la Voce del popolo la Voce del popolo spettacoli www.edit.hr/lavoce Anno 3 • n. 15 martedì, 28 marzo 2017 ILMUSICAL NATOPERDIVERTIREESORPRENDERE CRITICA IL PERSONAGGIO CINEMA RICORRENZE Il film «Split», di M. Night Shyamalan Un ritratto del cantautore italiano Paolo Conte «Vi presento Toni Erdmann» un capolavoro di Maren Ade La Giornata Mondiale del Teatro 2017 L’ultima fatica del regista indo-americano esplora i meandri della mente umana. Protagonista il brillante James McAvoy. L’Avvocato, che vanta una carriera internazionale, ha celebrato quest’anno il suo 80º compleanno. La pellicola, candidata all’Oscar come migliore film straniero, è al contempo esilarante e drammatica. Si celebra dal 1962 per promuovere le arti di scena. Isabelle Huppert firma il messaggio internazionale. 3 4|5 6|7 8 TEATRO MUSICALE spettacoli la Voce del popolo a cura di Ivana Precetti LA STORIA DEL MUSICAL, CHE NASCE TRA I CETI POPOLARI DELLA SOCIETÀ AMERICANA, INIZIA NELLA SECONDA METÀ DEL XIX SECOLO UNGENEREBRILLANTE RIVOLTOALLEMASSE || Elena Brumini in una scena del musical “Mamma mia!” I più famosi D opo il grande successo in Croazia dei musical “Mamma mia!” (in produzione croata che vede tra i protagonisti la nostra bravissima attrice Elena Brumini) e “Cats” (produzione inglese con cast originale londinese), conosciamo meglio questo genere che non può non piacere in quanto racchiude in sé musica, canto, ballo e recitazione. Il musical – riporta Wikipedia – è un genere di rappresentazione teatrale e cinematografica, nato e sviluppatosi negli Stati Uniti tra l’Ottocento e il Novecento. Un suo corrispondente in Italia è la commedia musicale, con cui condivide l’uso di più tecniche espressive e comunicative insieme. L’azione viene portata avanti sulla scena non soltanto dalla recitazione, ma anche dalla musica, dal canto e dalla danza che fluiscono in modo spontaneo e naturale. È uno spettacolo derivato dall’opera e adattato al gusto e al costume statunitense. Il musical è costituito da una commedia, in genere brillante e d’ambientazione americana nella quale sono presenti brani che appartengono ai generi della musica leggera, del jazz, o derivano dall’opera lirica e dal balletto. Tutti questi linguaggi sono uniti tra loro grazie a un’orchestrazione elegante e perfetta. In esso non c’è fusione tra i diversi linguaggi; i diversi generi sono invece affiancati in una compresenza ben integrata e armonizzata. Nasce nel 1866 In questo genere ogni particolare risulta indispensabile per la riuscita dello spettacolo, dai costumi dalla scenografia includendo regia, coreografie e luci senza dimenticare gli attori (chiamati performers) che devono essere in grado di comunicare emozioni ricorrendo, spesso contemporaneamente, a discipline come la recitazione, la danza e il canto. Si può affermare che il musical nasce il 12 settembre 1866, giorno in cui negli Stati Uniti viene messa in scena per la prima volta un’opera, “The Black Crook”, nata dall’unione || Una scena del film “Cabaret” fra una compagnia di ballo e canto importata dall’Europa, con una compagnia di prosa. Questa collaborazione deriva dal fatto che la prima era rimasta senza un teatro in cui esibirsi, mentre la seconda era alle prese con una produzione che si stava rivelando assai più costosa del previsto. Superate le difficoltà economiche e organizzative ci fu la prima dello spettacolo che si svolse al Niblo’s Garden Theatre (USA). Il musical ha quindi origine dai ceti popolari della società americana, in cui vi erano numerosi gruppi d’immigrati appartenenti a etnie differenti, e si sviluppa come una forma di teatro rivolta alle masse e a un pubblico molto variegato. La sua struttura e il suo stile permettono allo spettatore di poter seguire lo spettacolo come nel vaudeville (teatro di varietà), risultando più scorrevole e di più semplice comprensione rispetto alla prosa tradizionale. La bravura degli attori, la grazia delle ballerine, la capacità nel canto: sono queste le caratteristiche che hanno permesso la nascita e lo sviluppo di questa forma di spettacolo. Si diffonde negli Stati Uniti e in Europa Partendo da New York e Broadway, nasce una tradizione che si diffonderà a macchia d’olio, portando la cultura del musical per le grandi e piccole città degli Stati Uniti. Il musical si diffonderà successivamente in altre città d’Europa anche se risulta difficoltoso farlo conoscere ai Paesi di lingua non anglosassone. Per far fronte a questo, in alcune opere si è ricorso alla traduzione dei testi, mentre in altri casi sono stati utilizzati sottotitoli. Questo ha permesso di non perdere comunque la capacità tipica dello spettacolo di rendersi comprensibile al pubblico per la sua forma peculiare. Bisogna riconoscere che la diffusione del musical è stata agevolata dalle versioni cinematografiche di Hollywood, che hanno contribuito alla maggiore conoscenza e popolarità di questo genere. Ma quali sono i musical più belli di sempre? Proviamo a fare un lista di quelli che hanno lasciato una traccia indelebile nella storia del teatro, della musica e del cinema. Iniziamo con “Jesus Christ Superstar”, che è un’opera definita, a tutti gli effetti, rock. Racconta in musica l’ultima settimana di vita di Cristo, dal punto di vista, anomalo quanto, per alcuni, blasfemo, di Giuda. Rappresentata per la prima volta a Broadway nel 1971, fu riproposta sullo schermo, modificata in alcuni testi, nel 1973. Definito il musical della rivoluzione, contiene, per testi, musica e attori protagonisti, alcune delle performance artistiche più belle mai realizzate nella storia del cinema. “Hair” è l’emblema musicale della rivoluzione hippie. È un musical rock che rappresenta il risultato più felice della controcultura americana degli anni ‘60. Dopo il debutto a Broadway nel 1968, l’opera di James Rado e Jerome Ragni conobbe una fortunatissima riduzione cinematografica firmata da Miloš Forman, che confermò il successo del musical, non soltanto come opposizione pacifista alla guerra del Vietnam, ma come straordinario mix di musica e danza. “Grease” è uno dei musical più famosi in assoluto. È diventato un cult grazie alla versione cinematografica realizzata nel 1978 e diretta da Randal Kreiser, con protagonisti John Travolta e Olivia Newton John. Debuttò in scena nel 1971 a Chicago, il film ne consolidò la fama riprendendone numeri musicali, battute e scherzi. “Cats” è uno dei più grandi successi teatrali di tutti i tempi, per longevità, spettatori e incassi. Composto nel 1981 da Andrew Lloyd Webber, è ispirato alle poesie sui gatti che Thomas Stearns Eliot aveva dedicato ai nipotini. L’opera deve il suo successo anche alla struggente “Memory”, scritta da Trevor Nunn, ispiratosi alla poesia di Eliot “Rapsodia su una notte di vento”, diventato un classico tra i brani tratti dai musical teatrali. West Side Story Scritto da Jerome Robbins, che ne curò la regia e le coreografie, da Leonard Bernstein (musiche) e da Stephen Sondheim (testi), il celebre musical “West Side Story” debuttò a Broadway nel 1957. Il film del ‘61, con Natalie Wood come protagonista, vinse ben 10 Oscar, tra cui DINO STANIN/PIXSELL 2 martedì, 28 marzo 2017 quello come miglior film. La storia è un rifacimento della tragedia shakespeariana di Romeo e Giulietta, in cui il tema tragico, la musica sofisticata e le istanze sociali rappresentate, segnarono il linguaggio musicale del teatro inglese, impegnato, fino a quel momento, nella rappresentazione scenica di temi molto più leggeri. Innumerevoli le canzoni famose, tra le quali ricordiamo “Maria”, “America”, “I Feel Pretty” e “Something’s Coming”. “Porgy and Bess” è uno dei musical più famosi della storia americana, composto da George Gershwin, e anche il primo che ponga al centro la condizione dei neri. Datato 1935, la prima rappresentazione avvenne al teatro di Boston: narra la storia del povero mendicante Porgy che vuole salvare l’amata Bess dalle grinfie di un pappone. Numerosi brani sono diventati classici del jazz, come “Summertime” e “I Loves You Porgy”. Due le versioni cinematografiche, nel 1959 e nel 1993. Cabaret Debutto a Broadway nel 1966 per “Cabaret”, lo speciale musical ambientato nella Berlino degli anni Trenta, in piena ascesa del nazismo. La storia dell’amore della diciannovenne cabarettista inglese Sally Bowles per l’americano Cliff Bradshaw sarà resa immortale dall’interpretazione di Liza Minnelli nella produzione cinematografica del 1972, per la quale vinse l’Oscar. Concludiamo con “Mamma mia!”, musical, in due atti, scritto dalla drammaturga inglese Catherine Johnson e basato sulle canzoni del gruppo musicale pop svedese ABBA. Il titolo stesso riprende quello di una delle loro canzoni più famose, appunto “Mamma Mia”, del 1975. La colonna sonora del musical include i più grandi successi degli ABBA tra cui “Super Trouper”, “Dancing Queen”, “Thank You for the Music”, “The Winner Takes It All”, “Lay All Your Love on Me” e “S.O.S.”. La trama ruota attorno alle vicende di Sophie e di sua madre, Donna. Sophie, in procinto di sposarsi, vorrebbe l’assenso del padre, che non ha mai conosciuto. Decisa a scoprire l’identità del genitore, si troverà a dover decidere chi, fra tre possibili candidati, è l’uomo che sta cercando. spettacoli la Voce del popolo CRITICA martedì, 28 marzo 2017 3 di Dragan Rubeša 23TASSELLI DIUNMOSAICO DELLAPAURA L o “split personality“ è una delle principali ossessioni tematiche del cinema di genere, che da Psycho in poi ha metaforizzato molte paure occidentali, da John S. Robertson (Dr Jekyll and Mr Hyde) e Jacques Tourneur, fino a Brian De Palma e Dario Argento. Basta ricordare la leggendaria e ironica battuta pronunciata da Anthony Perkins nel film di Hitchcock (“Mother’s not quite herself today“ – Mamma oggi non è sè stessa). Hitchcock ha trasformato questa commedia nera in un distaccato essai freudiano sulla schizofrenia con elementi granguignoleschi. Un percorso simile segue anche De Palma nel film Raising Cain, ovvero nella figura dello psicologo infantile, il dott. Carter Nix (John Lithgow) e il suo mostruoso alter ego Cain. De Palma è sempre stato un seguace fedele di Alfred Hitchcock: lo ha dimostrato nel brillante thriller Vestito per uccidere, che altro non è che un coraggioso adattamento di Psycho. Cinema ibrido Allo stesso modo, l’intero opus di M. Night Shyamalan si basa sugli eterni “split” emotivi che sfuggono alla linearità delle trame. Un cinema ibrido, mai finito, sempre proiettato tra le ombre. I suoi film migliori, come Unbreakable e The Visit, sono caratterizzati da una suspense estremamente emotiva. Shyamalan si muove eternamente tra horror, teen movie e thriller soprannaturali, forzando i suoi codici verso nuovi binari. Nel caso di Split, non ci sono due bensì 23 personalità diverse in un uomo chiamato Kevin (interpretato da un bravissimo James McAvoy), affetto da un disturbo dissociativo dell’identità. Queste 23 personalità si possono osservare come 23 possibili tasselli di un mosaico perverso, ossia 23 puntate diverse di una serie TV. Il bambino impaurito, l’ossessivo violento, la fanatica religiosa, lo stilista gentile, il mostro/alieno... sono tutti riuniti in un singolo corpo, e confinati in un singolo ambiente fuori dal mondo. Il suo lato femminile era stato già esplorato in Vestito per uccidere, di De Palma, anche se qui la IL FILM «SPLIT», DI M. NIGHT SHYAMALAN, TURBA, SORPRENDE E DISEGNA DELLE NUOVE POTENZIALI TRAIETTORIE figura dell’uomo dalla duplice personalità vestito da donna è più complessa. Record hollywoodiano Le 23 personalità diverse presenti in un uomo sono una specie di record hollywoodiano se paragonate alle sette personalità che ha ritratto Tom Hanks nel film Cloud Atlas o alle otto personalità di Alec Guinness in Kind Hearts and || James McAvoy e Anya-Taylor Joy Coronets. Come l’autismo, che nei film trasforma i personaggi in geni della matematica, così il disturbo dissociativo dell’identità trasforma i protagonisti in psicopatici. Anche quando si tratta di comici del calibro di Jim Carrey (Me Myself and Irene), il cui personaggio del poliziotto buono lotta con quello cattivo che evoca le patologie di Dirty Harry per conquistare il cuore di Renèe Zellweger. Mentre Il sesto senso è stato girato in un’epoca in cui non esistevano gli spoiler che possono rovinare il piacere della visione del film, quando non potevate scoprire così facilmente che Bruce Willis è uno spirito, oggigiorno basta soltanto visitare qualche media sociale e venire a sapere che James McAvoy è... No, non riveleremo questo dolce segreto. Ma ciò che ci resterà impresso di praticamente tutti i film di questo autore non sono tanto le strane scoperte nel finale e le impressionanti inquadrature. Invece, sono interessanti perché non siamo completamente sicuri in quale direzione si svilupperanno le loro storie, verso una fiaba o un film dell’orrore, un trauma di vendetta e di rimorsi dei superstiti o la storia di un supereroe paranoico. Però, Split non gioca con questo tipo di incertezze, in quanto fin dall’inizio è chiaro che ci troviamo a metà strada tra Oldboy e 10 Cloverfield Lane, anche se il film di Shyamalan non è così crudele e umoristico come i suoi lavori precedenti. Shyamalan non rivela a che cosa pensano le identità di Kevin, ma semina tracce per svelare il mistero durante le sessioni con la terapeuta che è convinta che persone come lui sono “più grandi di noi” e rappresentano la chiave della conoscenza di una nuova forma di “evoluzione dell’essere umano”. Quale delle numerose personalità di Kevin cerca disperatamente aiuto, prima che faccia del male alle ragazze? È possibile che una personalità sia la maschera di un’altra? Certo, Shyamalan non resiste a non offrirci almeno per un attimo qualche miracolo parapsicologico che libererà la parte recondita della mente. Come nella psiche di Kevin coabitano una serie di identità di forza e intelligenza diverse, così anche Split è un film ambiguo dal punto di vista del genere. Si tratta di un film che turba, sorprende e disegna delle nuove potenziali traiettorie. Bravura registica Un opus sincero L’inizio del film è eccezionale, con la scena del rapimento delle tre ragazze capeggiate da Casey (la brillante Anya-Taylor Joy) nel parcheggio, una prova indiscutibile della bravura registica di Shyamalan. Il regista ottiene il massimo dell’espressività con l’ausilio delle immagini, senza che venga pronunciata una sola parola. Le ragazze sono in automobile, una sul sedile accanto al conducente, le altre due sui sedili posteriori, alle prese con i loro telefonini. Il portellone del bagagliaio è sollevato, per cui la ragazza non può vedere nello specchietto retrovisore che cosa sta succedendo dietro. Per Shyamalan è sempre molto più intrigante ciò che è invisibile di ciò che è visibile, come la prima apparizione del personaggio di McAvoy sul posto del conducente. Le ragazze vengono portate in cantina, una di quelle che evocano la retorica del Natascha Kampusch Movie, prigioniere nella casa di un uomo di identità e alter ego diversi. Ciascuna di queste identità lotta per diventare dominante. Ma la medesima Infatti, ciò che interessa a Shyamalan non è mai la fine di una storia, ma l’inizio di un percorso, la creazione di un nuovo mostro brutale e disperato. Per questo motivo, il suo cinema, a prescindere dagli alti e bassi, è sempre così maledettamente sincero. Anche se Split è stato prodotto dalla Bloomhouse, specializzata per gli horror (erotici) a basso costo, per cui a momenti abbiamo l’impressione che il pudico Shyamalan si sentisse un po’ a disagio avendo dovuto accettare alcune delle richieste del produttore, ovvero di far sì che le giovani si spoglino e mostrino la biancheria intima, dal momento che il loro molestatore non sopporta le camicie sporche. Per questo motivo, la lama del coltello che sfiora la loro pelle, qualche centimetro dal bordo delle mutandine, è forse la scena più spinta dell’intero opus di Shyamalan. Sembra come se si sentisse un po’ imbarazzato per questo tipo di “sfruttamento”. Anche perché questo film non sfrutta il motivo dell’abuso della carne femminile, bensì lo critica. cantina qui non è una tana simile a quelle del genere torture porn, bensì simboleggia una mente serrata. Il pubblico ha il compito di “aprirla”. All’inizio non è chiaro che cos’è che vuole Kevin dalle sue prigioniere, ma continua a minacciarle ripetendo che “qualcuno viene a prendervi e non vi piacerà” e raccontando storie su un’identità mostruosa che ancora non si è rivelata. Una nuova forma di evoluzione dell’essere umano 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo martedì, 28 marzo 2017 IL PERSONAGGIO UNAMUSICACHERICHIAMASOGNI,R U na leggenda metropolitana vuole che il dottor Paolo Conte, un bel giorno della prima metà degli anni Settanta, dopo una carriera forense niente male, stufo di difendere veri e presunti colpevoli, abbia gettato la toga e deciso di intraprendere la via della canzonetta, che già frequentava da autore. Mentre le bugie hanno le gambe corte, il guaio delle mezze verità è che quasi sempre diventano Vangelo, sì da non conoscere demolizioni di sorta. La realtà, viceversa, è un’altra. Fors’anche più affascinante. Paolo Conte – astigiano, classe 1937, venuto al mondo insieme alla Befana – ebbe il suo primo incontro con la musica molto tempo prima di dedicarsi allo studio del Diritto, materia che comunque aveva cominciato a conoscere già da bambino, essendo figlio di un avvocato. È bambino-ino-ino quando vi si avvicina: in casa dei nonni, durante la Seconda guerra mondiale. L’amore, la curiosità, l’orecchio gli vengono trasmessi dai genitori, i quali clandestinamente – il Ventennio non ama il jazz, sebbene paradossalmente uno dei più grandi pianisti della più autentica espressione artistica afroamericana è stato proprio il figlio del Duce, Romano Mussolini – acquistano sottobanco dischi di musicisti dell’epoca dello Swing, Bianchi e Neri. Paolino impara a suonare il piano e, cresciuto, anche il vibrafono – Lionel Hampton, più in virtù della carica di simpatia che emanava, che non grazie al virtuosismo, ne ha incollati parecchi di giovani nel mondo a questo stranissimo strumento a metà strada tra il pianoforte e una batteria... di batterie. Naturalmente, non può mancare l’apprendimento del sassofono, fiato principe della musica jazz, che in quegli anni Conte sente suonare da geniacci del calibro di Coleman Hawkins, Lester Young, Benny Carter, Illinois Jacquet, Johnny Hodges, tutta la relativa sezione della band di Duke Ellington, i boppisti già membri dell’orchestra di Billy Eckstine, con in testa il tenore Dexter Gordon e l’immaginifico Charlie Parker al sax alto... Dalla metà dei Cinquanta ecco che Conte entra a far parte di vari combo (complessi con tre-cinque-sette componenti, nati con il jazz moderno dei Quaranta). Suona, ma anche ascolta tanta musica. E legge, legge moltissimo, tanto che intorno alla fine dei Cinquanta sarà prescelto per rappresentare l’Italia a una gara internazionale a quiz di jazz, dove si piazzerà al terzo posto. Nel frattempo, tra un concertino e l’altro, si laurea a Parma, pronto per entrare nello studio legale del padre. Non risulta che questa strada non gli piaccia. Cionondimeno, continua a suonare. E inizia a comporre. Le sue primissime canzoni (i testi, però, sono di Giorgio Calabrese) sono per la semiesordiente Vanna Brosio e per la veterana Carla Boni: chi non ricorda il suo “Mambo italiano” di pochi anni prima, divenuto in seguito un hit mondiale grazie alla bellissima zia di George Clooney, Rosemarie... la Voce spettacoli del popolo martedì, 28 marzo 2017 5 di Sandro Damiani || Paolo Conte al Club Tenco RICORDI,INDEFINITENOSTALGIE Sodalizio con il Clan di Adriano Celentano Segue il fortunato sodalizio con il Clan di Adriano Celentano. La prima cosa che compone per il “molleggiato” è “Chi era lui”, un pezzo “mistico”, dedicato a Gesù, con attacco da ouverture operistica. La canzone costituisce il Lato B di un 45 giri il cui pezzo forte è “Il ragazzo della via Gluck”, bocciato a Sanremo e strapromosso dai negozi, con oltre un milione di copie vendute, dalle balere e dalla radio: il primo pezzo “ambientalista” della musica leggera italiana. Conte, per ora, si occupa solo della parte musicale. È così pure per il brano successivo, col quale in buona sostanza viene “scoperto”. Stiamo parlando de “La coppia più bella del per la vita che conduce, il livornese Piero Ciampi. Arriviamo così a metà dei Settanta, quando l’Avvocato, oramai pienamente convinto – a forza di incitamenti da parte degli amici – si getta nella mischia. E, questa volta sì, ma appena questa volta, butta la toga al vento. L’esordio non è dei più brillanti. La voce è sgraziata, i toni vanno dal cupo allo scanzonato, spesso indipendentemente dal testo. I pezzi, se si esclude il già citato “Onda su onda”, sono tutt’altro che orecchiabili. Più in generale, non si riesce a capire di che “razza” di musica si tratti, idem per i testi, i cui personaggi e le relative narrazioni sono quanto meno bizzarri. Il fatto è che il “pianeta UN RITRATTO DEL CANTAUTORE ITALIANO PAOLO CONTE, CHE QUEST’ANNO HA CELEBRATO IL SUO 80º COMPLEANNO mondo”, che a sua volta riporta in auge il Celentano “in duetto”. Ora, con Claudia Mori, dopo che alla fine dei Cinquanta aveva esordito con Anita Traversi, per proseguire con “la ragazza del Clan”, Marilena Cantù. È il 1967. È però nel ‘68 che il Conte compositore “esplode”. Sempre per il proprio “capo” scrive “Azzurro”. Un successone senza precedenti, da subito. E che proprio di recente un’inchiesta della Società Dante Alighieri, condotta in tutto il mondo, ha onorato del titolo di “canzone italiana più cantata al mondo”, scavalcando “Volare” (Nel blu dipinto di blu). A ruota, Conte scrive per altri interpreti, tra cui Caterina Caselli, Patty Pravo, Giuni Russo, Enzo Jannacci (“Messico e nuvole”: forse la più jannacciana delle canzoni del medico milanese sarà un ulteriore passo verso la piena notorietà) e Bruno Lauzi (“Onda su onda”, “Genova per noi”). Nel 1980 scriverà addirittura quattro canzoni – testi e musica – per Gabriella Ferri. Le prime esibizioni in pubblico Nel contempo, Paolo Conte timidamente comincia a esibirsi in pubblico, non più solo come strumentista. Canta pure. Con quella voce e “con quella faccia un po’ così”... Quasi sempre con un complesso, talune volte insieme ad altri cantanti. In un’occasione, sul palco con lui c’è il più irregolare dei cantautori, quantomeno Paolo Conte cantautore” non ci azzecca nulla con la formidabile storia del cantautorato italiano dei Bindi, Tenco, Meccia, Paoli, Endrigo, Renis, Donaggio, De André, Guccini, per non dire dei “novissimi” Dalla, Battiato, De Gregori e via elencando, dalla linea melodica tutto sommato interna alla tradizione musicale italiana, qua e là arricchita soprattutto da atmosfere d’Oltralpe e vaghi richiami folk, ma nell’insieme fin dal primo ascolto – cantabilissime. Il solo Enzo Jannacci se ne discosta. Non per caso, Conte lo adora: “Ho avuto la fortuna di trovare un interprete come Enzo – ha detto a proposito dell’interpretazione di ‘Messico e nuvole’ da parte di Jannacci – che per me rimane, storicamente parlando, il più grande cantautore che l’Italia abbia mai espresso. Egli è il personaggio che conosciamo, con una dose di visibile follia geniale, manifestata al momento della registrazione della canzone, alla quale io ero presente, poiché l’ha cantata per tutto il tempo coricato per terra con il microfono in mano, urlando e sgambettando come solo lui sa fare, da saltimbanco intellettuale“. Canzoni strane con storie fantasiose Buona parte delle operazioni musicali di Paolo Conte lasciano interdetti. Inizialmente, sono in pochi ad accettarlo, pochi, ma entusiasti. Le canzoni che più piacciono sono quelle che nel passato aveva scritto per alcuni degli interpreti anzicitati (Lauzi, Jannacci, Celentano). Per chi ha poca dimestichezza con la musica reputa i suoi estimatori degli snob, in cerca dell’ascolto di “cose” strane. In effetti, le sue sono canzoni strane, con storie fantasiose. Il fatto è che Paolo Conte cantautore compie un’operazione unica. Almeno per quanto concerne il panorama italiano. Egli si pone come quel giocatore di carte, il quale ama il gioco in sé, non un gioco preciso. Ama la Briscola e la Scopa, il Tressette e il Ramino, lo Scopone scientico e il Chi fa meno, la Canasta e il Bridge. E non gli dispiacciono i Solitari. E allora, cosa fa? Inventa un nuovo gioco che contiene regole di tutti gli altri. A differenza delle canzoni dei suoi colleghi cantautori, che (ri)propongono una poetica determinata e fissa, i pezzi di Conte sono un insieme di generi musicali diversi e anche lontani tra loro, idem dicasi per il discorso ritmico, differenti. Predomina la malinconia di stampo sudamericano, anzi argentino; sprazzi di jazz: swing, be-bop, scat, che non è una scuola jazzistica, ma un modo di cantare, che comunque reinventa il genere nel quale si esprime, dandogli nuove sonorità. Accanto a tutto ciò, troviamo tanto sentore di musica leggera italiana anni Quaranta e Cinquanta, e poi... ognuno sente e “vede” ciò che gli pare, perché la musica contiana è evocatrice. Richiama sogni, ricordi, indefinite nostalgie. Insomma, Conte è come se ci desse in pasto tutto quello che vogliamo sentire, e ci “ingabbia” dentro la sua musica. Bisogna aggiungere che tale capacità ha più presa al puro ascolto che non all’ascolto con vista, poiché la sua mimica, al contrario, non ispira empatia. A suo modo ricorda l’attore che in quegli anni domina la scena teatrale italiana, Carmelo Bene. Godibilissimo all’ascolto, “antipatico” alla vista. 1976, l’anno della svolta L’anno di svolta è il 1976. È Sanremo a dargli la fama definitiva. Non la Sanremo del Festival, ovviamente, ma quella del Club Tenco. A proposito, Conte otterrà numerosi riconoscimenti, oltre al Premio Tenco, varie Targhe, da quello che è considerato il tempio della musica d’autore. L’Italia musicale dunque lo scopre. I suoi concerti registrano pienoni in ogni dove. Passano pochi anni ed ecco che l’Astigiano, a cui l’Italia sta evidentemente stretta, affronta il mondo. C’è un solo modo per capire se e quanto piacerà fuori dai confini: presentarsi al cospetto del pubblico francese; esigente e schizzinoso, ma se decide che qualcuno gli piace, lo adotta e lo... manda in orbita. Ed è ciò che succede. Dalla metà degli anni Ottanta, Paolo Conte è una star internazionale. Che piace anche ai giovani. Non solo Zucchero e Ramazzotti e Laura Pausini. Anche gli album di Conte fanno bella figura nelle case dei teenager. Una star internazionale Francia, Germania, Stati Uniti (New York, Los Angeles, San Francisco, Boston) lo consacrano. Ed è ovviamente la musica ad affascinare; e l’interpretazione. I testi, non riesco a capacitarmi quanto possano, invece, venire accettati, trattando temi a malapena riconoscibili a casa sua, e non da tutti. Ma è chiaro che a far presa sono quei testi che in simbiosi con la musica, emanano esotismo, il “senso dell’altrove – dice Conte – tipico degli scrittori novecentisti, ed è una forma di pudore e fa sì che certe storie della nostra vita reale vengano trasferite in un teatro più lontano, più immaginifico, più fantasmagorico, per attutire il senso della realtà e trasformare la povertà che può esserci nel contenuto di una storia raccontata in qualche cosa che può essere più vicino alla favola”. E questo vale qui come a duemila chilometri, vuoi a est, vuoi a ovest. È il segreto del successo di questo monumento, che a ottant’anni suonati riesce ancora a sorprenderci, a “ingabbiarci”, due volte nello stesso momento. Con il testo e con la musica. Nel primo caso tenendoci incollati alla sua narrazione; nel secondo, facendoci librare, attraverso il suo, nei nostri mondi, ma non di rado in mondi a noi sconosciuti e dai quali siamo attratti. E ciò avviene con ogni suo nuovo album. Che cominciamo ad ascoltare quasi col timore di venirne delusi. In effetti, inizialmente la delusione è presente, perché ha poco o nulla a che spartire col precedente, ma ecco che a mano a mano che lo riascoltiamo ne veniamo... accalappiati. Sarà così anche col prossimo? Ci possiamo scommettere. 6 martedì, 28 marzo 2017 spettacoli la Voce del popolo CINEMA || I due eccellenti protagonisti: Sandra Hüller e Peter Simonischek L’IRRIVERENZA POSITIVA DI TONI IL FILM DELLA REGISTA TEDESCA MAREN ADE È UN CAPOLAVORO: UN’OPERA CHE CRESCE NELLA TESTA E NEL CUORE. LA RICETTA VINCENTE: INTELLIGENZA E GRANDI ATTORI I l rapporto genitori-figli e viceversa è uno dei più frequenti nella storia del cinema: si presenta a essere trattato in tanti aspetti e sfacettature, perché in effetti tale relazione nella realtà (da dove generalmente arriva lo spunto) presenta casi che vanno dall’amore più sfrenato, alla morbosità, alla tragedia, e infine a veri e propri nodi gordiani psicologici impossibii da sciogliere: traendo spunto dalla cronaca quotidiana di film sul rapporto genitori-figli se ne potrebbero realizzare a vagonate, ma pochi lascerebbero il segno. Vi presento Toni Erdmann o semplicemente Toni Erdmann, firmato da Maren Ade, è uno di questi. Questa commedia tedesca – terminologia che potrebbe far desistere in molti dal vederlo, perché pur avendo registi di ottima cinematografia, la Germania poco o mai si è distinta per movie leggeri, specie, come in questo caso da far sorridere e riflettere al tempo stesso – è stata candidata all’Oscar per il Miglior film straniero. Stravaganza liberatoria La Ade mette nel sacchetto del popcorn (ce ne vuole una porzione XXL, il film dura due ore e una decina di minuti) un bel mix di un rapporto totalmente disconnesso fra la freddezza nevrotica della figlia (in cui molti millennials potrebbero riconoscersi) e la stravaganza, per dire liberatoria, del padre, quasi a smitizzare e rendere meno tesa la società di oggi in cui molto spesso, nel lavoro, viviamo di “bianchi e neri”, senza sfumature. Nel breve preambolo in Germania, Ines è subito a disagio con suo padre Winfried. Ines (la bravissima Sandra Hüller), donna sui 35 anni all’apice della carriera, è il manager di un’agenzia di consulenza che viene chiamata in causa dalle multinazionali per fare il lavoro sporco, cioè licenziare dipendenti. Si è dovuta trasferire a Bucarest dove, armata di tailleur nero e scarpe con tacco a spillo, con la freddezza del killer professionista, dedica al lavoro ogni momento della giornata. Wilfried (Peter Simonischek) è il padre della ragazza, un uomo sulla sessantina, ex insegnante di musica con la passione per i travestimenti e gli scherzi, che non risparmia a nessuno, nemmeno agli sventurati fattorini che capitano alla sua porta, tantomeno alla figlia. Da sbellicarsi dalle risate la scena quando, mentre lei parla di lavoro con un responsabile, lui poco distante lancia uno di quei peti degni del miglior Fantozzi. I due si vedono di rado, così un piccolo lutto improvviso diventa il pretesto per andare a far visita alla figlia e passare del tempo con lei. Ironico amore Nella vita frenetica di Ines non c’è spazio per gli imprevisti, né per gli affetti familiari, e persino le domeniche devono essere immolate alla causa dei clienti esigenti. Ne risulta un weekend veramente disastroso, in cui l’uomo realizza però una cosa fondamentale: la figlia, tutto sommato, non è felice. Partendo da queste premessa la regista si chiede cosa sarebbe disposto a fare un genitore per salvare la propria figlia, e ci regala un’eccentrica risposta di ironico, vergognoso e imbarazzato amore. Ossessione per l’ordine KO A molti sarà capitato, soprattutto nella prima adolescenza, di aver provato imbarazzo a causa dei propri genitori, soprattutto quando entrano in contatto con il mondo al di fuori della famiglia, per esempio quello degli amici. È una cosa che a un certo punto di solito si supera. Cacciato in malo modo, infatti, al padre della ragazza non resta che tornare sotto falso nome, e armato di parrucca e denti finti, si presenta a lei e ai suoi colleghi come Toni Erdmann, stravagante life-coach (non un mestiere a caso). Quando, sotto mentite spoglie, si presenta perfino chi vede il film prova una dose di simpatico imbarazzo. “Sì, prima senzatetto, che life coach”, ma in realtà una vita presa con ironia tra scherzi e scene imbarazzanti può essere la medicina giusta per il male dello stress del “vivere quotiano 2.0”. Uno zoticone, Toni, ma in fondo bonario. Implacabile con il suo fare che riuscirà a fare mandare all’aria gradualmente il mondo ordinato, quanto fragile, della figlia. Quell’ossessione per l’ordine tutta tedesca. spettacoli la Voce del popolo martedì, 28 marzo 2017 7 a cura di Fabio Sfiligoi || Uno degli scherzi di Toni: ammanetta la figlia e ovviamente la chiave non si trova NI ERDMANN Da questo lato Toni è un ottimo life coach nonostante l’aspetto inganni. Toni della figlia scombussola tutto: lavoro (alla vigilia di un meeting che lei considera decisivo), amicizie (quasi sempre false) e vita di relazione. Una sorta di persecuzione a fin di bene, fino a trasmetterle il virus della sua benefica follia liberandola da molti tabù. Si scatena così una serie di situazioni al limite dell’assurdo che metteranno a dura prova la pazienza di Ines, ma che la porteranno anche a rivedere le sue priorità e a prendere atto delle difficoltà reali. L’invasione pacifica di Toni nel mondo che lei si è costruita a Bucarest le crea parecchio imbarazzo anche perché il padre ci va giù abbastanza pesante. Come Whitney Houston La presa di coscienza della figlia avviene in quella che è una delle scene più belle del film, con Ines che davanti a una platea || La scena in cui Ines si esibisce in una canzone di Whitney Houston di sconosciuti si esibisce in una canzone, eseguita del resto molto bene, di Whitney Houston, gridando quella che sembra una dichiarazione d’intenti: “Ho deciso tempo fa che non avrei mai camminato all’ombra di nessuno, non so se ho avuto successo, non so se ho fallito, ma almeno ho vissuto come credevo”. Perché Toni Erdmann oltre a essere un film sulla difficoltà || Maren Ade: “Noi tedeschi l’umorismo lo abbiamo, forse ci capita di nasconderlo” dell’essere genitori, è anche un film sulla difficoltà di essere figli, un’amara riflessione sulla fatica che devono fare le donne per emergere in contesti aziendali il più delle volte fallocratici. Il maschilismo quasi inconsapevole di capo e colleghi costringono Ines a spingersi al limite delle proprie forze. Ma anche per loro sta arrivando il momento di mettersi a nudo. Da citare pure il momento del naked party, in cui Ines – non riuscendo a entrare in un tubino troppo stretto – chiede ai suoi invitati di spogliarsi nudi. La scena rivela molte ambiguità della situazione: dall’ipocrisia alla totale assenza di tabù perché qualsiasi cosa, a patto di trovare lo slogan giusto, diventa accettabile nella società. Vi presento Toni Erdmann è un film che, nonostante la lunghezza, si vede senza fatica, e che trascina lo spettatore in un percorso di visione, si parte girando lo sguardo altrove per l’imbarazzo, e si arriva a una commovente e sincera empatia. 8 martedì, 28 marzo 2017 spettacoli la Voce del popolo RICORRENZE ISABELLEHUPPERT: «IL TEATRO SFIDA LO SPAZIO E IL TEMPO » È stata celebrata ieri la Giornata Mondiale del Teatro, promossa dall’Istituto Internazionale del Teatro (International Theatre Institute), che opera sotto l’egida dell’UNESCO. È stata istituita a Vienna nel 1961, durante il IX Congresso mondiale dell’Istituto, su proposta di Arvi Kivimaa a nome del Centro Finlandese. Dal 27 marzo 1962, la Giornata Mondiale del Teatro è celebrata da 90 Centri Nazionali dell’I.T.I. – fondato nel 1948, per iniziativa dell’UNESCO e di personalità famose nel campo del teatro, è la più importante organizzazione internazionale non governativa nel campo delle arti della scena in tutto il mondo – che operano con il fine di creare piattaforme per lo scambio e la promozione delle arti dello spettacolo. Fin dall’inizio, ogni edizione della manifestazione si avvale del contributo di un rappresentante del mondo del teatro, o un’altra figura conosciuta per le sue qualità di cuore e di spirito, che con il suo messaggio promuove le arti performative, gli scambi internazionali, la cooperazione tra le persone di teatro, l’approfondimento della comprensione reciproca per partecipare al rafforzamento della pace e dell’amicizia tra i popoli. Questo, che viene chiamato “il messaggio internazionale”, viene tradotto in diverse lingue e letto davanti a decine di migliaia di spettatori prima della rappresentazione della sera nei teatri nel mondo intero, stampato nelle centinaia di quotidiani e diffuso da radio e televisione sui cinque continenti. Jean Cocteau fu l’autore del primo messaggio internazionale nel 1962. Seguirono negli anni le riflessioni di grandi come Arthur Miller, Pablo Neruda, Luchino Visconti, Richard Burton, Peter Brook, John Malkovich, Dario Fo, Judi Dench. Quest’anno, la celebre attrice francese Isabelle Huppert è la testimonial della manifestazione. Nel suo messaggio, Isabelle Huppert ricorda di essere solo l’ottava donna ad aver scritto un messaggio al mondo del teatro e cita Dario Fo quando fa riferimento – rivolgendosi alla politica – ai vantaggi inimmaginabili che il teatro ha dato al mondo. Per Isabelle Huppert non c’è alcuna differenza tra recitare a teatro e recitare al cinema. Dice ancora che “il teatro ha una vita rigogliosa che sfida lo spazio e il tempo, le opere teatrali più contemporanee si nutrono dei secoli passati, i repertori più classici diventano moderni ogni volta che li si mette in scena di nuovo. [...]... tutti i personaggi che ho interpretato sul palco mi accompagnano, dei ruoli che si ha l’impressione di lasciare quando si finisce, ma che portano in voi una vita sotterranea, pronta ad aiutare o a distruggere i ruoli che seguiranno: Fedra, Araminta, Orlando, Hedda Gabler, Medea, Merteuil, Blanche DuBois… mi accompagnano anche tutti i personaggi che ho amato e applaudito come spettatrice. E lì io appartengo al mondo intero. Sono greca, africana, siriana, la Voce del popolo LA GIORNATA MONDIALE VIENE CELEBRATA DA ORMAI 55 ANNI veneziana, russa, brasiliana, persiana, romana, giapponese, marsigliese, newyorkese, filippina, argentina, norvegese, coreana, tedesca, austriaca, inglese, proprio di tutto il mondo. La vera globalizzazione è qui. [...] Io ho fatto il giro del mondo in modo diverso, l’ho fatto in 80 spettacoli o in 80 film. Includo i film perché non faccio differenza tra recitare a teatro e recitare al cinema, cosa che sorprende ogni volta che la dico, ma è vero, è così. Nessuna differenza. Parlando qui io non sono me stessa, non sono un’attrice, sono solo una delle tante persone grazie alle quali il teatro continua ad esistere. È un po’ il nostro dovere. E il nostro bisogno. Come dire: noi non facciamo esistere il teatro, ma è piuttosto grazie a lui che esistiamo“. (Traduzione dal francese: Roberta Quarta del Centro Italiano dell’International Theatre Institute) (hlb) Anno 3 / n. 15 / martedì, 28 marzo 2017 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] SPETTACOLI Edizione Caporedattore responsabile f.f. Roberto Palisca Redattore esecutivo Helena Labus Bačić Impaginazione Denis Host-Silvani Collaboratori Sandro Damiani, Ivana Precetti, Dragan Rubeša, Fabio Sfiligoi Foto Creative Commons, Pixsell, archivio || Il TNC “Ivan de Zajc” di Fiume Pensieri sul teatro “Se non ci fosse stato il Teatro, non avrei saputo fare altro. Il Teatro è tutta la mia vita. Pensate che a casa barcollo, m’ingobbisco, mi annoio, ma in teatro ritrovo il passo. È un’altra storia. In scena si guarisce. E poi sapete che vi dico: gli attori vivono più a lungo, perché vivendo anche le vite degli altri, le aggiungono alle loro” (Carlo Giuffré) *** “Il Teatro è l’attiva riflessione dell’uomo su sé stesso” (Novalis) *** “Il Teatro per essere davvero pregnante deve mostrarsi un acido, una lente di ingrandimento, un riflettore o un luogo di confronto” (Peter Brook) *** “L’arte, come la saggezza, come la bontà, come la generosità, non può essere insegnata. Ciò che solo si può fare, forse, è tentare, maieuticamente, di estrarla dalla mente, dal cuore, dall’anima, dal grembo di chi richiede il tuo aiuto per esprimersi. La creaturina nascosta farà la sua apparizione, vedrà la luce, solo se già esisteva nella persona che ti sta di fronte. Con questo non nego l’utilità delle scuole di Teatro, delle botteghe, nel senso rinascimentale del termine. Dove ti insegnano non il talento, e come potrebbero?, ma i mezzi per esplorare, conoscere, affinare, esercitare, raffinare le tue qualità innate. Ti insegnano a conoscere lo strumento che è già dentro di te. Ti insegnano ad amarlo e a rispettarlo.” (Anna Proclemer)