la Voce
del popolo
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del popolo
spettacoli
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Anno 3 • n. 15
martedì, 28 marzo 2017
ILMUSICAL
NATOPERDIVERTIREESORPRENDERE
CRITICA
IL PERSONAGGIO
CINEMA
RICORRENZE
Il film «Split», di M. Night
Shyamalan
Un ritratto del cantautore
italiano Paolo Conte
«Vi presento Toni Erdmann»
un capolavoro di Maren Ade
La Giornata Mondiale
del Teatro 2017
L’ultima fatica del regista indo-americano
esplora i meandri della mente umana.
Protagonista il brillante James McAvoy.
L’Avvocato, che vanta una carriera
internazionale, ha celebrato quest’anno
il suo 80º compleanno.
La pellicola, candidata all’Oscar come
migliore film straniero, è al contempo
esilarante e drammatica.
Si celebra dal 1962 per promuovere
le arti di scena. Isabelle Huppert firma
il messaggio internazionale.
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TEATRO MUSICALE
spettacoli
la Voce
del popolo
a cura di Ivana Precetti
LA STORIA DEL MUSICAL, CHE NASCE TRA I CETI
POPOLARI DELLA SOCIETÀ AMERICANA,
INIZIA NELLA SECONDA METÀ DEL XIX SECOLO
UNGENEREBRILLANTE
RIVOLTOALLEMASSE
|| Elena Brumini in una scena del musical “Mamma mia!”
I più famosi
D
opo il grande successo in Croazia
dei musical “Mamma mia!” (in
produzione croata che vede tra i
protagonisti la nostra bravissima attrice
Elena Brumini) e “Cats” (produzione inglese
con cast originale londinese), conosciamo
meglio questo genere che non può non
piacere in quanto racchiude in sé musica,
canto, ballo e recitazione.
Il musical – riporta Wikipedia – è un
genere di rappresentazione teatrale e
cinematografica, nato e sviluppatosi negli
Stati Uniti tra l’Ottocento e il Novecento. Un
suo corrispondente in Italia è la commedia
musicale, con cui condivide l’uso di più
tecniche espressive e comunicative insieme.
L’azione viene portata avanti sulla scena
non soltanto dalla recitazione, ma anche
dalla musica, dal canto e dalla danza che
fluiscono in modo spontaneo e naturale. È
uno spettacolo derivato dall’opera e adattato
al gusto e al costume statunitense. Il musical
è costituito da una commedia, in genere
brillante e d’ambientazione americana nella
quale sono presenti brani che appartengono
ai generi della musica leggera, del jazz, o
derivano dall’opera lirica e dal balletto. Tutti
questi linguaggi sono uniti tra loro grazie
a un’orchestrazione elegante e perfetta. In
esso non c’è fusione tra i diversi linguaggi; i
diversi generi sono invece affiancati in una
compresenza ben integrata e armonizzata.
Nasce nel 1866
In questo genere ogni particolare risulta
indispensabile per la riuscita dello spettacolo,
dai costumi dalla scenografia includendo
regia, coreografie e luci senza dimenticare
gli attori (chiamati performers) che devono
essere in grado di comunicare emozioni
ricorrendo, spesso contemporaneamente, a
discipline come la recitazione, la danza e il
canto. Si può affermare che il musical nasce
il 12 settembre 1866, giorno in cui negli Stati
Uniti viene messa in scena per la prima volta
un’opera, “The Black Crook”, nata dall’unione
|| Una scena del film “Cabaret”
fra una compagnia di ballo e canto importata
dall’Europa, con una compagnia di prosa.
Questa collaborazione deriva dal fatto che
la prima era rimasta senza un teatro in cui
esibirsi, mentre la seconda era alle prese
con una produzione che si stava rivelando
assai più costosa del previsto. Superate le
difficoltà economiche e organizzative ci fu la
prima dello spettacolo che si svolse al Niblo’s
Garden Theatre (USA).
Il musical ha quindi origine dai ceti popolari
della società americana, in cui vi erano
numerosi gruppi d’immigrati appartenenti a
etnie differenti, e si sviluppa come una forma
di teatro rivolta alle masse e a un pubblico
molto variegato. La sua struttura e il suo stile
permettono allo spettatore di poter seguire
lo spettacolo come nel vaudeville (teatro di
varietà), risultando più scorrevole e di più
semplice comprensione rispetto alla prosa
tradizionale. La bravura degli attori, la grazia
delle ballerine, la capacità nel canto: sono
queste le caratteristiche che hanno permesso
la nascita e lo sviluppo di questa forma di
spettacolo.
Si diffonde negli Stati Uniti e in Europa
Partendo da New York e Broadway, nasce
una tradizione che si diffonderà a macchia
d’olio, portando la cultura del musical per
le grandi e piccole città degli Stati Uniti.
Il musical si diffonderà successivamente
in altre città d’Europa anche se risulta
difficoltoso farlo conoscere ai Paesi di lingua
non anglosassone. Per far fronte a questo,
in alcune opere si è ricorso alla traduzione
dei testi, mentre in altri casi sono stati
utilizzati sottotitoli. Questo ha permesso di
non perdere comunque la capacità tipica
dello spettacolo di rendersi comprensibile
al pubblico per la sua forma peculiare.
Bisogna riconoscere che la diffusione del
musical è stata agevolata dalle versioni
cinematografiche di Hollywood, che hanno
contribuito alla maggiore conoscenza e
popolarità di questo genere.
Ma quali sono i musical più belli di sempre? Proviamo a fare un lista di quelli che
hanno lasciato una traccia indelebile nella
storia del teatro, della musica e del cinema.
Iniziamo con “Jesus Christ Superstar”,
che è un’opera definita, a tutti gli effetti,
rock. Racconta in musica l’ultima settimana di vita di Cristo, dal punto di vista,
anomalo quanto, per alcuni, blasfemo, di
Giuda. Rappresentata per la prima volta
a Broadway nel 1971, fu riproposta sullo
schermo, modificata in alcuni testi, nel
1973. Definito il musical della rivoluzione,
contiene, per testi, musica e attori protagonisti, alcune delle performance artistiche
più belle mai realizzate nella storia del cinema. “Hair” è l’emblema musicale della
rivoluzione hippie. È un musical rock che
rappresenta il risultato più felice della controcultura americana degli anni ‘60. Dopo
il debutto a Broadway nel 1968, l’opera di
James Rado e Jerome Ragni conobbe una
fortunatissima riduzione cinematografica
firmata da Miloš Forman, che confermò il
successo del musical, non soltanto come
opposizione pacifista alla guerra del
Vietnam, ma come straordinario mix di
musica e danza. “Grease” è uno dei musical più famosi in assoluto. È diventato un
cult grazie alla versione cinematografica
realizzata nel 1978 e diretta da Randal
Kreiser, con protagonisti John Travolta
e Olivia Newton John. Debuttò in scena
nel 1971 a Chicago, il film ne consolidò la
fama riprendendone numeri musicali, battute e scherzi. “Cats” è uno dei più grandi
successi teatrali di tutti i tempi, per longevità, spettatori e incassi. Composto nel
1981 da Andrew Lloyd Webber, è ispirato
alle poesie sui gatti che Thomas Stearns
Eliot aveva dedicato ai nipotini. L’opera
deve il suo successo anche alla struggente
“Memory”, scritta da Trevor Nunn, ispiratosi alla poesia di Eliot “Rapsodia su una
notte di vento”, diventato un classico tra i
brani tratti dai musical teatrali.
West Side Story
Scritto da Jerome Robbins, che ne curò
la regia e le coreografie, da Leonard
Bernstein (musiche) e da Stephen
Sondheim (testi), il celebre musical “West
Side Story” debuttò a Broadway nel 1957.
Il film del ‘61, con Natalie Wood come
protagonista, vinse ben 10 Oscar, tra cui
DINO STANIN/PIXSELL
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martedì, 28 marzo 2017
quello come miglior film. La storia è un
rifacimento della tragedia shakespeariana
di Romeo e Giulietta, in cui il tema tragico,
la musica sofisticata e le istanze sociali
rappresentate, segnarono il linguaggio
musicale del teatro inglese, impegnato,
fino a quel momento, nella rappresentazione scenica di temi molto più leggeri.
Innumerevoli le canzoni famose, tra le
quali ricordiamo “Maria”, “America”, “I
Feel Pretty” e “Something’s Coming”.
“Porgy and Bess” è uno dei musical più
famosi della storia americana, composto
da George Gershwin, e anche il primo che
ponga al centro la condizione dei neri.
Datato 1935, la prima rappresentazione
avvenne al teatro di Boston: narra la storia del povero mendicante Porgy che vuole
salvare l’amata Bess dalle grinfie di un
pappone. Numerosi brani sono diventati
classici del jazz, come “Summertime” e “I
Loves You Porgy”. Due le versioni cinematografiche, nel 1959 e nel 1993.
Cabaret
Debutto a Broadway nel 1966 per
“Cabaret”, lo speciale musical ambientato
nella Berlino degli anni Trenta, in piena
ascesa del nazismo. La storia dell’amore
della diciannovenne cabarettista inglese Sally Bowles per l’americano Cliff
Bradshaw sarà resa immortale dall’interpretazione di Liza Minnelli nella
produzione cinematografica del 1972,
per la quale vinse l’Oscar. Concludiamo
con “Mamma mia!”, musical, in due
atti, scritto dalla drammaturga inglese
Catherine Johnson e basato sulle canzoni
del gruppo musicale pop svedese ABBA.
Il titolo stesso riprende quello di una
delle loro canzoni più famose, appunto
“Mamma Mia”, del 1975.
La colonna sonora del musical include
i più grandi successi degli ABBA tra cui
“Super Trouper”, “Dancing Queen”,
“Thank You for the Music”, “The Winner
Takes It All”, “Lay All Your Love on Me”
e “S.O.S.”. La trama ruota attorno alle vicende di Sophie e di sua madre, Donna.
Sophie, in procinto di sposarsi, vorrebbe
l’assenso del padre, che non ha mai conosciuto. Decisa a scoprire l’identità del
genitore, si troverà a dover decidere chi,
fra tre possibili candidati, è l’uomo che sta
cercando.
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CRITICA
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di Dragan Rubeša
23TASSELLI
DIUNMOSAICO
DELLAPAURA
L
o “split personality“ è una delle
principali ossessioni tematiche del
cinema di genere, che da Psycho
in poi ha metaforizzato molte paure
occidentali, da John S. Robertson (Dr
Jekyll and Mr Hyde) e Jacques Tourneur,
fino a Brian De Palma e Dario Argento.
Basta ricordare la leggendaria e ironica
battuta pronunciata da Anthony Perkins
nel film di Hitchcock (“Mother’s not
quite herself today“ – Mamma oggi non
è sè stessa). Hitchcock ha trasformato
questa commedia nera in un distaccato
essai freudiano sulla schizofrenia con
elementi granguignoleschi. Un percorso
simile segue anche De Palma nel film
Raising Cain, ovvero nella figura dello
psicologo infantile, il dott. Carter Nix
(John Lithgow) e il suo mostruoso alter
ego Cain. De Palma è sempre stato un
seguace fedele di Alfred Hitchcock: lo ha
dimostrato nel brillante thriller Vestito
per uccidere, che altro non è che un
coraggioso adattamento di Psycho.
Cinema ibrido
Allo stesso modo, l’intero opus di M.
Night Shyamalan si basa sugli eterni
“split” emotivi che sfuggono alla linearità
delle trame. Un cinema ibrido, mai finito,
sempre proiettato tra le ombre. I suoi
film migliori, come Unbreakable e The
Visit, sono caratterizzati da una suspense
estremamente emotiva. Shyamalan si
muove eternamente tra horror, teen
movie e thriller soprannaturali, forzando
i suoi codici verso nuovi binari. Nel
caso di Split, non ci sono due bensì 23
personalità diverse in un uomo chiamato
Kevin (interpretato da un bravissimo
James McAvoy), affetto da un disturbo
dissociativo dell’identità. Queste 23
personalità si possono osservare come 23
possibili tasselli di un mosaico perverso,
ossia 23 puntate diverse di una serie TV.
Il bambino impaurito, l’ossessivo violento,
la fanatica religiosa, lo stilista gentile, il
mostro/alieno... sono tutti riuniti in un
singolo corpo, e confinati in un singolo
ambiente fuori dal mondo. Il suo lato
femminile era stato già esplorato in Vestito
per uccidere, di De Palma, anche se qui la
IL FILM «SPLIT», DI M.
NIGHT SHYAMALAN,
TURBA, SORPRENDE E
DISEGNA DELLE NUOVE
POTENZIALI TRAIETTORIE
figura dell’uomo dalla duplice personalità
vestito da donna è più complessa.
Record hollywoodiano
Le 23 personalità diverse presenti in
un uomo sono una specie di record
hollywoodiano se paragonate alle sette
personalità che ha ritratto Tom Hanks nel
film Cloud Atlas o alle otto personalità
di Alec Guinness in Kind Hearts and
|| James McAvoy e Anya-Taylor Joy
Coronets. Come l’autismo, che nei film
trasforma i personaggi in geni della
matematica, così il disturbo dissociativo
dell’identità trasforma i protagonisti in
psicopatici. Anche quando si tratta di
comici del calibro di Jim Carrey (Me
Myself and Irene), il cui personaggio del
poliziotto buono lotta con quello cattivo
che evoca le patologie di Dirty Harry per
conquistare il cuore di Renèe Zellweger.
Mentre Il sesto senso è stato girato in
un’epoca in cui non esistevano gli spoiler
che possono rovinare il piacere della
visione del film, quando non potevate
scoprire così facilmente che Bruce Willis
è uno spirito, oggigiorno basta soltanto
visitare qualche media sociale e venire
a sapere che James McAvoy è... No, non
riveleremo questo dolce segreto. Ma ciò
che ci resterà impresso di praticamente
tutti i film di questo autore non sono
tanto le strane scoperte nel finale e le
impressionanti inquadrature. Invece,
sono interessanti perché non siamo
completamente sicuri in quale direzione
si svilupperanno le loro storie, verso una
fiaba o un film dell’orrore, un trauma
di vendetta e di rimorsi dei superstiti
o la storia di un supereroe paranoico.
Però, Split non gioca con questo tipo
di incertezze, in quanto fin dall’inizio è
chiaro che ci troviamo a metà strada tra
Oldboy e 10 Cloverfield Lane, anche se il
film di Shyamalan non è così crudele e
umoristico come i suoi lavori precedenti.
Shyamalan non rivela a che cosa pensano
le identità di Kevin, ma semina tracce per
svelare il mistero durante le sessioni con
la terapeuta che è convinta che persone
come lui sono “più grandi di noi” e
rappresentano la chiave della conoscenza
di una nuova forma di “evoluzione
dell’essere umano”. Quale delle numerose
personalità di Kevin cerca disperatamente
aiuto, prima che faccia del male alle
ragazze?
È possibile che una personalità sia la
maschera di un’altra? Certo, Shyamalan
non resiste a non offrirci almeno per un
attimo qualche miracolo parapsicologico
che libererà la parte recondita della
mente. Come nella psiche di Kevin
coabitano una serie di identità di forza
e intelligenza diverse, così anche Split
è un film ambiguo dal punto di vista
del genere. Si tratta di un film che
turba, sorprende e disegna delle nuove
potenziali traiettorie.
Bravura registica
Un opus sincero
L’inizio del film è eccezionale, con la scena
del rapimento delle tre ragazze capeggiate
da Casey (la brillante Anya-Taylor Joy)
nel parcheggio, una prova indiscutibile
della bravura registica di Shyamalan. Il
regista ottiene il massimo dell’espressività
con l’ausilio delle immagini, senza che
venga pronunciata una sola parola. Le
ragazze sono in automobile, una sul
sedile accanto al conducente, le altre due
sui sedili posteriori, alle prese con i loro
telefonini. Il portellone del bagagliaio
è sollevato, per cui la ragazza non può
vedere nello specchietto retrovisore che
cosa sta succedendo dietro. Per Shyamalan
è sempre molto più intrigante ciò che è
invisibile di ciò che è visibile, come la
prima apparizione del personaggio di
McAvoy sul posto del conducente. Le
ragazze vengono portate in cantina, una di
quelle che evocano la retorica del Natascha
Kampusch Movie, prigioniere nella casa
di un uomo di identità e alter ego diversi.
Ciascuna di queste identità lotta per
diventare dominante. Ma la medesima
Infatti, ciò che interessa a Shyamalan non
è mai la fine di una storia, ma l’inizio di
un percorso, la creazione di un nuovo
mostro brutale e disperato. Per questo
motivo, il suo cinema, a prescindere dagli
alti e bassi, è sempre così maledettamente
sincero. Anche se Split è stato prodotto
dalla Bloomhouse, specializzata per gli
horror (erotici) a basso costo, per cui a
momenti abbiamo l’impressione che il
pudico Shyamalan si sentisse un po’ a
disagio avendo dovuto accettare alcune
delle richieste del produttore, ovvero di
far sì che le giovani si spoglino e mostrino
la biancheria intima, dal momento che il
loro molestatore non sopporta le camicie
sporche. Per questo motivo, la lama del
coltello che sfiora la loro pelle, qualche
centimetro dal bordo delle mutandine, è
forse la scena più spinta dell’intero opus
di Shyamalan. Sembra come se si sentisse
un po’ imbarazzato per questo tipo di
“sfruttamento”. Anche perché questo
film non sfrutta il motivo dell’abuso della
carne femminile, bensì lo critica.
cantina qui non è una tana simile a
quelle del genere torture porn, bensì
simboleggia una mente serrata. Il pubblico
ha il compito di “aprirla”. All’inizio non è
chiaro che cos’è che vuole Kevin dalle sue
prigioniere, ma continua a minacciarle
ripetendo che “qualcuno viene a prendervi
e non vi piacerà” e raccontando storie su
un’identità mostruosa che ancora non si è
rivelata.
Una nuova forma di evoluzione dell’essere umano
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martedì, 28 marzo 2017
IL PERSONAGGIO
UNAMUSICACHERICHIAMASOGNI,R
U
na leggenda metropolitana
vuole che il dottor Paolo Conte,
un bel giorno della prima metà
degli anni Settanta, dopo una carriera
forense niente male, stufo di difendere
veri e presunti colpevoli, abbia gettato
la toga e deciso di intraprendere la via
della canzonetta, che già frequentava da
autore. Mentre le bugie hanno le gambe
corte, il guaio delle mezze verità è che
quasi sempre diventano Vangelo, sì da
non conoscere demolizioni di sorta.
La realtà, viceversa, è un’altra. Fors’anche
più affascinante.
Paolo Conte – astigiano, classe 1937,
venuto al mondo insieme alla Befana –
ebbe il suo primo incontro con la musica
molto tempo prima di dedicarsi allo
studio del Diritto, materia che comunque
aveva cominciato a conoscere già da
bambino, essendo figlio di un avvocato.
È bambino-ino-ino quando vi si avvicina:
in casa dei nonni, durante la Seconda
guerra mondiale. L’amore, la curiosità,
l’orecchio gli vengono trasmessi dai
genitori, i quali clandestinamente – il
Ventennio non ama il jazz, sebbene
paradossalmente uno dei
più grandi pianisti
della più autentica
espressione
artistica
afroamericana è stato proprio il figlio
del Duce, Romano Mussolini –
acquistano sottobanco dischi
di musicisti dell’epoca dello
Swing, Bianchi e Neri.
Paolino impara a suonare
il piano e, cresciuto,
anche il vibrafono
– Lionel Hampton,
più in virtù della
carica di simpatia
che emanava,
che non grazie
al virtuosismo,
ne ha incollati
parecchi di
giovani nel
mondo a
questo
stranissimo
strumento
a metà
strada
tra il
pianoforte e una batteria... di batterie.
Naturalmente, non può mancare
l’apprendimento del sassofono, fiato
principe della musica jazz, che in quegli
anni Conte sente suonare da geniacci
del calibro di Coleman Hawkins, Lester
Young, Benny Carter, Illinois Jacquet,
Johnny Hodges, tutta la relativa sezione
della band di Duke Ellington, i boppisti
già membri dell’orchestra di Billy
Eckstine, con in testa il tenore Dexter
Gordon e l’immaginifico Charlie Parker
al sax alto...
Dalla metà dei Cinquanta ecco
che Conte entra a far parte di vari
combo (complessi con tre-cinque-sette
componenti, nati con il jazz moderno
dei Quaranta). Suona, ma anche ascolta
tanta musica. E legge, legge moltissimo,
tanto che intorno alla fine dei Cinquanta
sarà prescelto per rappresentare l’Italia
a una gara internazionale a quiz di jazz,
dove si piazzerà al terzo posto.
Nel frattempo, tra un concertino e l’altro,
si laurea a Parma, pronto per entrare
nello studio legale del padre. Non
risulta che questa strada non gli piaccia.
Cionondimeno, continua a suonare. E
inizia a comporre. Le sue primissime
canzoni (i testi, però, sono di Giorgio
Calabrese) sono per la semiesordiente
Vanna Brosio e per la veterana Carla Boni:
chi non ricorda il suo “Mambo italiano” di
pochi anni prima, divenuto in seguito un
hit mondiale grazie alla bellissima zia di
George Clooney, Rosemarie...
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martedì, 28 marzo 2017
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di Sandro Damiani
|| Paolo Conte al Club Tenco
RICORDI,INDEFINITENOSTALGIE
Sodalizio con il Clan di Adriano Celentano
Segue il fortunato sodalizio con il Clan
di Adriano Celentano. La prima cosa
che compone per il “molleggiato” è “Chi
era lui”, un pezzo “mistico”, dedicato
a Gesù, con attacco da ouverture
operistica. La canzone costituisce il
Lato B di un 45 giri il cui pezzo forte è
“Il ragazzo della via Gluck”, bocciato
a Sanremo e strapromosso dai negozi,
con oltre un milione di copie vendute,
dalle balere e dalla radio: il primo pezzo
“ambientalista” della musica leggera
italiana. Conte, per ora, si occupa solo
della parte musicale. È così pure per il
brano successivo, col quale in buona
sostanza viene “scoperto”. Stiamo
parlando de “La coppia più bella del
per la vita che conduce, il livornese Piero
Ciampi.
Arriviamo così a metà dei Settanta,
quando l’Avvocato, oramai pienamente
convinto – a forza di incitamenti da parte
degli amici – si getta nella mischia. E,
questa volta sì, ma appena questa volta,
butta la toga al vento.
L’esordio non è dei più brillanti. La voce
è sgraziata, i toni vanno dal cupo allo
scanzonato, spesso indipendentemente
dal testo. I pezzi, se si esclude il già
citato “Onda su onda”, sono tutt’altro
che orecchiabili. Più in generale, non si
riesce a capire di che “razza” di musica
si tratti, idem per i testi, i cui personaggi
e le relative narrazioni sono quanto
meno bizzarri. Il fatto è che il “pianeta
UN RITRATTO DEL CANTAUTORE ITALIANO PAOLO CONTE,
CHE QUEST’ANNO HA CELEBRATO IL SUO 80º COMPLEANNO
mondo”, che a sua volta riporta in auge il
Celentano “in duetto”. Ora, con Claudia
Mori, dopo che alla fine dei Cinquanta
aveva esordito con Anita Traversi, per
proseguire con “la ragazza del Clan”,
Marilena Cantù. È il 1967.
È però nel ‘68 che il Conte compositore
“esplode”. Sempre per il proprio “capo”
scrive “Azzurro”. Un successone senza
precedenti, da subito. E che proprio di
recente un’inchiesta della Società Dante
Alighieri, condotta in tutto il mondo, ha
onorato del titolo di “canzone italiana più
cantata al mondo”, scavalcando “Volare”
(Nel blu dipinto di blu).
A ruota, Conte scrive per altri interpreti,
tra cui Caterina Caselli, Patty Pravo,
Giuni Russo, Enzo Jannacci (“Messico e
nuvole”: forse la più jannacciana delle
canzoni del medico milanese sarà un
ulteriore passo verso la piena notorietà)
e Bruno Lauzi (“Onda su onda”, “Genova
per noi”). Nel 1980 scriverà addirittura
quattro canzoni – testi e musica – per
Gabriella Ferri.
Le prime esibizioni in pubblico
Nel contempo, Paolo Conte timidamente
comincia a esibirsi in pubblico, non più
solo come strumentista. Canta pure. Con
quella voce e “con quella faccia un po’
così”... Quasi sempre con un complesso,
talune volte insieme ad altri cantanti. In
un’occasione, sul palco con lui c’è il più
irregolare dei cantautori, quantomeno
Paolo Conte cantautore” non ci azzecca
nulla con la formidabile storia del
cantautorato italiano dei Bindi, Tenco,
Meccia, Paoli, Endrigo, Renis, Donaggio,
De André, Guccini, per non dire dei
“novissimi” Dalla, Battiato, De Gregori e
via elencando, dalla linea melodica tutto
sommato interna alla tradizione musicale
italiana, qua e là arricchita soprattutto
da atmosfere d’Oltralpe e vaghi richiami
folk, ma nell’insieme fin dal primo ascolto
– cantabilissime. Il solo Enzo Jannacci
se ne discosta. Non per caso, Conte lo
adora: “Ho avuto la fortuna di trovare
un interprete come Enzo – ha detto a
proposito dell’interpretazione di ‘Messico
e nuvole’ da parte di Jannacci – che per
me rimane, storicamente parlando, il
più grande cantautore che l’Italia abbia
mai espresso. Egli è il personaggio che
conosciamo, con una dose di visibile
follia geniale, manifestata al momento
della registrazione della canzone, alla
quale io ero presente, poiché l’ha cantata
per tutto il tempo coricato per terra
con il microfono in mano, urlando e
sgambettando come solo lui sa fare, da
saltimbanco intellettuale“.
Canzoni strane con storie fantasiose
Buona parte delle operazioni musicali
di Paolo Conte lasciano interdetti.
Inizialmente, sono in pochi ad
accettarlo, pochi, ma entusiasti. Le
canzoni che più piacciono sono quelle
che nel passato aveva scritto per
alcuni degli interpreti anzicitati (Lauzi,
Jannacci, Celentano). Per chi ha poca
dimestichezza con la musica reputa
i suoi estimatori degli snob, in cerca
dell’ascolto di “cose” strane. In effetti,
le sue sono canzoni strane, con storie
fantasiose.
Il fatto è che Paolo Conte cantautore
compie un’operazione unica. Almeno per
quanto concerne il panorama italiano.
Egli si pone come quel giocatore di
carte, il quale ama il gioco in sé, non
un gioco preciso. Ama la Briscola e
la Scopa, il Tressette e il Ramino, lo
Scopone scientico e il Chi fa meno,
la Canasta e il Bridge. E non gli
dispiacciono i Solitari. E allora, cosa fa?
Inventa un nuovo gioco che contiene
regole di tutti gli altri.
A differenza delle canzoni dei suoi
colleghi cantautori, che (ri)propongono
una poetica determinata e fissa, i pezzi
di Conte sono un insieme di generi
musicali diversi e anche lontani tra
loro, idem dicasi per il discorso ritmico,
differenti. Predomina la malinconia di
stampo sudamericano, anzi argentino;
sprazzi di jazz: swing, be-bop, scat,
che non è una scuola jazzistica, ma
un modo di cantare, che comunque
reinventa il genere nel quale si esprime,
dandogli nuove sonorità. Accanto a
tutto ciò, troviamo tanto sentore di
musica leggera italiana anni Quaranta
e Cinquanta, e poi... ognuno sente
e “vede” ciò che gli pare, perché la
musica contiana è evocatrice. Richiama
sogni, ricordi, indefinite nostalgie.
Insomma, Conte è come se ci desse
in pasto tutto quello che vogliamo
sentire, e ci “ingabbia” dentro la sua
musica. Bisogna aggiungere che tale
capacità ha più presa al puro ascolto
che non all’ascolto con vista, poiché
la sua mimica, al contrario, non
ispira empatia. A suo modo ricorda
l’attore che in quegli anni domina la
scena teatrale italiana, Carmelo Bene.
Godibilissimo all’ascolto, “antipatico”
alla vista.
1976, l’anno della svolta
L’anno di svolta è il 1976. È Sanremo
a dargli la fama definitiva. Non la
Sanremo del Festival, ovviamente, ma
quella del Club Tenco. A proposito,
Conte otterrà numerosi riconoscimenti,
oltre al Premio Tenco, varie Targhe, da
quello che è considerato il tempio della
musica d’autore.
L’Italia musicale dunque lo scopre. I suoi
concerti registrano pienoni in ogni dove.
Passano pochi anni ed ecco
che l’Astigiano, a cui l’Italia sta
evidentemente stretta, affronta il
mondo. C’è un solo modo per capire
se e quanto piacerà fuori dai confini:
presentarsi al cospetto del pubblico
francese; esigente e schizzinoso, ma se
decide che qualcuno gli piace, lo adotta
e lo... manda in orbita. Ed è ciò che
succede. Dalla metà degli anni Ottanta,
Paolo Conte è una star internazionale.
Che piace anche ai giovani. Non solo
Zucchero e Ramazzotti e Laura Pausini.
Anche gli album di Conte fanno bella
figura nelle case dei teenager.
Una star internazionale
Francia, Germania, Stati Uniti (New
York, Los Angeles, San Francisco,
Boston) lo consacrano. Ed è
ovviamente la musica ad affascinare;
e l’interpretazione. I testi, non riesco
a capacitarmi quanto possano, invece,
venire accettati, trattando temi a
malapena riconoscibili a casa sua, e
non da tutti. Ma è chiaro che a far presa
sono quei testi che in simbiosi con la
musica, emanano esotismo, il “senso
dell’altrove – dice Conte – tipico degli
scrittori novecentisti, ed è una forma
di pudore e fa sì che certe storie della
nostra vita reale vengano trasferite in
un teatro più lontano, più immaginifico,
più fantasmagorico, per attutire il senso
della realtà e trasformare la povertà che
può esserci nel contenuto di una storia
raccontata in qualche cosa che può
essere più vicino alla favola”. E questo
vale qui come a duemila chilometri,
vuoi a est, vuoi a ovest. È il segreto del
successo di questo monumento, che
a ottant’anni suonati riesce ancora a
sorprenderci, a “ingabbiarci”, due volte
nello stesso momento. Con il testo e con
la musica. Nel primo caso tenendoci
incollati alla sua narrazione; nel
secondo, facendoci librare, attraverso il
suo, nei nostri mondi, ma non di rado
in mondi a noi sconosciuti e dai quali
siamo attratti. E ciò avviene con ogni
suo nuovo album. Che cominciamo ad
ascoltare quasi col timore di venirne
delusi. In effetti, inizialmente la
delusione è presente, perché ha poco
o nulla a che spartire col precedente,
ma ecco che a mano a mano che lo
riascoltiamo ne veniamo... accalappiati.
Sarà così anche col prossimo? Ci
possiamo scommettere.
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martedì, 28 marzo 2017
spettacoli
la Voce
del popolo
CINEMA
|| I due eccellenti protagonisti: Sandra Hüller e Peter Simonischek
L’IRRIVERENZA POSITIVA DI TONI
IL FILM DELLA REGISTA
TEDESCA MAREN ADE
È UN CAPOLAVORO:
UN’OPERA CHE CRESCE
NELLA TESTA E NEL
CUORE. LA RICETTA
VINCENTE: INTELLIGENZA
E GRANDI ATTORI
I
l rapporto genitori-figli e viceversa è
uno dei più frequenti nella storia del
cinema: si presenta a essere trattato
in tanti aspetti e sfacettature, perché
in effetti tale relazione nella realtà (da
dove generalmente arriva lo spunto)
presenta casi che vanno dall’amore più
sfrenato, alla morbosità, alla tragedia,
e infine a veri e propri nodi gordiani
psicologici impossibii da sciogliere:
traendo spunto dalla cronaca quotidiana
di film sul rapporto genitori-figli se ne
potrebbero realizzare a vagonate, ma
pochi lascerebbero il segno. Vi presento
Toni Erdmann o semplicemente Toni
Erdmann, firmato da Maren Ade, è uno
di questi. Questa commedia tedesca –
terminologia che potrebbe far desistere
in molti dal vederlo, perché pur avendo
registi di ottima cinematografia, la
Germania poco o mai si è distinta per
movie leggeri, specie, come in questo
caso da far sorridere e riflettere al tempo
stesso – è stata candidata all’Oscar per il
Miglior film straniero.
Stravaganza liberatoria
La Ade mette nel sacchetto del popcorn (ce ne vuole una porzione XXL,
il film dura due ore e una decina di
minuti) un bel mix di un rapporto
totalmente disconnesso fra la freddezza
nevrotica della figlia (in cui molti
millennials potrebbero riconoscersi)
e la stravaganza, per dire liberatoria,
del padre, quasi a smitizzare e rendere
meno tesa la società di oggi in cui molto
spesso, nel lavoro, viviamo di “bianchi
e neri”, senza sfumature. Nel breve
preambolo in Germania, Ines è subito a
disagio con suo padre Winfried. Ines (la
bravissima Sandra Hüller), donna sui 35
anni all’apice della carriera, è il manager
di un’agenzia di consulenza che viene
chiamata in causa dalle multinazionali
per fare il lavoro sporco, cioè licenziare
dipendenti. Si è dovuta trasferire a
Bucarest dove, armata di tailleur nero e
scarpe con tacco a spillo, con la freddezza
del killer professionista, dedica al lavoro
ogni momento della giornata. Wilfried
(Peter Simonischek) è il padre della
ragazza, un uomo sulla sessantina, ex
insegnante di musica con la passione
per i travestimenti e gli scherzi, che
non risparmia a nessuno, nemmeno agli
sventurati fattorini che capitano alla sua
porta, tantomeno alla figlia. Da sbellicarsi
dalle risate la scena quando, mentre lei
parla di lavoro con un responsabile, lui
poco distante lancia uno di quei peti degni
del miglior Fantozzi. I due si vedono di
rado, così un piccolo lutto improvviso
diventa il pretesto per andare a far visita
alla figlia e passare del tempo con lei.
Ironico amore
Nella vita frenetica di Ines non c’è spazio
per gli imprevisti, né per gli affetti
familiari, e persino le domeniche devono
essere immolate alla causa dei clienti
esigenti. Ne risulta un weekend veramente
disastroso, in cui l’uomo realizza però
una cosa fondamentale: la figlia, tutto
sommato, non è felice. Partendo da queste
premessa la regista si chiede cosa sarebbe
disposto a fare un genitore per salvare
la propria figlia, e ci regala un’eccentrica
risposta di ironico, vergognoso e
imbarazzato amore.
Ossessione per l’ordine KO
A molti sarà capitato, soprattutto nella
prima adolescenza, di aver provato
imbarazzo a causa dei propri genitori,
soprattutto quando entrano in contatto
con il mondo al di fuori della famiglia, per
esempio quello degli amici. È una cosa
che a un certo punto di solito si supera.
Cacciato in malo modo, infatti, al padre
della ragazza non resta che tornare sotto
falso nome, e armato di parrucca e denti
finti, si presenta a lei e ai suoi colleghi
come Toni Erdmann, stravagante life-coach
(non un mestiere a caso). Quando, sotto
mentite spoglie, si presenta perfino chi
vede il film prova una dose di simpatico
imbarazzo. “Sì, prima senzatetto, che life
coach”, ma in realtà una vita presa con
ironia tra scherzi e scene imbarazzanti
può essere la medicina giusta per il male
dello stress del “vivere quotiano 2.0”.
Uno zoticone, Toni, ma in fondo bonario.
Implacabile con il suo fare che riuscirà
a fare mandare all’aria gradualmente il
mondo ordinato, quanto fragile, della figlia.
Quell’ossessione per l’ordine tutta tedesca.
spettacoli
la Voce
del popolo
martedì, 28 marzo 2017
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a cura di Fabio Sfiligoi
|| Uno degli scherzi di Toni: ammanetta la figlia e ovviamente la chiave non si trova
NI ERDMANN
Da questo lato Toni è un ottimo life coach
nonostante l’aspetto inganni. Toni della
figlia scombussola tutto: lavoro (alla vigilia
di un meeting che lei considera decisivo),
amicizie (quasi sempre false) e vita di
relazione. Una sorta di persecuzione a fin di
bene, fino a trasmetterle il virus della sua
benefica follia liberandola da molti tabù. Si
scatena così una serie di situazioni al limite
dell’assurdo che metteranno a dura prova
la pazienza di Ines, ma che la porteranno
anche a rivedere le sue priorità e a prendere
atto delle difficoltà reali. L’invasione pacifica
di Toni nel mondo che lei si è costruita
a Bucarest le crea parecchio imbarazzo
anche perché il padre ci va giù abbastanza
pesante.
Come Whitney Houston
La presa di coscienza della figlia avviene
in quella che è una delle scene più belle
del film, con Ines che davanti a una platea
|| La scena in cui Ines si esibisce in una canzone di Whitney Houston
di sconosciuti si esibisce in una
canzone, eseguita del resto molto
bene, di Whitney Houston,
gridando quella che sembra una
dichiarazione d’intenti: “Ho
deciso tempo fa che non avrei
mai camminato all’ombra
di nessuno, non so se ho
avuto successo, non so se
ho fallito, ma almeno ho
vissuto come credevo”.
Perché Toni
Erdmann oltre
a essere un
film sulla
difficoltà
|| Maren Ade: “Noi tedeschi
l’umorismo lo abbiamo,
forse ci capita di nasconderlo”
dell’essere genitori, è anche un
film sulla difficoltà di essere
figli, un’amara riflessione sulla
fatica che devono fare le donne
per emergere in contesti
aziendali il più delle volte
fallocratici. Il maschilismo
quasi inconsapevole di capo
e colleghi costringono Ines
a spingersi al limite delle
proprie forze. Ma anche
per loro sta arrivando
il momento di
mettersi a
nudo. Da
citare pure
il momento
del naked
party, in
cui Ines
– non
riuscendo
a entrare in
un tubino
troppo
stretto –
chiede ai
suoi invitati di
spogliarsi nudi.
La scena rivela
molte ambiguità
della situazione:
dall’ipocrisia alla
totale assenza
di tabù perché
qualsiasi cosa, a
patto di trovare lo
slogan giusto, diventa
accettabile nella società.
Vi presento Toni Erdmann
è un film che, nonostante
la lunghezza, si vede senza
fatica, e che trascina lo
spettatore in un percorso di
visione, si parte girando lo
sguardo altrove per l’imbarazzo,
e si arriva a una commovente e
sincera empatia.
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martedì, 28 marzo 2017
spettacoli
la Voce
del popolo
RICORRENZE
ISABELLEHUPPERT: «IL TEATRO
SFIDA LO SPAZIO E IL TEMPO »
È
stata celebrata ieri la Giornata
Mondiale del Teatro, promossa
dall’Istituto Internazionale del
Teatro (International Theatre Institute),
che opera sotto l’egida dell’UNESCO. È
stata istituita a Vienna nel 1961, durante
il IX Congresso mondiale dell’Istituto,
su proposta di Arvi Kivimaa a nome del
Centro Finlandese.
Dal 27 marzo 1962, la Giornata Mondiale
del Teatro è celebrata da 90 Centri
Nazionali dell’I.T.I. – fondato nel 1948, per
iniziativa dell’UNESCO e di personalità
famose nel campo del teatro, è la più
importante organizzazione internazionale
non governativa nel campo delle arti della
scena in tutto il mondo – che operano con
il fine di creare piattaforme per lo scambio
e la promozione delle arti dello spettacolo.
Fin dall’inizio, ogni edizione della
manifestazione si avvale del contributo
di un rappresentante del mondo del
teatro, o un’altra figura conosciuta per
le sue qualità di cuore e di spirito, che
con il suo messaggio promuove le arti
performative, gli scambi internazionali,
la cooperazione tra le persone di teatro,
l’approfondimento della comprensione
reciproca per partecipare al rafforzamento
della pace e dell’amicizia tra i popoli.
Questo, che viene chiamato “il messaggio
internazionale”, viene tradotto in diverse
lingue e letto davanti a decine di migliaia
di spettatori prima della rappresentazione
della sera nei teatri nel mondo intero,
stampato nelle centinaia di quotidiani e
diffuso da radio e televisione sui cinque
continenti. Jean Cocteau fu l’autore del
primo messaggio internazionale nel 1962.
Seguirono negli anni le riflessioni di
grandi come Arthur Miller, Pablo Neruda,
Luchino Visconti, Richard Burton, Peter
Brook, John Malkovich, Dario Fo, Judi
Dench.
Quest’anno, la celebre attrice francese
Isabelle Huppert è la testimonial della
manifestazione. Nel suo messaggio,
Isabelle Huppert ricorda di essere
solo l’ottava donna ad aver scritto
un messaggio al mondo del teatro e
cita Dario Fo quando fa riferimento –
rivolgendosi alla politica – ai vantaggi
inimmaginabili che il teatro ha dato al
mondo. Per Isabelle Huppert non c’è
alcuna differenza tra recitare a teatro e
recitare al cinema. Dice ancora che “il
teatro ha una vita rigogliosa che sfida
lo spazio e il tempo, le opere teatrali
più contemporanee si nutrono dei secoli
passati, i repertori più classici diventano
moderni ogni volta che li si mette in scena
di nuovo. [...]... tutti i personaggi che ho
interpretato sul palco mi accompagnano,
dei ruoli che si ha l’impressione di lasciare
quando si finisce, ma che portano in voi
una vita sotterranea, pronta ad aiutare
o a distruggere i ruoli che seguiranno:
Fedra, Araminta, Orlando, Hedda Gabler,
Medea, Merteuil, Blanche DuBois… mi
accompagnano anche tutti i personaggi
che ho amato e applaudito come
spettatrice. E lì io appartengo al mondo
intero. Sono greca, africana, siriana,
la Voce
del popolo
LA GIORNATA
MONDIALE
VIENE CELEBRATA
DA ORMAI 55 ANNI
veneziana, russa, brasiliana, persiana,
romana, giapponese, marsigliese,
newyorkese, filippina, argentina,
norvegese, coreana, tedesca, austriaca,
inglese, proprio di tutto il mondo. La vera
globalizzazione è qui. [...] Io ho fatto
il giro del mondo in modo diverso, l’ho
fatto in 80 spettacoli o in 80 film. Includo
i film perché non faccio differenza tra
recitare a teatro e recitare al cinema,
cosa che sorprende ogni volta che la dico,
ma è vero, è così. Nessuna differenza.
Parlando qui io non sono me stessa, non
sono un’attrice, sono solo una delle tante
persone grazie alle quali il teatro continua
ad esistere. È un po’ il nostro dovere. E
il nostro bisogno. Come dire: noi non
facciamo esistere il teatro, ma è piuttosto
grazie a lui che esistiamo“. (Traduzione
dal francese: Roberta Quarta del Centro
Italiano dell’International Theatre
Institute) (hlb)
Anno 3 / n. 15 / martedì, 28 marzo 2017
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
SPETTACOLI
Edizione
Caporedattore responsabile f.f.
Roberto Palisca
Redattore esecutivo
Helena Labus Bačić
Impaginazione
Denis Host-Silvani
Collaboratori
Sandro Damiani, Ivana Precetti, Dragan Rubeša, Fabio Sfiligoi
Foto
Creative Commons, Pixsell, archivio
|| Il TNC “Ivan de Zajc” di Fiume
Pensieri sul teatro
“Se non ci fosse stato il Teatro, non
avrei saputo fare altro. Il Teatro è
tutta la mia vita. Pensate che a casa
barcollo, m’ingobbisco, mi annoio,
ma in teatro ritrovo il passo. È
un’altra storia. In scena si guarisce.
E poi sapete che vi dico: gli attori
vivono più a lungo, perché vivendo
anche le vite degli altri, le aggiungono alle loro”
(Carlo Giuffré)
***
“Il Teatro è l’attiva riflessione
dell’uomo su sé stesso”
(Novalis)
***
“Il Teatro per essere davvero pregnante deve mostrarsi un acido,
una lente di ingrandimento, un riflettore o un luogo di confronto”
(Peter Brook)
***
“L’arte, come la saggezza, come
la bontà, come la generosità, non
può essere insegnata. Ciò che
solo si può fare, forse, è tentare,
maieuticamente, di estrarla dalla
mente, dal cuore, dall’anima, dal
grembo di chi richiede il tuo aiuto
per esprimersi. La creaturina nascosta farà la sua apparizione,
vedrà la luce, solo se già esisteva
nella persona che ti sta di fronte.
Con questo non nego l’utilità delle
scuole di Teatro, delle botteghe, nel
senso rinascimentale del termine.
Dove ti insegnano non il talento,
e come potrebbero?, ma i mezzi
per esplorare, conoscere, affinare,
esercitare, raffinare le tue qualità
innate. Ti insegnano a conoscere lo
strumento che è già dentro di te.
Ti insegnano ad amarlo e a rispettarlo.”
(Anna Proclemer)