INTRODUZIONE La scelta di affrontare attraverso una ricerca sul campo le tematiche connesse con lo stress e il burn-out negli insegnanti di sostegno in particolare, è motivata da una serie di ragioni. In primo luogo la mia formazione universitaria, nella quale gli studi sui fenomeni sociali hanno rivestito una notevole importanza e un significativo personale interesse; il confronto coi colleghi, sia durante la mia esperienza lavorativa sul sostegno, sia durante lo svolgimento del corso di specializzazione, che mi ha indotto a riflettere su alcune testimonianze inerenti, a mio avviso, situazioni-limite. In particolare, l’idea di sviluppare la tematica del disagio psicologico nel docente di sostegno prende corpo a seguito dell’esame di Psicologia dell’età evolutiva, sostenuto al termine modulo di allineamento del corso di specializzazione. Si trattava di esporre, attraverso un lavoro di gruppo, il frutto delle riflessioni originate dall’analisi di tre casi emblematici del ruolo del docente di sostegno. Dal racconto-confronto delle esperienze di noi colleghi noto con sorpresa un denominatore comune: l’origine dei momenti più frustranti dell’attività non risiede nel livello di gravità del deficit attribuibile all’allievo, bensì nel senso di isolamento e di subalternità quotidianamente sperimentato. Ascolto la narrazione del caso di una collega che ha dovuto imporsi duramente per far rispettare le regole di più elementare normalità e di legalità, come chiedere che il nome dell’allieva disabile comparisse nel registro di classe, oppure l’amarezza derivante dal senso di emarginazione subita dall’insegnante che osserva il ritrarsi timoroso da parte di colleghi e allievi al suo passaggio in compagnia dell’allievo affetto da deficit psichico, o ancora il deciso rifiuto opposto all’invito ad abbandonare l’aula in compagnia dell’allievo disabile messo in atto da un altro collega. Altri casi emblematici: la collega ignorata e, a volte, umiliata davanti agli allievi dall’insegnante curriculare; la docente di sostegno invitata, per poter dialogare col collega curricolare, a presentarsi nell’orario di ricevimento; il docente che racconta, le ripetute e pesanti aggressioni fisiche subite ad opera dell’allievo disabile e, infine, la lettura del testo di M. Martinelli1 che presenta, nella sezione conclusiva, l’esperienza di integrazione di un allievo affetto da gravi problemi comportamentali e la tentazione del docente di sostegno di “gettare la spugna” di fronte a difficoltà ritenute impossibili da superare. Mi sono chiesta, leggendo e ascoltando direttamente queste testimonianze, perché mi avessero tanto colpita; ritengo dipenda dal fatto che, durante la mia quinquennale esperienza lavorativa nel sostegno non mi sono mai trovata coinvolta, né nel rapporto con i colleghi né nel seguire gli alunni disabili che mi sono stati affidati, , in situazioni così stressanti, ma c’è comunque il timore di essere impreparata psicologicamente nell’affrontarle qualora si presentassero. Ciò mi ha spinto 1 MARTINELLI M. , (1998) “L’handicap in classe. Tra individualizzazione e programmazione” Editrice La Scuola, , Brescia a documentarmi e ad approfondire la tematica allo scopo di essere in grado di gestire situazioni potenzialmente portatrici di disagio per me e, di conseguenza, per la mia attività professionale. Può essere utile, per comprendere il livello di aspettative di cui è oggetto il docente di sostegno, riportare quanto affermato dal presidente di un’associazione di genitori2, che ha definito l’insegnante di sostegno “un professionista normalmente rivoluzionario, la crema del corpo insegnante, a cui si richiede una competenza e una professionalità superiore a quella degli altri docenti, non solo nel settore specifico, ma anche nella capacità di accogliere e valorizzare la persona, nel collegare l’apprendimento personalizzato agli obiettivi comuni e nel far fruttare le molteplici risorse” . Dal punto di vista formale l’insegnante di sostegno rappresenta una figura di raccordo e coordinamento, che collabora con tutti ma non accetta deleghe esclusive: collabora collegialmente con i colleghi, organizza gli spazi e i tempi della vita scolastica in funzione di ciascun alunno (percorsi individualizzati, utilizzo di laboratori, orientamento professionale), cura le relazioni con le famiglie, le istituzioni e le associazioni del territorio. E’ cioè un professionista capace di gestire le relazioni e di svolgere un lavoro di équipe con il riconoscimento di ruoli e competenze diverse e complementari, non gerarchiche, al servizio dell’allievo. E’ importante ricordare che all'insegnante, e a quello di sostegno in particolare, viene chiesto di intervenire nel suo lavoro con tutta la sua persona, utilizzando risorse sia professionali ma anche e soprattutto personali: le sue esperienze, la sua visione del mondo, la sua personalità. A testimoniare l’attualità e, in un certo senso, l’urgenza di un’indagine in questo campo, richiamo quanto scritto da L. D’Alonzo3, docente di Pedagogia Speciale presso l’Università Cattolica Di Milano: “Premesso che l’introduzione della figura dell’insegnante di sostegno ha contribuito ad innestare quel processo innovativo che ha favorito un cambiamento positivo nel modo di affrontare i problemi scolastici appena descritto e nonostante i risultati di indagini e ricerche, si registra, ultimamente un fatto preoccupante che rischia di compromettere tutti gli sforzi effettuati per portare la scuola italiana verso risultati eccellenti sul piano della convivenza civile: negli ultimi anni si nota un forte malessere tra gli insegnanti specializzati che si esprime frequentemente nella “fuga” verso l’insegnamento curricolare. Molti docenti capaci di gestire il problema dell’integrazione in classe, spesso ricchi di esperienza, preferiscono abbandonare il lavoro di “sostegno”, costringendo le scuole ad affidare il loro delicato ed importantissimo compito ad insegnanti volenterosi, ma spesso non in possesso del necessario bagaglio professionale. I motivi possono essere molteplici e ne possiamo ricordare qualcuno: - lo stress di lavorare con situazioni umane difficili; - la lotta continua per affermare agli occhi dei genitori il suo ruolo; - la precarietà di un lavoro legato alla presenza di un allievo certificato; - l’incompetenza di molti colleghi, insegnanti di classe, incapaci di agire con gli allievi difficili. 2 ESPA M., (1999) presidente ABC Associazione Bambini Cerebrolesi Sardegna, vicepresidente ABC Federazione Italiana, “Un professionista rivoluzionario” in Acca Parlante, n° 71 3 D’ALONZO L., (2004) “L’insegnante di sostegno e le sue competenze” in “Ecole Valdotaine, n° 63 Un insegnante di sostegno capace è in grado di rappresentare, per l’intera istituzione scolastica in cui opera, una risorsa per l’innovazione educativa e didattica. In ogni realtà scolastica in cui sono presenti validi e competenti insegnanti specializzati si sono riscontrati degli indubbi processi di maturazione professionale e di incremento delle competenze metodologiche e comunicative dell’intero corpo docente. L’insegnante di sostegno competente, infatti, favorisce ed innesta nei suoi colleghi, a volte anche inconsapevolmente, una motivazione ad agire e a programmare seguendo le indicazioni della ricerca scientifica. La sua presenza e la sua professionalità sollecitano i colleghi a prendere coscienza che occorre impostare un’azione formativa calata sui bisogni degli allievi, tesa a soddisfare le necessità personali dei singoli e aderente a basi metodologiche e didattiche accertate. L’insegnante di sostegno competente essendo in grado di ancorare la sua professionalità agli esiti della ricerca, “costringe” i colleghi a fondare la loro azione su pilastri educativi scientificamente provati.” Vi è poi una motivazione della scelta tematica dettata dall’attualità: ho letto, infatti, con notevole interesse e, a dire il vero, con una certa sorpresa, i dati che compaiono nel libro-inchiesta “Scuola di follia” di Vittorio Lodolo D’Oria4. L’opera, la cui presentazione è stata accompagnata da un grande clamore da parte dei media, e riporta le autorevoli introduzioni di due nomi illustri come l’ex-ministro del MIUR Tullio De Mauro ed il neuropsichiatria infantile Giovanni Bollea, analizza figure ed atteggiamenti di insegnanti, utenza, dirigenti, ispettori ministeriali e medici, in trenta storie di docenti affetti da psicopatia. Riprendendo uno dei passi, a mio giudizio più forti, l’autore descrive: “…solo e reietto l’insegnante stremato, arroccato in un’immagine donchisciottesca. Ostile il collega che ignora il disagio di cui egli stesso è vittima. Spaesato il dirigente scolastico, ora gendarme ora psichiatra. Inadeguato l’ispettore-detective chiamato a dirimere controversie di natura medica. Atterriti i bimbi alle prese per la prima volta con la follia. Aggressivi i genitori che minacciano il ritiro dei figli dalla scuola. Impotenti i membri del Collegio Medico per l’Inabilità al Lavoro, costretti a scegliere tra la tutela del singolo e la salvaguardia dell’ambiente scolastico. Una lotta – tutti contro tutti - estenuante, senza esclusione di colpi, che rifugge da processi di diagnosi, cura e recupero; allontana ogni prospettiva di reintegrazione lavorativa del malcapitato ne decreta l’inidoneità a insegnare; sancisce la definitiva emarginazione sociale.” Un ulteriore motivo che mi ha indotta ad approfondire la tematica del burn out dell’insegnante di sostegno deriva dal fatto che si tratta di una tematica poco approfondita dalla ricerca accademica. Gli studi esistenti relativi al burn out nelle professioni di aiuto, italiani e internazionali, sono inerenti la professione docente in generale, raramente riguardano il docente di sostegno. Il nostro paese in particolare, che per primo ha compiuto la scelta radicale dell’integrazione scolastica degli allievi disabili in tutti gli ordini di scuola e che a maggior a ragione dovrebbe essere coinvolto direttamente nell’indagine sullo stato di salute psicofisica di coloro che svolgono un compito tanto delicato, è carente di studi approfonditi in merito. Lavorare a questo portfolio. 4 D’ORIA V.L.,( 2005) “Scuola di follia”, Armando Editore, Roma La sfida, nell’affrontare nel mio portfolio la tematica del disagio psicologico nel docente di sostegno, è stata complessa e al tempo stesso gratificante perché si trattava di mantenere l’oggettività necessaria per condurre la ricerca con un metodo rigoroso e, al tempo stesso, sviluppare una capacità interpretativa del fenomeno che, in quanto docente specializzanda, mi vedeva coinvolta in prima persona e che inevitabilmente ha risentito dei miei giudizi e delle mie opinioni, nel momento in cui mi sono trovata a trasformare un foglio ricco di numeri e di dati in un fenomeno analizzabile. Posso dire che la valenza più elevata del mio percorso di apprendimento è stato lo sviluppo di un processo metacognitivo che mi ha accompagnato durante tutto il lavoro. Inoltre, il fatto che per motivi logistici abbia dovuto somministrare il questionario a insegnanti di cui avevo una qualche conoscenza, seppur superficiale, ha comportato una serie di difficoltà di tipo tecnico e umano. In primo luogo il rischio, oserei dire la sensazione, di aver sottostimato il fenomeno del disagio: se è vero che, a detta di tutti i più autorevoli ricercatori, la resistenza psicologica a rendere note le proprie difficoltà raggiunge il suo apice nella categoria dei docenti che devono fornire di sè un’immagine rassicurante e positiva, a maggior ragione ritengo che questo aspetto critico interessi i docenti specializzati, che si presume siano animati, oltre che dalle caratteristiche succitate, anche da una disposizione d’animo più altruista e sensibile rispetto alla media dei docenti in generale. Un altro aspetto delicato, e collegato al precedente, è relativo all’esercizio del giudizio e della critica che l’analisi ha inevitabilmente comportato: ad esempio, quando si è trattato di analizzare il dato secondo il quale oltre i due terzi degli intervistati rifiutavano l’idea di aver scelto la docenza sul sostegno secondo una logica, almeno in parte, utilitaristica e contingente, mi sono interrogata a lungo sulle modalità di interpretazione che sarebbe stato più corretto utilizzare, decidendo poi di fermarmi all’analisi oggettiva del dato senza tuttavia nascondere l’eventualità di una sottorappresentazione del fenomeno a causa della ben nota “sindrome da bella figura”. Tornando all’aspetto metacognitivo, è indubbio che questo lavoro mi abbia aiutato a sviluppare un pensiero meno superficiale e più riflessivo: nel momento in cui le ricerche condotte precedentemente alla stesura del portfolio mi hanno posta di fronte ad evidenze eclatanti, cito per tutte i numeri sull’esiguità della permanenza dei docenti sul sostegno a dieci anni dall’incarico, ho imparato a non fermarmi alla prima, sommaria interpretazione unidirezionale, ma a leggere nel dato implicazioni positive, nel caso specifico, inerenti a una più ampia diffusione della cultura dell’integrazione anche tra i docenti curriculari.