La Commedia dell`Arte si sviluppò in Italia nel

CENNI DI STORIA DEL TEATRO
A cura di Giuseppe Riccardo Festa
2. Dalla Commedia dell’Arte a Goldoni
In prossimità del fondo dell’Inferno, nelle Malebolge, una
comitiva di diavoli deve guidare Virgilio e Dante verso la
tappa successiva, tra le anime immerse nella pece bollente.
Il capodiavolo nomina ad uno ad uno i membri della scorta
il cui leader, per dare il segnale di partenza, usa una
trombetta tutta particolare.
«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate 'ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l'altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane».
«Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?»,
diss'io, «deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.
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Se tu se' sì accorto come suoli,
non vedi tu ch'e' digrignan li denti,
e con le ciglia ne minaccian duoli?»
Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti».
Per l'argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.
Abbiamo concluso il nostro primo incontro constatando che
con la fine dell’Impero romano, e il più o meno contestuale
avvento del potere del cristianesimo; insomma, con l’inizio
del Medioevo, l’evoluzione del Teatro ha subito in Europa
una brusca frenata.
Di fatto il Teatro, inteso come organizzazione di rappresentazioni in un ambiente appositamente creato, cessò del tutto
di esistere, e per molto tempo.
Ma se vi ho citato l’estratto dalla Divina Commedia col
quale ho aperto la nostra chiacchierata, non è per caso.
«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
La vostra attenzione vorrei richiamarla sul primo dei
diavoli che formano la comitiva: Alichino.
Alichino altri non è che Arlecchino, un nome che Dante riprende una tradizione preesistente, secondo la quale era
questo il nome di uno dei diavoli più importanti dell’Infer2
no; se non che, già con Dante, gli vediamo assumere un
ruolo comico, insieme ai suoi compari il cui nome è invece
una divertita invenzione del poeta: i diavoli delle Malebolge, pur se forniti di corna, ali di pipistrello e forcone –
almeno stando alle illustrazioni di Gustavo Dorè - sono dei
clown; o meglio, dei giullari.
Il teatro infatti non è veramente morto con la fine dell’Impero Romano; anche se nella sua forma canonica non lo rivedremo che a partire dal XV Secolo, è riuscito comunque
a sopravvivere. Pure a questo abbiamo fatto cenno: i giullari, i saltimbanchi e gli equilibristi che frequentavano le
piazze e le fiere ne hanno tenuta viva nei secoli bui la parte
comica e satirica; mentre a tramandare il Teatro tragico senza saperlo e senza in effetti nemmeno volerlo - ci ha
pensato proprio il cristianesimo, che il teatro ha sempre
guardato con estremo sospetto, tanto da condannare per secoli gli attori, sia da vivi che da morti, alla scomunica. Ma
scacciandolo dal portone, la Chiesa fece rientrare il Teatro
dalla sagrestia. Lo fece con le sacre rappresentazioni, che
con intenti edificanti mettevano letteralmente in scena, nelle chiese o sui sagrati delle chiese, i momenti salienti della
vita e della morte di Gesù. Ne è rimasta traccia nella liturgia del venerdì santo durante la quale, con una certa qual
drammatizzazione, si racconta la pas-sione di Cristo.
Il teatro inteso come rappresentazione di uno spettacolo,
dicevamo, rinasce nel XV Secolo, nelle splendide Corti rinascimentali, con allestimenti tipicamente amatoriali (ad
esibirsi erano gli stessi cortigiani) e copioni obbligatoriamente legati alla mitologia classica, culminanti negli
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immancabili trionfi di dèi e re che simboleggiavano i
padroni di casa. Quei copioni quindi, usando una formula
contemporanea, potremmo definirli “allineati al sistema”.
Questa forma di teatro nasce in Italia e si diffonde in tutta
Europa, perpetuandosi fino al XV e al XVI secolo.
Alla corte di Milano Leonardo da Vinci stupiva ed incantava Ludovico il Moro ed i suoi cortigiani inventando macchine sceniche, costumi e musiche assolutamente originali.
Metteva in scena spettacoli con i quali il Moro, oltre che
con la potenza militare e finanziaria, guadagnava prestigio e
potere politico. Leonardo, genio davvero a 360 gradi, è
stato il primo grande scenografo e ideatore di effetti speciali
nella storia del teatro.
Per quanto riguarda la produzione drammaturgica, ricordiamo che a Firenze, fra il 1512 e il 1520, Niccolò Machiavelli
scriveva La Mandragora, una deliziosa commedia satirica
sulla corruttibilità della società italiana dell'epoca, che è
considerata il vertice più alto della produzione teatrale italiana del tempo.
Parallelamente continuava a sopravvivere il teatro avventuroso degli attori girovaghi al quale ho fatto cenno, attivo
in particolare nel Nord Italia, che al sistema invece si opponeva narrando ad esempio, le sventure dello Zani (Giovanni, in bergamasco), modello esemplare del povero disperato
eternamente in cerca di cibo e di fortuna, che diventerà egli
stesso una delle maschere della Commedia dell’Arte, e di
altre maschere sarà il progenitore e il modello; e che identificando col potere anche le gerarchie ecclesiastiche, giunge
a osare di farsi gioco perfino dei misteri sacri, come Dario
Fo ha messo bene in evidenza con il suo Mistero buffo.
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Il passaggio dalla commedia rinascimentale, umanistica ed
erudita, recitata da attori dilettanti, al teatro professionale e
quindi alla Commedia dell'arte, avviene tra la fine del XVI
e l'inizio del XVII secolo, grazie ad alcune circostanze
fortunate che si verificano in quel periodo.
La prima è la nascita dei teatri privati, specialmente a Venezia, dove le famiglie nobili iniziano una politica di diffusione di spazi dedicati alla recitazione di commedie e melodrammi a pagamento. I veneziani avevano il commercio nel
sangue, e quindi fiutarono l’affare: il teatro, all’epoca, era
un affare.
La nascita dei teatri dette nuovo impulso all'arte dell'attore
che da giocoliere di strada, saltatore di corda o buffone di
corte che fosse, cominciò a cimentarsi con trame più complesse. Gli attori, che già da tempo si riunivano in gruppi
chiamati "Fraternal Compagnie",presero ad associarsi in vere e proprie compagnie teatrali, che partecipavano ai proventi di questa nuova industria.
Quando parliamo di Arte, associandola alla parola commedia, diamo al termine il significato medievale di mestiere
con una definizione tarda, che risale al XVIII secolo: questa
forma di spettacolo in origine era chiamata commedia all'improvviso, commedia a braccio o anche commedia degli
Zanni.
Padre ufficiale della Commedia dell’Arte è considerato il
padovano Angelo Beolco, detto il Ruzzante, che creò una
delle prime compagnie professionali d’Italia.
Fino dal 1520 il Ruzzante aveva viaggiato in tutta l’Italia
settentrionale, esibendosi tanto nelle corti quanto nelle piaz5
ze dei mercati. La sua compagnia si esprimeva in dialetto
padovano ed eseguiva commedie rustiche, basate sulle tensioni fra contadini e abitanti delle città, e farse d’amore o
tragicommedie, generalmente a sfondo pastorale.
Il principale contributo del Ruzzante allo sviluppo della
Commedia dell’Arte, anche mediante la sperimentazione
del teatro plautino, fu la fissazione di alcuni caratteri tipici,
che poi divennero il modello dei personaggi della
Commedia dell’arte. Egli introdusse inoltre un modo di
recitare naturale, ispirato dalla vita e dall’osservazione della
gente, che si contrapponeva radicalmente allo stile formale
ed aulico della recitazione cortigiana. Questo approccio fu
adottato anche in altre arti: ad esempio da François Rabelais
in letteratura, da Orlando di Lasso in musica, da Bruegel il
Vecchio nella pittura.
La storia e la fortuna della Commedia dell'Arte sono dunque legate alla storia e alla fortuna di attori come il Ruzzante, avventurosi e intelligenti, che tra il 1580 e il 1630 inventarono il teatro moderno. A loro, più che ad umanisti, architetti di edifici e di scene, e prima che a scrittori di commedie e di trattati, spetta il merito di avere fondato la disciplina dello spettacolo che giunge fino a noi attingendo, come già abbiamo rilevato, a Plauto ed alla commedia atellana, come è dimostrato dall’uso di personaggi che si richiamano a caratteri permanenti e, soprattutto, dalla tecnica recitativa basata sull’improvvisazione, sul lazzo e sulla capacità degli attori di adattare la vicenda della commedia agli
eventi ed alle situazioni del tempo e del luogo ove si
esibivano.
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L'avvento dei professionisti della Commedia dell’Arte cambiò profondamente il panorama dello spettacolo teatrale. Il
teatro smise di essere un giocattolo delle corti per diventare
anche una lucrosa attività, con tanto di impresari e investimenti, spesso consistenti.
Abbiamo detto che la Commedia dell’arte era chiamata, inizialmente, Commedia a braccio, o dell’improvviso: definizioni che sottolineano il carattere della recitazione delle
compagnie, che non mettevano in scena testi d'autore ma,
basandosi su canovacci, rappresentavano vicende ispirate
alla realtà quotidiana arricchite, come gli spettacoli dei saltimbanchi medievali, con numeri acrobatici, danze e canti.
Il canovaccio è lo schema sommario dell’azione: lo spiedo,
per così dire, di un copione teatrale, che gli attori rivestono
con la carne giusta a seconda del pubblico al quale va servito. Alcune parti - dialoghi, monologhi, momenti di transizione ecc. – a volte sono già elaborati e possono essere usati senza cambiamenti; il resto, in particolare la realizzazione
testuale, è improvvisato.
Le compagnie, soprattutto quelle che operavano in provincia, non disponevano di infrastrutture stabili: viaggiando di
paese in paese, dovevano accattivarsi il pubblico e convincerlo ad assistere alle rappresentazioni. I canovacci permettevano a una compagnia esperta di mettere in scena, in poche ore, testi su misura: con pochi interventi si costruivano
agganci fra la cronaca del paese in cui si recitava e i
contenuti di un canovaccio già esistente.
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I canovacci, quindi, da un lato permettevano di creare rapidamente nuovi testi drammatici, grazie all’esperienza degli
attori; dall’altro proponevano moduli collaudati nel tempo e
di sicura presa sul pubblico. Inoltre gli attori potevano attingere le battute da alcuni repertori (gli attori migliori ne
avevano di personali).
La recitazione era in versi, in Francia come in Italia: solo
con Goldoni, in Italia, si passò regolarmente e definitivamente alla prosa. Le commedie, perpetuando la tradizione
antica, si basavano su personaggi ben riconoscibili e dai caratteri stereotipati, su una gestualità esasperata, dialoghi improvvisati, interludi musicali e buffonerie, per soddisfare un
pubblico vasto di variegata estrazione sociale e culturale.
Come Manlio Santanelli fa dire al suo Calcese, attribuendo
a Pulcinella un carattere in realtà valido per tutte le maschere della Commedia, quei personaggi dovevano essere capiti
da tutti, non solo dai signori che hanno studiato.
Tutti gli attori, con l'eccezione della coppia dei giovani innamorati, indossavano la maschera.
Il teatro nasce con la maschera: gli attori greci che
recitavano Eschilo, Euripide e Sofocle, indossavano la
maschera tragica, quelli che recitavano Aristofane, invece,
la maschera comica; quelle maschere avevano anche la
funzione di amplificare la voce dell’attore, e modificarla.
La maschera ha poi assunto, anche fuori dal teatro, infinite
valenze anche sociali e religiose: basti pensare al cappuccio del boia e dei fanatici del Ku-Klux-Klan o delle confraternite religiose e massoniche di casa nostra, alle maschere di carnevale, o al fatto che la stessa parola maquilla8
ge, riferita al trucco che esalta o inventa la bellezza delle signore – da un po’ non solo delle signore – etimologicamente significa proprio “mascheramento”.
Nella Commedia dell’Arte la maschera, insieme al costume,
caratterizza fortemente il personaggio, anche in chiave geografica, e finisce per diventarne sinonimo. Vediamone qualcuna.
 Zanni è la più antica maschera del servo ed ha generato
molti altri personaggi. Nel Seicento il suo ruolo si sdoppiò nel primo Zanni, furbo e maneggione, e nel secondo
Zanni, spesso più sciocco e pasticcione, caratterizzato da
lazzi e acrobazie.
 Arlecchino, la maschera più nota in assoluto, è il servo
imbroglione e perennemente affamato.
 Balanzone, caratterizzazione bolognese del più generico
Dottore, è un personaggio serioso e presuntuoso.
 Brighella è bergamasco. Spesso nei panni di primo Zanni,
è il servo furbo contrapposto al secondo Zanni, Arlecchino.
 Pantalone è una famosissima maschera veneziana. Anziano e avido mercante, entra spesso in competizione con i
giovani nel tentativo di conquistare una donna.
 Il Capitano è il militare spaccone e buffonesco, erede diretto del Miles Gloriosus plautino. Fra i Capitani più celebri ci sono Capitan Spaventa, Capitan Matamoros, Capitan Rodomonte e Capitan Cardone.
 Colombina è una servetta e fa spesso coppia con Arlecchino. Le sue doti, tipicamente femminili, sono la malizia, una certa furbizia e uno spiccato senso pratico. Il tea9
tro convenzionale, perpetuando l’uso delle sacre rappresentazioni (per la Chiesa era immorale far salire le
donne sul palcoscenico), affidava i ruoli femminili a giovinetti travestiti: la parola mariuolo nasce, a Napoli, appunto dalla consuetudine di utilizzare un ragazzino nel
ruolo di Maria. Nella Commedia dell'Arte, al contrario,
recitavano attrici professioniste.
 Meneghino (in lombardo un diminutivo di Domenico) è la
maschera simbolo della città di Milano. La sua fama è
dovuta in gran parte alle commedie di Carlo Maria Maggi.
 Pulcinella, in versione francese Polichinelle e in quella
inglese Punch, è col Vesuvio uno dei simboli più noti della città di Napoli. Spesso malinconico, fonde le caratteristiche del servo sciocco con una buona dose di saggezza
popolare.
 Scaramouche, inventato da Tiberio Fiorilli, è una maschera italiana ma riscosse un grande successo in Francia;
entra nel novero dei Capitani.
 Stenterello, versione fiorentina dello zanni, è una maschera fiorentina che ebbe molta fortuna in Toscana tra la fine
del '700 e tutto il secolo successivo.
 Tartaglia, mezzo cieco e balbuziente, entra nel novero dei
"vecchi", spesso nel ruolo del notaio.
 Truffaldino, secondo zanni settecentesco, per il quale
Carlo Goldoni scrisse Il servitore di due padroni.
Generalmente le compagnie erano costituite da tre donne e
sette uomini; le migliori disponevano anche di un “poeta di
teatro”, un autore cioè tutto per loro: una professione che
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all’inizio della sua carriera teatrale fu esercitata dallo stesso
Goldoni.
Le maschere riproducevano dunque alcuni caratteri ben riconoscibili (il servo astuto, il soldato spaccone, il vecchio
avaro, eccetera), già presenti nell’immaginario del pubblico, ovviando così in larga parte all'assenza di un copione.
Giova ribadire che il gusto, le consuetudini e le caratteristiche locali provocarono una certa differenziazione nell’aspetto e nel carattere delle maschere, che finirono per
acquisire connotazioni geografiche ben precise: così il
dottore, col nome di Balanzone, divenne bolognese per via
della rinomata università che a Bologna aveva sede; in
Inghilterra, gli influssi della Commedia assunsero i caratteri
delle maschere di Punch, un Pulcinella più prepotente
dell’originale, e di sua moglie Judy.
La popolarità della Commedia dell'Arte fu straordinaria,
tanto che le migliori compagnie ebbero larga fortuna anche
presso le corti reali dei paesi europei. Molto popolare essa
divenne soprattutto in Francia; a Parigi era rappresentata
presso il teatro dell'Hôtel de Bourgogne, dove gli attori
italiani della Comédie-Italienne si erano installati dal 1680.
In Italia la partenza dei maggiori attori verso nuovi lidi come Parigi, Vienna, la Penisola Iberica e la Moscovia indusse i nobili dilettanti a inventare, scrivere e interpretare i
testi della Commedia ridicolosa, la versione cortigiana della
commedia dell'arte, che in parte sostituì, avvalendosi
anch’essa delle maschere della Commedia dell’arte.
Questa così finì col sostituire del tutto la commedia erudita
del Quattro-Cinquecento, e non soltanto la commedia:
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anche molte tragedie, e commedie pastorali, furono invase
dalla presenza delle maschere. Arlecchino e gli altri zanni si
trasformavano, in queste occasioni, in servi del tiranno o
pastori arcadici, conservando sempre il loro spirito
irriverente di buffoni o di poveri diavoli.
Nonostante, o anzi proprio a causa della sua popolarità, nel
XVII secolo i governi di Spagna e Francia cercarono di
censurare e regolamentare la Commedia dell’Arte.
Come già abbiamo visto, la satira sociale, con i riferimenti
all’attualità, si affacciava prepotentemente e pericolosamente nei testi. La risposta a queste censure, secondo
quanto narra Dario Fo, fu l’invenzione del gramelot, un
miracolo di espressività capace di essere perfettamente
comprensibile pur consistendo di fonemi privi di significato, che della lingua locale utilizzavano la musica ma non le
parole. L’attore, in questo modo, lanciava comunque il suo
messaggio satirico, riuscendo ad impedire al censore di
intervenire.
Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza che la
Commedia dell’Arte ebbe sull’evoluzione del Teatro. Nessuno, in tutta Europa, poté sottrarsi alla sua influenza: a
partire dal gigante William Shakespeare (Stratford-uponAvon, 23 aprile 1564 - Warwickshire, 23 aprile 1616).
Non si sa se Shakespeare vide mai direttamente uno spettacolo della Commedia dell'arte, ma ne subì sicuramente
l’influenza come il suo amico e avversario Ben Johnson,
l’altro grande autore del teatro elisabettiano, che mise in
scena Il volpone, la migliore versione inglese del teatro
dell'arte all'italiana.
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Questa influenza è evidente quando, inventando il teatro nel
teatro, Shakespeare inserisce nel suo Amleto una compagnia
di attori girovaghi italiani e, nel Sogno di una notte di mezza estate, fa comportare un gruppo di attori amatoriali esattamente come se fossero una compagnia di comici italiani;
per non parlare di commedie come La dodicesima Notte,
chiaramente ispirata a Plauto, o la stessa Sogno di una notte
di mezza estate, nelle quali il ricorso al gioco degli equivoci
si richiama in modo evidente agli artifici della Commedia
dell’arte.
Non si può limitare a due battute l’importanza del Bardo di
Stratford-upon-Avon, beniamino dell’Inghilterra elisabettiana e, sul piano culturale, nel bene e nel male, massimo
rappresentante di quel mondo, con tutte le sue raffinatezze e
tutte le sue atrocità.
Voltaire, tragediografo egli stesso, che visse in Inghilterra
per alcuni anni e – cosa rara per un francese - s’impadronì
alla perfezione della lingua, lo apprezzò moltissimo e lo introdusse in Francia, anche se non cessò mai di considerarlo
un “selvaggio”.
La figura di Shakespeare giganteggia, nel mondo del Teatro e della cultura in generale, accanto a quelle di Omero,
Dante, Cervantes, Michelangelo, Bach, Mozart, Beethoven
e pochi altri: la sua creazione ha valore universale, perché
universali sono i temi che introdusse nelle sue opere, tanto
le commedie quanto le tragedie, nelle quali l’umanità è
mirabilmente rappresentata con tutte le sue grandezze, le
sue miserie, il suo sublime e il suo ridicolo, senza schematismi ma anzi con la capacità di mostrare di ogni per13
sonaggio, nello stesso momento, splendori e miserie, vizi e
virtù.
Shakespeare non fu solo autore: fu anche attore ed impresario, trovando anche in questa molteplicità di attività teatrali un punto di contatto con la Commedia dell’arte, anche
se – e questa differenza è fondamentale – diversamente dai
teatranti italiani egli dispose di strutture fisse nelle quali
allestire i suoi spettacoli.
Come lui, a pochi decenni di distanza ma in un mondo radicalmente diverso, fu attore e impresario anche Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière (Parigi, 14 gennaio 1622 - 17
febbraio 1673).
Anche Molière fu fortemente influenzato dalla Commedia
dell’Arte. Ebbe come maestro e amico nientemeno che Tiberio Fiorilli (Napoli, 9 novembre 1608 - Parigi, 7 dicembre
1694), inventore del personaggio di Scaramouche e direttore della Commédie-Italienne, presso il teatro dell'Hôtel de
Bourgogne di Parigi.
I personaggi della commedia dell’Arte entrano di prepotenza nel teatro di Molière: basti citare, come esempio, a Il
malato immaginario, che vede entrare in scena, nel finale,
Pulcinella in persona, o al suo Sganarello, che a Pulcinella
dichiaratamente si ispira.
Alla nascita di Molière, Shakespeare era già morto da sei
anni e il mondo era cambiato, per i rivolgimenti sociali e
culturali che erano intervenuti nel frattempo: i disordini politici che, in Francia ed in Inghilterra avevano caratterizzato il XVI Secolo, si erano ormai placati.
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Va anche aggiunto che, comunque, la cultura e la civiltà
francesi erano sensibilmente superiori a quelle dell’Inghilterra già in epoca elisabettiana, e che il già citato Voltaire,
abituato alle raffinatezze degli ambienti intellettuali parigini, non aveva tutti i torti, in un certo senso, a definire selvaggio il sanguigno, diretto, a volte brutale e per niente aulico Shakespeare.
Molière era figlio di un tappezziere benestante di Parigi.
Visse un’infanzia affettivamente infelice, restando due volte orfano: a dieci anni della madre, e a sedici della matrigna: a questo, forse, si deve che nel suo teatro siano rari i
personaggi materni.
Ebbe una buona educazione, fino a diventare avvocato. Ma
la sua vita subì una svolta quando si unì all’attrice Madeleine Béjart, di quattro anni più anziana di lui.
Con l'aiuto di Madeleine, leale, devota, colta e abile anche
negli affari (è proprio vero che dietro ogni grande uomo c’è
una grande donna), Molière comprese la propria vocazione
di attore ed organizzò una propria compagnia teatrale. Il 30
giu-gno del 1643 mise insieme una troupe di dieci membri,
l'Illustre Théâtre.
Attraverso alterne vicende – viaggi dal nord al sud della
Francia, un arresto per debiti, passaggio da questa a quella
compagnia teatrale, infine Molière tornò ad operare in
proprio, col patrocinio del fratello del re, ed ottenne di
esibirsi nel teatro del Petit-Bourbon, alternandosi con la
troupe degli Italiani.
Dopo aver tentato senza successo la via della tragedia,
infine capì che la sua vocazione era la commedia, con la
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quale eccelse, nel 1659, già col primo testo: Les Précieuses
ridicules (Le preziose ridicole), che ironizzava sulla vita
mondana – vale a dire le leziosaggini della nobiltà – mettendone in ridicolo le espressioni ed il linguaggio.
L’irritazione di chi – fra la nobiltà – si riconosceva nei personaggi della commedia, provocò una breve interruzione
delle rappresentazioni, senza però far cessare gli inviti a
corte e nelle case dei grandi signori.
Nel 1660 vi fu il gran successo di Sganarelle ou le Cocu
imaginaire (Sganarello il cornuto immaginario), una tipica
commedia degli equivoci chiaramente ispirata alla Commedia dell’arte.
Il salone del Petit-Bourbon fu demolito, e il re fece assegnare alla compagnia la sala del Palais Royal, dove ebbe luogo
la presentazione de l'Ecole des maris, (La scuola dei mariti).
Molière confermò, in questa commedia, la sua tendenza a
fare satira sui problemi sociali, quel castigat ridendo mores
che, pervenutogli attraverso la commedia dell’arte italiana,
affondava le radici nella commedia plautina: velandoli di
buffoneria, affrontava problemi gravi e scottanti come
l'educazione dei figli e la misura della libertà da riconoscere
alle mogli.
Il 20 febbraio 1662 sposò Armande Béjart, che ufficialmente era sorella ma quasi sicuramente era figlia di Madeleine,
che entrò a sua volta nella troupe.
In dicembre fu rappresentata l'Ecole des femmes (La scuola
delle mogli) che superò in successo ed in valore tutte le
commedie precedenti ma provocò lo scontro con i rigoristi
cristiani, tanto che per tutto il 1663 Molière fu interamente
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occupato dalla querelle che infuriava intorno alla commedia, che crebbe parallelamente al suo successo.
Il 12 maggio del 1664 ebbe luogo la prima rappresentazione
di Tartuffe, (l'Impostore), pessimistica – ed attualissima –
commedia dai profondi risvolti morali e sociali, spietato
atto d’accusa dell’ipocrisia e del perbenismo, il cui lieto
fine è una foglia di fico che non nasconde il disincanto e la
disillusione di Molière nei confronti della società del suo
tempo.
Epica la morte sulla scena di Molière, per tubercolosi, il 17
febbraio 1673, mentre recitava Il malato immaginario. Coprì la tosse con una risata forzata, e si spense tra le braccia
di due suore che lo avevano accompagnato a casa.
Il divieto di inumazione in luoghi consacrati, che ancora
vigeva per attori e commedianti, fu aggirato, su intercessione del Re, con la sepoltura di Molière nel cimitero di SaintJoseph, ma ad una profondità superiore a quattro piedi, misura che fissava l'estensione in profondità della terra consacrata.
Merita un cenno un altro autore francese, Pierre Carlet de
Marivaux (Parigi, 4 febbraio 1688 -12 febbraio 1763), che
deve molto alla Commedia dell’Arte. La sua opera generò
addirittura un verbo, marivauder, che significa «scambiarsi
frasi galanti di grande eleganza». Siamo nella Francia della
Reggenza e di Luigi XV, dei mots d’esprit come stile di vita e metro di valutazione delle qualità di un gentiluomo.
Marivaux rappresenta una sorta di ponte fra il teatro tradizionale italiano della Commedia dell’arte e i suoi personaggi, in particolare Arlecchino, e un teatro più letterario,
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più vicino agli autori francesi e inglesi; ed è considerato da
alcuni come il maestro francese della maschera e dell’inganno.
In quanto principale strumento dell’inganno, in Marivaux il
linguaggio è anch’esso una maschera, dietro la quale si nascondono i personaggi, che spesso sono dei giovani, terrorizzati dall’idea di entrare nella vita e di svelare i propri
sentimenti. Le loro avventure psicologiche, a un tempo
complesse e ingenue, si svolgono sotto lo sguardo degli
altri personaggi (i genitori) e degli spettatori, che se ne
fanno gioco con un perverso mélange d’indulgenza e
cattiveria.
In Francia, come nel resto d’Europa, naturalmente il teatro
non è soltanto commedia. Ma in Francia, soprattutto, si sviluppa, all’interno degli ambienti vicini alla corte reale, una
forma di teatro serio estremamente elaborata che si richiama ancora, come ai tempi delle corti rinascimentali, a temi
mitologici o biblici.
Non va dimenticato che parallelamente al teatro di prosa,
influenzandolo e subendone l’influenza, trionfava anche il
teatro d’opera.
Il Teatro d’opera nacque, di fatto, con Claudio Monteverdi,
alla corte dei Gonzaga di Mantova.
Ebbe un tale successo che in Italia provocò, fino a Goldoni,
un quasi totale arresto nello sviluppo del teatro di prosa e
restando anche in seguito, e fino agli anni Venti dello
scorso secolo, una forma d’arte teatrale capace di soffocare
quasi del tutto tutte le altre. Poi è arrivato il cinema, che ha
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ammazzato anche il melodramma; e poi la televisione, che
ha ammazzato tutto, compreso il buon gusto.
In Francia il melodramma vedeva il suo fondatore e principale protagonista nel fiorentino Giovanni Battista Lulli, che
divenne compositore di corte di Luigi XIV e gallicizzò il
suo nome in Jean Baptiste Lully; suo successore fu Jean
Baptiste Rameau.
Non molto sorprendentemente, anche qui l’arrivo di italiani
non disposti a francesizzarsi provocò un terremoto, generando la cosiddetta querelle des bouffons: La Serva Padrona di Pergolesi mostrò ai francesi che si poteva fare un
delizioso teatro musicale evitando le pesantezze, gli orpelli
e la retorica tipici delle loro auliche accademie.
Per tornare alla tragedia, Il teatro serio vedeva il suo maggiore esponente, a quel tempo, in Jean Racine (La FertéMilon, 22 dicembre 1639 - Parigi, 21 aprile 1699), autore di
ponderosi drammoni in versi: imponenti, morali, educativi,
coltissimi; e interminabili e, per il gusto contemporaneo,
insopportabili. Tanto che di fatto, ormai, è irrappresentabile, esattamente come il teatro del suo successore, il
delizioso Voltaire di Candide, di Micromega, Zadig, La
principessa di Babilonia e del Dizionario Filosofico, che
diventa insopportabile nei suoi giustamente dimenticati
drammi teatrali.
Il nostro metro di giudizio, e il nostro gusto, hanno ben poco in comune con quelli di allora. Noi, abituati ai ritmi degli
spettacoli cinematografici e televisivi, non possiamo concepire l’idea di passare sei o sette ore sciroppandoci i cinque o
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sei atti di una tragedia in versi di Racine o di Voltaire: noi
abbiamo bisogno di sforbiciare spietatamente perfino le
opere di autori a noi vicinissimi, come Ibsen, Pirandello o
Eduardo; figurarsi quelle montagne di versi. Ma all’epoca
anche i ritmi della vita erano completamente diversi.
E veniamo a Goldoni.
Carlo Goldoni ebbe una vita movimentata quanto e più di
quella di Molière. Nacque a Venezia, il 25 febbraio 1707,
da una famiglia borghese che si trovò in difficoltà finanziarie in seguito agli sperperi del nonno paterno. Aveva
cinque anni quando il padre si trasferì a Roma, lasciandolo
con la madre per poi, avviata la carriera di medico,
chiamarlo presso di sé a Perugia.
Di là si trasferì a Rimini per studiare filosofia, ma abbandonò lo studio, sia per nostalgia della madre, sia per seguire
una compagnia di comici di Chioggia.
Quindi seguì il padre in Friuli; poi riprese gli studi a Modena ed elaborò le prime opere comiche, ancora in forma
dilettantesca. Con l'improvvisa morte del padre (1731), si
dovette prendere carico della famiglia; tornato a Venezia,
completò gli studi a Padova ed intraprese la carriera
forense.
Ma nel 1734 incontrò a Verona il capocomico Giuseppe
Imer e tornò a Venezia con lui, dopo aver ottenuto l'incarico
di scrivere testi per il teatro San Samuele. Poi, seguendo a
Genova la compagnia Imer, conobbe e sposò Nicoletta
Conio, con la quale tornò a Venezia.
Nel 1738 Goldoni presentò al San Samuele la sua prima
vera commedia, il Momolo cortesan, nella quale la parte del
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protagonista, cosa fino a quel momento inaudita in Italia,
era interamente scritta. Cominciò così a marcare la differenza dalla tradizione della Commedia dell’arte. Con La donna
di garbo, poco dopo, nasce la sua prima commedia interamente scritta, che non prevede margini di improvvisazione.
Subito dopo dovette fuggire da Venezia, affogato nei debiti.
Andò a Rimini, dove continuò a occuparsi di teatro durante
la guerra di successione austriaca; poi soggiornò in Toscana. Convinto dal capocomico Girolamo Medebac a sottoscrivere, come autore, un contratto per la sua compagnia
che recitava al teatro Sant'Angelo di Venezia, vi tornò nel
1748.
Tra il 1748 e il 1753 Goldoni scrisse per la compagnia Medebac una serie di commedie nelle quali, distaccandosi dai
modelli della commedia dell'arte, realizzò i principi di una
riforma del teatro. A questo periodo appartengono L'uomo
prudente, La vedova scaltra, La putta onorata, Il cavaliere
e la dama, La buona moglie, La famiglia dell'antiquario.
Realizzò inoltre sedici commedie, tra cui Il teatro comico,
La bottega del caffè, Il bugiardo, e La Pamela, tratta dal
romanzo Il giocatore di Samuel Richardson; e ancora La
dama prudente, L'avventuriero onorato, I pettegolezzi delle
donne. L'attività per Medebac continuò poi con Il Molière,
L'amante militare, Il feudatario, La serva amorosa, fino a
La locandiera e a Le donne curiose.
Dopo aver rotto con il Medebac, Goldoni assunse un nuovo
impegno con il teatro San Luca. Cominciò quindi un periodo travagliato in cui scrisse varie tragicommedie e comme21
die. Dovette adattare i testi per un edificio teatrale ed un
palcoscenico più grandi di quelli a cui era abituato, e per attori che non conoscevano il suo stile, ormai lontano dai modelli della commedia dell'arte.
Fra le tragicommedie ottenne un gran successo la Trilogia
persiana; tra le commedie si possono ricordare La cameriera brillante, Il filosofo inglese, Terenzio, Torquato Tasso
ed il capolavoro Il campiello.
Goldoni era ormai una celebrità nazionale.
Nel 1761, infine, accettò l’invito a recarsi a Parigi per
occuparsi della Comédie Italienne.
Vitale fu l'ultima stagione per il San Luca, prima della
partenza, che vide la nascita de La Trilogia della villeggiatura: Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte e Una
delle ultime sere di carnovale.
Giunto a Parigi nel 1762, Goldoni aderì subito alla politesse
francese, dovendo anche affrontare difficoltà dovute allo
scarso spazio concesso alla Comédie Italienne ed alle
richieste del pubblico francese, che identificava il teatro
italiano con quella commedia dell'arte da cui lui si era tanto
allontanato.
Riprese una battaglia di riforma, con una produzione di testi
pensati non solo per le scene parigine ma anche per quelle
veneziane. si possono ricordare le due commedie in francese che vogliono confrontarsi con Molière e con la tradizione comica francese, Le bourru bienfaisant e L'avare
fastueux.
Insegnò l'italiano alla famiglia reale a Versailles e nel 1769
ottenne una pensione di corte. Tra il 1784 e l'87 scrisse in
francese la sua autobiografia, i Mémoires. La Rivoluzione,
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cui fece seguito la soppressione delle pensioni di corte,
sconvolse la sua vita. Morì, in miseria, il 6 o il 7 febbraio
1793.
I testi di Goldoni sono sempre legati a precise occasioni
teatrali e tengono conto delle esigenze degli attori, delle
compagnie, degli stessi edifici teatrali cui è destinata la loro
prima rappresentazione, in questo restando legati alla tradizione e nello stesso tempo prefigurando la figura del regista
moderno.
La sua opera presenta un'ininterrotta serie di situazioni, si
svolge attraverso un "quotidiano parlare". Il linguaggio dei
personaggi si mostra indifferente alle tradizionali prospettive letterarie e formali: passando continuamente dalla lingua al dialetto e viceversa, Goldoni dà spazio a diversi usi
sociali del linguaggio, adattati alle situazioni in cui i suoi
personaggi vengono a trovarsi. Il suo italiano, misto al
dialetto e ad elementi settentrionali, non bada alla purezza
della tradizione classicistica toscana: è quello del mondo
borghese.
Il dialetto veneziano non è dunque, per Goldoni, uno strumento di banale caratterizzazione, ma un vero e proprio
strumento, un elemento della sua drammaturgia: è un linguaggio concreto e autonomo, diversificato secondo gli
strati sociali dei personaggi che lo utilizzano. Quest’uso del
dialetto lo si ritroverà, molto tempo dopo, nella produzione
teatrale di Eduardo de Filippo.
La prefazione all'edizione Bettinelli delle opere di Goldoni
cita quelli che egli chiama i libri essenziali della sua formazione: il libro del mondo, che gli ha mostrato gli aspetti
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naturali degli uomini, e il libro del teatro, che gli ha insegnato la tecnica della scena e dell’arte comica.
La produzione goldoniana può essere suddivisa in quattro
fasi. La prima arriva fino al 1748, quando Carlo si dedicò in
maniera definitiva la professione teatrale, sperimentando e
confrontandosi con la commedia dell'arte.
La riforma si afferma più avanti, nel periodo del teatro
Sant'Angelo. Goldoni, analizzando il ruolo del genere comico, rivendica l'onore e la dignità dei comici e critica la banalità delle convenzioni della commedia dell'arte.
L'elemento principale della riforma, che si afferma nella
terza fase, è il continuo confronto dei personaggi con la
realtà quotidiana, secondo la filosofia dei due libri cui
abbiamo già fatto cenno.
La quarta fase, costituita dall'esperienza francese, presenta
una disarmonia e contraddittorietà tra "mondo" e "teatro".
Nasce tra parecchie difficoltà, dovute alla mancanza del riscontro col mondo veneziano, che è stato la sua principale
fonte d'ispirazione. In Francia, la sua sensibilità teatrale,
con la necessità di soddisfare le esigenze e le aspettative del
pubblico, lo porta lontano dai principi della sua stessa
riforma.
Resta il fatto che il distacco dalla Commedia dell’arte,
anche in Goldoni, non è mai definitivo: riferimenti alla
Commedia sono evidenti in alcune sue commedie: citiamo
la permanenza delle maschere e certe caricature e
deformazioni dei personaggi in chiave comica. Altre tracce
sono individuabili in certi intrecci e nella distribuzione
delle scene.
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Goldoni è portatore di una filosofia, definita "illuminismo
popolare", che critica ogni forma di ipocrisia e riconosce
valore e dignità alle forme di espressione di ogni classe
sociale, in un'ottica terrena e laica.
Il suo sogno, frutto della sua stessa estrazione sociale, è un
pacifico mondo razionale che accetta le gerarchie sociali e
distingue i diversi ruoli della nobiltà, della borghesia e del
popolo.
L’uomo di Goldoni, conscio dei conflitti che possono sorgere tra le varie classi, si può affermare, indipendentemente
dalla classe cui appartiene, attraverso l'onore e la reputazione di fronte all'opinione pubblica. Ogni individuo onorato
accetta il proprio posto nella scala sociale e rimane fedele ai
valori della tradizione mercantile veneziana: onestà, laboriosità, ecc.
Nei Mémoires, Goldoni offre l'immagine di una trionfante
affermazione della missione teatrale, di un sicuro proposito
di riforma sostenuto da una spontanea gaiezza. La sua figura appare come un'immagine che rappresenta cordialità, disposizione al sorriso e alla disponibilità umana.
Dietro quest'immagine gaia si affaccia però un’inquietudine
che prende forma nel continuo interrogarsi su se stesso e sul
mondo, in una forma di inquieta ipocondria.
Per tutta la sua vita, Goldoni è alla ricerca della legittimazione del suo fare teatro. Non essendo nato all'interno
dell'ambiente teatrale e provenendo da un contesto diverso,
non riesce ad accettare il teatro così com'è: cerca di
riformarlo e di fondare un nuovo teatro onorato. Attribuisce
al teatro una forte valenza istituzionale, è una struttura
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produttiva, retta da principi economici simili a quelli che
regolano la vita del mondo; ed ha una fondamentale
missione pedagogica.
Goldoni rivolge la propria attenzione ai vizi, che il suo teatro vuole colpire e correggere, ed a qualità e virtù, da porre
in risalto. Ogni sua opera ha una morale; attinge dal mondo
riferimenti, spunti, allusioni e richiami alla vita quotidiana;
la sua produzione racconta tutta la vita della Venezia e
dell'Italia del tempo, assumendo così la qualità di un modernissimo realismo.
I borghesi, sulle scene goldoniane, assumono un ruolo centrale tra le varie classi sociali: nelle prime opere questo
ruolo è positivo, a partire dalla figura di Momolo, "uomo di
mondo". La maschera di Pantalone diventa il modello
buone qualità del mercante veneziano. I nobili sono privi di
valori; i servi, conservando la schematicità della commedia
dell'arte, si segnalano per l’intelligenza e l’astuzia.
Negli ultimi anni veneziani questa visione si modifica. Le
figure dei servi guadagnano spazio, ed assumono un atteggiamento critico verso le ragioni dei padroni.
Il mondo popolare, ricco di purezza e vitalità - virtù assenti
in quello borghese – grazie a queste virtù lo sostituisce nel
ruolo di protagonista.
Per Goldoni, una componente essenziale del mondo è l'amore, che mai però racconta rinunciando ai veli del pudore
e della discrezione borghesi. Questo sentimento, presente
nei giovani, sulle scene è subordinato a regole sociali e familiari, in subordine rispetto alla reputazione e all'onore.
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Goldoni anticipa alcune forme del dramma borghese ottocentesco. Ha una visione critica della società, che gli appare
incapace di conservare l'equilibrio dei valori della vita e
delle classi sociali. I suoi testi trasmettono la sensazione di
un'insanabile irrequietezza, che si sospende con il lieto fine
tradizionale, sancito dai soliti matrimoni. I rapporti umani,
nel mondo che descrive, sono soltanto esteriori, sorretti dal
principio della reputazione.
C’è un’amara ironia nella constatazione che il trionfo di
quella borghesia che fu l’anima e il motore della Rivoluzione Francese, abbia segnato la rovina del suo mondo.
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