CENNI DI STORIA DEL TEATRO A cura di Giuseppe Riccardo Festa 2. Dalla Commedia dell’Arte a Goldoni In prossimità del fondo dell’Inferno, nelle Malebolge, una comitiva di diavoli deve guidare Virgilio e Dante verso la tappa successiva, tra le anime immerse nella pece bollente. Il capodiavolo nomina ad uno ad uno i membri della scorta il cui leader, per dare il segnale di partenza, usa una trombetta tutta particolare. «Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo, Cirïatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo. Cercate 'ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l'altro scheggio che tutto intero va sovra le tane». «Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?», diss'io, «deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio. 1 Se tu se' sì accorto come suoli, non vedi tu ch'e' digrignan li denti, e con le ciglia ne minaccian duoli?» Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti». Per l'argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta. Abbiamo concluso il nostro primo incontro constatando che con la fine dell’Impero romano, e il più o meno contestuale avvento del potere del cristianesimo; insomma, con l’inizio del Medioevo, l’evoluzione del Teatro ha subito in Europa una brusca frenata. Di fatto il Teatro, inteso come organizzazione di rappresentazioni in un ambiente appositamente creato, cessò del tutto di esistere, e per molto tempo. Ma se vi ho citato l’estratto dalla Divina Commedia col quale ho aperto la nostra chiacchierata, non è per caso. «Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina. La vostra attenzione vorrei richiamarla sul primo dei diavoli che formano la comitiva: Alichino. Alichino altri non è che Arlecchino, un nome che Dante riprende una tradizione preesistente, secondo la quale era questo il nome di uno dei diavoli più importanti dell’Infer2 no; se non che, già con Dante, gli vediamo assumere un ruolo comico, insieme ai suoi compari il cui nome è invece una divertita invenzione del poeta: i diavoli delle Malebolge, pur se forniti di corna, ali di pipistrello e forcone – almeno stando alle illustrazioni di Gustavo Dorè - sono dei clown; o meglio, dei giullari. Il teatro infatti non è veramente morto con la fine dell’Impero Romano; anche se nella sua forma canonica non lo rivedremo che a partire dal XV Secolo, è riuscito comunque a sopravvivere. Pure a questo abbiamo fatto cenno: i giullari, i saltimbanchi e gli equilibristi che frequentavano le piazze e le fiere ne hanno tenuta viva nei secoli bui la parte comica e satirica; mentre a tramandare il Teatro tragico senza saperlo e senza in effetti nemmeno volerlo - ci ha pensato proprio il cristianesimo, che il teatro ha sempre guardato con estremo sospetto, tanto da condannare per secoli gli attori, sia da vivi che da morti, alla scomunica. Ma scacciandolo dal portone, la Chiesa fece rientrare il Teatro dalla sagrestia. Lo fece con le sacre rappresentazioni, che con intenti edificanti mettevano letteralmente in scena, nelle chiese o sui sagrati delle chiese, i momenti salienti della vita e della morte di Gesù. Ne è rimasta traccia nella liturgia del venerdì santo durante la quale, con una certa qual drammatizzazione, si racconta la pas-sione di Cristo. Il teatro inteso come rappresentazione di uno spettacolo, dicevamo, rinasce nel XV Secolo, nelle splendide Corti rinascimentali, con allestimenti tipicamente amatoriali (ad esibirsi erano gli stessi cortigiani) e copioni obbligatoriamente legati alla mitologia classica, culminanti negli 3 immancabili trionfi di dèi e re che simboleggiavano i padroni di casa. Quei copioni quindi, usando una formula contemporanea, potremmo definirli “allineati al sistema”. Questa forma di teatro nasce in Italia e si diffonde in tutta Europa, perpetuandosi fino al XV e al XVI secolo. Alla corte di Milano Leonardo da Vinci stupiva ed incantava Ludovico il Moro ed i suoi cortigiani inventando macchine sceniche, costumi e musiche assolutamente originali. Metteva in scena spettacoli con i quali il Moro, oltre che con la potenza militare e finanziaria, guadagnava prestigio e potere politico. Leonardo, genio davvero a 360 gradi, è stato il primo grande scenografo e ideatore di effetti speciali nella storia del teatro. Per quanto riguarda la produzione drammaturgica, ricordiamo che a Firenze, fra il 1512 e il 1520, Niccolò Machiavelli scriveva La Mandragora, una deliziosa commedia satirica sulla corruttibilità della società italiana dell'epoca, che è considerata il vertice più alto della produzione teatrale italiana del tempo. Parallelamente continuava a sopravvivere il teatro avventuroso degli attori girovaghi al quale ho fatto cenno, attivo in particolare nel Nord Italia, che al sistema invece si opponeva narrando ad esempio, le sventure dello Zani (Giovanni, in bergamasco), modello esemplare del povero disperato eternamente in cerca di cibo e di fortuna, che diventerà egli stesso una delle maschere della Commedia dell’Arte, e di altre maschere sarà il progenitore e il modello; e che identificando col potere anche le gerarchie ecclesiastiche, giunge a osare di farsi gioco perfino dei misteri sacri, come Dario Fo ha messo bene in evidenza con il suo Mistero buffo. 4 Il passaggio dalla commedia rinascimentale, umanistica ed erudita, recitata da attori dilettanti, al teatro professionale e quindi alla Commedia dell'arte, avviene tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo, grazie ad alcune circostanze fortunate che si verificano in quel periodo. La prima è la nascita dei teatri privati, specialmente a Venezia, dove le famiglie nobili iniziano una politica di diffusione di spazi dedicati alla recitazione di commedie e melodrammi a pagamento. I veneziani avevano il commercio nel sangue, e quindi fiutarono l’affare: il teatro, all’epoca, era un affare. La nascita dei teatri dette nuovo impulso all'arte dell'attore che da giocoliere di strada, saltatore di corda o buffone di corte che fosse, cominciò a cimentarsi con trame più complesse. Gli attori, che già da tempo si riunivano in gruppi chiamati "Fraternal Compagnie",presero ad associarsi in vere e proprie compagnie teatrali, che partecipavano ai proventi di questa nuova industria. Quando parliamo di Arte, associandola alla parola commedia, diamo al termine il significato medievale di mestiere con una definizione tarda, che risale al XVIII secolo: questa forma di spettacolo in origine era chiamata commedia all'improvviso, commedia a braccio o anche commedia degli Zanni. Padre ufficiale della Commedia dell’Arte è considerato il padovano Angelo Beolco, detto il Ruzzante, che creò una delle prime compagnie professionali d’Italia. Fino dal 1520 il Ruzzante aveva viaggiato in tutta l’Italia settentrionale, esibendosi tanto nelle corti quanto nelle piaz5 ze dei mercati. La sua compagnia si esprimeva in dialetto padovano ed eseguiva commedie rustiche, basate sulle tensioni fra contadini e abitanti delle città, e farse d’amore o tragicommedie, generalmente a sfondo pastorale. Il principale contributo del Ruzzante allo sviluppo della Commedia dell’Arte, anche mediante la sperimentazione del teatro plautino, fu la fissazione di alcuni caratteri tipici, che poi divennero il modello dei personaggi della Commedia dell’arte. Egli introdusse inoltre un modo di recitare naturale, ispirato dalla vita e dall’osservazione della gente, che si contrapponeva radicalmente allo stile formale ed aulico della recitazione cortigiana. Questo approccio fu adottato anche in altre arti: ad esempio da François Rabelais in letteratura, da Orlando di Lasso in musica, da Bruegel il Vecchio nella pittura. La storia e la fortuna della Commedia dell'Arte sono dunque legate alla storia e alla fortuna di attori come il Ruzzante, avventurosi e intelligenti, che tra il 1580 e il 1630 inventarono il teatro moderno. A loro, più che ad umanisti, architetti di edifici e di scene, e prima che a scrittori di commedie e di trattati, spetta il merito di avere fondato la disciplina dello spettacolo che giunge fino a noi attingendo, come già abbiamo rilevato, a Plauto ed alla commedia atellana, come è dimostrato dall’uso di personaggi che si richiamano a caratteri permanenti e, soprattutto, dalla tecnica recitativa basata sull’improvvisazione, sul lazzo e sulla capacità degli attori di adattare la vicenda della commedia agli eventi ed alle situazioni del tempo e del luogo ove si esibivano. 6 L'avvento dei professionisti della Commedia dell’Arte cambiò profondamente il panorama dello spettacolo teatrale. Il teatro smise di essere un giocattolo delle corti per diventare anche una lucrosa attività, con tanto di impresari e investimenti, spesso consistenti. Abbiamo detto che la Commedia dell’arte era chiamata, inizialmente, Commedia a braccio, o dell’improvviso: definizioni che sottolineano il carattere della recitazione delle compagnie, che non mettevano in scena testi d'autore ma, basandosi su canovacci, rappresentavano vicende ispirate alla realtà quotidiana arricchite, come gli spettacoli dei saltimbanchi medievali, con numeri acrobatici, danze e canti. Il canovaccio è lo schema sommario dell’azione: lo spiedo, per così dire, di un copione teatrale, che gli attori rivestono con la carne giusta a seconda del pubblico al quale va servito. Alcune parti - dialoghi, monologhi, momenti di transizione ecc. – a volte sono già elaborati e possono essere usati senza cambiamenti; il resto, in particolare la realizzazione testuale, è improvvisato. Le compagnie, soprattutto quelle che operavano in provincia, non disponevano di infrastrutture stabili: viaggiando di paese in paese, dovevano accattivarsi il pubblico e convincerlo ad assistere alle rappresentazioni. I canovacci permettevano a una compagnia esperta di mettere in scena, in poche ore, testi su misura: con pochi interventi si costruivano agganci fra la cronaca del paese in cui si recitava e i contenuti di un canovaccio già esistente. 7 I canovacci, quindi, da un lato permettevano di creare rapidamente nuovi testi drammatici, grazie all’esperienza degli attori; dall’altro proponevano moduli collaudati nel tempo e di sicura presa sul pubblico. Inoltre gli attori potevano attingere le battute da alcuni repertori (gli attori migliori ne avevano di personali). La recitazione era in versi, in Francia come in Italia: solo con Goldoni, in Italia, si passò regolarmente e definitivamente alla prosa. Le commedie, perpetuando la tradizione antica, si basavano su personaggi ben riconoscibili e dai caratteri stereotipati, su una gestualità esasperata, dialoghi improvvisati, interludi musicali e buffonerie, per soddisfare un pubblico vasto di variegata estrazione sociale e culturale. Come Manlio Santanelli fa dire al suo Calcese, attribuendo a Pulcinella un carattere in realtà valido per tutte le maschere della Commedia, quei personaggi dovevano essere capiti da tutti, non solo dai signori che hanno studiato. Tutti gli attori, con l'eccezione della coppia dei giovani innamorati, indossavano la maschera. Il teatro nasce con la maschera: gli attori greci che recitavano Eschilo, Euripide e Sofocle, indossavano la maschera tragica, quelli che recitavano Aristofane, invece, la maschera comica; quelle maschere avevano anche la funzione di amplificare la voce dell’attore, e modificarla. La maschera ha poi assunto, anche fuori dal teatro, infinite valenze anche sociali e religiose: basti pensare al cappuccio del boia e dei fanatici del Ku-Klux-Klan o delle confraternite religiose e massoniche di casa nostra, alle maschere di carnevale, o al fatto che la stessa parola maquilla8 ge, riferita al trucco che esalta o inventa la bellezza delle signore – da un po’ non solo delle signore – etimologicamente significa proprio “mascheramento”. Nella Commedia dell’Arte la maschera, insieme al costume, caratterizza fortemente il personaggio, anche in chiave geografica, e finisce per diventarne sinonimo. Vediamone qualcuna. Zanni è la più antica maschera del servo ed ha generato molti altri personaggi. Nel Seicento il suo ruolo si sdoppiò nel primo Zanni, furbo e maneggione, e nel secondo Zanni, spesso più sciocco e pasticcione, caratterizzato da lazzi e acrobazie. Arlecchino, la maschera più nota in assoluto, è il servo imbroglione e perennemente affamato. Balanzone, caratterizzazione bolognese del più generico Dottore, è un personaggio serioso e presuntuoso. Brighella è bergamasco. Spesso nei panni di primo Zanni, è il servo furbo contrapposto al secondo Zanni, Arlecchino. Pantalone è una famosissima maschera veneziana. Anziano e avido mercante, entra spesso in competizione con i giovani nel tentativo di conquistare una donna. Il Capitano è il militare spaccone e buffonesco, erede diretto del Miles Gloriosus plautino. Fra i Capitani più celebri ci sono Capitan Spaventa, Capitan Matamoros, Capitan Rodomonte e Capitan Cardone. Colombina è una servetta e fa spesso coppia con Arlecchino. Le sue doti, tipicamente femminili, sono la malizia, una certa furbizia e uno spiccato senso pratico. Il tea9 tro convenzionale, perpetuando l’uso delle sacre rappresentazioni (per la Chiesa era immorale far salire le donne sul palcoscenico), affidava i ruoli femminili a giovinetti travestiti: la parola mariuolo nasce, a Napoli, appunto dalla consuetudine di utilizzare un ragazzino nel ruolo di Maria. Nella Commedia dell'Arte, al contrario, recitavano attrici professioniste. Meneghino (in lombardo un diminutivo di Domenico) è la maschera simbolo della città di Milano. La sua fama è dovuta in gran parte alle commedie di Carlo Maria Maggi. Pulcinella, in versione francese Polichinelle e in quella inglese Punch, è col Vesuvio uno dei simboli più noti della città di Napoli. Spesso malinconico, fonde le caratteristiche del servo sciocco con una buona dose di saggezza popolare. Scaramouche, inventato da Tiberio Fiorilli, è una maschera italiana ma riscosse un grande successo in Francia; entra nel novero dei Capitani. Stenterello, versione fiorentina dello zanni, è una maschera fiorentina che ebbe molta fortuna in Toscana tra la fine del '700 e tutto il secolo successivo. Tartaglia, mezzo cieco e balbuziente, entra nel novero dei "vecchi", spesso nel ruolo del notaio. Truffaldino, secondo zanni settecentesco, per il quale Carlo Goldoni scrisse Il servitore di due padroni. Generalmente le compagnie erano costituite da tre donne e sette uomini; le migliori disponevano anche di un “poeta di teatro”, un autore cioè tutto per loro: una professione che 10 all’inizio della sua carriera teatrale fu esercitata dallo stesso Goldoni. Le maschere riproducevano dunque alcuni caratteri ben riconoscibili (il servo astuto, il soldato spaccone, il vecchio avaro, eccetera), già presenti nell’immaginario del pubblico, ovviando così in larga parte all'assenza di un copione. Giova ribadire che il gusto, le consuetudini e le caratteristiche locali provocarono una certa differenziazione nell’aspetto e nel carattere delle maschere, che finirono per acquisire connotazioni geografiche ben precise: così il dottore, col nome di Balanzone, divenne bolognese per via della rinomata università che a Bologna aveva sede; in Inghilterra, gli influssi della Commedia assunsero i caratteri delle maschere di Punch, un Pulcinella più prepotente dell’originale, e di sua moglie Judy. La popolarità della Commedia dell'Arte fu straordinaria, tanto che le migliori compagnie ebbero larga fortuna anche presso le corti reali dei paesi europei. Molto popolare essa divenne soprattutto in Francia; a Parigi era rappresentata presso il teatro dell'Hôtel de Bourgogne, dove gli attori italiani della Comédie-Italienne si erano installati dal 1680. In Italia la partenza dei maggiori attori verso nuovi lidi come Parigi, Vienna, la Penisola Iberica e la Moscovia indusse i nobili dilettanti a inventare, scrivere e interpretare i testi della Commedia ridicolosa, la versione cortigiana della commedia dell'arte, che in parte sostituì, avvalendosi anch’essa delle maschere della Commedia dell’arte. Questa così finì col sostituire del tutto la commedia erudita del Quattro-Cinquecento, e non soltanto la commedia: 11 anche molte tragedie, e commedie pastorali, furono invase dalla presenza delle maschere. Arlecchino e gli altri zanni si trasformavano, in queste occasioni, in servi del tiranno o pastori arcadici, conservando sempre il loro spirito irriverente di buffoni o di poveri diavoli. Nonostante, o anzi proprio a causa della sua popolarità, nel XVII secolo i governi di Spagna e Francia cercarono di censurare e regolamentare la Commedia dell’Arte. Come già abbiamo visto, la satira sociale, con i riferimenti all’attualità, si affacciava prepotentemente e pericolosamente nei testi. La risposta a queste censure, secondo quanto narra Dario Fo, fu l’invenzione del gramelot, un miracolo di espressività capace di essere perfettamente comprensibile pur consistendo di fonemi privi di significato, che della lingua locale utilizzavano la musica ma non le parole. L’attore, in questo modo, lanciava comunque il suo messaggio satirico, riuscendo ad impedire al censore di intervenire. Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza che la Commedia dell’Arte ebbe sull’evoluzione del Teatro. Nessuno, in tutta Europa, poté sottrarsi alla sua influenza: a partire dal gigante William Shakespeare (Stratford-uponAvon, 23 aprile 1564 - Warwickshire, 23 aprile 1616). Non si sa se Shakespeare vide mai direttamente uno spettacolo della Commedia dell'arte, ma ne subì sicuramente l’influenza come il suo amico e avversario Ben Johnson, l’altro grande autore del teatro elisabettiano, che mise in scena Il volpone, la migliore versione inglese del teatro dell'arte all'italiana. 12 Questa influenza è evidente quando, inventando il teatro nel teatro, Shakespeare inserisce nel suo Amleto una compagnia di attori girovaghi italiani e, nel Sogno di una notte di mezza estate, fa comportare un gruppo di attori amatoriali esattamente come se fossero una compagnia di comici italiani; per non parlare di commedie come La dodicesima Notte, chiaramente ispirata a Plauto, o la stessa Sogno di una notte di mezza estate, nelle quali il ricorso al gioco degli equivoci si richiama in modo evidente agli artifici della Commedia dell’arte. Non si può limitare a due battute l’importanza del Bardo di Stratford-upon-Avon, beniamino dell’Inghilterra elisabettiana e, sul piano culturale, nel bene e nel male, massimo rappresentante di quel mondo, con tutte le sue raffinatezze e tutte le sue atrocità. Voltaire, tragediografo egli stesso, che visse in Inghilterra per alcuni anni e – cosa rara per un francese - s’impadronì alla perfezione della lingua, lo apprezzò moltissimo e lo introdusse in Francia, anche se non cessò mai di considerarlo un “selvaggio”. La figura di Shakespeare giganteggia, nel mondo del Teatro e della cultura in generale, accanto a quelle di Omero, Dante, Cervantes, Michelangelo, Bach, Mozart, Beethoven e pochi altri: la sua creazione ha valore universale, perché universali sono i temi che introdusse nelle sue opere, tanto le commedie quanto le tragedie, nelle quali l’umanità è mirabilmente rappresentata con tutte le sue grandezze, le sue miserie, il suo sublime e il suo ridicolo, senza schematismi ma anzi con la capacità di mostrare di ogni per13 sonaggio, nello stesso momento, splendori e miserie, vizi e virtù. Shakespeare non fu solo autore: fu anche attore ed impresario, trovando anche in questa molteplicità di attività teatrali un punto di contatto con la Commedia dell’arte, anche se – e questa differenza è fondamentale – diversamente dai teatranti italiani egli dispose di strutture fisse nelle quali allestire i suoi spettacoli. Come lui, a pochi decenni di distanza ma in un mondo radicalmente diverso, fu attore e impresario anche Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière (Parigi, 14 gennaio 1622 - 17 febbraio 1673). Anche Molière fu fortemente influenzato dalla Commedia dell’Arte. Ebbe come maestro e amico nientemeno che Tiberio Fiorilli (Napoli, 9 novembre 1608 - Parigi, 7 dicembre 1694), inventore del personaggio di Scaramouche e direttore della Commédie-Italienne, presso il teatro dell'Hôtel de Bourgogne di Parigi. I personaggi della commedia dell’Arte entrano di prepotenza nel teatro di Molière: basti citare, come esempio, a Il malato immaginario, che vede entrare in scena, nel finale, Pulcinella in persona, o al suo Sganarello, che a Pulcinella dichiaratamente si ispira. Alla nascita di Molière, Shakespeare era già morto da sei anni e il mondo era cambiato, per i rivolgimenti sociali e culturali che erano intervenuti nel frattempo: i disordini politici che, in Francia ed in Inghilterra avevano caratterizzato il XVI Secolo, si erano ormai placati. 14 Va anche aggiunto che, comunque, la cultura e la civiltà francesi erano sensibilmente superiori a quelle dell’Inghilterra già in epoca elisabettiana, e che il già citato Voltaire, abituato alle raffinatezze degli ambienti intellettuali parigini, non aveva tutti i torti, in un certo senso, a definire selvaggio il sanguigno, diretto, a volte brutale e per niente aulico Shakespeare. Molière era figlio di un tappezziere benestante di Parigi. Visse un’infanzia affettivamente infelice, restando due volte orfano: a dieci anni della madre, e a sedici della matrigna: a questo, forse, si deve che nel suo teatro siano rari i personaggi materni. Ebbe una buona educazione, fino a diventare avvocato. Ma la sua vita subì una svolta quando si unì all’attrice Madeleine Béjart, di quattro anni più anziana di lui. Con l'aiuto di Madeleine, leale, devota, colta e abile anche negli affari (è proprio vero che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna), Molière comprese la propria vocazione di attore ed organizzò una propria compagnia teatrale. Il 30 giu-gno del 1643 mise insieme una troupe di dieci membri, l'Illustre Théâtre. Attraverso alterne vicende – viaggi dal nord al sud della Francia, un arresto per debiti, passaggio da questa a quella compagnia teatrale, infine Molière tornò ad operare in proprio, col patrocinio del fratello del re, ed ottenne di esibirsi nel teatro del Petit-Bourbon, alternandosi con la troupe degli Italiani. Dopo aver tentato senza successo la via della tragedia, infine capì che la sua vocazione era la commedia, con la 15 quale eccelse, nel 1659, già col primo testo: Les Précieuses ridicules (Le preziose ridicole), che ironizzava sulla vita mondana – vale a dire le leziosaggini della nobiltà – mettendone in ridicolo le espressioni ed il linguaggio. L’irritazione di chi – fra la nobiltà – si riconosceva nei personaggi della commedia, provocò una breve interruzione delle rappresentazioni, senza però far cessare gli inviti a corte e nelle case dei grandi signori. Nel 1660 vi fu il gran successo di Sganarelle ou le Cocu imaginaire (Sganarello il cornuto immaginario), una tipica commedia degli equivoci chiaramente ispirata alla Commedia dell’arte. Il salone del Petit-Bourbon fu demolito, e il re fece assegnare alla compagnia la sala del Palais Royal, dove ebbe luogo la presentazione de l'Ecole des maris, (La scuola dei mariti). Molière confermò, in questa commedia, la sua tendenza a fare satira sui problemi sociali, quel castigat ridendo mores che, pervenutogli attraverso la commedia dell’arte italiana, affondava le radici nella commedia plautina: velandoli di buffoneria, affrontava problemi gravi e scottanti come l'educazione dei figli e la misura della libertà da riconoscere alle mogli. Il 20 febbraio 1662 sposò Armande Béjart, che ufficialmente era sorella ma quasi sicuramente era figlia di Madeleine, che entrò a sua volta nella troupe. In dicembre fu rappresentata l'Ecole des femmes (La scuola delle mogli) che superò in successo ed in valore tutte le commedie precedenti ma provocò lo scontro con i rigoristi cristiani, tanto che per tutto il 1663 Molière fu interamente 16 occupato dalla querelle che infuriava intorno alla commedia, che crebbe parallelamente al suo successo. Il 12 maggio del 1664 ebbe luogo la prima rappresentazione di Tartuffe, (l'Impostore), pessimistica – ed attualissima – commedia dai profondi risvolti morali e sociali, spietato atto d’accusa dell’ipocrisia e del perbenismo, il cui lieto fine è una foglia di fico che non nasconde il disincanto e la disillusione di Molière nei confronti della società del suo tempo. Epica la morte sulla scena di Molière, per tubercolosi, il 17 febbraio 1673, mentre recitava Il malato immaginario. Coprì la tosse con una risata forzata, e si spense tra le braccia di due suore che lo avevano accompagnato a casa. Il divieto di inumazione in luoghi consacrati, che ancora vigeva per attori e commedianti, fu aggirato, su intercessione del Re, con la sepoltura di Molière nel cimitero di SaintJoseph, ma ad una profondità superiore a quattro piedi, misura che fissava l'estensione in profondità della terra consacrata. Merita un cenno un altro autore francese, Pierre Carlet de Marivaux (Parigi, 4 febbraio 1688 -12 febbraio 1763), che deve molto alla Commedia dell’Arte. La sua opera generò addirittura un verbo, marivauder, che significa «scambiarsi frasi galanti di grande eleganza». Siamo nella Francia della Reggenza e di Luigi XV, dei mots d’esprit come stile di vita e metro di valutazione delle qualità di un gentiluomo. Marivaux rappresenta una sorta di ponte fra il teatro tradizionale italiano della Commedia dell’arte e i suoi personaggi, in particolare Arlecchino, e un teatro più letterario, 17 più vicino agli autori francesi e inglesi; ed è considerato da alcuni come il maestro francese della maschera e dell’inganno. In quanto principale strumento dell’inganno, in Marivaux il linguaggio è anch’esso una maschera, dietro la quale si nascondono i personaggi, che spesso sono dei giovani, terrorizzati dall’idea di entrare nella vita e di svelare i propri sentimenti. Le loro avventure psicologiche, a un tempo complesse e ingenue, si svolgono sotto lo sguardo degli altri personaggi (i genitori) e degli spettatori, che se ne fanno gioco con un perverso mélange d’indulgenza e cattiveria. In Francia, come nel resto d’Europa, naturalmente il teatro non è soltanto commedia. Ma in Francia, soprattutto, si sviluppa, all’interno degli ambienti vicini alla corte reale, una forma di teatro serio estremamente elaborata che si richiama ancora, come ai tempi delle corti rinascimentali, a temi mitologici o biblici. Non va dimenticato che parallelamente al teatro di prosa, influenzandolo e subendone l’influenza, trionfava anche il teatro d’opera. Il Teatro d’opera nacque, di fatto, con Claudio Monteverdi, alla corte dei Gonzaga di Mantova. Ebbe un tale successo che in Italia provocò, fino a Goldoni, un quasi totale arresto nello sviluppo del teatro di prosa e restando anche in seguito, e fino agli anni Venti dello scorso secolo, una forma d’arte teatrale capace di soffocare quasi del tutto tutte le altre. Poi è arrivato il cinema, che ha 18 ammazzato anche il melodramma; e poi la televisione, che ha ammazzato tutto, compreso il buon gusto. In Francia il melodramma vedeva il suo fondatore e principale protagonista nel fiorentino Giovanni Battista Lulli, che divenne compositore di corte di Luigi XIV e gallicizzò il suo nome in Jean Baptiste Lully; suo successore fu Jean Baptiste Rameau. Non molto sorprendentemente, anche qui l’arrivo di italiani non disposti a francesizzarsi provocò un terremoto, generando la cosiddetta querelle des bouffons: La Serva Padrona di Pergolesi mostrò ai francesi che si poteva fare un delizioso teatro musicale evitando le pesantezze, gli orpelli e la retorica tipici delle loro auliche accademie. Per tornare alla tragedia, Il teatro serio vedeva il suo maggiore esponente, a quel tempo, in Jean Racine (La FertéMilon, 22 dicembre 1639 - Parigi, 21 aprile 1699), autore di ponderosi drammoni in versi: imponenti, morali, educativi, coltissimi; e interminabili e, per il gusto contemporaneo, insopportabili. Tanto che di fatto, ormai, è irrappresentabile, esattamente come il teatro del suo successore, il delizioso Voltaire di Candide, di Micromega, Zadig, La principessa di Babilonia e del Dizionario Filosofico, che diventa insopportabile nei suoi giustamente dimenticati drammi teatrali. Il nostro metro di giudizio, e il nostro gusto, hanno ben poco in comune con quelli di allora. Noi, abituati ai ritmi degli spettacoli cinematografici e televisivi, non possiamo concepire l’idea di passare sei o sette ore sciroppandoci i cinque o 19 sei atti di una tragedia in versi di Racine o di Voltaire: noi abbiamo bisogno di sforbiciare spietatamente perfino le opere di autori a noi vicinissimi, come Ibsen, Pirandello o Eduardo; figurarsi quelle montagne di versi. Ma all’epoca anche i ritmi della vita erano completamente diversi. E veniamo a Goldoni. Carlo Goldoni ebbe una vita movimentata quanto e più di quella di Molière. Nacque a Venezia, il 25 febbraio 1707, da una famiglia borghese che si trovò in difficoltà finanziarie in seguito agli sperperi del nonno paterno. Aveva cinque anni quando il padre si trasferì a Roma, lasciandolo con la madre per poi, avviata la carriera di medico, chiamarlo presso di sé a Perugia. Di là si trasferì a Rimini per studiare filosofia, ma abbandonò lo studio, sia per nostalgia della madre, sia per seguire una compagnia di comici di Chioggia. Quindi seguì il padre in Friuli; poi riprese gli studi a Modena ed elaborò le prime opere comiche, ancora in forma dilettantesca. Con l'improvvisa morte del padre (1731), si dovette prendere carico della famiglia; tornato a Venezia, completò gli studi a Padova ed intraprese la carriera forense. Ma nel 1734 incontrò a Verona il capocomico Giuseppe Imer e tornò a Venezia con lui, dopo aver ottenuto l'incarico di scrivere testi per il teatro San Samuele. Poi, seguendo a Genova la compagnia Imer, conobbe e sposò Nicoletta Conio, con la quale tornò a Venezia. Nel 1738 Goldoni presentò al San Samuele la sua prima vera commedia, il Momolo cortesan, nella quale la parte del 20 protagonista, cosa fino a quel momento inaudita in Italia, era interamente scritta. Cominciò così a marcare la differenza dalla tradizione della Commedia dell’arte. Con La donna di garbo, poco dopo, nasce la sua prima commedia interamente scritta, che non prevede margini di improvvisazione. Subito dopo dovette fuggire da Venezia, affogato nei debiti. Andò a Rimini, dove continuò a occuparsi di teatro durante la guerra di successione austriaca; poi soggiornò in Toscana. Convinto dal capocomico Girolamo Medebac a sottoscrivere, come autore, un contratto per la sua compagnia che recitava al teatro Sant'Angelo di Venezia, vi tornò nel 1748. Tra il 1748 e il 1753 Goldoni scrisse per la compagnia Medebac una serie di commedie nelle quali, distaccandosi dai modelli della commedia dell'arte, realizzò i principi di una riforma del teatro. A questo periodo appartengono L'uomo prudente, La vedova scaltra, La putta onorata, Il cavaliere e la dama, La buona moglie, La famiglia dell'antiquario. Realizzò inoltre sedici commedie, tra cui Il teatro comico, La bottega del caffè, Il bugiardo, e La Pamela, tratta dal romanzo Il giocatore di Samuel Richardson; e ancora La dama prudente, L'avventuriero onorato, I pettegolezzi delle donne. L'attività per Medebac continuò poi con Il Molière, L'amante militare, Il feudatario, La serva amorosa, fino a La locandiera e a Le donne curiose. Dopo aver rotto con il Medebac, Goldoni assunse un nuovo impegno con il teatro San Luca. Cominciò quindi un periodo travagliato in cui scrisse varie tragicommedie e comme21 die. Dovette adattare i testi per un edificio teatrale ed un palcoscenico più grandi di quelli a cui era abituato, e per attori che non conoscevano il suo stile, ormai lontano dai modelli della commedia dell'arte. Fra le tragicommedie ottenne un gran successo la Trilogia persiana; tra le commedie si possono ricordare La cameriera brillante, Il filosofo inglese, Terenzio, Torquato Tasso ed il capolavoro Il campiello. Goldoni era ormai una celebrità nazionale. Nel 1761, infine, accettò l’invito a recarsi a Parigi per occuparsi della Comédie Italienne. Vitale fu l'ultima stagione per il San Luca, prima della partenza, che vide la nascita de La Trilogia della villeggiatura: Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte e Una delle ultime sere di carnovale. Giunto a Parigi nel 1762, Goldoni aderì subito alla politesse francese, dovendo anche affrontare difficoltà dovute allo scarso spazio concesso alla Comédie Italienne ed alle richieste del pubblico francese, che identificava il teatro italiano con quella commedia dell'arte da cui lui si era tanto allontanato. Riprese una battaglia di riforma, con una produzione di testi pensati non solo per le scene parigine ma anche per quelle veneziane. si possono ricordare le due commedie in francese che vogliono confrontarsi con Molière e con la tradizione comica francese, Le bourru bienfaisant e L'avare fastueux. Insegnò l'italiano alla famiglia reale a Versailles e nel 1769 ottenne una pensione di corte. Tra il 1784 e l'87 scrisse in francese la sua autobiografia, i Mémoires. La Rivoluzione, 22 cui fece seguito la soppressione delle pensioni di corte, sconvolse la sua vita. Morì, in miseria, il 6 o il 7 febbraio 1793. I testi di Goldoni sono sempre legati a precise occasioni teatrali e tengono conto delle esigenze degli attori, delle compagnie, degli stessi edifici teatrali cui è destinata la loro prima rappresentazione, in questo restando legati alla tradizione e nello stesso tempo prefigurando la figura del regista moderno. La sua opera presenta un'ininterrotta serie di situazioni, si svolge attraverso un "quotidiano parlare". Il linguaggio dei personaggi si mostra indifferente alle tradizionali prospettive letterarie e formali: passando continuamente dalla lingua al dialetto e viceversa, Goldoni dà spazio a diversi usi sociali del linguaggio, adattati alle situazioni in cui i suoi personaggi vengono a trovarsi. Il suo italiano, misto al dialetto e ad elementi settentrionali, non bada alla purezza della tradizione classicistica toscana: è quello del mondo borghese. Il dialetto veneziano non è dunque, per Goldoni, uno strumento di banale caratterizzazione, ma un vero e proprio strumento, un elemento della sua drammaturgia: è un linguaggio concreto e autonomo, diversificato secondo gli strati sociali dei personaggi che lo utilizzano. Quest’uso del dialetto lo si ritroverà, molto tempo dopo, nella produzione teatrale di Eduardo de Filippo. La prefazione all'edizione Bettinelli delle opere di Goldoni cita quelli che egli chiama i libri essenziali della sua formazione: il libro del mondo, che gli ha mostrato gli aspetti 23 naturali degli uomini, e il libro del teatro, che gli ha insegnato la tecnica della scena e dell’arte comica. La produzione goldoniana può essere suddivisa in quattro fasi. La prima arriva fino al 1748, quando Carlo si dedicò in maniera definitiva la professione teatrale, sperimentando e confrontandosi con la commedia dell'arte. La riforma si afferma più avanti, nel periodo del teatro Sant'Angelo. Goldoni, analizzando il ruolo del genere comico, rivendica l'onore e la dignità dei comici e critica la banalità delle convenzioni della commedia dell'arte. L'elemento principale della riforma, che si afferma nella terza fase, è il continuo confronto dei personaggi con la realtà quotidiana, secondo la filosofia dei due libri cui abbiamo già fatto cenno. La quarta fase, costituita dall'esperienza francese, presenta una disarmonia e contraddittorietà tra "mondo" e "teatro". Nasce tra parecchie difficoltà, dovute alla mancanza del riscontro col mondo veneziano, che è stato la sua principale fonte d'ispirazione. In Francia, la sua sensibilità teatrale, con la necessità di soddisfare le esigenze e le aspettative del pubblico, lo porta lontano dai principi della sua stessa riforma. Resta il fatto che il distacco dalla Commedia dell’arte, anche in Goldoni, non è mai definitivo: riferimenti alla Commedia sono evidenti in alcune sue commedie: citiamo la permanenza delle maschere e certe caricature e deformazioni dei personaggi in chiave comica. Altre tracce sono individuabili in certi intrecci e nella distribuzione delle scene. 24 Goldoni è portatore di una filosofia, definita "illuminismo popolare", che critica ogni forma di ipocrisia e riconosce valore e dignità alle forme di espressione di ogni classe sociale, in un'ottica terrena e laica. Il suo sogno, frutto della sua stessa estrazione sociale, è un pacifico mondo razionale che accetta le gerarchie sociali e distingue i diversi ruoli della nobiltà, della borghesia e del popolo. L’uomo di Goldoni, conscio dei conflitti che possono sorgere tra le varie classi, si può affermare, indipendentemente dalla classe cui appartiene, attraverso l'onore e la reputazione di fronte all'opinione pubblica. Ogni individuo onorato accetta il proprio posto nella scala sociale e rimane fedele ai valori della tradizione mercantile veneziana: onestà, laboriosità, ecc. Nei Mémoires, Goldoni offre l'immagine di una trionfante affermazione della missione teatrale, di un sicuro proposito di riforma sostenuto da una spontanea gaiezza. La sua figura appare come un'immagine che rappresenta cordialità, disposizione al sorriso e alla disponibilità umana. Dietro quest'immagine gaia si affaccia però un’inquietudine che prende forma nel continuo interrogarsi su se stesso e sul mondo, in una forma di inquieta ipocondria. Per tutta la sua vita, Goldoni è alla ricerca della legittimazione del suo fare teatro. Non essendo nato all'interno dell'ambiente teatrale e provenendo da un contesto diverso, non riesce ad accettare il teatro così com'è: cerca di riformarlo e di fondare un nuovo teatro onorato. Attribuisce al teatro una forte valenza istituzionale, è una struttura 25 produttiva, retta da principi economici simili a quelli che regolano la vita del mondo; ed ha una fondamentale missione pedagogica. Goldoni rivolge la propria attenzione ai vizi, che il suo teatro vuole colpire e correggere, ed a qualità e virtù, da porre in risalto. Ogni sua opera ha una morale; attinge dal mondo riferimenti, spunti, allusioni e richiami alla vita quotidiana; la sua produzione racconta tutta la vita della Venezia e dell'Italia del tempo, assumendo così la qualità di un modernissimo realismo. I borghesi, sulle scene goldoniane, assumono un ruolo centrale tra le varie classi sociali: nelle prime opere questo ruolo è positivo, a partire dalla figura di Momolo, "uomo di mondo". La maschera di Pantalone diventa il modello buone qualità del mercante veneziano. I nobili sono privi di valori; i servi, conservando la schematicità della commedia dell'arte, si segnalano per l’intelligenza e l’astuzia. Negli ultimi anni veneziani questa visione si modifica. Le figure dei servi guadagnano spazio, ed assumono un atteggiamento critico verso le ragioni dei padroni. Il mondo popolare, ricco di purezza e vitalità - virtù assenti in quello borghese – grazie a queste virtù lo sostituisce nel ruolo di protagonista. Per Goldoni, una componente essenziale del mondo è l'amore, che mai però racconta rinunciando ai veli del pudore e della discrezione borghesi. Questo sentimento, presente nei giovani, sulle scene è subordinato a regole sociali e familiari, in subordine rispetto alla reputazione e all'onore. 26 Goldoni anticipa alcune forme del dramma borghese ottocentesco. Ha una visione critica della società, che gli appare incapace di conservare l'equilibrio dei valori della vita e delle classi sociali. I suoi testi trasmettono la sensazione di un'insanabile irrequietezza, che si sospende con il lieto fine tradizionale, sancito dai soliti matrimoni. I rapporti umani, nel mondo che descrive, sono soltanto esteriori, sorretti dal principio della reputazione. C’è un’amara ironia nella constatazione che il trionfo di quella borghesia che fu l’anima e il motore della Rivoluzione Francese, abbia segnato la rovina del suo mondo. 27