Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE Convegno Internet: un nuovo forum per proclamare il Vangelo Milano, 9 - 11 Maggio 2002 INTERVENTO ALLA TAVOLA ROTONDA: INTERNET TRA TECNOLOGIZZAZIONE E UMANIZZAZIONE Prof. Francesco BOTTURI Docente di Antropologia filosofica Università Cattolica del Sacro Cuore I. LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA AL CENTRO L’ampiezza e la complessità dei problemi enucleati con vivace intelligenza dal Convegno convergono verso la problematica antropologica. Nella sua relazione il prof. A. Fabris ha affermato che “la tecnologia comporta mutamenti antropologici” e che “Internet è una questione antropologica”, intendendo dire che la tecnologia della Rete ha a che fare con un nuovo modo di “fare esperienza” di sé, di altri, del mondo. Anche le questioni etiche che l’uso di Internet solleva sono dipendenti dal tipo di esperienza che la Rete fa fare e quindi dalle nuove dimensioni antropologiche che mette in gioco. Vi sono però due atteggiamenti contrapposti nell’affrontare la questione, dipendenti dalla diversa interpretazione del rapporto tra tecnologia e comportamento umano. In un suo intervento il prof. F. Casetti ha affermato che la “tecnologia prefigura comportamenti”; mentre, esponendo la sua ricca relazione, il prof. S. Martelli ha sostenuto che la tecnologia non determina i comportamenti, ma è un mezzo suscettibile di un uso buono o cattivo. Si tratta di due tesi contrapposte che vale sottolineare, perché esprimono (entrambi con fondate ragioni) le due valutazioni possibili dell’impatto antropologico delle tecnologie. Il problema di fondo è il seguente: è adeguato rappresentarsi - come è anche in uso nel linguaggio comune sull’argomento - le tecnologie come strumenti a disposizione di un soggetto concepito come autonomo da esse? Oppure bisogna prendere atto di un coinvolgimento del soggetto umano nelle tecnologie più globale e più potente delle sue stesse individuali intenzioni? Dalla risposta a queste domande dipende - ovviamente - una diversità rilevante nella valutazione del rapporto con le tecnologie e nella progettazione operativa del loro impiego. II. LA TECNOLOGIA COME “AMBIENTE” Ritengo che abbia maggior verità la seconda posizione. Infatti, la diversità della tecnologia contemporanea rispetto alla tecnica tradizionale (componente permanente di tutta la vita storica dell’uomo) consiste proprio nel fatto che la tecnologia solo limitatamente è mezzo a disposizione dell’uomo secondo suoi fini soggettivi e revocabili; essa è, invece, piuttosto ambiente, che precede ed eccede il soggetto e le sue intenzioni. Il soggetto certamente utilizza e innova le tecniche, ma ne dispone limitatamente; molto più ne è disposto, perché la tecnologia è un fatto sempre meno settoriale, ma è un amplissimo insieme di dispositivi, che con la sua pervasività e capillarità dà forma a gran parte del contesto vitale e dell’orientamento mentale dell’uomo contemporaneo, cioè costituisce ambiente. Inoltre, la tecnologia, a motivo della sua interna complessità tecnica, della sua impegnatività finanziaria ed economica e della sua rilevanza sociale, tende a costituire un articolato sistema “autotelico” - come dicono alcuni studiosi del problema -, cioè che risponde sempre meno a bisogni esterni e sempre più a fini interni di sviluppo secondo leggi di permanenza e di evoluzione autonome rispetto a intenzioni di altra natura (culturale, politica, ecc.), pur essendo in continua relazione dialettica con queste. Nella storia dell’uomo la tecnica ha un significato antropologico fondamentale: quello di far rientrare in possesso dell’uomo le condizioni materiali della sua esistenza, realizzando così il sogno umano di signoria e di autonomia nei confronti della natura. Da questo punto di vista, con la tecnologia avviene un fenomeno paradossale: da una parte, essa realizza un dominio inedito sull’ambiente naturale, ma, dall’altra, quanto più l’uomo le detta le sue condizioni, tanto più egli costruisce con le sue mani (cioè con la sua mente) un nuovo ambiente che condiziona sempre più globalmente la sua esistenza. Questo non significa che l’uomo viene a trovarsi necessariamente in balìa del suo prodotto tecnologico, ma che questo stabilisce e struttura sempre più le condizioni artificiali della sua esistenza, costituendo un ambiente sostitutivo di quello naturale, con cui l’uomo deve fare i conti come qualcosa che, prodotto da lui, gli si impone. In tal modo l’uomo tecnologico agendo interviene in qualcosa che non gli sta semplicemente di fronte (come accade con un mezzo strumentale), ma che lo ri-comprende e lo con-tiene La tecnologia informatica approfondisce vertiginosamente questo processo, perché, a motivo delle sue caratteristiche tecniche stesse, l’ambiente tecnologico che essa viene a costituire è sempre più internalizzato: il soggetto si sente e si concepisce in continuità stretta, quasi in simbiosi con l’apparato tecnologico; tende addirittura a vedere se stesso come una protesi dell’apparato tecnologico. In tal modo, il medium è in realtà sempre meno tale, cioè mediazione tra il soggetto e la realtà, intesa come ciò che può essere raggiunto anche altrimenti, al di là del mezzo. Piuttosto, medium è ormai il nome di una nuova realtà, sempre più sostitutiva di quella naturale; è appunto il caso della realtà cd “virtuale”, che non è più tanto mediazione di una realtà naturale, quanto - per l’alta componente tecnologica che la costituisce - realtà nuova in se stessa. III. IL SENSO DEL “FAR ESPERIENZA” Di conseguenza, cambia in profondità il senso stesso dell’esperienza e del fare esperienza. Nell’ambiente tecnologico c’è un modo diverso di fare esperienza, perché - come si esprime S. Martelli - ha come sua condizione la “derealizzazione” dell’esperienza nel senso tradizionale del termine, come risulta evidente nella ricreazione e ricostituzione virtuale della realtà. La categoria dell’“esperienza” e la questione del “fare esperienza” diventano dunque il problema centrale. Si tratta di sapere, infatti, che senso abbia fare esperienza dotato di un’originalità che non dipende dal suo ambiente tecnologico. È ovvio che questo discorso non intende stabilire una aprioristica conflittualità tra esperienza naturale ed esperienza virtuale; vuole piuttosto segnalare una sfida che è nelle cose e che si concentra sull’interrogativo sul significato del fare esperienza e se questo abbia caratteristiche irriducibili e paradigmatiche rispetto all’esperienza virtuale. L’uomo della semplice tecnica tradizionale, pur riconoscendosi immerso nel suo ambiente naturale, si è sempre concepito distinto dal suo ambiente e la consapevolezza critica di ciò è stata una delle caratteristiche fondamentali dell’umanesimo occidentale. Così ora è necessario interrogarsi se sia possibile che l’uomo collocato nel nuovo ambiente tecnologico sia in grado di affermare, di salvaguardare ed esprimere la sua “differenza antropologica”. Non si tratta dunque di guardare con sospetto le nuove tecnologie, ma anche di evitare l’ingenuità di credere che esse siano neutralmente a disposizione delle nostre buone intenzioni. Meglio ancora, si tratta di rendersi conto che la nuova tecnologia costituisce un evento che muta complessivamente le condizioni dell’esistenza e quindi che per il soggetto umano si rinnova il compito di definire la sua autocomprensione di soggetto umano in quanto tale; più in concreto, il compito di ridefinire che cosa significa per l’uomo in quanto tale “fare esperienza” umana. Che questa insistenza non sia fuori luogo, è confermato dal contesto culturale che accompagna l’affermarsi dell’“ambiente tecnologico”. Si noti, ad esempio, la (apparentemente) contraddittoria presenza del diffuso “naturalismo”, cioè di un riduzionismo di tipo biologistico ed evoluzionistico, secondo cui l’uomo è identificato con il suo apparato genetico, la sua mente con un epifenomeno del suo cervello, la sua individualità con l’essere membro della sua specie, la sua vita con una delle forme dell’ecosistema, ecc.). Si assiste, cioè, all’insistita affermazione dell’omogeneità uomo con la natura (e quindi alla negazione della differenza antropologica). Immediatamente questo appare come una linea culturale antitetica all’esaltazione dell’uomo tecnologico. Ma se si osserva la cosa con maggiore profondità, ci si accorge che si tratta di un’unica logica culturale che si presenta in due versioni opposte: in un caso si assimila l’uomo al suo ambiente naturale, nell’altro si assimila l’uomo al suo ambiente tecnologico. In un caso e nell’altro si afferma l’essenziale omogeneità dell’uomo con il suo ambiente. In realtà si tratta di due forme della stessa cultura, che - di per sé - dà luogo ad una sinergia negatrice della specificità dell’identità umana in quanto umana, della sua libertà, della sua spiritualità, della sua dignità irriducibile. Non è ovviamente secondario rendersi conto che l’esperienza umana della tecnologia avviene in questo contesto culturale, che condiziona profondamente l’autoconsiderazione e l’autostima dell’uomo contemporaneo. IV. L’ESPERIENZA “REALE” E DI FEDE Non è qui possibile neppure tratteggiare il profilo antropologico di che cosa significhi “fare esperienza”. È possibile solo alludervi, allo scopo di riprendere consapevolezza dello spessore del “fare esperienza” e della sua irriducibilità all’esperienza della tecnologia virtuale. Quando si parla di “esperienza”, evidentemente non si intende parlarne nel senso di sperimentalismo, né in senso scientifico, né in senso irrazionalistico, emotivistico; ma neppure di esperienza di tipo virtuale, non perché questa non sia a suo modo reale (presenza mediata, interattività, efficacia, ecc.), ma perché per sua natura il virtuale è una protesi di potenziamento primariamente ed essenzialmente del livello sensitivo-immaginativo-emozionale dell’esperienza, che implica una strutturale selezione degli elementi costitutivi dell’esperienza umana secondo una sua originaria e paradigmatica integralità; implica cioè un’inevitabile riduzione e scomposizione dell’esperienza tipicamente umana, che non è dannosa, solo se è consapevolmente saputa come tale, ma che è devastante, se è vissuta come rimozione e sostituto di quella A quali condizioni, dunque, si dà esperienza in modo antropologicamente sensato? Anzitutto non c’è esperienza, se non c’è racconto del vissuto, ma come racconto di senso unitario del vissuto. Ma non c’è racconto, se non come ripresa e interlocuzione con l’essere già stati raccontati e quindi come appartenenza ad una tradizione di racconto, cioè di “grande racconto” di senso dell’esistenza, dal/nel quale il singolo riceve un fondamentale riconoscimento di identità (in questo le tradizioni famigliari e religiose e comunque culturali in senso forte hanno sempre avuto una funzione fondamentale e insostituibile). Ma l’appartenenza identitaria ad una tradizione di senso è condizione e principio di esperienza, solo nella misura in cui attiva nel soggetto la sua personale capacità di domanda e di dialogo; la sua capacità di giudizio e di affermazione; cioè attiva la sua razionalità non semplicemente calcolante e tecnico-funzionale, ma “realistica”, cioè ontologica e veritativa. Ma l’appartenenza ad una tradizione culturale non è solo esperienza cognitiva, ma anche attivazione di personale libertà e quindi di razionalità pratica, non semplicemente operativa, ma anzitutto assiologica, cioè morale. In sintesi c’è esperienza, se il soggetto vive relazioni significative e identificanti e giunge alla consapevole capacità di discernimento tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo e, quindi, se sviluppa un’affettività vissuta non come emozione egocentrica reattiva, ma come risposta, adesione e vincolo. Infine, l’esperienza umana di senso ha la sua sintesi vitale e culturale nella percezione estetica della sua unità. Non è un caso infatti che tutte le grandi tradizioni culturali, le grandi narrative della storia umana - che hanno come protagoniste le grandi religioni e il cristianesimo in modo particolare - abbiano dato al mondo la testimonianza di straordinarie rappresentazioni estetiche dell’esistenza, siano sempre state il grembo di una produzione artistica di straordinario valore, abbiano riempito il mondo di bellezza. Sono solo alcuni cenni per alludere a ciò che significa far esperienza in un senso non preventivamente ridotto, ma che rispetti ed esprima la ricchezza antropologica. È facile rendersi conto che, benché contenutisticamente disponibile ad ognuna delle dimensioni dell’esperienza ricordate, l’esperienza virtuale non solo non può supplirne nessuna, ma soprattutto non è un luogo possibile di genesi e di sintesi dell’esperienza stessa. Se le cose stanno così, il soggetto sarà in grado di vivere il suo nuovo ambiente virtuale - piuttosto che di esserne vissuto -, se potrà attingere e sviluppare con consapevolezza, stabilità e intensità la ricchezza potenziale della sua esperienza umana; vivendola come paradigma del far esperienza e non accettando l’inganno di quel rovesciamento di prospettiva che vorrebbe che l’artificiale diventasse il paradigma del suo essere al mondo e con altri. Risulta chiaro, a questo punto, che senza questa avvertenza critica sullo statuto dell’umana esperienza anche la testimonianza e la proposta dell’“esperienza della fede” può ricevere solo un’accoglienza nominale (dico dal punto di vista del funzionamento culturale della cosa, al di là della sincerità e della buona volontà del singolo). Se, infatti, la fede non si innesta su un sentimento adeguato dell’esperienza umana, inevitabilmente viene ricodificata entro i limitati (antropologicamente parlando) schemi della comunicazione virtuale, che significa in concreto la sua riduzione o a moralismo/dottrinarismo oppure ad emozionalimo/spiritualismo. Al contrario, l’esistenza ed il rinvio alla realtà per nulla virtuale di una comunità viva di persone unite dal vincolo della fede e della carità costituisce - per l’uomo d’oggi in particolare - un esempio ed una risorsa di esperienza umana densa di senso e ricca di forme, che offre un paradigma di esistenza reale dotata della capacità di interagire “umanamente” con ogni ambiente.