LA PRODUZIONE
Un paio di sneaker costituisce il punto d’arrivo di una complessa rete di attività che si
svolgono in paesi molto lontani fra loro. Tutto ha inizio negli uffici di progettazione di una
multinazionale, dove gli esperti più svariati studiano il nuovo modello che la pubblicità renderà
noto e desiderabile; una volta deciso il modello, si cerca l’azienda che lo realizzerà al minor
prezzo e si firma il contratto. La Air Max Penny, ad esempio, è un modello disegnato
nell’Oregon e nel Tennessee, con l’apporto di tecnici della Corea del sud e di Taiwan,
fabbricato nella Corea del sud e in Indonesia, con circa 52 componenti provenienti da cinque
paesi diversi; nel corso del processo di assemblaggio passa per 120 paia di mani.
Dall’Europa e dagli USA, negli anni 80 la produzione si è spostata prevalentemente in Asia: a
Taiwan e in Corea del Sud in particolare, ove sono presenti imprenditori locali disponibili a
contratti estremamente vantaggiosi, operai con bassi salari, alta produttività ed una rete ben
organizzata di fornitura di materie prime e componenti.
Nelle fabbriche lavorano giovani donne, i cui salari sono meno della metà di quelli maschili.
La città costiera di Pusan, in Corea del sud, diviene la capitale mondiale delle sneaker.Tra il
1982 e il 1989 gli USA hanno perso 58500 posti di lavoro nel settore delle calzature a favore
di questa città, situata in una posizione favorevole per gli scambi internazionali. La
produzione interna americana, negli stessi anni, è andata progressivamente diminuendo.
Le aziende americane ed europee leader del settore in questi anni concludono accordi di
subappalto della manifattura ad aziende sudcoreane che consentono loro di non essere
responsabili della salute e della sicurezza degli operai e delle relazioni sindacali; conservano
per sé il design e il marketing.
Le donne riescono però ad organizzarsi in un movimento democratico di lotta contro il
degrado delle condizioni di lavoro, le umiliazioni, la povertà dei salari; ottengono il diritto di
organizzarsi in sindacati femminili e le loro paghe, che nel 1980 erano il 45% del salario
maschile, nel 1990 salgono ad oltre il 50%.
E’ un risultato modesto ma importante.
La risposta di molte aziende subappaltatrici è però quella di trasferirsi in Cina, Indonesia,
Tailandia, Vietnam, dove i salari sono più bassi, trasformandosi a loro volta in multinazionali
che investono soprattutto in paesi del sud del mondo.
All’inizio degli anni Novanta, la mobilitazione di alcune organizzazioni impegnate nella difesa
dei diritti umani porta alla luce ciò che non compare negli spot pubblicitari: la realtà produttiva
delle fabbriche asiatiche è in contrasto con l’immagine di aziende come Nike e Reebok che si
costruisce su slogan e personaggi non conformisti, antiautoritari e sulla promessa del
miglioramento sociale raggiunto attraverso il benessere fisico e l’affermazione nello sport.
Negli USA, in questi anni, i media documentano sistemi brutali di produzione, maltrattamenti
e nessuno scrupolo per l’ambiente. Un sondaggio fatto nel 1991 dalla ILO (International
Labour Organisation) rivela che che l’88% delle operaie che all’epoca lavorano a Giacarta al
minimo salariale - poco meno di un dollaro al giorno - sono malnutrite.
Le cronache dell’epoca registrano inoltre frequenti episodi di violenza originati dalla corsa alle
scarpe sportive; “per un paio di sneaker si può anche uccidere” riportano i giornali. Le storie
di ragazzini assaliti, malmenati e in qualche caso uccisi da altri ragazzini che volevano rubare
loro le sneaker o un giubbotto sono numerosissime: ne costituisce una tragica testimonianza
la vicenda di Michael Eugene Thomas, 15 anni, ”Uscendo da casa, lo scorso maggio...non
avrebbe potuto sentirsi più fiero. Grazie al duro lavoro di sua madre aveva ai piedi un
nuovissimo paio di Air Jordan...Il giorno dopo era James David Martin, 17 anni a camminare
con le fiammanti Jordan di Thomas, mentre il corpo di Thomas giaceva in un campo non
lontano dalla scuola. Martin è stato arrestato per omicidio...”(Harris,1989 in “Los
AngelesTimes” 12 novembre).
L’attenzione dell’opinione pubblica si concentra soprattutto sulle marche leader nel mercato e
note per aver devoluto, fra l’altro, milioni di dollari in progetti di utilità sociale.
Alle grandi marche si rimprovera di aver creato un mercato di desideri irraggiungibili, se non
attraverso attività criminali, perché fortemente mirato verso i gruppi sociali più poveri
d’America.
La Reebok risponde adottando, nel 1992, un proprio “codice di condotta” internazionale THE
REEBOK HUMAN RIGHTS PRODUCTION STANDARDS per il trattamento equo di tutti i
lavoratori e fa riferimento a norme riconosciute e stabilite dall’I.L.O.; anche la Nike si è dotata
di un proprio “codice di condotta”.
I sindacati e le organizzazioni per i diritti umani continuano a denunciare comunque abusi, in
Indonesia, Cina, Vietnam: straordinari obbligatori e salari “di formazione” al di sotto dei
minimi, mancato rispetto delle normative locali e anche dei propri “codici di comportamento”
cui le aziende dichiarano di attenersi. Le critiche non si sono limitate ai problemi dei lavoratori
asiatici, ma hanno coinvolto le sponsorizzazioni e le varie forme di affiliazione delle scuole.
Anche i codici di autoregolamentazione vengono messi in discussione. La questione resta
aperta fino ai giorni nostri, come risulta da quanto apprendiamo dall’articolo di Federico
Rampini, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” mercoledì 2 aprile ’08 .
Se analizziamo il prezzo finale di un paio di sneaker, notiamo che il costo della manodopera
rappresenta solo una piccolissima frazione rispetto alla cifra spesa per pubblicizzare e
promuovere.
Oggi, sul prezzo finale di un paio di scarpe Nike, il lavoro di assemblaggio incide per lo
0,4%, il materiale e le altre spese di produzione per il 9,6%, il trasporto per il 5%,le tasse
governative 20%, i profitti del produttore il 6%, la pubblicità ed il marketing per l’8,5%, la
progettazione per l’11%, i profitti della Nike per il 13,5% e la quota del rivenditore per il 30%.
Fonte Clean Clothes Compaign (www.cleanclothes.org) citato in Guida al vestire
responsabile, Centro Nuovo Modello di Sviluppo 2006.
Attività in classe
A questo punto del lavoro puoi scrivere un articolo sulla moda rivolto ai ragazzi della tua età,
per informarli sulle questioni che ritieni più interessanti.