UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FOGGIA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA TESI DI LAUREA IN DIRITTO TRIBUTARIO IMPOSIZIONE FISCALE E TUTELA DELL’AMBIENTE Relatore: Chiar.mo Prof.re Guglielmo FRANSONI Laureando: Daniele PIVETTI ANNO ACCADEMICO 2005 - 2006 Indice CAPITOLO PRIMO LA DELIMITAZIONE GIURIDICA DEL CONCETTO DI “AMBIENTE” E TUTELA DEL VALORE pag. 1 La complessa e controversa nozione giuridica di ambiente: dalla concezione pluralista alla concezione monista…….………….…… 1 L’ambiente come valore costituzionale……………….……… 8 L’aspetto economico del fenomeno ambiente: l’esternalità..... 2 14 L’introduzione delle tasse ambientali: profili problematici………. L’armonizzazione delle tasse ambientali e l’idea del mercato europeo…………………………………………………. 3 22 unico 30 Il principio comunitario “chi inquina paga” e i suoi riflessi in materia fiscale……….……………………………………….…… 38 CAPITOLO SECONDO LA TASSAZIONE AMBIENTALE TRA DEFINIZIONE DEL PRESUPPOSTO E PROFILI DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE 1 La nozione di tributo ambientale: gli stimoli dell’OCSE e della Unione Europea …..……………………………………………….. 49 Tentativo di ricostruzione di un concetto di tributo ambientale in ragione dello scopo: i tributi con funzione ambientale..…….. 55 Il rilievo del presupposto ai fini della identificazione del tributo ambientale: dall’imposta ambientale sui consumi all’imposta ambientale di fabbricazione……………………………………. 59 2 Il rapporto tra tributi ambientali e capacità contributiva…………… 71 3 L’introduzione di tributi ambientali e la progressività del sistema fiscale………………………………………………………………. 4 81 L’imposta ambientale quale nuova espressione del dovere di solidarietà economica………………………………………………. 85 I pag. 5 Sul riparto delle competenze in tema di ambiente dopo la riforma del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione……………….. 92 CAPITOLO TERZO I SINGOLI TRIBUTI CON CARATTERISTICHE AMBIENTALI: TIPOLOGIA E PROFILI PROBLEMATICI 1 Premessa……………………………………………………………. 96 2 I tributi ambientali erariali………………………………………….. 99 2.1 L’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica…………… 99 2.2 La tassazione sulle emissioni di anidride carbonica…………… 106 3 I tributi ambientali regionali……………………………………….. 112 3.1 L’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili……………. 112 3.2 Il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti ………. 116 4 I tributi ambientali degli enti locali………………………………… 122 4.1 La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani ………….. 122 4.1.1 La singolare metamorfosi della tassa sui rifiuti in tariffa.. 127 VALUTAZIONI CONCLUSIVE………………………………………….. 137 BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………… 150 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE………………………………. 161 II Capitolo I La delimitazione giuridica del concetto di “ambiente” e la tutela del valore Sommario: 1. La complessa e controversa nozione giuridica di ambiente: dalla concezione pluralista alla concezione monista; 1.1 L’ambiente come valore costituzionale; 1.2 L’aspetto economico del fenomeno ambiente: l’esternalità; 2 L’introduzione delle tasse ambientali: profili problematici; 2.1 L’armonizzazione delle tasse ambientali e l’idea del mercato unico europeo; 3. Il principio comunitario “chi inquina paga” e i suoi riflessi in materia fiscale 1 La complessa e controversa nozione giuridica di ambiente: dalla concezione pluralista alla concezione monista Il termine ambiente deriva dal composto dei termini latini amb (attorno) e –entis (participio presente del verbo ire = andare). Significa perciò, etimologicamente, “ciò che sta intorno”. In effetti il termine ambiente è normalmente usato per indicare “lo spazio circostante considerato con tutte o con la maggior parte delle sue caratteristiche”1, o anche “ciò che fascia, circonda un oggetto o una persona determinandone le condizioni di esistenza, in sintesi, lo spazio nel quale una persona vive”2. Con questo significato la parola ambiente può riferirsi ad oggetti vicini o lontani a seconda che per spazio circostante si intenda ciò che è immediatamente attiguo al soggetto considerato (la sua casa o il suo posto di lavoro con le proprie condizioni di temperatura, umidità, rumorosità), ciò che lo circonda nel normale svolgersi della sua vita (il paesaggio della sua città, la qualità dell’aria che normalmente respira, la fascia di ozono esistente nell’atmosfera sopra di lui), o addirittura ciò che, pur non influendo direttamente sulla vita del soggetto considerato, coesista con lo stesso (le risorse energetiche sotterranee la cui disponibilità è giusto conservare per le generazioni future)3. Negli ultimi decenni al significato del quale si è fatta menzione in precedenza se 1 D. Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1990 Ferrara, Fracchia, Olivetti Rason, Diritto dell’ambiente, Bari, 1999 3 S. Margiotta, Manuale di tutela dell’ambiente, Il sole 24 ore, 2002 2 1 ne è aggiunto un altro, anch’esso comune: l’ambiente in senso ecologico4, che evidenzia, tra quanto ci sta attorno, ciò che permette e favorisce la vita degli uomini e di ogni altro essere vivente. Con tale significato, la parola ambiente indica “l’insieme delle condizioni fisiche, chimiche e biologiche che permettono e favoriscono la vita”5, nonchè “l’insieme dei fattori ecologici che hanno un’influenza diretta e significativa sulla vita degli organismi”6. Che cos’è però l’ambiente per il diritto?7 Dalla ricerca su una ampia base di dati di legislazione italiana risulta che oltre settemila normative8 contemplano il termine ambiente. In dette normative, così come nel linguaggio comune, tale termine è usato per vari scopi e con una infinità di significati9. La varietà di significati assunti dal termine ambiente e la mancanza di una definizione giuridica ha fatto dubitare per molto tempo che l’ordinamento accolga un concetto giuridico di ambiente in sé. Fino alla metà degli anni Ottanta tali dubbi erano più plausibili di quanto non lo siano ora10. Fino a quegli anni l’ordinamento si era occupato separatamente della tutela dell’aria, dell’acqua, del suolo e del sottosuolo, dell’aspetto del paesaggio, 4 “Il termine ecologia viene coniato nel 1866 da Haeckel e si riferisce, secondo una definizione che agli studiosi appare non del tutto soddisfacente, ad una scienza che studia le relazioni degli organismi viventi tra loro e con l’ambiente in cui vivono. Tale scienza segue necessariamente un carattere interdisciplinare, poiché si occupa di fenomeni che singolarmente considerati sono oggetto di scienze ben differenziate tra loro” (Borgonovo Re, Ecologia, in Dig. disc. pubbl., vol. V, Torino, 1994, pp. 353 e ss.) 5 D. Oli, Dizionario cit. 6 Enciclopedia Einaudi, Torino, 1977 7 P. Mantini, Lezioni di diritto pubblico dell’ambiente, Padova, 1991, rileva che “in passato nella lunga fase caratterizzata dall’abbondanza dei beni naturali, gli istituti giuridici, di tradizione romanistica, che hanno regolato il rapporto tra l’uomo e la natura sono stati unicamente quelli della proprietà, mentre l’aria, il mare, i fiumi venivano riconosciuti come res comune omnium, ossia come beni comuni le cui sorti, potenzialmente, interessano tutti gli individui”. 8 Il termine “normativa” è qui inteso in senso generico, IPSOA, La legge, Milano, 2/2000 9 L’enciclopedia giuridica Treccani riporta la voce Ambiente (tutela dell’) in relazione a cinque settori: diritto amministrativo, diritto della Comunità Europea, diritto internazionale, diritto penale, diritto comparato e straniero, Roma, 1988 10 Per una delle più recenti esclusioni dell’esistenza di un autonomo concetto giuridico di ambiente vedi Consiglio di Stato, IV, 1° Aprile 1991, n. 257, in Foro amm., 1991, p. 1023 e in Giust. civ,1991, I, p. 2512, secondo il quale “nell’attuale ordinamento giuridico non sarebbe dato riscontrare l’esistenza di un bene ambiente come autonoma categoria giuridica, direttamente tutelabile nella sua globalità” 2 nonché, per certi versi, della flora e della fauna. Fino a quegli anni nessuna normativa aveva per oggetto l’ambiente nel suo complesso né chiariva cosa fosse l’ambiente per il diritto, mentre la dottrina tendeva verso una “concezione variamente polimorfa”11. Emblematica è la posizione di un illustre amministrativista12, il quale negava rilievo giuridico autonomo alla nozione di ambiente13, preferendo utilizzare, a fini definitori, un triplice schema di riferimento. Secondo questo punto di vista la fattispecie “ambiente” sarebbe riconducibile a tre diverse tipologie di istituti e, nella specie: a) gli istituti concernenti la tutela delle bellezze paesistiche e culturali b) gli istituti concernenti la lotta contro gli inquinamenti c) gli istituti concernenti il governo del territorio (attività urbanistica). Parte della dottrina di fine secolo scorso rileva come tra questi istituti non sussista “alcuna rispondenza”14 in quanto: nel primo senso prevalente è la finalità di conservazione dei beni paesistico-culturali, considerati come beni pubblici, trattandosi di zone circoscritte di territorio nei cui confronti la P.A. è titolare di potestà a contenuto dispositivo; nel secondo, l’ambiente corrisponde a tutte quelle località nei cui confronti si esercita l’azione aggressiva dell’uomo: qui rileva il fatto giuridico dell’aggressore, “oggetto di attività di polizia, preventiva per evitare l’avveramento del fatto, repressiva per rimuoverlo”; l’ambiente in senso urbanistico è l’oggetto di “una attività amministrativa, alla cui base sta l’attività di pianificazione territoriale”. Nella seconda metà degli anni Ottanta è stato introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della valutazione di impatto ambientale prevista dalla direttiva 11 Capaccioli – Dal Piaz, Ambiente (tutela del), in Novissimo Digesto Italiano, Appendice, I, Torino, 1980, pp. 257 e ss.; D’Amelio, Ambiente (tutela del), in Enc. giur., II, 1988; Libertini, La nuova disciplina del danno ambientale e i problemi generali dell’ambiente, in Riv. crit. dir. priv. , 1987, pp. 547 e ss. 12 M. S. Giannini, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, pp. 1 e ss. 13 Il termine ambiente da un lato sembra riconducibile ad un’espressione olofrastica e dall’altro si presenta, quanto meno nell’angolo di visuale del giurista, concettualmente multiforme e polivalente, talchè non è apparso incongruo affermare che “L’ambiente è nulla perché è tutto” così Palazzolo, Sul concetto di ambiente (appunti di teoria generale del diritto), in Giurisprudenza italiana, 1989, IV, p. 309, nonché Carrozza, Lineamenti di un diritto agrario ambientale. I materiali possibili. I leganti disponibili, in Riv. dir. agr., 1994, I, p. 151 14 B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Bologna, 1990, p. 20 3 comunitaria n. 337 del 1985: ai soggetti che intendono svolgere determinate attività, che il legislatore ha individuato come maggiormente rischiose, viene imposto di valutare l’impatto sull’ambiente e di sottoporre l’esercizio delle stesse ad un procedimento amministrativo, preordinato a “considerare le componenti naturalistiche ed antropiche interessate, le interazioni tra queste e il sistema ambientale preso nella sua globalità”. La valutazione di impatto ambientale realizza dunque “la considerazione dell’ambiente quale autonomo e globale soggetto di diritto poiché si passa dalla disciplina afferente singole risorse naturali all’affermazione delle fondamentali esigenze di equilibrio ecologico e ambientale”15. L’art. 1 della legge 349/1986 ha istituito il Ministero dell’ambiente per la “promozione, conservazione, e recupero delle condizioni ambientali, nonché la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale e la difesa delle risorse naturali dall’inquinamento”.16 Come ha osservato un noto studioso del diritto ambientale17, con l’istituzione del Ministero dell’ambiente il legislatore “attraverso l’indicazione di valori per la prima volta così normativizzati, ha riportato le singole parti all’integrità del tutto cui appartengono, cioè all’ambiente come ciò che circonda la persona”. L’art. 18 della stessa legge 349/1986 ha anche introdotto l’istituto del danno ambientale: l’autore di “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente , ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è tenuto al risarcimento nei confronti dello Stato”. Tale istituto riguarda ogni caso di compromissione dell’ambiente “considerato sotto il suo profilo unitario”18 e quindi anche la compromissione di componenti ambientali eventualmente non nominate dalla legge. 15 Borgonovo Re, Ecologia cit., p. 354 Non dissimile la formula utilizzata nella legge n. 146 del 1994, recante “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle comunità europee- legge comunitaria 1993”, che, nel dettare all’art. 36, i principi e i criteri per l’attuazione delle direttive in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, fa riferimento al “recupero e conservazione delle condizioni ambientali in difesa degli interessi fondamentali della qualità della vita, della conservazione e valorizzazione delle risorse e del patrimonio naturale”. 17 P. Mantini, Lezioni cit., p. 46 18 Cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 921 del 1995 16 4 Orbene, con l’art. 18 della stessa legge 349/1986 la definizione di un concetto giuridico di ambiente è ineludibile per individuare l’oggetto e i limiti del danno da risarcire. Pertanto, quand’anche si ritenesse che la legge non definisca quel concetto, non si può comunque negare che l’ordinamento lo presupponga.19 Anche le leggi entrate in vigore successivamente alla legge 349/1986 sembrano confermare la tendenza a fare dell’ambiente un autonomo concetto giuridico unitario, cercando di delinearne il complesso di relazioni. Infatti, le più recenti normative intendono la tutela di determinate componenti ambientali come destinata a consentire alla collettività gli usi legittimi dell’ambiente. Significative, sono soprattutto le finalità perseguite dall’autorizzazione integrata ambientale degli impianti esistenti come espressamente stabilite dalla normativa che, nel 1999, l’ha istituita: non solo “evitare oppure ridurre le emissioni nell’aria, nell’acqua e nel suolo”, ma anche “conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso”.20 Definizioni unitarie di ambiente sono state accolte anche dalle norme internazionali, come la Carta mondiale della natura adottata dall’Assemblea dell’ONU il 29 ottobre 1982 e la Carta di Stoccolma del 16 maggio 1972 secondo cui gli Stati sono reciprocamente obbligati a vietare e far cessare i comportamenti che alterano le condizioni ambientali , causando in particolare inquinamenti delle acque e dell’aria.21 L’evoluzione del quadro giuridico della materia verso il riconoscimento dell’esistenza di un concetto di ambiente rilevante per il diritto è stata determinata anche dall’apporto della giurisprudenza: le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definito la lesione dell’ambiente come lesione di un bene “giuridicamente riconosciuto e tutelato nella sua unitarietà”22; le sezioni Penali della stessa Corte hanno riconosciuto che “l’ambiente è una nozione oltrechè 19 S. Margiotta, Manuale cit., p. 12 Art. 1, d. lgs. 4 agosto 1999, n. 372 21 Assemblee des Nations Unies, Conference des N.U. sur l’environnement. Documents Officiels, Geneve, 1972 22 Cfr. Cassazione civile, Sezioni Unite, 22 ottobre 1988, n. 440 20 5 unitaria anche generale comprensiva delle risorse naturali e culturali”23; i giudici costituzionali hanno ribadito “la natura e la sostanza di un bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione quando tutela l’ambiente”24. Occorre, a questo punto, ripartire dalla nozione giuridica di ambiente per definirne, in maniera più specifica, il contenuto. Le norme dalle quali trae origine il riconoscimento dell’autonomia, logica e giuridica, del concetto di ambiente accolgono una nozione particolarmente estesa, che travalica le lunghe elencazioni dei singoli fattori e componenti ambientali. Le norme sulla valutazione dell’impatto ambientale, in particolare, prendono in considerazione l’ambiente “trascendendo la semplice considerazione dei singoli elementi o fattori naturali per attribuire rilevanza alla globalità dell’ecosistema”.25 Le norme comunitarie prevedono infatti che la valutazione dell’impatto ambientale riguardi i singoli fattori: l’uomo, la fauna e la flora; il suolo, l’acqua, l’aria, il clima e il paesaggio; i beni materiali ed il patrimonio culturale; ma, soprattutto, l’interazione dei fattori di cui sopra. Le norme italiane, pur facendo un lungo elenco di componenti e fattori ambientali (la qualità dell’aria, delle acque, del suolo e del sottosuolo, la flora e la fauna, la salute, il rumore e le vibrazioni, le radiazioni, gli equilibri naturali, gli ecosistemi, gli aspetti culturali del paesaggio, le condizioni ambientali che rilevano per l’identità culturale delle comunità umane), si preoccupano di sancire che la valutazione d’impatto ambientale debba estendersi a considerare le interazioni tra le componenti naturalistiche ed antropiche interessate e il sistema ambientale, preso nella sua globalità26. Pertanto, come si è espressa la Corte di Cassazione, “per ambiente deve intendersi il contesto delle risorse naturali e delle opere più significative dell’uomo protette dall’ordinamento”27. Ma più incisiva è la posizione della Corte Costituzionale: “Va riconosciuto lo sforzo in atto di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della 23 Cfr. Cassazione penale, III, 15 giugno 1993, in Riv. giur. amb., 1995, p. 481 Cfr. Corte Costituzionale, 30 dicembre 1987, n. 641 25 Borgonovo Re, Ecologia cit., p. 357 26 Allegato I al D.P.C.M. 27 dicembre 1988 27 Cfr. Cassazione penale, III, 15 giugno 1993 24 6 collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione. Si tende cioè ad una concezione unitaria del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali. Esso comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici, terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale e in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni. Ne deriva la repressione del danno ambientale, cioè del pregiudizio arrecato da qualsiasi attività volontaria o colposa, alla persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare), che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente. Trattasi di valori che in sostanza la Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32) alla stregua dei quali, le norme di previsione abbisognano di una sempre più moderna interpretazione. E la direttiva comunitaria (n. 85/337) impegna lo Stato in maniera rilevante ad una considerazione coordinata dell’ambiente, alla esecuzione tempestiva e corretta degli impegni assunti e all’apprestamento delle misure opportune, necessarie e indispensabili”28. Il nuovo orientamento supera la tripartizione operata da Giannini che “ha continuato ad avere fortuna anche dopo gli anni Ottanta più per l’autorevolezza di chi l’aveva formulata che non perché fosse ancora attuale la concezione pluralista”.29 Sotto il profilo del diritto tributario, va peraltro rilevato (e per il momento solo in via di anticipazione rispetto a quella che sarà la trattazione più approfondita del prosieguo) che “la nozione di ambiente debba essere assunta unitariamente nella sistematizzazione delle regole disciplinanti le forme di imposizione condizionate dal fattore ambientale, poiché, indipendentemente dal diverso settore di tutela (salute pubblica, urbanistica, patrimonio storico-artistico, paesaggio) sono identici gli scopi e gli strumenti del prelievo”30. 28 Cfr. Corte Costituzionale, 28 maggio 1987, n. 210, in Foro it., 1988, I, p. 329 S. Margiotta, Manuale cit., p. 14 30 F. Picciaredda – P. Selicato, I tributi e l’ambiente, Milano, 1996 29 7 1.1 L’ambiente come valore costituzionale La Costituzione formale non detta principi di tutela dell’ambiente nel senso unitario precedentemente delineato. Del resto, come è stato osservato, “nell’Assemblea Costituente non vi è ancora una chiara percezione del fenomeno, sicchè la Costituzione repubblicana del 1948 non reca alcuna norma in tema di ambiente. Tuttavia, essendo l’espressione ambiente indubbiamente polisensa occorre subito dire che la Carta costituzionale non risulta del tutto vuota di norme di principio”31: trattasi dei principi sulla tutela del paesaggio (art. 9, secondo comma)32 e della salute (art. 32, primo comma)33, sul rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), nonché sulla necessità che l’iniziativa economica privata non sia esercitata in contrasto con l’utilità sociale o a danno della libertà, sicurezza e dignità umana (art. 41, secondo comma). Si può attribuire all’elaborazione giurisprudenziale della Corte Costituzionale un ruolo decisivo nel riconoscere la natura di valore costituzionale dell’ambiente.34 In sostanza, abbandonando la insufficiente prospettiva dell’ambiente come situazione giuridica soggettiva, il giudice delle leggi ha ancorato gli interessi afferenti all’ambiente al tessuto dei valori su cui si fonda il patto costituzionale.35 L’ambiente come valore diventa così uno dei beni fondamentali alla cui stregua è necessario orientare ogni manifestazione della legalità.36 31 P. Mantini, Lezioni cit., p. 33 Nel corso della XII legislatura è stato approvato (ma mai votato dalle Assemblee parlamentari) un disegno di legge che avrebbe voluto modificare l’art. 9 della Costituzione nel senso di prevedere che la Repubblica tuteli non solo “il paesaggio” ma “l’ambiente e il paesaggio” 33 E’ da tenere in considerazione l’osservazione per la quale si nota una contaminatio tra gli artt. 9 e 32 della Costituzione: “da distinte disposizioni poste a presidio di settori fra loro non comunicanti ad endiadi normativa costitutiva di un sistema organico di tutela del valore protetto nelle sue multiformi accezioni”, E. Dalfino, Per un diritto procedimentale dell’ambiente, in Amm. e pol., 1992, n. 5, p. 38 34 M. Cecchetti, Rilevanza costituzionale dell’ambiente e argomentazioni della Corte, in Riv. giur. amb., 1994, pp. 252 e ss. La Corte costituzionale non si è limitata a conferire rilievo costituzionale alla tutela dell’ambiente; ha anche elaborato o semplicemente definito alcuni principi che qualificano l’ambiente e ne delineano le caratteristiche fondamentali: l’unitarietà (cfr. per tutte la sentenza n. 67 del 1992); la primarietà (cfr. ad esempio la sentenza n. 610 del 1987); la gradualità e la dinamicità della tutela (cfr. le sentenze nn. 53 del 1991 e 94 del 1985); la centralità della persona umana (cfr. sentenza n. 641 del 1987). Si tratta di sicuri punti di riferimento per considerare già vigente una disciplina costituzionale dell’ambiente che il giudice delle leggi ha elaborato sulla base di una interpretazione delle istanze sociali e del comune sentire all’interno dell’ordinamento 35 B. Caravita, Diritto cit., p. 35 e ss. 36 A. Baldassarre, Costituzione e teoria dei valori, in Pol. dir., 1991, pp. 639 e ss. 32 8 Nella giurisprudenza costituzionale non sempre univoco, peraltro, è stato il modo di definire gli interessi ambientali: in talune pronunce si parla di “beni rilevanti costituzionalmente”37 ma nettamente prevalente è il ricorso al concetto di “valore costituzionale” ovvero di “valore costituzionalmente garantito e protetto”38. Più di recente la Corte costituzionale ha precisato che l’ambiente, in una moderna concezione, costituisce un valore costituzionale dal contenuto “integrale”39, nel senso che in esso sono sommati una pluralità di valori non limitabili solo agli aspetti estetico – culturali, sanitari ed ecologici della tutela, ma ricomprensivi pure di esigenze e di istanze partecipative, la cui realizzazione implica l’attivazione di tutti i soggetti pubblici, in virtù del principio di “leale collaborazione”40, ma pure dei membri della collettività statale, dei quali non può essere trascurato il positivo contributo per una efficace tutela dei beni ambientali.41 Alla luce di questa giurisprudenza si desume che il concetto giuridico di ambiente non può essere inteso solamente come oggetto di un diritto soggettivo ovvero di un dovere di protezione da parte dello Stato. In ordine al primo aspetto, la formula “diritto all’ambiente” va intesa non già nel senso tecnico dell’esistenza di una pretesa soggettiva riferibile all’ambiente, bensì come formula sintetica per indicare un fascio di situazioni soggettive diversamente strutturate e diversamente tutelabili42: non esiste dunque un “diritto all’ambiente” azionabile da un soggetto individuale o collettivo davanti ad un giudice, ma diverse situazioni soggettive variamente strutturate (di volta in volta coincidenti con il diritto alla salute, il diritto alla salubrità dell’ambiente, ecc.) che 37 Cfr. Corte costituzionale, ordinanza n. 183 del 1983, in Giur. cost., 1983, pp. 977 e ss. Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 1987, in Giur. cost., 1987, pp. 1212 e ss. 39 A. Morrone, La Corte costituzionale e la cooperazione nella fattispecie dell’impresa: analisi critica di un modello contraddittorio, in Riv. giur. amb., 1995, p. 664 40 Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 302 del 1994, in Giur. cost., 1994, pp. 2590 e ss. 41 “La conservazione dei valori ambientali consente di rafforzare nell’uomo quella che un indirizzo sociologico definisce come capacità di trascendenza. Tale concezione assume significato anche per il diritto ove si osserva che la previdenza per l’esistenza rientra tra i fondamentali fini sociali assegnati allo Stato contemporaneo”, G. Cordini, Diritto ambientale comparato, Padova, 2002, p. 25 42 La questione ambientale ha indotto le giurisdizioni nazionali e quelle internazionali a configurare un diritto fondamentale all’ambiente che si collega strettamente ai diritti inviolabili dell’uomo quali il rispetto della vita e la tutela della dignità umana. Si prospetta, con ragione, l’idea che la tutela dell’ambiente si possa riferire all’affermazione di diritti di terza generazione, dopo il riconoscimento dei diritti di libertà e dei diritti politici (prima generazione) e dei diritti economici e sociali (seconda generazione), G. Cordini, Diritto cit., pp. 2 e ss. 38 9 si pongono nei confronti dell’ambiente come valore in rapporto di mezzi al fine.43 Sotto il secondo profilo, il dovere di protezione dell’ambiente coinvolge non solo lo Stato apparato, ma altresì tutte le espressioni del potere pubblico, sia nelle sue articolazioni territoriali interne (regioni, comunità autonome, enti locali), che nella sua proiezione sopranazionale (comunità internazionali), oltrechè i singoli consociati, singolarmente e nelle formazioni sociali in cui si esprime la persona umana. Vero è, come già detto, che l’ambiente come valore costituzionale, a differenza di altri valori che normalmente la Costituzione traduce in principi, ossia in formulazioni giuridiche positive, non trova nell’ordinamento costituzionale italiano alcuna traduzione formale. A questo fine, infatti, non possono ritenersi sufficienti le disposizioni di cui agli artt. 2, 9 e 32 Cost. , dato che in termini strettamente positivi tali disposizioni prescrivono i principi costituzionali in materia di tutela di diritti fondamentali dell’uomo, di protezione del paesaggio e di diritto alla salute. Una conferma in questo senso può trarsi anche nella giurisprudenza costituzionale, nell’ambito della quale, le questioni presentate al giudice delle leggi sono state risolte non tanto attraverso il richiamo degli artt. 2, 9 e 32 Cost. (poiché si cadrebbe in una clausola di stile) quanto invocando immediatamente e direttamente l’ambiente come valore costituzionale, da cui la Corte ha formulato principi generali assunti a linee guida dal nostro Legislatore. In altri termini, la Corte costituzionale, ha riconosciuto l’emersione e l’esistenza di un valore costituzionale nell’esigenza di protezione dell’ambiente, che, attraverso il collegamento con il valore centrale della persona umana e di altri diritti e interessi immediatamente connessi a quest’ultimo, può ritenersi sotteso alla Costituzione italiana, pur in mancanza di un’esplicita formulazione normativa di rango costituzionale. Muovendo dalla teoria dei valori, così come si è andata precisando nella giurisprudenza del giudice della leggi, l’ambiente può essere considerato dunque 43 Sulla pluralità delle tecniche di tutela collegate alla protezione dell’ambiente cfr. F. Salvia, Ambiente e sviluppo sostenibile, in Riv. giur. amb., 1998, pp. 235 e ss. 10 un valore costituzionale.44 Considerare l’ambiente come un valore significa che esso non solo può formare oggetto di un diritto o di un principio per dirigere l’interpretazione delle leggi o dei trattati, ma che esso costituisce, proprio in quanto valore, uno degli elementi fondamentali che caratterizzano una società in un dato periodo della storia e sul quale una società fonda la sua legittimazione.45 Nella nostra società moderna l’ambiente è un valore così come la dignità umana, che è tale solo se è praticata indistintamente per ogni persona umana. I valori, una volta stabiliti, trovano in se stessi la loro giustificazione. Anche se talvolta si tende a cercare una giustificazione trascendente, in realtà essi non abbisognano di alcun fondamento: sono tali per sé.46 Riconoscere un valore intrinseco all’ambiente non significa postularne l’inviolabilità o la proibizione di qualsiasi interferenza, bensì comporta che colui il quale agisce su di esso debba fornire la giustificazione del suo intervento. In tal modo, è stata in realtà capovolta la regola che disciplinava gli interventi sull’ambiente. Originariamente la regola era: l’uomo è titolare di un diritto ad intervenire sull’ambiente, ma questo diritto può subire limitazioni se una possibile controparte dimostra che l’azione intrapresa danneggia o mette in pericolo l’ambiente. Il principio attuale, invece, impone che l’attore debba fornire una giustificazione del suo intervento, e questa giustificazione deve essere sufficiente. Il problema così si sposta: quali sono i criteri per cui una giustificazione può essere definita sufficiente? In via generale, una giustificazione può essere considerata sufficiente se l’attore prova che l’azione la quale è in procinto di condurre è necessaria in relazione ad 44 Di differente avviso S. Margiotta, secondo il quale “l’ampliamento del contenuto di principi costituzionali dettati a tutela di specifici profili ambientali, isolatamente considerati, non conduce a riconoscere il valore costituzionale dell’ambiente in senso globale”, Manuale cit., p. 43 45 Il valore costituzionale dell’ambiente è stato posto in evidenza in ispecie negli studi in tema di tutela degli interessi diffusi. Si veda in quest’ottica: A. Amatucci, Qualità della vita, interessi diffusi e capacità contributiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1975, I, pp. 351 e ss. 46 L’ambiente viene definito esplicitamente come valore per sé nella Convenzione sulla diversità biologica adottata nel corso della Conferenza di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo del 5 giugno 1992, ratificata in Italia con legge n. 124 del 1994. Il testo della Convenzione è presente in Riv. giur. amb., 1992, pp. 719 e ss. 11 un fine: nel nostro contesto non è sufficiente una giustificazione di tipo formale, ma è necessaria una giustificazione di tipo sostanziale. Ciò significa che una interferenza con l’ambiente può essere considerata giustificata se è positivamente collegata all’attuazione di un altro valore costituzionale o con qualche attività necessaria per dare un contenuto concreto a un valore costituzionale. Le nostre società complesse sono fondate su di una pluralità di valori: questi valori possono talvolta, nella loro dimensione concreta, confliggere. Tuttavia questi valori non possono essere mai sacrificati totalmente e il conflitto deve essere risolto prima che uno dei due valori confliggenti sia, nel caso concreto, cancellato e annullato. Il valore ambiente non implica in nessun modo l’incondizionata subordinazione ad esso di ogni altro valore costituzionale presente nella carta del 1948. L’equivoco, in proposito, è stato alimentato da alcune pronunce della Corte costituzionale, dove con riferimento all’ambiente si è parlato di “valore primario e assoluto” e “insuscettibile di essere subordinato a ogni altro”47. Se così fosse, coglierebbero pienamente nel segno le opinioni di coloro48 i quali hanno sostenuto che per effetto del riconoscimento della primarietà del valore ambiente sono stati avallati numerosi interventi legislativi che tendevano a legittimare, sul versante del sistema delle fonti del diritto, le frequenti deroghe che in situazioni di emergenza venivano portate al principio della gerarchia degli atti normativi. In realtà, anche nella giurisprudenza costituzionale è pacifico che “la tutela dell’integrità del paesaggio e dell’ambiente non è comunque assoluta ma suscettibile di estimazione comparativa nell’ordinamento giuridico, poiché esistono altri valori costituzionali che ben possono legittimare il bilanciamento delle tutele”49 La primarietà di un valore costituzionale può essere colta nella sua dimensione 47 Cfr. Corte costituzionale, sentenze nn. 151 e 153 del 1986, in Foro it., 1986, I, pp. 2690 e ss. , con note di B. Caravita e M. R. Cozzuto Quadri, Stato, regione e tutela ambientale: la legge 431/85 supera il vaglio della Corte costituzionale, pp. 2694 e ss. 48 Vedi per tutti S. Bartole, La primarietà dei valori costituzionali è giustificazione di interventi di emergenza? , in Le regioni, 1986, pp. 1284 e ss. 49 Cfr. in questo senso Corte costituzionale, sentenza n. 39 del 1986, in Giur. cost., 1986, p. 317 12 dinamica, evidenziando la posizione che ciascun interesse occupa in relazione ad altri valori costituzionali. Sotto questo profilo, i possibili conflitti che in concreto possono aversi tra valori equiordinati, devono essere risolti attraverso il principio della ragionevolezza, nella versione applicativa del ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali, così come utilizzato dalla giurisprudenza costituzionale e ricostruito dalla più recente letteratura giuridica.50 Attraverso il bilanciamento degli interessi costituzionali primari e pariordinati è possibile risolvere i conflitti tra valori, individuando la soluzione che, tra tutte quelle possibili e dalle quali è elusa solamente l’opzione per la prevalenza integrale di questo o quel valore, meglio risponde in termini di adeguatezza al caso concreto. Non infrequente nella giurisprudenza costituzionale è il ricorso alle tecniche del bilanciamento per la risoluzione dei conflitti che sorgono tra gli interessi ambientali e altri interessi costituzionali a quelli gerarchicamente equiparati.51 Il caso esemplare, in proposito, è quello deciso con la sentenza n. 127 del 1990, in cui la Corte ha operato un bilanciamento tra gli interessi afferenti alla salute individuale (art. 32 Cost.), al valore della tutela dell’ambiente (artt. 2, 9 e 32 Cost.) e al valore della libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.)52 La questione, in particolare, riguardava il concetto di “migliore tecnologia disponibile”, di cui al d.p.r. n. 203 del 1988, nella parte in cui la norma ha disposto che “l’applicazione di tali misure non comporti costi eccessivi” per l’attività d’impresa. In buona sostanza, la legge sembrava condizionare al criterio dei costi l’onere per l’impresa di dotarsi di impianti necessari all’abbattimento delle emissioni inquinanti, con il conseguente snaturamento della ratio della disciplina e la grave lesione dei valori espressi nell’art. 32 (salute e ambiente) e nell’art. 41, comma 2, Cost. (l’utilità sociale come limite all’intrapresa economica). 50 Cfr. per tutti G. Scaccia, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale,Milano, 2000 51 Vedi Corte costituzionale, ordinanza n. 184 del 1983, secondo cui: “non può ritenersi in contrasto con il principio della libertà di iniziativa economica l’obbligo dell’imprenditore di osservare la disciplina amministrativa e penale che trova fondamento nella tutela di beni rilevanti costituzionalmente, quale la protezione dell’ambiente”, in Giur. cost., 1983, pp. 977 e ss. 52 Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 127 del 1990, in Giur. cost., 1990, pp. 718 e ss. 13 La Corte costituzionale, escludendo che il legislatore nel caso in esame fosse incorso in una clamorosa contraddizione, ha risolto il conflitto mediante un’interpretazione adeguatrice della disposizione impugnata, individuando le ragioni che nel caso concreto avrebbero consentito di giustificare la soluzione legislativa prescelta. La Corte ha stabilito che l’individuazione della “migliore tecnologia disponibile” sulla scorta dei criteri economici (ossia funzionali all’abbattimento dei costi d’impresa) avrebbe dovuto operare in concreto solo ricorrendo determinate condizioni (riduzione dei livelli d’inquinamento, considerazione congiunta del degrado ambientale e delle risultanze della ricerca tecnologica, tutela di zone particolarmente inquinate), volte a proteggere in via prioritaria il livello minimo indefettibile di tollerabilità per la salute umana e per l’ambiente in cui l’uomo vive.53 Ma, al di là della decisione concreta, la sentenza n. 127 del 1990 è esemplificativa della necessità del contemperamento e del bilanciamento degli interessi contrapposti, unico possibile modello di governo della materia ambientale. Il bilanciamento tra interessi contrapposti, quando nessuno di essi sia tutelato in via assoluta, non si attua solo tenendo conto del rango delle norme che tutelano quegli interessi, ma anche valutando la gravità della lesione che il soddisfacimento dell’uno determinerebbe nell’altro.54 1.2 L’aspetto economico del fenomeno ambiente: l’esternalità La stretta connessione tra sviluppo economico, attività antropiche e crescita dell’inquinamento pone con sempre maggiore urgenza il problema di una politica economica dell’ambiente, in grado di sperimentare nuove possibilità di tutela attraverso l’applicazione di strumenti economico-finanziari innovativi.55 53 B. Caravita, Il bilanciamento tra costi economici e costi ambientali in una sentenza interpretativa della Corte costituzionale, in Le regioni, 1991, II, pp. 525 e ss. 54 “Riguardo il bilanciamento tra il diritto al lavoro (di cui agli artt. 1 e 4 Cost.) e il diritto alla tutela ambientale (generalmente fondato sugli artt. 9 e 32 Cost.), spetta al legislatore la valutazione in ordine alla prevalenza dell’uno rispetto all’altro”, così Cassazione penale, III, 7 luglio 1995 la quale ha ritenuto prevalente l’interesse ambientale in quanto, a differenza del diritto al lavoro, è sorretto nella legislazione ordinaria da sanzione penale 55 Sul punto E. Gerelli, Ascesa e declino del business ambientale, Bologna, 1990 14 La necessità di un approccio al problema ambientale in chiave economicofinanziaria ha indotto fin dagli anni settanta gli economisti a prestare maggior attenzione al problema del forte legame tra ambiente ed economia in relazione agli effetti indotti dalle attività economiche sull’ecosistema che non possono essere internalizzati dal mercato.56 In materia ambientale sono infatti rilevabili diseconomie esterne connesse con il fatto che gli effetti dannosi collegati ad una specifica condotta economica non causano di norma aumenti di costo per coloro i quali le pongono in essere ma per i terzi: i costi ambientali costituiscono quindi dei veri e propri costi sociali. In conseguenza di tale diseconomia esterna, frutto dell’attività di produzione e di consumo, un soggetto terzo, diverso dal produttore e dal consumatore del bene, sopporta un disagio non solo economico che dovrebbe invece ricadere sul produttore stesso. L’inquinamento rappresenta un effetto esterno al mercato, il cui costo è imposto ingiustificatamente alla collettività la quale è costretta a subirne le conseguenze per effetto della sottovalutazione dei costi ambientali che il produttore non incorpora nel prezzo dei beni prodotti. I prezzi di mercato quindi, nella misura in cui non incorporano i costi sociali nei costi marginali privati, non rappresentano uno strumento efficace di prevenzione dell’inquinamento e di tutela ambientale.57 Viene quindi in rilievo l’importanza di strumenti economici che consentano al mercato non solo di produrre beni e servizi a costi più bassi, ma di realizzare 56 “L’economista analizza il problema ambientale in una prospettiva che può apparire al giurista quanto meno singolare: egli infatti considera l’inquinamento come un elemento distorsivo all’interno del mercato che crea disfunzioni e determina un’allocazione delle risorse inefficiente. E’ alla soluzione di questo aspetto che sono rivolte le proposte degli economisti mentre per il giurista il problema è quello di realizzare un equilibrato contemperamento dei diversi interessi che consenta di preservare condizioni ambientali compatibili con gli equilibri dell’ecosistema senza penalizzare eccessivamente le attività economiche”, così R. Perrone Capano, L’imposizione e l’ambiente, in Trattato di diritto tributario diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, pp. 473 e ss. 57 “A causa delle diseconomie esterne i prezzi di mercato non rappresentano dei segnali corretti perché non riflettono la divergenza tra costi marginali privati e costi marginali sociali. La mancata uguaglianza tra queste grandezze impedisce al mercato di allocare nel modo più efficiente le risorse e, per quanto riguarda l’ambiente, favorisce un consumo eccessivo di beni naturali. E’ quindi ampiamente giustificata la necessità di interventi correttivi che, imponendo ai soggetti responsabili delle diseconomie di sopportare i costi derivanti dalla propria attività, regolino la produzione di quel particolare bene pubblico che è la difesa ambientale”, così F. Osculati, La tassazione ambientale, Padova, 1979 15 questo obiettivo nel rispetto di una serie di limiti e vincoli posti dall’ordinamento per la tutela di interessi generali quali la protezione dell’ecosistema. L’uso gratuito di beni naturali, nel presupposto che questi siano inesauribili, ne determina infatti un’utilizzazione impropria che non tiene conto del valore d’uso, cui dovrebbe comunque corrispondere un prezzo e del fatto che accanto a risorse rinnovabili ve ne sono altre, quali le fonti energetiche non rinnovabili, per le quali avrebbe dovuto attuarsi ab origine una politica di utilizzazione differenziata, attraverso un articolato sistema di prezzi al fine di contenerne gli sprechi. Nel rapporto tra ambiente e attività economiche si è quindi in presenza di un caso tipico di fallimento del mercato, che non può essere risolto se non attraverso una serie di articolati interventi da parte dello Stato, con l’obiettivo di controllare le crescenti diseconomie ambientali e di permettere quindi un miglior funzionamento del mercato stesso.58 La prima proposta di intervento correttivo delle diseconomie esterne mediante tassazione risale a Pigou59 il quale prendeva ad esempio una fabbrica di prodotti industriali che con i suoi residui inquina l’aria e le acque di un fiume.60 Secondo Pigou, il problema delle diseconomie esterne può essere risolto mediante l’applicazione di un’imposta speciale a carico delle attività economiche che vendono dei “disservizi occasionali non rimborsabili a terze persone” estranee a ogni rapporto economico con quelle attività. L’ammontare del tributo dovrebbe essere calcolato in modo da colmare il divario tra i prodotti netti marginali privati dei responsabili delle diseconomie esterne con quelli sociali, talchè, nel caso specifico dell’inquinamento, il nuovo gravame tributario dovrebbe accrescere i costi dell’intera industria inquinante fino a farli 58 Sul punto B. Burrows, The economic theory of pollution control, Oxford, 1981 A. C. Pigou, The economics of welfare, London, 1929 60 Pigou fa anche degli esempi opposti: la costruzione di una ferrovia in un’area poco sviluppata, che vada dall’interno alla costa, dà un profitto assai basso all’impresa che la costruisce perchè il traffico è scarso, però incentiva la nascita di aziende industriali all’interno, rendendo possibile il trasporto dei prodotti fino alla costa. In questo caso il vantaggio sociale (cioè il vantaggio per la collettività) derivante dalla costruzione della ferrovia è maggiore del vantaggio privato immediato (per l’impresa che l’ha costruita) e l’investimento che consiste nella costruzione della ferrovia genera un’economia esterna, cioè esterna all’impresa che costruisce la ferrovia ma interna al sistema economico (ovvero un’esternalità positiva) 59 16 coincidere con la globalità dei costi sociali ad essa imputabili.61 Reagendo al conseguente aumento del prezzo di offerta, diminuirebbero la quantità prodotta e venduta e di riflesso anche la quantità di effluenti nocivi scaricati. Il risultato di questo processo di internalizzazione dei costi esterni sarebbe quello di ridurre l’inquinamento nella misura giustificata dall’ottima allocazione delle risorse. Infatti, volendo minimizzare le spese totali, l’inquinatore sarebbe spinto a ridurre gli scarichi fino ad eguagliare i costi marginali di disinquinamento con la tassa (a sua volta eguale al valore del danno dell’inquinamento residuo) e il valore del beneficio che il produttore trae dall’attività di scarico degli effluenti. Questa serie di eguaglianze porta ad una situazione di livello ottimale di inquinamento residuo e di depurazione.62 Alcuni economisti, pur riconoscendo l’esistenza e la rilevanza delle esternalità, hanno sostenuto che l’intervento pubblico non è lo strumento adatto per risolvere i problemi connessi a tale fenomeno. Essi infatti affermano che le misure correttive degli effetti esterni , adottate dalle autorità di governo, comportano a loro volta dei costi, perché determinano una crescita della burocrazia e un’interferenza eccessiva nelle decisioni delle imprese, 61 “Nonostante i pregevoli tentativi che sono stati operati per elaborare accurate metodologie di calcolo dei danni ambientali, la monetizzazione completa dei costi è quasi sempre irrealizzabile. L’esperienza mostra che la valutazione dei danni provocati dall’inquinamento comporta un notevole grado di approssimazione per almeno tre motivi: a) il valore dei danni provocati dall’inquinamento non è proporzionale alla concentrazione delle sostanze nocive immesse nei corsi d’acqua o in altri comparti delle riserve ambientali; b) gli effetti dei diversi agenti inquinanti difficilmente si sommano: normalmente interagiscono in modo che gli uni moltiplicano la propria dannosità a causa degli altri o, al contrario, in modo che taluni vengano neutralizzati dagli altri (effetti sinergistici); c) i danni alla salute, al paesaggio o ad altri beni privi di un prezzo di mercato (beni incommensurabili) non possono essere valutati con grandezze o concetti di esclusivo significato economico, ma richiedono l’esplicitazione di giudizi di valore circa la loro importanza sociale”, così F. Osculati, La tassazione cit., p. 13 62 “Un’altra possibile soluzione al problema delle diseconomie esterne consiste nel fatto che lo Stato venda all’asta alle imprese l’autorizzazione a produrre la diseconomia (licenza di inquinare). In tal modo lo Stato percepisce una somma che può essere equivalente al costo sociale dell’inquinamento, lasciando che sia la concorrenza tra le imprese a determinarla anziché fissarla direttamente come nel caso dell’introduzione dell’imposta. Il metodo della vendita all’asta dà al Governo il vantaggio di poter fissare la quantità di inquinamento desiderata (o meglio il livello ritenuto sopportabile) al momento della vendita, mentre con l’introduzione dell’imposta il Governo non sa a priori quale sarà esattamente il livello di produzione di equilibrio delle imprese e quindi la quantità di inquinamento che creeranno”, così G. Palmerio, I fallimenti del mercato: le esternalità, in Principi di finanza pubblica, Bari, 1997 17 e quindi ostacolano l’iniziativa privata. Coase ha sostenuto che bisogna considerare anche il costo dei provvedimenti volti a correggere gli effetti esterni e più in generale occorre una riconsiderazione complessiva di tale problematica.63 Ad esempio, rileva Coase, se una fabbrica mediante l’emissione di fumi produce un danno pari a 1000 euro, potrebbe sembrare opportuno, a prima vista, far pagare all’impresa che è proprietaria della fabbrica un’imposta pari a 1000 euro con cui poter riparare il danno; l’impresa poi, se potrà modificare il processo produttivo (in modo da non emettere più i fumi nocivi) con un costo inferiore a 1000 euro, avrà convenienza a farlo. Ma la soluzione potrebbe non essere ottimale per la collettività, qualora le persone danneggiate dai fumi potessero spostarsi dalla zona contaminata con un costo pari a 700 euro. Adottando questa soluzione la collettività risparmierebbe 300 euro.64 Coase ed altri economisti sostengono che il problema delle esternalità dovrebbe essere risolto mediante accordi tra le parti in conflitto (nell’esempio l’impresa che inquina e i soggetti danneggiati dal processo di inquinamento). Queste potrebbero sempre individuare un prezzo per il risarcimento del danno che dia loro reciproca soddisfazione, rendendo così superfluo l’intervento pubblico e i connessi costi burocratici. Per questi economisti pertanto, più che di fallimenti del mercato si dovrebbe parlare di fallimento dell’intervento pubblico nel risolvere i problemi determinati dall’esistenza delle esternalità. Altri studiosi hanno però messo in evidenza che in ben pochi casi gli accordi spontanei potrebbero risolvere il problema delle esternalità, perché i costi di transazione, cioè il costo di questi accordi, sarebbero così elevati per i singoli che difficilmente essi verrebbero realizzati, e quindi risulta sempre necessario 63 R. H. Coase, The problem of social cost, in Journal of law and economics, vol. 3, pp. 1-44, 1960 64 “Va rilevato che episodi di mobilità in seguito alle variazioni della produzione di residui inquinanti da fonti ben individuabili sono piuttosto improbabili perché l’inquinamento è attualmente un fenomeno estremamente pervasivo e perché gli effetti si possono manifestare anche in luoghi molto lontani da dove avvengono le emissioni”, così F. Osculati, La tassazione cit., p. 10 18 l’intervento pubblico.65 Consideriamo i milioni di individui proprietari di automobili che con i loro scarichi danneggiano i polmoni dei cittadini, nonché gli edifici e i monumenti storici. In questo caso un accordo di tipo contrattuale tra i danneggianti e i danneggiati sarebbe molto costoso e quindi inefficiente. L’intervento pubblico invece potrebbe consistere nel tassare gli automobilisti (si pensi alle imposte che gravano sulla benzina) e con il gettito di tale imposta lo Stato potrebbe riparare, almeno parzialmente, i danni provocati dall’inquinamento.66 La proposta pigouviana, anche se ha subito nel tempo correttivi ed adattamenti, ha avuto il merito, in un’epoca in cui il problema della ricerca di un equilibrato rapporto tra economia e ambiente aveva dimensioni meno imperative rispetto alla situazione attuale, di affrontare le problematiche legate all’equilibrio ecologico in chiave economico-finanziaria, evidenziando l’obiettivo peculiare dell’azione pubblica di difesa naturale nel raggiungimento di un livello di ottimo inquinamento residuo. Più recentemente, a partire dagli anni settanta, si è assistito ad una costante evoluzione delle politiche pubbliche per l’ambiente.67 Gli interventi sul mercato non vengono effettuati soltanto con il sistema della 65 La validità dell’impostazione di Pigou è stata riaffermata da W. Baumol, On taxation and the control of externalities, in American economic review, 1972, vol. 62, pp. 307-322, il quale assimila il degrado ad un male pubblico che deve essere prodotto nelle quantità determinate secondo processi di decisione politica che, come tale, non richiede compensazione. 66 “Anche in condizioni di semplice concorrenza non ci si può fidare di nessuna mano invisibile per il tutto, quando le singole parti sono affidate a persone diverse. E’ quindi necessario l’intervento di un’autorità superiore per risolvere i problemi collettivi di bellezza, aria e luce, così come sono stati risolti quegli altri problemi collettivi di distribuzione del gas e dell’acqua”, A. C. Pigou, The economics cit. 67 “Per tutto il periodo della ricostruzione postbellica la società italiana ha mostrato di accettare di buon grado un livello di degrado ambientale elevatissimo connesso allo sviluppo industriale, come corrispettivo, da una parte della possibilità di creare occupazione e dall’altra, della progressiva diffusione della ricchezza. Questa tendenza è la causa più importante della disattenzione verso le tematiche delle esternalità ambientali anche da parte del mondo accademico, il quale subisce condizionamenti potenti dall’andamento strutturale dell’economia”, così R. Cellerino, L’ambiente nella tradizione finanziaria italiana, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1991, pp. 666 e ss. 19 regolamentazione diretta68, ma impiegando tecniche diverse che hanno una funzione incentivante sugli inquinatori i quali nella veste di operatori economici, hanno la possibilità di scegliere fra di esse, privilegiando la soluzione che reputano più conveniente ai loro interessi. La denominazione di strumenti economico-finanziari è adoperata in campo ambientale in senso lato in quanto in essa vengono ricompresi sia strumenti incentivanti, quali i contributi per l’innovazione tecnologica, le facilitazioni creditizie, agevolazioni ed esenzioni fiscali, sia interventi che incidono direttamente sul meccanismo dei prezzi attraverso l’adozione di imposte specifiche ovvero la vendita di diritti di inquinamento69 e la previsione di depositi cauzionali rifondibili70. Tradizionalmente la politica economica ambientale ha riconosciuto l’importanza di un sistema di incentivazioni finanziarie basato su un’articolata applicazione di agevolazioni fiscali e di sussidi71 rispetto all’impiego di imposte; queste ultime 68 Il sistema è quello dei command and control che consente di incidere direttamente ed in modo efficace sul comportamento degli operatori attraverso l’imposizione di limiti e controlli sulle attività inquinanti, realizzando forme di intervento pianificatori a livello statale e locale. Tale complesso di prescrizioni, inizialmente rivolto a disciplinare lo svolgimento delle sole attività produttive, viene oggi ad incidere anche sulle abitudini di vita dei cittadini. Si pensi alla recente diffusione in tutte le città italiane dei divieti di circolazione dei veicoli nei centri urbani in occasione del superamento di determinate soglie di inquinamento atmosferico, PicciareddaSelicato, I tributi cit. 69 “L’idea base di una politica economica ambientale orientata al mercato è di riconoscere al settore pubblico, come rappresentante degli interessi della collettività, il diritto di proprietà sulle risorse ambientali. Il settore pubblico in pratica vende il diritto ad usare l’ambiente alle parti interessate del settore privato: applica cioè un prezzo all’uso delle risorse ambientali. Lo scopo non è di punire nessuno, ma è quello di dare degli incentivi agli agenti economici perché riducano la domanda complessiva di attività inquinanti e/o sostituiscano merci ad alta intensità di inquinamento con altre merci”, così I. Musu, Tassazione e sussidi nella politica ambientale, in Tassazione, consumo, ambiente di Gerelli-Tremonti, Milano, 1991, p. 58 70 “Si tratta di una esplicita combinazione di tassazione e di sussidio. Il deposito è una tassa introdotta agli stadi iniziali di una catena di transazioni: in un contesto di politica ambientale esso potrebbe essere calcolato sulla base di stime di un massimo danno in termini d’uso dell’ambiente collegato ad una certa azione economica (per esempio l’acquisto di un input produttivo). La restituzione del deposito al verificarsi di certe condizioni di conservazione ambientale costituisce il sussidio: la garanzia di restituzione è volta a stimolare attività di riciclaggio e di innovazione tecnologica per la riduzione del danno ambientale che altrimenti non sarebbero intraprese”, I. Musu, Tassazione cit., p. 74 71 “Occorre tenere presente che i sussidi sono sempre parte di una politica fiscale per l’ambiente e non sono in contraddizione con la tassazione in quanto essi, in condizione di vincolo di bilancio pubblico, debbono in ultima analisi essere comunque finanziati con la tassazione. Se sono finanziati attraverso tasse di tipo generale, come le imposte dirette, questo significa che la società perde una opportunità di usare il meccanismo di finanziamento per lanciare un segnale sull’uso più appropriato delle risorse ambientali: verrebbe infatti meno l’effetto di sostituzione 20 infatti incontrano resistenze molto maggiori sia nell’opinione pubblica, che teme comunque l’ulteriore aumento della pressione tributaria, sia nei settori economici interessati all’introduzione di tali imposte. Maggiore diffusione hanno avuto invece le agevolazioni fiscali, in cui l’obiettivo di contenere lo sfruttamento delle risorse ambientali e di ridurre l’inquinamento è attuato attraverso l’attenuazione o l’eliminazione del carico fiscale in relazione ad interventi sui cicli produttivi che riducano l’inquinamento, ovvero all’adozione di impianti di depurazione o di abbattimento delle emissioni che rendano compatibili le attività produttive con la salvaguardia dell’ambiente naturale. Dal punto di vista degli effetti, tuttavia questi strumenti prestano il fianco a molte critiche in relazione ai limiti che li contraddistinguono. Se è infatti vero che in situazioni particolari le politiche agevolative possono determinare condizioni positive per l’ambiente, non si prestano comunque ad un impiego generalizzato in quanto tendono a trasferire sulla collettività il costo di interventi di contenimento dell’inquinamento, che dovrebbe invece gravare essenzialmente sui produttori e consumatori responsabili direttamente o in via mediata delle diseconomie esterne.72 La possibilità di successo per una politica economica di prevenzione dello sfruttamento eccessivo dell’ambiente aumenteranno se si partirà dalle difficoltà connesse all’applicazione della gamma degli strumenti finora solo ipotizzati e di quelli disponibili, per cercare di aumentare tale gamma intraprendendo anche in questo campo la strada di una ricerca di ingegneria istituzionale per trovare strumenti nuovi. Naturalmente occorre che vi sia un mercato sia per tale ricerca sia per tali strumenti: lo stimolo può venire dall’azione pubblica, ma il vero motore sarà il crescere di una sensibilità sociale che richieda uno sviluppo vincolato alla compatibilità ambientale.73 implicato dalla tassa indiretta sul prodotto inquinante che modifica il prezzo relativo di tale prodotto scoraggiandone l’uso”, I. Musu, Tassazione cit., p. 71 72 R. Perrone Capano, L’imposizione cit., p. 477 73 I. Musu, Tassazione cit., p. 75 21 2 L’introduzione di tasse ambientali: profili problematici Le tasse ambientali sono dei prelievi che colpiscono sostanze e/o prodotti connessi a fenomeni di degrado ambientale.74 Motivo della loro introduzione è quello di fornire agli operatori economici, mediante il sistema dei prezzi, indicazioni relativamente al costo ambientale delle loro attività di produzione e consumo.75 Le misure di tassazione ambientale si pongono accanto a quelle di regolamentazione diretta: i due tipi di strumenti si presentano con caratteristiche di complementarità, nel senso che, determinate le misure di regolamentazione con riguardo alla norma disciplinante situazioni e livelli accettabili di emissioni, le misure di tassazione sono in grado di esplicare con flessibilità un’addizionale influenza, tenendo conto dell’inquinamento residuo. Data l’utilizzazione dello strumento della tassazione in funzione complementare a quello della regolamentazione diretta, non si ha la determinazione di valori assoluti (come la vita e la salute) ma soltanto l’introduzione di misure di incentivo. A questo proposito è essenziale una distinzione tra attività inquinanti che, a causa del loro grado di dannosità ambientale, si vogliono far cessare e attività che si vogliono scoraggiare, ossia riportare in limiti quantitativi più ristretti e giudicati accettabili. 74 “Le forme di inquinamento dell’aria e dell’acqua, l’intensità dei rumori, la distruzione delle foreste, la rottura dell’equilibrio della biosfera, l’eccessivo uso delle risorse idriche, costituiscono per l’umanità un grave danno, che diverrebbe irreparabile per l’ambiente se non venissero prese misure adeguate. Sono perciò cresciuti i movimenti ambientalisti e si va diffondendo una certa sensibilità per i problemi dell’ambiente. Senonchè all’atto pratico ciascuno facilmente continua ad inquinare come produttore o consumatore, perché questa è la conseguenza dei tipi di produzione e di consumo propri delle moderne tecnologie e del crescente fabbisogno energetico. Occorrono conseguentemente interventi legislativi intesi a proibire e regolamentare certe attività, come pure certe azioni pubbliche per disinquinare e supplire. In sostanza occorre una politica ambientale organica”, così G. Stefani, Finalità e limiti della tassazione ambientale, in Boll.trib., n.20, 1999, p. 1493 75 “Normalmente i meccanismi di formazione dei prezzi di mercato dei prodotti ecologicamente dannosi non riflettono il loro grado specifico di pericolosità ambientale, ecco quindi che la tassazione di tali prodotti interviene come correttivo del sistema di formazione dei relativi prezzi”, così G. D’Alfonso, La tassazione ecologica, in il fisco, n. 14, 1997, p. 3940 Su questo argomento importante è anche il contributo di E. Gerelli, Società post-industriale e ambiente, Bari, 1995, p. 126, il quale rileva che “un mutamento del sistema dei prezzi tale da tutelare efficacemente l’ambiente è operazione che deve effettuarsi nell’ambito di una decisione di politica globale a favore dello sviluppo durevole” 22 Nel primo caso, avrebbe poco senso la proposta di ricorrere a misure di tassazione, in quanto la proibizione dell’attività è misura sicuramente più efficace.76 E’ piuttosto nel secondo caso che le misure di tassazione ambientale trovano il loro campo di applicazione più appropriato, proprio in ragione degli effetti di incentivo al disinquinamento dei quali si è detto.77 Alla base della proposta di fare ricorso a misure di tassazione ambientale nella politica di protezione dall’inquinamento sta l’idea che, mediante appropriati segnali di prezzo, si possano orientare i comportamenti sociali di uso delle risorse ambientali nella direzione del risparmio e dell’utilizzazione più razionale.78 Sul piano degli effetti concreti, l’azione di questi strumenti risulterà più o meno incisiva in relazione ai valori, più o meno elevati, delle aliquote impiegate e alle condizioni di domanda e di organizzazione delle produzioni. Anche aliquote relativamente contenute possono avere in molti casi effetti significativi, quando le risorse, i processi o i prodotti tassati trovino delle alternative immediatamente utilizzabili e accessibili sotto il profilo dei costi.79 D’altra parte, nel valutare gli effetti derivanti dalle misure di tassazione ambientale non ci si deve limitare a quelli di breve periodo; vi sono infatti adattamenti che richiedono tempi più lunghi in quanto correlati al processo di sviluppo tecnologico . Da questo punto di vista le misure di tassazione ambientale, col determinare nuove e diverse utilità, si manifestano come fattori di orientamento nella ricerca e 76 Un caso di grande rilievo in Italia fu il divieto dell’uso delle centrali termonucleari con la conseguente ricerca di fonti energetiche alternative (diversamente inquinanti). Il fatto che in altri Paesi tali centrali sono ammesse, ricorda la difficoltà di accordi internazionali e la relatività di criteri di intollerabilità. 77 L’introduzione di tasse ambientali e il suo significato, documento tecnico preliminare elaborato dall’ufficio del consigliere economico del ministero dell’ambiente, presente in Riv. dir. fin. sc. fin., I, 1989, pp. 612 e ss. 78 G. Stefani, Finalità cit., p. 1495, osserva come “il prof. Giulio Tremonti, nella breve primavera in cui fu ministro delle finanze, avendo idee ben chiare, riuscì a formulare un progetto di riforma (Il libro bianco del nuovo fisco, in Boll. trib., n. 24, pp. 1813 e ss.) che la caduta del governo Berlusconi gli impedì di realizzare. Il capitolo II contemplava la tassazione dell’energia e la tutela dell’ambiente, affidando ad un’unica imposta generale sull’energia la semplificazione della tassazione indiretta (dalle persone alle cose, come amava dire) e la funzione di limitare i consumi energetici”. 79 “La ragione più probabile del relativo insuccesso delle tasse ecologiche è dovuta al fatto che spesso sono state impiegate in modo improprio o troppo timido, con aliquote insufficienti a renderle efficaci rispetto all’obiettivo di trasferire sui produttori i costi sociali dell’inquinamento”, così R. Perrone Capano, L’imposizione cit., p. 480 23 nella messa a punto di processi e prodotti dalle più favorevoli caratteristiche ambientali.80 Per questi motivi la tassazione pone agli operatori margini di scelta, dunque di flessibilità, e offre la possibilità di incentivare la ricerca di soluzioni innovative ai problemi di riduzione e/o depurazione di emissioni, scarichi, rifiuti. Prima di illustrare i caratteri rilevanti delle tasse ambientali , è opportuno sgombrare il campo da alcuni malintesi, che, proprio perché banali, sono diffusi, ed ostacolano perciò in modo ingiustificato l’impiego di questi strumenti. E’ diffusa, innanzitutto, l’opinione che le tasse ambientali siano una licenza di inquinare, intendendosi con ciò che l’inquinatore, pagato il tributo, potrebbe continuare a danneggiare indisturbato l’ambiente. Si dimostra facilmente, invece, che proprio l’introduzione dei prelievi qui proposti evita questa asserita licenza. In proposito osserviamo preliminarmente che, se proprio si vuole usare la locuzione, facilmente fuorviante, licenza di inquinare, essa semmai viene concessa (e del tutto gratuitamente) dalla regolamentazione diretta. Infatti, anche l’inquinatore scrupoloso, una volta rispettato lo standard ambientale, può lecitamente utilizzare il bene comune ambiente come “ricettacolo dell’inquinamento residuo”. Lo strumento della tassazione ambientale fa invece sì che l’inquinatore paghi proprio in relazione a questo inquinamento residuo, ed inoltre in fattispecie nelle quali la regolamentazione diretta, sebbene generalmente presente, non è in grado di offrire soluzioni complete e adeguate ai problemi dell’inquinamento. Infine, introducendo un “prezzo di razionamento”81 dell’ambiente, i prelievi ambientali esercitano un incentivo assai maggiore della regolamentazione diretta all’introduzione di tecnologie e prodotti puliti. L’altro elemento di confusione trae origine da una errata valutazione di un fenomeno di meccanica economica. 80 “Poiché tutte queste misure si riflettono sull’economia nazionale, è importante che la politica ambientale sia inquadrata nella politica dello sviluppo sostenibile, essendo chiaro che si traduce in costi addizionali e in limitazioni che modificano le condizioni della produzione e del consumo”, così G. Stefani, Finalità cit., p. 1493 81 Entrambe le locuzioni sono presenti in L’introduzione di tasse ambientali e il suo significato, documento tecnico cit., p. 615 24 Punto di partenza è l’ipotesi, accettata dal legislatore fiscale, secondo cui le imposte sulla produzione vengono trasferite in avanti sul consumatore tramite un aumento dei prezzi. Si argomenta allora che, dal punto di vista ambientale, sarebbe inutile tassare il prodotto, in quanto l’imposta incide impropriamente sull’innocente consumatore. Anche qui l’equivoco è facilmente risolvibile, poiché è certamente opportuno che, tramite il meccanismo dei prezzi (in questo caso il loro aumento), vengono segnalate ai consumatori le scarsità ambientali. E’, in altre parole, opportuno che i tributi aumentino i prezzi dei prodotti inquinanti e/o ottenuti con processi inquinanti, così da spostare il consumatore verso destinazioni della spesa più compatibili con l’ambiente. Questo è, in effetti, un carattere positivo del tributo ambientale che corregge un difetto di funzionamento del sistema economico. Un’ultima critica generalmente mossa è che le tasse ambientali sarebbero antieconomiche in quanto penalizzano talune produzioni. Ma questo è, per l’appunto, il loro scopo, il quale non è certo fine a se stesso ma mirato al raggiungimento di un vantaggio sociale derivante dalla riduzione della produzione inquinante. Il beneficio indotto dalla tassa ambientale, in termini di benessere, ne giustifica dunque l’introduzione e ne giustifica anche appieno la classificazione tra gli utili strumenti economici. Dopo aver risolto i malintesi creatisi intorno alla politica di tassazione ambientale, passiamo ora ad analizzare le obiezioni che le sono state mosse. In prima battuta, un’obiezione riguarda il presunto scopo punitivo del tributo ambientale. Ma, come già detto, quest’ultimo non si propone uno scopo punitivo, ma semmai dissuasivo, in quanto si basa sul criterio di far pagare coattivamente il danno dell’inquinamento. L’obiezione pertanto si trasforma nella difficoltà di calcolare tale danno e di ripartirlo tra i soggetti inquinatori. “L’inquinamento riguarda beni ad utilità mista, perché si tratta di risorse naturali che sono contemporaneamente utili alla collettività ed a coloro che le usano. Si tratta dell’uso di risorse scarse (come è di tutti i beni economici) che 25 pure producono inquinamenti dell’acqua, dell’aria e della natura, o che riducono pericolosamente la disponibilità delle risorse”.82 Stabilire l’entità dell’utilità indivisibile è difficoltoso, e nella pratica si risolve nel giudizio politico dei governanti. Ad ogni modo il soggetto inquinatore dovrebbe pagare un tributo che corrisponda sia all’utilità specifica che egli ricava dall’uso della materia inquinante, sia al danno ambientale che determina. Ma l’entità del tributo non può essere fissata considerando unicamente i suddetti elementi, non solo perché è soggetta ad una difficoltosa valutazione, ma anche perché, essendo il tributo collegato con un atto di produzione o di consumo, occorre considerarne gli effetti economici. Ancor prima, essendo la materia imponibile oggetto di domanda, va tenuto presente il suo grado di elasticità. Questo è un limite rilevante all’obiettivo di costringere “gli agenti economici a confrontare il guadagno monetario derivato da ogni danno ambientale marginale da essi causato con i costi addizionali impliciti nella tassa da pagare ovvero con altri costi che tali agenti sostengono per evitare il pagamento della tassa”83. E’ stato pure obiettato che il legislatore incontra difficoltà di diverso tipo nell’acquisire le informazioni necessarie per valutare il danno ambientale. Innanzitutto è da rilevare come anche la scienza difficilmente è in grado di quantificare l’entità del danno derivante dall’inquinamento o dall’abuso di risorse naturali. Comunque, anche quando la scienza fornisce questa valutazione in termini fisici, resta la difficoltà di trasformare questo dato in una quantità espressa monetariamente.84 Si pensi a fenomeni giganteschi come le conseguenze dell’effetto serra, o fenomeni particolari come il peggioramento delle malattie respiratorie causato dall’inquinamento atmosferico urbano. Del resto la stessa scienza non può quantificare con esattezza le conseguenze future (quelle del clima relative all’effetto serra, così come quelle delle malattie asmatiche e bronchiali 82 Così Stefani, Finalità cit., p. 1499 I. Musu, Tassazione e sussidi nella politica ambientale, Università degli studi di Venezia, Nota di lavoro n. 91.05.1991 84 OCSE, Monetary evaluation of environmental policy benefits, Parigi, 1989 83 26 relative alle conseguenze dell’inquinamento urbano). Ciò detto resta vero che una politica ambientale strutturata necessita di un sistema di contabilità ambientale, come del resto propugnano l’ufficio statistico delle Nazioni Unite e l’Eurostat.85 Accontentandoci di soluzioni specifiche e approssimative, vanno accettate scelte basate sulla identificazione di standard quantitativi, come i livelli tollerabili di inquinamento e di degrado ambientale, oltre i quali scattano le misure proibitive o sanzionatorie; similmente per l’applicazione di tributi basati sull’inquinamento dell’aria e dell’acqua. Un’ulteriore obiezione riguarda il rapporto tra sviluppo sostenibile e protezione dell’ambiente. Coloro che manifestano obiezioni e diffidano del valore della politica ambientale vedono nella tassazione un fattore limitazionale. A questi poco interessa che tale politica investa nei capitali naturali dell’ambiente e della natura, in quanto non sono investimenti economici produttivi. Anche se effetti benefici per l’economia emergeranno eventualmente in futuro, nel frattempo l’internalizzazione delle diseconomie esterne da inquinamenti attuata attraverso la tassazione ambientale costituisce un aggravio della loro posizione concorrenziale. In effetti si è già detto che la politica ambientale comporta dei costi addizionali, ma è nel lungo periodo che l’ambiente come valore proprio dell’uomo si manifesta anche e soprattutto dal punto di vista economico. Infatti la salvaguardia dell’ambiente evita la dilapidazione di risorse limitate, offrendo contestualmente lavoro e quindi reddito disponibile. La riduzione degli inquinamenti e delle distruzioni di elementi della natura irriproducibili, diventa a lungo andare motivo di riequilibrio economico. Ma “occorre un adattamento delle modalità con cui si svolge lo sviluppo del 85 Anche l’Istat, con il sostegno della fondazione Eni, ha promosso studi in materia. Si veda: I. Musu-D. Siniscalco, Ambiente e contabilità nazionale. Dati ambientali e statistiche economiche: nuove proposte per la costruzione di un sistema informativo integrato, Bologna, 1993. Il sistema contabile proposto, raccordato con la contabilità nazionale, è strutturato su due componenti fondamentali: a) conto satellite dell’ambiente; b) conti del patrimonio naturale. Gli autori ammettono che, qualunque sia l’approccio, “si tratterebbe pur sempre di introdurre in un sistema contabile basato essenzialmente sull’utilizzo di dati osservati in maniera empirica (qual è il nucleo centrale della contabilità nazionale), un corpo non trascurabile di stime ipotetiche riguardante gli impatti dell’economia sull’ambiente”, p. 33 27 sistema economico; questo cambiamento implica alcune condizioni essenziali le quali riguardano sia l’aspetto del consumo sia l’aspetto della produzione e richiedono una modificazione dei prezzi relativi. Nella misura in cui le tasse sull’uso dell’ambiente favoriscono questa modificazione, esse sono nel lungo periodo uno strumento a favore, e non contro, la compatibilità tra sviluppo e ambiente”.86 Questo ragionamento sarà condiviso dalle persone che possiedono una cultura ambientalista e attribuiscono un forte valore alla natura.87 Ultimo profilo da analizzare riguarda la concorrenza internazionale. Con particolare riguardo ai Paesi dell’Unione Europea, l’esistenza di un mercato unico, e quindi la relativa facilità delle imprese di localizzarsi nello Stato membro che offre comparativamente il vantaggio maggiore riguardo al costo degli inquinamenti e alla loro tassazione, è inoppugnabile che in termini di guadagno economico i Paesi con tributi ambientali alti indeboliscono la posizione concorrenziale delle loro imprese.88 Ma è anche vero che è un requisito essenziale del mercato comune stimolare nel lungo periodo l’armonizzazione delle imposte che gravano sul prezzo dei beni e servizi. 86 I. Musu, Tassazione cit., p. 7 La cultura ambientalista è favorita dalla concezione etica della natura.Secondo il pensiero laico la natura esiste e viene potenziata dal progresso scientifico che tuttavia ha un limite nella possibilità di squilibri ed eccessivi sfruttamenti. Secondo la concezione biblica, la natura è creato. L’uomo sta al di sopra degli animali e della terra, ma ubbidisce a Dio. Nella concezione cristiana il vincolo maggiore posto allo sfruttamento della natura sta nell’imperativo della carità verso tutti, per cui il singolo non può abusare della natura a danno degli altri. I beni sono in uso e non in proprietà incondizionata. Concezione laica e concezione cristiana convergono ormai nell’affermare la responsabilità dei Paesi ricchi verso i Paesi poveri, causata principalmente dall’egoistico sfruttamento delle risorse della natura da parte della minoranza ricca, sfruttamento reso sempre più rilevante dal rapido progresso tecnico e dall’accumulazione del capitale. Lo spreco di risorse naturali e ambientali richiede un controllo etico del progresso scientifico, sul punto G. Quercini, I fondamenti teorici dell’ambientalismo: la cultura laica e cattolica a confronto, in Economia, società e istituzioni, 1999, pp. 47 e ss. 88 “Certamente un Paese può decidere di dare un elevato peso alla competitività con riferimento a merci che hanno una elevata intensità d’uso dell’ambiente. L’arbitraggio nella localizzazione delle imprese tra i vari Paesi implica una progressiva tendenza all’armonizzazione delle politiche ambientali nel lungo periodo attraverso un processo di competizione istituzionale che non peggiora necessariamente la qualità ambientale complessiva, in quanto le imprese che producono usando l’ambiente in modo relativamente più intenso si muoveranno verso i Paesi dove minore è la regolazione ambientale, aumentandovi la pressione sull’ambiente e inducendo anche questi Paesi ad intraprendere una politica ambientale più severa e probabilmente più costosa per i ritardi che deve superare”, così H. Siebert, Environmental policy in an integrated market, Kiel institute of world economics, 1989 87 28 Vale pertanto per la tassazione ambientale quello che in generale si dice circa la convenienza di giungere alla armonizzazione fiscale, argomento che verrà ampiamente esaminato nel prosieguo della tassazione. Una volta sciolte le perplessità riguardanti la tassazione ambientale è necessario esaminare quali sono i criteri e le condizioni per l’applicazione concreta. La pratica attuazione, su scala generale, di misure di questo tipo, incontra evidenti difficoltà di ordine amministrativo. Contributi o tariffe vengono di regola riscossi da parte di organismi pubblici o di imprese pubbliche operanti in regime di autorizzazione o di concessione, a fronte di servizi di raccolta e di trattamento di rifiuti: così nel caso dei rifiuti solidi e dei relativi servizi di raccolta, trasporto e incenerimento. Quando, tuttavia, lo scarico avviene direttamente nell’ambiente, la questione si pone in termini più complessi: in numerosi casi vi sono moltitudini di operatori che sono responsabili di attività inquinanti di piccola e piccolissima scala, e per questo motivo controlli e misurazioni, necessari all’applicazione di misure di tassazione, non sono realisticamente fattibili, o tuttalpiù, avrebbero costi proibitivi. In realtà, forse, la soluzione più appropriata risiede nel sottoporre a tassazione diretta attività inquinanti che si caratterizzano contestualmente per l’agevole individuabilità e misurabilità, l’elevata dannosità e il ridotto numero degli operatori coinvolti. Al di fuori di questi casi, tuttavia, tali attività possono essere soggette a tassazione indiretta (in via approssimativa) mediante il prelievo di tasse su fattori, processi e prodotti che nei due momenti della produzione o dell’utilizzazione danno luogo ad effetti di inquinamento. In questa prospettiva, problema centrale diviene allora quello dell’individuazione delle più fondamentali relazioni fra attività di produzione e di consumo da un lato, e di effetti di inquinamento dall’altro. Ulteriore problema, poi, è quello della identificazione, all’interno di queste relazioni, dei momenti e modi più appropriati di prelievo delle tasse ambientali in una logica di amministrazione tributaria. Il proposito di far posto, in un sistema tributario, a misure ispirate al principio 29 della tassazione ambientale, non può che caratterizzarsi, sul piano della proposta, per gradualità e sperimentazione, e dunque per parzialità di soluzioni. Non solo occorre tenere presenti i vincoli derivanti dall’adattamento in un’ottica di politica ambientale (in primo luogo la considerazione della fattibilità sul piano amministrativo) ma, in aggiunta a questo, occorre considerare che tali misure devono inserirsi in un sistema tributario già ampiamente sviluppato, e tra l’altro anche in modo pervasivo, nell’area della tassazione dei prodotti energetici, la quale è di fondamentale importanza dal punto di vista degli effetti ambientali della tassazione. 2.1 L’armonizzazione delle tasse ambientali e l’idea del mercato unico europeo Il tema dell’armonizzazione fiscale in ambito ambientale va assumendo un ruolo determinante per cui appare opportuno affrontarlo in maniera rigorosa. A tal fine è utile preliminarmente, soffermarsi sul significato del termine armonizzazione. Secondo una consolidata definizione, il concetto di armonizzazione riassume il procedimento attraverso il quale si rende possibile il perfezionamento degli ordinamenti giuridici, o più specificamente, delle disposizioni nazionali per la realizzazione di un fine comune.89 Tale procedura consente di identificare i punti di partenza comuni tra i vari gruppi di norme appartenenti a diversi ordinamenti giuridici, determinandone le interrelazioni esistenti.90 Ne deriva che armonizzare “non si traduce in una pedissequa unificazione di ogni norma legislativa regolante un’imposta o un sistema tributario, quanto piuttosto nell’eliminazione delle divergenze più gravi emergenti, tali da produrre effetti restrittivi delle libertà fondamentali e distorsivi della concorrenza tra gli Stati”91. In ambito comunitario, tuttavia, prevalgono delle divergenze interpretative. I sostenitori della teoria dell’armonizzazione coattiva, infatti, ritengono che “tale 89 C. Sacchetto, Armonizzazione fiscale nelle Comunità Europee, in Enc. giur., II, Roma, 1988 G. Terracciano-P. Palmarini, Lineamenti di finanza pubblica dell’Unione Europea, in Collana economia e finanze, n. 3, 2002, pp. 77 e ss. 91 O. Esposito De Falco, L’armonizzazione fiscale e le tasse ecologiche, in Riv. giur. amb., 2004, p. 644 90 30 procedimento si attui quando i vari Paesi, di comune intesa, avvalendosi dell’Autorità sovranazionale preposta, effettuano l’adeguamento di una 92 determinata norma tributaria, in conformità di un modello unico”. Al contrario, secondo i sostenitori dell’armonizzazione spontanea (o coordinamento), “l’utilizzo di imposte dirette determina effetti distorsivi marginali, in quanto a prevalere sono sempre le forze libere del mercato che, automaticamente, conducono ad una situazione di equilibrio senza necessità di intervento normativo comunitario”.93 Il trattato di Maastricht, finalizzato all’unificazione monetaria, si è limitato a coordinare le politiche di bilancio dei paesi membri fissando una serie di vincoli rigidi di tipo essenzialmente quantitativo, quali l’ammontare del debito pubblico, lasciando così ciascun paese libero nelle scelte di politica fiscale, per raggiungere gli obiettivi prefissati. Attualmente il coordinamento delle politiche di bilancio imposto dalla moneta unica mette in luce una contraddizione irrisolta, e cioè che il processo di armonizzazione si limita al buon funzionamento del Mercato Unico, sottovalutando le interconnessioni che caratterizzano le diverse imposte nei sistemi fiscali e che rendono di difficile attuazione l’armonizzazione fiscale di tipo settoriale.94 Inoltre, dal punto di vista giuridico-comunitario, ai fini dell’interpretazione del concetto di armonizzazione (fiscale e normativa), occorre distinguere ulteriormente tra i concetti di ravvicinamento e unificazione. Infatti, sebbene parte della dottrina95 ritenga che il termine armonizzazione rappresenti la specifica applicazione in campo fiscale della nozione più ampia di ravvicinamento, il Trattato CE e la legislazione comunitaria, per esprimere la stessa idea, utilizzano indistintamente i termini armonizzazione, ravvicinamento e unificazione delle legislazioni degli Stati membri. In realtà quest’ultima si realizza attraverso regolamenti, cioè atti legislativi 92 C. Cosciani, La politica di armonizzazione fiscale della CEE, in Quaderni Assonime, Roma, 1982 93 S. Cnossen, Qual è il grado di armonizzazione nella Comunità Europea?, in Esperienze straniere e prospettive per l’ordinamento tributario italiano, Padova, 1989, pp. 107 e ss. 94 R. Perrone Capano, Debolezza dell’Euro e crisi dello Stato fiscale, in Riv. dip. Scienze dello Stato, I, 2001, pp. 119 e ss. 95 Sul punto De La Fuente, Diccionario juridico de la Uniòn europea, Barcellona, 1994, pp. 55-57 31 comunitari obbligatori e direttamente applicabili che non lasciano alcun margine di discrezionalità al legislatore nazionale. Il ravvicinamento, invece, non presuppone l’unicità dei mezzi per ottenerlo, realizzandosi invece attraverso l’applicazione delle direttive, costituenti lo strumento principale per rendere affini le legislazioni fiscali.96 Si pone, pertanto, il problema della limitazione della sovranità fiscale, rivendicato dai singoli paesi membri ogni volta che il diritto comunitario ostacola la potestà tributaria nazionale.97 Và rilevato, però, che i modelli di stato fiscale sono stati messi in crisi dai processi di globalizzazione, il che impone, analogamente a quanto verificatosi in tema di armonizzazione delle politiche di bilancio, anche un ampio processo di armonizzazione delle politiche tributarie. Ciò è quanto si andrà ad approfondire da qui a breve. Verranno esaminati gli scopi e gli ambiti operativi dell’armonizzazione fiscale, non senza aver prima analizzato le interconnessioni tra questa ed alcuni principi di portata generale. Quanto sinora evidenziato induce a ritenere che, per i paesi appartenenti all’Unione Europea, non vi sia un’esplicita disposizione fiscale comunitaria in materia di imposte dirette. Ciò implicherebbe che ciascuno Stato membro eserciti, in modo autonomo, la propria capacità impositiva. La qual cosa è giustificata dalla considerazione che, attraverso tale forma di imposizione, gli Stati reperiscono i mezzi economici per fronteggiare i fabbisogni nazionali, e pertanto, non possono consentire alcuna compromissione della propria sovranità in materia. In ogni caso ciò non ha impedito l’emanazione di importanti norme comunitarie in materia di imposte dirette, fondate soprattutto sull’art. 90 del Trattato CE affermante il principio di non discriminazione. Tale principio, da considerare fondamentale per l’intera costruzione comunitaria, 96 Sul punto G. Tremonti, Completamento del mercato interno europeo e sistema fiscale italiano, in Riv. dir. fin., 1989, fasc. 3, p. 419 97 F. Amatucci, Responsabilità fiscale limitata delle società non residenti e libertà di stabilimento, in Riv. dir. trib. int., fasc. 2, 2001, pp. 157 e ss. 32 si risolve nel riconoscimento di una parità di trattamento concernente tutti i fattori della produzione (merci, persone, servizi e capitali) presenti all’interno della Comunità, e nel vietare agli Stati comunitari di porre in essere comportamenti discriminatori nei confronti degli altri Paesi membri.98 I concetti di armonizzazione fiscale e di non discriminazione si riflettono in maniera coerente anche in materia ambientale. Nell’esperienza comunitaria, infatti, sino ad ora è prevalsa l’applicazione della libera circolazione delle merci nella costruzione del Mercato Unico.99 Cosicché, in ciascun settore della protezione ambientale sono state adottate dalla Comunità misure legislative sulla base dell’art. 95 e dell’art 175 del Trattato. La gran parte di queste misure hanno avuto un effetto di armonizzazione, stabilendo norme relative ai prodotti o ai processi industriali. Tuttavia è opportuno fissare un punto di equilibrio tra la necessità di armonizzare le misure fiscali adottate dai singoli Stati per garantire la libera circolazione delle merci, ed il principio di sussidiarietà che consente ai Paesi membri di introdurre ulteriori restrizioni per proteggere l’ambiente. I vantaggi derivanti dall’armonizzazione comunitaria (quali la non discriminazione e le economie di scala), devono necessariamente essere raffrontati con quelli conseguibili dagli Stati membri lasciati liberi di applicare, a certe condizioni, gli strumenti fiscali, i quali spesso risultano più adeguati ad affrontare i problemi ambientali nazionali, e riflettono meglio le strutture specifiche dei costi. 98 F. Gallo, Mercato unico e fiscalità: aspetti giuridici del coordinamento fiscale, in Riv. dir. trib. int., 2/2000, p. 38 99 “Sino ad ora l’elaborazione delle proposte e dei provvedimenti per la realizzazione del mercato unico non ha tenuto conto della dimensione ambientale. Per questo, anche senza utilizzare considerazioni ecologiche e restando sul terreno economicistico delle discussioni correnti, rilevo che le attuali concezioni sul mercato unico sono limitate all’efficienza del mercato stesso. Esse sono pure incoerenti, dunque, con una corretta impostazione economica, la quale esige che si realizzi un’efficiente allocazione non soltanto delle risorse governate dai prezzi, ma anche, simultaneamente, delle vitali risorse ambientali, che non essendo razionate dal mercato necessitano il pubblico intervento. Non ha senso, infatti, migliorare l’allocazione delle risorse di mercato aumentando lo spreco di quelle ambientali. Sarebbe stato perciò normale attendersi dagli architetti dell’unificazione del mercato che la verità dei prezzi, da essi giustamente perseguita, venisse coerentemente realizzata, ad esempio, anche mediante un sistema integrato di tasse ambientali, per simulare il mercato laddove esso fallisce. Per ora non mi risulta che nulla sia stato proposto in questa direzione”, lettera del ministro dell’ambiente Giorgio Ruffolo al Presidente del consiglio dei ministri dell’ambiente della Cee del 26 maggio 1989, presente in E. Gerelli, Ascesa e declino del business ambientale, Bologna, 1990, p. 180 33 Se ne deduce che sebbene lo sforzo armonizzatore delle legislazioni interne abbia investito in modo concreto la fiscalità indiretta, non ha prodotto gli stessi risultati in materia di fiscalità diretta per le resistenze interne attuate dagli Stati membri che, in tal modo, hanno inteso difendere la propria sovranità in materia, giudicandola di tale interesse nazionale tale da collocarsi in una posizione prioritaria anche rispetto al diritto comunitario. Una delle maggiori resistenze si è verificata proprio in relazione alla necessità di fronteggiare in maniera efficace le c.d. diseconomie esterne. Dopo aver analizzato il rapporto tra l’armonizzazione fiscale e il principio di non discriminazione, vediamo quale è il ruolo delle tasse e delle imposte ambientali nel mercato unico europeo. Lo sviluppo economico derivante dalle attività industriali comporta, come sgradevole conseguenza, la crescita dell’inquinamento ambientale che, pertanto, deve essere affrontato con opportune politiche economiche atte a reperire corrispondenti ed adeguate fonti finanziarie. Negli ultimi anni, in particolare, i paesi industrializzati hanno inteso destinare una quota crescente del proprio reddito nazionale alla difesa dell’ambiente. Inoltre, i problemi posti dalle difficoltà di adattamento degli strumenti fiscali alle trasformazioni intervenute nella realtà contemporanea, quali anzitutto la globalizzazione dei mercati, hanno richiesto l’impiego di strumenti economici innovativi sotto il profilo fiscale e della spesa pubblica.100 Attualmente, sotto la spinta armonizzatrice comunitaria, si sono sempre più diffuse imposte ecologiche mirate, ossia focalizzate sui produttori e sulla loro diretta capacità inquinante, ad esempio attribuendo loro uno specifico danno ambientale, in tal modo valutato economicamente. Il gettito derivante dalle nuove imposte ecologiche potrebbe tra l’altro, essere utilizzato per un’incisiva ristrutturazione del sistema tributario teso alla riduzione degli oneri fiscali sui redditi di lavoro e sulle imprese, come proposto nel 1994 da Delors101. In effetti, è ormai diffusa in Italia la consapevolezza della naturale vigenza del 100 Sull’argomento C. Malinconico, Beni ambientali, in Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, vol. V, Padova, 1991 101 Delors, Occupazione, sviluppo sociale e crescita economica, Roma, 1994 34 principio chi inquina paga, il quale sempre più costituisce la linea guida delle politiche ambientali, analogamente a quanto avviene a livello comunitario. L’efficacia di tale principio si basa sull’implicita adozione di tasse e imposte ecologiche, che includendo i costi ambientali nel prezzo delle merci e dei servizi, ne consentono l’applicazione. A tal fine, per rendere più trasparenti i comportamenti da adottare, si è verificata una razionalizzazione delle tasse e imposte ambientali, schematicamente raggruppate in due categorie: a) tributi sulle emissioni: consistenti in prestazioni pecuniarie correlate all’inquinamento acustico, o emissioni nell’atmosfera, nell’acqua o nel suolo; b) tributi sui prodotti: applicabili alle materie prime, ai fattori produttivi incorporati (come i concimi, i pesticidi, le acque sotterranee) ed ai prodotti di consumo (come i pneumatici ed i sacchetti di plastica). Questa tipologia di tasse e imposte ambientali è sempre più utilizzata negli Stati membri dell’UE, assumendo un ruolo rilevante anche nella politica ambientale dei paesi dell’Europa centrale ed orientale candidati all’Unione Europea. I suddetti strumenti, tuttavia, interessano solo i prodotti interni e non hanno un’incidenza diretta sul funzionamento del Mercato Comune, in quanto non falsano la concorrenza e non creano distorsioni economiche. In proposito, la Commissione europea, con comunicazione del 26 maggio 1997, per la prima volta ha affrontato la delicata questione della tutela e della preservazione dell’integrità dell’ambiente attraverso l’utilizzo di imposte e tasse ambientali, individuando gli obblighi giuridici che devono essere affrontati nel Mercato Unico. Pertanto, sono stati forniti utili orientamenti per l’applicazione e la valutazione di tali strumenti fiscali, al fine di garantirne l’uso equilibrato ed efficace a livello nazionale, regionale e locale. Ovviamente, la valutazione dell’impatto di detti strumenti sulla politica ambientale, sul Mercato Unico e sulle regole di concorrenza sarà oggetto di verifica da parte della Commissione, tesa ad intervenire laddove appare necessario con soluzioni e proposte, a seguito delle difficoltà risultanti dall’obbligo, attualmente vigente, dell’unanimità per l’adozione di misure tributarie. 35 Tale sforzo di armonizzazione delle tasse e imposte ecologiche prevalenti nei Paesi membri, determina un problema di competenza comunitaria in materia di tutela ambientale. Come è noto, le politiche di tassazione ambientale hanno, per loro natura, una connotazione internazionale in quanto talune problematiche ambientali (effetto serra, inquinamento delle falde acquifere) non sono affrontabili in maniera esaustiva se non in una prospettiva di coordinamento internazionale. Ciò considerando, la politica di tutela ambientale è sempre stata affrontata attraverso convenzioni internazionali, sino a tradursi, con il Trattato di Maastricht del 1992, in uno dei principali obiettivi perseguiti dall’Unione Europea che infatti si è prefissa tra i compiti istituzionali, il conseguimento di uno sviluppo sostenibile, armonico ed equilibrato delle attività economiche.102 Sempre nel 1992, la Commissione europea ha presentato un ambizioso progetto di coordinamento delle politiche ambientali dei Paesi membri, facente perno sull’introduzione di un’imposta mista (da applicare sul fatturato iniziale) sui consumi delle differenti fonti energetiche e sulle emissioni di CO2 da parte dei grandi impianti termici. Per la corretta gestione dell’imposta ed in merito al suo impatto ambientale, fu prevista la costituzione a livello dell’UE di un comitato di vigilanza. Indubbiamente la proposta rappresentava un tentativo di ampia portata per la difesa dell’ambiente, in quanto volta a ridurre, in una vasta area quale è appunto il Mercato Comune, l’emissione nell’atmosfera di gas quali l’anidride carbonica, 102 Attualmente il Sesto Programma di azione per l’ambiente, nel confermare la validità del precedente programma, fissa gli obiettivi e le priorità ambientali che faranno parte integrante della strategia dell’Unione Europea per lo sviluppo sostenibile nell’arco dei prossimi dieci anni ed illustra in dettaglio le misure da intraprendere. Vengono così individuate sia le azioni e gli impegni da intraprendere a livello comunitario, sia le misure che spettano agli organismi nazionali, regionali e locali, nonché ai diversi settori economici. Il nuovo programma, teso ad armonizzare le legislazioni degli Stati membri per garantire il funzionamento del mercato interno, identifica quattro aspetti dell’ambiente ed i cinque indirizzi prioritari di azione strategica che potranno esser di ausilio nel perseguimento di tali obiettivi. In particolare: il primo mira a migliorare l’applicazione della normativa vigente; il secondo ad integrare le problematiche ambientali nelle decisioni prese in ambito di altre politiche; il terzo si concentra su una nuova e più stretta collaborazione con il mercato attraverso imprese e consumatori; il quarto mira a responsabilizzare il cittadino privato e ad aiutarlo a modificare il proprio comportamento; il quinto tende ad incoraggiare una migliore pianificazione e gestione del territorio. Sul punto, M. E. Abrami, Introduzione al Sesto Programma di azione per l’ambiente della Comunità Europea. Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta, 2002 36 ritenuto tra i maggiori responsabili dell’effetto serra.103 Purtroppo, in assenza di politiche correttive, l’inquinamento atmosferico è destinato ad aumentare in maniera esponenziale, con effetti catastrofici per il nostro pianeta.104 Per tali motivi appare indispensabile un coordinamento delle politiche energetiche ed ambientali degli Stati membri, benché i tempi non appaiano ancora maturi. Come è noto, infatti, la proposta di introdurre un’imposta sulle emissioni inquinanti non ha trovato applicazione per la diffusa ostilità manifestata sia dai Paesi produttori di petrolio, sia a livello comunitario, dove sono state esposte perplessità relativamente alle conseguenze negative che un’ulteriore tassa avrebbe potuto determinare sull’apparato produttivo europeo e sulla competitività dei prodotti e servizi in un contesto economico internazionale.105 Attualmente è stato disciplinato un sistema fiscale comunitario soltanto per gli oli minerali e le relative accise106, ma la Commissione è impegnata a sostenere una nuova direttiva disciplinante le imposte degli Stati membri riguardanti i prodotti energetici e, segnatamente: il gas naturale, l’energia elettrica, il carbon fossile, la lignite, il bitume e i combustibili. A differenza della vecchia proposta di direttiva, relativa all’introduzione di un’imposta sul CO2 basata sul fatturato iniziale, questa misura sarà applicata al fatturato finale. La tassazione del fatturato finale consente, in tal modo, l’uniformità dell’imposizione indiretta mediante l’applicazione dell’imposta nel 103 S. Smith-H. Vollerbergh, The european carbon exicise proposal: a green tax takes shape, in E.C. tax review, n. 4, 1993, p. 207 104 Si consideri, ad esempio, che in Paesi in via di sviluppo quali la Cina, contrari a qualsiasi accordo di riduzione perché timorosi che ciò si trasformi in un sistema per subordinare gli aiuti economici in impegni ecologici, si prevede che producano, nel 2035, un quantitativo di gas serra pari al totale delle emissioni attuali. Ciò senza considerare il livello raggiungibile dai Paesi industrializzati, responsabili del 70% delle emissioni di gas serra. 105 La proposta è illustrata nella Comunicazione della Commissione al Consiglio del 14 ottobre 1991, Eurotasse ecologiche: una strategia comunitaria per limitare le emissioni di anidride carbonica e migliorare l’efficienza energetica, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1992, I, p. 119. Secondo la citata comunicazione, l’obiettivo principale della carbon tax è quello di contribuire ad “un nuovo orientamento dell’approvvigionamento energetico per ridurre le emissioni di CO2 nel senso di un maggiore contributo del gas naturale a detrimento del carbone ed eventualmente del petrolio”. 106 “La proposta attualmente in discussione sull’armonizzazione fiscale, per quanto concerne le accise sugli oli minerali, determinerebbe in molti Paesi una notevole riduzione del prezzo di questi prodotti, con importanti effetti negativi sulle emissioni inquinanti. Si tratta di un caso di scuola in cui la dimensione ambientale deve essere integrata nella fase di concezione del provvedimento, in quella di mercato”, lettera del ministro dell’ambiente Giorgio Ruffolo, presente in E. Gerelli, Ascesa cit., pp. 180-181 37 Paese di consumo. Gli Stati membri sono sottoposti ad alcune condizioni vincolanti, quali l’oggetto dell’imposizione e le aliquote minime, e si prevedono deroghe per determinati prodotti energetici, quali il carburante per i trasporti aerei e navali. 3 Il principio comunitario “chi inquina paga” e i suoi riflessi in materia fiscale Nella sua stesura originaria il Trattato istitutivo della Comunità economica europea si proponeva prevalentemente obiettivi economici consistenti nella tutela della concorrenza e del mercato. Per questo motivo l’intero sistema normativo che ne è derivato doveva essere interpretato alla luce di queste finalità e le stesse norme di carattere fiscale non costituivano il fine ma lo strumento in base al quale l’azione comunitaria poteva raggiungere tali obiettivi.107 Tuttavia, già nei trattati istitutivi della C.E.C.A., della C.E.E.A e della C.E.E. erano presenti gli elementi idonei a legittimare una politica ecologica comunitaria.108 Su tali basi, tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, al fine di orientare la politica industriale al miglioramento nella qualità delle condizioni di vita e di attribuire i costi della depurazione a chi pone in essere le attività inquinanti, è stato avviato anche in Europa il processo che ha portato all’affermazione dell’azione comunitaria in campo ambientale, dal quale è scaturita la codificazione all’interno del Trattato di Roma del principio chi inquina paga.109 Anche la disciplina introdotta dall’Atto Unico Europeo 110 in materia di tutela 107 In questo senso Sacchetto C., Politiche comunitarie – VII) Politica fiscale, in Enc. giur., vol. XXIII, Roma, 1990 108 Sul punto Cordini G., Ambiente (tutela dell’) nel diritto delle comunità europee, in Digesto disc. pubbl., vol. I, Torino, 1987, pp. 193 e ss. dove si osserva che “dimensione transnazionale, evoluzione temporale ed effetti economici, anche indiretti, giustificano ampiamente l’azione globale della tutela dell’ambiente, avviata dalla Comunità europea sulla base dei principi e delle disposizioni del Trattato”. 109 Si veda Jazzetti A., Politiche comunitarie a tutela dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 1995, pp. 33 e ss. dove si rileva che: “se lento e tortuoso è stato il processo di adeguamento del diritto nazionale al diritto comunitario, altrettanto difficoltoso è stato l’affermarsi della stessa azione CEE in campo ambientale”. 110 L’Atto Unico Europeo, aperto alla firma a Lussemburgo il 17 dicembre 1986 e all’Aja il 28 febbraio 1986, fu ratificato dall’Italia con legge 23 dicembre 1986 n. 909. Con tale provvedimento fu introdotto un nuovo Titolo denominato “Ambiente”, composto dagli articoli 130R, 130S, 130T. Per ulteriori approfondimenti sul tema si rinvia a Selicato P., Le politiche ambientali della 38 dell’ambiente restava subordinata all’obiettivo economico primario della Comunità europea, individuato dal Trattato nella promozione di “uno sviluppo armonioso delle attività economiche, un’espansione equilibrata, una stabilità accresciuta, un sempre più rapido miglioramento del tenore di vita”.111 Nell’originaria stesura del Trattato di Roma il problema ambientale veniva filtrato dalla valutazione dei caratteri, ritenuti prevalenti, della tutela dello sviluppo economico, del mercato e della concorrenza, ed era ben lontano dall’assumere quei contorni di rilevante interesse sociale che esso attualmente riveste negli ordinamenti interni dei singoli Stati membri.112 E’ soltanto con gli Accordi di Maastricht che gli obiettivi di crescita economica sono stati subordinati al mantenimento di un adeguato equilibrio ambientale.113 Infatti, con la riformulazione degli artt. 2 e 3 è stata impressa alle norme del trattato di Roma poste a tutela dell’ambiente una valenza pari a quella propria delle norme preordinate alla attivazione delle altre politiche comunitarie, dando rilievo giuridico al carattere sostenibile dello sviluppo economico attraverso il perseguimento di “un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento di quest’ultimo”. Inoltre, con le modifiche apportate all’art. 174, ai principi della prevenzione e della correzione è stato affiancato quello della precauzione114 che ha portato gli Comunità Europea, in Picciaredda-Selicato, I tributi cit., pp. 58 e ss. il quale sostiene che “con l’Atto Unico Europeo si pose mano ad una articolata revisione del Trattato di Roma con l’intento di perseguire in modo completo ed immediato una autonoma politica comunitaria in materia ambientale che fosse cosciente dell’esigenza di attuare una protezione ecologica di carattere globale e transnazionale in un contesto altamente armonizzato sotto i profili economico e giuridico. 111 Questo era il testo originario dell’art. 2 del Trattato di Roma 112 Per più ampi riferimenti alle origini ed all’evoluzione delle norme comunitarie concernenti l’ambiente si veda Castaldi G., Ambiente (tutela dell’) – II) Diritto della Comunità Europea, in Enc. giur., vol. II, Roma, agg. 2001 113 Ritiene in proposito Tizzano A., Appunti sul trattato di Maastricht: struttura e natura dell’Unione Europea, in Foro it., IV, 1995, pp. 210 e ss., che a seguito di tale accordo l’Unione Europea ha arricchito le proprie competenze “in settori che ampiamente oltrepassano quell’orizzonte mercantilistico in cui specie la CEE era stata spesso accusata di rinchiudersi”. 114 Cosa si debba intendere per principio della precauzione risulta chiarito nella Dichiarazione di Rio: “quando vi è la minaccia di un danno serio e irreversibile, la mancanza di una piena certezza scientifica non deve essere utilizzata come motivo per rinviare l’adozione di misure i cui risultati sono proporzionati ai costi al fine di prevenire la degradazione dell’ambiente”. Come è stato osservato, si tratta di un criterio guida alle scelte politiche sui fenomeni (quali, ad esempio, i cambiamenti climatici) sui cui effetti sull’ambiente non vi è ancora concordia di vedute nella comunità scientifica, qualora l’attendere tale unità di vedute può comportare la perdita di tempo prezioso per prevenire gli effetti temuti dei fenomeni stessi sull’ambiente. Sul punto Jazzetti A., Politiche cit., pp. 41 e ss. 39 Stati membri ad impegnarsi a ridurre le emissioni inquinanti alla fonte, a prescindere dall’accertamento della sussistenza di un effetto ambientale negativo, e cioè anche in assenza di prove sufficienti a dimostrare l’esistenza di un nesso causale tra le emissioni e gli effetti negativi.115 Lo scenario che scaturisce dalla nuova Costituzione europea sottoscritta a Roma il 28 ottobre 2004, pur non apportando alcun mutamento diretto alla disciplina del principio chi inquina paga116 , porta ad intravedere un ulteriore rafforzamento della posizione della tutela dell’ambiente all’interno del quadro giuridico europeo, in quanto l’obiettivo della crescita economica rimane subordinato alla sua sostenibilità, ma viene esplicitamente affiancato a quelli della piena occupazione, del progresso sociale e di “un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”117. Di grande interesse appare, poi, l’inserimento dell’ambiente nei settori della competenza concorrente tra l’Unione e gli Stati membri, in conseguenza del quale si legittima esplicitamente, e non più sulla base di una valutazione effettuata di volta in volta alla stregua del principio di sussidiarietà, una supremazia dell’Unione nella elaborazione di norme di legge in questa materia.118 A ciò si aggiunga che l’ambiente viene espressamente menzionato nella Parte II del trattato di Costituzione europea (dedicato ai “Diritti fondamentali dell’Unione”) che, come affermato nel suo preambolo, contiene “i valori comuni che i popoli dell’Europa, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere in futuro di pace”.119 115 Per una conferma di un simile ordine di argomentazioni si veda De Cesaris A. L., Le politiche comunitarie in materia di ambiente, in Diritto ambientale comunitario, a cura di S. Cassese, Milano, 1995, pp. 29 e ss. 116 Nella Parte III, dedicata alle politiche e al funzionamento dell’Unione, si disciplina alla sezione 5 del Capitolo III, dedicato alle politiche in settori specifici, la politica in materia di ambiente, riproducendo all’art. III – 124 il contenuto dell’art. 174 del Trattato di Roma. La sezione 10 dello stesso Capo, che consta del solo art. III – 152, introduce, inoltre, una nuova disciplina in materia di energia, subordinandola comunque all’esigenza di “preservare e migliorare l’ambiente attraverso il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili”. 117 Art. I – 3, par. 3, del Trattato di Costituzione europea. 118 Stabilisce, infatti, l’art. 11, par. 2, del trattato di Costituzione europea, compreso nel Titolo III della Parte I, che quando la stessa Costituzione europea attribuisce all’Unione una competenza concorrente con quella degli Stati membri, questi “esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria o ha deciso di cessare ad esercitarla”. 119 In particolare, l’art. II – 37, compreso nel Titolo IV (Solidarietà) della detta Parte II, impone che “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere 40 Infine nel Titolo V, tra le politiche comuni nei confronti degli Stati terzi, è annoverato anche il fine di “contribuire alla messa a punto di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali globali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile” (art. III – 188, lettera f). Alla luce di queste premesse, il potere sovrano degli Stati membri in materia di fiscalità, in origine subordinato alle sole finalità di promozione dello sviluppo economico della Comunità ma pur sempre libero di svilupparsi nel rispetto dei soli limiti imposti dalle disposizioni fiscali del Trattato, deve oggi garantire anche il rispetto delle norme comunitarie in materia di protezione dell’ambiente. Dopo aver puntualizzato il ruolo della protezione dell’ambiente nel diritto comunitario, andiamo ad esaminare quali sono le origini e la portata del principio “chi inquina paga” all’interno dello stesso. L’art. 174, paragrafo 2, del trattato di Roma nel testo attualmente vigente stabilisce che la politica della Comunità in materia ambientale “è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio chi inquina paga”. Tale principio appare per la prima volta nella Raccomandazione OCSE C(72) 128 del 26 maggio 1972, secondo la quale all’inquinatore devono imputarsi i costi della prevenzione e delle azioni contro l’inquinamento, così come definito dall’Autorità pubblica, al fine di mantenere l’ambiente in uno “stato accettabile”; ma già nella legge francese 16 dicembre 1964 n. 1245 sulla istituzione delle agences financières de bassin veniva espressa compiutamente la formula “chi inquina paghi e chi depura viene aiutato”.120 Nel corso del tempo il principio è stato analizzato utilizzando due chiavi di lettura121: da un lato, avvalendosi di argomentazioni di tipo giuridico – civilistico, integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”. 120 Cfr. Greco N., Nascita, evoluzione ed attuale valore del principio “chi inquina paga”, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1991, fasc. 92-93, pp. 23 e ss. 121 Per una disamina delle contrapposte teorie sia consentito rinviare a Palombino F., Il significato del principio “chi inquina paga” nel diritto internazionale, in Riv. giur. amb., 2003, pp. 871 e ss. il quale ritiene che il principio “chi inquina paga” ha assunto nell’ordinamento internazionale una natura polisensa, in quanto da un lato è stato “concepito alla stregua di un principio di politica 41 è stato posto l’accento sul carattere risarcitorio dei prelievi ad esso ispirati; da un altro punto di vista, utilizzando strumenti esegetici di ispirazione pigouviana, sono stati evidenziati i contorni economici del principio, sottolineando la funzione di internalizzare le diseconomie esterne cui assolvono i prelievi ad esso ispirati. In nessuna di tali letture, tuttavia, vengono evidenziati i riflessi che il principio chi inquina paga può avere sul piano fiscale. In effetti nessuna delle due tesi sostenute nel passato (giuridico – civilistiche da un lato, economiche dall’altro) sembra idonea a rappresentare in modo adeguato l’effettiva portata del principio chi inquina paga, poiché entrambe omettono di evidenziare il valore di un elemento che si ricava dalla definizione fornita dalla norma, e cioè la natura coattiva del dovere dell’inquinatore di contribuire alle spese di protezione ambientale122, che l’art. 174 delinea chiaramente attraverso la formula imperativa utilizzata per disciplinare il principio.123 In verità il principio in esame, per la notevole genericità delle norme su cui si fonda, è parso idoneo a coprire una serie alquanto ampia di interventi economici a tutela dell’ambiente e tra questi deve essere ricompreso senza dubbio anche l’intervento fiscale.124 Tale conclusione trova esplicita conferma nei recenti orientamenti della Commissione europea, che ha evidenziato come le imposte ambientali, includendo i costi per la rimozione degli effetti inquinanti nei prezzi delle merci e dei servizi, permettono di realizzare il principio chi inquina paga attraverso la funzione disincentivante da queste esercitata.125 ecologica preventiva in base al quale gli Stati scaricano il costo sociale dell’inquinamento sui gestori delle attività inquinanti”. Dall’altro lato, invece, ad avviso dell’Autore il principio medesimo “ha condotto all’attribuzione ai privati di un vero e proprio diritto ad un equo risarcimento per danni subiti in seguito ad episodi di inquinamento ambientale”. 122 La coattività è considerata requisito essenziale di ogni prestazione patrimoniale imposta e, segnatamente, di ogni tributo. Sul punto A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, pp. 26 e ss. 123 In tal senso P. Herrera Molina, El principio “quien contamina paga” desde la perspectiva juridica, in CISS – Notitias de la Union Europea, n. 122, marzo 1995, p. 81, osserva che il principio, costituente alle sue origini un criterio di efficienza economica, deve essere considerato come una manifestazione del principio di solidarietà, constatando come quest’ultimo costituisce a sua volta il fondamento giuridico del dovere di contribuire alle spese pubbliche, comprese quelle necessarie a sostenere i costi della protezione ambientale. 124 Secondo Jazzetti A., Politiche cit., p. 45, nonostante l’abbondanza dei riferimenti normativi che contengono richiami a tale principio, esso “rimane, quantomeno a livello comunitario, non ben precisato nei suoi contenuti”. 125 Tale affermazione è contenuta in COMMISSIONE EUROPEA, Tasse ed imposte ambientali nel mercato unico, COM(97) 9 Def. Del 26 marzo 1997. 42 Anche in dottrina si registra un diffuso consenso sull’attribuzione al principio in esame di un significato più ampio di quello di mero nesso di causalità tra fattispecie (inquinamento) ed effetto (risarcimento) che la definizione lascerebbe intendere a prima vista, ritenendosi per contro che, secondo la concezione comunitaria, esso rappresenti il criterio generale di imputazione dei costi della protezione dell’ambiente.126 Lo stesso diritto comunitario derivato conferma chiaramente tali orientamenti nella recente direttiva sulla responsabilità per danno ambientale127 la quale è stata apertamente ispirata al principio in esame128 per la realizzazione di politiche ambientali disincentivanti.129 La direttiva, pur essendo stata ricondotta nelle sue prime interpretazioni a mere esigenze risarcitorie (probabilmente perché si è dato un eccessivo rilievo all’elemento testuale del titolo del provvedimento), tende in realtà a realizzare il principio in esame con modalità alquanto diverse, e comunque di portata molto più ampia di quella del solo risarcimento del danno.130 In primo luogo essa prevede in modo esplicito la responsabilità dell’operatore non solo quando la sua attività abbia già causato un danno all’ambiente, ma anche quando abbia prodotto una semplice minaccia di questo (art. 5). Così disponendo, la direttiva amplia in modo considerevole il suo ambito di intervento, legittimando l’addebito all’operatore delle attività e dei costi necessari non solo al ripristino dello stato di salubrità dell’ambiente, ma anche alla prevenzione dell’eventuale danno ambientale, in piena sintonia non soltanto con il principio chi inquina paga, ma anche con i principi della precauzione e dell’azione preventiva, nonché della correzione in via prioritaria alla fonte, tutti 126 In questo senso E. Ferri, Il principio “chi inquina paga” e la prevenzione dei danni ambientali, in AA.VV., Chi inquina paga, Atti del Convegno nazionale di Gubbio cit., p. 32 127 La n. 2004/35/CE del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, in G.U.C.E. n. L 143/56 del 30 aprile 2004 128 Al secondo considerando della direttiva si afferma espressamente che “la prevenzione e la riparazione del danno ambientale dovrebbero essere attuate applicando il principio chi inquina paga, quale stabilito nel Trattato e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile” 129 Sempre al secondo considerando si afferma che “il principio fondamentale della presente direttiva dovrebbe essere quindi che l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare politiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale”. 130 Cfr. P. Selicato, La tassazione ambientale: nuovi indici di ricchezza, razionalità del prelievo e principi dell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. trib. int., n. 2-3, 2004, pp. 257 e ss. 43 disciplinati unitamente ad esso dall’art. 174, paragrafo 2.131 Inoltre, la responsabilità dell’operatore è subordinata alla sola condizione che il danno (o la sua “imminente minaccia”) sia provocato da una delle attività elencate in un apposito allegato contenuto nell’art. 3, a prescindere dalla presenza di un comportamento doloso o colposo di questi, che rileva soltanto per i danni alle specie e agli habitat naturali protetti, causati da attività professionali diverse da quelle espressamente elencate. La direttiva, per giunta, prevede che gli Stati membri hanno la facoltà di escludere la responsabilità dell’operatore per i costi delle azioni di riparazione soltanto qualora costui “dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo” e limitatamente ai casi in cui l’immissione sia stata effettuata in base ad “un’autorizzazione conferita o concessa ai sensi delle vigenti disposizioni legislative e regolamentari nazionali” o si sia prodotta per ragioni che l’operatore “dimostri non essere state considerate probabile causa di danno ambientale secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell’emissione o dell’esecuzione dell’attività”. Da ciò discende che l’operatore resta soggetto ad una responsabilità di carattere sostanzialmente oggettivo, in quanto almeno per le attività professionali menzionate nell’apposito allegato, essa viene subordinata al solo nesso di causalità tra l’attività esercitata ed il pregiudizio sofferto dall’ambiente, restando totalmente indipendente dall’esistenza di un comportamento doloso o colposo dello stesso operatore (fatte salve le sopraindicate limitate eccezioni rimesse alla discrezionalità degli Stati membri). Per effetto di questa previsione, la figura del danno ambientale sembra discostarsi non poco dal modello dell’illecito aquiliano disciplinato dall’art. 2043 del nostro codice civile, al quale la dottrina prevalente riconduce, anche se con qualche esitazione, la responsabilità disciplinata dall’art. 18 della legge 8 luglio 1986 n. 349 (istitutiva del Ministero dell’ambiente) che attribuisce allo Stato e agli enti 131 Secondo D. de Strobel, La direttiva 2004/35/Cee del Parlamento europeo e del Consiglio del 21/04/2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale e la relativa problematica assicurativa, in Diritto ed economia dell’assicurazione, 2004, fasc. 3, pp. 661 e ss., il fatto che la norma prospetti una responsabilità finanziaria induce a pensare che la stessa, sicuramente estranea al campo degli effetti sanzionatori, è sì concentrata nel puro campo degli obblighi sanzionatori, ma si orienta in modo specifico a realizzare la funzione preventiva di “scoraggiare eventuali comportamenti illeciti futuri”. 44 territoriali il diritto – dovere di agire in giudizio per il risarcimento del danno causato all’ambiente132 ed a concludere accordi transattivi per la definizione dei relativi risarcimenti.133 La direttiva sul danno ambientale non richiede all’operatore di rispondere del danno soltanto con una riparazione di carattere puramente monetario134 ma impone a suo carico interventi diretti la cui natura è rimessa ad una “appropriata discrezionalità amministrativa” delle autorità competenti di ciascuno Stato membro.135 Inoltre, essa ha accolto un orientamento di tipo pubblicistico a fronte del quale, fermo restando l’obbligo degli operatori di informare l’autorità competente e di prendere le misure appropriate al fine di prevenire i danni all’ambiente o di eliminare le conseguenze nocive dei danni provocati, viene prevista la facoltà degli Stati membri di adottare essi stessi “le misure di riparazione necessarie”. Per questi motivi, la direttiva stabilisce un criterio preferenziale per il ripristino piuttosto che per la liquidazione monetaria.136 La responsabilità prevista dalla direttiva ha contenuti molto diversi rispetto a quella disciplinata dall’art. 2043 c. c., poiché per sua esplicita previsione essa non copre i casi di lesioni personali, i danni alla proprietà privata e le perdite economiche limitandosi unicamente, al pari dell’art. 18 della legge n. 349/1986, a sancire l’obbligo di riparare il danno di carattere prettamente ambientale, con esclusione del risarcimento dei danni subiti a livello individuale, per i quali 132 Per una disamina delle diverse posizioni elaborate dalla dottrina sulla portata del citato precetto legislativo vedi M. D. Feola, L’art. 18 l. 349/1986 sulla responsabilità civile per il danno all’ambiente: dalle ricostruzioni della dottrina alle applicazioni giurisprudenziali, in Quadrimestre, 1992, pp. 541 e ss. 133 In giurisprudenza, per la riconducibilità della responsabilità per danno ambientale di cui all’art. 18 della legge 349/1986 al sistema dell’illecito aquiliano e, su queste basi, alla legittimazione degli Enti aventi diritto a transigere l’ammontare del risarcimento, si veda Consiglio di Stato, parere 18 maggio 2001 n. 426/01, nonché Corte dei Conti, delibera 15 gennaio 2003 n. 1/2003/P, entrambi in Foro it., 2003, III, pp. 633 e ss., con commenti di M. P. Giracca, Brevi note in materia di contratto di transazione e azione di danno ambientale. 134 La cui piena natura risarcitoria, peraltro, appare sfumata dal richiamo operato dal terzo considerando alla misura “ragionevole” dei costi della prevenzione e della riparazione del danno ambientale. 135 Così il ventiquattresimo considerando 136 Sul punto F. Giampietro, La direttiva 2004/35/CE sul danno ambientale e l’esperienza italiana, in Ambiente – Consulenza e pratica dell’impresa, n. 9, 2004, pp. 805 e ss., il quale ritrova nella direttiva gli elementi di “un orientamento di tipo pubblicistico”, molto vicino a quello della vigente legislazione italiana, che, peraltro, a parere dello stesso Autore, resta più restrittiva per molti profili. 45 restano in vigore le norme generali in materia di responsabilità aquiliana.137 Gli obblighi imposti dalla direttiva agli operatori138 responsabili delle azioni inquinanti consistono dunque nell’attribuzione a carico dei medesimi dell’onere di realizzare direttamente tutte le misure di prevenzione139, riparazione140 e ripristino141, ponendo in essere una serie di comportamenti attivi; inoltre, hanno anche l’obbligo di collaborare con l’autorità competente del proprio Stato membro ad una costante opera di monitoraggio delle condizioni dell’ambiente contaminato dalle proprie condotte inquinanti, anche mediante strumenti del tipo di quelli comunemente definiti di command and control. Soltanto subordinatamente alla mancata ottemperanza agli obblighi di intervento diretto previsti dalla direttiva, gli operatori possono essere chiamati a rimborsare all’autorità nazionale competente i costi da questa sostenuti per le azioni di prevenzione o di riparazione adottate direttamente. La diretta conferma della diversa natura della responsabilità ambientale rispetto alla responsabilità civile è espressamente affermata nel tredicesimo considerando della direttiva del 2004, nel quale viene affermato che la responsabilità civile “non è uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi ad atti od omissioni di taluni singoli soggetti”. Con ciò, evidentemente, si vuole circoscrivere l’ambito di applicazione della direttiva a quello che nelle legislazione italiana è solitamente definito danno 137 Per queste osservazioni si veda ancora D. de Strobel, La direttiva 2004/35/Cee cit., p. 667 L’art. 1, paragrafo 6, della direttiva include in questa categoria “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un’attività professionale oppure, quando la legislazione nazionale lo prevede, a cui è stato delegato un potere economico decisivo sul funzionamento tecnico di tale attività, compresi il titolare del permesso o dell’autorizzazione a svolgere la detta attività o la persona che registra o notifica l’attività medesima”, circoscrivendo così l’ambito soggettivo ai soli esercenti attività produttive, in quanto titolari del potere di orientarne lo svolgimento in modo da evitare le immissioni nocive. 139 All’art. 2, paragrafo 10, la direttiva definisce misure di prevenzione “le misure prese per reagire a un evento, ad un atto o a un’omissione che ha creato una minaccia imminente di danno ambientale, al fine di impedire o minimizzare tale danno”. 140 Per l’art. 2, paragrafo 11, della direttiva sono misure di riparazione “qualsiasi azione o combinazione di azioni, tra cui misure di attenuazione o provvisorie dirette a riparare, risanare o sostituire risorse naturali e/o servizi naturali danneggiati, oppure a fornire un’alternativa equivalente a tali risorse o servizi, come previsti nell’allegato II”. 141 L’art. 2, paragrafo 15, definisce il ripristino “nel caso dell’acqua, delle specie e degli habitat naturali protetti, il ritorno delle risorse naturali e/o dei servizi danneggiati alle condizioni originarie e, nel caso di danni al terreno, l’eliminazione di qualsiasi rischio significativo di causare effetti nocivi per la salute umana”. 138 46 pubblico ambientale, lasciando alla legge nazionale il compito di disciplinare il risarcimento del danno subito individualmente.142 Anche attraverso questa sua recente applicazione, il principio comunitario chi inquina paga si conferma “lo strumento per imputare in maniera equa i costi esterni dell’inquinamento”, sottraendosi al modello risarcitorio tradizionale.143 Esaminati alcuni aspetti essenziali della tutela dell’ambiente nell’ambito del diritto comunitario, possiamo ora valutare il rapporto che intercorre tra il principio chi inquina paga e l’imposta ambientale. Dal tenore letterale dell’art. 174, paragrafo 2, del Trattato può desumersi che le misure rispondenti ad esigenze di protezione dell’ambiente possono essere ispirate a diversi principi concorrenti tra loro, i quali non escludono la leva fiscale. Attribuendo un valore disgiuntivo all’avverbio “nonché” che precede il riferimento al principio chi inquina paga, pare che quest’ultimo vada applicato separatamente dai tre principi (della precauzione, della prevenzione e della correzione) indicati nella prima parte della norma,144 in modo da offrire agli Stati membri l’opportunità di utilizzare nelle loro politiche ambientali strumenti di diversa natura da accordare in relazione alle peculiarità della loro situazione interna e nel rispetto dei principi comunitari di sussidiarietà e proporzionalità sanciti dall’art. 5 del Trattato. In questo ambito, pertanto, “è corretto sostenere che l’art. 174, paragrafo 2, del Trattato autorizza anche l’impiego di prelievi fiscali a carattere ambientale”.145 142 Ad avviso di D. de Strobel, La direttiva 2004/35/Cee cit., p. 674, non è chiaro “se il sistema della direttiva vuole essere o meno una vera soluzione alternativa a quello della responsabilità civile o se si tratti in ultima analisi della medesima disciplina che per evitare gli inconvenienti denunciati ponga in atto dei provvedimenti di rafforzamento, mediante l’intervento riparatorio eseguito in proprio da organi pubblici con facoltà di rivalsa”. 143 L’idea che il principio in esame abbia legittimato nel diritto comunitario l’imputazione dei costi dell’inquinamento sulla base di un criterio di natura economica viene prospettata da F. M. Palombino, Il significato cit., p. 877 144 Un evidente esempio del rapporto tra i principi di precauzione, prevenzione e correzione, e principio chi inquina paga è costituito dalla direttiva 2003/87/CE del 13 ottobre 2003, che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissione dei gas a effetto serra nella Comunità, nella quale (24° considerando) lo strumento della tassazione ambientale viene considerato un’integrazione del sistema di limiti introdotto dalla direttiva. Secondo G. Tarantini, Il principio “chi inquina paga” tra fonti comunitarie e competenze regionali, in Riv. giur. amb., n. 4, 1990, p. 733, “la previsione lo configura come principio aperto, che ben può essere collegato, a seconda delle esigenze e delle peculiarità dei singoli ordinamenti, alla disciplina della responsabilità civile”. 145 P. Selicato, Imposizione fiscale e principio “chi inquina paga”, in Rass. trib., n. 4, 2005, p. 1165 47 L’attribuzione di contorni tributari al principio in esame sembra agevolata dalla lettura congiunta dei diversi elementi del citato art. 174, paragrafo 2, e in particolare del suo secondo periodo, dove l’azione della Comunità in materia di ambiente viene fondata sui principi “della precauzione, dell’azione preventiva e della correzione in via prioritaria alla fonte, nonché del principio chi inquina paga”. In effetti la congiunzione “nonché” presente nella norma citata, sembra collegare, più che separare, le due parti della disposizione, fino al punto di dare l’idea di voler porre la seconda (relativa al principio chi inquina paga) in posizione strumentale rispetto alla prima. In altri termini, chi esercita attività o assume comportamenti contrari al mantenimento di un adeguato standard ambientale è tenuto non solo a sostenere i costi della rimozione (o della riduzione ad un livello accettabile) degli effetti dell’inquinamento prodotto, ma anche a porre in essere le azioni di precauzione e di correzione alla fonte. Sotto questo profilo, pertanto, il principio in questione non costituisce un’autorizzazione ad inquinare verso un corrispettivo, né ha il carattere di una sanzione, ma rappresenta un criterio preventivo di efficienza distributiva codificato nell’ordinamento comunitario. All’interno di questo quadro giuridico il principio chi inquina paga è stato ritenuto la fonte di legittimazione, da un lato, di appositi tributi aventi come obiettivo la tutela dell’ambiente, e dall’altro, della previsione di particolari agevolazioni fiscali per finalità ambientali.146 146 Così P. Herrera Molina, El principio “quien contamina paga” cit., pp. 83 e ss. 48 Capitolo II La tassazione ambientale tra definizione del presupposto e profili di legittimità costituzionale Sommario: 1. La nozione di tributo ambientale: gli stimoli dell’OCSE e dell’Unione Europea; 1.1 Tentativo di ricostruzione di un concetto di tributo ambientale in ragione dello scopo: i tributi con funzione ambientale; 1.2 Il rilievo del presupposto ai fini della identificazione del tributo ambientale: dall’imposta ambientale sui consumi all’imposta ambientale di fabbricazione; 2 Il rapporto tra tributi ambientali e capacità contributiva; 3 L’introduzione di tributi ambientali e la progressività del sistema fiscale; 4 L’imposta ambientale quale nuova espressione del dovere di solidarietà economica; 5 Sul riparto delle competenze in tema di ambiente dopo la riforma del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione 1 La nozione di tributo ambientale: gli stimoli dell’OCSE e dell’Unione Europea Secondo l’OCSE sono da considerare strumenti economici per la tutela dell’ambiente “tutte quelle misure che incidono sulle scelte tra diverse alternative tecnologiche o di consumo, attraverso la modificazione delle convenienze in termini di costi e benefici privati”147. In particolare, stando a tale nozione, l’OCSE distingue cinque categorie di strumenti economici volti alla tutela ambientale, e precisamente: a) tasse o tariffe, le quali possono avere funzione disincentivante o di gettito; b) sussidi, i quali hanno una funzione di aiuto finanziario al fine di incoraggiare attività volte alla riduzione dell’inquinamento; c) depositi cauzionali, i quali consistono in sovrapprezzi sulla vendita di prodotti inquinanti che possono essere restituiti nel caso di raccolta e riciclaggio dei prodotti; d) penalità e altre misure di deterrenza (come fideiussioni o performance bonds) applicabili ai soggetti che svolgono attività inquinanti; 147 OCSE, Instruments èconomique pour la protection de l’environnement, Parigi, 1989 49 e) permessi negoziabili e altri interventi sul mercato, volti a limitare le produzioni inquinanti o a favorire procedure con minore impatto ambientale 148. Si può notare come in base a tale classificazione149 la tassazione ambientale è posta sullo stesso piano degli altri strumenti economici ed appare perciò relegata ad un ruolo sostanzialmente marginale, data l’equiparazione degli strumenti tariffari a quelli tributari. Per questo motivo la tassazione ambientale150 non va oltre il ruolo di strumento finalizzato al reperimento di risorse finanziarie per l’ambiente (ruolo che può essere svolto con maggiore efficacia dalla tariffa, nella sua accezione di prezzo pubblico, piuttosto che dalla tassa) o di tributo con funzione disincentivante, concorrente con gli altri strumenti economici ad indirizzare le scelte dei consumatori. Nello schema dell’OCSE non si prevede l’utilizzo dello strumento tributario come misura direttamente volta alla tutela dell’ambiente considerato di per sé come bene protetto. In effetti tale classificazione si limita ad indicare lo strumento tributario come una delle diverse misure che possono consentire di internalizzare le cosiddette esternalità ambientali, e cioè di agire sul costo dei prodotti inquinanti (con imposte sulla fabbricazione o sui consumi) al fine di indirizzare le scelte dei consumatori. Il fine ambientale rimane così una finalità politico – sociale del tributo, cioè una finalità extrafiscale esterna al suo presupposto. Tale riduttiva considerazione dello strumento tributario è da collegare all’estrema difficoltà in sede OCSE di pervenire ad una visione unitaria dei tributi ambientali 148 In alcuni Paesi (come Australia, Canada, Germania e soprattutto Stati Uniti) le autorità centrali o locali mettono a disposizione dei grandi inquinatori, a pagamento, diritti di inquinamento per quantità limitate e controllate. Nel caso in cui tali soggetti emettano meno emissioni inquinanti (dell’aria o dell’acqua) rispetto alle quantità consentite dai diritti da essi acquistati è consentito trasferire tali permessi ad altri soggetti inquinatori. 149 Di cui sono state proposte varie rielaborazioni: ad esempio Turner, Pearce e Bateman, in Economia ambientale, Bologna, 1996, classificano gli strumenti economici per l’ambiente in: imposte sulle emissioni, imposte di sfruttamento, imposte sulla produzione, permessi negoziabili e depositi cauzionali. 150 Le espressioni tassazione ambientale e tassa ambientale sono proprie del linguaggio economico e sono utilizzate prevalentemente nei documenti internazionali. Dal punto di vista giuridico è ovviamente più appropriato parlare di tributo ambientale laddove si voglia fare riferimento ad imposte o tasse caratterizzate (come si vedrà) vuoi da una mera funzione ambientale, vuoi dall’esistenza di un presupposto ambientale. 50 utilizzati dai Paesi aderenti.151 Sotto tale profilo è facile avvedersi che esiste una completa disomogeneità nell’utilizzo dello strumento tributario come misura economica a tutela dell’ambiente.152 La verità è che non sussiste nei Paesi OCSE (e dunque nei Paesi più industrializzati del pianeta) la convinzione che il tributo possa costituire in sé uno strumento di tutela ambientale; al contrario è considerato al pari di altri strumenti economici come una misura utilizzabile per finalità di tutela ambientale. Ciò significa, come già detto in precedenza, che la tutela ambientale rappresenta solo una funzione politico – sociale a cui può essere piegato un tributo: una volta individuato un tributo (sia esso un’imposta di fabbricazione, un’accisa o un’imposta di consumo) viene ad esso attribuita funzione ambientale, intervenendo o sulla destinazione del gettito o sulla misura (prevalentemente l’aliquota) del tributo. Così facendo la funzione economico – ambientale rimane estranea al presupposto del tributo, rilevando solo come finalità extrafiscale e configurandosi quindi solo un tributo di scopo. Stando ai risultati che emergono dagli studi dell’OCSE, sembra potersi affermare che non esistono nel mondo tributi ambientali ma solo tributi con funzione ambientale: “fino a che il tributo ambientale viene visto dal lato della sua funzione politico – sociale di strumento di tutela ambientale, il bene ambiente rimane necessariamente estraneo alla fattispecie tributaria, al presupposto del tributo, potendo solo configurarsi tributi di scopo, ovverosia tributi che, rispondendo nella loro costruzione giuridica solo a canoni tributari, perseguono anche finalità fiscali di tutela dell’ambiente”153. La situazione si ribalta se si procede ad analizzare le elaborazioni proposte 151 Ad esempio, non tutti i Paesi OCSE differenziano la misura dell’imposta di fabbricazione sulla benzina in ragione della presenza o meno di piombo (tale differenziazione non esiste in Canada, Grecia, Giappone e USA); o ancora pochi Paesi applicano tributi sul CO2 (tra cui Francia, Olanda, Svezia e Italia); inoltre lo smaltimento dei rifiuti urbani o industriali non è uniformemente colpito da un prelievo tributario (nessun prelievo risulta applicato in Lussemburgo, Messico e Nuova Zelanda) 152 Ministero dell’ambiente, Spesa pubblica ambientale e incentivi economici, in Relazione sullo stato dell’ambiente, Roma, 1997 153 Così F. Gallo – F. Marchetti, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., n. 1, 1999, p. 118 51 dall’Unione Europea, e in particolare, le Risoluzioni del Consiglio del 1987 e del 1993 e il Libro Bianco di Delors su “Crescita, competitività e occupazione”.154 Punto di approdo degli studi europei svolti in questa materia è l’individuazione della definizione generale, in via teorica, di tributo ambientale.155 Al riguardo la Commissione discute, innanzitutto, su quali potrebbero essere i caratteri che classificano un tributo come ambientale, osservando che essi potrebbero essere individuati: a) nell’imponibile: per cui la base materiale sulla quale la tassa è riscossa deve avere sull’ambiente un impatto negativo scientificamente verificabile; b) nell’azione incentivante: per cui la tassazione potrebbe agire come incentivo economico per il miglioramento ambientale; c) nello scopo dichiarato: per cui la volontà politica del legislatore è il miglioramento ambientale, che si concretizza in uno specifico obiettivo riportato nella stessa legislazione fiscale. La Commissione conclude col dichiarare che solo l’imponibile può essere ritenuto un indicatore efficace, in quanto sia l’azione incentivante sia lo scopo dichiarato sono fattori esteriori che dipendono dalle aspettative e dai giudizi soggettivi della collettività. Per questo motivo, secondo la Commissione “una tassa rientra nella categoria delle tasse ambientali se l’imponibile è una unità fisica (o un suo sostituto o un suo derivato) di qualcosa di cui si abbia prova scientifica di effetti negativi sull’ambiente quando è usato o rilasciato”. Per impatto negativo sull’ambiente va inteso un deterioramento156 di beni 154 Ci si riferisce: alla Risoluzione del Consiglio 23 gennaio 1987, in G.U.C.E. n. C 328 del 7 dicembre 1987, contenente il Quarto programma di azione delle Comunità Europee in materia di ambiente; alla Risoluzione del Consiglio 1° febbraio 1993, in G.U.C.E. n. C 138 del 17 maggio 1993 contenente il Quinto programma di azione ambientale dell’Unione Europea; al Libro Bianco di Delors su Crescita, competitività e occupazione, pubblicato nel 1994. 155 Statistic on environmental taxes, commissioned by Europea Commission, prepared by ATW – research, 6-7 maggio 1996 156 Dalle stesse analisi condotte dall’Unione Europea emerge che il deterioramento dell’ambiente non deve essere assoluto ma relativo: si deve trattare di un deterioramento sopportabile, possibilmente reversibile, eventualmente riparabile. Il deterioramento non sostenibile risulta estraneo agli strumenti tributari; l’unità fisica che produce tale deteriroramento non può rappresentare il presupposto di un tributo in quanto il deterioramento irreversibile dell’ambiente deve essere colpito con strumenti sanzionatori che rappresentino un deterrente all’esercizio stesso delle attività dannose. 52 ambientali finora liberi, oppure, una riduzione dell’offerta di tali beni. L’unità fisica di riferimento potrebbe essere una unità di sostanza emessa, oppure, una unità sostitutiva o consequenziale per emissioni (per esempio un litro di benzina consumato in motore standard) o ancora una unità di specifiche risorse naturali compromesse (come l’acqua di un fiume). Stando alla terminologia utilizzata dalla Commissione Europea, perché si possa avere un tributo ambientale è dunque necessario che vi sia una relazione causale fra l’unità fisica, che determina uno specifico danno dell’ambiente scientificamente dimostrato, e l’imponibile del tributo. Sulla base di tale nozione generale la Commissione Europea ha proceduto a tracciare un quadro della tassazione ambientale che potrebbe essere attuabile in tutti i Paesi dell’Unione157, ponendo in essere innanzitutto una distinzione tra tasse (pagamenti che non sono associati ad un flusso di ritorno di beni e servizi) e tariffe (pagamenti che sono associati ad un flusso, ricambiato, di ritorno di beni o servizi). In secondo luogo ha proceduto a distinguere, in base al tipo di imponibile, tra tributi ambientali sull’inquinamento e tributi ambientali sui prodotti: nei primi l’imponibile è una unità fisica di uno specifico inquinante, la quale viene calcolata misurandone le emissioni, mentre nei secondi l’imponibile è una unità fisica di una risorsa, di un bene o di un prodotto che ha una qualche relazione con il deterioramento dell’ambiente, così come avviene quando essa è rilasciata o quando viene consumata. La ricostruzione fatta dalla Commissione Europea in materia di tassazione ambientale rappresenta un passo in avanti rispetto alle indicazioni che sono emerse in sede OCSE.158 Su politiche fiscali e sviluppo sostenibile si veda Pearce, Markandya, Barbier, Progetto per un’economia verde, Bologna, 1991 157 “E’ chiaro che la tassazione ambientale e la destinazione data al relativo gettito possono interferire, direttamente o indirettamente, con vari settori del diritto comunitario come la concorrenza, il mercato unico, la circolazione delle persone, dei beni e dei capitali, e soprattutto le politiche fiscali, per cui è indispensabile che gli Stati membri, nell’istituire tributi ambientali, tengano conto di tutte queste interazioni”, così C. Verrigni, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, in Rass. trib., n. 5, 2003, p. 1622 158 Non particolarmente significative appaiono altre ricostruzioni presenti in sede internazionale. Ci si riferisce principalmente allo schema proposto dal SERIEE, Sistema Europeo di Raccolta di Informazioni Economiche sull’ambiente, in Economia e Ambiente, n. 3, 1991, pp. 24 e ss., secondo cui le tasse ambientali vanno suddivise in tasse specifiche e tasse a finalità ambientale a seconda 53 Se si esamina la definizione di tributo ambientale data dalla Commissione Europea, sostituendo all’espressione imponibile della tassa, la più tecnica locuzione presupposto del tributo, è facile accorgersi che per la prima volta si parla del tributo ambientale come di un tributo caratterizzato da una relazione diretta tra il suo presupposto e l’unità fisica che produce o può produrre un danno all’ambiente. Due sono gli elementi innovativi di tale definizione: innanzitutto aver posto il bene ambiente non più all’esterno ma all’interno della fattispecie tributaria (relazione causale); in secondo luogo aver posto l’accento non tanto sulla tutela ambientale quanto piuttosto sul deterioramento scientificamente dimostrato dell’ambiente o, più correttamente, sull’unità fisica che determina o può determinare il deterioramento dell’ambiente (danno ambientale). Soprattutto quest’ultima nuova prospettiva appare fondamentale se si vuole procedere al tentativo di costruire un tributo ambientale e non solo di un tributo con funzione ambientale. Come già detto in precedenza, la tutela dell’ambiente è una finalità (politica, culturale, sociale) per sua natura extrafiscale: “fino a che si ritiene che lo strumento tributario debba essere utilizzato per la tutela dell’ambiente, non si potrà mai avere un tributo ambientale in cui il bene ambiente si collochi all’interno della fattispecie tributaria”159. La tutela ambientale si rivela quindi, come un effetto sperato, derivante dall’introduzione di un prelievo fiscale che determinando un aumento del costo del bene o dell’attività inquinante, induca il consumatore a rivolgersi verso altri beni con minore impatto ambientale. Si tratta di un effetto economico (cosiddetta interiorizzazione delle esternalità ambientali) estraneo alla fattispecie giuridico – tributaria, a cui viene anche attribuita la predetta finalità extrafiscale.160 L’aver spostato dalla tutela dell’ambiente all’unità fisica che determina il danno che il gettito derivante da esse sia utilizzato direttamente per finanziare la spesa per la protezione dell’ambiente oppure confluisca con le altre entrate dello Stato. 159 F. Gallo – F. Marchetti, I presupposti cit., p. 121 160 Non per niente l’OCSE, che ha condotto i suoi studi sulla base di tale impostazione, considera la tassa con funzione ambientale uno dei tanti strumenti economici (non necessariamente il più efficace) cui può essere riconosciuta la predetta funzione di interiorizzazione delle esternalità ambientali 54 ambientale l’elemento di collegamento fra il tributo e l’ambiente può consentire di ricostruire il tributo in termini di presupposto ambientale. L’unità fisica che determina il deterioramento dell’ambiente non può in questo caso essere una funzione del tributo ambientale, ma è un fatto materiale e oggettivo sussumibile (a certe condizioni che verificheremo in seguito) nel presupposto del tributo ambientale. Con ciò non si vuol dire che il tributo ambientale non possa assumere anche una funzione di tutela ambientale. Si vuole dire che il tributo ambientale è tale per la relazione diretta, causale, che sussiste tra il presupposto e il fatto materiale che determina il deterioramento scientificamente accertato dell’ambiente, ferma restando la possibilità che tale tributo persegua come effetto economico ed extrafiscale anche funzioni di tutela ambientale.161 E’ appena il caso di aggiungere che la nuova prospettazione data al problema ha consentito all’Unione Europea, soprattutto nel Libro Bianco di Delors, di non valutare più la tassazione ambientale solo per i suoi effetti di tutela ambientale, ma anche per i suoi effetti di redistribuzione del carico fiscale. L’Unione Europea auspica infatti uno spostamento della tassazione dal lavoro all’ambiente anche al fine di generare occupazione.162 1.1 Tentativo di ricostruzione di un concetto di tributo ambientale in ragione dello scopo: i tributi con funzione ambientale I tributi ambientali sono stati a lungo caratterizzati unicamente per la finalità 161 In effetti se il tributo ambientale si dovesse identificare solo per la funzione extrafiscale di tutela dell’ambiente non vi sarebbe alcun bisogno di sforzarsi a ricostruire tributi ambientali in senso proprio caratterizzati dall’esistenza di un presupposto ambientale, essendo sufficiente aggiungere la predetta funzione extrafiscale a qualunque tipo di tributo. 162 L’Unione Europea pone l’accento sulla possibilità di utilizzare la tassazione ambientale come strumento di promozione dell’occupazione. Partendo dalla constatazione dello scarso uso delle risorse di lavoro e dell’uso eccessivo delle risorse naturali, la tassazione ambientale, spostando la pressione fiscale dalle persone all’ambiente, potrebbe promuovere un’inversione di tendenza. Il ragionamento di Delors è molto semplice: l’utilizzo di strumenti portatori di uno sviluppo sostenibile (come riciclaggio, biotecnologie, energie rinnovabili) dovrebbe favorire l’occupazione; contemporaneamente la pressione fiscale sul lavoro dovrebbe essere alleggerita in proporzione al maggior prelievo fiscale sull’ambiente. La conseguenza di tale politica redistributiva dovrebbe essere la promozione di un circolo virtuoso, in grado di raggiungere il risultato del doppio dividendo: protezione dell’ambiente e aumento dell’occupazione. Sul punto si veda T. Rosembuj, La protaccion j la conservation del medio ambiente en el derecho tributario, Madrid, 1996, pp. 130 e ss. 55 politico – sociale extrafiscale163 della tutela ambientale, con carattere esterno al presupposto del tributo stesso.164 La maggioranza dei tributi mostra una connotazione extrafiscale più o meno accentuata accanto alla funzione di riscossione e riparto delle spese pubbliche: ciò nell’intento di controllare e/o colpire quei comportamenti che, pur non essendo illeciti, sono reputati socialmente non raccomandabili, tali da sollecitare i pubblici poteri a far uso di misure fiscali in qualche misura penalizzanti del comportamento stesso. Un tributo, per essere qualificato principalmente come extrafiscale, deve essere analizzato nella sua struttura completa, a prescindere dalle dichiarazioni di intenti espresse dal legislatore e deve assumere tra i suoi elementi strutturali gli obiettivi extrafiscali. I principi costituzionali in materia tributaria non ostano al perseguimento di finalità indirette attraverso il prelievo165 e nulla vieta che, a prescindere dalle motivazioni di gettito, si realizzino ulteriori benefici, relativi a finalità diverse, quale, appunto, la tutela dell’ambiente, attraverso un’interpretazione combinata e strumentale proprio per rispettare altre esigenze costituzionalmente rilevanti.166 I tributi in oggetto sono stati tradizionalmente strutturati come tributi con la finalità extrafiscale di “permettere lo sviluppo economico compatibile con l’utilizzazione delle risorse naturali del territorio”.167 163 Sull’extrafiscalità nell’ordinamento italiano cfr. F. Fichera, Imposizione ed extrafiscalità nel sistema costituzionale, Napoli,1973, nonché Id., Fiscalità ed extrafiscalità nella Costituzione. Una rivisitazione dei lavori preparatori, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1997, fasc. 4, pp. 486 e ss. In Spagna l’extrafiscalità ha ottenuto riconoscimento due volte da parte del Tribunal Constitucional, STC n. 19 del 17 febbraio 1987 e STC n. 186 del 7 giugno 1993, entrambe in www.tribunalconstitucional.es. Sul tema cfr. E. Gonzàlez Garcìa, Concepto actual de tributo: anàlisis de jurisprudencia, Pamplona, 1996, pp. 21 e ss, nonché G. Casado Ollero, Los fines no fiscales de los tributos, in Comentarios a la ley general tributaria y lìneas para su reforma. Librohomenaje al Profesor F. Sainz De Bujanda, vol. I, Madrid, 1991, pp. 104 e ss. 164 Per un’analisi dei tributi finalizzati a produrre consistenti entrate di scopo (financing or redistributive chargesltaxes) si veda M. Di Pace, La tassazione ambientale. Motivazioni, caratteristiche, vantaggi (e svantaggi), strumenti, utilizzo ed effetti, in Riv. Dir. Trib. Int, fasc. 1, pp. 159 e ss. 165 Anzi, il riconoscimento del rilievo costituzionale dei fini extrafiscali permette di porre limiti e vincoli al potere di imposizione. Su queste argomentazioni cfr. G. Abbamonte, Principi di diritto finanziario, Napoli, 1975, pp. 108 e ss. 166 P. Selicato, Fiscalità ambientale e Costituzione, in F. Picciaredda – P. Selicato, I tributi e l’ambiente cit., p. 106, ritiene che il prelievo può assumere, per il rispetto di tali esigenze, “carattere prevalentemente strumentale”. 167 Così R. Alfano, L’applicazione dei tributi ambientali nel nuovo contesto della finanza regionale, in Tributimpresa, fasc. 4, 2004, pp. 17 e ss. 56 La dottrina italiana, in particolare, ha proceduto a distinguere i tributi ambientali in ragione della loro funzione (essenzialmente di tutela), affermando che essi possono avere: a) funzione disincentivante. L’imposta ambientale è specificamente volta a contenere le emissioni inquinanti, il consumo di prodotti inquinanti e il consumo di risorse limitate. Essa può consistere in un tributo che colpisca le predette emissioni o prodotti in modo da disincentivare le attività produttrici di emissioni inquinanti e il consumo di prodotti dannosi per l’ambiente; la medesima funzione, peraltro, può essere svolta da incentivi mirati che, ad esempio, favoriscano il rinnovo degli impianti industriali in modo da ridurre le emissioni inquinanti168; b) funzione di reperimento di risorse per il finanziamento di servizi ambientali. In tal caso lo strumento fiscale è utilizzato (eventualmente anche in concorrenza con strumenti non fiscali) per ricevere il corrispettivo dei servizi resi al singolo cittadino in materia ambientale. Di regola lo strumento fiscale (tassa) risulta più efficiente di strumenti non fiscali (prezzo pubblico) per il carattere coattivo proprio del tributo; di converso il prezzo pubblico ha il vantaggio di una maggiore duttilità rispetto alla tassa, e dunque di adattarsi al meglio alle modificazioni delle esigenze del servizio ambientale;169 c) funzione di reperimento di risorse per il finanziamento di opere di risanamento ambientale. Si tratta, forse, della più generale applicazione del principio chi inquina paga. Dal punto di vista giuridico tale funzione è perseguita attraverso l’istituzione di cosiddette imposte di scopo, il cui 168 “Il tributo ambientale mira a disincentivare e quindi a contenere le emissioni inquinanti, il consumo di prodotti aventi un impatto sull’ambiente oppure ancora il consumo di beni scarsi. Simili finalità vengono in linea di principio perseguite provocando l’innalzamento dei prezzi di quei beni o servizi che, in ragione dell’impatto negativo arrecato all’ambiente a causa della loro produzione o del loro utilizzo, il legislatore intende sfavorire rispetto ad altri beni o servizi maggiormente ecocompatibili. L’introduzione del tributo, pertanto, provoca una distorsione del mercato e rende maggiormente conveniente l’utilizzo di fattori produttivi e, quindi, il consumo di beni e servizi diversi da quelli interessati dal tributo medesimo”, così P. Laroma Jezzi, I tributi ambientali, in Manuale di diritto tributario a cura di P. Russo, Milano, 2002, p. 319 169 “Laddove il tributo abbia la funzione di finanziare i servizi ambientali o di disinquinamento resi nei confronti dei rispettivi utenti, esso, in considerazione del carattere commutativo delle prestazioni che vengono in gioco, avrà la struttura di una tassa avente la funzione di trasferire, almeno in parte, sui prodotti, i costi del disinquinamento “, così P. Laroma Jezzi, I tributi ambientali cit., p. 319 57 gettito, cioè, è in tutto o in parte destinato al finanziamento di opere di risanamento ambientale anziché alla fiscalità generale.170 Accanto alle indicate classificazioni funzionali parte della dottrina171 ha affrontato anche il problema della compatibilità dei tributi disincentivanti con il principio di capacità contributiva. La più comune ricostruzione dei tributi ambientali poggia su una interpretazione combinata e strumentale dell’art. 53 della Costituzione con le norme costituzionali poste a protezione e tutela dell’ambiente (in particolare gli artt. 9 e 32 della Costituzione che tutelano rispettivamente il paesaggio e la salute). A presupposto del tributo è assunto un fatto economico che esprime, appunto, la capacità economica ai sensi della prevalente interpretazione dell’art. 53 della Costituzione. Lo scopo ambientale costituzionalmente tutelato (artt. 9 e 32 Cost.) viene poi combinato con il presupposto economico e questo a sua volta è utilizzato come strumento per una funzione ambientale, modellando su tale fine l’oggetto e la misura del tributo.172 In buona sostanza, dunque, secondo la dottrina nel caso di tributi ambientali ci si troverebbe di fronte, comunque, ad un modello di imposta di scopo, in cui lo scopo ambientale rileverebbe come fine extrafiscale del tributo senza penetrare nel presupposto che rimarrebbe retto esclusivamente dal principio di capacità contributiva, intesa come capacità economica.173 A riguardo si consideri il cosiddetto divieto delle imposte di scopo, tradizionalmente incentrato sull’art. 39 della legge sulla contabilità generale dello Stato (regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440)174 che vieta “l’assegnazione di 170 “Si pensi, a titolo di esempio, ad una addizionale IRPEF giustificata dalla necessità di reperire risorse straordinarie per riparare ai danni provocati da un disastro ambientale di vaste proporzioni”, così P. Laroma Jezzi, I tributi ambientali cit., p. 319 171 F. Picciaredda – P. Selicato, I tributi e l’ambiente cit., nonché F. Marchetti, La tassazione ambientale, Roma, 1995 172 “Laddove la funzione ambientale emerga in modo giuridicamente apprezzabile all’interno della fattispecie imponibile, non si potrà certo negare la natura lato sensu ambientale del tributo con la consequenziale applicabilità del principio chi inquina paga”, così C. Verrigni, La rilevanza cit., p. 1625 173 Su queste argomentazioni cfr. F. Gallo – F. Marchetti, I presupposti cit., p. 133 174 Per la verità l’art. 39 citato è stato abrogato dall’art. 33 della legge 4 agosto 1978 n. 468, che con le disposizioni di cui agli articoli da 6 a 10 ha più dettagliatamente disciplinato la materia, ribadendo nell’art. 5 i principi di unità ed universalità del bilancio; peraltro tale disposizione è 58 qualsiasi provento per spese od erogazioni speciali rimanendo soppressa ogni destinazione già stabilita da particolari disposizioni”. Si tratta del principio della unità del bilancio, secondo cui non è possibile differenziare la specifica destinazione delle entrate, confluenti tutte in un’unica cassa, così da perdere ogni connotazione d’origine. Sul piano teorico, ciò potrebbe essere d’ostacolo all’attribuzione della qualifica ambientale ad un tributo il cui gettito sia finalizzato al finanziamento di una politica ambientale. In realtà, tale divieto è posto da una norma di legge ordinaria di carattere generale, per cui nulla vieta che una norma di pari rango, successiva e speciale, possa attribuire una particolare destinazione, giuridicamente rilevante, al gettito di un determinato tributo. Ed infatti, nella più recente legislazione, soprattutto in materia di finanza territoriale e proprio in relazione a taluni tributi ambientali (ad esempio, tassa sui rifiuti solidi urbani, tributo speciale per il conferimento dei rifiuti in discarica, imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili) va emergendo, con sempre maggior vigore, la tendenza all’introduzione di vincoli di destinazione per determinati prelievi.175 I tributi con funzione ambientale sono dunque tributi di scopo, ovverosia tributi che, rispondendo nella loro costruzione giuridica solo a canoni tributari, perseguono anche finalità extrafiscali di tutela dell’ambiente. In questi casi, in altre parole, si assiste al fenomeno dell’utilizzo della leva fiscale, non già esclusivamente per procacciare all’ente impositore un’entrata tributaria, ma anche quale strumento di politica economica, sociale e redistributiva. 1.2 Il rilievo del presupposto ai fini della identificazione del tributo ambientale: dall’imposta ambientale sui consumi all’imposta ambientale di fabbricazione La tutela dell’ambiente è stata per lungo tempo identificata meramente con lo stata sostituita dall’art. 25 della legge 23 dicembre 1993 n. 559 che tuttavia non ha introdotto variazioni significative ai fini qui in esame. 175 Per ulteriori approfondimenti sul tema Del Federico, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, pp. 189 e ss. 59 scopo, la finalità del tributo. Attualmente, accanto a tale visione, hanno assunto connotazione ambientale elementi essenziali quali il presupposto e/o la base imponibile, permettendo il passaggio “dall’extrafiscalità alla vera e propria fiscalità del prelievo ambientale”176. La recente introduzione dei nuovi tributi ambientali che colpiscono le emissioni inquinanti dimostra la volontà del nostro legislatore di superare le ricordate impostazioni funzionalistiche e dimostra soprattutto l’acquisita consapevolezza di poter colpire con un vero e proprio tributo unità fisiche che determinano in sé un danno ambientale.177 Il punto di arrivo è la costruzione di un tributo ambientale nel senso proprio del termine e perfettamente in linea con le indicazioni emerse negli ultimi anni a livello europeo.178 Se si segue la terminologia indicata dall’Unione Europea il presupposto dovrebbe essere costituito da tutte quelle unità fisiche che determinano un danno reversibile all’ambiente o all’uomo.179 Ciò premesso, su quali basi l’unità fisica che determina un danno ambientale può essere assunta a presupposto del tributo nel rispetto del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione? Stando alla più classica ricostruzione del principio di capacità contributiva, per cui il presupposto del tributo deve esprimere una attitudine o forza economica, ci si deve chiedere se tutte le unità fisiche sussumibili a presupposto del tributo ambientale presentino con carattere di generalità tale attitudine o forza 176 V. Ficari, Prime note sull’autonomia tributaria delle Regioni a statuto speciale (e della Sardegna in particolare), in Rass. trib., 2001, p. 1299 177 F. Gallo – F. Marchetti, I presupposti cit., p. 135 178 “E’ ovvio che a livello teorico, nella prospettiva dell’ottimo tributo ambientale, il modello preferibile sia quello del tributo ambientale in senso stretto ed è quindi in tale contesto che si focalizza la dottrina più autorevole. Il profilo strutturale del tributo ambientale (l’articolazione della fattispecie imponibile) va a discapito del profilo funzionale (scopo del prelievo), il tutto in un contesto che per quanto riguarda l’ordinamento italiano tende a marginalizzare i vincoli di destinazione delle entrate pubbliche”, così C. Verrigni, La rilevanza cit., p. 1625 179 Danno all’ambiente significa, accogliendo la cosiddetta teoria ecocentrica, che il fatto materiale può solo determinare un deterioramento oggettivo dell’ambiente anche se tale deterioramento non produce alcun danno all’uomo. Di converso, danno ambientale all’uomo significa, accogliendo la cosiddetta teoria antropocentrica, che il fatto materiale deve procurare un danno all’ambiente che si ripercuota sull’uomo. 60 economica.180 Secondo la ricordata classificazione dell’Unione Europea, tali unità fisiche possono essere costituite sia dal consumo di prodotti che determinino un inquinamento, sia dall’utilizzo di beni ambientali scarsi, sia infine da emissioni inquinanti. Mentre nel primo caso, ponendo l’accento sull’attitudine o forza economica rappresentata dal consumo, è pacifica la coerenza con il principio di capacità contributiva, nelle altre due ipotesi appare alquanto complesso individuare un’attitudine o forza economica di tali elementi in sé considerati. In effetti, ciò che appare arduo è dare una soluzione unitaria alla questione, piuttosto che analizzare per ciascuna delle singole unità fisiche quali possano essere i limiti e le condizioni affinché esse siano valutabili in termini economici, coerentemente con i principi dell’art. 53 della Costituzione. Di fronte ad unità fisiche (quali le emissioni inquinanti) difficilmente suscettibili, in sé considerate, di una valutazione economica, potrebbe forse raggiungersi una visione unitaria del problema se si cercasse di superare la ricostruzione del principio di capacità contributiva in chiave classica. Bisognerebbe cioè abbandonare la tesi ormai consolidata secondo cui l’art. 53 della Costituzione imporrebbe che il presupposto del tributo debba sempre esprimere un’attitudine o forza economica e optare per quelle opinioni minoritarie secondo cui il principio costituzionale di capacità contributiva ammetterebbe anche diversi criteri di collegamento fra il concorso alle spese pubbliche e il presupposto del tributo. Si dovrebbe in particolare sostenere che l’art. 53 della Costituzione nella sua letteralità e nella sua sostanza non individua esclusivamente singole manifestazioni tipizzate di capacità contributiva (quali il reddito, il patrimonio, il 180 “Venendo alle tasse ambientali, la loro natura commutativa esonera dalla necessità di indagare sulla rilevanza economica, e quindi sulla coerenza con il principio di capacità contributiva del relativo presupposto, rappresentato in specie dallo svolgimento da parte dello Stato, o di un ente pubblico, di servizi tesi a prevenire, eliminare o ridurre gli effetti di una determinata attività inquinante. Va però aggiunto che l’utilizzo di una tassa ambientale ha avuto un impiego limitato ed effetti parziali. Contro la sua diffusione hanno infatti inciso sia motivazioni psicologiche, quali l’ostilità all’idea che attraverso la tassa si possa acquisire una sorta di diritto ad inquinare, sia la constatazione che essa è in grado di esprimere la propria utilità solo a deterioramento ambientale avvenuto e, comunque, solo rispetto a quei danni per cui è istituito dall’ente pubblico un servizio di risanamento”, così P. Laroma Jezzi, I tributi ambientali cit., p. 325 61 consumo) ma presuppone, nel riferimento al sistema tributario, semplicemente una gamma indeterminata di possibili tributi181 e pertanto di indici di capacità contributiva, richiedendo solo per ciascuna ipotesi applicativa un effettivo collegamento con fatti e situazioni valutabili pur sempre economicamente e, comunque, concretamente espressivi di mera potenzialità economica.182 Nel caso del tributo ambientale tali fatti e situazioni potrebbero essere identificati nell’unità fisica che determina il danno ambientale, oggettivamente intesa, o forse meglio ancora, nel comportamento umano che procuri un qualunque danno all’ambiente, a prescindere dal fatto che esso si ripercuota sull’uomo.183 In altri termini si potrebbe sostenere una nozione di capacità contributiva intesa come “esclusivo criterio di riparto del carico pubblico tra i consociati”184, mediante una sua interpretazione non solo in chiave funzionale ma anche più strettamente contenutistica. Appoggiando questa soluzione, si riuscirebbero a superare quelle impostazioni che portano a restringere le scelte del legislatore nell’individuazione dei presupposti solo a quelle situazioni, beni e rapporti aventi un valore patrimoniale e, quindi, suscettibili di essere scambiati nel mercato contro denaro. La rilettura del principio di capacità contributiva in chiave moderna porterebbe il legislatore a selezionare i presupposti anche in relazione a situazioni, condizioni e differenze sociali che, se pur prive di elementi patrimoniali, sono tuttavia espressive, a suo giudizio, dell’attitudine a concorrere alle pubbliche spese e rispondenti a criteri distributivi equi, coerenti e ragionevoli che consentano di comparare le posizioni dei singoli contribuenti. In una tale ottica, l’imposizione ambientale potrebbe effettivamente rivestire un 181 F. Gallo – F. Marchetti, I presupposti cit., p. 138 “A tali riflessioni deve aggiungersi un ulteriore motivo di perplessità: l’applicazione di un sistema di tributi ecologici a carattere indiretto può comportare effetti regressivi, redistributivi in peius, nei confronti dei settori più disagiati. Per evitare tali effetti è possibile prevedere una serie di compensazioni per mezzo di detrazioni e/o incentivi, fasce di esenzione o riduzione dei consumi vitali, realizzare una maggiore integrazione tra imposizione ambientale ed imposizione diretta, attraverso un sistema di franchigie e deduzioni dall’imposta personale sul reddito”, così R. Alfano, L’applicazione cit., p. 3 183 “Si è ritenuto che anche l’utilizzazione più o meno ampia da parte di ciascuno dell’ambiente, attraverso comportamenti ed abitudini che determinano danni al medesimo, ovvero comportino il consumo o la fruizione di risorse naturali, possa costituire un indice di capacità contributiva che si affianchi a quelli impiegati tradizionalmente per la ripartizione degli oneri fiscali”, così P. Laroma Jezzi, I tributi ambientali cit., p. 323 184 La locuzione è presente in Gallo - Marchetti, I presupposti cit., p. 139 182 62 ruolo più ampio, attraverso l’individuazione, in seno ai comportamenti aventi un impatto negativo sull’ambiente, di manifestazioni di capacità contributiva idonee a supportare l’istituzione di imposte ambientali a carattere generale.185 Il fatto è che tale tesi ricostruttiva dell’art. 53 della Costituzione richiede pur sempre una valutabilità ed una misurabilità economica del presupposto, anche in termini di potenzialità, le quali nella più estensiva considerazione dell’unità fisica inquinante, da assumere ad esclusivo presupposto del tributo ambientale, sembrano comunque mancare. L’emissione inquinante, in sé considerata, non è infatti suscettibile di valutazione economica, mentre potrebbe esserlo in un diverso contesto relazionale in funzione degli svantaggi che può arrecare all’ambiente ovvero in termini di comparazione con altre emissioni, meno o niente affatto inquinanti. La conseguenza della non misurabilità economica in sé dell’emissione inquinante ci porta a ritenere che non può da sola costituire un elemento espressivo dell’attitudine a concorrere alle pubbliche spese, nell’ottica non solo della capacità economica, ma anche in quella della più ampia accezione della capacità contributiva qui presa in considerazione. Né, al fine di superare tale separazione fra l’unità fisica inquinante ed i principi dell’art. 53 della Costituzione, sembra utile dare affidamento a quella dottrina che vede come possibile modello di collegamento fra carichi pubblici ed obbligo di contribuire la compensazione delle economie e diseconomie esterne. Per cui “quante volte il vantaggio economico di un certo soggetto sia prodotto da una pubblica spesa, non espressamente finalizzata a produrlo, ovvero determini a carico di altri soggetti un pregiudizio che per l’essere rilevante rispetto ai fini generali dello Stato, produce la necessità dell’intervento pubblico in vista della sua eliminazione, esso può essere assunto a indice di capacità contributiva”186. Se si trasponessero tali considerazioni alla fiscalità ambientale e, in particolare al 185 In tal senso E. Granelli, L’imposizione dei plusvalori, Padova, 1981, pp. 21 e ss., il quale parla della capacità contributiva come di un principio che “si risolve ed esaurisce nell’enunciazione di un criterio di ripartizione dei carichi pubblici”, osservando che il legislatore ha “un ampio margine di discrezionalità” nello stabilire tali criteri di riparto, trovando peraltro come limite il fatto che, “una volta postulati” tali criteri, essi “dovranno trovare completa ed organica realizzazione, articolandosi secondo un principio di coerenza, che renda, rispetto ad essi, comparabili le posizioni dei singoli contribuenti”. 186 E. Granelli, L’imposizione dei plusvalori cit., ripreso anche da F. Picciaredda – P. Selicato, I tributi e l’ambiente cit. 63 caso delle emissioni inquinanti, si dovrebbe innanzitutto ritenere che per aversi un collegamento delle diseconomie ambientali con i carichi pubblici sarebbe necessario che l’unità fisica, assunta a presupposto del tributo, determini un deterioramento dell’ambiente che comporti un danno all’uomo. Perché sussista il collegamento nei termini indicati sarebbe, in particolare, necessario che il danno economico derivante dall’unità fisica assunta a presupposto del tributo sia pari al costo che la collettività deve sopportare per eliminare gli effetti che il deterioramento produce sulla qualità della vita.187 Trattandosi di una relazione fra le unità fisiche assunte a presupposto del tributo (emissioni, consumo di beni ambientali scarsi, consumo di prodotti inquinanti), il danno ambientale e i costi di risanamento per la collettività, il tributo ambientale dovrebbe ricostruirsi in termini di beneficio, e cioè come un tributo costruito (soprattutto in termini di base imponibile) tenendo conto del rapporto con il costo sopportato dalla collettività in termini di servizi di risanamento. In quest’ottica la ripartizione del predetto costo tra i soggetti inquinatori andrebbe fatta tenendo conto di quanta parte del servizio di risanamento benefici ciascun soggetto, ovverosia di quanta parte di tale costo debba essere addossata a ciascun soggetto inquinatore, sulla base dell’ovvio assunto che tanto più tale soggetto pone in essere attività le quali determinano un deterioramento ambientale tanto più usufruisce del servizio che la collettività deve porre in essere per risanare i danni da esso procurati all’ambiente e, di conseguenza, alla qualità della vita umana. E’ agevole comprendere perché anche questa tesi non possa essere accettata. Ricostruire in termini di beneficio il tributo ambientale può da un lato porre seri problemi di quantificazione degli svantaggi arrecati cui commisurare il tributo; dall’altro lato può indurre ad utilizzare lo strumento fiscale per una funzione sanzionatoria e risarcitoria, la quale dovrebbe invece essere perseguita attraverso gli strumenti specificamente approntati dall’ordinamento. Questi strumenti possono avere la natura di prestazione imposta, ma difficilmente possono anche ricondursi agli schemi di prelievo utilizzati per realizzare il 187 In questi termini potrebbe trovare spiegazione il principio, affermato dall’Unione Europea e in precedenza analizzato, chi inquina paga ovvero, per dirla in termini di teoria economica, la regola della internalizzazione delle cosiddette esternalità ambientali 64 principio costituzionale del concorso alle pubbliche spese. Accertata la inconcludenza dei tentativi di ricostruire in maniera unitaria un concetto di tributo ambientale in senso stretto, non resta che analizzare settorialmente le singole unità fisiche che possono essere assunte a presupposto del tributo stesso, al fine di verificare per ciascuna di esse i limiti e le condizioni richieste affinché vi sia coerenza tra il tributo e i principi dell’art. 53 della Costituzione.188 A tal fine appare utile, prima di tutto, provare a ricostruire un’imposta ambientale sui consumi, e cioè una forma di imposizione che, da un lato colpisca il consumo di prodotti inquinanti e, dall’altro, il consumo dei beni ambientali scarsi. Si è già detto, al riguardo, che nel caso in cui il danno ambientale sia generato dal consumo di un prodotto inquinante, il tributo può essere agevolmente giustificato ex art. 53 della Costituzione assumendo come presupposto proprio il consumo di tale prodotto, grazie alla facilità con cui può essere valutato economicamente. Affinché tale imposta sui consumi divenga imposta ambientale sui consumi e non solo un’imposta sul consumo caratterizzata da una funzione extrafiscale ambientale (imposta di scopo), è peraltro necessaria la presenza di alcune condizioni. Si vuole dire, cioè, che il carattere ambientale di tale imposta si manifesta non solo nella funzione di indirizzo del consumo verso prodotti a basso effetto inquinante, ma soprattutto assumendo l’effetto inquinante come parametro di commisurazione dell’imposta. Sotto questo profilo l’effetto inquinante si pone direttamente come elemento giustificativo dell’entità del prelievo. Tale misura, per svolgere la funzione ambientale di riduzione del consumo dei prodotti inquinanti, non potrà che essere di gran lunga superiore al normale prelievo gravante su quel tipo di consumo. In questi termini, presupposto di tale imposta è non il consumo, ma il consumo produttivo di inquinamento. Il tributo colpisce il consumo se ed in quanto produttivo di danno ambientale e la valutazione economica del presupposto non riguarda il consumo in sé considerato, 188 Per un’accurata disamina di tali argomentazioni cfr. F. Gallo – F. Marchetti, I presupposti cit., pp. 141-148 65 ma riguarda, sia in termini di mercato che in termini ambientali, il consumo per l’effetto inquinante da esso prodotto. Solo a tali condizioni si realizza quella relazione causale tra danno ambientale e presupposto, la quale, come indicato dai ricordati lavori dell’Unione Europea, identifica un tributo ambientale in senso stretto e non una mera imposta di scopo, dove la funzione ambientale si pone come mero fine extrafiscale. Solo la valutazione economica del danno ambientale può giustificare il fatto che sia colpito il consumo di un certo tipo di prodotto e non di un altro. Può giustificare, cioè, la maggiore entità del prelievo gravante sul consumo di un determinato prodotto, il quale, laddove fosse stato oggetto di una normale imposta sui consumi, avrebbe scontato un prelievo inferiore, razionalmente collegato alla mera valutazione economica del consumo in termini di mercato. A questo punto, ci si deve domandare a quali criteri debba rispondere la valutazione economica del presupposto del tributo ambientale al fine di renderlo coerente con il principio di capacità contributiva, anche in termini di razionalità del prelievo ex artt. 3 e 53 della Costituzione. Si tratta di giustificare, in termini di stretta razionalità, la maggiore entità del prelievo gravante sul consumo di un determinato prodotto per l’effetto inquinante da esso determinato. A tal fine entrano in gioco altri valori costituzionali, soprattutto in tema di diritto al paesaggio (art. 9 Cost.) e di diritto alla salute (art. 32 Cost.). Fino a che il prelievo si porrà in termini di attuazione di tali valori costituzionali, esso risponderà ai criteri di razionalità postulati dagli artt. 3 e 53 della Costituzione. Ciò avverrà tutte le volte in cui l’entità del prelievo sarà parametrata, sulla base di oggettive risultanze tecnico – scientifiche, all’inquinamento determinato dal prodotto oggetto del consumo.189 Presupposto ed entità del prelievo vanno determinati oggettivamente tenendo conto non già dei costi di risanamento ma piuttosto del danno ambientale determinato dal consumo di quel prodotto. 189 E’ appena il caso di aggiungere che, sulla base di tale ricostruzione, nessuna relazione in termini di beneficio verrà a porsi tra il tributo (imposta ambientale sui consumi) e il costo di risanamento del danno ambientale. 66 Più precisamente, la valutazione che deve fare il legislatore nello stabilire l’entità del prelievo deve essere, come già detto, scientificamente collegata al danno ambientale in sé, oggettivamente considerato, e non agli effetti, in termini di costi di risanamento, determinati dal danno ambientale.190 Ancor più che in materia di consumo di prodotti inquinanti, il richiamo agli articoli 9 e 32 della Costituzione appare fondamentale al fine di giustificare il tributo ambientale che colpisce il consumo di beni ambientali scarsi. In tal caso, presupposto del tributo è il consumo di beni come l’acqua, le ricchezze naturali, nonché, stando all’insegnamento della Corte Costituzionale191, culturali. La valutazione economica del presupposto di tale tributo riguarda non il consumo per l’effetto inquinante da esso prodotto, ma direttamente il consumo di tali beni, il quale assume un valore economico non in termini di mercato ma esclusivamente in considerazione della scarsità di tali beni, del fatto di essere beni soggetti ad esaurimento o depauperamento. Solo tali caratteristiche, infatti, giustificano la tutela del paesaggio e della salute da parte dello Stato nell’interesse della collettività. In altri termini, si può parlare, quindi, di consumo di un bene di lusso (il bene ambientale scarso), in grado di per sé di giustificare in termini costituzionali il predetto tributo ambientale. Il presupposto, fondandosi sulla tutela costituzionale del bene ambiente, riguarderà la perdita del valore economico del bene soggetto ad esaurimento o depauperamento prodotta dall’utilizzo o dal consumo di tale bene. Tale perdita (e dunque la determinazione dell’entità del prelievo) dovrà essere, anche qui per esigenze di stretta razionalità, individuata sulla base di oggettive risultanze tecnico – scientifiche. Fin qui si è chiarito come si presenta un’imposta ambientale sui consumi quando essa riguarda il consumo di prodotti inquinanti o di beni ambientali scarsi, ma non è stato ancora sciolto quello che appare il nodo fondamentale della tassazione ambientale: come giustificare il tributo ambientale che colpisca solo la produzione 190 L’imposta ambientale sui consumi viene, dunque, ad essere coerente con una visione ecocentrica e non già antropocentrica del danno ambientale, secondo quella che pare la migliore lettura dei principi posti dagli articoli 9 e 32 della Costituzione. 191 Si rinvia all’analisi della sentenza n. 210 del 1997 trattata nel precedente capitolo 67 di emissioni inquinanti. Anche riguardo questo tema, data la dimostrata insufficienza di un approccio unitario, appare opportuno procedere separatamente distinguendo almeno due ipotesi principali: a) la produzione di emissioni inquinanti nell’ambito di un processo produttivo; b) la produzione di emissioni inquinanti nell’ambito di una normale attività umana. In ambedue i casi, il processo giustificativo in termini di capacità contributiva del tributo dovrebbe essere ricostruito partendo dallo schema dell’imposta di fabbricazione (od accisa). Nel caso di produzione di emissioni inquinanti nell’ambito di un processo produttivo (ad esempio la cosiddetta carbon tax introdotta con il collegato alla legge Finanziaria per il 1999) il presupposto del tributo dovrebbe coincidere, agli effetti dell’art. 53 della Costituzione, con quello dell’accisa: la produzione di un bene o di un servizio il cui valore economico è individuato attraverso la destinazione al mercato. Affinché si presenti un’imposta ambientale di fabbricazione, l’emissione inquinante deve entrare nel presupposto dell’accisa allo stesso modo in cui l’effetto inquinante del prodotto integra il presupposto dell’imposta sui consumi. La valutazione economica del presupposto dovrà riguardare non solo la produzione (destinata al mercato) in sé considerata, ma anche la produzione in quanto generatrice dell’effetto inquinante. L’emissione inquinante rileva, dunque, in termini di entità del prelievo sulla produzione e, quindi anche qui, deve essere valutata ai fini della sua tassazione soprattutto sotto l’aspetto della razionalità, in relazione ai fini extrafiscali anch’essi tutelati a livello costituzionale. Anche nell’ipotesi in cui attraverso uno specifico tributo dovesse essere colpita l’emissione inquinante derivante da un determinato processo produttivo, lo schema del prelievo, dunque, ripercorrerà necessariamente quello della accisa od imposta di fabbricazione, divenendo imposta ambientale di fabbricazione nel momento in cui la valutazione economica del presupposto, cui è razionalmente 68 collegata l’entità del prelievo, sia commisurata all’effetto inquinante dell’emissione. Tale imposta continuerà a colpire il valore economico della produzione tenendo conto dell’effetto inquinante dell’emissione, e la sua entità (ben maggiore di una normale imposta di fabbricazione dove, cioè, il presupposto rispecchia la mera valutazione economica del valore della produzione destinata al mercato) sarà razionalmente giustificabile, ex artt. 9 e 32 della Costituzione, tutte le volte in cui l’entità del prelievo sarà parametrata, sulla base di oggettive risultanze tecnico – scientifiche, all’inquinamento determinato dalle emissioni generate dal processo produttivo. Anche nel caso dell’imposta ambientale di fabbricazione si possono, dunque, ripetere le osservazioni fatte a proposito dell’imposta ambientale sul consumo. Il tributo prefigurato (ed al cui schema dovrebbe ricondursi la già citata carbon tax) non è una mera imposta di scopo e, cioè, un’imposta di fabbricazione che persegua anche fini extrafiscali di tutela ambientale. Il presupposto dell’imposta ambientale di fabbricazione deve essere ricostruito tenendo conto della relazione causale tra la produzione e l’emissione inquinante. La valutazione economica del presupposto non deve riguardare solo il valore della produzione destinata al mercato, ma anche il valore delle emissioni generate da tale produzione in termini di danno ambientale. Come nel caso dell’imposta ambientale sui consumi, così anche per il tributo in esame può affermarsi che una normale imposta di fabbricazione esiste a prescindere dalla considerazione delle emissioni inquinanti generate dal processo produttivo, mentre un’imposta ambientale di fabbricazione può esistere solo se si procede anche alla valutazione economica, razionalmente corretta, del danno ambientale determinato dalle emissioni inquinanti. Per questo motivo, laddove manchi tale valutazione (a cui, come si è detto, deve procedersi sulla base di oggettive risultanze tecnico – scientifiche), l’imposta deve essere vista come una normale imposta di fabbricazione, con la conseguenza che, ex art. 53 della Costituzione, il suo presupposto e la sua entità devono misurare solo il valore economico, in termini di mercato, della produzione. Anche nel caso di produzione di emissioni inquinanti nell’ambito di una normale 69 attività umana appare corretto seguire un processo logico giustificativo risalente allo schema dell’accisa. In tale ipotesi, tuttavia, mancando una produzione destinata al mercato e la possibilità, quindi, di valutarla economicamente in relazione al danno ambientale determinato dalle emissioni da essa prodotte, sussiste un limite implicito alla tassazione rappresentato dall’utilità relativa che l’attività umana è in grado di apportare al soggetto titolare dell’attività stessa. Si tratta dell’utilità che un soggetto ottiene dallo svolgimento di una attività umana generatrice di emissioni inquinanti, utilità valutabile in termini comparativi rispetto ad un’altra attività umana che, portando ad un analogo risultato, non generi emissioni inquinanti o generi minore inquinamento.192 Al fine, dunque, di dare una valutazione economica in termini di capacità contributiva è necessario contrapporre all’attività umana generatrice di inquinamento, un’altra attività umana che genera minore o nessun inquinamento. In ciò dovrebbe ritrovarsi il limite di tale tributo ambientale, il quale non può essere prefigurato laddove all’attività inquinante non è contrapponibile altra attività non inquinante, in modo da operare in termini comparativi la valutazione dell’utilità relativa prodotta dallo svolgimento dell’attività inquinante.193 Una volta individuata l’utilità relativa derivante dallo svolgimento dell’attività umana che genera emissioni inquinanti, il tributo andrebbe ricostruito anche qui secondo lo schema dell’imposta ambientale di fabbricazione. Presupposto del tributo sarebbe la produzione di un servizio ad uso personale attraverso un’attività umana generatrice di inquinamento. Tale attività sarà valutabile in termini di utilità relativa confrontandola con altre attività produttrici di analoghi servizi, ma non generatrici di inquinamento. Il prelievo potrà considerarsi razionale solo in quanto diretto a colpire tale utilità relativa e la sua entità dovrà essere parametrata, sulla base di oggettive risultanze 192 Si faccia l’esempio dell’utilizzo di una autovettura privata in luogo del mezzo pubblico. In questo caso si ha la produzione di un servizio (il trasporto privato) che, pur non essendo destinato al mercato, determina una utilità al soggetto valutabile in termini comparativi in relazione alla produzione di un equivalente servizio che genera minore inquinamento. Il valore economico viene individuato attraverso l’utilità relativa (e dunque attraverso il guadagno in termini di beneficio individuale) della produzione del servizio rispetto ad altre produzioni non inquinanti. 193 Nel caso di mancata valutazione comparativa, l’attività umana deve essere colpita con strumenti non tributari ed essenzialmente con prelievi obbligatori, non fiscali, ma risarcitori. 70 tecnico – scientifiche, all’inquinamento determinato dalle emissioni generate dallo svolgimento dell’attività umana. 2 Il rapporto tra tributi ambientali e capacità contributiva Si può dire che tra capacità contributiva194 e fattore ambientale esista un legame molto significativo. Come già detto, accade spesso che in taluni atti e comportamenti ecologicamente rilevanti si possano rinvenire indici capaci di giustificare l’istituzione di un 194 In merito alle problematiche sottese all’applicazione dell’art. 53 Cost. (senza pretesa di esaustività) si segnala: Giardina, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961; Manzoni, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965; Gaffuri, L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969; Maffezzoni, La capacità contributiva nel diritto finanziario, Torino, 1970; Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973. In merito alle differenze tra l’art. 25 Statuto Albertino e l’art. 53 Cost. si veda Moschetti, Lorenzon, Schiavolin, Tosi, La capacità contributiva, Padova, 1993; Moschetti, La capacità contributiva, in Trattato di diritto tributario diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, vol. I, pp. 223 e ss. Per l’iniziale interpretazione dell’art. 53 Cost. quale norma meramente programmatica: Ingrosso, I tributi nella nuova Costituzione italiana, in Arch. fin., 1950, vol. I, pp. 158 e ss.; Giannini A. D., I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956; Cocivera, Principi di diritto tributario, Milano, 1961. Concepisce il principio di capacità contributiva come criterio limite di razionalità e non arbitrarietà posto dalla Costituzione al legislatore tributario, Fedele, Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica nella Costituzione italiana, in Riv. dir. trib., 1999, I, pp. 971 e ss.; ID., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, pp. 10 e ss. In ordine al collegamento della capacità contributiva col godimento di pubblici servizi: Griziotti, Il principio della capacità contributiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1948, I, pp. 15 e ss. Ricostruiscono l’art. 53 Cost. quale esplicazione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.: Lombardi, Solidarietà politica, solidarietà economica e solidarietà sociale nel quadro del dovere costituzionale di prestazione tributaria, in Temi trib., 1964, pp. 597 e ss. Sui rapporti tra gli artt. 53 e 3 Cost. si veda La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968. Per i connotati di attualità ed effettività che debbono caratterizzare il presupposto e la base imponibile si veda Manzoni, Sul problema della costituzionalità delle leggi tributarie retroattive, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1963, I, pp. 540 e ss.; Micheli, Il principio di capacità contributiva, in Opere minori di diritto tributario, Milano, 1982, II, pp. 177 e ss. In ordine ai criteri di commisurazione dell’imponibile e alle conseguenti problematiche sui limiti di legittimità costituzionale di meccanismi forfetari o presuntivi di determinazione dello stesso, Moschetti, La proposta di tassazione del reddito normale: valutazioni critiche e profili di legittimità costituzionale, in Rass. trib., 1990, I, pp. 57 e ss.; Tosi, Su un’ipotesi di tassazione del reddito normale: problematiche applicative e costituzionali, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1990, I, pp. 97 e ss.; Leccisotti, Reddito effettivo o reddito normale, Bologna, 1990. Per un esame della tutela del minimo vitale si veda Antonini, La tutela costituzionale del minimo esente, personale e familiare, in Riv. dir. trib., 1999, I, pp. 861 e ss. Per quanto concerne l’inammissibilità di presunzioni assolute in riferimento alla sussistenza del presupposto d’imposta: Falsitta, Appunti in tema di legittimità costituzionale delle presunzioni fiscali, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1968, II, pp. 3 e ss.; De Mita, Presunzioni fiscali e Costituzione, in Le presunzioni in materia tributaria, Rimini, 1987, pp. 23 e ss. 71 apposito tributo ovvero di influire sulla quantificazione dell’imponibile o dell’imposta. Per procedere correttamente nell’indagine, è necessario in primo luogo interrogarsi sul significato del termine capacità contributiva e su come tale significato si possa integrare con il fattore ambientale. A questo punto, è opportuno aver presente che la dottrina maggioritaria e la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale195 hanno da tempo accertato che: a) l’art. 53 della Costituzione, nell’imporre al prelievo fiscale il limite della capacità contributiva, fa riferimento alla capacità economica del soggetto; b) non vi è identità tra capacità economica e capacità contributiva, poiché quest’ultima sussiste soltanto quando e nella misura in cui il contribuente è in grado di attingere alla propria ricchezza per concorrere alle spese pubbliche; c) nella valutazione del rapporto tra capacità economica e capacità contributiva il legislatore deve tener conto degli altri valori espressi nella Costituzione operando un continuo bilanciamento di interessi basato su criteri di uguaglianza, razionalità e coerenza.196 Resta fermo, pertanto, che è unicamente al criterio della capacità contributiva, come stabilito dall’art. 53 della Costituzione e definito nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte, che bisogna avere riguardo per valutare la legittimità delle norme che stabiliscono tributi di ogni tipo. All’osservanza di tale principio non può sottrarsi l’istituzione di prelievi a carattere ambientale, se questi vengono configurati nella forma del tributo. 195 Per una panoramica sull’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di capacità contributiva si veda De Mita, Capacità contributiva, in Rass. trib., 1987, I, pp. 45 e ss.; Marongiu, Il principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Dir. prat. trib., 1985, I, pp. 6 e ss.; La Rosa, Costituzione, Corte costituzionale e ordinamento tributario, in Dir. prat. trib., 1985, I, pp. 233 e ss.; Schiavolin, Il “new deal” della Corte costituzionale, in Rass. trib., 1988, II, pp. 504 e ss. 196 “Va anche ricordato che la scelta del legislatore costituente per la codificazione del principio di capacità contributiva ha rappresentato il definitivo abbandono degli altri criteri elaborati dalla dottrina economico-finanziaria nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali per fondare la ripartizione dei carichi pubblici, quali le teorie della corrispettività e del beneficio, che pure hanno ispirato, dopo l’entrata in vigore della nostra Costituzione, isolate correnti del pensiero giuridicotributario, per le quali la capacità contributiva doveva essere identificata nel godimento dei servizi pubblici e che tuttora alimentano l’interesse degli studiosi della finanza pubblica, attratti dall’idea di poter utilizzare questi criteri come fondamento di un sistema federale di riparto del prelievo fiscale”, così P. Selicato, La tassazione cit., p. 261 72 Da un primo punto di vista, che può essere definito classico), per comprendere l’essenza del rapporto esistente tra presupposto del tributo ed ambiente, è necessario esaminare i risultati raggiunti dalla dottrina con riferimento al problema della legittimità costituzionale delle agevolazioni tributarie e, più in generale, dell’utilizzo extrafiscale dei tributi.197 In tale ottica, pertanto, il prelievo viene visto non soltanto come strumento per realizzare il concorso alle spese pubbliche richiesto dall’art. 53 della Costituzione, ma anche come mezzo per realizzare altre finalità, rispetto alle quali esso assume carattere strumentale.198 Ne deriva che l’art. 53 Cost. “non impedisce di operare valutazioni diversificate della capacità contributiva di soggetti aventi eguale capacità economica per soddisfare le esigenze di indirizzo politico perseguite dal legislatore”.199 In tal senso, pertanto, sarà possibile individuare una minore attitudine alla contribuzione in un soggetto il quale, pure in presenza di una identica misura della base imponibile, ha realizzato il presupposto del tributo con un’attività meno nociva per l’ambiente di quella svolta da altri. Per altro verso, sarà anche possibile colpire con un tributo di maggiore entità il contribuente che abbia prodotto una base imponibile di identica misura attraverso un’attività ecologicamente più dannosa.200 E’ da notare che tale individuazione, quanto alla opzione del mezzo prescelto per 197 Per una approfondita ed aggiornata disamina del problema si vedano La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario a cura di Amatucci cit., vol. I, p. 401; Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992 198 Su questo ordine di argomentazioni si è già da tempo basato A. Amatucci, Qualità della vita cit., p. 351, il quale osserva che “l’utilizzazione del tributo quale strumento di politica ambientale presupporrebbe, quale condizione di legittimità, la capacità inquinatrice, che ovviamente sarebbe solo potenziale, se la legge istitutiva perseguisse il fine di disincentivare il comportamento coincidente col presupposto” e concludendo nel senso che la qualificazione ecologica del presupposto di imposta non esime il legislatore ordinario dal rispetto dell’art. 53 Cost., poiché “il riferimento alla capacità contributiva integra perciò le garanzie delle libertà civili e politiche che concorrono a formare la personalità del cittadino nell’ambito del nuovo modello sociale imposto dalla Costituzione”. 199 L’espressione è di La Rosa, Esenzioni ed agevolazioni tributarie, in Enc. giur., Vol. XIII, Roma, 1989 200 Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale si veda in tal senso la sentenza n. 42 del 26 Marzo 1980, in Giur. it., fasc. 12, 1980, p. 1797 e ss., con nota di Fedele, La discriminazione dei redditi di lavoro autonomo ed i principi di eguaglianza e di capacità contributiva. In questa pronuncia la Corte, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’ILOR sui redditi di lavoro autonomo, pose in evidenza come per redditi di identico ammontare potesse sussistere una diversa capacità contributiva in presenza di una diversità degli elementi costitutivi della base imponibile. 73 l’adeguamento del tributo dovuto alle diverse condizioni socio-economiche del soggetto agevolato, pur essendo rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore, 201 è ritenuta costituzionalmente legittima se il fine extrafiscale perseguito è anch’esso tutelato da altre disposizioni della nostra Legge fondamentale.202 Nell’ambito del rapporto tra tributi ambientali e capacità contributiva, un altro profilo meritevole di approfondimento in un approccio giuridico di tipo classico è quello che concerne l’inquadramento costituzionale dei tributi latamente riconducibili ad un rapporto commutativo, come quelli della specie tassa. In effetti, i prelievi fiscali rivolti ad assolvere finalità di riequilibrio ambientale sono frequentemente modellati su tale schema teorico, per il quale, tuttavia, si è sviluppato un lungo e contrastato dibattito che ancora oggi non sembra aver raggiunto una conclusione.203 Senza entrare nel vivo di questa polemica, è sufficiente osservare che “se è utilizzata per rendere effettivo il concorso alle spese pubbliche, anche la tassa, come l’imposta, deve essere disciplinata nell’osservanza del principio di capacità contributiva, mentre tale vincolo legale non si pone con riferimento alla categoria residuale delle altre prestazioni patrimoniali non aventi carattere impositivo nel senso sopra precisato di decurtazione autoritativa del patrimonio individuale senza una corrispondente erogazione di utilità”.204 201 A questo riguardo, tuttavia, De Mita, Razionalità e certezza della tassazione, in La Costituzione economica a quarant’anni dalla approvazione della Carta fondamentale, Atti del convegno di Milano del 6-7 maggio 1988, Milano, 1990, p. 393, pone in evidenza che, sotto il profilo sostanziale, tale discrezionalità non può mai oltrepassare i limiti della razionalità, creando “mostri fiscali” che diano luogo a prelievi non giustificati da un solido ancoraggio alla capacità economica richiamata dall’art. 53 Cost. 202 Su questo versante viene osservato che “il principio di capacità contributiva, in quanto disposizione costituzionale da interpretare anche alla luce di altre norme contenute nello stesso sistema giuridico, non può non tener conto del particolare favore che deve essere garantito laddove intervenga nei settori giuridici costituzionalmente protetti”, con la conseguenza che “la qualificazione in termini di capacità contributiva deve tener conto della norma costituzionale di favore e questa a sua volta concorrere a determinare la maggiore o minore capacità contributiva”, così Moschetti, Agevolazioni fiscali – II) Problemi di legittimità costituzionale e principi interpretativi, in Digesto disc. priv., sez. comm., Vol. I, Torino, 1987, pp. 73 e ss. 203 La Corte Costituzionale, con numerose sentenze risalenti tutte agli anni sessanta, citate da Fedele, Tassa, in Enc. giur., Vol. XXX, Roma, 1993, ha ripetutamente affermato l’inapplicabilità dell’art. 53, comma 1, Cost. a tributi correlati con la prestazione di servizi pubblici divisibili. Le predette decisioni erano fondate sul richiamo alla teoria della tassa come onere, elaborate nel decennio precedente da Berliri, Per una precisazione del concetto giuridico di tassa: rapporto di tassa e rapporto contrattuale, in Riv. dir. fin. sc. fin., I, 1951, pp. 130 e ss. 204 P. Selicato, Fiscalità ambientale e Costituzione, in Picciaredda – Selicato, I tributi cit., p. 112 74 Pertanto, ove il legislatore intenda intervenire nella politica ambientale con lo scopo di imporre una prestazione coattiva pecuniaria non avente i caratteri del corrispettivo, della sanzione o del risarcimento di un danno, esso dovrà verificare se e in quale misura il tributo applicato (sia esso un’imposta o una tassa) colpisce un fatto rivelatore di una effettiva capacità contributiva del soggetto passivo. Recentemente, il problema della capacità contributiva nei tributi ambientali è stato esaminato sotto una diversa luce da alcuni studiosi di finanza pubblica.205 Secondo questa nuova impostazione è possibile assumere a fatto – indice di una autonoma capacità contributiva il consumo di energia, visto non più nell’ottica ristretta di un prelievo indiretto su tali consumi ma in una più vasta prospettiva di determinazione del reddito e del patrimonio di un individuo attraverso la misurazione del livello dei consumi individuali dei beni ambientali.206 In altri termini, dall’accertamento sotto il profilo quantitativo e qualitativo del livello di tali consumi potrebbe essere ricavata la potenzialità economica complessiva del contribuente e, da questa, la base imponibile di un tributo ambientale generale da porre come alternativa o, quanto meno, come sostanziale integrazione all’insieme dei tributi diretti e indiretti di tipo tradizionale.207 Da questo punto di vista , non si farebbe altro che cogliere quella costante evoluzione in corso nei sistemi fiscali di tutti i paesi maggiormente industrializzati che ha sovvertito il fondamentale principio della personalità, globalità e progressività dell’imposizione sui redditi.208 Tale modello, che pur permane ai nostri giorni non essendo stato ancora sostituito da una nuova disciplina delle forme del prelievo, sta manifestando 205 Su tutti Perrone Capano, L’imposizione cit., pp. 492 e ss. Già da qualche tempo gli economisti hanno posto in rilievo che l’introduzione di un’imposizione sull’energia potrebbe essere utilizzata con profitto in una politica di più equa ripartizione dei carichi tributari, posto che esisterebbe un rapporto diretto tra la misura del reddito e il volume dei consumi di energia. In tal senso, si veda Vitaletti, Le proposte di nuove imposte: l’imposizione dell’energia, in Pedone (a cura di), La riforma tributaria tra nuove imposte e qualche aggiornamento, Bologna, 1989 207 Sempre secondo Perrone Capano, L’imposizione cit., p. 494, l’approccio ecologico alla tassazione consentirebbe di “spostare una quota significativa del gettito delle imposte sui salari e sui contributi sociali verso forme di imposizione ecologica che abbiano come base di riferimento il fattore energia e siano finalizzate ad obiettivi di tutela ambientale”. 208 Cfr. Tremonti-Vitaletti, La fiera delle tasse, Bologna, 1991, pp. 35 e ss., dove si evidenzia l’esigenza di estendere l’imposizione alle cd. new properties (formula che gli autori utilizzano per definire tutte le nuove forme di ricchezza individuale divenute oggetto di attenzione da parte del legislatore fiscale) e si sottolinea l’influenza che il fisco stesso ha esercitato sulla creazione di tali nuove forme di ricchezza rendendole oggetto della imposizione. 206 75 quotidianamente “i segni di un drastico cedimento”209, da un lato a causa dell’introduzione di sempre più numerose fattispecie di imposizione sostitutiva e forfettizzata (riguardanti soprattutto i proventi finanziari) che diminuiscono l’area di applicazione della progressività; da altro lato per effetto della indiscriminata utilizzazione, da parte dei contribuenti appartenenti alla categoria delle imprese, dello strumento societario, attraverso il quale i redditi di tale categoria vengono dispersi con l’uso di strumenti elusivi di vario genere. La nuova prospettiva, invece, sembra rientrare pienamente nella nozione di capacità contributiva per due connessi ordini di motivi: in primo luogo perché secondo l’art. 53, comma 1, Cost. vi è l’esigenza di portare a tassazione “tutti” gli indici della capacità economica complessiva del soggetto passivo, poiché se alcuni di questi indici sfuggono alla considerazione del legislatore, non potrà dirsi che “tutti” concorrono alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.210 Ciò posto, si deve pervenire all’ulteriore deduzione che non soltanto il possesso o lo scambio della ricchezza, o la specifica e diretta fruizione di un pubblico servizio possono essere considerati indici di capacità contributiva, ma che può assumere tale qualità ogni attività produttiva di diseconomie esterne, come lo sfruttamento del patrimonio ambientale, poiché l’apprensione di tali risorse è sintomo di una capacità economica del soggetto che la compie.211 In questo senso, si deve riconoscere che il peso economico dell’inquinamento si manifesta in una doppia direzione: da un lato assume evidenza la circostanza che il soggetto che utilizza il patrimonio naturale acquisisce gratuitamente un fattore di produzione dei mezzi necessari alla soddisfazione dei propri bisogni (siano essi rivolti alla produzione o al mero consumo finale); per altro verso, va rilevato che attraverso il consumo ambientale il contribuente trae un vantaggio a scapito della collettività e che tale apprensione di risorse produce ai danni dello Stato un effettivo depauperamento, determinato dai maggiori oneri che esso deve 209 Così P. Selicato, Fiscalità ambientale e Costituzione, in Picciaredda-Selicato, I tributi cit., p. 114 210 In tal senso, cfr. Moschetti, La capacità cit., p. 249, il quale desume il siffatto concetto di universalità dalla locuzione “tutti” posta in apertura del citato precetto costituzionale. 211 In tal senso Granelli, Brevi considerazioni sugli aspetti fiscali delle “leggi Merli”, in Boll. trib., fasc. 11, 1980, p. 836 76 sopportare per rimuovere o limitare gli effetti negativi prodotti dall’azione del contribuente sul patrimonio ambientale. Dunque, secondo questa concezione di tipo moderno, l’ambiente non si limita a costituire un fondamentale valore costituzionale extrafiscale, ma, con un evidente capovolgimento di prospettiva, assurge esso stesso a fatto – indice di capacità contributiva, che, in quanto economicamente valutabile, deve essere assunto dal legislatore quale limite, parametro e giustificazione del tributo. Questa conclusione trova una convincente spiegazione in due fondamentali caratteristiche del bene ambiente, già analizzate nelle pagine precedenti: a) la prima, di carattere economico, è la natura di esternalità che ad esso è stata attribuita, e quindi della sua capacità di incidere positivamente sul costo individuale della produzione o del consumo di determinati beni o servizi; b) la seconda, di carattere giuridico - amministrativo, è costituita dalla natura pubblica della titolarità dei beni ambientali. Collegando al soggetto fruitore dei detti beni il vantaggio economico che costui ricava individualmente dalla loro utilizzazione, emerge il fatto – indice di capacità contributiva valutabile ex art. 53 Cost. E’ da osservare che, paradossalmente, queste considerazioni portano a ritenere indifferenti al prelievo gli aspetti extrafiscali dai quali la teoria economica era partita per costruire la figura di un’imposta ottimale sull’ambiente e che il fattore ambientale può trasformarsi da oggetto di tutela a presupposto dell’imposizione, valutabile alla stregua dei normali canoni costituzionali. Tuttalpiù, ove il legislatore lo ritenesse opportuno, in questa diversa configurazione del tributo la tutela dell’ambiente potrebbe essere perseguita come obiettivo collaterale dell’imposizione, stante la sua capacità di orientare comunque il soggetto passivo nella direzione di comportamenti più rispettosi dell’ecosistema. Contribuisce a ricostruire in questa particolare ottica la fattispecie del tributo ambientale la recente evoluzione giurisprudenziale formatasi sul canone di abbonamento radiotelevisivo, disciplinato dagli artt. 1, 10 e 25 del regio decreto n. 246 del 21 febbraio 1938, nonché dall’art. 15, comma 1, della più recente legge n. 77 103 del 14 aprile 1975. In effetti, la Corte Costituzionale e, qualche anno dopo, la Corte di Cassazione, 212 hanno ritenuto la piena legittimità del canone in parola213, riconoscendo al medesimo la natura di imposta e giustificando la sua applicazione con “la polizia e l’amministrazione dell’etere su cui lo Stato è sovrano, con riferimento a servizi gestiti dallo Stato per la generalità, che escludono quel rapporto fra tributo ed atto dell’autorità vantaggioso per il singolo, proprio della tassa”214. Tenendo presenti tali indicazioni, appaiono eccessive le aspre critiche mosse al citato orientamento giurisprudenziale sulla base della esiguità del valore patrimoniale e della scarsa rilevanza sotto un profilo qualitativo del cespite cui in apparenza si riferisce il prelievo215, siccome la ricchezza considerata dalla norma impositrice non è quella corrispondente al valore del detto cespite ma quella attribuibile all’utilità ritraibile (anche solo in via potenziale) dal privato a fronte dell’istituzione di un determinato servizio pubblico di interesse generale.216 Trasponendo questi risultati nel campo dell’imposizione ambientale, è facile comprendere come sia possibile ipotizzare un prelievo che assuma a proprio presupposto un fatto ecologicamente rilevante, anche quando manchi un 212 Secondo la Corte Costituzionale, ordinanza n. 219 del 20 aprile 1989, unitamente alla Cassazione Civile, sentenza n. 8549 del 3 agosto 1993, edite in Riv. dir. trib., II, 1995, pp. 801 e ss., “la capacità contributiva consiste nell’idoneità ad eseguire la prestazione coattivamente imposta, correlata non già alla capacità del singolo contribuente, bensì al presupposto economico al quale l’obbligazione è correlata”, risultando “del tutto irrilevante che in concreto il contribuente consegua o no l’utilità sperata”. 213 La Cassazione, nella sentenza 8549/1993 cit., p. 813, ha osservato che l’imprecisa terminologia adottata nel caso in esame dal legislatore, non deve costituire fonte di equivoco. 214 Ancora Cassazione, sent. 8549/1993 cit., p. 812-813 215 Falsitta, Canone TV, utenti nell’ombra e giudici nella nebbia, in Riv. dir. trib., II, p. 813, ritiene in verità che “il possesso di un apparecchio televisivo è indice di forza economica tanto quanto un cappotto o un manico di scopa”, fondando su tale assunto l’intero sistema di critiche che egli oppone alle richiamate sentenze. E’ pur vero, tuttavia, che la stessa Corte Costituzionale rilevò che “la costruzione, come presupposto d’imposta e come indice di capacità contributiva, della mera detenzione di un apparecchio televisivo, non può essere considerata irragionevole ove venga comparata al modestissimo tributo annuo che l’utente è tenuto a pagare”. Ma tale affermazione rimane allo stato di mero obiter dictum, essendo formulata al limitato fine di prevenire una diversa eccezione di illegittimità costituzionale delle norme in parola basata sull’art. 3 Cost. 216 “Da questo punto di vista, quindi, apparirebbe congruo ed equo attribuire ai detentori di apparecchi TV atti a ricevere programmi via etere (quale che sia il valore patrimoniale degli stessi) un tributo annuo fisso da qualificare come concorso di tali soggetti alle spese pubbliche specificamente afferenti al mantenimento di tale sistema. Soggetti i quali, sotto tale profilo, si diversificherebbero certamente dai possessori di cappotti o manici di scopa”, così P. Selicato, Fiscalità ambientale e Costituzione, in Picciaredda- Selicato, I tributi cit., pp. 118-119 78 collegamento diretto tra l’obbligo di versare il tributo e la prestazione di un pubblico servizio diretto alla tutela del patrimonio ambientale compromesso dall’azione del contribuente.217 In tal senso risulta determinante il richiamo a tre concomitanti ordini di considerazioni: a) da un lato, che nella assunzione del fatto economico da porre a presupposto dell’imposizione il legislatore ordinario è libero di seguire le proprie valutazioni, secondo una progressiva evoluzione del principio di capacità contributiva che adegua il processo di individuazione della base dell’imposizione ai mutamenti del sostrato economico, politico e sociale;218 b) da un altro lato, che il principio comunitario chi inquina paga contenuto nell’art. 170 del trattato di Roma può considerarsi, per il processo di adattamento del diritto interno al diritto internazionale pattizio219, come “costituzionalizzato”220. Ciò posto, tale principio può essere assunto a fondamento dell’ordinamento interno e, di conseguenza, può concorrere a promuovere quella normazione evolutiva del presupposto dell’imposizione di cui già si è fatto cenno;221 c) infine, che nella definizione della fattispecie imponibile il legislatore, nel 217 Questa ipotesi darebbe luogo ad un tributo di tipo tassa o, ancora, ad un vero e proprio corrispettivo di una prestazione di servizi. 218 E’ opinione consolidata che l’art. 53 Cost. lasci ampi spazi al legislatore tributario nella corretta determinazione del contenuto del principio di capacità contributiva (in tal senso Moschetti, La capacità contributiva cit., p. 230 Batistoni Ferrara, Art. 53, in Commentario cit., p. 13, sulla scorta di un’accurata analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale deduce che la definizione da parte del legislatore ordinario della nozione di capacità contributiva assunta a presupposto dell’imposizione nel singolo caso concreto è esente dal sindacato di legittimità in ordine “all’entità ed alla proporzionalità dell’onere tributario imposto”, dovendo il giudice delle leggi limitarsi ad accertare la conformità alla Costituzione della norma denunciata, unicamente “sotto il profilo dell’assoluta arbitrarietà o irrazionalità delle norme”. 219 Sul problema dell’adattamento del diritto interno al diritto internazionale si veda Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, II, p. 1481 220 Il termine è usato da Greco, Nascita cit., p. 27, il quale ritiene che “la costituzionalizzazione riguarderebbe anche l’ordinamento italiano in quanto il principio andrebbe a far parte dei limiti posti legislativamente ai diritti di cui agli artt. 41 e 42”. 221 Dalla dottrina più recente è stato portato avanti con successo il tentativo di conciliare il precetto dell’art. 53 con i principi fondamentali del trattato di Roma. In tal senso cfr. Braccioni, Capacità contributiva e principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, in Dir. prat. trib., I, 1989, pp. 1137 e ss. 79 ricercare le situazioni economiche meritevoli di considerazione ai fini della valutazione del principio di capacità contributiva, può rivolgere la propria attenzione ai numerosi valori oggetto di tutela in altre norme costituzionali, tra i quali compare, come già chiarito, anche il rispetto del bene – ambiente in tutte le sue manifestazioni.222 Si è dimostrato come l’uso di tributi ambientali può essere utile a fungere da richiamo a tassazione di nuove forme di manifestazione della capacità contributiva, in una sorta di “dipendenza rovesciata”.223 E’ necessario, tuttavia, analizzare un’ulteriore prospettiva riguardante la dinamica attuativa di un simile genere di prelievi. Da questo punto di vista, in verità, dobbiamo osservare che, pur essendo senz’altro compatibili con il nostro ordinamento costituzionale, le forme di tassazione ambientale poc’anzi ipotizzate appaiono, almeno per il momento, difficilmente realizzabili. La complessità delle rilevazioni necessarie a determinare la base imponibile di un nuovo tributo basato sul consumo individuale di energia non è in alcun modo compatibile con i consueti schemi del procedimento di imposizione e sovvertirebbe completamente i sistemi di dichiarazione, controllo e accertamento oggi esistenti. Tuttavia, pur non potendo ipotizzarsi l’introduzione a breve di un’imposta personale sul livello globale dei consumi di energia da sostituire all’IRE, “si potrebbe almeno attuare in via immediata una integrazione tra imposizione personale sui redditi e imposizione ambientale, limitando quest’ultima ai soli consumi energetici collegati a reti di distribuzione capillari (acqua, elettricità, gas). Così facendo, si potrebbe ridurre l’incidenza dell’IRE compensando la relativa diminuzione di gettito con l’introduzione di un tributo da calcolarsi in proporzione 222 Precisi riferimenti ai rapporti tra l’art. 53 e gli altri valori costituzionalmente garantiti possono essere desunti da quanto osserva A. Amatucci, Qualità della vita cit., p. 412, il quale, accogliendo la nozione giuridica di ambiente qui delineata con riferimento agli articoli 9 e 32 della Costituzione, afferma che “la tutela degli interessi diffusi in materia ambientale, in quanto indirettamente garantiti da altre norme costituzionali, si pone accanto al fine del finanziamento delle spese pubbliche, cui tutti sono tenuti in ragione della loro capacità contributiva”. 223 Locuzione usata da P. Selicato, Fiscalità ambientale e Costituzione, in Picciaredda-Selicato, I tributi cit., p. 122 80 ai detti consumi energetici le cui modalità di accertamento sarebbero estremamente semplici e sicure, basandosi sulle rilevazioni a contatore. L’adozione di questo nuovo strumento tributario sarebbe certamente accolta con favore dai contribuenti, essendo ormai ampiamente diffuso in diversi strati sociali il rifiuto, sotto il profilo dell’equità sostanziale, del sistema progressivo disegnato con l’IRE, divenuto odioso sia per il notevole innalzamento della curva effettiva delle aliquote, sia per le notevoli sacche di evasione che in esso si annidano”.224 3 L’introduzione di tributi ambientali e la progressività del sistema fiscale Altro profilo dei rapporti tra la fiscalità ambientale e la Costituzione è quello concernente la possibilità di conciliare un sistema fiscale ecocompatibile con il principio di progressività225 sancito dall’art. 53, comma 2, della Costituzione. Da questo punto di vista, non è mancato chi ha evidenziato gli “effetti distorsivi prodotti da una progressività concentrata essenzialmente nella struttura delle aliquote dell’imposta personale sul reddito”.226 La dottrina, nell’esaminare il contenuto dell’art. 53 Cost., ne ha evidenziato il ruolo di garanzia e di limite al legislatore, lasciando in ombra l’indagine sulle conseguenze di fatto, anche economiche e distributive, delle norme finanziarie.227 Questo indirizzo, tendenzialmente svalutativo della effettiva portata dell’art. 53 Cost., in parte favorito da una eccessiva propensione della Corte Costituzionale ad autolimitare la propria sfera d’indagine per non incidere sulla discrezionalità 224 Così P. Selicato, Fiscalità ambientale e Costituzione, in Picciaredda-Selicato, I tributi cit., p. 123 225 Con riferimento al criterio di progressività quale principio cui deve improntarsi il sistema tributario nel suo complesso, si veda Forte, Il problema della progressività con particolare riguardo al sistema tributario italiano, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1952, I, pp. 301 e ss.; Greco, Capacità contributiva e progressività del sistema tributario con riferimento all’art. 53 della Costituzione italiana, in Giur. it., 1955, I, pp. 387 e ss.; Giorgetti, I principi tributari della nuova Costituzione italiana, in Il risparmio, 1956, pp. 530 e ss.; Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1989, pp. 84 e ss. In prospettiva critico – evolutiva si veda da ultimo Tremonti G., La crisi dell’imposizione personale progressiva e gli strumenti giuridici utilizzati e utilizzabili, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1984, I, pp. 89 e ss. 226 Così Perrone Capano, L’imposizione cit., p. 455 227 Su tale ordine di argomentazioni si veda Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposta tributaria, Torino, 1991; De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1987; Manzoni, Imposizione fiscale. Diritti di libertà e garanzie costituzionali, in Studi in onore di E. Allorio, Milano, 1989 81 legislativa, è stato accompagnato in genere da una scarsa attenzione al valore giuridico del principio di progressività, la cui attuazione costituirebbe una manifestazione tipica di esercizio del potere discrezionale del legislatore. Il principio avrebbe quindi natura essenzialmente programmatica in quanto rivolto al legislatore e sarebbe insuscettibile, per il suo carattere generico, di comportare violazioni che conducano ad una declaratoria di illegittimità da parte della Corte Costituzionale.228 Ad un primo esame la disposizione in parola ha effettivamente un carattere di indeterminatezza, insito soprattutto nel fatto che i “criteri di progressività” sono riferiti dal costituente al “sistema tributario” e non alle singole imposte, riducendone la portata almeno sotto il profilo dell’ambito di esercizio del sindacato di legittimità. La conseguenza di tale orientamento è che il secondo comma dell’art. 53 Cost. “esprime unicamente una linea di tendenza ed è, di fatto, inapplicabile, non essendo ipotizzabile la contestuale devoluzione al giudice delle leggi della verifica di costituzionalità delle norme disciplinanti la misura delle aliquote di tutti i tributi esistenti”.229 A parte una siffatta preclusione alla concreta possibilità di sollevare la relativa eccezione, va osservato che l’introduzione di tributi ambientali non ostacola la progressività del sistema, anzi può favorirla. Per comprendere pienamente tale affermazione si deve ricordare che il principio di progressività rappresenta un elemento di caratterizzazione del concorso alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva e che la scelta del Costituente di ricorrere ad una “pluralità di criteri” per la progressività del sistema consente di ritenere che, proprio attraverso la portata giuridica di tale principio, è possibile affrontare in termini concreti il tema dell’adeguamento dell’ordinamento tributario alle trasformazioni della società contemporanea.230 228 Per un’analisi critica della progressività si rinvia a Marongiu, I fondamenti cit.; Abbamonte, Principi di diritto finanziario, Napoli, 1975 229 Così P. Selicato, Fiscalità ambientale e Costituzione, in Picciaredda-Selicato, I tributi cit., p. 124 230 “Poiché, ai sensi dell’art. 53 Cost. la progressività è l’elemento che qualifica in senso redistributivo la capacità contributiva, la delimitazione dell’operatività e della portata giuridica del principio di progressività è essenziale per affrontare in termini concreti il tema dell’adeguamento del sistema tributario alle trasformazioni della società contemporanea. 82 Per tale motivo, non è detto che per realizzare la progressività del sistema si debba ricorrere soltanto al tradizionale criterio dell’imposizione sul reddito personale complessivo determinato su base globale ed assoggettato ad importo con aliquote crescenti.231 Si potrebbe raggiungere l’obiettivo anche eliminando (o diminuendo notevolmente) la progressività dell’IRE ed associando a tale prelievo un’imposta generale sui consumi individuali di energia. Tale tipo di tributo si distingue nettamente dalle tradizionali tasse ambientali232, poiché assume a suo presupposto il consumo globale di energia di ciascun soggetto passivo. Sotto il profilo economico, un siffatto indice è altamente qualificativo del livello di ricchezza del contribuente, poiché, in una concezione moderna, la consistenza patrimoniale di un soggetto non è costituita semplicemente dal valore dei singoli elementi che la compongono (reddito, patrimonio, consumo), ma va integrata dal livello di benessere di cui ciascun soggetto può disporre, del quale i consumi energetici sono un fondamentale indicatore. D’altra parte “la spinta all’immobilismo”233 rappresentata dall’elevato gettito prodotto dalle principali imposte costituisce un vincolo molto forte rispetto alla necessità di riformare il sistema per adattarlo alle profonde trasformazioni della società contemporanea ed inoltre si pone come freno in relazione all’opportunità di impiegare lo strumento fiscale per cercare di rispondere alle nuove priorità sociali emergenti, quali il riequilibrio territoriale e la salvaguardia ambientale.234 Questione questa di grande rilievo ai fini dell’indagine sulla possibilità di introdurre nel nostro sistema tributario, accanto alle tradizionali tasse ecologiche, anche un’imposta ambientale a carattere generale”, così Perrone Capano, L’imposizione cit., p. 457 231 Criterio che, come già detto, è unanimemente ritenuto inidoneo allo scopo per le consistenti difficoltà attuative che lo caratterizzano. 232 Oltre alle tasse in senso stretto, si fa riferimento anche alle varie imposte indirette di fabbricazione e sui consumi caratterizzate dal fattore ambientale, altrimenti note come accise. 233 La locuzione è di Perrone Capano, L’imposizione cit., p. 461 234 “La rigidità delle politiche di bilancio, particolarmente accentuata in Italia dal peso degli oneri per il servizio del debito pubblico e dai vincoli che irrigidiscono la spesa pubblica, sembra favorire anche in campo fiscale l’immobilismo. Tuttavia pure all’interno di una realtà di bilancio molto rigida che non consente nel medio periodo riduzioni della pressione fiscale, ritengo che il problema di una revisione dell’imposizione personale, la quale tenga conto delle profonde modificazioni intervenute nella distribuzione dei redditi nell’ultimo quarto di secolo, sia ormai ineludibile. 83 In questi settori infatti le politiche fiscali per essere efficaci devono non solo non essere episodiche, ma devono essere strutturate in modo da coinvolgere la cittadinanza e produrre un gettito consistente. Tutto questo crea, rebus sic stantibus, forti resistenze nell’opinione pubblica all’introduzione di nuovi strumenti di prelievo e quindi ulteriori spinte all’immobilismo. Va comunque osservato che, anche attraverso l’adozione di tributi ambientali di tipo tradizionale (l’imposizione alla produzione o al consumo di particolari prodotti), si può consentire il mantenimento di un adeguato livello di progressività. Ed infatti, negli studi di scienza delle finanze si è da tempo dimostrato che è possibile realizzare la progressività anche attraverso un particolare uso dell’imposizione indiretta, abbinato all’applicazione di detrazioni d’imposta o altri incentivi ad esso opportunamente collegati, in grado di compensare il carattere regressivo del prelievo indiretto con una più accentuata progressività delle imposte dirette. Con riferimento all’ambiente, è ben noto che i maggiori consumatori di energia (carburanti per auto, elettricità, riscaldamento)sono i componenti dei ceti più agiati. Pertanto, l’introduzione di imposte indirette su tali tipi di consumi, la quale non sempre consente di collegare agevolmente fasce di esenzione o di riduzione per i consumi vitali, andrebbe ad incidere maggiormente su tali soggetti. A questo specifico riguardo, d’altro canto, è stato proposto di realizzare la progressività attraverso l’integrazione tra imposizione diretta ed imposizione ambientale di tipo indiretto, prevedendo l’introduzione di franchigie e deduzioni dall’imposta personale sul reddito.235 Le distorsioni del nostro sistema tributario interagiscono infatti non solo sul sistema produttivo, ma hanno anche effetti negativi sulla politica monetaria, sui tassi d’interesse e quindi sulla spesa pubblica”, così Perrone Capano, L’imposizione cit., p. 461 235 “L’integrazione di imposte sui consumi assimilabili ad imposte reali, quali quelle sulle fonti energetiche, con i redditi personali e di impresa, attraverso la previsione di franchigie e deduzioni delle imposte sull’energia graduate in funzione dei livelli di reddito, consente infatti di introdurre nelle imposte sui redditi, nuovi criteri di progressività più aderenti alla situazione personale del contribuente, con riflessi sotto il profilo distributivo assai più equilibrati e soddisfacenti di quelli ottenibili con l’impiego delle sole aliquote progressive, che spesso a causa del livello troppo 84 Tale operazione sarà in grado di compensare con una più accentuata progressività di tale tributo il carattere regressivo del prelievo ambientale indiretto. Il raccordo tra le imposte energetiche e l’imposizione sui redditi personali e di impresa, attraverso indici di riferimento e parametri di deduzione personalizzati, consente d’altra parte di caratterizzare in senso ecologico il sistema fiscale, senza perdere di vista gli obiettivi di eguaglianza e redistribuzione presenti nelle costituzioni contemporanee. 4 L’imposta ambientale quale nuova espressione del dovere di solidarietà economica Il fondamento costituzionale dell’imposizione ambientale ha trovato ulteriori conferme nelle argomentazioni prospettate da una parte autorevole della dottrina, la quale, per difendere la legittimità dell’IRAP, ha sostenuto che il tributo sia fondato non solo su “indici patrimoniali selezionati dal mercato attraverso una valutazione di economicità” (quali il patrimonio, il reddito, il consumo) ma anche su situazioni quali le “attività del soggetto passivo oggettivamente rilevabili e socialmente rilevanti per la loro attitudine ad incidere in modo significativo nei rapporti intersoggettivi”.236 Ciò accade per le attività di impresa e di lavoro autonomo nei confronti dei fattori della produzione sui quali esercitano il loro “dominio”, a prescindere dal ritorno economico che da queste possa derivare direttamente al soggetto che ne è titolare.237 E’ stato così legittimato il concorso alle pubbliche spese dei soggetti “che si trovano, nella fruizione di determinati beni sociali, rispetto ad altri, in una posizione di vantaggio (e quindi migliore) senza che tale vantaggio si risolva necessariamente, in termini assoluti, in un loro arricchimento patrimoniale dato da elevato, determinano fughe dall’imposta con effetti errati e distorti”, così Perrone Capano, L’imposizione cit., p. 503 236 Così Gallo, L’imposta regionale sulle attività produttive e la capacità contributiva, in Giur. comm., I, 2002, pp. 141-143 237 Sul punto Batistoni Ferrara, Capacità contributiva, in Enc. dir., Milano, agg. 1999, pp. 345 e ss. 85 entità scambiabili nel mercato”.238 Anche con riferimento al fattore ambientale può individuarsi in capo ad un soggetto determinato la titolarità di un’autonoma fonte di ricchezza diversa da quelle di tipo tradizionale (acquisita dall’esterno nel caso delle risorse naturali non rinnovabili, autoprodotta nel caso dell’organizzazione d’impresa) che colloca il soggetto che ne è titolare in quella posizione di vantaggio che costituisce, nel caso di specie, l’indice di capacità contributiva. Anzi, nei tributi che sono stati definiti ambientali in senso moderno non sorgono nemmeno le preoccupazioni emerse con riferimento al contenuto non strettamente patrimoniale del presupposto dell’IRAP, che hanno portato a giustificare prelievi nei quali la persona viene vista come il centro di imputazione di “posizioni, valori, capacitazioni solo socialmente rilevanti”, ritenute idonee di per sé a costituire il presupposto di un tributo, all’unica condizione che siano “economicamente misurabili e rispondenti al principio di uguaglianza tributaria”.239 Del resto, come è stato autorevolmente rilevato, la nostra Corte Costituzionale ha già individuato in ripetute occasioni indici di capacità contributiva fondati su fatti “rivelatori od espressivi di ricchezza in senso lato”, portatori di una vis economica idonea a fornire al contribuente i mezzi finanziari necessari all’assolvimento del tributo, in quanto rappresentativa di per sé di “un’attitudine giuridico – economica alla contribuzione”.240 Su queste basi, la Consulta ha poi riscontrato la presenza di tale attitudine anche in un tributo come l’IRAP241, che assume ad indice di capacità contributiva “la 238 Così Gallo. L’imposta regionale cit., p. 135 Per queste considerazioni a proposito dell’IRAP, ancora Gallo, L’imposta regionale cit., p. 139 240 Malvezzi, Una nota sul principio di capacità contributiva e l’imposta regionale sulle attività produttive, in Riv. dir. fin. sc. fin., fasc. 4, 1999, p. 554, a conferma della sua posizione, cita le sentenze della Corte Costituzionale n. 315/1994 (nella quale, con riferimento all’imposizione sostitutiva sulle indennità da esproprio di cui all’art. 11 della legge 30 dicembre 1991 n. 413, si è affermato che la capacità contributiva è correlata “non già alla concreta situazione del singolo contribuente, bensì al presupposto economico al quale la prestazione è collegata”), n. 143/1995 e n. 73/1996 (entrambe relative all’imposta sostitutiva sui depositi bancari e postali di cui all’art. 7 del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, nelle quali viene osservato che la capacità contributiva “va, in linea di principio, ravvisata in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità sotto il profilo dell’arbitrarietà e irrazionalità”). 241 Per una più approfondita analisi di tale argomento si rinvia a: Angelini G. – Croce G., La Consulta afferma la legittimità dell’IRAP, in Il nuovo diritto, 2001, fasc. 9, pp. 873 e ss.; Basilavecchia M., Sulla costituzionalità dell’IRAP: un’occasione non del tutto perduta, in Rass. trib., 2002, fasc. 1, pp. 292 e ss.; Batistoni Ferrara F., Prime impressioni sul salvataggio 239 86 misurazione della gamma di poteri di management dell’imprenditore o del professionista” dai quali si sviluppa la “creazione di nuova ricchezza”.242 In epoca più recente la richiamata evoluzione della giurisprudenza costituzionale è stata anche ritenuta idonea243 a giustificare altri tipi di imposizione basati su indici di ricchezza non tradizionali, come quelle sulle new properties o sullo sfruttamento di internet (la cd. bit tax), di cui è stata prospettata recentemente l’introduzione sulla base del valore attribuibile alle informazioni che circolano nella rete e nella capacità di trarne profitto manifestata da coloro che le acquisiscono.244 E’ interessante constatare che, per giustificare l’ipotesi di una nuova forma di tassazione dei flussi informatici, coloro che per primi l’hanno elaborata245 si sono dell’IRAP, in Rass. trib., 2001, fasc. 3, pp. 860 e ss.; Bodrito A., La Corte costituzionale si pronuncia sull’IRAP, in Corr. trib., 2001, fasc. 26, pp. 1969 e ss.; Bonazza P., IRAP, principio di capacità contributiva e Corte costituzionale, in Boll. trib., 2002, fasc. 21, pp. 1549 e ss.; Brighenti F., La Corte costituzionale esclude dall’IRAP i professionisti “non organizzati”. Appunti a margine della sentenza n. 156/2001 della Corte costituzionale, in Boll. trib., 2001, fasc. 12, pp. 893 e ss.; Castaldi L., Considerazioni a margine della sentenza n. 156 del 2001 della Corte costituzionale in materia di IRAP, in Rass. trib., 2002, fasc. 3, pp. 856 e ss.; Corasaniti G., IRAP: gli elementi della fattispecie imponibile, la giustificazione costituzionale e la graduale abrogazione, in Dir. e prat. trib., 2001, fasc. 6, pp. 971 e ss.; Ferlazzo Natoli L., La Consulta salva l’IRAP?, in Boll. trib., 2001, fasc. 12, pp. 891 e ss.; Marongiu G., IRAP, lavoro autonomo e Corte costituzionale: le possibili conseguenze pratiche, in Dir. e prat. trib., 2001, fasc. 4, pp. 666 e ss.; Perrucci U., Professionisti e IRAP dopo la sentenza della Corte costituzionale, in Boll. trib., 2002, fasc. 5, pp. 337 e ss.; Schiavolin R., Prime osservazioni sull’affermata legittimità costituzionale dell’imposta regionale sulle attività produttive, in Giur. it., 2001, fasc. 10, pp. 1979 e ss. Sul tema si evidenzia altresì il contributo di Fedele A., Prime osservazioni in tema di IRAP, in Riv. dir. trib., 1998, I, pp. 453 e ss. 242 Ancora Malvezzi, Una nota cit., pp. 556-557 243 Da parte di Di Giovanni, Imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), in Enc. giur., vol. XVI, Roma, agg. 2002, p. 5 244 Per una ricostruzione delle tappe del dibattito sviluppatosi sull’introduzione della bit tax nelle istituzioni comunitarie e negli organismi internazionali, si veda Valente-Roccatagliata, Bit tax, ultima frontiera nella società dell’informazione?, in il fisco, 1999, pp. 5514 e ss. In argomento anche Uricchio, Pubblicità on line e imposizione locale, in Boll. trib., 2001, fasc. 3, pp. 166 e ss. 245 La prima ipotesi di una nuova forma di tassazione dei flussi informatici viene fatta risalire ad Arthur Cordell, un economista canadese che la presentò per la prima volta ad un convegno nel 1994. Per una completa analisi della tesi cfr. Cordell, New taxes for a new economy, in Government Information in Canada, vol. 2, n. 4.2, primavera 1996. L’idea di una nuova forma di flussi telematici fu anche affermata dall’High Level Group of Experts (HGL) nominato dalla Commissione Europea nel 1995, che ha concluso i suoi lavori circa due anni dopo rilasciando la Raccomandazione n. 8 (“Mantenere i cespiti fiscali nazionali in un contesto che diventa via via più globale”), citata integralmente da Valente-Roccatagliata, Bit tax cit., p. 5517, nella quale si suggeriva di “prendere in esame l’eventualità di condurre ricerche su sistemi alternativi di tassazione” e si osservava che “la bit tax potrebbe costituire una di queste alternative”, pur riconoscendosi che “la sua configurazione e la sua attuazione richiedono uno studio più approfondito. 87 rifatti all’opera di Adam Smith246, il quale, sostenendo già due secoli fa che la ricchezza di uno Stato non si misura dall’oro che possiede ma dalla sua capacità di organizzare il lavoro e dalle dimensioni del suo mercato, può essere considerato il fautore ante litteram di un’idea di ricchezza svincolata dai canoni tradizionali247 e basata, per contro, sulla capacità degli imprenditori di realizzare con la loro organizzazione miglioramenti nello svolgimento delle proprie attività produttive.248 I fautori della bit tax hanno osservato che, ai nostri giorni, agli elementi considerati dallo Smith devono essere aggiunte la conoscenza, l’informazione e la comunicazione che scorrono lungo le nuove “autostrade digitali”249, osservando che la nuova forma di imposizione potrebbe essere lo strumento per colpire la ricchezza creata dalla new economy in un momento storico nel quale è necessario ripensare all’intero sistema economico, sia con riferimento all’uso del rapporto d’impiego come metodo di distribuzione dei redditi, sia con riferimento ad una crescita economica sempre più energy – intensive in tempi di sempre più ridotte risorse ambientali.250 Una conferma della validità di queste riflessioni proviene, poi, dai più accreditati orientamenti del pensiero economico – liberale del novecento, dalle cui teorie è scaturita l’idea che la libertà sia, di per sé, un valore da perseguire e non un mezzo per raggiungere altri fini, quali il funzionamento dei mercati o l’efficienza economica e che, anzi, è il mercato a generare libertà, producendo così nuovi 246 Smith, An inquiry into the nature and causes of the wealth of Nations, Londra, 1776, tradotto da Alberto Campolongo, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Torino, 1950 247 Secondo Smith, An inquiry cit., p. 3, il fatto che una nazione sia “meglio o peggio provveduta” dipende principalmente “dall’abilità, dalla destrezza e dal giudizio con cui il suo lavoro è generalmente adoperato”. 248 Anche in un contesto economico – sociale e tecnologico molto meno evoluto di quello odierno, Smith, An inquiry cit., pp. 227-231, si rese conto che “in conseguenza dell’uso di migliori macchine, di una maggiore destrezza e di una migliore divisione e distribuzione del lavoro, le quali cose sono tutte gli effetti naturali del progresso, diviene necessaria una minore quantità di lavoro per eseguire un qualsiasi lavoro dato” e che “qualunque miglioramento delle condizioni della società tende direttamente o indirettamente ad elevare la rendita reale delle terra ed accrescere la ricchezza reale del proprietario”. 249 Cordell, New taxes cit., ha osservato che “the new wealth of nations is to be found in the trillions of digital bits of information pulsing through global networks”, aggiungendo che “digital flows are the new elements of production”. 250 P. Selicato, La tassazione ambientale cit., pp. 257 e ss. 88 valori individuali.251 In questa prospettiva l’indagine sull’esito dei processi di mercato deve oltrepassare la mera constatazione della loro capacità di generare nuova ricchezza negli individui, al fine di valutare il progresso nelle libertà individuali conquistate a beneficio dell’intera collettività.252 Anche da questo particolare punto di vista, pertanto, si ricava la conferma che tutte le posizioni individuali dalle quali scaturiscono situazioni di controllo della produzione e del mercato (come, ad esempio, le nuove tecnologie, l’ideazione di nuovi modelli e processi produttivi, l’organizzazione dei fattori produttivi o lo sfruttamento di risorse ambientali scarse) siano sintomi di ricchezza suscettibili di imposizione. Ad onor del vero, la proposta dell’introduzione della bit tax non ha trovato il favore della dottrina253 ed è stata accantonata dalle istituzioni comunitarie254. Tuttavia, le critiche che le sono state mosse non scalfiscono in alcun modo la 251 Così Von Hayek, La via della schiavitù, traduzione italiana di Dario Antiseri e Raffaele De Mucci con introduzione di Antonio Martino, Milano, 1995. Secondo Martino, Introduzione cit., p. 5, la pubblicazione nel 1994 dell’opera di Von Hayek nella sua versione originale (intitolata The road to serfdom) ha rappresentato una pietra miliare nella storia del liberalismo, “perché è dalla pubblicazione di quel volumetto che ha inizio il rinascimento liberale che ha caratterizzato la storia dell’ultimo mezzo secolo e che ha portato il liberalismo classico da minoranza isolata ad un ruolo di avanguardia nel dibattito politico contemporaneo”. 252 Nel delineare la sua tesi, Von Hayek, La via cit., p. 61, si riallaccia a quel processo sviluppatosi nell’era rinascimentale di “liberazione dell’individuo dalle catene che lo avevano legato, nel compimento delle sue attività ordinarie, ai modi di fare trasmessi dalla consuetudine o imposti da prescrizioni” nel precedente periodo medioevale. Tale processo è ritenuto simile ad una “strada abbandonata” nella successiva evoluzione sociale, culminata con l’avvento dei regimi totalitaristi della prima metà del ventesimo secolo. Va sottolineato che Von Hayek conduce la propria indagine nell’ottica di una serrata critica ai sistemi politici socialisti basati sulla pianificazione delle attività economiche, che giudica portatori di “catene”, intese come costrizioni e limiti alla libera espressione dell’individuo, non soltanto sul piano economico (e, dunque, generatori di una nuova forma di schiavitù) 253 Decisamente contrario è in proposito il giudizio di Gambarino, Nuove dimensioni della transnazionalità dell’imposizione, in AA.VV, L’evoluzione dell’ordinamento italiano, Atti del convegno su I settanta anni di “Diritto e pratica tributaria”, Padova, 2000 Anche Valente-Roccatagliata, Bit tax cit., pp. 5523-5524, hanno concluso col ritenere inopportuna l’introduzione del nuovo tributo. Da parte di Uricchio, Pubblicità cit., p. 166, non si esclude, invece, che in un prossimo futuro siano adottate forme di imposizione del tipo ipotizzato. Più propenso ad analizzare in un’ottica meno ristretta le prospettive offerte dalle nuove tecnologie, Marello, Le categorie tradizionali di diritto tributario ed il commercio elettronico, in Riv. dir. trib., I, 1995, pp. 595 e ss. 254 Analizzando in modo approfondito le problematiche fiscali generate dal crescente impiego dei mezzi telematici, la Commissione Europea, Un’iniziativa europea in materia di commercio elettronico, COM(97)157 del 15 aprile 1997, anche in contrasto con la Raccomandazione dell’HGL, ha scartato l’istituzione di un tributo del tipo della bit tax nel convincimento che “una simile azione sarebbe inutile perché tutte le transazioni elettroniche sono già soggette ad IVA”. 89 costruzione teorica sulla quale è stata fondata la definizione del suo presupposto, essendo riferite unicamente alla adeguatezza di un simile rimedio rispetto al fine di contrastare l’evasione che può svilupparsi con l’ausilio dei mezzi informatici. Inoltre non intaccano l’idea di fondo che sta alla base di un tributo del tipo della bit tax, costituita dall’attribuzione di un valore economico al potere di acquisire, elaborare, trasmettere e, in generale, gestire informazioni con l’ausilio dei mezzi telematici. Ad un’attenta analisi, tale potere non è molto differente da quel dominio sui fattori produttivi che è stato individuato e legittimato a presupposto dell’IRAP né, infine, da quel potere di controllo delle risorse naturali scarse che si è sopra indicato come presupposto di un nuovo tributo ambientale. Una volta superato lo scoglio della doverosa riferibilità del tributo ad indici di ricchezza di tipo tradizionale, è necessario accertare se esiste un nesso tra i detti indici e il soggetto passivo. Nei tributi nei quali si assume a presupposto l’acquisizione da parte del privato di risorse ambientali, al vantaggio ricavato dal contribuente è riconducibile con certezza un preciso valore economico (quello determinato sulla base della capacità del soggetto inquinatore di fare propria l’esternalità), nei cui confronti può dirsi realizzato il requisito dell’”appartenenza”, richiesto dall’art. 53 della nostra Costituzione come elemento essenziale di ogni presupposto impositivo255 e rinvenuto dalla Corte Costituzionale nel collegamento di un indice rivelatore di ricchezza con l’idoneità del soggetto a concorrere alle pubbliche spese.256 E’ proprio l’indagine sull’esistenza del requisito dell’appartenenza, del resto, a porre in luce le caratteristiche oggettive del presupposto dei tributi basati su indici di ricchezza non tradizionali. Infatti, in questi casi non si tratta tanto di chiarire se esiste una situazione di appartenenza, ma su cosa tale situazione si manifesta e chi sia il soggetto che ne è giuridicamente il titolare. Ad esempio, non appartiene all’imprenditore né il reddito del personale impiegato 255 A questo proposito Gallo, L’imposta regionale cit., p. 139, pur rifiutando una lettura del concetto di appartenenza “in una mera ottica patrimoniale”, non esclude l’esigenza di verificare l’esistenza di un effettivo legame tra il presupposto ed il soggetto passivo. 256 Si veda in tal senso la sentenza n. 156/2001 cit., con la quale la Consulta ha riconosciuto la legittimità dell’IRAP. 90 alle dipendenze dell’impresa né quello dei suoi finanziatori, ma è certamente compresa nel dominio dell’imprenditore l’organizzazione dell’impresa complessivamente considerata, che implica poteri di coordinamento, direzione e controllo sui fattori produttivi costituiti da beni e servizi economicamente valutabili. Allo stesso modo, non appartiene di certo all’inquinatore il patrimonio ambientale complessivamente considerato, ma egli è in grado di esercitare il proprio dominio sulla parte di questo che, in virtù della posizione di vantaggio di cui gode, gli consente di soddisfare meglio i propri bisogni (di produttore o di consumatore).257 Non è un caso, inoltre, che (per quanto riguarda le attività produttive ma anche quelle di consumo) sia proprio l’organizzazione a costituire lo strumento per ottenere il dominio sull’ambiente e per consentire quella fruizione individuale delle risorse ambientali suscettibile di costituire un indice di ricchezza valutabile ai fini del concorso del privato alle spese pubbliche. Del resto, secondo le più recenti teorie economiche, alla base del principio comunitario chi inquina paga non sta la condanna morale del produttore – inquinatore, il quale non fa altro che svolgere le sue attività istituzionali nel contesto dei condizionamenti propri di un mercato competitivo. Piuttosto, il motivo per il quale tali soggetti vengono chiamati a far fronte in vario modo (anche con prelievi fiscali) ai costi dell’inquinamento, “sta nel fatto che il produttore – inquinatore controlla direttamente gestione e tecnologie d’impresa, sicchè è in grado di modificarle per raggiungere al costo minimo gli obiettivi ambientali fissati dall’operatore pubblico”.258 257 L’attribuzione di un valore economico all’ambiente viene favorita dalle recenti tendenze evolutive che hanno investito il concetto di proprietà estendendolo a nuovi beni giuridici nati da nuove situazioni, nuovi bisogni, nuovi prodotti, fino al punto di iniziare a parlare di new properties. Per queste riflessioni cfr. Jacometti, Rivalutazione degli strumenti proprietari a tutela dell’ambiente, in Riv. giur. amb., 2003, pp. 275 e ss. 258 Così Gerelli, Reputazione ambientale e competitività non di prezzo, in Riv. dir. fin. sc. fin., I, 2002, p. 712 91 5 Sul riparto delle competenze in tema di ambiente dopo la riforma del titolo V della Parte Seconda della Costituzione Come è noto la Carta Costituzionale italiana ha subito importanti modifiche ad opera della legge n. 3 del 18 ottobre 2001 che ha profondamente modificato il Titolo V. La riforma ha riarticolato l’assetto dello Stato in ottica federale ripartendo la competenza fra Stato e Regioni ed identificando le materie di legislazione esclusiva dello Stato e le materie di legislazione concorrente, lasciando poi tutte le materie residue alla legislazione esclusiva delle Regioni.259 Tra le materie che l’art. 117 della Costituzione riserva alla legislazione esclusiva dello Stato è prevista la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. In proposito emergono notevoli perplessità: con la disposizione di cui alla lettera s), del comma 2 dell’art. 117 della Costituzione, il legislatore costituzionale distingue tra l’aspetto della prevenzione dei danni, ossia la tutela dell’ambiente e dei beni culturali (che affida appunto alla legislazione statale) ed il profilo afferente la valorizzazione dei beni medesimi (oggetto di legislazione concorrente ex art. 117, comma 3, della Costituzione). Non è particolarmente chiara la finalità di questa differenziazione, risultando alquanto difficile distinguere i confini tra l’una e l’altra attività. A parte ciò, anche l’accentramento della tutela dell’ecosistema voluta dal legislatore costituzionale suscita qualche perplessità sul piano dei principi di competenza e sussidiarietà, risultando poco proficuo che lo Stato si occupi della tutela di tutti gli ecomicrosistemi, ed in particolare di quelli locali. In verità, la Corte Costituzionale260 ha precisato che “non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come materie in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie”. 259 Per un esame delle problematiche tributarie poste dai nuovi articoli 117 e 119 della Costituzione si veda Del Federico, L’autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni: riforma costituzionale e principi generali, in AA.VV., Gli studi di settore come strumento di politica federalista. Il ruolo della Regione”, a cura di P. V. Renzi, Milano, 2003, pp. 48 e ss. 260 Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 282 del 26 giugno 2002, in Dir. e giust., 2003, pp. 48 e ss. 92 In questo senso l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una materia in senso tecnico, qualificabile come “tutela dell’ambiente”, dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, in quanto si relaziona inevitabilmente con altri interessi ed altre variegate competenze. L’esigenza di coinvolgere i soggetti delle autonomie locali nei processi decisionali primari relativi all’ambiente discende in primo luogo dal fatto che spesso si riversano in ambito locale gli effetti delle principali problematiche ambientali. Tutto questo senza contare che, in via generale, trova sempre maggior credito il principio secondo cui “l’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere alle autorità più vicine ai cittadini”261. Proprio in occasione della modifica del Titolo V, il principio di sussidiarietà è stato costituzionalizzato nell’art. 118, comma 1, secondo cui “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. In tale ottica, per quanto riguarda il problema della tutela dell’ambiente, la ricostruzione più coerente del nuovo art. 117 della Costituzione appare quella che identifica accanto ad un settore materiale, oggettivamente riconducibile al concetto di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, il valore ambiente come obiettivo trasversale che taglia tutte le competenze legislative, regolamentari ed amministrative riconosciute ai vari livelli di governo. Rifacendosi alla portata trasversale del concetto è possibile collegare l’ambiente come valore costituzionale non solo a tutte le materie di competenza statale, ma anche a quelle di competenza regionale che risultino influenzate dalle esigenze di tutela di tale bene. Tutto ciò implica che “se le Regioni hanno la potestà legislativa esclusiva in materie di indubbio rilievo ai fini ambientali, quali, ad esempio, l’urbanistica, i trasporti, la viabilità, l’agricoltura, allora il legislatore regionale dovrebbe tenere conto anche del valore della tutela ambientale nel disciplinare siffatte materie”262. 261 Art. 4, comma 3, della Carta europea delle autonomie locali, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985. 262 Così C. Verrigni, La rilevanza cit., p. 1634 93 Tale interpretazione è avallata dalla giurisprudenza costituzionale. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell’ambiente come valore costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia trasversale, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali. Spetteranno allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale. I lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della Costituzione inducono, d’altra parte, a considerare come l’intento del legislatore costituzionale sia stato quello di riservare allo Stato il potere di fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali. Sembra quindi ragionevole ritenere che, laddove l’art. 117 della Costituzione parla di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, intenda fare riferimento a standards minimali di tutela riservati alla legislazione esclusiva dello Stato, mentre alle Regioni è implicitamente riconosciuta competenza legislativa esclusiva nei settori della “gestione dell’ambiente”, della “organizzazione dei servizi ambientali” e del “governo del territorio”. Così facendo le Regioni possono estendere la loro legislazione esclusiva in materia tributaria, notevolmente potenziata dal nuovo art. 119 della Costituzione, sino a delineare tributi ambientali regionali e/o locali attinenti alle suindicate materie ambientali che si collocano su un piano certamente distinto dalla “tutela dell’ambiente” in senso stretto. In tal senso, non sorgono, dunque, ostacoli alla realizzazione di tributi regionali ambientali. Occorre esaminare i tributi più congeniali alla finanza territoriale.263 In primo luogo i tributi di scopo, in cui è evidente la funzione del prelievo per la collettività locale. Analogamente i tributi paracommutativi, caratterizzati dalla correlazione fra 263 Cfr. M. Interdonato, Tributi regionali, in Riv. dir. trib., I, 1999, pp. 29 e ss. 94 prestazione pubblica e prelievo, permettono di sottoporre all’imposta coloro che fruiscono di beni e servizi pubblici. Infine, vi sono i tributi territoriali: tali tributi “risultano per loro natura, per le caratteristiche delle fattispecie imponibili, per il collegamento con le materie di legislazione esclusiva e con le funzioni amministrative delle Regioni e degli Enti locali, tendenzialmente estranei rispetto alle esigenze del coordinamento, della salvaguardia del sistema ex art. 53 e dell’ambito limitativo dei principi generali ex art. 117, comma 3 seconda parte, per cui concretano strumenti impositivi ottimali nell’ambito della finanza territoriale, attualmente già utilizzabili dalle Regioni nell’esercizio della loro piena potestà legislativa, anche in mancanza di leggi attuative della riforma del Titolo V”264. 264 La citazione è di Del Federico, Orientamenti di politica legislativa regionale in materia di tributi locali, in Fin. loc., 2003, p. 521 95 Capitolo III I singoli tributi con caratteristiche ambientali: tipologia e profili problematici Sommario: 1 Premessa; 2 I tributi ambientali erariali; 2.1 L’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica; 2.2 La tassazione sulle emissioni di anidride carbonica; 3 I tributi ambientali regionali; 3.1 L’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili; 3.2 Il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti; 4 I tributi ambientali degli enti locali; 4.1 La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani; 4.1.1 La singolare metamorfosi della tassa sui rifiuti in tariffa 1 Premessa Un aspetto saliente connesso alla tutela ambientale è rappresentato da un dualismo concettuale tra i modelli265 astrattamente ipotizzabili per una disciplina delle emissioni inquinanti (lato sensu intese) attraverso strumenti economici266. Questa struttura si articola sostanzialmente, secondo gli studi degli economisti, sia nella ricerca di metodi, che attraverso un monitoraggio statuale realizzato con l’imposizione di standards ambientali, consentono al mercato di pervenire ad una efficiente allocazione delle risorse, sia nell’analisi ricognitiva di efficaci misure di natura tributaria.267 265 Per una nozione di modello, in relazione alla tutela dell’ambiente, si rinvia a Di Robilant, Modelli nella filosofia del diritto, Bologna, 1968 266 Si veda l’analisi di Pierantoni, I soggetti e l’oggetto delle decisioni ambientali: un’analisi della domanda di ambiente in condizioni di incertezza, in Riv. dir. fin., 1996, I, pp. 53 e ss. 267 Una delle perplessità manifestate in ordine ad una disciplina che affida il controllo o la disincentivazione dei livelli di inquinamento ai tributi ambientali, si incentra nel timore di produrre “il declassamento del reato da penale ad amministrativo, con gravi conseguenze per il rispetto di norme che hanno solo da poco ottenuto una legittimazione di tipo etico”, così Bresso, Tasse ambientali per lo sviluppo sostenibile, in Economia delle fonti di energia e dell’ambiente, n. 1, 1993, pp. 69 e ss. Inoltre Burrows, The economic theory of pollution control, Oxford, 1979, pp. 134 e ss., ritiene che la reticenza all’istituzione delle green taxes è giustificata anche dalla convinzione che si introdurrebbe nell’ordinamento una dimensione supplementare all’evasione. Per converso non mancano opinioni improntate a riconoscere a simili tributi la funzione di strumento che migliora l’allocazione delle risorse (cfr. Beckerman, Pricing for pollution, Londra, 1975), ovvero una misura idonea a rendere più efficiente il sistema economico, giacchè verrebbero sensibilmente a ridursi le distorsioni derivanti dall’attuale struttura del sistema fiscale (cfr. Terkla, The efficient value of effluent tax revenues, in Journal of environmental economics and management, 1984, pp. 107 e ss. 96 Da questa originaria impostazione metodologica discendono poi ulteriori suddivisioni del sistema. Alcuni autori stimano le risorse ambientali di appartenenza privata, cosicché la funzione dello Stato è considerata di pura garanzia, esercitata mediante uno screening delle attività.268 Una diversa configurazione che qualifica, invece, le risorse ambientali di esclusiva competenza della collettività, presuppone da un lato la necessità di una regolamentazione pianificata del territorio, in ordine all’ottimo grado di utilizzazione, e dall’altro pone sotto l’egida dello Stato non solo il sindacato sulle emissioni inquinanti, ma principalmente la programmazione centralizzata dell’uso delle risorse stesse.269 Basti pensare, a questo proposito, tra gli schemi attuativi suggeriti (ed in alcuni casi concretamente applicati), alla teorizzazione di meccanismi economici di controllo dell’ambiente (stimati come soluzioni di second best) quali la vendita dei diritti di inquinamento, la cauzione ambientale, l’assicurazione ambientale ed altre ipotesi alternative all’introduzione di forme di prelievo spiccatamente fiscali.270 Come accennato in precedenza, una diversa ottica, fondata su differenti stili cognitivi, tende per converso ad individuare nell’introduzione di tributi ambientali, un efficace strumento per ottenere un deterrente alle emissioni 268 Il proposito di una applicazione delle garanzie tipiche della proprietà alle new properties, in correlazione con le nuove competenze e funzioni dello Stato contemporaneo, ha formato oggetto di un noto saggio di Reich, The new property, in Yale law journal, n. 73, 1964, pp. 733 e ss. Sul dibattito al riguardo si vedano per tutti i contributi di Tremonti, Il regime fiscale dei nuovi beni, in Dalla res alle new properties, Milano, 1991, pp. 91 e ss. 269 Sulla scelta degli strumenti economici più idonei si veda l’ampia analisi di Gerelli-Patrizii, La modulazione ambientale del sistema tributario: l’esempio della energia, in Tassazione consumo ambiente cit., pp. 105 e ss. 270 Il caso paradigmatico è rappresentato proprio dalla vendita dei diritti di inquinamento teorizzata da Dales, Pollution, property and prices, Toronto, 1968, che si fonda sostanzialmente su un modello che presuppone sia la titolarità di property rights, sia un assetto che lascia al libero mercato la regolamentazione delle emissioni inquinanti. Infatti tale metodo si fonda concretamente sulla preventiva fissazione, da parte dell’Amministrazione o di una specifica Authority a ciò preposta, di uno standard obiettivo ed insuperabile che rappresenta la soglia consentita di inquinamento con riferimento ad una precisa località. All’interno di questo limite globale gli operatori che intendessero superare il plafond loro attribuito dovrebbero acquistare altri permessi dalle imprese titolari di analoghi diritti, in una libera contrattazione tra le parti. Si verrà, quindi, a creare un vero e proprio mercato delle quote di inquinamento ammesso. 97 inquinanti.271 In questo alveo sembra collocarsi anche l’Italia sulla scorta di esperienze già acquisite in altri paesi, ordinate in un ampio studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) la quale ha vagliato una lata tipologia di ecotasse.272 A ben osservare, sembra che questa visione “ecologically correct”273 stia connotando l’attività parlamentare in fieri, posto che nelle ultime Legislature sono state presentate diverse proposte di legge finalizzate ad una tassazione delle fonti di energia. Fonti che nel nostro ordinamento sono assoggettate ad un regime di tassazione articolato su quattro gruppi principali di tributi che tendono a colpire i prodotti nella fase di circolazione e segnatamente: a) l’imposta di fabbricazione sugli oli minerali; b) le imposte sul gas metano (e relative addizionali); c) le imposte sull’energia elettrica (e relative addizionali); d) l’imposta sul valore aggiunto che colpisce le cessioni dei diversi prodotti energetici. D’altro canto la fisionomia di un futuro assetto tributario, tracciata nel “Libro bianco del nuovo fisco” presentato dall’ex Ministro delle Finanze Tremonti, individua in un Tributo generale sull’energia (TGE) una forma di tassazione energetica che dovrebbe: a) raggruppare le varie forme di accise e sovrimposte esistenti; b) unificare in un unico presupposto ed in un unico regime giuridico di applicazione, le diverse basi imponibili; 271 In particolare, coloro che si orientano verso formule di natura fiscale ritengono che una tassa ecologica rappresenta un’applicazione aderente al principio chi inquina paga, mentre, di converso, i fautori della regolamentazione qualificano l’introduzione di una tassa di tal fatta come una sorta di licenza ad inquinare. 272 Cfr. OECD, Problems of environmental economics, Parigi, 1989, dove viene rilevato che tutti gli strumenti adottabili presentano un effetto à rebours (nel senso di complessività attuative, costi amministrativi ed implicazioni nel commercio internazionale) che tende a rendere derealizzante un assetto della tutela ambientale che si fonda su strumenti di tal fatta. Con riguardo ai più recenti sviluppi della politica ambiental – tributaria dei paesi dell’OECD, si veda Gerelli, Così l’ecologia ridisegna le tasse, in Il sole 24 ore, 25 maggio 1995 273 La locuzione è di P. Selicato, I singoli tributi con caratteristiche ambientali, in PicciareddaSelicato, I tributi e l’ambiente cit., p. 143 98 c) coordinarsi con l’IVA.274 “Vi è in effetti una sorta di reticenza all’introduzione di ècotaxes, per il timore di un’alterazione degli equilibri di mercato. Sussiste, quindi, un orientamento mirato alle regulations, ma, a nostro avviso, l’approccio in materia non può essere disgiunto da una concezione numinosa del termine ambiente esaminato in tutte le sue sfaccettature. Concezione che non ha consentito di comporre quella coincidentia oppositorum tra le differenti fenomenologie dianzi poste in luce. Il legislatore del resto ha mostrato sinora una scarsa propensione all’introduzione di vere e proprie green taxes ed al riguardo la compilazione di una check list si può effettuare agevolmente riconoscendo una caratteristica ambientale anche a quelle forme di prelievo sorte ab origine con finalità extrafiscale”.275 2 I tributi ambientali erariali 2.1 L’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica Nell’ambito dei sistemi tributari dei paesi del sud dell’Europa, l’Italia ha adottato un atteggiamento positivo nei confronti di una possibile applicazione di “tributi verdi”276. Infatti, già agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso si sviluppò un vivace dibattito sul possibile impiego di tale strumento per la internalizzazione dei costi ambientali. Il primo tributo ambientale propriamente detto che ha trovato realizzazione è stata l’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica. Istituita con l’art. 1, comma 8, del decreto legge n. 397 del 1988 è stata successivamente abrogata dall’art. 29 bis del decreto legge n. 331 del 1993 il quale ha previsto in sua sostituzione l’istituzione di un contributo per il riciclaggio 274 L’effetto economico del TGE, da introdursi a livello locale su iniziativa e responsabilità dei Comuni e delle Regioni, dovrebbe produrre benefici associati ai vantaggi sulla qualità dell’aria. Il Libro bianco può consultarsi in Boll. trib., 1994, pp. 1813 e ss. 275 Così P. Selicato, I singoli tributi cit., p. 146 276 La locuzione è di R. Alfano, L’Italia e i tributi ambientali: il caso dell’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica, in Dir. prat. trib., 1997, fasc. 1, pp. 50 e ss. 99 sul polietilene vergine. Andiamo ad analizzare l’esperienza fatta nei cinque anni di applicazione di tale imposta al fine di verificarne la ratio ed il reale impatto ambientale. In Italia, la produzione e l’utilizzo dei sacchetti di plastica assunse verso la metà degli anni ottanta del secolo scorso proporzioni particolarmente elevate. Tale crescita esponenziale fu legata alla modifica di una vera e propria abitudine sociale, quella, cioè, di realizzare gli acquisti giornalieri, in particolar modo in campo alimentare, senza munirsi preventivamente di uno strumento di asporto delle merci. Infatti le tecniche di produzione dei sacchetti di plastica ne consentivano la fabbricazione a prezzi unitari particolarmente contenuti. Di conseguenza i commercianti potevano, accollandosi un costo poco significativo, offrirli gratuitamente ai consumatori evitando loro l’incomodo del trasporto preventivo della cd. sporta. Tale prassi portava un sicuro vantaggio anche per i fabbricanti cui la gran quantità di sacchetti messi in commercio consentiva elevati utili globali.277 I bassi costi unitari e i vantaggi non economici legati a tale prodotto hanno, però, favorito il fenomeno dell’abbandono indiscriminato di tali sacchetti per i quali non risultava conveniente neppure la riutilizzazione. Il crescente inquinamento, accompagnato ad oggettive difficoltà nello smaltimento di tale genere di rifiuti, aveva fatto scattare un primo segnale di allarme, evidenziando la necessità di un intervento finalizzato per il contenimento dei danni ambientali. In tale prospettiva si colloca il decreto del Ministero dell’Industria del 21 dicembre 1984 che nell’ambito della regolamentazione della materia inerente la vendita al peso netto delle merci stabilì, all’art. 15, che la utilizzazione di involucri realizzati con materiali non biodegradabili sarebbe dovuta cessare entro il 1° gennaio 1991.278 277 Una chiara analisi di tale fenomeno è fornita da E. Zecca, Osservazioni giuridico – economiche sull’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica, istituita dall’art. 1, 8° comma, legge 475/1988, in Riv. giur. amb., 1990, pp. 479 e ss. 278 A seguito di tale decreto ministeriale si sono avute numerose ordinanze adottate dalle amministrazioni locali per ridurre l’inquinamento causato, più in generale, dalla plastica, le quali stabilivano divieti di vendita e distribuzione di prodotti non biodegradabili. 100 Successivamente il legislatore si dedicò alla regolamentazione della materia attraverso il decreto legge n. 361 del 1987. Tale provvedimento all’art. 6 bis stabilì che, a partire dal 1° gennaio 1989, i sacchetti e le buste utilizzati per asportare merci dovessero consentire un facile smaltimento al fine di contenere l’inquinamento e favorirne il riciclaggio. Tale articolo (per il quale, peraltro, non furono mai emanate le norme di attuazione) fu in seguito abrogato dall’art. 1, comma 9, del decreto legge n. 397 del 1988. La legge, per la prima volta, previde l’utilizzo di uno strumento fiscale per finalità ambientali introducendo l’imposta in questione. Infatti all’art. 1, comma 8, stabilì che “ai sacchetti di plastica non biodegradabili, utilizzati come involucri che il venditore al dettaglio fornisce al consumatore per l’asporto di merci è applicata un’imposta di fabbricazione di lire 100 per ogni unità prodotta immessa sul mercato nazionale e una corrispondente sovrimposta di confine”. Qualora i sacchetti fossero stati biodegradabili per una quota non inferiore al 90 per cento ne era prevista l’esenzione. Tale normativa rinviava alla regolamentazione successiva le modalità di applicazione dell’imposta. Inizialmente fu emanato il decreto ministeriale n. 1 del 3 gennaio 1989 che avrebbe dovuto essere applicato dal 1° febbraio dello stesso anno. Esso però non stabilì quali fossero i parametri merceologici attraverso i quali accertare la biodegradabilità dei sacchetti, la quale ai sensi della legge permetteva l’esenzione. Contro tali ordinanze le aziende interessate provvidero sistematicamente a presentare ricorso per illegittimità al T.A.R. per violazione, da parte di tali amministrazioni, del principio della divisione di competenze relativamente allo smaltimento dei rifiuti. Tale principio, ai sensi dell’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, prevedeva che fosse lo Stato a stabilire le norme, mentre i Comuni avevano potere solo relativamente alle operazioni di smaltimento. Le diverse pronunce da parte dei T.A.R., quasi tutte orientate per l’illegittimità di tali ordinanze, ebbero il merito di tener vivo l’interesse su tale problematica, stimolando i successivi interventi legislativi. Per un’analisi delle singole questioni si rinvia a N. Cerama, Note a T.A.R. Veneto 16/06/1987 n. 547 e a T.A.R. Toscana 30/06/1987 n. 513, in Riv. giur. amb., 1987, pp. 362 e ss. 101 Tale lacuna indusse il tribunale amministrativo a sospenderne l’efficacia.279 Successivamente vi fu un secondo decreto ministeriale (n. 100 del 28 febbraio 1989) che tendeva a superare i vizi di legittimità del precedente.280 In primo luogo stabilì, all’art. 1, che l’accertamento della biodegradabilità poteva essere realizzato presso “qualsiasi istituto universitario di microbiologia o da altri competenti laboratori di enti pubblici”. Era prevista la possibilità di non versare l’imposta, prestando fideiussione bancaria a garanzia della sussistenza del carattere di biodegradabilità. Tuttavia anche questo secondo decreto non stabilì quali dovessero esserne i parametri: i fabbricanti dovevano attenersi alla valutazione fatta dal laboratorio pubblico cui si recavano, ma senza che esistessero standard fissi a cui chi procedesse a tale analisi dovesse necessariamente conformarsi.281 Con l’art. 80 della legge n. 413 del 1991 si dispose l’estensione dell’applicabilità dell’imposta di fabbricazione su tutti i sacchetti di plastica a partire dal 1° gennaio 1992, in quanto furono espressamente abolite le parole “non biodegradabili”. A seguito di tale modifica il presupposto dell’obbligazione tributaria sorgeva con la semplice produzione dei sacchetti di plastica, indipendentemente dalle loro caratteristiche merceologiche. Tale scelta, dettata più da esigenze di gettito che di tutela ambientale (tradendo in buona sostanza lo spirito della norma) ha scoraggiato la ricerca di soluzioni aventi una maggiore compatibilità ambientale, senza contribuire, però, a contenere il fenomeno evasivo. Il fallimento di tale modifica legislativa ha condotto ad un radicale cambiamento. 279 Cfr. T.A.R. Puglia, sez. di Lecce, ordinanza n. 162 del 3/2/1989, in Riv. giur. amb., 1989, pp. 360 e ss. 280 Anche relativamente a tale decreto la Unionplast ed alcune imprese del settore sollevarono questione di legittimità allo scopo di ritardare la concreta applicazione dell’imposta. Il T.A.R. Lazio, sez. II, sentenza n. 1489 del 26/10/1989 in Riv. giur. amb., 1990, p. 540, respinse tali censure. Sul punto si veda E. Zecca, A che punto è l’applicazione dell’imposta di fabbricazione dei sacchetti di plastica?, in Riv. giur. amb., 1990, pp. 545 e ss. 281 L’emanazione successiva di tali decreti ministeriali ha creato problemi relativamente al dies a quo da cui dovesse essere versata l’imposta. Gli articoli 5 bis e 5 ter del decreto legge n. 245 del 1989 previdero che l’imposta era applicabile dal 21 marzo 1989 a causa delle lacune del primo decreto ministeriale. Tuttavia stabilì che si dovesse versare all’Ufficio Tecnico delle Imposte di Fabbricazione (UTIF) entro il 10 ottobre 1989, la somma eventualmente riscossa tra il 1° febbraio 1989 e il 20 marzo 1989 da parte del cessionario dei sacchetti di plastica a titolo di rivalsa dell’imposta. 102 L’art. 29 bis del decreto legge n. 331 del 1993 ha previsto la soppressione, a partire dal 1° gennaio 1994, di tale imposta di fabbricazione, sostituendola con un contributo di riciclaggio sul polietilene vergine e sulle pellicole plastiche, da applicarsi in ragione del 10 per cento del valore di fatturazione. La ratio di tale provvedimento risiede nella volontà di riappropriarsi dello spirito incentivante che deve caratterizzare la tassazione ambientale, accompagnato, in questo caso, anche da un effetto redistributivo. Infatti l’istituzione di un rilevante contributo a favore del riciclaggio, destinato ad agevolare il finanziamento di attività di recupero ambientale, vuole scoraggiare le attività produttive inquinanti favorendo al tempo stesso la ricerca di soluzioni alternative maggiormente compatibili con l’ambiente.282 Dopo aver ripercorso i cinque anni di applicazione dell’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica, possiamo cercare di tracciare un bilancio di questa esperienza. La preminente volontà di lanciare un forte messaggio ecologico ha avuto effetti negativi sulla regolamentazione propria dell’imposta. In primo luogo la normativa è risultata incompleta, in quanto ha tralasciato di fissare alcuni elementi fondamentali, fra cui proprio l’oggetto dell’imposizione, a causa della poca chiarezza circa i parametri di biodegradabilità. Molte difficoltà inerivano poi l’individuazione del soggetto passivo. Osservando le modalità di realizzazione degli shoppers, si comprende come essi siano fabbricati da un numero elevato di piccole imprese, spesso a carattere artigianale, che lavorano per conto terzi oppure (data la semplicità dei metodi di lavorazione) addirittura clandestinamente.283 Tutto ciò in maniera affatto diversa rispetto ai beni su cui generalmente incidono le imposte di fabbricazione, la cui produzione è generalmente concentrata in un numero limitato di impianti. Inoltre la normativa non aveva previsto alcuna misura sanzionatoria. 282 Sull’effettiva possibilità di realizzare concretamente tale positivo impatto ambientale sono stati espressi, sin dalla sua emanazione, notevoli perplessità. Su tale ordine di argomentazioni si rinvia a P. Ficco, 1 gennaio 1994: abolita la tassa sui sacchetti di plastica, in Informatore Pirola, 1994, pp. 66 e ss. 283 Su tale argomento cfr. C. Fergola, L’introduzione di imposte ecologiche nell’ordinamento italiano, in Dir. prat. trib., fasc. 4, 1992, pp. 1435 e ss. 103 Questa lacuna, in aggiunta alla mancata previsione di un freno formale all’eventuale evasione fiscale, ha creato ulteriori ostacoli all’attività dell’Amministrazione finanziaria, sia in sede di vigilanza sulla produzione che del successivo accertamento sul prodotto, relativamente ad un bene già di per sé anomalo. Tuttavia, l’istituzione di tale imposta deve certamente essere considerata positivamente in relazione all’impatto ambientale che ha avuto. In particolare, il suo effetto più significativo si è avuto sul comportamento dei consumatori, che ha subito un importante cambiamento. Infatti si è rilevato che i risultati relativi al primo anno di vigenza dell’imposta sono stati nel complesso buoni, in quanto la utilizzazione selvaggia si è ridotta sensibilmente a favore di una politica di riutilizzo di tali sacchetti, con conseguente diminuzione dei danni ambientali.284 Ciò, però, non è disceso dalla incidenza della imposta e dalla sua eventuale traslazione sui consumatori285, in quanto soprattutto nei primi periodi l’evasione è stata molto elevata.286 Piuttosto i benefici per l’ambiente sono stati realizzati da una spontanea modifica del comportamento da parte dei consumatori che, colpiti dal messaggio ambientale, hanno posto in essere una politica di riciclo, stimolata dall’acquisita consapevolezza dei danni ambientali cagionati da tali prodotti. In particolare, nei primi mesi di applicazione dell’imposta, si è rilevato che l’uso degli shoppers (pur essendo questi ancora forniti gratuitamente in molti supermercati in quanto “prodotti fuorilegge”287) subì una forte riduzione: i consumatori stessi, preferivano riciclare i sacchetti già utilizzati oppure 284 Sul punto ancora E. Zecca, A che punto cit., p. 546 In tali casi si pone il problema se l’imposta debba obbligatoriamente ricadere sul consumatore finale ovvero debba essere pagato soltanto dal fabbricante. Sull’argomento cfr. Amatucci, L’ordinamento giuridico finanziario, Napoli, 1995, pp. 490 e ss. 286 Nel primo periodo di vigenza dell’imposta si presentarono molti problemi. In particolare, poiché, come si è rilevato, vi furono alcune difficoltà oggettive circa il dies a quo di vigenza dell’imposta, i fabbricanti approfittarono di tale periodo di vacatio per intensificare la produzione prima dell’operatività dell’imposta. Le associazioni dei produttori di plastiche promossero tale politica attraverso l’inserzione di annunci a pagamento sui principali giornali economici, invitando altresìi fabbricanti a far constatare l’ammontare delle giacenze di magazzino attraverso la redazione di verbale notarile prima dell’entrata in vigore dell’imposta per non incorrere in alcuna violazione. Su tale argomento si rinvia ancora a E. Zecca, A che punto cit., p. 546 287 La locuzione è di R. Alfano, L’Italia cit., p. 55 285 104 esprimevano la loro preferenza nei confronti dei sacchetti di carta. Tuttavia, occorre rilevare che tale effetto psicologico, non supportato da ulteriori stimoli, è andato rapidamente perdendosi lasciando trasparire le lacune di tale normativa. Il legislatore studiò la possibilità di porre in essere una serie di misure correttive volte non soltanto a perfezionare tale imposta, ma a prevedere nuove ipotesi di tassazione a carattere ecologico.288 Agli inizi degli anni novanta, sull’esempio dei modelli di tassazione ambientale propri dei paesi del nord – Europa si è tentato non soltanto da parte dell’Italia, ma più in generale da parte delle istituzioni della Comunità Europea289 di incentivare tale politica ambientale. Nei fatti però, oltre una serie di manifestazioni d’intenti, sublimati nella proposta di Direttiva inerente la carbon tax290, non sono state prese concrete decisioni. In presenza di una tale inerzia, il destino dell’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica non poteva che essere segnato: l’accantonamento del suo ruolo incentivante, i dubbi sorti dopo la sua estensione a tutti i sacchetti di plastica indipendentemente dalle loro caratteristiche merceologiche, le oggettive difficoltà per ridurre l’evasione hanno condotto alla soppressione di tale imposta, sostituita da un contributo per il riciclaggio. Tuttavia, anche se nato sotto gli auspici di una rinnovata spinta ambientale, tale tributo ha già fatto sorgere alcune perplessità relativamente alle modalità di applicazione in sede di regolamentazione. 288 Il documento tecnico preliminare elaborato dall’Ufficio del consigliere economico del Ministero dell’Ambiente stabiliva, al paragrafo 4, la possibilità di “introdurre una nuova imposta di fabbricazione sulle principali materie prime plastiche, avendo questa misura a riferimento la problematica ambientale connessa alla lavorazione e allo smaltimento dei prodotti di plastica”. Il progetto di legge del 29 settembre 1989 (Atto del Senato della Repubblica n. 1897) prevedeva altresì nuovi tributi ecologici. Un esempio molto importante riguarda le misure fiscali per contenere la rumorosità degli aeromobili. In tal senso fu emanato prima il decreto legge n. 414 del 1989, seguito dal decreto legge n. 40 del 1990 e dal decreto legge n. 90 del 1990, il quale all’art. 10 prevedeva tale tipo di tributo, ma non fu poi convertito. 289 Sotto la presidenza italiana del secondo semestre del 1990 furono realizzate diverse iniziative a favore dei tributi ambientali. Partendo dalle conclusioni della conferenza internazionale tenutasi a Roma il 20 gennaio 1990 (Strumenti economici per la protezione dell’ambiente) si realizzò un documento da parte della Presidenza in cui si sollecitava la realizzazione di concrete proposte. Per un chiaro resoconto di tali attività si veda Rozas Valdes J. A., La implantaciòn de un impuesto ecologico en la Union Europea, in Noticias de la Union Europea, 1995, n. 122, pp. 111 e ss. 290 Si veda COM(92)226 del 2 giugno 1992 105 Infatti in tal sede, rispetto alle previsioni legislative, non soltanto sono stati ampliati i beni incisi dall’imposta, ma anche la base imponibile. Tale provvedimento, però, è stato oggetto di censura da parte della Commissione Europea, che, in sede di interrogazione parlamentare, ha manifestato le sue perplessità circa la compatibilità di tale contributo con il principio della libera circolazione dei beni nel territorio dell’Unione. L’analisi svolta permette di evidenziare che, per quanto l’imposta sui sacchetti di plastica abbia dato vita a risultati non sempre univoci, l’introduzione di strumenti fiscali per la tutela dell’ambiente, se collegata ad una adeguata educazione ambientale, appare essere il miglior strumento per procedere all’internalizzazione dei costi ambientali. 2.2 La tassazione sulle emissioni di anidride carbonica Tra le norme che predispongono la manovra di finanza pubblica per l’anno 1999, uno degli interventi maggiormente qualificanti è quello istitutivo della cosiddetta carbon tax disciplinata dall’art. 8 della legge n. 448/1998. La carbon tax, ovvero la tassazione dell’anidride carbonica emessa dai diversi prodotti energetici, costituisce indubbiamente una innovazione di rilievo nel sistema della tassazione energetica. L’introduzione di una forma di tassazione ecologica commisurata alle emissioni nocive, riflette non solo gli impegni assunti dal Governo italiano in occasione della conferenza di Kyoto (del dicembre 1997) in relazione all’obiettivo di ridurre le emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra e degli associati cambiamenti climatici291, ma risponde anche in maniera adeguata alla finalità proposta dall’Unione Europea di attuare modifiche sui sistemi fiscali che comportino, a parità di gettito, uno spostamento dal fattore lavoro ai fattori nocivi per 291 Secondo A. Pedrocchi, Il sole 24 ore del 15 ottobre 1998, p. 11, dietro la manovra di Kyoto potrebbero esserci i seguenti interessi: a) una rivalsa dei paesi più poveri verso i paesi ricchi anche per tentare di imporre un controllo sopranazionale alle economie di tutti i paesi; b) l’opportunità per tutti coloro che operano in questo settore di alimentare con ingenti finanziamenti le loro attività; c) un pressing psicologico degli ambientalisti per mantenere la popolazione in una situazione di paura per l’incombere di un ipotetico disastro ecologico. 106 l’ambiente. In sostanza, l’obiettivo è di ridurre progressivamente i contributi obbligatori che attualmente aggravano il costo del lavoro così da favorire l’occupazione, finanziando tale operazione con il gettito prodotto da tributi ecologici. In particolare, le finalità previste dal comma 10 dell’articolo 8 per il gettito acquisito attraverso la carbon tax sono sostanzialmente quelle predisposte dall’articolo 3 dello stesso disegno di legge collegato, ovvero viene garantita la copertura finanziaria necessaria: a) alla soppressione dei cosiddetti oneri impropri gravanti sul costo del lavoro (contributo al finanziamento degli asili nido, quello per l’assistenza agli orfani, quello per l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi); b) alla fiscalizzazione totale, per un periodo di tre anni, dei contributi dovuti dai datori di lavoro per i neo – assunti a tempo indeterminato, entro il 31 dicembre 2001, in imprese che operano nel Mezzogiorno; c) alla riduzione del 50 per cento, per un periodo di tre anni, dei contributi previdenziali dovuti dai giovani imprenditori che hanno intrapreso entro il 31 dicembre 2000, nuove attività commerciali o artigiane. Altre finalità da finanziare con la carbon tax consistono nell’alleggerimento di altre forme impositive. In particolare: la progressiva abolizione della sopratassa per i veicoli diesel non ecologici; una compensazione sul gasolio consumato da destinare ai residenti delle fasce climatiche più fortemente soggette alle basse temperature e non metanizzate (così da evitare pesanti aggravi per quei soggetti che sono costretti a consumare di più per il riscaldamento e che non dispongono di fonti energetiche alternative); l’eliminazione degli aumenti di aliquota del gasolio per autotrazione per il settore dell’autotrasporto di merci per conto terzi. Il gettito acquisito mediante la carbon tax consente, inoltre, di finanziare progetti incentivanti la riduzione di emissioni inquinanti, l’efficienza energetica e lo sviluppo delle cosiddette fonti rinnovabili.292 292 “Il forte inasprimento delle accise sul gasolio e sull’olio combustibile sommandosi all’aumento del divario fiscale con il metano ed alla notevole agevolazione concessa al gasolio da riscaldamento per le zone non metanizzate, dovrebbe disincentivare ulteriormente l’utilizzo di combustibili liquidi nel settore del riscaldamento e in quello industriale. La più immediata 107 Una peculiarità della normativa introdotta è rappresentata dalle sue modalità di attuazione: vengono prefissate le aliquote delle accise293 gravanti sui prodotti energetici, e vengono contestualmente predefinite, seppure nell’ambito di una certa forbice (tra il 10 e il 30 per cento per i comparti dell’autotrazione, del riscaldamento e dell’uso industriale; tra il 5 e il 20 per cento per i prodotti impiegati nella produzione di energia elettrica) le possibilità di modifica annua delle stesse. La graduazione delle aliquote delle accise viene stabilita con decreto del Presidente del Consiglio su proposta di un comitato di Ministri (finanze, tesoro e bilancio, industria, ambiente, lavoro, trasporti) e le conseguenti variazioni valgono a titolo di aumenti intermedi fino al raggiungimento della misura definitiva. Il predetto comitato individua il valore massimo entro cui devono essere contenute per l’anno successivo le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’impiego di oli minerali, tenuto conto dell’andamento dell’anno precedente.294 conseguenza di ciò sarà che diversi operatori del settore vedranno ridotte di molto le loro nicchie di mercato e di produzione. Il più evidente ed immediato rischio della carbon tax appare, pertanto, quello di creare notevoli distorsioni alla concorrenza tra le compagnie petrolifere. Alcune raffinerie che hanno ancora una resa elevata di olio combustibile potrebbero rischiare irrimediabili cali di produzione oltre ai notevoli problemi che si pongono per quelle raffinerie che hanno programmato ingenti investimenti per adeguare la qualità dei carburanti alle nuove direttive europee. La nuova tassa potrebbe quindi aggravare i costi energetici sostenuti dall’industria italiana che sono già più alti di quelli dei suoi concorrenti. Tali effetti potrebbero rilevarsi dannosi anche per il Fisco che nel passaggio dai prodotti petroliferi al metano potrebbe perdere una notevole base imponibile”, così G. D’Alfonso, Il punto sulla carbon tax, in il fisco, n. 41, 1998, pp. 13283-13284 293 L’attuale regime impositivo delle accise è regolato dal relativo Testo Unico introdotto dal decreto legislativo n. 504 del 26 ottobre 1995 il quale definisce l’accisa come “un’imposizione diretta sulla produzione o sui consumi prevista con la denominazione di imposta di fabbricazione o di consumo e corrispondente sovrimposta di confine o di consumo”. I concetti fondamentali su cui si basa il sistema impositivo delle accise sono quelli di presupposto ed esigibilità. Il presupposto rappresenta il momento generatore dell’accisa e corrisponde con la fabbricazione o l’importazione del prodotto tassato; l’esigibilità dell’imposta si ha invece all’immissione in consumo del prodotto. Per quanto concerne il soggetto passivo, questo coincide con il soggetto per il quale l’accisa si rende esigibile ed è da ricondurre al titolare della licenza del “deposito fiscale” o del punto di stoccaggio da dove inizia l’immissione in consumo del prodotto. Tale soggetto rappresenta colui che è responsabile del pagamento dell’imposta. Il consumatore finale, invece, al momento dell’acquisto del prodotto paga un’imposta che è già compresa nel prezzo di vendita al dettaglio quale diritto di rivalsa da parte del soggetto depositario (per questo motivo tale prezzo è accessorio alla prestazione principale ed è soggetto a IVA con l’aliquota del prodotto di riferimento). 294 Su tale argomento, G. Caputi, Tassazione cit., p. 1773, ritiene che “se l’aumento è differito alle decisioni che anno per anno assumerà l’organismo ministeriale individuato, viene fornito un ulteriore, e più tecnicamente stringente, parametro di riferimento per evitare che possa adombrarsi 108 Tutti gli operatori interessati (imprenditori e consumatori di prodotti energetici) possono in questo modo programmare le proprie attività di produzione e di consumo avendo di fronte un quadro predefinito del carico fiscale implicito nelle diverse opzioni di scelta circa la fonte energetica da utilizzare. L’introduzione della nuova imposta erariale sui consumi per l’utilizzo del carbone nei grandi impianti di combustione è accompagnato dalla definizione di precise modalità per il versamento, accompagnato dall’obbligo di presentare una apposita denuncia periodica. L’imposta viene versata, a titolo di acconto, in rate trimestrali sulla base dei quantitativi impiegati nell’anno precedente (comma 8). Il versamento a saldo va effettuato alla fine del primo trimestre dell’anno successivo unitamente alla presentazione della dichiarazione annuale con i dati dei quantitativi impiegati nell’anno precedente, nonché al versamento della prima rata di acconto. Le somme eccedenti sono detratte dal versamento della prima rata di acconto e, se necessario, delle rate successive. Nel caso in cui l’impianto cessi nel corso dell’anno, la dichiarazione annuale e il versamento a saldo devono essere effettuati nei due mesi successivi. Il comma 9 definisce le sanzioni applicabili nel caso in cui vi sia inosservanza dei termini di versamento previsti dal comma precedente; a tal fine si stabilisce l’applicazione della sanzione amministrativa consistente nel pagamento di denaro dal doppio al quadruplo dell’imposta dovuta. La metodologia utilizzata per la determinazione della struttura delle aliquote ha previsto per ciascuna di esse l’adozione di una soglia base che può essere definita “specchio della struttura storica”295, calcolata in base al rapporto esistente tra l’aliquota attuale e quella minima indicata nella “direttiva Monti” per il prodotto energetico maggiormente consumato in ciascuno dei comparti interessati. Alla base è stata poi aggiunta la cosiddetta carbon tax. Questo secondo addendo è quello che coglie l’aspetto ambientale dell’imposta dal il dubbio di illegittimità costituzionale, per violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione. L’aumento delle aliquote, così, sarà disposto certamente in funzione delle decisioni di politica ambientale (complessivamente intesa) del Governo. 295 La locuzione è di G. Peleggi, La carbon tax, in Corr. trib., n. 3, 1999, p. 170 109 momento che il suo livello è parametrato, in maniera progressiva, alla potenzialità di emissione di anidride carbonica propria del prodotto inciso296. Per i consumi industriali si sono prese in adeguata considerazione anche problematiche connesse alla competitività, in relazione alla scarsa flessibilità dei processi produttivi all’introduzione immediata di nuove tecnologie sostitutive di determinate fonti energetiche. Ne è derivata l’adozione di una progressività più tenue. Per il comparto che concerne la produzione di energia elettrica la determinazione dell’aliquota è, invece, totalmente affidata alla componente carbon tax, dal momento che è già prevista nel sistema la possibilità di tassare a valle, ovvero in fase di consumo, il chilowattora consumato. La sola componente ambientale consente comunque anche in questo settore il rispetto delle aliquote minime indicate nella proposta di direttiva del Presidente Monti in materia di tassazione energetica. Le aliquote gravanti sui prodotti utilizzati per produrre energia elettrica sono meno elevate di quelle previste per gli altri comparti di utilizzo. Anche in questo caso il loro livello è determinato attraverso una progressività che si relaziona al contenuto di anidride carbonica. Ma i parametri presi come riferimento, ovvero gli indicatori stechiometrici delle emissioni297, non sono quelli riferiti alla combustione dell’unità fisica di prodotto (il chilogrammo) bensì quelli rilevati considerando l’effettivo potenziale energetico (il riferimento è al chilogrammo equivalente di petrolio). Tale accorgimento è stato adottato per tenere conto della minore capacità energetica del carbone. Il gradiente di progressività utilizzato per il comparto è circa un decimo di quello applicato negli altri settori di utilizzo. La costante, ovvero la soglia di partenza, tarata sulle emissioni di CO2 del 296 La determinazione delle aliquote del tributo tiene conto della seguente formula: A = KAM + BK dove: - AM è la quota parte d’imposta commisurata alla tassazione dei prodotti energetici così come attualmente proposta in sede europea; - BK è la quota parte commisurata all’impatto ambientale specifico per effetto serra; - K è un coefficiente correttivo che tiene conto del raffronto tra i livelli di tassazione europei e quelli italiani. 297 Il coefficiente stechiometrico rileva la quantità di anidride carbonica presente in un dato prodotto. 110 prodotto meno inquinante, è a sua volta la metà di quella assunta per gli altri comparti. Gli altri prodotti energetici presentano peraltro potenzialità tra loro molto vicine (e prossime al 100 per cento), per cui tale accorgimento di utilizzare il kep in luogo del chilogrammo fisico non è stato ritenuto necessario ai fini del calcolo delle aliquote riguardanti le altre destinazioni di consumo. Per il comparto della produzione di energia elettrica è stata inoltre prevista la possibilità di adottare variazioni annuali più tenui delle aliquote (come già detto la forbice ha come limiti il 5 e il 20 per cento). Al comparto sono anche destinati incentivi, tali da compensare circa un quarto del maggior carico fiscale prodotto dalla carbon tax sul settore stesso, in relazione all’attuazione di investimenti finalizzati alla maggiore efficienza energetica. E’ da rilevare infine che successivamente all’introduzione della carbon tax, è stata istituita un’accisa anche per quei prodotti sino ad allora non soggetti a tassazione: il carbone, il coke da petrolio e l’orimulsion (bitume di origine naturale emulsionato con l’acqua). Per queste accise è stata prevista, a partire dal 1° gennaio 1999, “un’aliquota virtuale”298 pari a una lira per chilogrammo di prodotto consumato. Un particolare passaggio di carattere normativo è stato anche necessario per l’aliquota della benzina senza piombo. La legislazione ante comma 12 dell’articolo 8, prevedeva il ripristino dell’aliquota gravante su tale prodotto sul livello vigente prima del decreto legge n. 316 del 1° luglio 1996 che ne aveva disciplinato l’aumento (circa 22 lire per litro) finalizzato al finanziamento della missione militare di pace in Bosnia. Il dispositivo contenuto nel comma 12 consente di mantenere al livello attuale l’aliquota della benzina verde, prefissando così su tale livello la soglia base sulla quale poggiare le variazioni annuali da realizzare secondo lo schema generale della carbon tax. Le maggiori entrate acquisite mediante il provvedimento introdotto con il comma 12 hanno consentito la copertura finanziaria per la prosecuzione della missione di pace in Bosnia e per il contributo da destinare ai residenti delle zone climatiche di 298 La locuzione è di G. Peleggi, La carbon tax cit., p. 171 111 fascia E ed F299 che usano il gasolio da riscaldamento. 3 I tributi ambientali regionali 3.1 L’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili La recente esperienza normativa di alcune regioni dimostra come l’autonomia tributaria quale strumento di federalismo fiscale costituisca un’esigenza ineliminabile. Nell’osservare che, se di federalismo si intende parlare, a tale termine occorre dare il significato non tanto di astratta modifica della forma di Stato quanto di creazione di una concorrente potestà normativa tra Stato e regioni, si cercherà di prestare attenzione a tali interventi sia per la loro rilevanza che per la loro valenza extraregionale, nel senso di modelli di intervento per future esperienze “autonomistiche” di regioni diverse da quelle che le hanno attuate.300 Un primo caso è costituito dall’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili di cui all’art. 90 della legge 21 novembre 2000 n. 342.301 A differenza di molti tributi ambientali aventi una connotazione commutativa, tale tributo non è in alcun modo collegato all’esercizio di un’attività della Pubblica Amministrazione. L’art. 90, al primo comma, prevede che il gettito di tale imposta viene “destinato prioritariamente al completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e al disinquinamento acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti” nelle zone adiacenti all’aeroporto, così come determinate con un apposito decreto 299 Il Piano Energetico Nazionale (disciplinato dalle leggi nn. 9 e 10 del 1991) ha disposto la suddivisione dei Comuni del territorio in varie zone climatiche, dalla A (più calda) alla F (più fredda) in relazione al regime di accensione degli impianti di riscaldamento. In questo ambito, la zona F riguarda i Comuni montani in cui non è previsto alcun limite orario all’accensione del riscaldamento. 300 Su tale argomento V. Ficari, Prime note cit., pp. 1306 e ss. 301 La tassazione riferita all’utilizzo di aeroplani e velivoli in genere non è del tutto nuova, in quanto già con l’art. 2 della legge 6 maggio 1976 n. 324 era stato istituito un diritto di approdo e di partenza degli aeromobili. Successivamente l’art. 10 della legge 26 giugno 1990 n. 165 vi aggiunse un’imposta erariale non superiore al 20 per cento dei diritti anzidetti. Senonchè, nel primo caso si trattava evidentemente di una tassa, non dissimile da quella dovuta per ogni utilizzo di suolo pubblico e di pubblici servizi, dei quali ogni aeromobile si serve necessariamente in sede di partenza e di approdo. Nel secondo caso, nonostante l’impropria definizione di imposta, si trattava di una addizionale della precedente, dato che essa era commisurata in misura proporzionale al diritto di approdo. 112 del Ministero dell’Ambiente.302 Sempre al primo comma viene precisato che l’imposta è dovuta “ad ogni regione o provincia autonoma per ogni decollo ed atterraggio dell’aeromobile civile negli aeroporti civili”, con esclusione di tutti i voli di Stato, sanitari e di emergenza.303 Soggetto passivo dell’imposta regionale è l’esercente l’aeromobile civile il quale si identifica in colui che assume l’esercizio dell’aeromobile ai sensi dell’art. 874 del codice della navigazione.304 Lo stesso codice della navigazione prevede, all’art. 876, una norma di salvaguardia nel caso non sia possibile identificare l’esercente. Infatti in mancanza di apposita dichiarazione si presume esercente il proprietario dell’aeromobile, salvo la prova contraria. Il presupposto dell’imposta viene identificato nella “emissione sonora 302 “Al di là di ipotesi marginali prevale un’impostazione che tiene conto della relazione biunivoca tra l’interesse del singolo a non subire molestie per il rumore causato dagli aeromobili e quello della collettività a vedere concretamente realizzata una evoluzione dei mezzi di collegamento. Ciò rappresenta, ovviamente, il leitmotiv di tutte quelle situazioni di potenziale conflitto tra lo sviluppo tecnologico e la protezione ambientale. Conflitto che deve trovare il necessario contemperamento tra le esigenze delle posizioni individuali dei titolari di diritti di stampo prevalentemente privatistico e quelle generali collegate all’espletamento di servizi correlati ad interessi pubblici. La necessità di ricondurre entro parametri equilibrati (strettamente interdipendenti) il binomio rumore-tollerabilità appare indispensabile per una corretta soluzione del problema”, così P. Selicato, I singoli tributi cit., pp. 171-172 303 “Quanto alle regioni ed alle province autonome a favore delle quali è istituito il nuovo balzello, è assai dubbio che esse abbiano motivo di rallegrarsi. E’ invero previsto che, ove le emissioni sonore degli aeroporti civili riguardino più regioni o province limitrofe agli aeroporti stessi, esse dovranno attuare non meglio precisate compensazioni tra diverse regioni o province. Inoltre la ripartizione del gettito effettuata all’interno da ciascuna regione o provincia autonoma dovrà avvenire sulla base dei programmi di risanamento e di disinquinamento acustico presentati dai comuni dell’intorno aeroportuale, peraltro elaborati su dati rilevati dai sistemi di monitoraggio realizzati in sede centrale, in conformità con il decreto del Ministero dell’ambiente del 20 maggio 1999”, così C. Salvatores, Imposta sul rumore, o che altro?, in Boll. trib., fasc. 2, 2001, p. 86 304 “Che cosa avverrebbe se anche gli autoveicoli venissero tassati per il rumore che essi provocano? E magari venissero tassati anche i pedoni che provocano un qualsiasi rumore, specialmente di notte quando gli altri cittadini hanno diritto di dormire? L’inquinamento acustico è certamente un problema, non diversamente da quanto lo sia l’inquinamento da fumi o da sostanze nocive; ma il rimedio non può consistere nel tassare chi, volando, non può fare a meno di provocarlo; e tantomeno sembra ragionevole porre a carico di costoro gli indennizzi pagati alle popolazioni residenti in prossimità degli aeroporti, giacchè l’allocazione dei medesimi non avviene certo per scelta degli esercenti gli aeromobili. Che cosa c’entrano, insomma, gli esercenti degli aeromobili civili, se alcuni aeroporti sono situati in prossimità dei centri abitati; o, al contrario, se tali centri sono sorti laddove era prevista la costruzione di aeroporti? In termini giuridici, si può concludere osservando che non si tratta neppure di una tassa, in quanto all’esercente di aeromobili non si mette a disposizione alcun servizio pubblico, neppure in termini di autorizzazione a rimuovere divieti preesistenti, ma, anzi, gli si chiede di finanziare non meglio specificati sistemi di monitoraggio acustico, e addirittura indennizzi a favore di terzi”, così C. Salvatores, Imposta cit., p. 86 113 dell’aeromobile” (art. 92, comma 1). Non è difficile rilevare che la rumorosità assunta ad elemento causativo del tributo mal si concilia con la concezione solidaristica della capacità contributiva. Le emissioni sonore che provengono dagli aeromobili sono tuttavia configurabili come fatto suscettibile di valutazione economica, nel senso che producono un danno ambientale i cui effetti devono essere rimossi o compensati. Pertanto tale tributo, pur non rispondendo alla concezione tradizionale della capacità contributiva, risulta agevolmente giustificabile in base al principio chi inquina paga, concepito come uno dei possibili razionali criteri di riparto. La base imponibile è determinata, secondo classi diverse, in ragione del numero dei decolli e degli atterraggi, del peso di ciascun velivolo e delle caratteristiche tecniche dell’emissione sonora, così come indicata nelle norme sulla certificazione acustica internazionale. L’art. 93 prevede che le misure dell’imposta possano essere variate “con apposita legge delle regioni, in misura non superiore all’indice ISTAT dei prezzi al consumo per la collettività nazionale” e che le stesse regioni possano “differenziare su base territoriale le misure dell’imposta fino ad un massimo del 10 per cento in relazione alla densità abitativa dell’intorno aeroportuale”. Il versamento è da effettuare entro il quinto giorno del mese successivo, in ragione del numero complessivo dei decolli e degli atterraggi effettuati nel trimestre precedente. E’ da segnalare che per gli aspetti contenziosi della nuova imposta, la competenza è conferita espressamente alle commissioni tributarie. Quanto invece ai profili sanzionatori, per il ritardo nel versamento e per il relativo procedimento di irrogazione si rinvia a quanto stabilito, rispettivamente, dal decreto legislativo n. 471/1997 e dal decreto legislativo 472/1997. Autonome sanzioni sono previste per l’omessa o infedele dichiarazione e per l’omesso versamento del tributo. Agli enti impositori viene altresì riconosciuto il potere di introdurre una sanzione amministrativa fino ad un massimo di Euro 1032 nei confronti degli esercenti degli aeromobili che risultino avere superato soglie predeterminate di standard massimo di rumore accettabile, da definirsi in sede di normazione secondaria a 114 cura del Ministero dell’Ambiente. Alla luce delle considerazioni effettuate in ordine all’assetto normativo si può ritenere che, al di là della componente statale, vi sia un forte ruolo autonomistico della legislazione regionale. Sono quindi prospettabili interventi disincentivanti attraverso il ricorso ad un’aliquota maggiore di quella già prevista, così come interventi agevolativi mediante variazioni in diminuzione. Il primo caso, astrattamente ipotizzabile, darebbe luogo ad una misura (almeno in apparenza) irragionevolmente limitativa della libertà di circolazione. Il secondo caso permetterebbe, invece, di valorizzare l’elemento territoriale demografico e naturalistico che anche a livello statutario afferisce alla competenza esclusiva della regione. Dopo aver analizzato la disciplina inerente l’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili, è importante esaminare come la dottrina abbia qualificato tale tributo. Alcuni autori ritengono che, in tale esperienza normativa il legislatore tributario statale abbia valutato la finalità ambientale come esterna e non interna al presupposto dell’imposta medesima, anche alla luce della destinazione del gettito al disinquinamento acustico della parte del territorio interessata e dell’eventuale indennizzo della popolazione danneggiata. Nell’attuale configurazione dell’imposta, l’esercizio dell’aeromobile nella fase del decollo e dell’atterraggio non manifesta alcuna forza economica o, comunque, una forza economica diversa da quella già assoggettata a tassazione mediante l’imposizione sui proventi derivanti dall’attività di trasporto tout court. Ciò significa che, sotto il profilo del presupposto, l’imposta rappresenta un tributo di scopo con funzione indennitaria e non un vero e proprio tributo ambientale. Ma non manca chi ritiene che il legislatore abbia considerato l’unità fisica inquinante, rappresentata dalle emissioni sonore, interna al presupposto della fattispecie impositiva configurando così una imposta ambientale con parziale vincolo di gettito a favore di opere di disinquinamento acustico nella parte del territorio interessata e di risarcimento dei soggetti eventualmente danneggiati 115 dalle emissioni prodotte dal decollo e dall’atterraggio di aeromobili.305 Secondo questa impostazione, la funzione ambientale, oltre che attraverso il vincolo parziale di gettito, rileva anche nella determinazione dell’imposta, essendo essa graduata in relazione alla maggiore o minore rumorosità degli aeromobili. Pertanto, l’imposta regionale, così come strutturata, appare conforme al principio comunitario chi inquina paga anche in considerazione del fatto che il prelievo cresce in ragione dell’aumento dell’impatto che l’emissione sonora inquinante esercita sull’ambiente circostante. 3.2 Il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti Il tributo speciale306 per il conferimento dei rifiuti in discarica, introdotto con l’art. 3 della legge 28 dicembre 1995 n. 549, si configura con caratteri di natura sicuramente ambientale.307 Infatti il prelievo in esame tende a riequilibrare le diseconomie esterne derivanti 305 P. Laroma Jezzi, I tributi ambientali cit., p. 331, osserva che “i dati di diritto positivo consentono di ritenere che ci troviamo dinanzi ad un’imposta ambientale nel senso proprio con parziale vincolo di gettito a favore della realizzazione di opere di disinquinamento e di risarcimento dei soggetti danneggiati dalle emissioni sonore prodotte dal decollo e dall’atterraggio di aeromobili. Il presupposto impositivo, infatti, è costituito espressamente dalla produzione di un agente inquinante (in questo caso di tipo sonoro) ed il prelievo cresce in ragione dell’aumento dell’impatto negativo che l’agente medesimo esercita sull’ambiente circostante”. Dello stesso avviso R. Alfano, L’applicazione cit., p. 26, la quale ritiene che “tale imposta evidenzia, pur con qualche incertezza della dottrina, il carattere di tributo ambientale in senso stretto: la ratio del prelievo non è infatti quella redistributiva, giustificata dalla capacità economica solidaristica, ma la compensazione di un costo, in tal caso ambientale”. 306 L’aggettivo “speciale” è dovuto alla circostanza che il tributo è istituito per uno scopo particolare da realizzare mediante l’impiego del gettito relativo, il quale risulta vincolato quanto alla sua destinazione. 307 In realtà, un tentativo di introdurre nell’ordinamento un tributo omologo o, comunque, per certi versi con caratteristiche similari a quello in esame, è stato fatto dal legislatore con l’art. 18 del decreto legge n. 101 del 1993. Con tale norma era stata istituita una tassa erariale sull’ingombro dei rifiuti solidi urbani ed assimilabili conferiti in discarica, in ragione di lire 25 al kg. Tuttavia tale decreto legge non fu mai convertito. Difficoltà applicative non disgiunte da ragioni di ordine sistematico hanno, presumibilmente, impedito l’attuazione concreta di un prelievo di tal fatta. Tutto ciò nonostante la Relazione Governativa al Disegno di legge n. 1145 (Senato XI Legislatura) riferisse della necessità di un intervento volto ad incidere in una “situazione di assoluta arretratezza in questa materia in cui versa il nostro paese in rapporto ai paesi più avanzati e l’abuso che si fa di discariche, spesso non autorizzate, in luogo del trattamento industriale dei rifiuti solidi urbani, non solo con danno ecologico, qualche volta irreparabile, ma con perdite economiche rilevanti in rapporto ai prodotti (specie energetici) che è possibile ricavare dai rifiuti”. 116 dai costi ambientali determinati dal fatto che la quasi totalità dei rifiuti solidi viene accolta nelle discariche308. Il tributo sulle discariche viene, quindi, a realizzare quel paradigma concettuale secondo cui le ecotasse dovrebbero incidere in quei settori ove il costo di mercato per i produttori si manifesta come irrilevante, laddove per converso il costo per la collettività è assai elevato e si generano, pertanto, esternalità negative. In questo modo verrebbero a crearsi, per effetto dell’aumento dei prezzi che deriva dal prelievo di cui trattasi, le condizioni per una disincentivazione alla produzione dei rifiuti, implementandosi al contempo tecniche di riciclaggio o di smaltimento che siano più compatibili con l’ambiente.309 Soggetti attivi del tributo sono le regioni che dovranno, entro il 31 luglio di ogni anno per l’anno successivo, fissare con legge l’ammontare dell’imposta per chilogrammo di rifiuti conferiti. La misura è fissata nell’ambito dei parametri (tra un limite minimo ed uno massimo) individuati nell’art. 3, comma 29, della legge n. 549 del 1995.310 Il gettito del tributo è attribuito alle regioni ed una quota del 10 per cento è 308 Sul concetto di discarica, così come desumibile dalle previsioni contenute nel d.p.r. 915 del 1982, la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato delle definizioni che possono compendiarsi nelle seguenti classificazioni: a) quella secondo cui la discarica si configura come un’organizzazione stabilmente e istituzionalmente destinata al processo di smaltimento dei rifiuti; b) quella che ravvisa la discarica in una reiterazione dello scarico dei rifiuti e del loro abbandono in un medesimo luogo; c) quella che ritiene non necessaria la reiterazione, essendo sufficiente anche un solo scarico, purchè di tale entità da far assumere al luogo una non equivoca destinazione alla definitiva ricezione dei rifiuti. Sul tema Botto, Una nozione ambigua: il concetto di discarica, in Riv. giur. amb., 1989, pp. 771 e ss. 309 “La funzione ambientale di tale tributo si sostanzia proprio nel favorire indirettamente la raccolta differenziata ed il riciclaggio. Tale finalità, in quanto esterna al presupposto, ha carattere extrafiscale e risulta ulteriormente rafforzata dalla previsione di riduzioni del tributo nell’ipotesi di rifiuti bruciati in impianti di incenerimento e di scarti provenienti da impianti di riciclaggio, ovvero nella previsione di disposizioni di favore nei confronti di soggetti che riducano la quantità e la capacità inquinante dei rifiuti”, così R. Alfano, L’applicazione cit., p. 25 310 In particolare, tale precetto legislativo prevede che l’ammontare dell’imposta è fissato, per chilogrammo di rifiuti conferiti, in misura non inferiore a lire 2 e non superiore a lire 20 per i settori minerario, estrattivo, edilizio, lapideo e metallurgico. In caso di mancata determinazione dell’importo da parte delle regioni entro il 31 luglio di ogni anno per l’anno successivo, si intende prorogata la misura vigente. In argomento si veda De Paolis, Il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, in Fin. loc., 1996, pp. 755 e ss. 117 assegnata alle province311. E’ interessante osservare come, nell’ottica di una fisionomia ambientale, la legge n. 549/1995 preveda un vincolo di destinazione (art. 3, comma 27). Infatti il 20 per cento del gettito derivante dall’applicazione del tributo (al netto della quota spettante alle province) affluisce in un apposito fondo della regione312, destinato a favorire la minore produzione di rifiuti, le attività di recupero di materie prime e di energia, la bonifica dei suoli inquinati, il recupero delle aree degradate, nonché l’istituzione e la manutenzione delle aree naturali protette.313 Presupposto dell’imposta è il deposito in discarica dei rifiuti solidi, così come definiti e disciplinati nell’art. 2 del d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915 e cioè i rifiuti urbani, i rifiuti speciali, quelli tossici e nocivi, nonché i fanghi palabili. Il soggetto passivo del tributo viene individuato nel gestore dell’impresa di stoccaggio definitivo che dovrà esercitare la rivalsa nei confronti di colui che effettua il conferimento dei rifiuti. Il soggetto conferitore è identificato nel committente del servizio di stoccaggio dei rifiuti, con esclusione di tutti gli altri operatori del settore (vettori, trasportatori, intermediari) che agiscono in nome e per conto del conferitore stesso.314 L’ampia formulazione del testo legislativo lascia intendere che non vi è differenza tra soggetti pubblici e privati, così come sembra ininfluente la distinzione tra discariche interne o esterne alle imprese. Poiché la ratio dell’imposizione sembra indirizzata a colpire unicamente la fase terminale dello smaltimento dei rifiuti ne discende a fortiori che solo lo stoccaggio definitivo costituisce il presupposto per l’applicazione del tributo. Devono considerarsi, quindi, escluse da imposizione tutte le fasi iniziali ed 311 La quota di partecipazione spettante alle province è da ritenersi calcolata sul gettito prodotto dalle operazioni di conferimento di rifiuti nelle discariche ubicate nel territorio di relativa pertinenza. 312 “La previsione che una parte del gettito del tributo debba affluire ad un apposito fondo regionale per la realizzazione di obiettivi correlati con tali competenze ne conferma ulteriormente la connotazione di tributo proprio”, così R. Alfano, L’applicazione cit., p. 25 313 “Tale vincolo parziale del gettito permette di finanziare il bilancio regionale attraverso la realizzazione di un doppio dividendo ed evitare la formazione di nuove imposte, spostando il calcolo economico degli operatori sulla tutela ambientale”, così R. Alfano, L’applicazione cit., p. 25 314 “E’ palese l’intento che il legislatore centrale vuole perseguire con tale tributo e cioè il colpire, traslandone l’incidenza effettiva, il conferitore dei rifiuti nella discarica, soggetto che di fatto usufruisce di un servizio che gli è reso dal gestore della discarica”, così V. Ficari, Prime note cit., p. 96 118 intermedie della raccolta, nonché le fasi finali alternative al deposito in discarica (incenerimento, rigenerazioni, recupero e simili).315 Nell’ipotesi in cui il gestore della discarica conferisca i rifiuti dallo stesso raccolti (tipico il caso del comune che smaltisca i rifiuti provenienti dal suo territorio) si avrà una piena identificazione tra il soggetto passivo a cui la norma riconnette obblighi e rilevanza giuridica e quello che supporta il carico economico tributario.316 L’importo del tributo complessivamente determinato per ogni singola operazione di conferimento è definito in base a un articolato calcolo che tiene conto di tre elementi: a) l’imposta per chilogrammo; b) il quantitativo di rifiuti conferiti; c) un coefficiente di correzione. Allo scopo di commisurare il tributo all’incidenza sul costo ambientale, tale coefficiente di correzione tiene conto del peso specifico, delle qualità e delle condizioni di conferimento dei rifiuti ed è stabilito con decreto del Ministro dell’ambiente, di concerto con i Ministri dell’industria, del commercio e della sanità. Il tributo deve essere versato alla regione con il sistema del versamento diretto da parte del gestore della discarica entro il mese successivo alla scadenza del trimestre solare in cui sono state effettuate le operazioni di deposito. 315 “Da tali caratteristiche generali del tributo è dato desumere che si tratta di un prelievo avente natura contributiva e non commutativa e, quindi, classificabile come imposta con funzione disincentivante e parziale vincolo di gettito. Quanto alla funzione ambientale, si è da alcuno ritenuto (Gallo – Marchetti, I presupposti cit., p. 372) che essa rimanga esterna al presupposto, individuato nell’esercizio dell’attività economica di impresa di stoccaggio dei rifiuti. Tale ricostruzione come imposta di scopo sembra, tuttavia, trascurare tre aspetti fondamentali della fattispecie impositiva: a) il presupposto è costituito dal deposito dei rifiuti in discarica; b) la rivalsa obbligatoria comporta la traslazione dell’onere impositivo sul soggetto che produce i rifiuti da depositare successivamente in discarica; c) la quantificazione in concreto del prelievo dipende dal diverso impatto ambientale dei rifiuti depositati. Ebbene, tutto ciò induce invece a ritenere che si tratti proprio di un’imposta ambientale in senso stretto”, così P. Laroma Jezzi, I tributi ambientali cit., p. 326 316 In effetti il meccanismo mediante il quale il depauperamento patrimoniale viene trasferito dal soggetto contemplato dal precetto legislativo a quello inciso economicamente, sembra riconducibile allo schema della traslazione d’imposta. In ordine a tale fenomeno si veda per tutti Fantozzi, Corso di diritto tributario, Torino, 2005, pp. 272 e ss. 119 Il gestore è altresì tenuto, entro i termini previsti per il versamento relativo all’ultimo trimestre dell’anno, a rilasciare alla regione in cui è ubicata la discarica una dichiarazione contenente l’indicazione delle quantità complessive dei rifiuti conferiti nell’anno nonché dei versamenti effettuati. L’art. 15 del decreto legislativo n. 473 del 1997 ha innovato la disciplina sanzionatoria, originariamente prevista dal comma 31 dell’art. 3. Sono state previste tre fattispecie di illecito (omessa presentazione della dichiarazione, dichiarazione infedele e omessa o infedele registrazione delle operazioni di conferimento) alla quali è stata però apposta un’attenuante nel caso in cui l’errore od omissione non incida sulla determinazione del tributo. Un ulteriore abbuono di pena (a un quarto delle sanzioni irrogate) è previsto anche nel caso in cui, entro i termini per adire l’autorità giudiziaria, interviene adesione del contribuente e contestuale pagamento di tributi e sanzioni. Con il fine precipuo di evitare che il nuovo tributo produca (come effetto di ritorno) una spinta alla creazione di discariche abusive, è stato previsto un articolato sistema sia in funzione preventiva (tale da rendere non remunerativa la utilizzazione delle discariche abusive) che repressiva. Infatti, con una tecnica legislativa che sembra mutuata più dal diritto penale che dal diritto tributario, il soggetto tenuto al pagamento del tributo de quo viene identificato in “chiunque” esercita, ancorché in via non esclusiva, l’attività di discarica abusiva e “chiunque” abbandona, scarica o effettua deposito incontrollato di rifiuti.317 In capo a tale soggetto incombe, inoltre, l’obbligo di procedere alla bonifica ed alla rimessa in pristino dell’area. Un’ulteriore disposizione concerne il proprietario dei terreni sui quali insiste la discarica abusiva, il quale è tenuto in solido con il soggetto che la realizza agli oneri di bonifica, al risarcimento del danno ambientale ed al pagamento del tributo e delle sanzioni pecuniarie ai sensi della legge n. 549/1995, ove quest’ultimo non dimostri di aver presentato denuncia ai competenti organi della 317 Del resto la creazione di una discarica abusiva presuppone in re ipsa una fattispecie di illiceità a cui corrisponde l’applicazione di sanzioni. Sul concetto di discarica abusiva si veda Paone, Osservazioni in tema di realizzazione di discarica abusiva, in Foro it., II, 1988, pp. 370 e ss. 120 regione prima della constatazione delle violazioni di legge.318 La constatazione delle violazioni rientra nelle attribuzioni dei funzionari della provincia, i quali possono accedere nei luoghi adibiti all’esercizio dell’attività e negli altri luoghi dove debbono essere custoditi i registri e la documentazione inerente l’attività. Dell’ispezione dei luoghi e della verifica della documentazione viene redatto processo verbale. E’ prevista la cooperazione della Guardia di finanza per l’acquisizione e il reperimento degli elementi utili ai fini dell’accertamento dell’imposta per la repressione delle connesse violazioni. L’accertamento, la riscossione, i rimborsi, il contenzioso amministrativo e quanto non previsto nella stessa legge n. 549/1995 viene disciplinato con legge regionale.319 “Tutto questo però dal punto di vista teorico. L’analisi relativa ai primi anni di applicazione del tributo evidenzia, in realtà, una lunga serie di proroghe ed un faticoso iter applicativo in sede regionale. Il tributo, incidendo per un’aliquota media del 10 per cento sul costo di smaltimento, può produrre un rilevante gettito: quasi tutte le regioni, però, non hanno costituito il fondo previsto dalla norma. A tutto ciò si aggiungano le difficoltà nei controlli, le divergenze fra quanto dichiarato e quanto versato, l’enorme difficoltà di individuare e tassare le discariche abusive. Né, di converso, si è rilevato un significativo impatto in merito alla dissuasione e sostituzione tecnologica, posto che l’Italia continua a 318 La previsione di una solidarietà passiva tra il soggetto che realizza la fattispecie impositiva ed il proprietario dei terreni sui quali insiste la discarica abusiva, fa sorgere delle perplessità sotto il profilo strettamente giuridico. Infatti da un lato manca una correlazione tra il presupposto impositivo (conferimento dei rifiuti in discarica) e la mera titolarità del diritto reale sul bene (posto che la creazione della discarica abusiva può avvenire anche all’insaputa di tale soggetto). Dall’altro non si realizza una obbligazione da fatto illecito ex art. 2043c.c. né tantomeno l’ipotesi del cd. danno ambientale così come delineato dall’art. 18 della legge n. 349 del 1986. Manca, invero, perché possano configurarsi simili fattispecie, l’esistenza di un nesso causale tra il compimento di una specifica attività colposa o dolosa ed il danno da risarcire. Si veda per tale ordine di considerazioni Feola, L’art. 18 L. 348/86 sulla responsabilità civile per il danno all’ambiente: dalle ricostruzioni della dottrina alle applicazioni giurisprudenziali, in Quadrimestre, 1992, pp. 541 e ss. 319 In merito alla tutela giurisdizionale, il comma 36 dell’art. 3 ha aggiornato la lista dei tributi soggetti alla giurisdizione delle commissioni tributarie aggiungendo il tributo in questione. 121 smaltire in discarica la pluralità dei propri rifiuti urbani”.320 4 I tributi ambientali degli enti locali 4.1 La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani La tassa321 per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), originariamente disciplinata dal T.U.F.L. n. 1175 del 1931, è stata successivamente rivisitata con il d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915 recante norme per l’attuazione delle direttive CEE n. 75/442 relativa ai rifiuti322, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorotrifenili e n. 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi. Successivamente, con l’art. 4 della legge 23 ottobre 1992 n. 421, il governo è stato delegato ad emanare norme di revisione ed armonizzazione della disciplina di diversi tributi locali tra cui la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Dalla lettura dei criteri ispiratori della legge delega si evince che tale provvedimento ha previsto la revisione della disciplina al fine di ricondurre il tributo alla sua natura di tassa, correlando il prelievo al servizio concretamente fruibile in relazione alle specifiche esigenze dell’utente ed in base a parametri obiettivi.323 Il decreto legislativo 15 novembre 1993 n. 507, nel rispetto della legge delega, ha accentuato la correlazione tra occupazione degli immobili e produzione dei rifiuti, tenendo conto anche di particolari condizioni d’uso influenti sulla potenzialità di 320 Così R. Alfano, L’applicazione cit., p. 25 “La tassa ecologica realizza un paradigma di scambio fra cittadini e operatore pubblico; è tributo a struttura commutativa, il cui presupposto di fatto è la domanda (obbligatoria e irrinunciabile, conseguente al solo fatto di appartenere ad una determinata collettività) di una prestazione costituente un servizio pubblico istituzionale (nella specie: tutela dell’ambiente) che l’ente impositore ha l’obbligo di effettuare a fronte dell’imposto prelievo. Deve essere evidenziato che la tassa, attesine i caratteri esposti, è finalizzata a prevenire, ove possibile, l’inquinamento anziché a eliminarlo dopo il verificarsi di un danno”, così Matteini Chiari, La natura della tariffa istituita dall’art. 49 del d. lgs. n. 22/1997, in Riv. giur. amb., 1999, pp. 459 e ss. 322 La definizione di rifiuto contenuta nell’art. 2 del d.p.r. n. 915/82 comprende “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”. 323 Perplessità in ordine alla qualificazione giuridica del prelievo vengono manifestate da Tosi, Principi generali del sistema tributario locale, in Riv. dir. trib., fasc. 1, 1995, p. 21, il quale ne evidenzia la natura ambigua rilevando come “la corrispettività, tipica della tassa, comporta l’estraneità del tributo dal campo ambientale, poiché lo giustifica in termini di controprestazione per il servizio ricevuto e non come costo puro a carico del soggetto inquinante; viceversa, l’assenza di un nesso commutativo tra prelievo e prestazione del servizio pubblico depone a favore della matrice prettamente ambientale del tributo”. 321 122 generare rifiuti dei singoli utenti.324 Ai sensi dell’art. 58 del d. lgs. 507/93, in relazione al servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni325 svolto in regime di privativa, i comuni debbono istituire una tassa annuale, disciplinarla con apposito regolamento e fissare la relativa tariffa secondo le regole e i criteri posti dal suddetto decreto.326 La tassa deve essere commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti solidi interni ed equiparabili327 producibili nei locali ed aree occupati, per unità di superficie imponibile e per il tipo di uso cui i medesimi sono destinati.328 Il prelievo deve essere inoltre rapportato al costo del servizio di smaltimento. Trattandosi di parametri legali vincolanti per il comune in sede di determinazione della tariffa, i contribuenti potranno censurare la legittimità dei provvedimenti tariffari che si basano su criteri diversi da quelli previsti dalla legge. 324 “Occorre osservare che il carattere commutativo del tributo è piuttosto labile, in quanto i criteri di ripartizione di tale costo tra i singoli utenti non sono riferiti al concreto utilizzo del servizio da parte di ciascuno (data la difficoltà pratica che comporterebbe la determinazione di questo) bensì dalla fruizione potenziale desunta dalla occupazione di immobili. Né si può ignorare che, se il servizio di raccolta dei rifiuti arreca un beneficio divisibile a ciascun utente, evitandogli di dover provvedere direttamente a liberarsene, quello di smaltimento soddisfa prevalentemente un interesse generale”, così Falsitta, La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), in Manuale di diritto tributario, Padova, 2003, pp. 685-686. 325 Ossia quelli provenienti dalle abitazioni e da altri insediamenti civili, che non rientrino tra i rifiuti speciali ovvero tossici o nocivi, dovendo questi essere smaltiti a proprie spese da chi li produce (art. 62, comma 3). Sull’argomento si veda Del Federico, Sulla esclusione dei rifiuti speciali dalla tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani: aspetti processuali e sostanziali, in Boll. trib., 1991, pp. 808 e ss. 326 La tariffa è commisurata all’anno solare, al quale corrisponde un’autonoma obbligazione tributaria decorrente dal bimestre solare successivo a quello di inizio dell’utenza. Corrispondentemente, in caso di cessazione dell’occupazione, si ha diritto all’abbuono del tributo dal bimestre successivo a quello di presentazione della denuncia di tale fatto. La tassa si applica in base ad una denuncia che i possessori o detentori debbono presentare entro il 20 gennaio dell’anno successivo all’inizio dell’occupazione, che ha effetto anche per gli anni successivi se le condizioni di tassabilità rimangono immutate; ogni cambiamento influente sull’applicazione del tributo deve invece essere denunciato. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo. Il comune provvede alla rettifica delle dichiarazioni infedeli o incomplete emettendo avviso di accertamento entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione, od all’accertamento d’ufficio per quelle omesse entro il quarto anno successivo a quello in cui dovevano essere presentate. 327 Con l’art. 21 d.p.r. 915/1982 ai comuni è stato attribuito il potere di dichiarare, mediante apposita delibera, l’assimilazione ai rifiuti urbani di quelli provenienti da attività artigianali, commerciali e di servizi, fatta eccezione di quelli industriali e agricoli ed ovviamente di quelli tossici e nocivi. 328 Presupposto della tassa è infatti l’occupazione o detenzione di locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, siti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in modo continuativo (art. 62). Soggetti passivi sono gli occupanti o detentori degli immobili: i componenti del nucleo familiare e coloro che usano i locali o le aree sono obbligati in solido (art. 63). 123 Parte della dottrina329 ritiene che il tributo in esame sia sicuramente incentrato sul principio comunitario chi inquina paga in quanto la normativa di recepimento si basa sulle indicazioni contenute nelle direttive relative ai rifiuti, le quali fanno costantemente riferimento ad esso.330 Cosicché i criteri di determinazione del prelievo, benché di natura forfetaria, sarebbero compatibili con il canone comunitario nella misura in cui tali metodi medio ordinari risultino rispondenti alle esigenze di razionalità e semplificazione del prelievo.331 Resta inteso che la specifica redditività delle diverse attività economiche non può alterare il criterio di riparto che caratterizza la TARSU.332 D’altro canto il legislatore non ha ritenuto possibile la commisurazione della tassa ai rifiuti effettivamente prodotti, essendo evidente che tale soluzione, a parte le difficoltà di individuazione dell’entità del conferimento del singolo utente, avrebbe potuto incentivare la dispersione dei rifiuti nell’ambiente. Tuttavia in relazione ai piccoli comuni può risultare ammissibile un prelievo commisurato alla qualità e quantità dei rifiuti effettivamente prodotti: infatti l’art. 65 prevede la facoltatività di tale criterio per i comuni con meno di 35000 abitanti, 329 Su tutti Verrigni, La rilevanza cit., pp. 1637 e ss. In particolare si consideri l’art. 15 della direttiva 91/442/CEE secondo cui “conformemente al principio chi inquina paga il costo dello smaltimento dei rifiuti deve essere sostenuto dal detentore che consegna i rifiuti ad un raccoglitore o ad un’impresa di cui all’art. 9 e/o dai precedenti detentori o dal produttore del prodotto causa dei rifiuti”. 331 Di diverso avviso Pennella, Sull’interpretazione autentica della nozione di rifiuto solido ai fini della relativa tassa di smaltimento, in Rass. trib., fasc. 2, 2003, secondo cui “i criteri di determinazione della base imponibile individuata nelle superfici dei locali e delle aree scoperte rendono non significativa la relazione tra il servizio di smaltimento (e poi di gestione) e l’entità dell’imposizione in quanto l’elemento noto su cui si fonda la relativa presunzione di produzione dei rifiuti non risulta poiché sono le persone umane e non le superfici a determinare il rifiuto domestico”. Sulla stessa linea di pensiero Selicato, I singoli tributi cit., pp. 150-151, il quale ritiene che “l’adozione di un siffatto metodo di determinazione medio ordinario del tributo conduce ad una dissociazione dal principio chi inquina paga posto che non vi è una reale corrispondenza tra il prelievo e l’effettiva produzione dei rifiuti. Si manifesta, quindi, un trend all’inversione rispetto a quei parametri ambientali ispirati alla determinazione delle ecotaxes avuto riguardo alla qualità e quantità delle emissioni inquinanti. Da ciò consegue il venir meno di quel tipico effetto disincentivante (a cui dovrebbero tendere simili formule impositive) alla produzione di rifiuti inquinanti e paradossalmente una potenziale maggior propensione alla creazione di residui”. 332 In molteplici occasioni la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto illegittima la determinazione delle tariffe, per violazione del principio chi inquina paga, nella parte in cui non veniva data rilevanza all’uso cui sono destinati i locali, e cioè alla potenziale capacità di produrre una maggiore o minore quantità di rifiuti In particolare si è ritenuta illegittima la commisurazione della TARSU sulla base del criterio della redditività dell’attività economica svolta (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. I, 13 maggio 1994, n. 366, in Foro amm., 1994, p. 2170). 330 124 ma è intuibile la scarsa praticabilità di tale soluzione. L’art. 61, comma 1, impone che il gettito complessivo della TARSU debba situarsi all’interno di una “banda di oscillazione”delimitata nel massimo dal costo di esercizio del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni e nel minimo da una percentuale del costo medesimo, determinata in relazione alla situazione finanziaria dell’ente locale.333 Si tratta di un’ulteriore conferma della ratio giustificatrice del tributo: infatti il mancato rispetto del limite massimo può comportare l’illegittimità delle tariffe e l’acquisizione dell’eccedenza da parte dell’ente locale in situazione di carenza di potere, consentendo ai contribuenti l’impugnazione delle delibere tariffarie e/o la ripetizione di quanto pagato in più. Per quanto riguarda il collegamento tra fruibilità del servizio ed applicabilità del tributo, l’art. 59, comma 4, prevede che “se il servizio raccolta, sebbene istituito ed attivato, non è svolto nella zona di residenza o di dimora nell’immobile a disposizione ovvero di esercizio dell’attività dell’utente, il tributo è dovuto nella misura ridotta (non oltre il 40 %) di cui al secondo periodo del comma 2”.334 Si tratta ora di verificare se in questo caso l’applicabilità della TARSU, sia pure in misura ridotta, possa presentare qualche profilo di incompatibilità con il principio comunitario chi inquina paga. Una volta identificato il fondamento della TARSU nel criterio di riparto basato sul canone comunitario diventa agevole fugare i dubbi sulla legittimità costituzionale e comunitaria dell’art. 59, comma 4. Bisogna rilevare come il fondamento comunitario prescinde dall’espletamento dei servizi pubblici ambientali. In virtù di tale principio l’inquinatore deve corrispondere il tributo in quanto crea un danno ambientale alla collettività, e non in quanto utente del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti. Altro problema è posto dall’art. 61, comma 3 bis, il quale prevede che il 333 In particolare: 50% per i comuni che non hanno problemi finanziari, 70% per quelli strutturalmente deficitari, 100% per quelli in dissesto. 334 “Il tributo non cessa di essere dovuto per la carenza sostanziale del sevizio; ovverosia, l’effettività del potere di imposizione non dipende dalle forme positive di esercizio del servizio quanto piuttosto dall’istituzione del servizio in sé”, così Tremonti, Profili della “tassa per la raccolta e il trasporto dei rifiuti solidi urbani interni” e del “corrispettivo” per la raccolta dei rifiuti solidi industriali, in Riv. dir. fin., I, 1997, pp. 590 e ss. 125 regolamento comunale indichi l’entità della spesa per la gestione dei rifiuti esterni (giacenti cioè su strade pubbliche) da dedurre dal costo complessivo del servizio da finanziare con il gettito della tassa. Si tratta di una norma che mira ad aumentare le possibilità di finanziamento dei comuni, a spese della coerenza della struttura del prelievo, configurato come tassa e non come imposta. Tuttavia il sistema delineato dalla norma è da ritenersi sufficientemente ragionevole e conforme al criterio chi inquina paga essendo inevitabile l’uso di meccanismi forfetari, di parametri, di strumenti presuntivi.335 Recentemente la giurisprudenza di legittimità336, in virtù dell’art. 62, comma 2, ha ritenuto applicabile la TARSU ad un immobile di fatto inutilizzato dal proprietario, ma che risultava allacciato ai servizi di rete (elettrico, idrico). L’orientamento della Corte di Cassazione, basato sulla interpretazione letterale della norma, potrebbe risultare in prima battuta condivisibile ma suscita profonde perplessità laddove trascura la matrice comunitaria della TARSU. In verità, se sul piano della snellezza ed efficienza dell’azione impositiva è consentito circoscrivere l’esclusione della TARSU in relazione ai soli locali obiettivamente non utilizzabili, si potrebbe comunque riconoscere in ossequio al principio chi inquina paga la possibilità per il contribuente di fornire la prova del concreto non utilizzo, ad esempio mediante il riscontro delle utenze. “In sostanza, sia pure mediante un’inversione dell’onere della prova ed un 335 Il problema è stato affrontato ripetutamente dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui è corretto fare riferimento ai parametri dell’uso e della superficie dei locali solo al fine di ripartire i costi del servizio relativo ai rifiuti interni. Al contrario, per la ripartizione dei costi del servizio indivisibile dei rifiuti esterni è necessario rapportarsi alla capacità contributiva dei soggetti passivi, non ad un indice di fruibilità di un pubblico servizio divisibile. Peraltro, la censura di illegittimità non si ricollega solo ad un’intrinseca irragionevolezza del criterio di ripartizione, ma anche alla contrarietà con il principio comunitario chi inquina paga, il quale deve prevalere sulla normativa italiana in relazione al primato del diritto comunitario su quello nazionale. In tal senso numerose sentenze del TAR Lombardia, tra cui cfr. n. 1 del 14 gennaio 1991, in Fin. loc., 1992, p. 111. Il Consiglio di Stato (sez. V, 9 luglio 1994, n. 744, in Fin. loc., 1996, p. 790) riformando in appello una delle citate pronunce del TAR Lombardia, ha ritenuto che se la produzione dei rifiuti interni è riferibile, seppure sulla base di criteri presuntivi, agli occupanti dei fabbricati, per i rifiuti esterni non esiste un analogo diretto criterio di imputazione e pertanto il legislatore ben può scegliere di far ricadere i relativi costi sull’intera collettività e sulle risorse di cui è dotato il comune, oppure di considerare unitariamente il servizio e di richiedere il pagamento del costo complessivo solo a chi può produrre rifiuti interni. 336 Cfr. Cassazione, sez. trib., sentenza del 27 novembre 2002 n. 16785, in Corr. trib., fasc. 11, 2003, pp. 899 e ss., con commento di Verrigni, Il principio comunitario chi inquina paga nell’applicazione della TARSU. 126 particolare rigore nella valutazione della stessa, dovrebbe essere consentito al contribuente di sottrarsi al pagamento di un onere compensativo di costi pubblici rispetto alla causazione dei quali egli è completamente estraneo”337. Secondo l’art. 49 del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 (decreto “Ronchi”) la tassa in esame doveva essere soppressa a far data dal 1° gennaio 2000 ed essere sostituita con una tariffa. Tuttavia in ragione delle innumerevoli problematiche connesse a tale cambiamento, il d.p.r. 27 aprile 1999 n. 158 ha introdotto un regime transitorio che lascia coesistere tassa e tariffa sino al 2008. Le motivazioni che hanno portato alla sostituzione della tassa con la tariffa sono state individuate, in particolare, in alcune inadeguatezze del metodo di quantificazione e nella rigidità dello strumento tributario. Si pensi: alla scarsa significatività della superficie dei locali al fine di una equa e corretta commisurazione del concorso alla copertura dei costi del servizio in rapporto al principio chi inquina paga; alla eterogeneità dei provvedimenti tariffari non sempre consoni al fondamentale criterio della produzione media ordinaria dei rifiuti; alla difficoltà del legislatore in ordine all’individuazione di un corretto criterio di addebito dei costi relativi al servizio concernente i rifiuti esterni. Ma andiamo ad analizzare insieme quali sono le analogie che permangono e quali i cambiamenti all’indomani dell’entrata in vigore della nuova disciplina. 4.1.1 La singolare metamorfosi della tassa rifiuti in tariffa Con la pubblicazione del regolamento sul metodo normalizzato338 è giunto a 337 Ancora Verrigni, La rilevanza cit., p. 1641 Il d.p.r. 158/99 ha il compito di definire la procedura di determinazione della tariffa di riferimento attraverso il metodo normalizzato. Quest’ultimo in particolare individua le componenti di costo del servizio di gestione dei rifiuti che devono essere finanziate con la tariffa, distinguendo in particolare le spese da fronteggiare con la quota fissa da quelle relative alla quota variabile. La tariffa di riferimento invece ha la funzione di orientare i comuni nella determinazione concreta del prelievo. Con il sistema del cosiddetto price cap (già adottato nell’ambito del servizio idrico) si stabilisce che le successive deliberazioni tariffarie debbano variare in funzione del tasso di inflazione programmato e del recupero di produttività atteso. Il metodo normalizzato si fonda sulla distinzione delle utenze tra domestiche (abitazioni e convivenze) e non (operatori economici). Più precisamente, occorre innanzitutto quantificare i 338 127 compimento l’iter normativo che ha portato la cosiddetta “tariffa Ronchi” ad entrare in vigore dal 1° gennaio 2000. Come noto, la tariffa ha sostituito la tassa smaltimento rifiuti339, con il dichiarato intendimento, emergente dalla lettura delle disposizioni del d. lgs. 22/97, di attuare una forma di prelievo più aderente alla mutata sensibilità dell’ordinamento alle istanze tendenti a configurare un vero e proprio diritto dell’ambiente. Chiaro appare anche il proposito di “rivedere il sistema dei tributi locali”, ampliando gli spazi del potere regolamentare dei comuni e delle province nel convincimento che ciò consenta di dare attuazione al federalismo fiscale.340 La trasformazione dei tributi locali in canoni riflette, pertanto, l’esigenza di rendere più flessibile il prelievo, adeguandolo al fabbisogno finanziario degli enti locali, divenuto sempre più crescente anche per la graduale riduzione dei trasferimenti erariali.341 Le intenzioni ispiratrici sono dunque senz’altro lodevoli, mentre meno condivisibile risulta l’impianto della tariffa, non privo di lacune e dall’incerta realizzazione. Non è estranea a tale esito la non chiara individuazione degli obiettivi e quindi l’incongrua relazione tra mezzi e finalità. La tariffa si propone di reperire risorse finanziarie per il servizio di gestione dei rifiuti342 svolto in privativa dai comuni, in analogia con quanto accadeva con la tassa rifiuti, istituita per coprire le spese del servizio di smaltimento; al concetto di rifiuti provenienti dalle prime e quelli prodotti dalle seconde e poi attribuire, secondo criteri nazionali, i costi di gestione (fissi e variabili) a ciascuna di esse. 339 Il prof. Gallo, nella relazione della commissione di studio per il decentramento fiscale da lui presieduta, rileva che “la sostituzione della tassa con una tariffa è una richiesta non recente dell’ANCI che riflette, indipendentemente da ogni atteggiamento federalista, l’insofferenza dei comuni nei confronti di una normativa statale alluvionale e confusa”. 340 Così la relazione illustrativa al collegato alla finanziaria per il 1997, secondo cui la riforma è “tesa a modernizzare il sistema, assicurando agli enti locali margini di autonomia nettamente superiori a quelli attuali e una più incisiva configurazione dei prelievi locali, sopprimendo quelli obsoleti, trasformando quelli non più attuali e ridisegnando i tributi di maggiore rilievo”. 341 Per un’analisi più generale si veda D’Amati, Saggi di finanza pubblica, Bari, 1990, p. 321, il quale, sottolineata l’esigenza di ricostituire l’autonomia impositiva degli enti locali, mette in evidenza che “solo il principio del beneficio, restituito alla sua matrice finanziaria, può consentire la creazione di un sistema di tributi locali fondato su due elementi: il valore degli immobili ed il consumo dei singoli”. 342 L’art. 6, al primo comma, stabilisce che, ai fini del decreto in esame, può intendersi per rifiuto quel bene di cui il detentore si sia privato, abbia l’obbligo o abbia deciso di disfarsi. Il rifiuto consiste in una sostanza o oggetto, derivante da attività umane o da cicli naturali, che, indipendentemente dallo stato fisico (solido, liquido, gassoso), rientra tra le categorie individuate dalle tabelle allegate al testo normativo. 128 smaltimento si è sostituito per l’appunto quello di gestione che ricomprende tutte le fasi di trattamento, all’interno delle quali, nell’ottica innovativa del decreto Ronchi, la fase dello smaltimento dovrebbe tendenzialmente rappresentare un’attività marginale.343 Più precisamente, l’art. 21, al primo comma, individua i compiti svolti in privativa dai comuni attraverso riferimenti soggettivi e oggettivi. Sotto il profilo soggettivo, vi rientrano: a) la gestione dei rifiuti delle utenze domestiche (civili abitazioni e convivenze, quali convitti o caserme); b) la gestione dei rifiuti assimilati agli urbani avviati allo smaltimento da parte degli operatori economici. E’ chiaro come, dal lato delle utenze domestiche, l’obbligo del conferimento al servizio pubblico riguarda la totalità dei rifiuti prodotti, mentre dal lato degli operatori economici tale obbligo è limitato a quelli “avviati allo smaltimento”. Ne consegue che per i rifiuti oggetto di recupero le imprese possono legittimamente sottrarsi alla privativa e rivolgersi conseguentemente ad altri soggetti autorizzati. Sotto il profilo oggettivo, la privativa riguarda i rifiuti urbani ed assimilati agli urbani, la cui individuazione deve prendere le mosse dalla classificazione contenuta nell’art. 7. A mente di detta norma i rifiuti si distinguono, a seconda della loro provenienza, in urbani e speciali. Rientrano nei primi, tra gli altri, i rifiuti domestici provenienti dalle case di civile abitazione, quelli di qualunque natura giacenti sulle aree e strade pubbliche, nonché i rifiuti provenienti da insediamenti diversi da quelli di civile abitazione assimilati agli urbani. I rifiuti speciali sono invece elencati nel terzo comma del predetto art. 7 e provengono, in via generale, dalle attività produttive.344 343 “La suddetta gestione viene a sostanziarsi in molteplici attività che risultano mirate non semplicemente all’esercizio di un servizio di pubblica utilità, bensì, precipuamente, alla tutela (cui il predetto servizio risulta strumentale) di un bene primario proprio della collettività e/o dei singoli quali soggetti sociali, vale a dire quel bene che va sotto il nome di ambiente”, così Mattini Chiari, La natura cit., p. 467 344 “Sono rifiuti speciali: 129 Infine, in virtù dell’art. 21, 2° comma, i comuni hanno il potere di regolamentare l’assimilazione dei rifiuti speciali a quelli urbani, sulla base di criteri qualitativi e quantitativi. Al fine di identificare le sostanze che possono essere assimilate, gli enti sono tenuti ad applicare le indicazioni tecniche emanate dal governo con appositi provvedimenti. Nelle more dell’elaborazione di tali indicazioni restano in vita i criteri applicabili prima dell’entrata in vigore del decreto Ronchi, contenuti nella deliberazione interministeriale del 27 luglio 1984. Alla luce di quanto espresso emerge con chiarezza che, sebbene la naturale qualificazione dei rifiuti degli operatori economici sia quella speciale, i comuni hanno la facoltà di ricondurre tra i rifiuti assimilati tutte le sostanze precisate nella suddetta delibera del 27 luglio 1984, a prescindere dalla natura dell’attività svolta (ad esempio industriale piuttosto che artigianale). Il presupposto della tariffa è costituito dalla occupazione o conduzione di locali o aree scoperte, con eccezione delle superfici accessorie e pertinenziali, ricalcando così il presupposto della tassa rifiuti definito nell’art. 62 del d. lgs. 507/93.345 E’ evidente quindi che il legislatore non ha ritenuto di doversi discostare dal modello tributario, fondato sulla presunzione relativa di legge secondo la quale la presenza dell’uomo comporta di regola la formazione di rifiuti, salvo prova contraria. Si tratta di un ulteriore segnale della presenza di un prelievo non necessariamente a) i rifiuti da attività agricole e agro – industriali; b) i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo; c) i rifiuti da lavorazioni industriali; d) i rifiuti da lavorazioni artigianali; e) i rifiuti da attività commerciali; f) i rifiuti da attività di servizio; g) i rifiuti derivanti dalle attività di recupero e smaltimento, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi; h) i rifiuti derivanti da attività sanitarie; i) i macchinari e le apparecchiature deteriorati ed obsoleti; j) i veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e loro parti.” 345 “Appare evidente, quindi, che il legislatore ha continuato a collegare la soggettività passiva alla relazione giuridica tra soggetto e immobile idoneo alla produzione di rifiuti esistente nelle zone del territorio comunale”, così Uricchio, La trasformazione della tassa rifiuti in tariffa nel decreto “Ronchi”, in Boll. trib., n. 3, 1997, p. 207 130 collegato alla effettiva produzione di rifiuti, ma che si basa nuovamente su presunzioni legali. Ne costituisce riprova la disposizione del comma 14 del richiamato art. 49, nella parte in cui fa obbligo ai comuni di stabilire coefficienti di riduzione a favore delle imprese che abbiano avviato al recupero i rifiuti. E’ chiaro infatti come in un rapporto sinallagmatico (pago in funzione del reale utilizzo del servizio pubblico) l’applicazione del coefficiente di riduzione non avrebbe alcun senso. La struttura della tariffa, il cui concreto ammontare è determinato con delibera comunale, ha due valori poiché una quota di esse (fissa)346 è destinata al finanziamento degli investimenti e delle spese generali e non varia quindi in ragione delle quantità prodotte, mentre l’altra (variabile)347 dovrebbe essere rappresentativa dell’effettivo grado di fruizione del servizio comunale. Il gettito complessivo inoltre deve essere tale da assicurare, sempre con gradualità, la copertura integrale dei costi di gestione. Costituisce inoltre condizione tecnica del sistema tariffario entrante la gestione dei rifiuti in ambiti territoriali ottimali (di regola coincidenti con il territorio della provincia) al fine di giungere alla unificazione del servizio in capo ad un unico gestore e ottenere così i recuperi di produttività sui quali fa affidamento il decreto in esame per ridurre, nel tempo, l’onere per i cittadini. Siamo ora in grado di trarre le prime conclusioni sui profili giuridici della nuova entrata comunale. 346 La quota fissa delle utenze domestiche si ottiene dividendo i costi fissi totali imputabili a tale categoria per la superficie totale occupata e moltiplicando la tariffa unitaria così ricavata per la superficie dell’abitazione e per un coefficiente di adattamento al numero dei componenti il nucleo familiare. La quota fissa relativa agli operatori economici, invece, è ottenuta dividendo il totale dei costi fissi per la superficie complessiva occupata dagli operatori e moltiplicando il costo unitario così conteggiato per la superficie utilizzata dal singolo utente, il tutto corretto da un coefficiente che tiene conto della produttività media potenziale della specifica attività. 347 La quota variabile delle utenze domestiche viene ricavata dividendo i costi complessivi variabili, assegnabili a tali utenze, per la quantità totale di rifiuti ad esse riferibili e moltiplicando il costo unitario per chilogrammo così calcolato: a) per la quantità dei rifiuti prodotta dalla specifica utenza, a sua volta rinveniente dalla ripartizione delle quantità totali per il numero totale delle utenze domestiche; b) per il coefficiente di ponderazione del numero dei componenti il nucleo familiare. La quota variabile concernente gli operatori economici è il risultato della suddivisione delle spese variabili per i chilogrammi complessivi formati e della moltiplicazione di tale costo unitario per la superficie occupata e per il coefficiente di produzione di rifiuti per metro quadrato riferito alla categoria economica. 131 Occorre in primo luogo osservare che, se l’intenzione originaria del legislatore era quella di attuare un rapporto concepito su basi contrattuali, sia pure connotato dalla presenza di rilevanti interessi pubblici (alla stregua dei contratti di somministrazione di acqua o di energia elettrica), il risultato non risponde in alcun modo alle attese per una serie di motivi. Prima di tutto non ci si può sottrarre al pagamento della tariffa trattandosi di somma dovuta a fronte di una privativa di legge; ciò significa tra l’altro che, a differenza di quanto accade per i prezzi pubblici, nella specie non è ravvisabile la volontà del privato di richiedere la prestazione riservata, poiché essa è obbligatoria per entrambe le parti in presenza delle condizioni di legge dinanzi citate. Il presupposto continua ad essere costituito, come innanzi illustrato, dalla occupazione dei locali e non dalla effettiva produzione di rifiuti, con il risultato, già dinanzi evidenziato, che il persistente ricorso alle presunzioni legali allontana lo schema di riferimento da modelli di tipo sinallagmatico. L’assenza di elementi di natura contrattuale o volontaristica è altresì testimoniata dalle modalità di scelta delle regole di espletamento del servizio, le quali vengono unilateralmente stabilite dal comune attraverso la semplice approvazione del regolamento di cui al menzionato art. 21. La tariffa, infine, come già riportato, copre sia costi derivanti da prestazioni divisibili, attraverso una quota che varia in funzione della quantità di rifiuti prodotti e della qualità del servizio, sia costi per utilità rese in favore della collettività, rappresentati dalla quota fissa dovuta per lo spazzamento delle strade, per la spesa del personale amministrativo, per gli investimenti in impianti. Quest’ultima parte va pagata anche se l’operatore economico dimostri di aver avviato al recupero l’intera quantità di rifiuti prodotti, proprio in ragione del fatto che il presupposto della relativa obbligazione prescinde completamente dall’effettiva fruizione del servizio pubblico da parte dell’utente.348 Anche tale caratteristica rende assai improbabile l’accostamento ai prezzi pubblici, poiché 348 Sarebbe interessante a questo punto chiedersi perché non debbano ritenersi obbligati al pagamento della quota fissa anche i produttori di rifiuti speciali, considerato il generale beneficio assicurato dalle spese con essa fronteggiate. 132 questi ultimi sono, in via di principio, corrispettivi di una prestazione specifica.349 Dalle considerazioni che precedono, dunque, si desume come la tariffa debba essere qualificata quantomeno alla stregua di una prestazione imposta350, anche se in realtà essa presenti tratti che la avvicinano molto alle entrate tributarie.351 La netta separazione contabile ed economica della quota destinata alla copertura dei costi fissi pone in effetti, con maggior evidenza rispetto all’analoga vicenda della tassa rifiuti, il problema del ripensamento di essa quale imposta vera e propria. L’entrata si rivela, infatti, in parte priva di qualsivoglia connotato di commutatività. Vale la pena evidenziare come alla ricostruzione della tariffa quale entrata 349 “Debbo segnalare che i primi contributi dottrinali alla soluzione del problema convergono nel senso di ritenere che la tariffa prossima ventura non abbia natura giuridica di tributo. Al più si concede l’assimilabilità alla sostituita TARSU per i profili di forma, ma per quelli di sostanza la si include nel settore dei pubblici prezzi. Per assentire l’avversata tesi, la norma avrebbe dovuto statuire la sottrazione della vicenda dei rifiuti all’imposizione tributaria, mentre essa, all’evidenza, si limita a sottrarre la detta materia ad una determinata disciplina. Non vi è dubbio che tassa e tariffa (in senso stretto) si differenzino fra loro, essenzialmente in ragione della diversa natura giuridica, tributaria nel primo caso, più limitatamente amministrativa (trattandosi del prezzo pubblico di un servizio) nel secondo. Non pare a me dubitabile che al quesito posto debba essere data soluzione nel senso che la tariffa abbia natura di tributo, non sembrandomi che essa evochi immagini di corrispettivo in senso stretto di una prestazione di servizio. Trattandosi di un tributo appartenente alla specie dei tributi ecologici, la cui disciplina, di assoluto rilievo, rappresenta il primo davvero organico tentativo di dare all’ambiente, mediante l’imposizione tributaria, congrua tutela a fronte delle condotte inquinatorie ipotizzabili in materia di rifiuti, così Mattini Chiari, La natura cit., pp. 465-466 350 “La somma dovuta per il finanziamento del servizio comunale di raccolta e smaltimento dei rifiuti, qualunque sia il nomen attribuitole, partecipa dei caratteri delle prestazioni imposte collocandosi all’interno di un assetto normativo vincolato, caratterizzato, da un lato, dall’obbligo posto a carico dell’ente locale di istituire un servizio nell’interesse dell’intera collettività e, dall’altro, da quello del soggetto privato di avvalersene”, così Uricchio, La trasformazione cit., p. 207 351 “A mio sommesso avviso, la tariffa sul piano fattuale si presenta con una natura particolare, che oserei dire anfibia. E’ sì corrispettivo di un servizio reso, ed è riscossa da un soggetto privato, ma è anche vero che il mancato pagamento del dovuto non incide solo sul rapporto bilaterale singolo cittadino – fornitore del servizio ma sull’intera collettività, proprio come accade per la fiscalità generale. Su di essa infatti si ribaltano i relativi costi indotti, poiché comunque va rispettato l’equilibrio economico di gestione del servizio. Siamo dunque in presenza di una situazione ben diversa dai normali servizi a rete, dove in caso di inadempimento del cliente il fornitore può sospendere il servizio, con ciò salvaguardando la sinallagmaticità del rapporto, senza che gli altri clienti ne abbiano il minimo effetto né diretto né indiretto. Alla luce della sopravvenuta normativa, la via maestra sarebbe un intervento ad hoc che legittimi l’emissione del ruolo coattivo previo visto di esecutività ex art. 52, comma 5, del d. lgs. 446/97 anche per i crediti verso i gestori del servizio derivanti dall’emissione di bollette per la tariffa dei rifiuti. Ciò, infatti, riduce notevolmente i costi di gestione all’interno della tariffa e quindi permette di salvaguardare l’intera cittadinanza dagli impropri effetti economici sopra delineati”, così Bianconcini, Tributo o corrispettivo? Natura anfibia della tariffa dei rifiuti e problematiche della riscossione: una possibile soluzione, in Fin. loc., n. 11, 2003, pp. 1527-1528 133 tributaria abbia contribuito lo stesso estensore del regolamento sul metodo normalizzato, allorquando, nel definire le componenti di costo da cui scaturisce la quota fissa, menziona testualmente le spese dell’accertamento. Ora, è evidente che l’utilizzo del termine “accertamento” rinvia esplicitamente allo schema legale del tributo e non già a quello del prezzo pubblico. Inoltre, ai sensi dell’art. 49, comma 15, la riscossione volontaria e coattiva della tariffa potrà essere effettuata con l’obbligo del non riscosso per riscosso, tramite ruolo, secondo le disposizioni dei d.p.r. 29 settembre 1973 n. 692 e 28 gennaio 1988 n. 43, vale a dire mediante modi propri dell’imposizione fiscale. In ogni caso, anche la semplice segnalazione dell’appartenenza al novero delle prestazioni imposte comporta il rispetto della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione.352 In verità, sotto questo aspetto, sembra che la disciplina di riferimento, in relazione alla quale si deve effettuare la verifica della conformità al dettato dell’art. 23 Cost., sia quella contenuta nel più volte richiamato art. 49, posto che il regolamento sul metodo normalizzato, sebbene abbia assunto la forma del d.p.r., ha natura di normazione secondaria come tale in suscettibile di colmare eventuali lacune legislative. Ebbene, parte della dottrina353 ritiene che non è dato rintracciare nella disposizione normativa in commento elementi sufficienti a comprendere il procedimento tecnico di costruzione della tariffa di riferimento cosicché non è possibile accertare se l’ente impositore stia in concreto esercitando i propri poteri nel rispetto dei limiti di legge. Il vizio appena paventato è peraltro suscettibile di rilevare quale mancata indicazione dei criteri atti ad identificare la misura massima di prelievo gravante su ciascun soggetto tenuto alla contribuzione. A ben vedere, mentre il meccanismo della tassa rifiuti determina l’articolazione delle misure tariffarie attraverso il rinvio all’unità di superficie occupata ed agli indici di produttività quantitativi e qualitativi specifici per ciascuna categoria di attività (art. 65, d. lgs. 507/93), la formulazione normativa adottata per la tariffa 352 Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 34 del 5 febbraio 1986, in Giur. Cost., I, pp. 202 e ss. Su tutti Lovecchio, La singolare metamorfosi della tassa rifiuti, in Boll. trib., n. 14, 1999, p. 1116 353 134 sembra consentire differenti modalità di elaborazione dei criteri attuativi, come dimostra lo stesso regolamento sul metodo normalizzato. Nel caso si dovesse concordare nel riconoscere al nuovo prelievo natura d’imposta, occorrerà altresì verificare che la quota fissa sia rapportata ad indici di capacità contributiva, secondo criteri di progressività. Se si guarda al regolamento appena pubblicato ci si accorge però che l’unico parametro informato ai suddetti principi è la superficie utilizzata, senza agganci di sorta con indici reddituali o patrimoniali. Non è fuori luogo ricordare inoltre che l’indagine sulla reale qualificazione giuridica della tariffa ha importanti conseguenze: a) sull’applicabilità dell’IVA. Come noto, infatti, a mente dell’art. 4 della sesta direttiva comunitaria, gli enti pubblici non sono mai soggetti passivi quando agiscono in qualità di pubblica autorità, qualità che non può essere negata nella gestione di un’entrata tributaria o paratributaria; b) sulla giurisdizione. Quale tributo locale, infatti, la tariffa sarebbe devoluta alle commissioni tributarie, mentre, se si configurasse come altra prestazione imposta, la giurisdizione sarebbe quella ordinaria. Quanto all’assetto sanzionatorio, a prescindere dalla connotazione che si intenda assegnare all’entrata, si segnala come, nel silenzio delle disposizioni e considerato il principio di legalità vigente in materia, esso sia allo stato attuale del tutto assente, di modo che nessuna penalità è comminabile nei riguardi di inadempienze commesse dall’utenza.354 Per completezza, va infine sollevata una questione del tutto ignorata in sede di elaborazione del decreto in esame: la sopravvivenza del tributo per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene dell’ambiente. Il primo comma dell’art. 49, infatti, mentre si preoccupa di abrogare norme già soppresse (si pensi a quelle del T.U. del 1931), ignora stranamente il tributo provinciale istituito dal d. lgs. 504 del 1992, a fronte dell’esercizio delle specifiche competenze in materia di: 354 Si pensi, ad esempio, all’ipotesi del mancato pagamento della tariffa che non consente l’interruzione del servizio da parte del soggetto gestore e può dar luogo solo all’addebito di interessi di mora oltre che, se la sussistenza del relativo diritto è dimostrata nel corso del giudizio civile, dell’eventuale risarcimento del danno. 135 a) organizzazione dello smaltimento rifiuti; b) rilevamento, disciplina e controllo degli scarichi e delle emissioni; c) tutela, difesa e valorizzazione del suolo. Eppure, come da più parti sottolineato, tale tributo è un’addizionale della TARSU, sia perché corrisposta dagli stessi soggetti passivi sia perché commisurata alla superficie assoggettata a tassazione dai comuni.355 Stante lo stretto collegamento con la tassa rifiuti, sembra che, con la sua abolizione, debba scomparire anche il tributo provinciale, a meno che non subisca una profonda trasformazione. 355 Barone Ricciarelli, Profili del sistema tributario delle province, in Trib. loc. e reg., 1996, p. 421, osserva che “la competenza provinciale è limitata a stabilire la variazione nella misura dell’aliquota, fermo restando l’obbligatorietà della sua applicazione”. A sostegno di ciò va evidenziato che la misura del tributo deve essere determinata dalle province con delibera di giunta da un minimo dell’1% ad un massimo del 5% della tariffa per unità di superficie adottata da ciascun comune. Esso, inoltre, è liquidato ed iscritto a ruolo da questi ultimi contestualmente al tributo comunale, con l’osservanza delle disposizioni dettate dal d. lgs. 507 del 1993. 136 Valutazioni conclusive L’obiettivo di questo lavoro si manifesta nell’analisi degli aspetti più rilevanti della tassazione ambientale. In particolare, ci si è proposti di: evidenziare il rilievo giuridico attribuito all’ambiente all’interno del nostro ordinamento; ricostruire un concetto di tributo ambientale in ragione del presupposto; descrivere come si presentano i tributi ambientali in Italia a fronte dei suggerimenti della dottrina. Prima di esaminare le innovazioni relative ai tributi ambientali, è necessario fare un excursus storico del concetto giuridico di ambiente. La varietà di significati assunti dal termine ambiente e la mancanza di una definizione giuridica ha fatto dubitare per molto tempo che l’ordinamento accogliesse un concetto giuridico di ambiente in sé. Fino alla metà degli anni Ottanta, l’ordinamento si era occupato separatamente della tutela dell’aria, dell’acqua, del suolo e del sottosuolo, dell’aspetto del paesaggio, nonché, per certi versi, della flora e della fauna. Nella seconda metà degli anni Ottanta è stato introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della valutazione di impatto ambientale previsto dalla direttiva comunitaria n. 337 del 1985: ai soggetti che intendono svolgere determinate attività, che il legislatore ha individuato come maggiormente rischiose, viene imposto di valutare l’impatto sull’ambiente e di sottoporre l’esercizio delle stesse ad un procedimento amministrativo, preordinato a “considerare le componenti naturalistiche ed antropiche interessate, le interazioni tra queste e il sistema ambientale preso nella sua globalità”. La valutazione di impatto ambientale realizza dunque la considerazione dell’ambiente quale autonomo e globale soggetto di diritto poiché si passa dalla disciplina afferente singole risorse naturali all’affermazione delle fondamentali esigenze di equilibrio ecologico e ambientale. L’art. 18 della legge 349/1986 (istitutiva del Ministero dell’ambiente) ha inoltre introdotto l’istituto del danno ambientale: l’autore di “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, 137 deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è tenuto al risarcimento nei confronti dello Stato”. Tale istituto riguarda ogni caso di compromissione dell’ambiente considerato sotto il suo profilo unitario e quindi anche il pregiudizio di componenti ambientali eventualmente non nominate dalla legge. Orbene, con l’art. 18 della legge 349/1986 la definizione di un concetto giuridico di ambiente è divenuta ineludibile per individuare l’oggetto e i limiti del danno da risarcire. Pertanto, quand’anche si ritenesse che la legge non definisca quel concetto, non si può comunque negare che l’ordinamento lo presupponga. Anche le leggi entrate in vigore successivamente alla legge 349/1986 sembrano confermare la tendenza a fare dell’ambiente un autonomo concetto giuridico unitario, cercando di delinearne il complesso di relazioni. Infatti, le più recenti normative intendono la tutela di determinate componenti ambientali come destinata a consentire alla collettività gli usi legittimi dell’ambiente. L’evoluzione del quadro giuridico della materia verso il riconoscimento dell’esistenza di un concetto di ambiente rilevante per il diritto è stata determinata soprattutto dall’apporto della Corte costituzionale, la quale ha evidenziato come “va riconosciuto lo sforzo in atto di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione. Si tende cioè ad una concezione unitaria del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali. Esso comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acqua, suolo e territorio in tutte le sue componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici, terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale e in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni. Ne deriva la repressione del danno ambientale, cioè del pregiudizio arrecato da qualsiasi attività volontaria o colposa alla persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare) che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente. 138 Trattasi di valori che in sostanza la Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32) alla stregua dei quali, le norme di previsione abbisognano di una sempre più moderna interpretazione”. Si può attribuire all’elaborazione giurisprudenziale della Corte costituzionale un ruolo decisivo nel riconoscere la natura di valore costituzionale all’ambiente. In sostanza, abbandonando la insufficiente prospettiva dell’ambiente come situazione giuridica soggettiva, il giudice delle leggi ha ancorato gli interessi afferenti all’ambiente al tessuto dei valori su cui si fonda il patto costituzionale. L’ambiente come valore diventa così uno dei beni fondamentali alla cui stregua è necessario orientare ogni manifestazione della legalità. Più di recente la Corte costituzionale ha precisato che l’ambiente, in una moderna concezione, costituisce un valore costituzionale dal contenuto “integrale”, nel senso che in esso sono sommati una pluralità di valori non limitabili solo agli aspetti estetico – culturali, sanitari ed ecologici della tutela, ma ricomprensivi pure di esigenze e di istanze partecipative, la cui realizzazione implica l’attivazione di tutti i soggetti pubblici, in virtù del principio di “leale collaborazione”. Alla luce di questa giurisprudenza si desume che la formula “diritto all’ambiente” va intesa non già nel senso tecnico dell’esistenza di una pretesa soggettiva riferibile all’ambiente, bensì come formula sintetica per indicare un fascio di situazioni soggettive diversamente tutelabili. Non esiste dunque un “diritto all’ambiente” azionabile da un soggetto individuale o collettivo davanti ad un giudice, ma diverse situazioni soggettive variamente strutturate (di volta in volta coincidenti con il diritto alla salute, il diritto alla salubrità dell’ambiente, ecc.) che si pongono nei confronti dell’ambiente come valore in rapporto di mezzi al fine. Vero è, che l’ambiente come valore costituzionale, a differenza di altri valori che normalmente la Costituzione traduce in principi, ossia in formulazioni giuridiche positive, non trova nell’ordinamento costituzionale italiano alcuna traduzione formale. A questo fine, infatti, non possono ritenersi sufficienti le disposizioni di cui agli artt. 2, 9 e 32 della Costituzione, dato che in termini strettamente positivi tali disposizioni prescrivono i principi costituzionali in materia di tutela di diritti 139 fondamentali dell’uomo, di protezione del paesaggio e di diritto alla salute. Una conferma in questo senso può trarsi anche nella giurisprudenza costituzionale, nell’ambito della quale, le questioni presentate al giudice delle leggi sono state risolte non tanto attraverso il richiamo degli articoli 2, 9 e 32 della Costituzione (poiché si cadrebbe in una clausola di stile) quanto invocando immediatamente e direttamente l’ambiente come valore costituzionale, da cui la Corte ha formulato principi generali assunti a linee guida dal nostro legislatore. In altri termini, la Corte ha riconosciuto l’emersione e l’esistenza di un valore costituzionale nell’esigenza di protezione dell’ambiente, che, attraverso il collegamento con il valore centrale della persona umana e di altri diritti e interessi immediatamente connessi a quest’ultimo, può ritenersi sotteso alla Costituzione italiana, pur in mancanza di un’esplicita formulazione normativa di rango costituzionale. Muovendo dalla teoria dei valori, così come si è andata precisando nella giurisprudenza del giudice delle leggi, l’ambiente può essere considerato dunque un valore costituzionale. Considerare l’ambiente come un valore significa che esso non solo può formare oggetto di un diritto o di un principio per dirigere l’interpretazione delle leggi o dei trattati, ma che esso costituisce (proprio in quanto valore) uno degli elementi fondamentali che caratterizzano una società in un dato periodo della storia e sul quale una società fonda la sua legittimazione. Dopo aver analizzato la portata del concetto di ambiente all’interno del nostro ordinamento, cerchiamo di capire se vi è la possibilità di ricostruire un concetto di tributo ambientale in senso stretto. I tributi ambientali sono stati a lungo caratterizzati unicamente per la finalità politico – sociale extrafiscale della tutela ambientale, con carattere esterno al presupposto del tributo stesso. La dottrina italiana, in particolare, ha proceduto a distinguere i tributi ambientali in ragione della loro funzione (essenzialmente di tutela), affermando che essi possono avere: a) funzione disincentivante. L’imposta ambientale è specificamente volta a contenere le emissioni inquinanti, il consumo di prodotti inquinanti e il 140 consumo di risorse limitate. Essa può consistere in un tributo che colpisca le predette emissioni o prodotti in modo da disincentivare le attività produttrici di emissioni inquinanti e il consumo di prodotti dannosi per l’ambiente; la medesima funzione, peraltro, può essere svolta da incentivi mirati che, ad esempio, favoriscano il rinnovo degli impianti industriali in modo da ridurre le emissioni inquinanti; b) funzione di reperimento di risorse per il finanziamento di servizi ambientali. In tal caso lo strumento fiscale è utilizzato per ricevere il corrispettivo dei servizi resi al singolo cittadino in materia ambientale. Di regola lo strumento fiscale (tassa) risulta più efficiente di strumenti non fiscali (prezzo pubblico) per il carattere coattivo proprio del tributo; c) funzione di reperimento di risorse per il finanziamento di opere di risanamento ambientale. Si tratta, forse, della più generale applicazione del principio chi inquina paga. Dal punto di vista giuridico tale funzione è perseguita attraverso l’istituzione di cosiddette imposte di scopo, il cui gettito, cioè, è in tutto o in parte destinato al finanziamento di opere di risanamento ambientale anziché alla fiscalità generale. La recente introduzione dei nuovi tributi ambientali che colpiscono le emissioni inquinanti dimostra l’acquisita consapevolezza di poter penalizzare con un vero e proprio tributo unità fisiche che determinano in sé un danno ambientale. Il punto di arrivo è la costruzione di un tributo ambientale nel senso proprio del termine e perfettamente in linea con le indicazioni emerse negli ultimi anni a livello europeo. Stando alla terminologia utilizzata dalla Commissione Europea, perché si possa avere un tributo ambientale è necessario che vi sia una relazione causale e diretta tra il suo presupposto e l’unità fisica che determina uno specifico danno dell’ambiente scientificamente dimostrato. Ciò premesso, su quali basi l’unità fisica che determina un danno ambientale può essere assunta a presupposto del tributo nel rispetto del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione? Stando alla più classica ricostruzione del principio di capacità contributiva, per cui il presupposto del tributo deve esprimere una attitudine o forza economica, ci si 141 deve chiedere se tutte le unità fisiche sussumibili a presupposto del tributo ambientale presentino con carattere di generalità tale attitudine o forza economica. Secondo una classificazione propria dell’Unione Europea, tali unità fisiche possono essere costituite sia dal consumo di prodotti che determinino un inquinamento, sia dall’utilizzo di beni ambientali scarsi, sia infine da emissioni inquinanti. Ciò che appare arduo è dare una soluzione unitaria alla questione, piuttosto che analizzare per ciascuna delle singole unità fisiche quali possano essere i limiti e le condizioni affinché esse siano valutabili in termini economici, coerentemente con i principi dell’art. 53 della Costituzione. Di fronte ad unità fisiche (quali le emissioni inquinanti) difficilmente suscettibili, in sé considerate, di una valutazione economica, potrebbe forse raggiungersi una visione unitaria del problema se si cercasse di superare la ricostruzione del principio di capacità contributiva in chiave classica. Bisognerebbe cioè abbandonare la tesi ormai consolidata secondo cui l’art. 53 della Costituzione imporrebbe che il presupposto del tributo debba sempre esprimere un’attitudine o forza economica e optare per quelle opinioni minoritarie secondo cui il principio costituzionale di capacità contributiva ammetterebbe anche diversi criteri di collegamento fra il concorso alle spese pubbliche e il presupposto del tributo. Si dovrebbe in particolare sostenere che l’art. 53 della Costituzione nella sua letteralità e nella sua sostanza non individua esclusivamente singole manifestazioni tipizzate di capacità contributiva (quali il reddito, il patrimonio, il consumo) ma presuppone, nel riferimento al sistema tributario, semplicemente una gamma indeterminata di possibili tributi e pertanto di indici di capacità contributiva, richiedendo solo per ciascuna ipotesi applicativa un effettivo collegamento con fatti e situazioni valutabili pur sempre economicamente e, comunque, concretamente espressivi di mera potenzialità economica. Se si sceglie questa interpretazione, sarebbe possibile superare quelle impostazioni restrittive le quali riducono il valore della capacità contributiva a situazioni, beni e rapporti suscettibili di essere scambiati nel mercato contro 142 denaro. La rilettura del principio di capacità contributiva in chiave moderna porterebbe così il Legislatore a selezionare i presupposti anche in relazione a situazioni, condizioni e differenze sociali che, se pur prive di elementi patrimoniali, sono tuttavia espressive, a suo giudizio, dell’attitudine a concorrere alle pubbliche spese e rispondenti a criteri distributivi equi, coerenti e ragionevoli che consentano di comparare le posizioni dei singoli contribuenti. Il fatto è che tale tesi ricostruttiva dell’art. 53 della Costituzione richiede pur sempre una valutabilità ed una misurabilità economica del presupposto, anche in termini di potenzialità, le quali nella più estensiva considerazione dell’unità fisica inquinante, da assumere ad esclusivo presupposto del tributo ambientale, sembrano comunque mancare. L’emissione inquinante, in sé considerata, non è infatti suscettibile di valutazione economica, mentre potrebbe esserlo in un diverso contesto relazionale in funzione degli svantaggi che può arrecare all’ambiente ovvero in termini di comparazione con altre emissioni, meno o niente affatto inquinanti. La conseguenza della non misurabilità economica in sé dell’emissione inquinante ci porta a ritenere che, nell’ottica della capacità contributiva qui presa in considerazione, essa non può da sola costituire un elemento espressivo dell’attitudine a concorrere alle pubbliche spese. Accertata l’impossibilità di ricostruire in maniera unitaria un concetto di tributo ambientale in senso stretto, non ci resta che sciogliere quello che appare il nodo fondamentale della tassazione ambientale: come giustificare il tributo ambientale che colpisca solo la produzione di emissioni inquinanti. Data la dimostrata insufficienza di un approccio unitario, appare opportuno procedere separatamente distinguendo almeno due ipotesi principali: a) la produzione di emissioni inquinanti nell’ambito di un processo produttivo; b) la produzione di emissioni inquinanti nell’ambito di una normale attività umana. In ambedue i casi, il processo giustificativo in termini di capacità contributiva del tributo dovrebbe essere ricostruito partendo dallo schema dell’imposta di 143 fabbricazione (od accisa). Nel caso di produzione di emissioni inquinanti nell’ambito di un processo produttivo, affinché si presenti un’imposta ambientale di fabbricazione, la valutazione economica del presupposto dovrà riguardare non solo la produzione (destinata al mercato) in sé considerata, ma anche la produzione in quanto generatrice dell’effetto inquinante. Tale imposta continuerà a colpire il valore economico della produzione tenendo conto dell’effetto inquinante dell’emissione, e la sua entità (ben maggiore di una normale imposta di fabbricazione, dove, cioè, il presupposto rispecchia la mera valutazione economica del valore della produzione destinata al mercato) sarà razionalmente giustificabile, ex artt. 9 e 32 della Costituzione, tutte le volte in cui sarà parametrata, sulla base di oggettive risultanze tecnico – scientifiche, all’inquinamento determinato dalle emissioni generate dal processo produttivo. Il tributo prefigurato non è una mera imposta di scopo e, cioè, un’imposta di fabbricazione che persegua anche fini extrafiscali di tutela ambientale. Il presupposto dell’imposta ambientale di fabbricazione deve essere ricostruito tenendo conto della relazione causale tra la produzione e l’emissione inquinante. La valutazione economica del presupposto non deve riguardare solo il valore della produzione destinata al mercato, ma anche il valore delle emissioni generate da tale produzione in termini di danno ambientale. Una normale imposta di fabbricazione esiste a prescindere dalla considerazione delle emissioni inquinanti generate dal processo produttivo, mentre un’imposta ambientale di fabbricazione può esistere solo se si procede anche alla valutazione economica, razionalmente corretta, del danno ambientale determinato dalle emissioni inquinanti. Anche nel caso di produzione di emissioni inquinanti nell’ambito di una normale attività umana appare corretto seguire un processo logico giustificativo risalente allo schema dell’accisa. In tale ipotesi, tuttavia, mancando una produzione destinata al mercato e la possibilità, quindi, di valutarla economicamente in relazione al danno ambientale determinato dalle emissioni da essa prodotte, sussiste un limite implicito alla tassazione rappresentato dall’utilità relativa che l’attività umana è in grado di 144 apportare al soggetto titolare dell’attività stessa. Si tratta dell’utilità che un soggetto ottiene dallo svolgimento di una attività umana generatrice di emissioni inquinanti, utilità valutabile in termini comparativi rispetto ad un’altra attività umana che, portando ad un analogo risultato, non generi emissioni inquinanti o generi minore inquinamento. Si faccia l’esempio dell’utilizzo di una autovettura privata in luogo del mezzo pubblico. In questo caso si ha la produzione di un servizio (il trasporto privato) che, pur non essendo destinato al mercato, determina una utilità al soggetto valutabile in termini comparativi in relazione alla produzione di un equivalente servizio che genera minore inquinamento. Al fine, dunque, di dare una valutazione economica in termini di capacità contributiva è necessario contrapporre all’attività umana generatrice di inquinamento, un’altra attività umana che genera minore o nessun inquinamento. Una volta individuata l’utilità relativa derivante dallo svolgimento dell’attività umana che genera emissioni inquinanti, il tributo andrebbe ricostruito anche qui secondo lo schema dell’imposta ambientale di fabbricazione. Presupposto del tributo sarebbe la produzione di un servizio ad uso personale attraverso un’attività umana generatrice di inquinamento. Tale attività sarà valutabile in termini di utilità relativa confrontandola con altre attività produttrici di analoghi servizi, ma non generatrici di inquinamento. Il prelievo potrà considerarsi razionale solo in quanto diretto a colpire tale utilità relativa e la sua entità dovrà essere parametrata, sulla base di oggettive risultanze tecnico – scientifiche, all’inquinamento determinato dalle emissioni generate dallo svolgimento dell’attività umana. Come ha risposto il legislatore nazionale agli stimoli della dottrina? Il sistema fiscale italiano, pur in presenza di alcuni tributi ambientali, nel suo complesso non ha attribuito particolare rilevanza a tale problematica. E’ stato evidenziato soprattutto l’aspetto extrafiscale di tali tributi, senza condizionare in modo significativo le scelte pubbliche in tema di fiscalità. Il legislatore italiano è stato a lungo diffidente verso la realizzazione di un sistema di tributi ambientali, concentrando l’attenzione esclusivamente sul problema dei rifiuti. 145 In tale campo vige il “decreto Ronchi” (d. lgs. n. 22 del 5 febbraio 1997) il cui art. 49 ha soppresso la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, trasformandola in tariffa. Con il “decreto Ronchi” viene esplicitamente espresso, relativamente alla materia dei rifiuti, il chiaro intento di realizzare un prelievo ambientale, stabilendo che i costi relativi alla gestione dei rifiuti urbani siano coperti dai comuni mediante l’istituzione di una tariffa. Un maggior rilievo è stato fornito ai tributi sulle emissioni in atmosfera, i quali trovano migliore applicazione a livello centrale: è stata infatti istituita l’imposta sulle emissioni di anidride carbonica (la cd. carbon tax) a seguito della legge n. 448/1998. L’introduzione di una forma di tassazione ecologica commisurata alle emissioni nocive, riflette non solo gli impegni assunti dal governo italiano in occasione della conferenza di Kyoto in relazione all’obiettivo di ridurre le emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra e degli associati cambiamenti climatici, ma risponde anche in maniera adeguata alla finalità proposta dall’Unione Europea di attuare modifiche sui sistemi fiscali che comportino, a parità di gettito, uno spostamento dal fattore lavoro ai fattori nocivi per l’ambiente. E’ invece, di converso, storia antica l’imposta di fabbricazione sui sacchetti di plastica, primo reale tributo a connotazione ambientale, ormai definitivamente soppresso, ma che, nei primi anni della sua applicazione, ottenne un certo impatto ambientale. I benefici per l’ambiente sono stati realizzati da una spontanea modifica del comportamento da parte dei consumatori che, colpiti dal messaggio ambientale, hanno posto in essere una politica di riciclo, stimolata dall’acquisita consapevolezza dei danni ambientali cagionati da tali prodotti. Dal punto di vista regionale occorre segnalare il tributo per il conferimento in discarica dei rifiuti e l’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili. E’ interessante osservare come, nell’ottica di una fisionomia ambientale, il 20 per cento del gettito derivante dall’applicazione del tributo per il deposito in discarica dei rifiuti affluisce in un apposito fondo della regione, destinato a favorire la minore produzione di rifiuti, le attività di recupero di materie prime e di energia, 146 la bonifica dei suoli inquinati, il recupero delle aree degradate, nonché l’istituzione e la manutenzione delle aree naturali protette. A sua volta, il gettito dell’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili viene destinato prioritariamente al completamento dei sistemi di monitoraggio acustico e all’eventuale indennizzo delle popolazioni residenti nelle zone adiacenti all’aeroporto. In tale scarno panorama regionale, all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione ad opera della legge n. 3 del 18 ottobre 2001, si è posto un dubbio circa la possibilità di istituire tributi ambientali. La riforma ha riarticolato l’assetto dello Stato in ottica federale ripartendo la competenza fra Stato e regioni ed identificando le materie di legislazione esclusiva dello Stato e le materie di legislazione concorrente, lasciando poi tutte le materie residue alla legislazione esclusiva delle regioni. In proposito emergono notevoli perplessità: con la disposizione di cui alla lettera s) del comma 2 dell’art. 117 della Costituzione, il Legislatore costituzionale distingue tra l’aspetto della prevenzione dei danni, ossia la tutela dell’ambiente e dei beni culturali (che affida alla legislazione statale) ed il profilo afferente la valorizzazione dei beni medesimi (oggetto di legislazione concorrente ex art. 117, comma 3, della Costituzione). L’accentramento della tutela dell’ecosistema voluta dal Legislatore costituzionale suscita qualche perplessità sul piano dei principi di competenza e sussidiarietà, risultando poco proficuo che lo Stato si occupi della tutela di tutti gli ecomicrosistemi, ed in particolare di quelli locali. In verità, la Corte costituzionale ha precisato che “non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come materie in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie”. In questo senso l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una materia in senso tecnico, qualificabile come “tutela dell’ambiente”, dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, in quanto si relaziona inevitabilmente con altri interessi ed altre variegate competenze. 147 L’esigenza di coinvolgere i soggetti delle autonomie locali nei processi decisionali primari relativi all’ambiente discende dal principio secondo cui l’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere alle autorità più vicine ai cittadini. Proprio in occasione della modifica del Titolo V, il principio di sussidiarietà è stato costituzionalizzato nell’art. 118, comma 1, secondo cui “le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. In tale ottica, per quanto riguarda il problema della tutela dell’ambiente, la ricostruzione più coerente del nuovo art. 117 della Costituzione appare quella che identifica accanto ad un settore materiale, oggettivamente riconducibile al concetto di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, il valore ambiente come obiettivo trasversale che taglia tutte le competenze legislative, regolamentari ed amministrative riconosciute ai vari livelli di governo. Rifacendosi alla portata trasversale del concetto è possibile collegare l’ambiente come valore costituzionale non solo a tutte le materie di competenza statale, ma anche a quelle di competenza regionale che risultino influenzate dalle esigenze di tutela di tale bene. Tutto ciò implica che se le regioni hanno la potestà legislativa esclusiva in materie di indubbio rilievo ai fini ambientali, quali, ad esempio, l’urbanistica, i trasporti, la viabilità, l’agricoltura, allora il legislatore regionale dovrebbe tenere conto anche del valore della tutela ambientale nel disciplinare siffatte materie. I lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della Costituzione inducono, d’altra parte, a considerare come l’intento del Legislatore costituzionale sia stato quello di riservare allo Stato il potere di fissare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali. Sembra quindi ragionevole ritenere che, laddove l’art. 117 della Costituzione parla di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, intenda fare riferimento a canoni minimali di tutela riservati alla legislazione esclusiva dello 148 Stato, mentre alle regioni è implicitamente riconosciuta competenza legislativa esclusiva nei settori della “gestione dell’ambiente”, della “organizzazione dei servizi ambientali” e del “governo del territorio”. Così facendo le regioni possono estendere la loro legislazione esclusiva in materia tributaria, notevolmente potenziata dal nuovo art. 119 della Costituzione, sino a delineare tributi ambientali regionali e/o locali attinenti alle suindicate materie ambientali che si collocano su un piano certamente distinto dalla “tutela dell’ambiente” in senso stretto. In tal senso non sorgono, dunque, ostacoli alla realizzazione di tributi regionali ambientali. 149 Bibliografia Abbamonte G., Principi di diritto finanziario, Napoli, 1975 Abrami M. E., Introduzione al Sesto Programma di azione per l’ambiente della Comunità Europea. Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, 2002 Alfano R., L’applicazione dei tributi ambientali nel nuovo contesto della finanza regionale, in Tributimpresa, fasc. 4, 2004, pp. 17 e ss. 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