riccardo latteri dai sex pistols ai clash arti-teraPie arte h

IL volto solidale di
arte h
focus
street art
intervista a
riccardo latteri
punk rock
dai sex pistols
ai clash
l'arte promotrice di benessere
arti-terapie
arti-teraPie
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Numero #5
Bimestrale - Agosto 2015
MAGAZINE TEAM
Direttore Responsabile: Massa Federico
Art Director: Alex Perucci
Capo Redazione: Giovanna Di Martino
Redattori: Claudia Marini,
Edoardo Massa, Elvio Degli Agli,
Emanuela Piacente, Sara Petrucciani,
Simona Lo Piccolo
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C
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ari lettori eccomi di nuovo qui in questo spazio, un intimo dialogo tra me e voi, per
raccontarvi ancora una volta della genesi del tema del nostro quinto numero. Se nel numero
precedente, dedicato ai pirati, l’editoriale sì aprì con i ricordi d’infanzia legati alle letture
scolastiche della scuola primaria, questo quinto numero è ispirato al lavoro finale portato agli
esami di maturità. E così il cerchio si chiude. Poi c’è l’università… ma è un’altra storia, un’altra
bella storia d’amore con l’arte e la cultura che non mancherà di infiltrarsi qua e là nei prossimi
editoriali. La tesina in questione gravitava intorno al tema degli intellettuali e del loro rapporto
con il potere. Ho amato così tanto questo argomento che ho deciso di farlo sorbire a tutti i
malcapitati che incontro (voi compresi). Tuttavia, giusto per alleggerire il tutto, ho dato un nome
al tema che ispira ancor più “leggerezza”: l’arte come impegno civile e sociale. Che cosa voglio
intendere con questa espressione? Che l’arte non è qualcosa di elitario, di sostanzialmente
estraneo alla nostra vita quotidiana, fatta di cose più concrete, di problemi di sopravvivenza
materiale e di bisogni primari da soddisfare, in altre parole qualcosa di sostanzialmente inutile.
Le cose non stanno proprio così: l’uomo ha sempre avuto l’urgente bisogno di ancorarsi ad una
morale, di stabilire dei valori alla quale ispirarsi e che possano esser posti alla base della
società civile per una sopravvivenza felice e pacifica. Ed è proprio qui che entra in gioco la
funzione dell’arte, tutt’altro che inutile: nella storia dell’umanità l’arte ha svolto una funzione
morale (e amorale). La funzione sociale e civile dell’arte si lega strettamente alla morale, a
quell’urgenza che molti artisti hanno avuto e hanno di rappresentare la loro visione del mondo,
di veicolare messaggi e diffondere ideologie. Propagandistica o contestatrice, conservatrice o
reazionaria, illuminata o oscurantista, l’arte non è mai stata indifferente alla vita politica e
sociale, non è stata affatto una semplice comparsa bensì una grande protagonista nella storia
dell’umanità. In questo numero abbiamo cercato, ove possibile, di dar spazio ad argomenti
assai diversi, proprio come feci io nella mia tesina di diploma dando spazio sia ad intellettuali
detrattori e critici di taluni poteri costituiti, dei così detti “sistemi”, sia ad intellettuali
perfettamente inseriti nei loro contesti politici e sociali. Se fino al rinascimento la maggior parte
degli artisti non si sarebbe mai sognato di criticare il potere e le istituzioni nella quale esso si
incarnava (la corte che gli offriva lavoro e protezione e soprattutto l’autorità ecclesiastica),
l’epoca contemporanea, edonistica, consumistica e mediatica, ha perso quella visione unitaria
e ordinata del mondo per sfociare nell’ambiguità e nella contraddittorietà: così accanto alle arti
di propaganda dei totalitarismi, buone o cattive, belle o brutte che siano, vi è stata anche tutta
un’arte di feroce critica, costellata di famosi e tristi episodi di intellettuali (in)organici messi a
tacere, più o meno brutalmente. Questa sintesi estrema di secoli di rapporti pacifici e
tormentati degli intellettuali con il mondo che li circondava, è questione assai complessa e
lunga e queste poche righe a disposizione non sono certamente la sede adatta per esaurire una
tematica così vasta, sulla quale ci sono un numero enorme di fonti, documenti e studi. Noi
vogliamo prendere vie meno battute: partiamo dagli anni 70’ e 80’ con delle riflessioni cinefile
sul consumismo, con la musica punk come una delle principali forme di contestazione
antiborghese, e andiamo sempre più avanti cercando di capire cosa significa oggi l’arte come
impegno civile, quali sono le nuove frontiere dell’espressione artistica impegnata, come ad
esempio la street art, alla quale molte persone faticano ancora a riconoscere una dignità d’arte
vera e propria. Vedremo addirittura come l’arte possa portare benefici alla salute psichica di
persone con disagi mentali, avere scopi curativi, essere una terapia… allora, dico a tutti coloro i
quali, hanno cercato di allontanarmi dallo studio delle arti dicendo che la vita é fatta di cose più
pragmatiche, l’arte vi sembra ancora così inutile? Io, sempre più fermamente, dico di no.
Giovanna Di Martino
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JOBOK.EU/USER/GIOVANNA
3
Street Art -Pag. 10-
Riccardo Latteri -Pag. 16-
Arte-terapia -Pag. 29-
La (non) rivoluzione del movimento punk-Pag. 34Federico Massa
Alex Perucci
Giovanna Di Martino
Claudia Marini
GUEST
Compro dunque sono? -Pag. 42-
4
JobOK Magazine
Hipster Style -Pag. 45-
GUEST
Simona Lo Piccolo
TU!!!
IN QUESTO NUMERO...
SOMMARIO
3
EDITORIALE
8
Arte H
Il volto solidale dell’arte
FOCUS
Street Art
10
16
INTERVISTA
Riccardo Latteri
RACCONTO
22
Stupor Mundi
MUSICA
29 Arte-terapia
34
La (non) rivoluzione del
movimento punk
CINEMA
Arte promotrice
di benessere
40 INTERVISTA
42
Compro dunque sono?
TUTTI IN SCENA...
Perchè no?!
45 TREND ALERT
Hipster Style
CUCINA
47
BOOK REVIEW
49
Plumcake Veggy Style
Sostiene Pereira
JobOK Magazine
5
IL VOLTO SOLIDALE DELL’ARTE
L’arte da sempre mette in relazione un individuo con una
massa, in modo consapevole e inconscio al tempo
stesso. L'artista, in parte sa bene come arrivare, e in
parte non sa neanche lui dove l'ispirazione lo porterà.
Ogni volta egli accede a un mistero con la stessa
trepidazione della prima volta. Poi, accade il fenomeno
della identificazione, quel momento in cui, chi osserva
l'opera si riconosce in essa come se facesse parte di lui
da sempre, come se, finalmente, per incanto, un nodo si
fosse sciolto e lì davanti ai sui occhi apparisse luminosa
una risposta, qualcosa che, se ne avesse avuto le
capacità, avrebbe fatto lui stesso. Una sensazione
profonda, appartenente alla sfera del subliminale, un
tempo detta catarsi, e che, anche per gioco mostrava
all'osservatore il volto del politico o del cardinale
dell'epoca nei sontuosi panneggi dei personaggi
mitologici o spirituali raffigurati negli affreschi di
Michelangelo, Giotto, Tiziano, Tiepolo, Raffaello,
Caravaggio. Questi "rotocalchi" dell'epoca erano
maestosi, ma già mezzo di comunicazione di massa.
Come se noi oggi vedessimo le facce dei nostri politici
schiaffate sulla Cappella Sistina invece che negli
schermi delle TV o sulle pagine dei giornali.
L'Arte ha il potere di smuovere le nostre identità, sempre
fluttuanti tra ideale e concreto e di riportarle, con un
viaggio a ritroso, verso una consapevolezza di una parte
di noi che è solo nostra e che pure misticamente
qualcun altro ha percepito, magari lontano nel mondo o
in un'altra epoca, componendo una sinfonia, una
canzone, dipingendo un quadro, scrivendo un romanzo,
un autore la cui opera può affascinarci fino alla sindrome
di Stendhal ma che magari se incontrato di persona non
ci direbbe un granché. Kandinsky afferma che può
avvenire tutto questo solo quando un artista è in grado di
realizzare un'opera "originale", altrimenti si tratta solo di
deboli tentativi dettati dall'ego. Evito, anche per rispetto
del ruolo del critico, il linguaggio da addetti ai lavori per
spiegare cosa sia un "opera originale" ma passo
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JobOK Magazine
direttamente a spiegare questo concetto dal punto di
vista della mia esperienza, in Arte H, quella dietro le
quinte, quella muta, oscurata dalla paura della
sofferenza, la H di Help, di Handicap, di Human rigths, di
Habitat, ma anche di Happiness, Health, Hospitality… già,
perché che fine hanno fatto la sofferenza, la solitudine
ma anche la felicità, la salute e l'accoglienza? Le persone
sole, dove sono e che ruolo hanno? Forse le abbiamo
perse di vista correndo all'impazzata, noi che possiamo,
cercando di allontanarci il più possibile dalla morte. Ma
poi ci rendiamo conto di rimanere fermi come ruote che
girano nel fango. L'incontro "mistico" con l'handicap, la
diversità, porta con se le risposte che abbiamo sempre
inseguito e che ci fanno capire quanto il concetto di
felicità sia profondamente indipendente da ogni
condizionamento razionale e superiore a ogni barriera o
condizione. Verità preziosa questa, che spinge
inconsciamente il collezionista ad accumulare opere
nella speranza di interiorizzarne il potere e trovare
finalmente quella pace che il lusso finora non gli ha
concesso.
È la certezza di tutto questo e l'incontro con persone
diversamente abili che, in primis, ha salvato la mia vita
non appena è stata colpita dalla malattia, e che poi
definitivamente mi ha fatto comprendere il legame
risolutivo con quella parte della società che ci ostiniamo
a lasciare nell'ombra. Lo stesso identico fenomeno di
identificazione opera-spettatore, avviene in altra scala:
comune mortale-individuo psicologicamente resiliente.
Tutto ciò mi ha spinto a fondare Arte H, affinché siano
"gli ultimi" a salvare le masse, attraverso quel lavoro di
divulgazione che solo l'arte è in grado di realizzare.
Per fare ciò, ho chiamato attorno a me i miei migliori
amici di sempre nel mondo del volontariato e nel mondo
della cultura e dello spettacolo e subito sono nate tante
idee e nuove collaborazioni, tenendoci per mano e in
attesa di stringere le vostre.
Claudia Marini
CLAUDIA MARINI
Claudia Marini è nata a Roma il 30.08.1979. Art
director e artista, nel 2011 scopre di avere la MCS
(Sensibilità Chimica Multipla) contratta in seguito ad
inalazione di sostanze molto tossiche. Dopo anni di
volontariato nel settore delle malattie ambientali e
della tutela dei diritti in genere, fonda Arte H per
sostenere la ricerca scientifica attraverso
manifestazioni artistiche, progetti, convegni, raccolte
fondi. Lo scopo più importante di Arte H è riuscire ad
individuare e sostenere le persone più sole, quelle
che non hanno neanche il diritto alla solidarietà. Per
fare questo, Claudia Marini si avvale di varie figure
professionali di eccellenza che riunisce nel consiglio
direttivo di Arte H come soci fondatori: Massimo
Andellini, Raffaele Ferraresso, Mirna Maggi, Franco
Messina, Mariangela Petruzzelli, Marcia Sedoc.
Nasce così il pay-off "Eccellenze, giovani eccellenze,
eccellenze sommerse. Arte, cultura e spettacolo per
l'aiuto". Sullo stesso palco ideale si trovano così,
personaggi noti, ricercatori, studenti e persone
appartenenti alle fasce svantaggiate: è questa la
visione democratica-olistica secondo Arte H. Unici
privilegiati coloro che sono dimenticati dalle
istituzioni e beneficiari inaspettati coloro che
riescono ad entrare in relazione umana con essi,
attraverso le nostre attività.
JOBOK.EU/USER/CLAUDIAMARINI
9
C’
è chi riesce a leggerne il messaggio, chi si fa
affascinare solo dalle forme e dai colori; c’è chi ci vede gli
estremi di un linguaggio estremamente comunicativo,
chi la etichetta come vandalismo; qualunque sia la
visione di colui che rimane spettatore, l’unico obiettivo
della Street Art è stato raggiunto, nessuno l’ha potuto
evitare, nessuno lo potrà ignorare; il messaggio ormai è
lanciato, impresso sul muro come un’ustione, sparato
sul treno come un proiettile; qualsiasi sia la forma,
illustrata o scritta, comprensibile o meno, tondeggiante
o spigolosa, oramai è lì, a monito di una cultura non
ancora del tutto riconosciuta o per la sua stessa natura
irriconoscibile.
Tentiamo oggi, nel rispetto di coloro che infondono le
loro speranze di una civiltà migliore nella verità scritta
sui muri, di raccontare la storia di un’arte: ancestrale
come le pitture rupestri sulle caverne dei nostri antenati
nell’età della pietra, simbolica come gli ideogrammi sulle
pareti dell’antico Egitto, monumentale come le iscrizioni
sugli edifici dell’antica Roma, evocativa come gli
affreschi nelle chiese del Medioevo, pungente come la
satira dell’età moderna, o nulla di tutto questo, in linea
con la forma più dissacrante di dadaismo che si possa
immaginare.
Si pensa che tutto abbia avuto inizio da “Kilroy”, un
uomo, calvo, che “ficca il naso” al di là di un muro ridotto
ad una sola linea, strana descrizione se non fosse
esattamente il primo graffito della storia del ‘900; la
scritta originale che accompagnava quest’immagine
10
JobOK Magazine
risalente ad un fumetto Inglese del 1938 era “Foo was
here” (Foo è stato qui): questa frase, antecedente al suo
compagno illustrato, utilizzata per la prima volta in
Australia durante il primo conflitto mondiale, fece il giro
del mondo moltiplicando i nomi del personaggio
protagonista del graffito che, nelle sue origini britanniche
portava l’appellativo di “Mr.Chad”, ma fu con quello
Americano di Kilroy che divenne nel corso della seconda
guerra mondiale un’icona, forte della sua semplicità
anche nel dopoguerra.
Kilroy arriva e perdura in tutti gli anni ‘50 anche come
moda e se si intravedono ancora le sue origini nelle
riproposizioni del nostro tempo, ne ritroviamo solo la
forza della citazione ed il rispetto di aver aperto i fronti ad
un popolo anonimo, a cui piace lasciare il segno.
Negli anni ’60 nasce la “Tag”, una firma che riassume il
concetto di “X was here”, un simbolo personale ed
univoco che, con la sua matrice individualista, ha
contribuito alla nascita della moda di lasciare il segno
della propria presenza nei luoghi visitati. Queste “Tag” si
diffondono prestissimo negli spazi metropolitani e
subito acquistano il peso simbolico della riconquista di
una città che, nel suo aspetto come nelle sue norme, era
fin troppo a misura di una popolazione amante delle
abitudini e dei ritmi scanditi dal lavoro, concezione
generazionalmente troppo distante dalla mente dei
giovani degli anni ’60, che amavano i luoghi ed i modi del
grande rock.
A coronare questo stimolo di ribellione giovanile fu
l’invenzione della bomboletta spray, oggetto magnifico
per coloro che erano già entrati nei pensieri di
repressione delle amministrazioni; alla fretta del gesto si
poteva finalmente aggiungere stile e, farlo senza lasciare
tracce e senza pennelli o rulli sporchi nello zaino era un
incentivo troppo grande per non trasformare la
bomboletta spray in simbolo, icona di coloro che ora
avevano una missione: rendere le città più belle, seppur
a volte nel loro solo modo di vedere le cose, ma
soprattutto renderle più colorate. Iniziarono a spuntare
vagoni dei treni metropolitani di mille colori, anfratti
periferici delle città, dove la criminalità si fondeva con il
grigiore dei “quartieri-dormitori dei poveri”, iniziarono a
diventare carta bianca per il messaggio di disagio,
portato dalle situazioni di vita di strada, che le
amministrazioni tentavano da anni di ignorare e
nascondere ad ogni costo. Ora il costo iniziava a
diventare imponente, ripulire le città diventò una spesa
fissa nei libri contabili dei governi, e da sfogo, il graffito
divenne lotta, la battaglia contro un nemico invisibile ma
reale, come le vite di coloro che subivano passivamente
le decisioni di uomini d’affari, prese nei piani alti di uffici
amministrativi, in cui non si consideravano le difficoltà
della popolazione, ma il bilancio.
Gli omicidi pubblici di coloro i quali volevano cambiare le
carte in tavola (J.F.Kennedy, M.L.King) non fecero altro
che alimentare il divario tra i giovani e l’autorità; per
quest’ultima, i giovani adolescenti, provavano una
fortissima e comprensibile sfiducia, l’invito a prendere
d’esempio dai loro genitori era in netto contrasto con i
sentimenti di sfruttamento, che si potevano provare
nella paura di una leva obbligatoria, che sarebbe potuta
sfociare senza preavviso in una chiamata alle armi per
questa o quell’altra guerra; conflitti che ovviamente in
minima percentuale venivano percepiti come giusti o
propri, crociate economiche che non avrebbero portato
alcun beneficio a coloro i quali erano chiamati ad essere
pronti a sacrificare la propria vita.
Questo spaccato di scenario antropologico non vuole
giustificare il vandalismo alle opere d’arte o l’illegalità
dell’atto del dipingere sul muro, ma riconoscerlo è
sicuramente un modo per comprendere le motivazioni di
una generazione che, volendosi riappropriare della
propria vita e dei propri spazi (per i quali non avevano
voce in capitolo), iniziò una ribellione pacifica che, come
tutte le espressioni pregne di sentimento, portò negli
anni a venire a delle opere magnifiche.
Questo si legò a doppio filo con l’utilizzo degli
stupefacenti di fine anni ’60 e con la psichedelia degli
anni ’70, apparirono i murales ed anche il mercato
musicale, in quel periodo, si fregiò di quegli stili
illustrativi per l’iconografia di molti dei dischi più famosi
al mondo. Era diventata una rivoluzione culturale, le città
potevano essere le tele dei nuovi pittori, anonimi per
scelta ma con una voglia di esprimersi senza confini.
Tanto che il museo, simbolo dell’arte istituzionale e
canonica, era diventato la nemesi per eccellenza, anche
perché nessun critico o gallerista ammirava
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pubblicamente queste opere e rifiutava ogni nuova
proposta di esposizione.
Negli anni ’80 nacque la Crew, in italiano “cricca”, era il
gruppo che condivideva una passione di strada,
all’epoca con la nascita della Break Dance, erano molti i
ragazzi che si riunivano in metropolitana; un cartone da
imballaggio abbastanza grande, aperto ed appiattito a
terra era il loro palcoscenico, la spinta non era mostrarsi
al di fuori degli appassionati, ma perfezionarsi a ritmo di
musica per sfidare a passi di Break le altre crew. Questo
accadde anche per i nostri pittori di strada che si
identificavano con delle tag collettive ed iniziavano a
farsi chiamare Writers, letteralmente scrittori, ma inteso
come coloro che praticano l’arte della bomboletta, della
“scritta” sul muro; le loro crew, come quelle di Break
Dance divennero territoriali e gli scontri a suon di graffiti
12
JobOK Magazine
non furono più così pacifici. Era diventato un
atteggiamento giovanile diffuso avere una propria
banda, queste si dividevano principalmente per il modo
di vestire ed erano rappresentative del territorio, del
colore della pelle e delle passioni condivise, tanto che
queste, oramai sempre in lotta, tentavano di avere
sempre un predominio ideale sul territorio di
appartenenza; proprio come nel film di Walter Hill “I
guerrieri della notte” del 1979.
Le amministrazioni avevano dei grandi problemi a tenere
a bada le situazioni che si erano venute a creare, ma
come al solito, il problema comportamentale passava in
secondo piano rispetto al “degrado” che i writers
imponevano alle strade, quindi nacquero due modi per
affrontare la questione, uno accomodante che forniva ai
ragazzi muri bianchi dedicati alla loro arte, muri che
rimasero per lo più bianchi in quanto, lo stimolo
adrenalinico che il proibito esercitava sull’idea di usare la
bomboletta era parte integrante del piacere stesso di
esprimersi in questo modo; l’altro metodo fu la
repressione, poco efficace se non per l’unico esempio
della città di Los Angeles, che con la sua “Tagnet-Graffiti
Tracking System” riusciva, grazie a dei sistemi di
tracciamento e localizzazione delle firme, ad individuare
e perseguire gli autori.
Nel nuovo millennio si è cercato un modo più evoluto di
scrivere sui muri ed un modo altrettanto saggio di
sfruttare la situazione a beneficio dei cittadini; anche se
sono ancora presenti le tag, le scritte di sfogo, i murales
individuali, le carrozze dei treni interamente disegnate
dalle crew che ancora lottano per il territorio e lo fanno
sovrascrivendo gli uni i disegni degli altri, oggi alcuni
lavorano su commissione ed autori come Keith Hering o
Banksy, nati da questa storia, sono entrati a far parte
degli artisti riconosciuti e riconoscibili.
Le forme dell’arte in strada si sono tanto evolute da
diventare molteplici ed esempi eclatanti sono oggi in
tutte le nostre città, commissioni per graffiti in edifici
pubblici e privati sono state pagate cifre da capogiro, ma
la spontaneità dell’ispirazione su strada rimane gratuita,
imprevedibile e sempre a vantaggio di tutta la comunità;
qualunque sia la visione di colui che rimane spettatore,
l’unico obiettivo della Street Art è stato raggiunto,
nessuno l’ha potuto evitare, nessuno lo potrà ignorare; il
messaggio ormai è lanciato.
Federico Massa
JOBOK.EU/USER/CONCEPT
13
Da dove nasce la tua passione per la musica?
Io e la mia dea, la musica, ci siamo incontrati molto
presto: avevo circa quattro anni quando ho iniziato a
canticchiare le prime note, grazie ai miei genitori che
amano molto il cantautorato italiano e il rock del grande
Elvis. Da bambino ero molto taciturno, non mi piaceva
andare alla scuola materna, piangevo talmente tanto
che l’unico modo per tranquillizzarmi era proprio
l’ascolto della musica. Così avvenne il primo incontro
con il canto: poiché a scuola non c’era un mangianastri,
un giorno la maestra, conoscendo la mia passione per la
musica, penso bene di farmi cantare dinanzi a tutta la
classe; dentro sentivo una grande voglia di sfogarmi
cantando qualsiasi cosa e in quel momento scattò in me
qualcosa, non so cosa fosse, ma ricordo che mi fece
sentire subito meglio, tutte le paure e insicurezze
svanivano. Da quel giorno in poi io e la musica non ci
siamo più separati. Scrivere musica mi serve per
analizzare gli eventi e le emozioni che li accompagnano
e le persone che incontro lungo il cammino della mia
vita, in altre parole a capire ciò che sono, tra difetti e
pregi, limiti ed orizzonti, desideri e rinunce. Sono un
menestrello nato nelle periferie della città eterna, e quello
che sono, lo devo moltissimo alla mia dea ed ai miei
meravigliosi genitori.
Come hai intrapreso
Descrivimene le tappe?
la
carriera
musicale?
Come molti ragazzi appassionati di musica, ho iniziato
da autodidatta, imitando con gli amici i nostri generi
preferiti e idoli musicali; dai tredici anni, iniziai a lavorare
saltuariamente con mia cugina, cantante di piano bar, la
16
JobOK Magazine
quale mi portava con se a cantare a matrimoni e
ricevimenti; queste occasioni sono state delle ottime
opportunità per acquisire esperienza a stretto contatto
con il pubblico. Un rapporto più diretto e costante con la
musica è iniziato circa un paio di anni dopo, quando,
insieme ad alcuni compagni della mia adolescenza, ho
formato un gruppo di nome Dark Sevior, coverband dei
Gun's and Roses, Europe, Nirvana e altri gruppi punk e
rock.
Avrei voluto studiare al conservatorio, ma la mia famiglia
non poteva permetterselo, quindi ho continuato a
coltivare e praticare la musica da autodidatta. Tuttavia
non ho mai perso la speranza e la determinazione per
raggiungere il sogno di diventare un’artista; mi resi conto
di quanto fosse fondamentale uno studio serio e l’avere
una guida. Così, dopo il diploma riuscii ad iscrivermi alla
scuola privata Domani musica di Alberto Giraldi,
(maestro di musica, direttore del conservatorio di
Frosinone e pianista Jazz e classico), dove incontrai la
mia insegnante Letizia Mongelli (cantante lirica e
leggera, attrice di teatro, ed insegnante diplomata in vari
metodi tra cui il voice craft), un guru per la mia carriera,
colei che mi ha insegnato ad usare al meglio il mio corpo
al pari di uno strumento musicale. Ma dopo un paio di
anni non mi bastava più soltanto studiare le tecniche
vocali, così, sempre nella stessa scuola, mi affiancai ad
Alessandro Clementoni, musicista, chitarrista e
arrangiatore, che mi ha insegnato a suonare la chitarra.
Dopo un po’ di tempo iniziai a comporre melodie e testi
che rispecchiavano il mio carattere a volte combattivo e
a volte romantico. Durante le lezioni di chitarra descrissi
ad Alessandro tutte le mie idee, così iniziammo a
lavorarci su, giungendo poi alla produzione del mio
primo brano, Una farfalla sopra un fiore singolo di punta
del primo album La voglia di vivere, inciso con il mio
gruppo i Libero Modo. Infatti per pubblicare il mio disco
avevo bisogno di una band, ed è così che sono nati i
Libero Modo (Fabio Celli ed Emanuele Marafini alle
chitarre, Fabio Folchi alla batteria, Simone Miccoli al
basso). Io scrivevo i brani e insieme al gruppo, nello
studio Do it di Patrizio Palombi, altra persona
fondamentale per la mia carriera oltre che amico
fraterno, li arrangiavamo sotto la guida di Alessandro
Clementoni. Dal 2007 al 2009 partecipammo in diverse
città italiane a parecchi concorsi (emergenza rock, tour
music festival, trofeo Mia Martini), esperienze divertenti
e indimenticabili. Ma il “per sempre” è un’utopia, e la
band si sciolse nel 2010, tuttavia ho mantenuto i contatti
con Emanuele Marafini, musicista eccellente, che è
diventato il mio chitarrista di fiducia, mi segue in tutti i
live ed è collaboratore di quasi tutti i miei lavori. Nel 2010
ho intrapreso la carriera da solista con la registrazione
del mio secondo album Il garzone di Periferia, con le
collaborazioni per gli arrangiamenti di due grandi
musicisti Fabio Raponi e Jacopo Ruggeri, il quale mi ha
fatto conoscere sfumature del rock a me ignote e mi
consigliava i gruppi da ascoltare e le linee armoniche
sulle quali costruire un brano.
Inoltre recentemente ho scritto per altri artisti: tempo fa
scrissi un brano intitolato Una vita su due punte, storia
del percorso artistico di una ballerina; quando ho deciso
di rendere pubblico il brano ho scelto di farlo cantare ad
una cara compagna di studi, Laura Ugolini, una voce con
le sue caratteristiche si è rivelata perfetta per il tipo di
brano, completamente diverso dal mio genere, ma
metricamente simile nella scrittura del testo. Da poco ho
finito di scrivere il mio terzo album e vorrei iniziare a
registrarlo, i fondi scarseggiano, ma non mi arrendo, e la
promessa che mi sono fatto tanti anni fa, di diventare un
artista e un cantautore, l'ho mantenuta, perché non è la
popolarità a rendermi tale, io non faccio il cantautore, ma
sono un cantautore, questo è il mio modo di stare al
mondo, poi per vivere faccio altro, ma la mia anima vive
e vivrà sempre tra note e rime.
Per questo numero abbiamo scelto il tema dell’arte
come impegno civile e sociale. Prima di tutto
vorremmo sapere qual è la opinione in merito per
quanto riguarda la musica, soprattutto in relazione ad
alcuni dei tuoi brani più importanti che appaiono come
degli ottimi esempi di una musica impegnata: ho visto
un mondo e Non rompetemi i coglioni. Parlaci di questi
brani, soprattutto dei loro testi così densi di significato.
Viviamo un momento molto difficile, soprattutto per i
giovani, che sono per questo pieni di rabbia, che deve
essere tramutata in un’energia positiva, che da la forza
di non mollare, e non sfociare in violenza e condurre al
degrado sociale. Nei testi di generi musicali attuali come
il rap si respira quest'intensa negatività, molti giovani
sfogano tutta la loro rabbia repressa con questo tipo di
musica, ma ho l'impressione che in alcuni casi si arrivi
addirittura ad ammirare la criminalità organizzata o
giustificare la violenza delle strade di periferia.
Personalmente sono nato e cresciuto in una borgata di
Roma, ho perduto amici molto giovani e ne ho visti altri
rovinarsi a causa della droga o della criminalità, ma non
ho mai giustificato tutto ciò con l'oppressione del
sistema e della società poiché certamente il male di
questo sistema sociale non si può combattere
perpetrando e commettendo il male a nostra volta. Per
quanto riguarda i miei due brani, sono entrambi dei punti
JOBOK.EU/USER/RICCARDO82
17
forti del mio ultimo album: per quanto riguarda il genere
Ho visto un mondo è un brano prettamente rock, in parte
ispirato alle sonorità dei Foo Fighters, mentre Non
rompetemi i coglioni invece prende più spunto dal Punk
o Ska. Il tema affrontato è simile: mentre il primo brano
descrive una visione adulta dell'essere uomo
nell'accento posto sulla politica e su tematiche ad ampio
spettro sociale come la fame nel mondo e l'indifferenza
dei potenti, il secondo è uno sfogo adolescenziale,
descrivo la ribellione alle regole imposte da chi, al di fuori
della propria famiglia, ci vuole indicare vie ormai
superate e dannose per il progresso professionale e
sociale dei giovani.
Non rompetemi i coglioni si apre con la trovata geniale
della nascita di un bambino, immaginiamo che sia tu
quel bambino che si ribella alle regole del sistema
sociale, ad una rigida educazione fatta di buone
maniere e formalità? Qual è stata la genesi del brano?
Da dove nasce questa ribellione al mondo che non
vuole lasciarci liberi di vivere la nostra vita come
meglio crediamo?
Vorrei usare una similitudine per spiegare ciò che penso:
quando nasciamo siamo una sorta di computer, ed il
sistema socio-politico e culturale attraverso dei cd ci
imposta da subito degli schemi di pensiero fissi e
conformi al sistema; non sto dicendo che l'educazione
vada eliminata ma impartita con criterio. Per quanto mi
riguarda posso dire che ci sono alcuni aspetti che
ritengo veramente inutili per il mio vivere perché mi
rendo conto di quanto mi abbiano limitato
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JobOK Magazine
nell'elaborazione di un modo di pensare tutto mio; penso
alle religioni, che mi sembra facciano tutt'altro che
portare pace, o a certe famiglie che impongono anche
nello stare seduti o nel parlare, delle regole rigide ma a
mio avviso superflue, che portano soltanto ad un
distacco nel rapporto tra genitori e figli. Anche se, per
esempio, la sera cenavo sul divano con la mia famiglia,
invece di stare composto a tavola, ciò non significa
affatto che non sapessi come comportarmi in altre
occasioni, perché con la mia famiglia ovviamente ho
confidenza, so di poter parlare liberamente e di essere
compreso. Un sistema educativo rigido, o quasi militare,
non permette un adeguato sviluppo celebrale. Questo
concetto l’ho appreso e compreso appieno quando un
giorno mio padre mi disse una frase illuminate: “ti
accorgi di quanto siano belli i figli quando hai il coraggio
di lasciarli liberi di crescere e di vederli vivere, li capisci se
sei stato un buon padre”. Avevo ventidue anni e avevamo
appena fondato il gruppo, che scelsi di chiamare Libero
Modo, ispirato per l’appunto da questa frase di mio
padre. Il brano è più in generale anche uno sfogo contro
la situazione di difficoltà lavorativa ed economica che
opprime i giovani. Il titolo del brano è la risposta che io
desidero urlare a coloro che decidono il destino delle vite
altrui al solo scopo di lucro.
Di Ho visto un mondo hai realizzato anche un
interessante video musicale. Puoi descrivere e
spiegare la simbologia in esso contenuta?
Il video è stato realizzato grazie alla preziosa
collaborazione del regista Claudio D'elia, è sua l'idea di
raccontare la storia per immagini partendo dalla fine. Il
video infatti inizia con la scena di un uomo legato con la
camicia di forza in una cella di un manicomio al quale
viene fatta una puntura che lo fa addormentare. L’uomo
sogna il giorno in cui tornando a casa accende la tv, uno
dei mezzi più pericolosi di quest'epoca, e vede il suo alter
ego vestito da chef che prepara la ricetta per costruire il
nostro paese: il ricettario è la costituzione italiana,
ipocrisia, ignoranza, denaro sono gli ingredienti che
prende dal frigo e mescola nel pentolone. La visione di
questa scena lo fa diventare folle, nonostante la moglie,
attraverso dei cartelli scritti, lo inciti a non arrendersi e a
sognare. L’uomo capisce di essere rimasto caduto
vittima dello schema del perfetto uomo medio italiano
tutto casa, lavoro, divano, tv, famiglia, facile da
governare, basta non togliergli la tv, il divano e il calcio. e
tutto fila per il verso giusto.
Ultima domanda: la musica italiana degli anni Settanta,
periodo di grande fervore politico e culturale per il
nostro paese, si è distinta tra le industrie musicali
europee, per il periodo d’oro del grande cantautorato
italiano impegnato (Guccini, Gaber, De André). Nella
stato attuale in cui versa oggi la musica italiana, ritieni
sia ancora possibile una musica socialmente e
civilmente impegnata? Credi ci sia una tale libertà di
dire ciò che si pensa, come fai tu nelle tue canzoni?
Non credo che oggi ci sia un limite alla libertà
d’espressione perché viviamo in un’epoca nella quale il
sesso e altre cose che prima erano un tabù, oramai sono
diventate motivi principali di attrazione per il grande
pubblico. Mi spiace dichiarare ciò ma il motivo dello
scarso successo della musica impegnata, sia degli anni
Settanta sia contemporanea, non è da trovare nel
sistema produttivo ma per l’appunto nel pubblico: se la
musica che tratta argomenti socialmente utili e che
cerca di far reagire un popolo addormentato, non viene
ascoltata e comprata, i produttori non investiranno mai
in questo tipo di musica; il produttore è un imprenditore
che investe per guadagnare, cosa che interessa in realtà
anche al cantautore, perché, al di la dell’aspetto artistico
sicuramente importantissimo, fare musica resta
comunque un mestiere. La ragione per la quale è andato
perso quello spirito che aveva la musica di quarant’anni
fa è che oggi in Italia riscuote successo la canzone che
parla d’amore tra coppie perché come si dice a Roma “ce
piace piagne”. Fortunatamente ci sono delle eccezioni:
esistono anche attualmente dei cantautori validi che
mantengono quelle caratteristiche (ad esempio seguo
ed ammiro molto Fabrizio Moro), tuttavia non credo che
sia solo una questione di epoca bensì di cultura,
purtroppo gli italiani preferiscono ascoltare motivetti più
semplici con tematiche meno impegnative ed è per
questo motivo che artisti come De André o Gaber non
hanno avuto il giusto successo che meritavano rispetto
a tanti altri. Ma per fortuna la minoranza trova sempre il
modo per farsi sentire; con questo non voglio giustificare
il successo mancato di tanti cantautori o aspiranti tali, i
quali forse non possiedono tutti le caratteristiche
necessarie per divenire artisti affermati, tuttavia anche
artisti di notevole talento non ottengono i risultati sperati
pur essendo più meritevoli di molti altri di grande
successo.
Voglio infine ringraziare JobOk Magazine per questo
spazio, e invito tutti i lettori a seguirmi sulla mia pagina
ufficiale di JobOk Social Network.
Giovanna Di Martino
JOBOK.EU/USER/RICCARDO82
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“
Da noi il cinema s’impara facendolo
affrontando tutti i ruoli del set.
”
Prima di morire devo confessare, scrivere la verità su questo foglio è l'ultima liberazione di un uomo,
malato di vecchiaia, che voi conoscete come fondatore e primo ministro della Nuova Repubblica
Italiana, ma che non ha sempre rivestito il ruolo più importante di questa nostra società.
Ci fu un tempo in cui, da giovane dottorando in Fisica, lasciavo Roma per andare a proseguire la mia
carriera accademica a Napoli, presso l'università Nuova Sacra Scienza, l'ultimo fulgido esempio di
cultura nel nostro paese, dopo la Seconda Inquisizione la Chiesa Cattolica aveva ostacolato con tutti
i mezzi l'insegnamento che non fosse indottrinato, e se prima si era dedicata all'antica pratica della
censura dei libri proibiti e successivamente era riuscita nell'impresa di far fallire il più alto progetto di
democrazia che l'uomo avesse mai visto e provato, Internet, ora con l'ultima università laica in Italia
aveva stretto una tregua: per non morire, la Sacra Scienza di Napoli aveva lasciato la propria
gestione didattica ed amministrativa ad un consiglio composto da delegati della Santa Sede.
Nel l'ormai lontano anno 2270, avevo appena 28 anni ed ero pieno di speranze, arrivai a Napoli e
l'università era ridotta ad un solo stabile, tutti gli altri erano stati venduti ad istituti corporativi o
riadattati a centri per la povertà, e di povertà ce n'era molta, l'avvelenamento da onde
elettromagnetiche aveva decimato la popolazione mondiale e solo coloro che potevano permettersi
camere iperbariche private e rivestimenti isolanti nelle abitazioni mantenevano un tasso di purezza
che non mettesse a rischio le loro vite. Oggi abbiamo la Nuova Lira (L²) mentre, allora in Europa la
moneta vigente, l'Euro, ormai in declino, valeva molto meno del sangue da trasfusione, tanto che la
Banca Centrale Europea (BCE) si trasformò nella Banca del Sangue d'Europa (BSE), il sangue fu
catalogato in base all'avvelenamento, quindi una stilla di sangue del ricco valeva come sei sacche
del sangue del povero; tutte le transazioni avvenivano in Sangue Elettronico, un chip impiantato
sottopelle sostituiva ogni documento e, dal momento che si era smesso di produrre moneta fisica,
era l'unico mezzo per pagare; i debiti di sangue contratti dai padri passavano ai figli e la povertà era
strettamente connessa alle condizioni di salute.
Io, nato fortunato da una ricca famiglia romana, senza grandi problemi di salute e con dei buoni
contatti non ebbi problemi a diventare il professore più giovane dell'università, ero entusiasta del mio
successo, e presi subito il mio lavoro con grande dedizione e così fu per i primi anni della mia
brillante carriera.
Gli studenti erano entusiasti delle mie lezioni ed anche se non facevo parte del clero avevo una
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buona confidenza con il consiglio direttivo e con gli altri colleghi più anziani, un giorno, terminate le
lezioni raccolsi le mie cose e mi avviai verso l'uscita dell'aula, quando, con la coda dell'occhio,
nell'aula vuota riuscii a scorgere qualcosa che spuntava dal vano sotto l'ultima fila di banchi, allora
risalii le scale dell'auditorium ed andai a tirare fuori quello che, mentre salivo i gradini, aveva preso la
forma di un libro.
Il libro che mi aveva fatto appassionare alla fisica, non era un testo che avevo segnalato agli studenti,
in quanto era severamente vietato uscire dalle imposizioni della Chiesa, quindi pensai ad uno
studente tanto distratto quanto intraprendente ed affine al mio modo di essere, aprii subito il libro
per vedere di chi fosse e con mia incredulità, all'interno della copertina spiccava a chiare lettere il mio
nome scritto nella mia calligrafia; ma come poteva essere possibile che questo libro, gelosamente
custodito negli appartamenti dei miei genitori a Roma fosse apparso lì, pensai ad un innocente
scherzo di qualche studente, ma abbandonai subito l'ipotesi ricordando a me stesso che questo
testo era stato ritirato da ogni luogo, pubblico o privato e che casa nostra non era passata
inosservata alle autorità per la quantità di testi, solo questo libro venne risparmiato dal
rastrellamento perché, mentre i commissari inquisitori si impegnavano a caricare la massiccia
libreria di mio padre, ebbi il tempo di nasconderlo nell'intercapedine del muro, dove ero solito
nascondere una scatola piena delle lettere delle poche ma importanti fiamme liceali.
Troppo pericoloso andare a Roma ed entrare nella mia vecchia camera solo per portarmi questo
libro, per quanto coraggio ci fosse voluto a sfidare la Chiesa, casa dei miei genitori era
estremamente protetta ed il viaggio non era esente da controlli e perquisizioni. E poi che senso
avrebbe avuto, una minaccia? Questo "messaggio" voleva per caso indicarmi che mi stavano
osservando da molto e che sarebbero potuti entrare nella mia vita quando desideravano? Avrebbero
fatto del male ai miei genitori? Mi allarmai, infilai subito il libro in borsa guardandomi attorno per
accertarmi di essere solo e corsi nella squallida struttura in cui ero alloggiato. Presi il telefono e
composi il numero dei miei genitori, una voce gentile all'altro capo mi chiese di avvicinare il mio chip
al ricevitore sul muro, lo feci come al solito, non avevo molti crediti, ma un'interurbana potevo
permettermela ed in quella condizione d'ansia avrei fatto anche un debito per sapere se i miei
genitori fossero stati bene.
Squillava libero, ma nessuno rispondeva, quella stanza piccola e grigia sembrava schiacciarmi, non
potevo permettermi niente di meglio; molte volte i miei genitori mi avevano chiesto di accettare i loro
crediti, anche se lo stipendio da professore era esiguo non volevo pesare su di loro ed intendevo
dimostrare con tutte le forze che ce l'avrei fatta da solo.
Preso dall'agitazione provai di nuovo a chiamare e stavolta qualcuno rispose, la domestica, che mi
diceva di attendere pochi istanti per parlare con mio padre. Mi tolsi un peso, tutto era normale a casa,
mio padre stava bene e mia madre, sulla sua sedia a rotelle stava leggendo il giornale in giardino.
Poco prima di agganciare mio padre mi informò che aveva trovato all'interno del muro della mia
camera la scatola con i miei effetti personali e che aveva messo tutto da conto tranne una sorpresa
che sarebbe arrivata presto al mio domicilio e che mia madre riteneva importante farmi avere come
monito, a ravvivare sempre la passione in ciò che facevo. Capii ed attaccai. Mio padre aveva smosso
mari e monti per farmi avere il libro, era una questione sentimentale, ma chi lo aveva portato in
classe, e come, ma soprattutto perché. Andai a dormire frastornato dai dubbi sulla faccenda.
Mi svegliai di soprassalto, un incubo terribile aveva disturbato il mio sonno, ero stato accusato dalle
autorità, mi avevano cacciato dall'università e non potevo più insegnare; tutto per colpa di quel
maledetto libro.
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Guardai all'orologio ed era troppo presto per alzarmi, non avevo sonno ed ero troppo agitato, così
presi il libro dalla borsa per riflettere su quali capi d'accusa, oltre al possesso di un testo messo
all'indice, potevano imputarmi e dal libro cadde un piccolo fascicolo, pensai di averlo rotto e
nonostante tutto mi dispiacque, quando da seduto sul letto mi piegai per raccoglierlo mi resi conto
che si trattava di una copia rilegata, le fotocopiatrici erano ormai storia ed in vita mia non ne avevo
mai vista una. Aprii il fascicolo e subito notai l'assenza delle righe da censura, controllai la data di
edizione e mi stupii di vedere fotocopiata un'edizione pre-indice.
Mi alzai dal letto e chiusi a chiave la stanza. Emozionato ed eccitato da quel sapere proibito mi misi
a leggere voracemente il contenuto, una magnifica prefazione; già all'epoca avevo stimato l'autore
pur essendo privato dei commenti personali e delle frasi filosofiche, ma questo era veramente il
massimo, stavo leggendo un'introduzione alla fisica che parlava di filosofia assieme a stati della
materia, teoria dei quanti assieme alla fantascienza letteraria e televisiva. Un balsamo per l'anima,
questa introduzione usciva dai canoni dell'epoca per spiegare la scienza, sì con la matematica, ma
anche con la poetica di mezzi antichi e proibiti come la televisione. Per un attimo, preso da questo
mio personale Romanticismo, dimenticai la paura e la sostituii con un misto di gratitudine e curiosità
grazie alla frase che trovai alla fine di quelle pagine; scritte a mano, da quello che poteva intendersi
un pugno femminile, queste parole: "Se vuoi sapere di più" seguite da una lunghissima sfilza di
puntini di sospensione.
Dovevo subito andare in fondo alla faccenda, quindi rinunciai a fare la barba e mi misi a sfogliare il
mio libro, alla ricerca di qualche indizio, tutto regolare, pieno di cancellature nere come lo ricordavo,
rimpiansi le parole lette nel fascicolo e rilessi la frase scritta a mano, che avesse avuto un significato
recondito? Nulla, solo tutti quei puntini. Ad un certo punto mi misi per disperazione a contare I
puntini, in totale 53, mi dissi che valeva la pena provare ed andai a pagina 53 del mio libro. Qualcosa
di strano c'era, era come sempre pieno di linee di censura, ma questa pagina in particolare era una
pagina d'esempio piena di calcoli, che senso avrebbe avuto censurarli...segnai ciò che non era
cancellato sulla mia agenda e rimisi tutto a posto, era ora di uscire ed io ero ancora in mutande.
Nonostante la fretta arrivai in netto ritardo e, come potevo aspettarmi dai miei studenti, questi erano
tutti in cerchio intorno ad un manichino steso a terra contornato da una sagoma bianca e dalle
formule per calcolare la velocità dell'ipotetico impatto, volevano scherzare sulla nostra ultima
lezione, ma prontamente presi la palla al balzo per correggere le formule e per dare loro un esempio
di lezione creativa.
Non feci in tempo a terminare la lezione che un delegato del consiglio didattico, un ometto baffuto
che non avevo mai visto in giro, entrò in aula chiedendo di presentarmi quanto prima nell'ufficio del
rettore, il panico riprese il suo posto alla bocca del mio stomaco.
I ragazzi stavano uscendo quando decisi che dovevo quanto prima risolvere la questione, qualsiasi
fosse stato l'esito, sarebbe stato preferibile affrontarlo subito, più che rodermi ancora dentro con il
dubbio; scansai gli ultimi in fila per uscire e mi avviai a grandi passi verso gli uffici, ero fregato, in cuor
mio lo sapevo, e già pensavo a cosa avrei potuto usare come scusa, non avrei mai dovuto accennare
al libro ed avrei negato tutto il negabile, nella speranza che non avessero delle riprese inoppugnabili.
Bussai, entrai e, con una finta aria di innocenza, chiesi il motivo per il quale ero stato convocato tanto
di corsa, il rettore, un uomo sulla sessantina, alto, distinto, volto alla finestra e con le mani dietro la
schiena si rivolse a me senza girarsi; il colloquio verteva sulle mie capacità di "empatizzare" con gli
studenti e sulla necessità di mantenere il "rigore accademico", che situazioni di ritardo come quella
di oggi non dovessero più verificarsi in quanto "noi professori" avremmo dovuto per primi dare un
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esempio di "irreprensibilità". Al rettore piaceva da morire sottolineare le parole chiave del discorso e
più erano ricercate più provava piacere nel rafforzarle con il suo più solenne tono di voce. Il
monologo continuò ancora per un po' su questo tema, poi all'improvviso, come se ciò che avesse
appena detto potesse essere condizione necessaria e sufficiente di quello che aggiunse dopo,
cambiò registro e divenne cordiale, tanto che, mettendomi una mano sulla spalla, mi volle
convincere dell'importanza della mia professione e della passione con la quale era svolta, si
adombrò e mi raccontò di strani movimenti di alcuni miei colleghi più anziani, di ragazzi che avevano
degli atteggiamenti poco chiari, disse il tanto che gli ci volle per introdurmi la domanda che voleva
pormi da quando avevo varcato la soglia: avevo per caso notato qualcosa di strano ultimamente?
Ovviamente la mia risposta fu un pensoso no, ma ciò che mi girava in testa erano le immagini del
mio libro alla mercé di chiunque in quell'aula, della magnifica introduzione che, poetica, ancora mi
risuonava nella memoria, alla frase enigmatica alla fine del fascicolo ed alla nota che quella mattina
avevo preso sulla mia agenda. Non dissi niente, come mi ero ripromesso cercai di non tradirmi con
le parole, ma forse le mie espressioni mi contraddicevano ed il rettore mi congedò con curiosa
cortesia, colma di atteggiamenti melensi, usi solo a coloro i quali devono nascondere i propri dubbi
o intenti.
Uscii dalla porta ed asciugai il sudore sulla mia fronte con un fazzoletto tirando un sospiro di sollievo,
il rettore voleva tastare il terreno, rendersi conto di ciò che sapevo, ma fortunatamente, in quel
momento, non sapevo nulla, non che la mia ignoranza potesse durare a lungo, ormai mi sentivo
all'interno di una trama, come i protagonisti dei libri proibiti, avventure che mio padre si sforzava di
raccontarmi quando ero bambino.
Andai nel bagno e chiusi dietro di me la porta a chiave, aprii la borsa e portai l'agenda alla pagina
dove avevo scritto l'annotazione dedotta dal fascicolo, di nuovo una sorpresa, le due lettere che
avevo riportato seguite da un punto ed altrettante cifre erano state corredate in testa da un'ulteriore
lettera ed in coda da un'altra cifra, con un messaggio che, nella stessa calligrafia di quello sul
fascicolo, lo completava con la frase "...puoi trovarci qui". Ero esaltato dall'idea di incontrare coloro
che desideravano a tal punto essere trovati da me e collegai subito il codice sulla mia agenda ad una
classificazione bibliotecaria; quindi mi recai in biblioteca ma nessun libro aveva più alcun catalogo,
tanto pochi ne erano rimasti; chiesi allora informazioni al custode della biblioteca che, prontamente,
mi confermò che i libri non avevano più catalogo dall'ingresso del clero nel consiglio direttivo
universitario, ma che se gli avessi riferito il codice avrebbe provveduto a controllare nel suo registro
se quello fosse un testo ancora presente in magazzino.
Sicuro che nulla avrebbe rivelato al custode del mio libro proibito provai a dargli quel codice di
riferimento, questo aprì un enorme tomo contenente molte righe cancellate, capii che i titoli
cancellati furono tempo addietro ritirati dalla censura ed attesi, senza alcuna speranza, il verdetto del
custode riguardo il testo da me cercato. Dopo qualche minuto di attesa, il custode chiuse il libro e lo
ripose sotto il suo bancone, del tutto inaspettatamente mi disse di seguirlo; riaccesa la mia smania
di sapere lo seguii ascoltandolo raccontare di un ripostiglio dove erano stipati i titoli che non erano
stati ritirati ma che erano comunque stati dichiarati non idonei dal consiglio didattico, entrammo
dentro una stanza buia e mi chiese di attendere che avesse riattivato la corrente alle lampade.
Mi risvegliai con un fortissimo mal di testa in una stanza asettica, sdraiato su una branda facevo
fatica a tenere gli occhi aperti, le luci accecanti mi misero in difficoltà e ci misi un po' ad abituarmi,
allora mi misi seduto, quando entrò lei. Una ragazza magnifica, dai capelli castani e gli occhi verdi,
non ricordo se fu per la botta in testa da cui mi ero appena risvegliato o per il fascino di quella
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ragazza che non afferrai una parola di ciò che mi disse, l'unica cosa che compresi fu che appena mi
fossi sentito
pronto potevo cercarla in biblioteca e che nel frattempo dovevo leggere un foglio che mi era stato
lasciato su un tavolino ai piedi del letto.
Appena mi ripresi lessi il foglio alla mia sinistra, un'altra fotocopia, questa volta di un manoscritto
miniato che sembrava antichissimo, era bello ed emozionante solo guardarlo: con una lingua
dimenticata raccontava una leggenda, la profezia che riguardava un certo Federico II di Svevia,
imperatore del sacro romano impero, questa non ne descriveva né la vita né la morte, ma ne
preannunciava il ritorno sulla terra dei vivi, mille anno dopo la sua dipartita. Non capii cosa potevo
fare io con queste parole, se non ammirare la maestria con la quale erano state scritte.
Mi alzai e mi diressi fuori, un corridoio suddivideva decine di stanze piene di ragazzi di tutte le età
dediti all'apprendimento delle materie più varie e giovani che, con convinzione, insegnavano dalla
pittura alle arti marziali, dalla musica alla matematica. Ogni porta a vetri che passavo mi appariva
come una finestra su quel mondo utopico, poetico e bellissimo che nemmeno lontanamente avevo
mai avuto l'ardire di sognare.
Le meravigliose stanze finirono e mi ritrovai catapultato in un luogo che di asettico aveva nulla,
un'immensa sala colma di libri alle pareti con tavoli in legno per lo studio, avevo trovato la biblioteca.
Con lo sguardo cercai la ragazza di poco prima, ma fu lei a spuntarmi dietro le spalle e con un
bellissimo sorriso mi disse: «Ha letto la pagina che le ho lasciato, professore?» io risposi «Si, ma non
ho capito il motivo di tanta fatica, per incontrarmi sarebbe bastato un colloquio, non crede signorina
che una botta in testa con rapimento annesso sia un tantino eccessivo?» lei nascose una graziosa
risata dietro il palmo della sua mano, ma a me la situazione non faceva ridere affatto quindi mi
accigliai e proseguii nell'apologia di me stesso «Il solo fatto di avermi mostrato cose tanto proibite
quanto stupefacenti non vi dà il diritto...Maledetto bastardo traditore!» mi scappò dalle labbra un
insulto mentre infuriato mi lanciavo contro il custode della biblioteca che, cambiato d'abito, stava
arrivando nella nostra direzione, neanche riuscii a sfiorarlo che questo, con l'estrema naturalezza di
un solo movimento, mi sollevò e mi accompagnò gentilmente a terra sostenendomi per un braccio
e disse «Professore, mi deve scusare per l'incontro di questa sera, ma era necessario portarla qui
senza destare sospetti» io, sbigottito dall'abilità con la quale ero stato arrestato, non riuscii a
ribattere nulla e la mia rabbia svanì di colpo «Professore, ha già conosciuto Franco Viti, custode della
biblioteca dell'università Nuova Sacra Scienza, ex incursore della marina militare, capo della
sicurezza di questa struttura e maestro di arti marziali dei Ragazzi di Puglia» ancora stordito da
quella fulminea sconfitta abbandonai le polemiche e mi affidai all'aiuto che mi offrì Franco
porgendomi la mano per rialzarmi e nel mentre chiedevo «Ragazzi di Puglia?» la ragazza rispose
«Professore, venga con me, avrà tutte le risposte che cerca» Franco si rivolse alla ragazza e disse
«Sono venuto a dirvi che il Magnifico vi riceverà alle ventidue zero-zero» e continuò rivolgendosi a
me «sono onorato di aver fatto la sua conoscenza professore, ora devo andare, ci saranno
sicuramente altre occasioni per parlare ma ora è meglio che la lasci nelle buone mani di Lelia» batté
i tacchi portandosi per un attimo la mano alla fronte verso Lelia e si allontanò da noi.
Feci in tempo a girarmi verso la splendida Lelia che lei disse: «Mi chiamo Aurelia, ma qui tutti mi
chiamano Lelia, sono nata il 13 Dicembre del 2250 e sono una Ragazza di Puglia. Mi segua, devo
raccontarle tutto, ma non c'è molto tempo, il Magnifico ci riceverà tra poco» Ci avviammo verso un
tavolo dove già era aperto un antico tomo dalle dimensioni enormi ed io chiesi di nuovo chi fossero
i Ragazzi di Puglia, Lelia mi rispose «Va bene, iniziamo da qui, i Ragazzi di puglia sono un gruppo di
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giovani della mia stessa età condannati a morte dalla Chiesa per essere nati il 13 Dicembre 2250, ha
presente il foglio che le ho lasciato in camera? Quello riguardante la profezia di Federico II di Svevia?
Ebbene, l'imperatore del Sacro Romano Impero Federico II di Svevia, nipote del grande conquistatore
Federico Barbarossa, era un filantropo amante delle culture esotiche, mecenate di ogni arte e
fondatore dell'università che oggi conosciamo come Nuova Sacra Scienza, ma che fino a duecento
anni fa era intitolata proprio a Federico II. Oggi il nome di Federico II è stato cancellato da ogni testo
ed ogni libro che riguardasse la sua figura è stato messo al bando e bruciato nel nome di Dio a causa
della profezia che recita la reincarnazione di Federico II a mille anni dalla sua morte, anche noi
crediamo in questa profezia e speriamo si avveri per avere finalmente in Italia e nel mondo un uomo
che con il suo spirito gentile e la sua luminosa intelligenza ci guidi verso tempi migliori. Federico II
era chiamato anche Stupor Mundi, meraviglia del mondo e Puer Apulie ovvero ragazzo di Puglia, da
qui deriva il nostro nome in quanto Federico è morto il 13 Dicembre dell'anno 1250, esattamente
mille anni prima della mia nascita e di quella di tutti i Ragazzi di Puglia. Anche la Chiesa ha preso
molto sul serio la profezia, in quanto essendo Federico un Imperatore non asservito alla Chiesa, cosa
molto atipica per quel tempo, venne scomunicato per non aver partecipato attivamente alla Crociata
contro i musulmani e venne bollato come eretico perfino da Dante Alighieri che lo inserisce nel Sesto
Cerchio dell'Inferno, La Chiesa ha interpretato la profezia dichiarando che mille anni dopo la morte di
Federico II, data la sua resurrezione sarebbe tornato
come Anticristo e quindi ogni bambino nato il 13 Dicembre 2250 avrebbe avuto per nascita una
condanna a morte, nel tentativo di scongiurare ogni evenienza. Se conosce le Sacre Scritture
ricorderà certo cosa fece Erode alla nascita di Gesù bambino, riesce a cogliere l'ironia della vittima
che si fa carnefice?» e continuò «Ora non sappiamo chi tra noi sia la reincarnazione di Federico II di
Svevia, ma siamo vivi grazie a coloro che ci hanno istruiti ed addestrati fin dal giorno della nostra
nascita e combattiamo coloro che tentano di riscuotere le taglie sulla nostra testa, questi si fanno
chiamare I Guardiani del Sesto Cerchio e sono convinti che ucciderci non sia omicidio, ma rimandare
Federico II al posto che gli spetta tra i dannati dell'inferno. L'ordine dello Stupor Mundi ed i Guardiani
del Sesto Cerchio si preparano da centinaia di anni per combattere questa guerra e finora sono
riusciti a decimare le nostre fila, noi Ragazzi di Puglia non siamo rimasti in molti, ci siamo tutti
accentrati in questa struttura, sicuramente avrà visto le lezioni venendo qui, gli studenti sono i figli
della povertà, coloro che non possono permettersi di studiare, qui, trovano l'istruzione e l'arte che,
proibita, non potrebbero trovare altrove, gli insegnanti siamo noi.» Guardò l'orologio da polso e disse:
«Si è fatta l'ora, dobbiamo andare dal Magnifico.»
Presi tutto ciò che Lelia diceva con grande interesse, non ero a conoscenza dell'infanticidio, ma non
potevo negare che tutto ciò poteva essere plausibile, la Chiesa controllava tutta l'informazione, dopo
la Seconda Inquisizione, atto eclatante di viltà contro l'arte e la cultura ci si poteva aspettare di tutto.
L'unica cosa che non riusciva a convincermi era la storia della profezia, che a giustificazione del
fanatismo religioso funzionava, ma che non aveva nessuna connessione con la mia persona.
Perché ero lì?
Fine primo capitolo
Federico Massa
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«L’arte ha valore per la sua capacità di perfezionare la
mente e la sensibilità, più che per i suoi prodotti finali»
Fred Gettings, 1966
Nei secoli l’uomo ha sempre dato un valore speciale
all’arte per invocare forze propiziatorie, capaci di
ottenere, per esempio, una grande pioggia, dopo mesi di
siccità e di aver un buon raccolto, per celebrare la
“grandezza” di un Dio, di un popolo, di una persona, per
comunicare emozioni. I graffiti che spesso venivano fatti
nelle caverne erano le prime rappresentazioni del mondo
spirituale, delle giornate di caccia, e sono per noi
testimonianza del valore eterno che è l’arte come
comunicazione.
L'arte è “a mediazione corporea”, cioè attraverso il corpo
e le sue sensazioni visive, acustiche, tattili, olfattive,
attraverso l’organizzazione dello spazio e la percezione il
soggetto esprime emozioni e, insieme ai processi
cognitivi, si da forma all’esperienza, grazie all’utilizzo di
linguaggi creativi diversi e processi di simbolizzazione.
L'arte è, in poche parole, l’utilizzo di questi linguaggi, in
cui, l'organizzazione dell'esperienza sensoriale si carica
di contenuti profondi interni al soggetto.
In questo modo, i sensi diventano “porte d’ingresso”
attraverso le quali l'uomo fa esperienza del mondo,
interiorizzandolo dentro di sé, lo rielabora in una
rappresentazione mentale soggettiva per poi restituirlo e
comunicarlo di nuovo all'esterno, in un processo
circolare.
L’arte diventa strumento per arrivare nel profondo
dell’essere umano e carpirne l’essenza, ma anche la
sofferenza. E’ in grado di curare le ferite più profonde.
«Gli uomini - come scrisse Kandinsky in Lo spirituale
nell’arte nel 1912 - hanno reazioni diverse nei confronti
delle forme espressive, uno è più sensibile alla musica…,
un altro alla pittura, il terzo alla letteratura...le energie
racchiuse nelle varie arti sono fondamentalmente
diverse e quindi la loro somma rafforza il loro influsso
sull’uomo».
Ognuno di noi ha un canale espressivo preferenziale ed è
proprio quel canale che permette alle emozioni di
seguire un flusso dall’interno all’esterno e viceversa.
Pittura, scultura, musica, poesia, teatro, danza e le altre
nuove forme artistiche fanno parte del grande mondo
delle arti-terapie.
Cos’è l’arte-terapia? Come può un laboratorio creativo,
un corso di teatro-terapia diventare una cura per
processi disfunzionali attivi nella mente della persona
sofferente, o in generale, di un disagio psicologico?
L’arte in sé crea ben-essere, crea emozioni sia in chi la
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guarda e la apprezza, sia in chi la produce, poiché essa è
uno strumento di comunicazione di noi stessi al mondo.
Il processo creativo, messo in atto nel fare arte, migliora
la qualità della vita.
Attraverso l'espressione artistica è possibile aumentare
la consapevolezza di sé, affrontare problemi che
causano stress e/o disagio, esperienze traumatiche,
allenare le abilità cognitive e, non ultimo, provare il
piacere che la creatività porta con sé.
Come scrisse Bernie Warren in Arte-terapia in
educazione e riabilitazione:
Nell'atto di creazione di ciascun individuo l'arte nutre
l'anima, coinvolge le emozioni e libera lo spirito, e
questo può incoraggiare le persone a fare qualcosa
semplicemente perché vogliono farlo. L'arte può
motivare tantissimo, poiché ci si riappropria,
materialmente e simbolicamente, del diritto naturale di
produrre un'impronta che nessun altro potrebbe
lasciare ed attraverso la quale esprimiamo la scintilla
individuale della nostra umanità.
L'arte-terapia utilizza tecniche e metodologie a
mediazione artistica, come le arti visive, la musica, la
danza, il teatro, lo psicodramma, la costruzione e
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JobOK Magazine
narrazione di storie come mezzi terapeutici, per arrivare
alla realizzazione della persona nella sfera deficitaria
(come può essere quella emotiva, affettiva e relazionale)
che ha subito un blocco, un’empasse e per questo crea
squilibrio e non fa proseguire la persona nel suo stato di
benessere. Quante volte le difficoltà, che possono essere
lavorative, relazionali, familiari, ci pongono in una
posizione inerme di passività, dove la situazione di
disagio tende a prendere le redini della nostra vita e
sembra che il nostro ruolo sia solo ed esclusivamente
subire. Qui entra in gioco l’arte-terapia come intervento
di aiuto e sostegno alla persona, la quale tende ad
riattivare, attraverso alternativi modi di comunicazione,
la persona, rendendola di nuovo non solo partecipe della
propria vita, ma protagonista del cambiamento. Un
cambiamento che aumenta l'autostima e che ci fa
percepire come individui capaci di fare e di esprimere in
un contesto di relazione con il gruppo nel quale si è
inseriti, facilitati dall’intervento dell’arte-terapeuta.
L’arte-terapia, intesa come attivatore di risorse interne,
già presenti in noi stessi, offre, così, la possibilità di
elaborare il proprio vissuto, dandogli una forma, un
colore e di trasmetterlo in modo creativo agli altri. Si
tratta di un processo in divenire del portare fuori da sè
per far emergere una consapevolezza e una conoscenza
nuova di aspetti dei nostri vissuti interni mediante la
praxsis espressiva, l'osservazione ed il confronto con il
gruppo.
A proposito dell’osservazione e del confronto c’è da
rilevare che tutta l’attenzione è posta agli aspetti artistici
ed espressivi, senza però dare un’interpretazione del
significato stesso del prodotto, poichè è nell'atto
creativo che il processo diventa terapeutico e non
nell’opera finita. Certo è che l’arte-terapeuta è in grado,
grazie alla sua formazione, di dare un senso “psichico” al
prodotto e sarà in grado di restituirlo alla persona per
aiutarla a fare chiarezza e decifrare la sua realtà.
Per poter partecipare ad un laboratorio di questo genere
non sono richieste abilità artistiche particolari o
esperienze precedenti in ambito artistico perché lo
scopo non è legato al giudizio estetico del prodotto ma
l’aspetto fondamentale è l’espressione delle emozioni e
di se stessi attraverso l’arte. Anche solo un segno o un
insieme di colori e linee apparentemente senza senso è
manifestazione autentica di un sentire profondo e come
tale, acquisisce un valore inestimabile.
Per tutti coloro convinti che un percorso
arte-terapeutico sia indirizzato solo a coloro che sono in
situazioni di sofferenza e grave disagio o solo alle
persone diversamente abili, è tempo di scardinare questi
pregiudizi. Tutti possono partecipare, soprattutto chi
vuole sperimentare, mettersi alla prova, ritrovare se
stessi, affrontare momenti di forte stress, o solo ottenere
maggior benessere.
Non si tratta di atelier o di corsi di pittura, danza, teatro di
matrice esclusivamente didattica, ma di un percorso
personale in grado di coniugare le procedure e la teoria
artistica con declinazioni e aspetti specificidella
psicoanalisi, della pedagogia, dell'antropologia, uniti in
una sola disciplina, l’arte-terapia.
Condividere questo tipo di esperienza, mette le persone
in grado di esprimersi attraverso lo scambio di ricordi,
stati d’animo, emozioni, immagini reali e fantastiche e
raccontare se stessi al gruppo. Attraverso l’esperienza di
un’altra persona possiamo riconoscerci, sentirci vicini,
percepire di non essere soli nella nostra sofferenza e,
condividendo con gli altri la nostra esperienza, possiamo
migliorare la qualità della nostra vita.
Tutto questo avviene in un ambiente sicuro e protetto, in
cui l'attività è facilitata dalle relazioni fra l’arte-terapeuta
ed il gruppo stesso, aspetto fondamentale in quanto
instaurare queste relazioni rende l’arte-terapia un
perfetto strumento di benessere.
Simona Lo Piccolo
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Il 25 agosto 1968 una rumorosa band proveniente da
Detroit si esibisce contro una convention democratica di
Chicago. In questo momento gli Stati Uniti stanno
vivendo uno dei periodi più difficili dai tempi della guerra
di secessione: il '68 è infatti l'estate delle rivolte urbane,
cominciata con gli assassini di Robert Kennedy e Martin
Luther King. La convention dei democratici doveva
trovare un sostituto a Kennedy, ma venne organizzata
una grande manifestazione per protestare contro il
candidato prescelto, il senatore George McGovern.
Insieme a diversi intellettuali intervengono cinque
rockettari che, con un suono aggressivo e disturbante
riusciranno ad esprimere a volumi altissimi tanta
aggressività repressa. La doppia chitarra del duo Wayne
Kramer/Fred 'Sonic' Smith, unite alla voce dilatata di Rob
Tyner, una sorta di Elvis in versione estrema, danno vita
al cosiddetto proto-punk, una personale miscela di
rock'n'roll e primissimo heavy metal. Completano la
formazione Michael Davis (basso) e Dennis Thompson
(batteria). La valanga di watt derivante dai loro
amplificatori strega il rivoluzionario americano John
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JobOK Magazine
Sinclair spingendolo a reclutarli come evangelisti
musicali del suo movimento radicale di sinistra
denominato White Panters (un gruppo di studenti
bianchi che lottavano sia per i loro diritti che per quelli dei
neri): il suo obiettivo, una volta divenuto manager, sarà
quello di utilizzare la musica della band per far passare le
proprie idee politiche. Banditi dalla guardia nazionale,
che impedisce loro di accedere al Lincoln Park con un
camion sul quale avrebbero dovuto esibirsi, la folla
insorge scatenando cinque giorni di guerriglia urbana
che porteranno a numerosi arresti e feriti tra
manifestanti e forze dell'ordine. Anche se è solo uno dei
tanti episodi di violenza di quell'estate, quel giorno il
mondo scopre gli MC5 (abbreviazione di 'Motor City
Five') che, col live Kick Out The Jams (1969),
diventeranno una leggenda del rock più sovversivo ed
estremista. Registrato la notte di Halloween del 1968,
questo
devastante
live
è
un
elettroshock
politico-musicale, specchio di un cambiamento epocale,
nella musica come nella società. L'attacco di Ramblin'
Rose, l'assalto frontale di Borderline e la terribile Rocket
Reducer No. 62, apice della rabbia iconoclasta del
quintetto, rendono questo disco un punto di rottura tra il
prima e il dopo nella musica rock.
All'inizio degli anni '70 qualcuno non condivide più
l'attitudine artistica e di vita delle rockstar cercando di
tornare alle motivazioni originarie, al vero spirito del
rock'n'roll. Il fallimento degli ideali della Woodstock
Generation porta ad un totale distacco tra performer e
spettatore, celebrando il passaggio dall'underground al
mainstream. Se con Star Spangled Banner Jimi Hendrix
aveva evocato con un suono incendiario le mitragliate
dell'esercito americano in Vietnam, decretando (in
musica) il fallimento dell'esportazione democratica,
poco dopo verrà elevato a rockstar intoccabile,
fagocitato dalla tanto odiata industria discografica. Alla
pari di New York, che nei primi anni '70 si trova in uno
stato di degrado strutturale, economico e sociale, il
contesto inglese nel 1975 non se la passa meglio: una
parlamentare di nome Margaret Thatcher è leader del
Partito Conservatore diventando, solo qualche anno
dopo, Primo Ministro inglese. La recessione economica
e la disoccupazione, mai così alta dal 1940, aumentano
le tensioni politiche e sociali generando paura, rabbia e
odio razziale nelle strade. La rottura tra padri e figli è
sancita dall'atteggiamento di due aspiranti musicisti: un
19enne coi capelli tinti di verde di nome John Lydon
(futuro Johnny 'Rotten' per via dei suoi denti marci),
frequentatore di un locale feticista chiamato Sex che
indossa una t-shirt dei Pink Floyd con su scritto “Io odio
i”; ed un suo amico e coetaneo che, durante un
programma quotidiano per famiglie, litigherà in modo
così acceso col 50enne presentatore da far salire in soli
due minuti lo share alle stelle. Si chiama Steve Jones e,
insieme a John ed altri amici (tra cui Sid Vicious, entrato
purtroppo
nell'olimpo
delle
rockstar
morte
prematuramente) fanno così la loro prima apparizione
pubblica come membri di una emergente rock band. Gli
insulti al suddetto intervistatore, di nome Bill Grundy,
costeranno ai 'giovani teppistelli' una denuncia in
parlamento e diversi articoli sui quotidiani nazionali: su
tutti il Daily Mirror che titolerà: «The Filth and the Fury!»
(Oscenità e violenza!). In poco tempo l'episodio diventa
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l'argomento più chiacchierato in giro e la loro musica
sarà sovvertitrice delle regole musicali, sociali e
comportamentali,
ispirando
la
già
nascente
controcultura giovanile: nasce così il punk dei Sex
Pistols. Il nome deriva dal già citato Sex, un locale
stravagante di un certo Malcolm McLaren, in cui la sua
fidanzata (Vivienne Westwood, poi soprannominata 'la
stilista del punk') si occupa della realizzazione degli abiti.
E' qui che nasce la moda punk ed il proprietario, poi
manager dei Pistols, è una sorta di pensatore rock con
idee per l'appunto rivoluzionarie. Nel 1970 scrive un
manifesto che profetizza una delle massime del futuro
movimento: «Siate infantili, irresponsabili ed irriverenti.
Siate ogni cosa che la società detesta». Nato in un
celebre quanto squallido locale di New York denominato
CBGB And OMFUG (Country Blue Grass Blues And Other
Music For Uplifting Gormandizers) in cui, a dispetto del
nome che richiama a generi tradizionali come country e
bluegrass, si esibiscono molte band simbolo del
nascente punk americano (tra cui i famosissimi
Ramones), il movimento punk esploderà in modo chiaro
e definitivo nella Londra di metà anni '70. Se di fatto in
America è un'alternativa alla violenza di strada, in
Inghilterra la musica la fomenta e la rappresenta, perché
al disagio sociale non c'è speranza, messaggio
sintetizzato proprio dai Sex Pistols in uno slogan che
non lascia scampo: «No Future» (contenuto nel brano
God Save The Queen). Generatosi nelle periferie di
Londra, il punk offrirà ai teenager proletari un disperato
punto di riferimento, una nuova controcultura
disprezzata dalla società borghese. Vestiti di borchie ed
anelli, i ragazzi londinesi scaricano l'adrenalina
provocata dai Pistols scagliandosi uno contro l'altro,
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JobOK Magazine
sputando verso i musicisti sul palco come forma di
apprezzamento per i loro testi, mettendo in secondo
piano la tecnica e gli arrangiamenti. Il primo singolo dei
Sex Pistols, uscito per l'etichetta EMI nel 1976, s'intitola
Anarchy in the UK che, eseguita in un concerto alla
University of East Anglia, viene interrotta dalla scuola
con la motivazione della 'pubblica sicurezza'. Le note del
brano, in cui un allucinato Johnny Rotten urla di essere
un «anticristo anarchico» risulteranno un duro affronto
alle istituzioni oltre che un motivo in più per separarsi
dalla casa discografica, la EMI. Un altro brano-slogan
che farà la storia della band è la già citata God Save The
Queen, pubblicata nel 1977 in coincidenza col giubileo
della Regina Elisabetta. Anche se il messaggio è già ben
espresso nel brano, i Pistols non vogliono manifestare il
dissenso solo attraverso la musica, ma deridere la
ricorrenza dei 25 anni di reggenza di Elisabetta II
attuando una protesta alquanto singolare: s'imbarcano
su un battello e navigano sul Tamigi cantando il loro
nuovo inno. Le parole, così tradotte, non lasciano
equivoci: «Dio salvi la Regina e il regime fascista, ti
hanno instupidito e trasformato in una bomba... Dio salvi
la Regina, non è un essere umano, non c'è futuro per il
sogno inglese, nessun futuro per te, nessun futuro per
me». A questo punto interviene la polizia, la band fugge
ed il loro manager viene arrestato. Nei giorni seguenti i
membri dei Sex Pistols saranno vittime di assalti e
pestaggi, situazioni che li porteranno in breve tempo allo
scioglimento. Sia Anarchy in the UK che God Save the
Queen finiscono nell'album simbolo dei Sex Pistols,
intitolato Never Mind The Bullock's che esce per la Virgin
nel 1977. L'eredità che lasciano sarà fondamentale per le
band a venire: da questo momento in poi, infatti, vivere
fino in fondo ciò che si canta diventa un imperativo
categorico. E l'espressione allucinata di Johnny Rotten,
insieme al corpo sfregiato del bassista Sid Vicious
saranno il simbolo dell'anarchia nel Regno Unito, degli
'anticristi anarchici' nati con una sola missione:
distruggere il sistema.
Il 20 aprile 1978 le associazioni Rock Against Racism
(nata sull'onda di una dichiarazione razzista di Eric
Clapton) e Anti-Nazi League organizzano il “Carnival
Against The Nazis”. L'intento è quello di sensibilizzare
l'opinione pubblica sulle tendenze naziste che
attraversano il Paese. Dato che il partito di estrema
destra National Front incita al razzismo e rischia di
raccogliere molti consensi alle elezioni locali, migliaia di
persone marciano da Trafalgar Square a Victoria Park,
raggiungendo le già tantissime persone accorse al
concerto evento. Saranno più di 80mila e tra i tanti, come
mostra una foto dell'epoca, figurano sul palco di spalle i
musicisti di una nascente band che imbracciano i loro
strumenti. Per il folksinger Billy Bragg, “Carnival Against
The Nazis” «è il momento in cui la mia generazione
aveva scelto con chi stare». Ma le posizioni anti-naziste
del punk, che come abbiamo visto rifiuta qualsiasi
ideologia tradizionalista, sono assai ambigue: ne sono
un esempio l'utilizzo di svastiche nel vestiario di alcuni
musicisti, che le indossano più che altro per moda, con il
risultato che i simboli del Nazismo sono svuotati di
qualsiasi connotazione storico-ideologica. Ma dal 1978
le cose sono destinate a cambiare: grazie infatti al
precedente mega-concerto una parte del punk si
ideologizza e, dotandosi di una propria coscienza
politica, si allontana dal nichilismo dei Sex Pistols. Non
serve più attaccare il sistema con suoni e testi violenti, il
punk inglese adesso si mostra solidale con le minoranze
afro-caraibiche attaccate dai militanti del Front,
generando una contaminazione con altre sonorità, in
particolare col reggae di Bob Marley. L'album manifesto
di questo 'nuovo punk' è London Calling (1979) dei
Clash, la band fotografata di spalle nel suddetto
concerto: una miscela di punk classico, rockabilly, jazz,
dub e reggae. A differenza dei Sex Pistols, che
mettevano in scena una musica caotica di connotazione
anarchica, i Clash utilizzano le energie represse
attraverso una musica che combatte le battaglie
progressiste. Invece che fomentare la rabbia, essi
cercano di incanalarla in una musica che parla il
linguaggio dell'onore, della verità, del sacrificio e della
battaglia. Come descritto in Death or Glory, un brano di
London Calling, «afferrano il microfono per farci sapere
che moriranno piuttosto che svendersi». Come nel caso
dei Pistols e la maggior parte dei gruppi punk, saranno
sempre in bilico tra fedeltà alle radici underground e
contratti con le etichette importanti (la CBS). Anche i
Clash frequentano il giro di Sex ed il loro manager Bernie
Rhodes fa affari con McLaren. A suonare sono in 4: Joe
Strummer (chitarra e voce), Mick Jones (chitarra
solista), Paul Simonon (basso) e Topper Headon
(batteria). Le uniformi militari che indossano, come
sempre ben realizzate da Vivienne Westwood, sono una
provocazione all'ordine sociale costituito. Nel primo
singolo White Riot (The Clash, 1977) danno infatti
l'impressione di essere dei soldati in missione,
utilizzando quindi l'energia del punk per commentare il
contesto sociale. Messo da parte l'immaginario delle
svastiche modaiole, Strummer e Simonon scrivono
questo brano dopo aver assistito agli scontri del 1976 al
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carnevale di Notting Hill fra immigrati e poliziotti. E' un
momento decisivo per la storia inglese, che porterà
all'approvazione della legge antidiscriminazione nota
come Race Relations Act. Le parole sono forti: «I neri
hanno un sacco di rogne ma non si fanno problemi a
scagliare un mattone / i bianchi vanno a scuola ed
imparano a instupidirsi». Dato che la rivolta nera è già in
atto, pensano i Clash, è tempo anche di una rivolta
bianca. Da The Clash vengono fuori inni di malcontento
generale: I'm So Bored With The USA critica
l'americanizzazione del Regno Unito; Hate & War è una
risposta all'ormai ripudiato slogan hippie “peace & love”;
Career Opportunities esprime il rifiuto per gli impieghi
che la società borghese offre ai giovani; Remote Control
e Garageland sono il manifesto della nuova gioventù
inglese: «Non hai i soldi, non hai potere, ti considerano
inutile. Ecco perché diventi punk». L'attacco frontale dei
Sex Pistols viene sostituito dalla lucidità dei Clash. La
definizione del suono della band di Joe Strummer
arriverà col già citato London Calling, un doppio album
archetipo del disco 'barricadero' che racconta storie di
emarginazione, rabbia e conflitto. La popolarità del
reggae in Gran Bretagna, per via della presenza delle
comunità di immigrati provenienti dai Caraibi, porta i
Clash a creare un punk in versione rasta come nuovo
tipo di resistenza culturale. Il tema dei rapporti razziali e
culturali verrà esplicitato in una canzone intitolata White
Man In Hammersmith Palais (1977), in cui viene
analizzata la distanza fra la realtà dei neri e la
rappresentazione romantica della loro cultura fatta dai
bianchi, interessati ai superficiali aspetti ribellistici. Nel
1980 i Clash pubblicano un album addirittura triplo
intitolato Sandinista!, come il movimento di liberazione
nazionale del Nicaragua. Con la convinzione che «il
1) Intervista a Mick Jones su Jamonline.it (rivista ideata dal
critico musicale Ezio Guaitamacchi) realizzata da Claudio
Todesco il 5 luglio 2013.
2) Pino Casamassima, Movimenti, Sperling&Kupfer Editori,
2013, p. 185.
3) Ezio Guaitamacchi, Anarchy in the UK. Ribellione Punk in
La storia del Rock, HOEPLI, Milano 2014, p. 309.
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JobOK Magazine
mondo non finisce fuori dal tuo quartiere», i 4 'soldati
rivoluzionari' definiscono ancora il loro sound, ribadendo
i valori fondanti dei loro testi: dignità, uguaglianza e
solidarietà. Sono eloquenti le dichiarazioni rilasciate da
Mick Jones in una recente intervista: «Facevamo musica
per noi stessi e per i nostri tempi […] Questo è il lascito
che i Clash hanno trasmesso alle generazioni che sono
venute dopo: lo spirito, l'impulso a cambiare, per
continuare a guardare in faccia il futuro […]»1. Queste
parole fanno rima con altre, quelle di Joe Strummer: «Ho
incontrato gente a cui il punk ha cambiato il modo di
vivere. Mi sento come se avessi letteralmente incontrato
ognuno di loro! […] Abbiamo cambiato il loro modo di
pensare e influenzato le decisioni che hanno preso nella
vita […] Abbiamo dato il 110% ogni giorno. Ma quando
incontri questa gente, persone che ti dicono che hai
avuto qualche effetto sulla loro vita, allora senti che
valeva assolutamente la pena»2. E se il famoso
musicista Sting considerava l'attitudine dei Clash come
«un culto fallico della chitarra e del fucile»3 forse non
teneva conto di una cosa: l'indipendenza artistica che,
insieme a tante altre cose, ha reso il movimento punk
come il più contestativo nell’ambito (socio) musicale.
Elvio Degli Agli
IIl teatro è parola, gestualità, musica, danza, vocalità,
suono. Il teatro è emozione.
Sono di questo avviso le due dottoresse Mariantonietta
Della Corte e Diana Grosso, che da anni lavorano con i
ragazzi disabili tramite il teatro nell'associazione
"Perché no?!" Oggi le abbiamo incontrate per farci
raccontare cosa fanno con questi ragazzi nel territorio
Romano.
Come intendete il teatro?
Il teatro, come lo intendiamo noi, non è solo un luogo di
intrattenimento e svago culturale ma anche e
soprattutto un ambiente protetto dove potersi mettere
alla prova, avendo la possibilità di sperimentare tutti i
vissuti legati ad i ruoli interpretati.
Come nasce la vostra iniziativa?
Cosa proponete a questi ragazzi?
L’iniziativa parte da un dato concreto, ovvero che Ostia,
pur essendo un territorio che può vantare la presenza di
5 teatri, non presenta dei progetti artistici dedicati alla
disabilità. Il nostro interesse a questo tema si è ormai
consolidato attraverso il lavoro e le esperienze che ci
mettono a contatto con la diversità in ogni sua forma
fisica, motoria e relazionale. Siamo partite proprio dalla
nostra esperienza e abbiamo potuto confermare in
questi anni che soprattutto i disabili dovrebbero
beneficiare dell’utilissimo strumento terapeutico del
teatro.
Numerose sono le iniziative e le realtà già esistenti nel
territorio italiano: Il “Teatro sociale di Rovigo”, “la
Compagnia Officina” e il “Teatro Prova” di Bergamo, il
“Teatro del Buffo” della Compagnia di teatro integrato e
ancora il Teatro Patologico di Roma. Queste sono solo
alcune preziose testimonianze di come “disabilità e
teatro” rappresentino, per la società, un binomio
vincente.
40
JobOK Magazine
I corsi che proponiamo mirano a rendere le persone più
consapevoli delle proprie emozioni attraverso dei
percorsi di esplorazione emotiva, permettendo così
all’utente di affrontare, tramite il pretesto teatrale, un
vissuto di disagio, difficoltà o discriminazione e così
reagire più prontamente nella vissuto quotidiano.
La magia del teatro, e della terapia, nasce nel momento
in cui, sulla scena, l'attore diventa altro, quando la sua
identità reale è sostituita da quella di un personaggio
fittizio, quando gli attori entrano a far parte di un mondo
immaginario che s'impadronisce delle forme della
realtà. L'attore è l'artefice di questo miracolo. Quindi,
quello che proponiamo è un esperienza ludica e
formativa dove poter mettere a nudo la propria
sensibilità e mostrarsi così come si è, senza quella
spiacevole etichetta di disabilità che, troppo spesso,
tende a qualificare in negativo l’intera persona piuttosto
che evidenziare le molte potenzialità.
Come si struttura un vostro corso di teatro?
Mi parlavate di un altro corso, di cosa si tratta?
I nostri corsi si svolgono al Teatro Nino Manfredi di Ostia,
al quale rivolgiamo un grande ringraziamento per la
cortese disponibilità degli spazi e del tempo dedicatoci.
Un grazie di cuore, inoltre va a tutte le persone che
collaborano con noi e che ci aiutano nella gestione e
organizzazione degli spettacoli, costumi, e tanto altro. I
corsi sono principalmente due e seguono due progetti
diversi: uno per giovani dai 4 ai 16 anni che ha come
linea guida il portare la disabilità fuori dai contesti della
riabilitazione e dell’assistenza, trattandola come
argomento di riflessione culturale: un tema che diventa
quindi argomento comune, non solo di coloro i quali ne
sono protagonisti diretti, questo progetto si chiama
"Tutti insieme" ed il nome rispecchia perfettamente
l’anima del progetto, con l’intento esplicito di abbattere il
muro di diffidenza che le etichette di normalità e
disabilità creano nella mente delle persone, nella
convinzione di essere tutti diversamente uguali ed
ugualmente diversi; in questo laboratorio ci dedichiamo
all'esplorazione dell'arte teatrale tramite esercizi
accuratamente rivisitati ed adattati, per sviluppare la
creatività, la fantasia e l’immaginazione, fondamentali
per qualsiasi esperienza di recitazione. Alla fine del
percorso mettiamo in scena uno spettacolo creato e
pensato con i ragazzi, lo scorso Giugno siamo andati in
scena con uno spettacolo dal titolo "Il Piccolo Principe"
dove la scenografia era una proiezione dei disegni che i
bambini hanno fatto durante il corso dell'anno.
Si, il secondo corso è dedicato agli adulti, il progetto si
chiama “Su la maschera!”, dura nove mesi e garantisce
all’utente un’esperienza di esplorazione emotiva il
mondo teatrale a tutto tondo. Grazie a questo progetto si
è formata una piccola compagnia di teatro "Su la
Maschera", realtà che dal 2011 mette in scena con
competenza ed entusiasmo spettacoli originali; il
progetto include, per i partecipanti, la visione degli
spettacoli teatrali in programmazione al teatro "Nino
Manfredi", le tematiche accuratamente selezionate e la
cortesia degli attori, ci forniscono sempre occasioni di
discussione, dove l’utente ha la possibilità di
confrontarsi con gli interpreti professionisti delle
compagnie teatrali, che possono condividere, in questo
modo, i segreti e le sensazioni che si provano dietro le
quinte.
Inoltre, siccome crediamo fermamente in un’esperienza
teatrale a tutto tondo, nei nostri eventi è previsto anche
uno spazio per la gestione del bar e lo svolgimento delle
altre mansioni tipiche del mondo teatrale come la
maschera, offrendo in questo modo al partecipante
l’occasione di interagire con il pubblico, incrementando
così, in questo, l’autoefficacia, l’indipendenza e il senso
di competenza. Anche questo progetto prevede uno
spettacolo finale, grazie al quale, ogni anno, abbiamo
l’occasione per supportare i nostri ragazzi affinché la
loro esperienza sul palco si concretizzi in un evento dal
vivo. Proprio quest’anno abbiamo lavorato sulle
commedie di Eduardo De Filippo ed abbiamo potuto
portare in scena il riadattamento di “Quanto è bello a
chiagnere”.
Ringraziamo JobOk Magazine per questa intervista e
cogliamo l’occasione per invitare tutti i lettori a provare
l’esperienza teatrale e a venirci a trovare sulla scena.
Simona Lo Piccolo
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Barbara Kruger, I shop therefore I am, 1987.
Il consumismo e l’arte: quali sono i rapporti tra loro?
Questa domanda mi è balenata un bel giorno in mente alla
vista di un’immagine fotografica, opera dell’artista
americana Barbara Kruger, la quale, come molti altri artisti
ha deciso di perpetrare una critica al consumismo della
società americana degli anni 80’usando la pungente arma
dell’ironia, sulla scia di Warhol.
Scena tratta da Zabriskie Point (USA 1970)
di Michelangelo Antonioni.
Ironia sagace e colta: I shop therefore I am = compro
dunque sono; forse vi ricorda un tale Cartesio, che
pronunciò quella che è diventata la massima simbolo
dell’inizio della modernità storica e culturale
dell’occidente, famosa tanto quanto uno slogan della
coca-cola o la mela di Apple. Da Cartesio all’epoca
contemporanea della società dei consumi, la caratteristica
fondamentale dell’identità umana non è più la facoltà di
pensare ma diventa per l’appunto esclusivamente quella
di consumare.
Immagini come questa ci pongono subito dinanzi ad una
domanda: dal consumismo si può uscire o no? Secondo
molti intellettuali “apocalittici” probabilmente no, anzi,
certamente no.
Allora ecco che entrano in gioco gli artisti e la loro arte che
dovrebbe renderci più consapevoli, fornirci gli strumenti
culturali per essere consumatori critici, vigili, attenti a non
farci intrappolare dai centri commerciali che sembrano
dorate gabbie che ci risucchiano nel loro vortice e non farci
stordire dalle meravigliose vetrine, all’ interno delle quali gli
oggetti sono disposti in modo così sapiente che sembrano
gridare “comprami”! Ma la questione fondamentale non
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JobOK Magazine
consiste nel domandarsi se esista una via di fuga dalla
“follia” consumistica, ma se si tratti davvero di una follia.
Che non siano forse l’arte stessa, gli artisti e gli intellettuali,
a dipingere in maniera eccessiva il consumismo e il
capitalismo moderno come una specie di Leviatano, una
sorta di mostro che fagocita tutto ferocemente?
Domanda di difficile risposta: la vita di milioni di persone,
consumatori
passivi,
scorre
placidamente
e
ingenuamente, mentre l’arte produce le sue critiche, per
poi esser venduta a milioni di dollari, cadendo così nelle
trame del mostro che tenta di criticare. Il valore pecuniario
o i ricavi economici sono indipendenti e non prevedibili a
priori, poiché tale valore monetario viene assegnato dalla
società soltanto dopo l’uscita dell’opera.
Cosa si salva allora dalle grinfie di un sistema dove
domina solo il valore del denaro? L’idea, il valore della
creatività, di quella senza prezzo, che non si può
acquistare né vendere, la pura e semplice meraviglia
dell’invenzione artistica, dove non conta il messaggio di
critica ma il modo che l’artista ha escogitato per produrre
quel contenuto.
Ecco allora a voi alcuni esempi mirabili che ho recuperato
scavando nella mia memoria, di opere cinematografiche
dove la priorità è la ricerca stilistica ed estetica e la
sperimentazione, ed altre opere che pur palesemente
commerciali, sono inaspettatamente portatrici di
significati di una certa complessità.
Iniziamo con la prima tipologia: il primo esempio è
costituito dalla meravigliosa scena finale del film Zabriskie
Point di Michelangelo Antonioni.
Visioni eccessivamente apocalittiche? Forse quelle dei
film no, le interpretazioni sì. I film rappresentano per
immagini ma non danno giudizi netti, i registi (Antonioni in
primis) pongono domande, senza dar risposte
preconfezionate. Concludiamo con queste molte
domande irrisolte, e con un famoso monologo a chiudere
Il secondo esempio è costituito da Zombie di Geroge A.
Romero. Da Antonioni agli zombie il salto può apparire
brusco, ma ha un senso, anche piuttosto semplice: non
solo il film d’autore trasmette dei messaggi interessanti,
ma anche il film di genere, come questo horror diretto dal
maestro Romero negli anni Settanta. La straordinaria
capacità di alcuni film commerciali di superare i limiti del
puro intrattenimento è emblematicamente visibile nella
celebre scena in cui gli zombi accalcati alle porte di un
centro commerciale simboleggiano la massificazione
della società e l’alienazione dell'uomo-consumatore. Quei
morti viventi siamo noi, vuol dirci Romero, che ci
aggiriamo imbambolati proprio come degli zombie per i
centri commerciali e i negozi. Reificati come burattini,
veniamo mossi da potenti multinazionali e lobby, e dal
sistema mediatico, il quale, sotto il loro controllo
finanziario, ci influenza su cosa comprare e cosa no.
la carrellata dei pochi ma significativi esempi di
rappresentazione cinematografica del consumismo. Un
monologo che si commenta da solo.
Dawn of the Dead (Zombie, 1978) di George A. Romero.
La sublime musica dei Pink Floyd accompagna le
immagini del sogno della giovane hippie protagonista:
l’esplosione della casa dei ricchi borghesi, che
simboleggia il Palazzo del potere. I simboli del
consumismo vanno in frantumi sullo sfondo azzurro del
cielo, dando vita a quadri da Pop art.
Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera;
scegliete la famiglia; scegliete un maxi televisore del
cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e
apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il
colesterolo basso e la polizza vita; scegliete un mutuo a
interessi fissi; scegliete una prima casa; scegliete gli amici;
scegliete una moda casual e le valigie in tinta; scegliete un
salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del
cazzo; scegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la
domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a
spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi
ingozzate di schifezze da mangiare…
(Tratto da Trainspotting 1996, di Danny Boyle)
JOBOK.EU/USER/GIOVANNA
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Passeggiando per Bologna, tra piazza Maggiore e le più
di ieri si schieravano contro il dilagante capitalismo e
Bohemiennes Piazza Verdi e Via del Pratello, potrete
assumevano posizioni favorevoli a nuovi pattern non
imbattervi in personaggi singolari; sotto i portici della città
convenzionali. Anche attraverso la vena nostalgica e
vecchia risuona il rumore delle loro stringate lucide, hanno
vintage che segnava il loro look, contestavano una società
barbe folte e baffi alla francese e indossano con disinvoltura
orientata sempre più verso il consumismo sfrenato, senza
occhiali dalle montature stile primo‘900. Se pensate che si
accorgersi, come spesso accade nelle sottoculture, di
tratti semplicemente di giovani alternativi dall’aspetto
diventare essi stessi un fenomeno di tendenza. Lo stesso
anacronistico, sappiate che in realtà siete di fronte ai
Maier, quasi lungimirante, scriveva infatti: << tutto in loro è
rappresentati di una delle sottoculture più diffuse e longeve
attentamente costruito per dare l’idea che non lo sia>>. Non
del mondo, gli hipsters e Bologna, secondo il Sunday Times,
a caso, gli hipsters di oggi sono un vero e proprio trend ma
sarebbe
alle
con un valore aggiunto ovvero la coscienza: La loro
contaminazioni culturali tra studenti di tutto il mondo che
quotidianità è scandita da scelte ben precise, e nonostante
affollano la città.
qualcuno potrebbe pensare che si tratti solo di giovani che
Ancora incerte sono le origini della parola hipster, coniata
giocano a fare gli alternativi per pura provocazione o vanità,
probabilmente negli Usa intorno agli anni ‘40 per indicare
essi continuano a preferire la bici alle inquinanti automobili,
alcuni
bassa
abiti retrò di mercatini e artigiani al finto vintage dei più noti
appassionati di musica bepop e hot jazz che con questo
brand giovanili, il cibo biologico (e perché no vegano), l’ arte,
termine si distinguevano dai fan dello swing . La cultura
il design, la fotografia e il cinema purché lontano dal
hipster si sviluppò soprattutto dopo la seconda guerra
mainstream. La sola differenza con il passato è la necessità
mondiale e nel 1967 lo scrittore Norman Mailer, nel suo
di condividere i loro ideali e ciò avviene attraverso la
saggio Il bianco negro provò a formularne una definizione:
tecnologia e soprattutto i social, primo fra tutti Instagram, di
<<si tratta di esistenzialisti statunitensi […] che decidevano
cui non possono fare a meno e grazie al quale si
di divorziare dalla società e vivere senza radici>>. In
catapultano
sostanza il movimento hipster nacque con l’intento di
portandovi un po’ di quel mondo antico, lontano e
proporre uno stile di vita anticonformista, perseguito nel
affascinante a cui si ispirano racchiuso in una foto dal filtro
tempo anche dalle successive sottoculture, fino ai più noti
seppia…of course.
la
città
ragazzi
più
bianchi
hipster
della
d’Italia,
classe
grazie
medio
Hippies. Poco interessati alla politica “di partito”, gli hipsters
direttamente
nella
società
moderna,
Emanuela Piacente
JOBOK.EU/USER/MILA 45
PLUM CAKE
VEGGY STYLE
Ieri mentre riflettevo e guardavo il mio frigo con disapprovazione ho visto degli spinaci
lessi pronti per essere trasformati, ma in cosa? … un plumcake, come quello che ho
mangiato qualche giorno fa per il compleanno del nostro amico Gianluca, ma…..
Veggy Style.
PROCEDIMENTO
Facciamo scolare bene gli spinaci e lasciamoli freddare, se stanno una
notte in frigo è meglio, frulliamoli con il mixer ad immersione insieme
alle uova, all’acqua, all’olio ed al sale. Aggiungiamo la farina ed il lievito
che abbiamo setacciato insieme precedentemente (io ho continuato
INGREDIENTI
ad utilizzare il minipimer anche per questa operazione, ma vanno bene
anche le fruste elettriche), per ultimo aggiungiamo la caciotta e
3 uova
100ml di olio di semi di girasole
100ml di acqua
300g di farina 00
1/2 bustina di lievito
500g di spinaci lessi
1 cucc di sale
1 tazza di caciotta di mucca a cubetti
(o qualsiasi formaggio abbiate in casa)
semi di lino per guarnire (vanno bene
anche semi di papavero, girasole o
qualsiasi altro vi piaccia)
mescoliamo con un cucchiaio. Ungiamo e infariniamo lo stampo da
plumcake, versiamoci dentro il composto e cospargiamo il tutto con i
semi. Schiaffiamo il tutto nel forno preriscaldato a 180°C per 40-50
minuti, il tempo varia da forno a forno quindi a 40 minuti consiglio il test
dello stecchino, se esce dal tortino asciutto possiamo tirarlo fuori.
Aspettiamo che si freddi un po’ e sformiamolo.
Il colore è bellissimo, fa gola solo a guardarlo. Spero vi piaccia ;P
JOBOK.UE/USER/EDOARDOMASSA
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Questa rubrica descrive, analizza e valuta la qualità,
il significato, e l'importanza di un libro, non è un
angolo critico, ma solo il pensiero di chi
come voi ama leggere
Sostiene Pereira
di Antonio Tabucchi
iamo nel 1938 a Lisbona in pieno regime dittatoriale e il nostro protagonista è
S
un uomo di mezza età di nome Pereira che per vivere si occupa della pagina
culturale di un modesto giornale locale, il Lisboa. L’autore Antonio Tabucchi ce lo
descrive come abitudinario, sovrappeso, cardiopatico e totalmente incapace di
prendere una posizione. Pereira è un uomo che si lascia trascinare dagli eventi
senza mai dire la sua, senza mai protestare. Ma la conoscenza di un giovane
ribelle chiamato Monteiro Rossi e alcune circostanze particolari, tra cui
l’assassinio proprio di quest’ultimo, faranno sì che egli cambi il suo modo di
vedere le cose e inizi a reagire tirando fuori un coraggio di cui nessun lettore
sospetterebbe mai.
ostiene Pereira è un romanzo breve in cui ogni pagina è ricca di contenuti
S
significativi che ci catturano e trascinano con la forza del messaggio che vogliono
trasmettere. Perché quello che conta, al di là del momento storico in cui la vicenda
si svolge, è l’evoluzione di quest’uomo di mezza età vedovo e amante delle
limonate zuccherate: è questo che dà un senso all’intero corpo del racconto.
Nell’arco dell’intera narrazione, Pereira si trasforma, cresce, acquista
consapevolezza fino ad esplodere in una nuova personalità o forse in una
personalità che già aveva, ma che teneva nascosta, per paura, per codardia e,
perché no, per comodità. Ma l’uccisione del giovane collaboratore, fa scattare
qualcosa in Pereira. Davanti all’efferatezza del crimine e soprattutto davanti alla
sua ingiustizia, egli non si tira indietro: decide di reagire e di usare le sue
competenze per dire, finalmente, ciò che pensa. Perché la giustizia non si fa solo
con i grandi gesti, ma anche con quelli che all’apparenza hanno un minore
impatto: come un articolo su un piccolo giornale locale; d’altronde la scrittura è
uno dei mezzi che più di tutti ci permette di esprimere noi stessi.
Di Pereira colpisce il suo essere un uomo comune, un uomo in cui ognuno di noi
può immedesimarsi. Per tutta la durata della storia, Tabucchi riesce con la
potenza delle sue parole e con l’ottima caratterizzazione del personaggio a farci
percorrere insieme a quest’ultimo il cammino intrapreso, dalla completa
indifferenza alla piena presa di coraggio.
Questo romanzo ci offre un importante spunto di riflessione attraverso una prosa
scorrevole e ben costruita. Ci fa capire che non importa indossare un mantello per
essere un eroe. A volte si può essere anche l’esatto contrario. Proprio come il
nostro Pereira che è l’anti eroe per eccellenza ma che stupisce tutti con il suo
gesto di riscatto.
Titolo: Sostiene Pereira
Autore: Antonio Tabucchi
Anno di pubblicazione: 1994
Edizione consigliata: Feltrinelli,
Economica Universale, 2014, 214 p.,
€ 8,00 (disponibile e-book a € 5,99).
Sara Petrucciani
JOBOK.EU/USER/SUMMER01
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