacco identifica, appunto, con l’avvento della cosiddetta società dei consumi, vista come la società che incarna i vizi dell’epoca attuale: edonismo e superficialità, massificazione e insoddisfazione, depravazione e disordine morale. Al punto che per ‘società dei consumi’ non si intende una entità corrispondente alla somma totale dei consumatori, bensì una totalità, per usare un’espressione di Durkheim, più grande della somma dei suoi costituenti. “E’ una società che – scrive Bauman – ‘interpella’ i suoi membri principalmente, se non esclusivamente, come consumatori; una società che giudica i suoi membri soprattutto in relazione alla loro condotta e alla loro capacità di consumo”2 . Una società che, a differenza di quella precedente a centralità produttiva, dischiude ai propri consociati l’apoteosi del vuoto normativo, seppur in “tecnhicolor”3 . Dall’altro lato, proprio nell’area esperienziale del consumo, ormai una delle aree esperienziali centrali del nostro vivere, altri autori individuano una nascente etica della responsabilità, una progressiva presa di coscienza che conduce ad un superamento della ricerca del piacere effimero e ad una autodisciplina che muove dalla vita personale del singolo consumatore per influenzare la vita sociale ed economica, compresa la sfera produttiva e politica. Non mancano, d’altronde, studi e ricerche empiriche a supportare la tesi di una maggior consapevolezza del “valore sociale” dell’atto di consumo, una maggior disponibilità ad una graduale semplificazione del proprio stile di vita, e una crescente valorizzazione di comportamenti “socialmente responsabili”. Al punto che da più 1 Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 26 2 Z. Bauman, I consumatori in una società liquida e moderna, atti del convegno Cum Sumo, Bologna, 7-8 ottobre 2004. 3 G. Lipovetsky, L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo, Luni editrice, Milano, 1995. 1 voci si ode l’affermarsi di una nuova tipologia di cittadino-consumatore (o anche consum/attore), caratterizzato per essere sensibile al bene collettivo oltre che a quello personale, disponibile a comportamenti “pro-sociali”, interessato alle tematiche ambientali e soprattutto disponibile a partecipare alla vita pubblica attraverso le scelte di consumo 4 . L’intento di questo breve saggio è dunque mettere in relazione letture diverse che possano fornire un contributo valido nel ragionare in termini critici sul nostro rapporto con le merci, con le pratiche di consumo e con gli stessi luoghi del consumo, svelando quel che vi è di datato nei nostri atteggiamenti. L’auspicio è di riuscire a sollevare alcuni nodi problematici che caratterizzano il nostro vivere quotidiano nella società dei consumi. 1. Per uno sguardo tridimensionale sul consumo “La nostra è un’epoca caratterizzata da un’ambiguità morale profondamente sentita. Un’epoca che ci offre una libertà di scelta mai goduta prima, ma che ci getta anche in uno stato di incertezza mai prima d’ora così angoscioso”. Così Bauman descrive la situazione del mondo sociale contemporaneo. Che ruolo ha il consumo in questa epoca di crisi? E rispetto al senso di incertezza diffuso? “L’ingresso nella società dei consumi significa, più di ogni altro cambiamento sociale, l’uscita dalla società moderna”5 . Sebbene, apparentemente, molti studiosi sottoscriverebbero questa affermazione del sociologo francese, meno chiaro appare il significato che ognuno di essi attribuirebbe alla stessa. La natura della frase è, d’altronde, paradossale. Che cosa contrappone, infatti, così radicalmente la società dei consumi e la società moderna? Le caratteristiche del consumo sono di per sé in contrasto con i tratti essenziali dell’epoca moderna, o si è invece verificato un cambiamento generale, di cui il consumo è tutt’al più un indicatore privilegiato? Per rispondere a questi interrogativi è necessaria una chiarificazione del significato del consumo, un’analisi che riveli le diverse dimensioni e valenze che questi porta con sé, soprattutto alla luce di quelle che sono state le caratteristiche della modernità (razionalizzazione e soggettivizzazione, secondo Touraine). Se è vero che siamo usciti dalla modernità per entrare nella società dei consumi, sarà soprattutto attraverso un riconoscimento di quello che è in gioco nel consumo che potrà essere indagata la società postmoderna e, in particolare, l’emergere di processi viziosi e virtuosi che sembrano caratterizzarla. Eppure, al contempo, per capire la posizione del consumo e il ruolo svolto dallo stesso, occorrerà situarlo all’interno dell’agire umano, dei sistemi (politici, economici, culturali, 4 I primi segnali dell’emergere di questa nuova tipologia di cittadino-consumatore si trovano già in Buckley N., Raise of the Ethical Consumer, in “Financial Times”, 27 aprile 1995; Dunne N., Burch S., Clinton Moves on Sweatshops, in “Financial Times”, 5 agosto 1996. Per i risultati delle indagini più recenti, una raccolta significativa la si può trovare in R. Paltrinieri e M. L. Parmigiani (a cura di), Sostenibilità ed etica, Carocci, Roma, 2005. 5 A. Touraine, 1993, Critica della modernità, Milano, Il Saggiatore, p. 174 2 religiosi) in cui è inserito, dell’ecosistema più ampio in cui viviamo. Solo così potremo disvelarne il potenziale esplicativo, senza ridurlo a dimensioni uniche e/o in analisi univoche. Occorre prendere atto, infatti, da un lato che il consumo ha origini antichissime ed è stato “oggetto di riflessione secondo chiavi a tutt’oggi interessanti anche in tempi antecedenti la rivoluzione tecnologica”6 . Dall’altro lato, però, la maggior parte delle riflessioni sull’argomento, che considerano la Rivoluzione industriale come momento d’inizio delle riflessioni sul consumo 7 , hanno avuto la tendenza a circoscriverlo e ridurlo “ad una dimensione”, misurandolo in termini di utilità e/o felicità individuale e collettiva, oppure a giudicarlo, condannandolo come spreco, fonte di alienazione e falsa coscienza. Tendenza che, con l’entrata nella società postmoderna, sembra destinata a convivere con altre descrizioni che, al contrario, ne enfatizzano altri aspetti, prevalentemente di tipo culturale e simbolico. E ciò, con tutta probabilità, è potuto avvenire perché le griglie concettuali imposte dai “paradigmi moderni” hanno allargato le loro maglie. Se, infatti, la società moderna aveva relegato il consumo ad una nota della sinfonia suonata secondo lo spartito proposto dalla logica della produzione capitalista 8 , relegandolo dunque a fenomeno asservito alle logiche della produzione e descrivendolo quasi esclusivamente in termini di funzionalità, status symbol, indicatore di prestigio e classe sociale, quando non come vera e propria alienazione; con il passaggio al postmoderno, avviene non solo una “graduale conversione da una società orientata alla produzione ad una società rivolta al consumo”9 , che porta ad una progressiva neutralizzazione del consumo sotto il profilo ideologico 10 , ma allo stesso viene riconosciuta una nuova legittimazione sociale, tanto da assumerlo come elemento centrale per nuovo paradigma interpretativo dei fondamentali cambiamenti che avvengono nella società. Lo stesso Ritzer, che non facciamo fatica ad annoverare tra i detrattori del consumo, afferma che: “nelle epoche precedenti erano i mezzi di produzione a predominare, ma al giorno d’oggi la supremazia è passata ai mezzi di consumo, così che il centro commerciale ha rimpiazzato la fabbrica come struttura caratteristica dell’epoca”11 . Se riconosciamo, dunque, tra le caratteristiche della società postmoderna, lo slittamento del binomio produzione- lavoro verso una maggiore centralità del processo di consumo (che include la produzione ma non si esaurisce in questa), dobbiamo riconoscere al consumo la possibilità di ampliare il proprio potenziale di autonomia. Non solo e non più solo linguaggio della produzione, il consumo diviene oggi linguaggio di se stesso. Come suggerisce Di Nallo, “i termini utilità, 6 Di Nallo E. (a cura di), 1997, Il significato sociale del consumo, Roma–Bari, Laterza, p. 5. Codeluppi V., 2003, La sociologia dei consumi. Teorie classiche e prospettive contemporanee, Carocci, Roma 8 Di Nallo E. (a cura di), 1997, p. 14. 9 Fabris G., 1970, Il comportamento del consumatore: psicologia e sociologia dei consumi, Angeli, Milano, p. 16 10 Fabris G., Il nuovo consumatore verso il postmoderno, Angeli, Milano, 2003, p. 64 11 Ritzer G., La religione dei consumi, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 197 7 3 individualità e convenienza, che avevano connotato la ricerca sul consumo, vengono a perdere il loro monopolio di quadri di analisi, a favore di categorie più vaste e soddisfacenti” 12 . Il consumo appare così nella sua veste di linguaggio 13 , in grado di oggettivare categorie e, attraverso i suoi rituali, rendere intelligibile il mondo e dare un senso al flusso indistinto degli eventi14 . Interpretato come rituale comunicativo, il linguaggio del consumo permette di selezionare e stabilire i significati condivisi, tracciando così definizioni collettive visibili e valori indispensabili per la comunicazione intersoggettiva, la cui natura normativa, permette di inserirlo nel processo intersoggettivo di costruzione della realtà sociale. Riconoscere al consumo le proprietà del linguaggio, nelle sue dimensioni - cognitiva, normativa e, soprattutto, produttiva 15 – significa riconoscere la sua capacità poietica, creativa, produttiva, di elemento indispensabile nel processo di oggettivazione e risoggettivizzazione della cultura, dell’orizzonte simbolico di un individuo, in quanto inserito all’interno di una realtà intersoggettiva. Tematizzare il processo di riappropriazione simbolica 16 , permette di comprendere come le pratiche di consumo divengano luoghi fondamentali del processo di costruzione intersoggettiva non solo della realtà, ma, in quanto tale, anche del soggetto, della sua identità sociale 17 . Letto alla luce delle diverse dimensioni che lo caratterizzano, il consumo, nelle sue pratiche di rituale, da un lato apre la possibilità per il soggetto di utilizzare le merci per la costruzione del proprio sè; e dall’altro, grazie alla sua capacità di definire e ridefinire simboli e significati (dunque, valori), contribuisce alla costruzione di una base consensuale minima della società. Per dirla con Mary Douglas, “il consumo è un’attività di produzione congiunta, con gli altri consumatori, di un universo di valori” 18 . Il postmoderno riconduce, dunque, il consumo alle ambi- valenze che da sempre lo hanno connotato, già presenti, fra l’altro, nella stessa etimologia del termine: da un lato cumsumere e/o cumsumma, che rievoca le antiche valenze religiose e riporta a una circolarità giocata fra le cose gli uomini e Dio; dall’altro distruzione, logorio, annullamento, consunzione finale di un bene, come descrizione di un processo entropico che conduce sempre dall’ordine del prodotto manufatto ad un disordine irreversibile, conseguente alla sua fruizione e al soddisfacimento di un bisogno 19 ; accezione che porta implicito quel concetto di spreco che ha, da sempre, alimentato la posizione anticonsumista. 12 Di Nallo E. (a cura di), 1997, p. 44 Paltrinieri R., 1998, Il consumo come linguaggio, Milano, Angeli 14 Douglas M., Isherwood B., 1984, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Il Mulino, Bologna 15 R. Paltrinieri, 1998. 16 De Certau M., 1980, The practice of Everyday Life, University California Press 17 Parmiggiani P., 2001, Consumatori alla ricerca di sé, Angeli, Milano 18 Douglas M., Isherwood B., 1984, p. 74 19 Tirelli D., 1996, Elementi di socioeconomia dei consumi, Coopli IULM, Milano 13 4 2. Rovesci e diritti del consumo E’ tra le ambi-valenze di cui il consumo è portatore, dunque, che conviene destreggiarsi. Un’analisi delle relazioni tra merci, consumatori, imprese e organizzazione del territorio ci costringe a prendere atto di come il processo di consumo sia entrato pienamente nel territorio dell’etica e della politica. Con tutti i suoi rovesci e i suoi diritti. Un’idea comunemente diffusa è che il processo di mercificazione possa intaccare pericolosamente, se non sottoposto a critica culturale e ad un cont rollo sociale, lo spazio pubblico e le forme spontanee di associazione affettiva. Al contempo, però, proprio in funzione dell’estendersi del mercato capitalistico, il consumo diviene oggi uno dei luoghi più importanti non solo nel riprodurre le regole e i significati esistenti, ma anche nel produrre nuove costellazioni simboliche e nuovi universi valoriali, e con ciò una differente idea di virtù, da cui possono anche derivare principi morali e regole di comportamento. L’area del consumo andrebbe così oltre il mero luogo di riproduzione di una società vuota e mercificata per divenire, invece, una tra le tante aree esperienziali in cui nascono e si affermano le ragioni e i criteri per giudicare il lecito e l’illecito, il giusto e l’ingiusto. Secondo l’ipotesi di diversi autori, proprio questo avanzamento del mercato capitalistico, con le sue regole strumentali- funzionali e con la sua razionalità formale che tende alla progressiva colonizzazione di tutti gli ambiti del vivere sociale, induce oggi alla ricerca di valori etici, di principi normativi che siano in grado di regolare il mercato e attenuare questo “potere del consumo”. Anti-capitalisticamente inteso come consumismo, e come tale condannato. A proposito del “potere del consumo”, siamo concordi con Codeluppi nel ritenere la condizione della società contemporanea caratterizzata dall’eccesso 20 . La comunicazione pubblicitaria, che con la sua funzione ideologica “può essere considerata una delle forme culturali dominanti delle società capitalistiche contemporanee”21 , pervade lo spazio fisico e prende sempre più tempo nell’esistenza delle persone. I luoghi sono diventati luoghi di consumo con lo scopo di amplificare la modalità comunicativa della merce, mentre un numero crescente di beni immateriali diventano essi stessi delle merci, come ad esempio il tempo libero, il divertimento e i servizi alla persona. Al vuoto lasciato dalla crisi delle ideologie e dei valori si sostituiscono modelli sociali legati al mondo del consumo. Anzi, seguendo questo ragionamento, le regole del marketing e del consumo diventano le regole della società lasciando che settori tradizionalmente estranei a questa logica – scuola, sanità e politica - ne siano progressivamente coinvolti. 20 Codeluppi V., 2003, Il potere del consumo: viaggio nei processi di mercificazione della società, Bollati Boringheri, Milano 21 “La pubblicità è una forma simbolica essenzialmente ambigua: può sia riprodurre le distinzioni socioculturali dominanti, sia, per quanto più di rado, appoggiarsi a nuovi orientamenti culturali e a tendenze sociali innovative”. R. Sassatelli, Consumo, cultura e società, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 151-170 5 Al contempo, non si può trascurare che proprio questo ragionare dall’interno dell’economia del simbolico che le merci rappresentano ci permetta di indagare senza pregiudizi su temi inediti: la paradossale compresenza di ostentata opulenza e agonia estrema, i consumi devastanti in termini atmosferici, i consumi che aumentano la domanda di cultura e di informazione, le merci che rappresentano le passioni, il conflitto latente tra il piacere edonistico e il rispetto dei diritti umani. Si tratta di una riflessione inedita e urgente che potrebbe condurre a nuovi livelli di cultura politica e riattivare quel dibattito tra produttori e consumatori che da lungo tempo ristagna attorno a categorie economiciste. Riflessione che può rivelarsi interessante per sviluppare un dibattito sui luoghi del consumo, come forme di una cultura sociale in espansione. Luoghi che, in seguito al depotenziamento delle istituzioni tradizionali (Stato, partiti, fabbrica, sindacato) e al processo di desocializzazione in atto (che vede il progressivo svuotamento normativo della famiglia o della scuola), divengono non solo distributori di prodotti e marche, ma anche di comunicazioni volte a influenzare l’immaginario collettivo, di modelli da seguire, di regole di comportamento. In questo senso, un esempio tra gli altri è una lettura dei supermercati Coop come “nuove chiese”, all’interno dei quali viene distribuito “senso etico”22 . Il tema degli spazi pubblici, ad esempio, diviene centrale anche in vista del fatto che nel consumo vengono oggi a ridefinirsi le stesse categorie borghesi di pubblico e privato. Se, infatti, nelle società industriali i consumi privati venivano considerati come strumento per il soddisfacimento di bisogni privati, mentre il consumo pubblico era inteso come il soddisfacimento di bisogni afferenti l’intera società, oggi non è più così. Beni e bisogni pubblici e privati si mescolano dando origine a mix inediti che vedono la caduta dell’antica concezione che interpretava pubblico e privato come momenti di vita nettamente contrapposti. Ciò significa che, da un lato l’espandersi del mercato provoca “una crescente sostituzione della cultura pubblica da parte della cultura commerciale”, con la conseguenza che “il linguaggio delle merci sostituisce il linguaggio della democrazia e il consumismo sembra essere il solo tipo di cittadinanza offerto”23 . Dall’altro, il proliferare dell’offerta di servizi pubblici, che il cittadino finanzia direttamente o indirettamente, contribuisce - secondo l’analisi di Hirschman - a radicare l’idea che il servizio o il bene, possano diventare oggettivazione di diritti24 . Venendosi così a creare una doppia relazione che lega il bisogno al diritto e il diritto al consumo. Al punto che il consumo “diviene proposta di un bene o di un servizio mediato dal mercato, pubblico o privato che sia, diventando risposta attuale ai bisogni degli uomini” 25 . 22 E. Di Nallo, “Gestire le contraddizioni: la RSI nella società dei consumi”, in R. Paltrinieri e M.L. Parmigiani, ibidem. Codeluppi V., 2003, p. 28 24 Hirschman A.O., 1982, Felicità pubblica Felicità privata, Il Mulino, Bologna 25 Di Nallo E., 1986, Dalla società della produzione alla società del consumo, (collana), Sociologia Urbana e Rurale, Angeli, Milano, n. 20 23 6 A dar vita ad una serie di ingiunzioni problematiche contribuisce l’ideologia liberista, e più in generale la filosofia “liberal” oggi in voga. Facendo perno sulla nota “teoria del consumatore sovrano ” (basata sull’assunto che l’aumento di consumo è in grado di migliorare il benessere di tutti), una “élite di esperti” di politica economica che siede a capo delle più note agenzie governative internazionali, spinge i governi a privatizzare, deregolamentare e liberalizzare sempre più gli scambi commerciali costringendo le persone a subire una radicale trasformazione per opera di un processo di “monetarizzazione”, che investe sia la vita pubblica che quella privata. Come sostiene Habermas, la colonizzazione avvenuta attraverso l’estensione del mercato in spazi di “mondo vitale” retti un tempo da principi di ordine sociale, ha portato alla creazione di modalità di vita unilateralizzate, nonchè all’espressione di bisogni insoddisfatti di legittimazione. Sfere la cui modalità di comunicazione si caratterizzavano per un agire orientato all’intesa, alla comprensione, all’ascolto, sono oggi fatte preda del meccanismo di mercato, che affonda le sue radici in una logica mercantile, dominata dal potere d’acquisto 26 . Con l’inevitabile conseguenza che gli individui si ritrovano ad aver diritto, nel privato, alle differenze e alle scelte soggettive e, nel pubblico, a volere/dover godere tutti delle medesime libertà. Il che provoca – secondo Donati – il moltiplicarsi di diritti in tutte le sfere di cui il sociale si compone 27 . Ma con una novità: godere di un diritto non significa necessariamente averne un altro ad esso associato. Il che rende abbastanza evidente l’interdipendenza che esiste nell’orientamento sociale, per cui “il comportamento individualistico può essere un ostacolo alla soddisfazione delle (stesse) preferenze individuali”: dilemma che Fred Hirsch ha ben evidenziato ne I limiti sociali allo sviluppo. L’economista, supportato dai risultati simili derivanti dalla teoria dei giochi28 , ha rilevato come oggi esista una vasta gamma di consumi privati che contengono un elemento sociale, per i quali la soddisfazione dipende anche dal consumo degli altri. Il che significa che la chiave del benessere individuale non può più ricondursi all’abilità di stare davanti a tutti gli altri, pena la congestione generalizzata. Al contrario - come sottolinea lo stesso Hirsch - “l’unico modo per evitare una concorrenza destinata all’insuccesso è che le persone interessate coordinino i loro obiettivi in modo esplicito, abbandonando in questa sfera il principio della competizione individuale isolata. In altre 26 Nelle parole di Habermas: “Tempo libero, cultura, ricreazione, turismo, sono investiti dalle leggi dell’economia mercantile e dalle definizioni del consumo massificato.”. Cfr. Habermas J., 1986, Teoria dell’agire comunicativo, II voll., Bologna, Il Mulino, p. 1039. 27 Donati P., 1993, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari 28 La teoria dei giochi offre un insieme di strumenti per creare modelli della realtà in cui viviamo. Per definire un modello siamo costretti a scegliere fra differenti rappresentazioni della realtà. Questa è una delle conclusioni a cui giunge la teoria dei giochi: le rappresentazioni che ci facciamo della realtà sono diverse; la teoria dei giochi ci dice che la realtà non è una, ma molteplice. Non esiste un unico modo di vedere le cose perché le cose si fanno vedere in molti modi possibili. 7 parole, solo un approccio collettivo al problema può offrire agli individui la guida necessaria per arrivare a una soluzione preferibile anche per loro individualmente”29 . Ciò che ne va di mezzo son dunque le regole considerate legittime, ovvero adatte al contesto sociale di riferimento. Occorre prender coscienza –ammonisce Hirsch – che se il beneficio individuale ricavato da un’azione isolata risulta ben delineato, così non è quando si consideri la somma dei benefici di tutte le azioni nel loro insieme 30 . Questa somma è infatti uguale a zero, perché “se all’azione individuale corrisponde un beneficio positivo, i benefici individuali di questo genere semplicemente non si possono sommare, (per cui) la connessione tra avanzamento individuale e aggregato risulta interrotta”. L’istituzione del mercato, dunque, risulta impossibilitata alla fornitura di beni e servizi collettivi, la cui caratteristica principale appare essere quella di rendersi disponibili a tutti. Ma se questo aspetto è quello maggiormente correlato con il problema dell’accesso alle risorse e che ha portato gruppi, associazioni, Ong e singoli individui di tutto il pianeta a rimettere in discussione le logiche del mercato capitalistico ed i suoi effetti perversi – vi è poi, in secondo luogo, il problema del deterioramento dei beni e dell’ambiente in cui è possibile usufruirne. A proposito della legittimità delle regole che presiedono il consumo, la novità sta nel fatto che oggi la maggior parte delle persone acquistano coscienza che il mercato e le sue condizioni di scambio vanno a modificare profondamente l’ambiente circostante riferito al bene e al servizio offerto. L’esclusione operata dal sistema capitalistico, infatti, conseguenza di un rapporto mercantile basato sul diritto di proprietà, finisce inevitabilmente per modificare le caratteristiche “ambientali” dei beni collettivi forniti. Ciò che muta non è solo la modalità con la quale si raggiunge una decisione, o si fruisce di un servizio o di un bene, ma la trasformazione riguarda la natura del bene stesso. Centrale diviene dunque il concetto di “scarsità sociale”, secondo cui fino a quando la privazione materiale è diffusa, la preoccupazione dominante è quella di superare la scarsità materiale; man mano che la domanda di beni puramente privati viene soddisfatta, diventa sempre più attiva la domanda di beni e servizi che hanno un carattere pubblico-sociale. In questo secondo caso, ne deriva che la soddisfazione delle preferenze individuali altera di per sè la situazione in cui 29 Hirsch F., 1976, I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano, p.19 Per comprendere la portata del suo ragionamento è necessario rilevarne le premesse. Un concetto centrale della sua analisi è costituito dalla scarsità sociale: “essa esprime l’idea che le buone cose della vita sono limitate non solo da vincoli fisici che impediscono di produrne di più, ma anche da limiti di assorbimento per quanto riguarda il loro uso”. Infatti, dove il contesto sociale ha una limitata capacità di estenderne l’uso senza un deterioramento di qualità, il consumo subisce limiti sociali. Più precisamente, il limite viene imposto alle soddisfazioni che dipendono non dal prodotto o dal servizio presi in sè, ma dalle condizioni d’uso circostanti. 30 8 vengono a trovarsi gli altri che cercano di soddisfare bisogni simili31 . L’esempio classico è la casa in collina immersa nel verde, destinata a trasformarsi in un paese o addirittura in una città nel momento in cui diviene un’aspirazione (ed una possibilità di realizzarla) collettiva. Un altro esempio ci è fornito dalla qualità dell’aria che il cittadino respira oggi nel centro della città, un puro bene sociale (come sono anche l’acqua, i parchi, l’istruzione o l’informazione) che dipende dal contributo che i cittadini danno alla battaglia contro l’inquinamento, o direttamente attraverso la spesa pubblica o indirettamente attraverso la normativa pubblica. Per dirlo con uno slogan: “se l’orgasmo diventa diritto del consumatore, smette di essere un’esperienza spirituale”32 . Frase ad effetto che Hirsch usa per evidenziare l’incapacità del mercato di fornire beni e servizi pubblici senza modificarne le caratteristiche ambientali, intendendo qui per ambiente le condizioni d’uso. Proprio come avviene per il rapporto sessuale basato sull’amore, sulla fiducia e sul romanticismo, dove viene presupposta l’assenza del calcolo individualistico, la fatica del corteggiamento e l’incertezza della meta anelata, che lo differenzia dal rapporto sessuale a pagamento, disponibile a tutti e con clausole evidenti prima del compimento dell’atto. Allo stesso modo avviene per i beni e servizi offerti a pagamento dal mercato. 3. La fredda seduzione dell’oscenità Prendiamo spunto dall’analisi economica dell’orgasmo proposta da Hirsch, e proviamo ad avanzare una lettura in chiave sociologica del rapporto tra sovrabbondanza (di beni come di immagini) e livello di felicità. Negli anni Ottanta, la fe mminista Andrea Dworkin sosteneva che, una volta aperta la diga, la pornografia avrebbe inondato il mondo. Secondo lei, il dilagare delle oscenità avrebbe portato gli uomini a trattare le donne in modo sessualmente degradante. Con un conseguente vertiginoso aumento degli strupri. A rifletterci oltre vent’anni dopo, sembra che pur avendo ragione a proposito dell’ondata di pornografia (e-mail spam del tipo “enlarge your size”, immagini oscene sui computers, sitcom… la pornografia è diventata davvero la carta da parati della nostra vita), la Dworkin si sia sbagliata sui suoi effetti. Il porno, piuttosto che trasformare gli uomini in bestie rozze e affamate, che considerano tutte le donne come pornostar, sta provocando una generazione di uomini eroticamente meno capaci di connettersi alle donne intese come persone. Piuttosto che liberare la libido maschile, infatti, il proliferare di immagini erotico-pornografiche sembra averla affievolita. Essere circondati “Le occasioni di avanzamento economico, mentre si presentano di volta in volta a una persona dopo l’altra, non costituiscono occasioni equivalenti di avanzamento economico per tutti. Quel che ciascuno di noi può ottenere, non possiamo ottenerlo tutti” F. Hirsch, ibidem, p. 18 32 Ibidem, p. 109 9 da immagini di sesso non libera l’Eros, caso mai lo diluisce. Come sanno bene altre culture diverse da quella occidentale, che ancora salvaguardano il potere e il fascino del sesso circondandolo di un alone di mistero misto a sacralità. E gli effetti sembrano essersi fatti sentire anche sull’autostima sessuale delle donne, il cui valore reale o immaginato appare svilito. Al punto che Naomi Wolf - secondo la quale i rapporti tra l’industria del porno, la compulsione e l’appetito sessuale sono diventati gli stessi esistenti fra il settore agroindustriale, i cibi trattati, le maxi-porzioni e l’obesità - si chiede: “come fa una donna normale con la cellulite, un seno naturale, esigenze proprie a competere con una cibervisione della perfezione, scaricabile a proprio piacimento, sottomessa e confezionata secondo i gusti del consumatore?”33 . Così, se da un lato Sassatelli sostiene che il fitness mostra molto bene che, soprattutto per le donne, ancora oggi il tempo libero ha a che fare con la fatica di rendersi fisicamente desiderabili34 ; dall’altro si registra un generale aumento di fenomeni attribuibili al senso di inadeguatezza femminile e alla costante inquietudine provocata dalle immagini pubblicitarie: dai corsi di “emotional fitness” per frenare l’insicurezza (i corsi insegnano tecniche di rafforzamento dell'autostima, di maggiore consapevolezza di sè, di fiducia nelle proprie capacità), all’aumento dei casi di anoressia (malattia tipica di un contesto socioculturale che detta precise regole estetiche improntate al connubio “successo-belle- magrezza”), sino alla diffusione dell’uso di cocaina tra le donne di 30-40 anni “con stipendi medi, libere profesioniste, managers, impiegate, madri con figli piccoli o single palestrate e attente alla dieta, che la usano per combattere la depressione.”35 Ritornando alla profezia non avveratasi della Dworkin, una spiegazione plausibile di questo rapporto inversamente proporzionale esistente fra seduzione/sesso facile e piacere, la si trova nell’effetto che Baudrillard chiama “fascinazione”, cioè una seduzione interamente artificiale e figlia dell’oscenità. Secondo l’intellettuale francese, infatti, nella società contemporanea le strategie di seduzione stanno assumendo una forma diversa rispetto al passato. Si tratta di una seduzione “fredda”, che passa “dalla sua accezione radicale (duale, rituale, agonistica, con una posta in gioco massima) alla sua accezione molle, la seduzione d’atmosfera, erotizzazione ludica di un universo senza poste in gioco”36 . Seduzione che caratterizza le merci e che da queste ultime si è diffusa a tutta la società. 33 N. Wolf, “Il porno che ha ucciso il desiderio”, D di Repubblica, 10 gennaio 2004, p. 38. Cfr. R. Sassatelli, Anatomia della palestra. Cultura commerciale e disciplina del corpo, Il Mulino, Bologna, 2000 35 Secondo lo studio realizzato da Repubblica, le nuove consumatrici iniziano ad usarla per stare "più allegre", "più sù", rendere meglio in ufficio e fare tardi la notte. E’ in più un eccitante, utile dunque per dimagrire. E non si esclude che, paradossalmente, le consumatrici siano spesso salutiste, pronte a "un tiro ogni tanto" contro lo stress. Cfr. D, la Repubblica delle donne, 28/6/2003 36 Cfr. V. codeluppi, 2003, ibidem. 34 10 Allo stesso modo Foucault sostiene la tesi della quotidianità “desessualizzata”. Secondo l’autore, infatti, le società occidentali avanzate, a differenza di quelle che le hanno precedute, producono moltissimi discorsi sul sesso, il quale, però, più se ne parla, più si indebolisce sul piano sociale. E qualcosa di simile afferma anche Roland Barthes a proposito della natura dello spettacolo di striptease, che a suo parere “poggia su una contraddizione: desessualizzare la donna nel momento stesso in cui la si spoglia”. Questo, secondo Barthes, costituirebbe una sorta di vaccino necessario per immunizzare il pubblico: “alcuni atomi di erotismo, designati dalla situazione stessa dello spettacolo, sono infatti assorbiti in un rituale rassicurante che cancella l’elemento carnale”. Il male viene dunque ostentato, su un corpo femminile carico di segni vestimentari artificiali, per poterlo esorcizzare meglio. “Il fine dello strip – conclude Barthes – non è più allora quello di portare alla luce una profondità segreta, ma, attraverso l’eliminazione di un vestimento barocco e artificiale, di significare la nudità come abito naturale della donna, che equivale a ritrovare in fondo uno stato perfettamente pudico della donna”. In linea con esse è la lettura che propone Codeluppi a proposito del sesso globale che pervade la società dei consumi. Secondo il sociologo italiano, la seduzione tradizionalmente intesa (che richiede soprattutto tempo) è “incompatibile con la società attuale, che è caratterizzata dall’intensificazione dei ritmi dell’esistenza”. Tra le cause di ciò, Codeluppi indica “la sovrabbondante circolazione odierna di segni relativi al sesso, l’incontrollata proliferazione di immagini sessuali sulle strade, sulla carta stampata e sugli schermi, il dilagare dei codici del porno al di fuori dei confini in cui erano stati tradizionalmente rinchiusi”. Tutti fenomeni che rendono disponibile l’eros in ogni luogo, indebolendo di conseguenza il desiderio “perché facendo diventare normale ciò che era eccezionale, tolgono il piacere della scoperta”37 . E’ nostra convinzione, però, che questo processo diffuso di “desessualizzazione”, sebbene provochi un’indebolimento del desiderio, non è affatto destinato a scomparire. Piuttosto, da questo punto di vista, ci sembra di vivere in una società in cui la soddisfazione del piacere come modalità di soddisfazione specifica viene progressivamente sostituita sia da uno stato di eccitazione generalizzata che rinnova costantemente il desiderio, sia da una ricerca di felicità che supera il piacere e, anzi, si caratterizza proprio per una rinuncia al piacere immediato in vista di un piacere maggiore. L’affermarsi del wellness accanto al fitness, della slow life accanto al fast food, della prevenzione medica e delle terapie orientali che tengono in conto la salute psicofisica accanto all’abuso di farmaci da banco, sono alcuni esempi di come l’ottundimento del desiderio conviva e, anzi, stimoli una riflessione verso la rinuncia del godimento immediato. 37 Ibidem, p. 101 11 4. Del bisogno di aver desideri La definizione può apparire estrema, eppure se focalizziamo la società contemporanea attraverso l’antico e controverso rapporto tra godimento e felicità, ci appare l’immagine di un corpo che vive continuamente in bilico tra l’euforia ossessivo-compulsiva e l’apatia post-orgasmica. Osservato da questo angolo, l’Occidente appare abitato da una moltitudine alla ricerca del desiderio perduto 38 . Tra le cause di queste “oscillazioni sociali” possiamo annoverare il meccanismo perverso del capitalismo consumistico, che tende a iperstimolare il desiderio sino ad annullarlo in nome del piacere immediato. Piacere che, anche a causa del fatto che la società del consumo esalta e dilata il tempo presente rispetto al futuro, tende spesso a coincidere con il godimento compulsivo, che si realizza senza sacrificio e che tende ad auto-rinnovarsi in maniera ossessiva, incosciente: come per riempire il vuoto di un contenitore che esige solamente di essere riempito. La grande astuzia del meccanismo capitalista d’altronde consiste proprio, da un lato, nell’alimentare l’illusione che il consumo di beni possa realizzare un godimento senza limiti e, dunque, un’otturazione del vuoto, ma dall’altro, nel rinnovare in modo continuo questa stessa domanda di consumo attraverso la creazione di sempre nuove pseudomancanze. L’obesità generalizzata della nostra società, come altri comportamenti compulsivi odierni (dallo shopping al sesso compulsivo, dalla tossicomania alla bulimia, all’abuso giovanile di alcool) mostrano precisamente l’effetto asfissiante che l’oggetto troppo prossimo può provocare nei confronti del desiderio 39 . Eppure nel consumo convivono iperstimolazione e disciplina, inquietudine e controllo del desiderio. Se da un lato, infatti, determinati atteggiamenti verso il consumo favoriscono lo sviluppo di personalità deboli e perennemente insoddisfatte, che vanno alla continua ricerca di una gratificazione negli acquisti; dall’altro si sviluppano sensibilità nuove orientate, per esempio, alla diffusione di fenomeni di sobrietà e riduzione volontaria dei consumi. Vi è poi la nostra ambivalente condizione di consumatori e produttori al contempo, che oltre ad una “schizofrenia” economica chiama in causa le diverse “ingiunzioni etiche” a cui siamo 38 Non è di nostra competenza una definizione in chiave psicanalitica di questi che potremmo definire “comportamenti associati a disturbo mentale”, ma l’impressione è che vi sia una sorta di predisposizione verso l’isteria, il cui confine con la simulazione è spesso molto labile, o verso la nevrosi, in quanto in genere la persona non confonde le proprie esperienze e fantasie patologiche soggettive con la realtà esterna. Di certo, l’aumento di farmaci psicotropi (consumati negli USA dal 10% della popolazione; giunti ormai in Italia – dove sono quintuplicati in due anni - al quarto posto tra le classi di medicinali pagati dal Sistema sanitario nazionale; in Italia è tornato in commercio il Ritalin, dopo che era stato ritirato perché usato come stupefacente o dimagrante dagli adulti) può far pensare ad una sintomatologia che tende spesso a caratterizzarsi come risposta all'ambiente o a reazioni emozionali opprimenti ed apparentemente inaffrontabili dal soggetto; con un comportamento che, seppur alterato, tende a rimanere entro limiti sociali accettabili 39 Cfr. Recalcati M., La clinica del vuoto: anoressie, dipendenze, psicosi, FrancoAngeli, Milano, 2002; Kristeva J., Le nuove malattie dell’anima, Borla, 1998; Freda H., Psicoanalisi e tossicomania, Mondatori, Milano, 2001. 12 sottoposti40 . Uno dei temi della studiosa femminista Susan Bordo, ad esempio, sostiene che il self contemporaneo tende a costruirsi sulla base di richieste contraddittorie che ci inducono ad incorporare tanto la disciplina dell’etica del lavoro quanto la capacità di consumare quanti più oggetti possibili, sì da abbandonarsi al godimento immediato. “Da un lato, in quanto produttori di beni e servizi dobbiamo sublimare, inibire, reprimere il desiderio di una gratificazione immediata: dobbiamo coltivare l’etica del lavoro. Dall’altro – continua la studiosa – in quanto consumatori dobbiamo esibire una capacità illimitata di cedere al desiderio e assecondare l’impulso: dobbiamo anelare a una soddisfazione costante e immediata”41 . E’ d’altra parte proprio questo che, secondo Bauman, distingue l’attuale “società sotto assedio”. Se la vita organizzata intorno al produttore tendeva ad essere regolata normativamente – scrive Bauman –, “la vita organizzata intorno al consumo, per contro, è priva di norme: è guidata dalla seduzione, da desideri sempre maggiori e da capricci volubili, non più da una regolamentazione normativa”42 . L’attitudine diffusa di trovare nel consumo un’attività gratificante, che l’intellettuale polacco definisce “sindrome consumista”, sembra operare un vero e proprio capovolgimento dei valori: velocità, eccesso e spreco costituiscono le mete della libertà individuale offerta dalla società dei consumi. Dove però, a ben vedere, si tratta di una pseudo libertà, che “non può fare a meno di gadget e prodotti forniti dal mercato”, dettata dalla dipendenza dello “shopping come rito di esorcismo”, “dall’autoidentificazione tramite l’uso di articoli pubblicizzati e prodotti in massa”43 . Così che il nucleo del problema etico postmoderno non sembra essere tanto la mancanza di certezze sulle quali basare le proprie scelte, bensì la mercificazione consumistica della vita quotidiana, che costringe gli individui ad essere “vagabondi o turisti”, spinti da disillusione e speranze frustrate, pellegrini senza meta che girovagano nel mondo senza “l’ingombrante, paralizzante, deprimente, angosciante fardello della responsabilità morale”. Letto in questa prospettiva, il diritto al consumo, dunque, non solo non trova un corrispondente dovere che lo garantisca, bensì corre il rischio di ridursi ad un semplice “godimento” delle sensazioni fornite dall’esteriorità delle immagini stesse, al punto da provocare comportamenti “schizofrenici”, provocati dall’impulso di riempire il proprio vuoto interiore tramite la momentanea 40 In questa citata ambivalente condizione che ci contraddistingue in quanto consumatori e produttori al contempo, e che può contribuire a creare in noi una sorta di “schizofrenia”, vi sono gli effettei derivanti dal processo di concorrenza tra le imprese che porta, attraverso il contenimento dei costi, ad una maggiore varietà di beni con prezzi sempre più vantaggiosi. Dall’altro lato però, questa stessa concorrenza crea una tensione al ribasso dei costi dei fattori produttivi che si traduce in riduzioni del salario. Al punto che, sottolinea Becchetti: “l’individuo viene esaltato dalla concorrenza perfetta in qualità di consumatore, con lo stesso processo attraverso il quale riduce il suo benessere e rischia di essere precarizzato in qualità di lavoratore”. Cfr. Becchetti L., “Responsabilità sociale e consumatori”, in R. Paltrinieri e M.L. Parmigiani, op. cit., p. 85 41 S. Bordo, Il peso del corpo, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 134. 42 Bauman Z., Modernità liquida, 2000, pp. 79 - 80 43 Ibidem, p. 88 13 intensità emotiva di rinnovati possessi materiali. La “sindrome consumista” appare allora “molto più che una fascinazione connessa al piacere di ingerire e digerire, all’esistenza di sensazioni piacevoli, al divertimento, ai bei momenti”, poiché addirittura innalzata ad un programma di vita basato sul rifiuto di quelle virtù che sono la procrastinazione e il “ritardo della gratificazione” – i due pilastri assiologici della “società a centralità produttiva. Di certo, rispetto alla società precedente, esistono ingiunzioni contraddittorie proprio dell’attuale epoca. Non a caso Ehrenberg sostiene che “siamo diventati puri individui, nel senso che non vi è più alcuna legge morale né alcuna tradizione a indicarci dall’esterno chi dobbiamo essere e come dobbiamo comportarci” 44 . Dal ’68 in avanti, la società della disciplina, una macchina che si alimentava della contrapposizione permesso/proibito e regolava l'individualità fino a tutti gli anni '50 e '60, ha perduto ogni efficacia. Oggi, il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se stessi pongono l’individualità in una condizione di continuo movimento. Sì che nel rapporto tra individuo e società, la misura dell'individuo ideale non è più data dalla docilità e dall'obbedienza disciplinare, ma dall'iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L'individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato. E ciò sconvolge l’intimità di ciascuno di noi, costretto nella morsa angosciante delle “infinite possibilità”, a dover giudicare da solo, con l’obiettivo di riuscire a fare un minimo di ordine in un’esperienza frammentata e a cogliere almeno qualcuna delle tante possibilità a disposizione. Nell’attuale società dell’incertezza – scrive Sennet - il dogma sociale non è più quello dell’inibizione, ma quello della performance. In un mondo che manca di certezze, è l’individuo che deve fare la fatica di ricomporre dentro la propria biografia le direttive che la vita sociale gli impone, con le sue esigenze di senso e di sopravvivenza 45 . Il passaggio dall’inibizione alla performance rappresenta bene il meccanismo in atto per colmare il vuoto lasciato dai vecchi legami ormai logori. L’estrema fragilità dei legami umani è probabilmente la cartina di tornasole dell’epoca contemporanea. L’epoca dell’“amore liquido”, direbbe Bauman46 . Un’epoca di individualismo rampante, in cui le relazioni vacillano costantemente tra un dolce sogno e un incubo orribile, tra l’attrazione e la repulsione estrema, la soddisfazione e la frustrazione, la speranza e la paura. Stringere i legami o mantenerli allentati? 44 Ehrenberg A., La fatica di essere se stessi: depressione e società, Einaudi, Torino, 1999, pp. 8-9 45 Cfr. Sennet R, 1999, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita delle persone, Feltrinelli, Milano; Beck U., 1996, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 46 Cfr. Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2004. 14 Coltivare l’amore attraverso una relazione seria o lasciar sempre aperta la porta alle nuove possibilità romantiche, che si riveleranno magari più soddisfacenti e appaganti? Opposti desideri che contribuiscono ad alimentare la sensazione di insicurezza, quando non di vera e propria ansia. Tornando al controverso rapporto tra godimento e felicità, ovvero tra l’infelicità che si crea quando viene bruciata la distanza tra il desiderio e il suo appagamento, Recalcati sottolinea come “l’euforia del consumo può distrarre dalla depressione”. Ma lo stesso nota che, come la psicanalisi insegna : la passione del volere non si esaurisce nel consumo di nessun oggetto, perché l’oggetto del desiderio è, come tale, da sempre perduto. In luogo della mancanza subentra allora un senso di soffocamento, l’ottund imento del pensiero, il ripiegamento su di sé che taglia la dimensione sociale della relazione con l’altro. Al punto che il godimento diventa routine. E smette di essere un’esperienza spirituale. Letto da un diverso punto di vista, allora, il passaggio dal piacere immediato alla ricerca della felicità riguarda la coltivazione del desiderio, che può avvenire attraverso l’auto- imposizione di limiti che modulino il nostro rapporto con il godimento. La ricerca della felicità, oggi, sembra manifestarsi proprio attraverso il recupero del sacrificio e della rinuncia: dimensioni che rimandano al tempo futuro, tempo che Eugenio Borgna – in un saggio di riflessione sul mondo della follia – definisce dell’attesa e della speranza. “Senza attesa e senza speranza il tempo si fa deserto che, in assenza di futuro, si espande dal presente muto in cui, per invivibilità, il depresso disabita ogni evento, al passato che ha desertificato amori che non si sono radicati, creatività estinte al loro sorgere, ricordi che non hanno nulla a cui riaccordarsi, in quella solitudine frammentata dove l’identico, nella sua immobilità senza espressione, coglie quella’altra faccia della verità che è l’insignificanza dell’esistere”47 In mancanza di un’autorità esterna, alla felicità si giunge allora attraverso l’auto- imposizione di regole che hanno come scopo quello di ritardare il piacere, di ricreare una mancanza, un vuoto che è appunto la radice del desiderio. Si tratta, così focalizzata, della ricerca di una felicità volta a ridurre la schiavitù contemporanea: un recupero del vecchio imperativo del sacrificio (quello del “Devi!”) contro il (o accanto al) nuovo imperativo dell’esigenza di godere (“Godi!”). La ricerca della felicità attraverso la rinuncia appare la dimensione propria di una società post-coitale. Una società ormai giunta, attraverso il passaggio dal bisogno (dovuto alla scarsità materiale dei beni) al desiderio (in una situazione storica di produzione e consumo di massa) all’attuale fase che potremmo chiamare “del bisogno di aver desideri”. In questo senso, la ricerca della felicità si configura come una tra le tendenze più 47 E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano, 2005. 15 interessanti di una società sovrastimolata di immagini e beni, eppure annoiata e stanca di rincorrere sempre il godimento, di vivere in uno stato di eccitazione continuo. La felicità risponderebbe dunque – come sostiene Di Nallo - ad un progetto auto-normativo, la cui ascesi rimane comunque intramondana 48 . Un progetto soggettivo e individuale volto non solo ad aggirare la classica “delusione post-acquisto”49 , ma soprattutto a superare il senso di angoscia derivante dalla mancanza di desideri; una sorta di propria ecologia della mente volta a superare l’ottundimento del pensiero causato dal perseguimento ossessivo del godimento. 48 Cfr. R. Paltrinieri, Consumi e globalizzazione, Carocci, Ro ma, 2004. Questo senso di delusione, dovuta al dover trasporre continuamente il “significato rimosso”, è ben spiegato da G. Mc Cracken. Ma il meccanismo che l’antropologo canadese individua alla base di questa delusione è ben sintetizzato da un aforisma di Oscar Wilde: “Gli dei ci puniscono quando esaudiscono i nostri desideri”. 49 16