Raccolta, interpretazione, scrittura: due etnografie a confronto 1

annuncio pubblicitario
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
Raccolta, interpretazione, scrittura: due etnografie a confronto
1. Introduzione
L’oggetto di questo paper è la comparazione di due ricerche etnografiche dal punto di vista
metodologico.
Le due etnografie che verranno comparate sono “Etnografia di un’economia clandestina. Immigrati
algerini a Milano” di Asher Colombo e “Confini dentro la città. Antropologia della Stazione
Centrale di Milano” di Enzo Colombo e Gianmarco Navarini.
Oltre a condividere un metodo, quello etnografico, i due testi hanno alcuni punti in comune, che
hanno reso stimolante l’idea di leggerli in chiave comparativa.
Entrambe le ricerche hanno come contesto del lavoro di campo la città di Milano. Non solo, esse si
occupano di mondi sociali in vari sensi contigui: una comunità di immigrati algerini gravitanti
intorno alla zona di Porta Venezia la prima, la Stazione Centrale e i suoi abitanti la seconda. La
contiguità dei due mondi è prima di tutto fisica, dal momento che le due zone si trovano a poca
distanza l’una dall’altra, e in secondo luogo sociale, poiché gli attori sociali di cui si parla sono in
entrambi i casi dei “marginali”, degli “underdogs”. Esiste poi un’ulteriore contiguità tra i due
lavori, ed è la contiguità temporale: la prima etnografia è stata svolta tra il 1992 e il 1994 e la
seconda tra il 1996 e il 1998. Contiguità fisica, sociale e temporale rendono plausibile e suggestiva
l’ipotesi che alcuni degli immigrati algerini di cui Asher Colombo racconta le esperienze,
compaiano anche nelle descrizioni che Navarini e Enzo Colombo fanno degli abitanti della Stazione
Centrale.
Si tratta dunque di due ricerche che muovono da punti di partenza per molti versi simili, sia per
quanto riguarda i metodi, sia per quanto attiene all’oggetto di indagine, sia per quanto concerne il
punto di vista degli autori. Il mio scopo principale era quello di capire se due ricerche partite da
premesse simili si fossero poi sviluppate in maniera altrettanto simile, oppure se nel concreto farsi
della ricerca esse avessero preso strade e forme differenti, dando esito a prodotti di ricerca
differenti.
Nell’esposizione verranno distinte e analizzate separatamente le tre fasi principali della ricerca
etnografica (come di qualsiasi ricerca sociale): raccolta dei dati, interpretazione e scrittura. Il valore
di questa distinzione è da considerarsi principalmente analitico, dal momento che nella pratica della
ricerca le tre fasi si fondono e confondono spesso in un continuo processo di alternanza e reciproco
adattamento.
1
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
2. Raccolta dei dati
2.1. Etnografia di un’economia clandestina
Asher Colombo ci informa sulle modalità utilizzate per la raccolta dei dati principalmente
nell’introduzione al suo libro. È in questo capitolo, posto all’inizio della pubblicazione, che l’autore
mette a conoscenza i lettori dei motivi che lo hanno portato a scegliere questo oggetto di ricerca, di
come ha affrontato il problema dell’accesso al campo, di quali siano state le prime esperienze di
contatto con i nativi – i cosiddetti “racconti dell’arrivo” (Clifford 1997; Marzano 1999) – e degli
aspetti metodologici che egli ritiene più rilevanti del suo lavoro. Inoltre, nell’introduzione, la ricerca
viene inscritta nella biografia dell’autore, viene situata in un tempo e in uno spazio oggettivo e
soggettivo, diventa un tassello di una storia di vita e assume così per il lettore una dimensione
concreta e reale. Il fatto che questo capitolo si trovi all’inizio del libro è fondamentale per orientare
la lettura del testo. La sensazione che il lettore ottiene leggendo l’introduzione è che nel libro non si
parlerà genericamente dell’organizzazione sociale degli immigrati algerini, ma di una ricerca svolta
dal 1992 al 1994 da un sociologo alle prese con la sua tesi di dottorato, interessato al tema della
partecipazione degli immigrati alle economie illecite in un quartiere della sua città.
Devo a un caso l’opportunità di avere conosciuto il mondo degli immigrati algerini di Porta Venezia. Quando
nel 1992 presentavo all’Università di Trento un progetto di ricerca di dottorato sulla partecipazione degli
immigrati alle economie illecite e al mondo della strada… (A. Colombo 1998, p. 7).
Nell’introduzione Colombo parla in prima persona e utilizza tempi verbali al passato, aprendo così
al lettore le porte della sua esperienza personale e al contempo rassicurandolo sull’umanità del
ricercatore e sul fatto che egli “sia davvero stato là”. In questo modo egli conferisce alla sua ricerca
l’autorevolezza data dal being there, che «resta il marchio di qualità e il titolo di merito di ogni
etnografo» (Dal Lago e De Biasi 2002).
La prima questione metodologica di cui l’autore ci parla nell’introduzione è il problema
dell’accesso al campo. Questo aspetto è presentato in una forma narrativa che rende esplicite le
difficoltà e gli ostacoli che egli ha incontrato e i processi che hanno portato al loro superamento. In
questo caso l’evento decisivo è l’incontro con un informatore privilegiato, che aprirà al ricercatore
le porte del campo, rimasto per lungo tempo inaccessibile tramite canali ordinari e istituzionali.
Non disponevo di alcun canale di accesso già avviato alle fonti di informazione che avrebbero dovuto dare
corpo a questo lavoro. […] Cominciavo allora un periodo di ricognizione tra operatori sociali, di strada, leader
formali e informali di comunità (o sedicenti tali) immigrate a Milano, avvocati e altri operatori del sistema
2
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
penale, allo scopo di trovare una via per entrare in questo mondo. Da una ricognizione durata circa quattro
mesi non ottenni molto più che rifiuti e disapprovazioni […]. Questo finché non incontrai, o meglio incontrai
nuovamente, Hocine. (A. Colombo 1998, pp. 7-8).
La figura di Hocine è fondamentale per il lavoro di Colombo quanto Doc lo è stato per W.F. Whyte
in Street Corner Society (1943). Hocine può essere definito un “ex-nativo”. È un immigrato
algerino arrivato in Italia nel 1989 e che nei suoi primi anni di permanenza a Milano ha fatto una
lunga esperienza di vita di strada. Ha guidato l’occupazione, da parte di un gruppo di connazionali,
di un cascina abbandonata nel quartiere di Greco e ha poi promosso azioni politiche volte a dare
visibilità alla sua comunità nella città. In una di queste occasioni Colombo e Hocine si conoscono e
stabiliscono un rapporto di reciproca fiducia. Ma solo dopo tre anni avviene un secondo contatto,
quando l’autore parla a Hocine del suo progetto e ne ottiene «la sua entusiastica adesione». Nel
frattempo però Hocine non fa più parte dell’economia clandestina, essendo diventato un operatore
sociale professionista impiegato presso un centro parasindacale di orientamento e supporto per gli
immigrati. È proprio questa condizione di “ex-nativo”, che fa di Hocine un tramite ideale tra i due
mondi, quello del ricercatore e quello degli attori sociali. Non solo egli ha una conoscenza del
secondo mondo data dalla sua esperienza personale, ma riconosce anche i codici comunicativi del
primo mondo ed è interessato a che esso dia voce al secondo. Così egli non solo funge da
gatekeeper dell’accesso al campo, ma è anche «guida dell’osservazione e dell’interpretazione di un
mondo sociale di difficile accesso e comprensione non solo per ragioni linguistiche, stimolo
costante per la riflessione e la discussione dei risultati» (A. Colombo 1998, p. 17).
Uno dei criteri secondo i quali è possibile distinguere i diversi tipi di osservazione etnografica è,
secondo Atkinson e Hammersley (1994), il numero di persone che sono a conoscenza dell’identità
del ricercatore, ovvero la natura coperta o scoperta dell’osservazione. Nel caso della ricerca di
Colombo l’autore ha optato per un ruolo che egli stesso definisce “pienamente aperto”. Egli viene
presentato agli attori sociali come amico personale di Hocine, interessato a scrivere un libro sulle
condizioni di vita degli algerini di Porta Venezia. Dapprima accompagnato dal suo informatore, poi
emancipandosi da lui, ma facendovi sempre riferimento, l’autore raccoglie le interviste e le
osservazioni su cui si basa il suo lavoro.
Tutte le persone che ho intervistato e con le quali ho conversato e che ho frequentato in questi anni – sia
formalmente che informalmente – erano pienamente a conoscenza dei contenuti e degli obiettivi della mia
ricerca. Per ragioni in parte deontologiche, in parte metodologiche fin dall’inizio ho compiuto la scelta di
operare con un ruolo pienamente “aperto” in cui gli attori sociali coinvolti nella ricerca conoscono […] gli
obiettivi, i metodi di ricerca e in generale dello studio in modo tale da poter valutare, esprimere opinioni, e
anche consigli e/o dissensi verso i quali ho cercato di non essere mai insensibile. (A. Colombo 1998, p. 13).
3
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
La scelta di effettuare un’osservazione scoperta è secondo l’autore fondamentale per impostare fin
dall’inizio un rapporto di fiducia e di conoscenza reciproca tra attori e ricercatore, che è per lui un
elemento imprescindibile in una ricerca etnografica. Una relazione di questo tipo rende la pratica
etnografica un processo fluido, nel quale i due mondi in gioco non sono rigidamente distinti, ma
risultano permeabili in entrambi i sensi. Da un lato gli attori sociali conoscono e riconoscono il
ruolo del ricercatore e sono in grado di contribuire al suo lavoro non solo come oggetti di ricerca,
ma anche come agenti attivi nel processo di interpretazione. Dall’altro il ricercatore abbandona la
pretesa ingenua, avanzata dalle etnografie realiste, di non interferire con il mondo che osserva
(mantenendo il cosiddetto distacco etnografico), ma prende consapevolezza del proprio
coinvolgimento nel mondo studiato, e lo utilizza come «arnese della ricerca» (Ibid., p. 13).
Non si tratta per l’attore sociale di diventare etnografo, né per l’etnografo di diventare nativo,
poiché i due ruoli rimangono distinti. Tuttavia i due mondi possono comunicare, con la reciproca
consapevolezza di esercitare un’influenza l’uno sull’altro.
Per quanto attiene alle questioni più strettamente tecniche inerenti alla fase di raccolta dei dati,
nell’introduzione Colombo esplicita in modo molto dettagliato tutte le sue scelte e i passaggi
operativi compiuti durante lo svolgimento della ricerca. Questo per l’importanza da lui attribuita al
tema della replicabilità.
Nella presentazione dei materiali ho cercato di dare la massima attenzione a un problema spesso trascurato
nella ricerca qualitativa, quello della replicabilità. Ho descritto le circostanze e le modalità della raccolta dei
materiali, ho mostrato i modi con cui sono stati ricostruiti e interpretati gli eventi – collocandoli all’interno dei
loro contesti significativi –, ho cercato di presentare i nessi tra materiali, loro descrizione e interpretazione.
(Ibid., p. 16).
Le tecniche utilizzate dall’autore sono essenzialmente due: l’osservazione partecipante e le
interviste biografiche con immigrati algerini.
La ricerca si è sviluppata in due fasi: nella prima fase, osservazione e interviste sono state
organizzate in modo sistematico e continuativo durante l’arco di circa un anno e mezzo, dal 1992 al
1994, portando alla stesura della tesi di dottorato; nella seconda fase, dal 1995 al 1998, l’autore ha
continuato a frequentare Porta Venezia in modo più sporadico e ha terminato il suo lavoro con la
pubblicazione del libro in oggetto.
La maggior parte delle interviste sono state condotte in italiano, ma alcune anche in arabo, grazie
alla traduzione di Hocine, mentre un numero esiguo di intervistati ha preferito utilizzare il francese.
I luoghi nei quali si sono svolte sia l’osservazione partecipante, sia le interviste, sono stati quelli
4
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
maggiormente frequentati dagli immigrati di Porta Venezia, quindi soprattutto la strada, i bar, le
pensioni, i giardini pubblici, ma anche alcune abitazioni.
Per quanto riguarda le interviste in profondità, esse hanno tutte durata superiore a due ore, fino a
casi di cinque o sette ore. Tale lunghezza è giustificata dal fatto che l’autore desiderasse, più che
approfondire specifici aspetti o ottenere risposta ad alcuni precisi interrogativi di ricerca, ricostruire
le storie di vita e gli orizzonti di significato degli attori, ripercorrendo le traiettorie che li hanno
portati dall’Algeria a Porta Venezia, risalendo spesso fino al racconto di episodi della loro infanzia
o adolescenza.
Tutte le interviste sono state registrate su nastro e successivamente analizzate tramite un software
per l’analisi testuale, che ha permesso «una semplice, ma utilissima, lettura “orizzontale”, per temi e
sottotemi, delle interviste» (Ibid., p. 13).
Per quanto riguarda l’osservazione partecipante e le numerose conversazioni informali avute
dall’autore durante il lavoro di campo, esse sono state quotidianamente registrate su schede
preparate preventivamente e contenenti informazioni standard su tempi, luoghi, attori e contenuti
dell’interazione. Le note di campo sono state registrate tramite un taccuino e un registratore vocale,
per fissare, direttamente sul campo, alcune osservazioni.
Al termine del fieldwork, di tutto il materiale raccolto sui diversi supporti è stato costruito un
sommario generale, organizzato per argomenti e parole chiave.
2.2. Confini dentro la città
Rispetto a quello di Asher Colombo, il libro di Enzo Colombo e Gianmarco Navarini tratta in
maniera differente le questioni metodologiche. In questo secondo libro vengono infatti privilegiati
gli aspetti critici e problematici della metodologia etnografica, piuttosto che rendere conto delle
scelte tecniche effettuate dagli autori.
La maggior parte delle note metodologiche si trovano anche qui in un capitolo a sé stante, posto
però alla fine del volume, e non all’inizio. La scelta è a mio parere indicativa di un orientamento,
che vuole privilegiare la descrizione etnografica rispetto agli aspetti tecnici della ricerca. Tuttavia
alcune indicazioni si possono ottenere sia da questo capitolo metodologico, sia estrapolandole qua e
là nel testo.
La fase di raccolta dei dati sul campo è durata anche in questo caso circa due anni, tra il 1996 e il
1998 e ha utilizzato prevalentemente le tecniche dell’osservazione partecipante, delle interviste in
profondità ai vari frequentatori della Stazione Centrale e, in misura minore, l’analisi documentaria
di fonti giornalistiche.
5
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
Poche indicazioni vengono invece date su come le tecniche etnografiche siano state concretamente
messe in atto dai ricercatori, ovvero sulle procedure e sulle operazioni compiute dagli autori nella
pratica quotidiana della loro attività di campo. Se è possibile ricostruire i passaggi dell’osservazione
partecipante nella lettura del prodotto etnografico stesso, meno si può dire delle interviste. Dove
esse siano state fatte, in quale momento della giornata, quanto siano durate, quanti fossero e come
siano stati scelti gli intervistati, come siano stati analizzati i contenuti delle interviste sono
informazioni che non vengono fornite.
Tuttavia questo capitolo metodologico risulta molto interessante per almeno due aspetti.
Innanzitutto perché spiega i motivi per i quali l’etnografia si presta particolarmente bene allo studio
di un luogo come la Stazione Centrale; in secondo luogo perché espone criticamente alcune
difficoltà che gli autori si sono trovati ad affrontare e le strategie che hanno adottato per superarle.
Per quanto riguarda il primo aspetto, centrale è il concetto di confine. Questa è la categoria in base
alla quale la Stazione Centrale viene analizzata.
Il frame che ha guidato la nostra ricerca etnografica sulla Stazione Centrale si è basato sull’idea di osservare
uno spazio di confine, un luogo che assume caratteristiche proprie rilevanti per la sua particolare funzione di
punto di soglia e di passaggio, contemporaneamente interno ed esterno alla città. (Colombo e Navarini 1999, p.
163).
Sul concetto di confine come categoria interpretativa della Stazione Centrale tornerò nel prossimo
paragrafo. Quello che qui è rilevante notare è che esso porta con sé un altro concetto fondamentale,
che è quello di scarto. Il confine è il luogo dello scarto, inteso nella sua triplice accezione di rifiuto,
di deviazione dalla routine quotidiana e di differenza/diversità.
Dunque la Stazione Centrale è vista dagli autori come il luogo dell’alterità e della differenza, che si
caratterizza per la presenza simultanea di diverse culture, diversi orizzonti di significato, diversi
linguaggi, diversi mondi. In una parola, è il luogo della polisemia. A questo punto si pone un
problema metodologico molto serio per chi si accinge a studiare un contesto come questo: come
studiare la differenza senza ridurla al suo valor medio? Come affrontare la molteplicità semantica
senza rinunciare a ciò che è scarto? Togliendo lo scarto si rinuncia alla polisemia e così facendo si
perde il senso del confine.
Qual è il vantaggio che l’etnografia è in grado di offrire nello studio dei luoghi di confine rispetto
agli altri metodi di ricerca sociale?
Abbiamo scelto di adottare un metodo etnografico non perché pensiamo che sia l’unico metodo che consenta di
osservare e di descrivere in modo appropriato i luoghi di confine, ma perché crediamo che permetta di
aggiungere un importante elemento rispetto ad altri metodi di ricerca sociale: essere lì, scendere sul campo e
6
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
confrontarsi con la diversità, cercare di tradurre in un altro linguaggio ciò che si sente o si osserva. Questi sono
elementi caratteristici della ricerca etnografica e introducono l’esperienza del confine nel farsi stesso della
ricerca e nel vissuto dei ricercatori. (Ibid., p. 164).
Torna in questo passaggio il being there, l’essere là, per fare esperienza del mondo che si vuole
descrivere. L’etnografia viene scelta perché permette di entrare in contatto con i processi di
continua creazione ed erosione dei confini, di assistere in prima persona alla costruzione e alla
negoziazione di significati. Questo tipo di ricerca sociale diventa così una pratica al confine tra lo
studio dei gruppi e degli spazi quotidiani e che ne descrive la relazione, una pratica che ha in sé il
fascino del viaggio, dell’esplorazione e del contatto con l’alterità.
Tuttavia se essere là può essere una condizione importante per fare esperienza della molteplicità,
questo non basta a garantire che la polisemia venga poi restituita in modo soddisfacente nel
prodotto etnografico. Anzi, nella storia della ricerca sociale, gli etnografi hanno sempre privilegiato
lo studio della realtà in termini olistici, presupponendo cioè che ciò che stessero studiando fosse un
tutto coerente (ad esempio una cultura, un’organizzazione, una comunità). Ecco il primo problema
metodologico. Sembra che l’etnografia, sebbene possa godere di una posizione privilegiata per
l’osservazione della realtà “là dove essa si crea”, sia più adatta (o più abituata) ad occuparsi di realtà
caratterizzate da omogeneità.
Lo spazio frammentato della Stazione Centrale, sul quale gravitano popolazioni eterogenee, non
può essere ricondotto ad una unità senza perderne il senso. Una descrizione univoca non sarebbe
possibile, dal momento che ogni attore in gioco darebbe una propria descrizione irriducibilmente
diversa da quella degli altri attori. Le prospettive adeguate allo studio dei luoghi liminali non sono
né la spiegazione causale, né l’onnipotenza interpretativa (Van Maanen 1988), quanto piuttosto la
thick description (Geertz 1973) e la polifonia. Se è la pluralità di significati che si vuole cogliere, è
una pluralità di voci che bisogna ascoltare.
La seconda difficoltà incontrata dagli etnografi della Stazione Centrale riguarda il ruolo dei
ricercatori sul campo. Un altro motivo per cui l’etnografia sembra più adatta allo studio di realtà
“chiuse” è perché la presenza simultanea e il continuo fluire di una pluralità di gruppi implica dei
problemi di identificazione per i ricercatori.
In questi spazi, la molteplicità delle presenze e delle appartenenze rende problematico per l’etnografo entrare in
contatto con gli abitanti perché stabilire un rapporto con uno di loro significa, agli occhi di altri, prendere una
posizione, situarsi, etichettare ed essere etichettati in modo particolare. […] è impossibile per l’etnografo
avvicinarsi a una particolare tribù senza tradire le altre. (Colombo e Navarini 1999, p. 167).
7
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
Dal momento che è impossibile osservare senza essere osservati, la partecipazione alle dinamiche di
un gruppo sociale è spesso vista dagli altri come un’alleanza, che rischia di chiudere le porte di
acceso agli altri gruppi. Per risolvere questo problema, due strategie sono possibili. La prima è
quella di intraprendere ricerche collettive, nelle quali i vari ricercatori si occupino in modo
esclusivo di un singolo gruppo. La seconda è quella seguita da Colombo e Navarini, e consiste nel
rivendicare la propria autonomia di osservatori, costituendo, in qualche modo, una nuova tribù,
quella dei ricercatori. Questa strategia presuppone l’esplicitazione dei propri obiettivi e
naturalmente la scelta di un’osservazione scoperta. Si tratta di una soluzione che ha lo svantaggio di
limitare le possibilità di accesso a molte delle dinamiche di retroscena che gli attori riservano ai soli
membri, ma che ha il vantaggio di rendere più facili i meccanismi relazionali all’interno del campo.
Seguendo questa strategia i ricercatori non diventano membri di una tribù esistente, ma mantengono
la possibilità di diventare nativi di un luogo, legittimati a partecipare, con la propria tribù, alla vita
di quel luogo.
Naturalmente diventare nativi di un luogo significa anche essere coscienti delle modifiche che si
introducono nel campo e, per quanto possibile, cercare di renderle esplicite. Inoltre, nel rivendicare
la propria autonomia, non si può ignorare il fatto che questa autonomia non sarà mai totale. Il
ricercatore, come ogni attore sociale, porta con sé il suo bagaglio di credenze, norme, valori,
pregiudizi, teorie, che qualunque esercizio di desoggettivazione non potrà mai neutralizzare del
tutto. Allo stesso modo, come gli stessi autori riconoscono, non si può ignorare il fatto che l’accesso
al campo sia passato attraverso una porta ben precisa (nel caso di Colombo e Navarini quella delle
associazioni di volontariato), e che i collegamenti con i gatekeeper non possono essere considerati
neutri.
3. Interpretazione
3.1. Etnografia di un’economia clandestina
Delle tre fasi del lavoro di ricerca, l’interpretazione è senza dubbio quella di più difficile
individuazione. Spesso infatti i processi interpretativi non sono esplicitati al pari delle scelte
metodologiche, né sono disponibili al lettore come gli stili di scrittura. Inoltre il processo
interpretativo permea tutte le fasi della ricerca e non può essere dunque isolato in una fase ben
definita. Vi sono interpretazioni pre-esistenti alla ricerca, che influenzano la scelta dell’oggetto, vi
sono interpretazioni che emergono durante la raccolta dei dati, che influenzano le domande di
ricerca e le scelte metodologiche successive, vi sono le interpretazioni effettuate alla fine della
8
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
raccolta dei dati, una volta che il materiale è completo, e vi sono poi le interpretazioni che giungono
durante il processo di scrittura, che modificano le precedenti in base a esigenze narrative, oppure al
contatto dell’autore con altri soggetti del mondo accademico.
Per quanto riguarda l’etnografia di Asher Colombo, uno dei passaggi del testo in cui si può trovare
traccia delle dinamiche interpretative è ancora nell’introduzione, quando l’autore afferma:
Si tratta quindi di un lavoro a carattere esplorativo, descrittivo e interpretativo il cui scopo è quello di fornire
una ricostruzione di un sistema di azione, di presentare tale sistema d’azione come una delle soluzioni possibili
a una costellazione circoscritta di problemi e infine di fornire un’interpretazione di tale soluzione. (A. Colombo
1998, p. 9).
Sono dunque tre gli obiettivi che l’autore si pone in modo esplicito: esplorare, descrivere e
interpretare. Esplorare significa andare sul campo e usare i propri sensi per fare esperienza della
realtà, descrivere significa tornare nel proprio studio e tradurre questa esperienza sensoriale in
parole e interpretare significa attribuire alla realtà osservata dei significati, siano essi quelli
esplicitamente assegnati dagli attori o quelli ricostruiti dal ricercatore tramite il collegamento a
costrutti teorici.
Secondo Colombo, un sistema di azioni è una delle possibili risposte a dei problemi specifici, e le
dimensioni rilevanti nel definire questi problemi specifici sono, nel caso degli immigrati algerini, i
progetti migratori, le opportunità di partenza e le condizioni di arrivo.
Gli interrogativi di ricerca che Colombo si pone sono tre:
1) Che significato hanno i comportamenti trasgressivi degli immigrati? Si configurano come
una reazione all’esclusione e all’emarginazione esperite in Italia o come azioni acquisitive
volte a raggiungere più rapidamente l’accesso alla società dei consumi, in risposta a bisogni
formatisi già nella società d’origine?
2) Quali sono i ruoli giocati dalla società di partenza e dalla società di arrivo nel definire i
vincoli e le opportunità che danno forma all’orizzonte quotidiano degli attori?
3) Una volta insediati in Italia, come si sviluppano e mutano le attività, le relazioni sociali e i
valori degli attori?
Per rispondere a queste domande, l’autore adotta un frame interpretativo che vede il comportamento
deviante come l’esito di componenti individuali (progetti migratori e azione individuale) e di
componenti strutturali (possibilità e vincoli dati dalle società di origine e destinazione, reazione
sociale alla devianza, immagine socialmente diffusa degli immigrati nel paese di approdo).
Particolarmente interessanti sono le implicazioni che l’applicazione di questo modello interpretativo
ha sul ruolo del ricercatore:
9
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
[…] tale studio richiede l’adozione di una prospettiva rivalutativa, in grado cioè di comprendere dall’interno il
funzionamento di un sistema, e di capire le ragioni per cui i membri vi dedichino energie e vi rivolgano
aspettative nonostante l’indubbia presenza di lati negativi, poco apprezzabili o esplicitamente disapprovati
soprattutto agli occhi di un outsider […] . (Ibid. p. 14).
Il concetto di “prospettiva rivalutativa” è qui mutuato dal celebre volume di David Matza Come si
diventa devianti (1969), nel quale egli distingue due possibili punti di vista per approcciare il tema
della devianza: quello correzionale e quello rivalutativo. Il primo, studiando la devianza con
l’intento di liberarsene, difetta in empatia e non risulta quindi in grado di comprendere in profondità
l’oggetto della ricerca. Il secondo invece riesce a penetrare nella trama dei significati attribuiti dagli
attori alle loro pratiche e ne comprende, empaticamente, il senso.
Rivalutazione tuttavia non significa per Colombo adesione, accettazione o consenso alle attività
condotte dagli attori, ma più semplicemente il tentativo «di prendere sul serio le ragioni e i
resoconti forniti da coloro che abitano il mondo dell’economia clandestina, e di capire – per dirla un
po’ brutalmente – che cosa ci fosse di bello in ciò che facevano» (A. Colombo 1998, p. 14).
Una volta esplicitata questa cornice interpretativa l’autore, nel primo capitolo, fornisce una rassegna
delle ricerche condotte con orientamento comprendente e con metodologie etnografiche sul tema
della relazione tra immigrazione e criminalità: una vasta letteratura che egli stesso definisce
indispensabile per illustrare i passaggi delle proprie argomentazioni ed interpretazioni.
In conclusione si può dire che l’impianto argomentativo di Colombo sia forte ed esplicitato fin
dall’inizio del suo libro e che l’autore non perda mai di vista il fatto che le circostanze e le modalità
della raccolta dei dati sono legate a filo doppio con i processi di ricostruzione e di interpretazione
degli eventi. Come detto, egli attribuisce grande valore al tema della replicabilità, cosa che lo spinge
a esplicitare, per quanto possibile, i nessi tra materiali, descrizione e interpretazione. Quello che
nasce non è «un libro sull’immigrazione algerina, né sulla condizione giovanile degli algerini. È
bene chiarire che il libro è una ricerca fatta tra gli algerini, in qualche caso con essi, ma mai su di
essi» (Ibid., p.10).
3.2. Confini dentro la città
In questo libro la prospettiva che abbiamo assunto per descrivere alcuni tratti della società metropolitana è il
confine. La città è vista come un territorio in cui i confini periferici tendono ad allargarsi e a estendersi, ma
dove anche vengono a riprodursi zone interne incerte, poco conosciute e scarsamente controllabili. A questi
spazi sociali interstiziali abbiamo dato il nome di luoghi di confine, spazi di frontiera interni alla metropoli.
(Colombo e Navarini 1999, p. 7).
10
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
Nel caso dell’etnografia della Stazione Centrale, la chiave interpretativa, più che essere affidata a un
costrutto teorico o a un modello di azione, come nel caso della ricerca di Asher Colombo, è
rappresentata da un singolo pilastro concettuale, attorno al quale se ne sviluppano, durante la
narrazione, altri di importanza minore. Questo pilastro concettuale è il concetto di confine.
I primi due capitoli del libro sono interamente dedicati alla trattazione del tema del confine
all’interno della «società planetaria» e delle «città postmoderne». La contemporanea erosione e la
creazione di confini sempre nuovi è un tratto caratteristico della contemporaneità, secondo gli
autori, che trovano nella Stazione Centrale di Milano un luogo paradigmatico di questa tendenza
postmoderna.
Dal punto di vista teorico, gli autori si pongono nel solco tracciato dai sociologi della scuola di
Chicago prima e dagli antropologi interpretativi poi:
Il punto di vista che abbiamo adottato appartiene alla ricca tradizione di studi di antropologia urbana, di cui
abbiamo utilizzato prospettive analitiche, riferimenti teorici e tecniche osservative tratte dalla tradizionale
Scuola di Chicago e dai più recenti sviluppi dell’antropologia interpretativa. (Ibid., p. 7).
Il primo dei due debiti teorici è evidente nella ricostruzione dettagliata e rigorosa dei processi di
produzione sociale dello spazio nella Stazione Centrale. Il secondo nell’attenzione prestata nel testo
alle pratiche e alle relazioni sociali che avvengono sul campo, e delle quali vengono messi in luce
gli aspetti simbolici e rituali, centrali nella definizione dell’identità e nell’elaborazione di strategie e
modelli di utilizzo del territorio.
Accanto al concetto di confine, durante la narrazione ne emergono altri ad esso correlati, come
quello di liminalità, di discontinuità identitaria, di scarto, di principio idraulico, interstiziale o di
richiamo e molti altri.
Tutti questi concetti vengono messi al servizio dello scopo della ricerca che, come nella migliore
tradizione etnografica, è «rendere esotico ciò che è familiare e rendere familiare ciò che esotico».
Ovvero, da un lato concentrare l’attenzione su tutti quegli aspetti dati per scontati nell’esperienza
quotidiana degli utilizzatori della Stazione Centrale, separarli da quell’orizzonte irriflesso e
indistinto che è la conoscenza di senso comune, negarne lo statuto “naturale” per metterne e nudo
gli elementi di costruzione sociale. E dall’altra, fare entrare il lettore in tutti quei mondi esotici che
attorno alla stazione gravitano, ma che pochissimi conoscono, tuttalpiù temono.
Ciò che viene detto e fatto da tutti gli attori sul campo viene interpretato quindi sempre alla luce
della categoria di confine, come luogo della co-presenza e della concorrenza di più gruppi, più
culture, più voci. E proprio questa polisemia intrinseca nel confine sembra portare un problema
11
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
metodologico di grande portata. La critica postmoderna mette in crisi l’onnipotenza interpretativa
dell’etnografo, il quale dovrebbe essere in grado di incorporare nella sua narrazione altre voci, altre
interpretazioni, altre descrizioni raccolte sul campo, poiché esse godono di altrettanta autorevolezza
rispetto alla sua.
Tuttavia, se è illusorio pensare che si possa giungere da parte dell’etnografo ad una descrizione di
un mondo sociale univoca, definitiva e valida perché segnata dai crismi della scientificità, è
altrettanto illusorio ritenere che la polifonia possa essere considerata come la giustapposizione di
innumerevoli interpretazioni tutte ugualmente valide. Colombo e Navarini ne sono perfettamente
consapevoli, e pur tenendo in considerazione la critica postmoderna (cercando di dare voce e spazio
a tutti i diversi orizzonti di significato), non rinunciano a fornire una loro interpretazione,
inevitabilmente collocata in una posizione di preminenza, rinforzata da strategie retoriche che
servono a conferirle autorevolezza, cercando però di esplicitare sempre la prospettiva da cui questa
interpretazione scaturisce.
4. Scrittura
La scrittura di un testo è una componente costitutiva della ricerca sociale. Attraverso la scrittura la
ricerca sociale prende corpo, assume concretezza, acquisisce quel carattere di intersoggettività che è
requisito primario di ogni produzione scientifica. Si potrebbe dire che la ricerca sociale è scritta, o
non è.
Tuttavia la fase della scrittura è stata solo recentemente oggetto di problematizzazione. Per lungo
tempo si è privilegiata la discussione critica della fase di raccolta dei dati e della fase di
interpretazione, ponendo lo sguardo nel primo caso sugli aspetti metodologici, nel secondo caso su
quelli teoretici. La scrittura era allora considerata meramente un mezzo di comunicazione, uno
strumento tecnico, neutrale, aproblematico. Si deve soprattutto alla critica postmoderna la messa a
tema della scrittura come momento fondamentale nella pratica della ricerca perché ricco di criticità,
dilemmi, scelte, e come tale gravido di conseguenze per la produzione di un discorso.
La svolta epistemologica degli ultimi decenni ha evidenziato che i modi in cui si «traduce» in testo ciò che si è
visto o si è pensato non possano essere considerati semplici automatismi, atti trasparenti e meccanici, perché
comportano un intervento attivo di interpretazione e di selezione. Il tema della riflessività ha messo in luce che
i contenuti di una narrazione non sono indipendenti dai modi della sua produzione. (E. Colombo 1998, p. 245).
12
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
Il linguaggio non è solo uno strumento di comunicazione della realtà, ma diventa un mezzo di
costruzione del mondo e del pensiero. Accogliendo la tipologia fornita da Enzo Colombo, si
possono identificare tre tipi di narrazione nella ricerca sociale, soprattutto di stampo etnografico: la
narrazione realista, quella processuale e quella riflessiva (Ibid., p. 248).
Utilizzando questa tipologia è possibile analizzare le due etnografie in oggetto.
4.1. Etnografia di un’economia clandestina
Una prima osservazione di carattere stilistico riguarda la struttura del libro. L’autore sceglie di
riservare le osservazioni di carattere metodologico all’introduzione del volume. Il primo capitolo è
poi dedicato ad una discussione di ricerche comprendenti sull’agire trasgressivo delle minoranze e a
una prima delineazione delle caratteristiche della società di esodo. I capitoli dal secondo al settimo
sono quelli più specificamente etnografici, nei quali si trattano temi come la ricostruzione degli
stadi che portano alla partecipazione ai mercati dell’illecito, la cornice di relazioni e valori della
comunità, la partecipazione al mercato del lavoro legittimo, l’impatto con le istituzioni dei sistemi
di controllo sociale formale e penale. Alla fine del libro è presente un capitolo dedicato alle
conclusioni, nel quale si riprendono gli interrogativi di ricerca e si presentano in sintesi le risposte
trovate.
Questo schema è piuttosto tipico non solo delle etnografie realiste, ma, in generale, di qualunque
prodotto accademico. Si tratta di una struttura che parte da alcune domande di ricerca, passa dalla
discussione delle scelte metodologiche, fornisce una carrellata dello stato dell’arte del discorso
scientifico sull’argomento, comunica nel cuore del libro i risultati della ricerca (sia in termini
descrittivi che interpretativi) e infine riassume l’intero percorso seguito mettendone in evidenza la
coerenza interna e la correttezza dei passaggi logici.
Dal punto di vista retorico, è interessante segnalare alcune scelte stilistiche dell’autore.
L’uso della prima persona è limitato all’introduzione, quando l’autore contestualizza la sua ricerca
all’interno della sua esperienza biografica, giustifica le sue scelte metodologiche, argomenta i suoi
presupposti teorici, insomma, parla di sé. Nel prosieguo del libro tuttavia, è la terza persona ad
essere usata per la narrazione etnografica. Questa scelta retorica è universalmente accettata come lo
standard della produzione scientifica e serve a conferire oggettività alle asserzioni. L’osservazione
concreta di una o più situazioni da parte dell’etnografo viene astratta e trasformata in un enunciato
di validità generale. Per esempio il secondo capitolo di Colombo (il primo di carattere etnografico)
si apre così: «Di una cosa sono certi i giovani immigrati di Porta Venezia: l’Algeria non è un paese
povero […]». Il ruolo del ricercatore viene volutamente minimizzato nella narrazione, e viene
privilegiato uno sguardo defilato, from nowhere.
13
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
Un’altra scelta retorica che Colombo effettua nel suo testo è l’uso del presente etnografico.
Anch’esso è di gran lunga il tempo verbale più usato nelle etnografie e assume la stessa funzione
della terza persona: cristallizza degli eventi, spazialmente e temporalmente situati, in realtà senza
spazio e tempo. Il tempo presente appiattisce le diversità, riduce la complessità e tende a reificare
l’oggetto di studio.
Un’importante caratteristica stilistica, che come vedremo distingue le due etnografie presentate, è la
scelta di introdurre, all’interno della narrazione etnografica, lunghi brani di interviste con i
protagonisti della ricerca.
I brani delle interviste riportati hanno lo scopo di illustrare le argomentazioni e le ricostruzioni presentate. Ma
naturalmente fanno molto di più. Essi contengono più di quanto viene fatto loro dire, e parlano con
l’immediatezza dell’esperienza vissuta. (A. Colombo 1998, p. 15).
L’artificio retorico della citazione è utilissimo per almeno tre ordini di ragioni. In primo luogo esso
serve a «illustrare le argomentazioni», conferendo plausibilità e verosimiglianza all’interpretazione
dell’etnografo. Egli si avvale di brani di intervista per dimostrare al lettore che le sue asserzioni
derivano direttamente dalla voce dei nativi. In secondo luogo citare un discorso diretto serve a
evocare un’esperienza vissuta, apre al lettore le porte del mondo indagato, mette in comunicazione
gli attori sociali con il pubblico dei lettori e aiuta a creare nel lettore una familiarità con i nativi che
a fine libro sarà completa. Infine citare dei dialoghi avvenuti sul campo serve all’etnografo per dare
testimonianza tangibile di “essere stato là”, con il vantaggio in termini di autorevolezza che questo
comporta.
Colombo lascia molto spazio alla voce dei nativi, alternando lunghi brani di intervista alle sue
interpretazioni, in una dialettica ove non sempre sono le seconde a prevalere sui primi. In alcuni
capitoli infatti sono le interviste ad assumere un ruolo predominante, quasi che l’autore volesse
lasciare al lettore la possibilità di formarsi una propria interpretazione dei fatti direttamente dalle
parole dei nativi, prima di fornire la sua versione.
Nei brani di intervista viene anche recuperata quella soggettività che l’autore tende ad escludere
dalla narrazione in terza persona presente. In primo luogo viene recuperata la soggettività degli
attori sociali, che si presentano nella singolarità delle proprie esperienze di vita, delle proprie
opinioni, del proprio linguaggio. Questo recupero della soggettività è reso evidente anche dall’uso
di pseudonimi per identificare gli intervistati, scelta questa che da un lato garantisce loro
l’anonimità, ma dall’altro attribuisce loro un’identità che permette al lettore di farsi un’idea dei vari
personaggi della narrazione. In secondo luogo viene recuperata anche la soggettività dell’autore.
14
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
Nel citare stralci di intervista, a volte il nome dell’autore compare tra gli interlocutori, facendo
emergere la concreta relazione comunicativa instauratasi tra attori e ricercatore.
Houari: Domenica scorsa ho preso 500 mila lire, e oggi non ho più una lira!
Asher: Come? Domenica era…, l’altro ieri, oggi è martedì! In due giorni hai fatto fuori 500 mila lire!?
Houari: Sì. Allora, adesso ti spiego: avevo un debito di 100 mila con uno. Io abito in casa. Normalmente non
dovrei spendere tanto. Ma ieri 200 mila lire sono andate al bar. Mi sono ubriacato. Beh, ho fatto anche un po’
di spesa… (A. Colombo 1998, p. 181).
Un ultimo aspetto stilistico che vale la pena di sottolineare è il fatto che l’autore riporta, nel corso
della narrazione, alcuni brani tratti dai suoi appunti di campo. Questa scelta, seppur limitata ad
alcuni capitoli e minoritaria rispetto all’uso estensivo delle interviste, rappresenta una soluzione per
nulla consolidata nella tradizione etnografica e senza dubbio allontana questo testo dalle narrazioni
realiste per avvicinarlo a quelle riflessive. Nel quinto capitolo, per esempio, Colombo racconta un
episodio in cui un immigrato algerino, impegnato in un’attività illecita, rifiuta un lavoro
apparentemente regolare offertogli da un suo conoscente. In seguito a questo rifiuto, il giovane
algerino deve giustificare razionalmente il suo rifiuto agli occhi del ricercatore. L’autore scrive,
citando dalle sue note di campo:
Appena uscito Yahia mi guarda con aria sconsolata, scuote la testa e mi dice che quel giovane non è affidabile,
che la sua proposta non era credibile, che avrebbe solo perso del tempo. Racconta di conoscerlo da tempo, che
è un tossicomane – cosa che a me non era sembrata – e che quindi non può essere preso sul serio, e inoltre
potrebbe essere anche pericoloso frequentarlo «…perché io conosco già quella malattia e so cosa provoca…».
Anche con me potrebbe perdere la faccia. (A. Colombo 1998, p. 158).
Quello che è interessante nell’uso di questo tipo di materiale è che le riflessioni dell’autore vengono
riportate così come esse sono state annotate, e, soprattutto, che la relazione tra ricercatore e attore è
resa esplicita. Non solo l’episodio viene riportato nella sua dimensione di evento situato nel tempo e
nello spazio, ma esso viene anche lasciato nella sua cornice relazionale specifica, senza ricorrere ad
artifici retorici generalizzanti.
4.2. Confini dentro la città
Il libro di Enzo Colombo e Gianmarco Navarini segue una struttura piuttosto simile a quello di
Asher Colombo. In una breve premessa vengono comunicati gli obiettivi della ricerca, viene
definito il confine come categoria interpretativa predominante e viene comunicata al lettore la
struttura del libro. Seguono poi due capitoli teorici, nei quali si affronta il tema del confine
all’interno del contesto globale e locale. Il terzo capitolo è dedicato ad un’analisi morfologica della
15
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
Stazione Centrale, che viene descritta nelle sue parti componenti, in un modo che presenta analogie
con le descrizioni che i sociologi della Scuola di Chicago hanno lasciato delle aree naturali
metropolitane. I capitoli dal quarto al decimo rappresentano il cuore della narrazione etnografica e
sono dedicati ognuno ad una delle possibili azioni che hanno come teatro la Stazione Centrale:
affacciarsi, transitare, stazionare, comprare, controllare, aiutare, andare oltre. Infine il capitolo
undicesimo è dedicato ad una trattazione critica di alcuni problemi metodologici emersi nella
ricerca. La differenza tra le strutture dei due libri sta essenzialmente nella la posizione del capitolo
metodologico, che in questo secondo caso è posto al termine del volume ed ha la funzione di
lanciare alcuni spunti di riflessione per la comunità scientifica, piuttosto che giustificare in modo
puntuale le scelte metodologiche degli autori.
Anche in questo testo la narrazione si avvale della terza persona e di verbi al tempo presente.
Tuttavia questa modalità espressiva non è esclusiva, e convive con altri tipi di scelte retoriche.
Nel quarto capitolo, per esempio, si afferma:
Frequentiamo la zona della Stazione da più di due anni. In questo periodo, abbiamo avuto modo di essere
testimoni di differenti eventi: da gesti di solidarietà e di profonda amicizia a situazioni di grande miseria, di
violenza e di sofferenza. Non ci siamo mai trovati in situazioni di pericolo e non abbiamo mai avuto la
sensazione di essere direttamente minacciati. Abbiamo acquisito una certa capacità di comprendere luoghi e
situazioni e alcuni visi ci sono familiari. Nonostante questo, mentre attraversiamo la piazza e passiamo accanto
ad alcuni gruppi di giovani tossicodipendenti o di stranieri ci tornano alla mente i titoli quasi quotidianamente
letti sui giornali: […].
Questo ci crea un certo malaise. (Colombo e Navarini 1999, p. 66-67).
Questo ed altri esempi lungo il testo, danno la misura di come la narrazione etnografica di Colombo
e Navarini non sia riconducibile esclusivamente allo stile realista, ma faccia uso anche di elementi
riconducibili alla narrazione riflessiva, in una compresenza che risulta essere molto efficace.
Un’altra scelta di scrittura che va in questa direzione è l’utilizzo, che già abbiamo visto abbozzato
nel testo di Asher Colombo, di brani tratti dalle note di campo, nei quale emerge con molta
chiarezza l’atteggiamento assunto dai ricercatori nella relazione con il campo. L’etnografo appare
come uno straniero, che osserva un mondo per lui completamente nuovo, cercando di trovare
significati a pratiche non immediatamente comprensibili. È forte il senso di estraniazione e di
spaesamento cui i ricercatori si sottopongono per guardare «da una prospettiva non scontata» (Dal
Lago e De Biasi 2002) una realtà tanto familiare come la stazione della propria città.
Ci fermiamo a osservare quello che succede nella piazza. Sul lato destro – il lato ovest – nei pressi di un
piccolo chiosco che vende bibite e panini, una ventina di giovani discute e beve birra. C’è anche qualche
ragazza. Qualcuno di loro è ben vestito, altri hanno degli abiti logori e sporchi; un ragazzo di circa trent’anni si
16
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
alza la manica sinistra della camicia e si infila una siringa nel braccio. A circa dieci metri da lui, seduti su una
panchina, una donna e un uomo di mezza età, probabilmente sudamericani, guardano il giovane e discutono tra
loro. (Colombo e Navarini 1999, p. 65).
Un altro interessante strumento retorico utilizzato in questo libro, seppur in un’unica occasione, è la
finzione narrativa. Nel quinto capitolo, intitolato “Transitare”, si parla della popolazione che
utilizza la stazione solo come luogo di passaggio, una mera cornice alla propria attività di
spostamento, un non-luogo (Augé 1992), uno spazio fisico e non sociale, nel quale gli attori attuano
sistematicamente delle strategie percettive volte a selezionare ciò che è utile e a scartare ciò che
ostacola il proprio fine, cioè transitare. In questo caso, il punto di vista del viaggiatore non è
esplicitato tramite brani di interviste in cui si riporta la “vera voce” di un “vero viaggiatore”, ma è
ricostruito attraverso un piccolo racconto che descrive, dal punto di vista di un immaginario
pendolare, un homo currens, il suo tragitto dalla metropolitana alla carrozza del treno in partenza.
Due minuti in ritardo sulla tabella. Mi tocca correre di nuovo. Permesso, scusi. Perché sulle scale mobili stanno
sempre tutti in mezzo? E sì che hanno messo anche i cartelli. Uomini lenti a destra, via libera a sinistra. E
questi sportelli? Signora, mi scusi, ma mi rimbalzano sempre addosso. Via libera. Quasi. Che fanno quelli?
Giocano a carte a quest’ora? Hei, cos’hai da guardare? Magari un’altra volta. […] (Colombo e Navarini 1999,
p. 73).
Per quanto riguarda le interviste riportate, invece, esse sono sempre stralci molto brevi, che servono
come rinforzo alle argomentazioni degli autori, più che come strumento retorico in grado di evocare
il mondo degli attori o di familiarizzare il lettore con gli abitanti della stazione. I brani riportati
infatti sono troppo brevi per poter costruire anche sommariamente dei “personaggi” nella
narrazione. Inoltre nei brani citati non è mai presente la voce dei ricercatori, risulta così impossibile
ricostruire il contesto comunicativo al quale quelle frasi appartenevano e i giochi relazionali
instaurati tra ricercatori e attori.
5. Conclusioni
L’etnografia è un metodo di ricerca sociale aperto e flessibile (Marzano 1999). Sono poche e molto
generiche le caratteristiche comuni a tutti i lavori degli etnografi, ed è propria la varietà la ricchezza
di questo approccio: «L’etnografia è come l’oceano. Tutto quello che vi serve è una rete, una rete
qualsiasi; e allora se vi mettete per mare e gettate la vostra rete, state pur certi che qualche pesce lo
prendete.» (Marcel Mauss, cit. in Marzano 1999).
17
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
La comparazione tra due testi etnografici mette in luce che, pur partendo da premesse simili, due
etnografie possono svilupparsi in modi diversi, in base alle scelte concrete che i ricercatori
effettuano nelle tre fasi fondamentali della ricerca, ovvero raccolta dei dati, interpretazione e
scrittura.
Partendo da punti di vista e interrogativi simili, le due ricerche analizzate si sviluppano in modi
differenti, dando vita a due testi che presentano analogie e peculiarità: più strutturato dal punto di
vista logico e metodologico il primo, più creativo e riflessivo il secondo.
Entrambi i testi però raggiungono con successo gli obiettivi propri di ogni etnografia, ovvero
guardare la realtà da una prospettiva non scontata, trattare ciò che è familiare come esotico e ciò che
è esotico come familiare, ricostruire i significati sottesi a pratiche e rappresentazioni degli attori,
dare voce ai nativi, e, in definitiva, evocare un mondo con l’immediatezza propria dell’“essere stati
là”.
Bibliografia
ATKINSON, P., HAMMERSLEY, M. (1994), Ethnography and Participant Observation, in
Denzin e Lincoln (1994).
AUGÈ, M. (1992), Non-lieux, Seuil, Paris; trad. it. Nonluoghi, Elèuthera, Milano, 1993.
CARDANO, M. (2001), Etnografia e riflessività. Le pratiche riflessive costrette nei binari del
discorso scientifico, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, XLII, 2, aprile-giugno.
CLIFFORD, J. (1997), Sull’allegoria etnografica, in Clifford e Marcus (1997).
CLIFFORD, J., MARCUS, G.E. (a cura di) (1986), Writing Culture: The Poetics and Politics in
Ethnography, University of California Press, Berkeley; trad. it. Scrivere le culture. Poetiche
e politiche in etnografia, Meltemi, Roma, 1997.
COLOMBO, A. (1998), Etnografia di un’economia clandestina. Immigrati algerini a Milano. Il
Mulino, Bologna.
COLOMBO, E. (1998), De-scrivere il sociale. Stili di scrittura e ricerca empirica, in Melucci
(1998).
COLOMBO, E. (2001), Etnografia dei mondi contemporanei. Limiti e potenzialità del metodo
etnografico nell’analisi della complessità, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, XLII, 2,
aprile-giugno.
COLOMBO, E., NAVARINI, G. (1999), Confini dentro la città. Antropologia della Stazione
Centrale di Milano, Guerini, Milano.
18
Pietro Palvarini – Dottorato URBEUR – a.a. 2005/06
DAL LAGO, A., DE BIASI, R. (a cura di) (2002), Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia
sociale, Laterza, Roma-Bari.
DENZIN, N.K., LINCOLN, Y.S. (1994), Handbook of Qualitative Research, Sage, Newbury Park
(CA).
GERTZ, C. (1973), The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York; trad. it. Interpretazione
di culture, Il Mulino, Bologna, 1988.
MARZANO, M. (1999), Decostruire l’etnografia? Tra limiti della tradizione e rischi della
sperimentazione, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, XL, 4, ottobre-dicembre.
MARZANO, M. (2001), L’etnografo allo specchio: racconti dal campo e forme di riflessività, in
“Rassegna Italiana di Sociologia”, XLII, 2, aprile-giugno.
MATZA, D. (1969), Becoming Deviant, Prentice Hall, Englewood Cliffs (NJ); trad. it. Come si
diventa devianti, Il Mulino, Bologna, 1976.
MELUCCI, A. (1998), Verso una sociologia riflessiva. Ricerca qualitativa e cultura, Il Mulino,
Bologna.
NAVARINI, G. (2001), Etnografia dei confini: dilemma clinico e polisemia, in “Rassegna Italiana
di Sociologia”, XLII, 2, aprile-giugno.
VAN MAANEN, J. (1988), Tales of the Field. On Writing Ethnography, University of Chicago
Press, Chicago.
WHYTE, W.F. (1943), Street Corner Society, University of Chicago Press, Chicago; trad. it. Little
Italy: uno slum italo americano, Laterza, Bari, 1968.
19
Scarica