Se questo è un credente. Albert Einstein a Princeton di Giuseppe Panissidi Il processo di digitalizzazione dei Collected Papers of Albert Einstein è impresa di grande importanza, che ci permette di riconsiderare la annosa questione del rapporto fra Einstein e la religione. In questa prima parte del suo saggio, Giuseppe Panissidi ci spiega perché Einstein vada anzitutto considerato alla luce della sua critica radicale all'idea di un Dio personale Finalmente. Il sito web della Princeton University ha cominciato a pubblicare la corrispondenza e innumerevoli altri scritti di Albert Einstein, migliaia di testi e documenti originali. Dalle lettere ai giornali, al diario personale, fino ai messaggi disseminati dallo scienziato in luoghi improbabili, come, solo per fare un esempio, dentro le scatole da scarpe. Una parte considerevole degli ‘storici’ “Collected Papers of Albert Einstein” è già stata trasferita nel nuovo archivio, risultato finale di un lungo processo di digitalizzazione di una quantità sterminata di documenti, mentre in precedenza si era fermi a circa 900. Il nuovo archivio digitale è da pochi giorni disponibile per la consultazione online, nell’originale tedesco e in parziale traduzione inglese. Il mese prossimo, si prevede la pubblicazione di un altro migliaio di documenti, ma, complessivamente, i documenti originali su cui si lavora alacremente sono circa 80mila. I documenti già disponibili, che si riferiscono al periodo che corre dall’adolescenza al 1923, quando Einstein aveva 44 anni, coprono un arco di tempo che, a giudizio del direttore del progetto, rappresenta “uno dei periodi più emozionanti della scienza moderna”. L’’iniziativa prevede la realizzazione e la successiva diffusione online di un totale di 30 volumi, dopo questi primi 13. “Einstein espresse chiaramente il desiderio che non ci sarebbero dovuti essere monumenti fisici o memoriali per lui”, scrive l’editore nella prefazione al primo volume. Crediamo che i suoi scritti siano il suo monumento e il suo memoriale”. L’archivio racchiude di tutto un po’: dai manoscritti scientifici sulla teoria della relatività generale, al materiale pop, dalle lettere d’amore dei tempi del liceo, alle sue frasi più celebri, fino ai documenti sul suo divorzio. E si estende, appunto, fino al 1923, quando Einstein aveva appena ricevuto, nel 1921, il Premio Nobel per la fisica, “per i contributi alla fisica teorica, in particolare per la scoperta dell’effetto fotoelettrico”. Sebbene i manoscritti pubblicati non siano tutti inediti, poiché, come s’è detto, una parte esigua, era già disponibile dal 2003 sul sito “Einstein Archives Online” grazie al lavoro coordinato dell’università ebraica di Gerusalemme, del Caltech, l’istituto californiano di tecnologia, e dell’università di Princeton, tuttavia il grande vantaggio odierno risiede in un’ottimale organizzazione dell’archivio secondo un ordine cronologico, oltre alla possibilità di accedere ai singoli documenti attraverso un semplice link: htpp://einsteinpapers.press.princeton.edu/ Va da sé che, ai fini di un buon orientamento, risulta imprescindibile la conoscenza dei rivolgimenti salienti della vita e del pensiero di Einstein, dal momento che i semplici titoli non sono sufficienti e, anzi, potrebbero ingannare. Com’è noto, dopo l’avvento del regime nazionalsocialista, nell'ottobre del 1933 il teorico della relatività si trasferì in questa città del New Jersey, sotto l’imperversare delle persecuzioni antisemite. Squadracce di funzionari, di ogni ordine e grado, fu coinvolta nella campagna persecutoria contro gli Ebrei, allo scopo di elaborare, scrivere e applicare la legislazione anti-ebraica. Tutta la Germania fu brutalmente passata a setaccio. Il primo provvedimento contro i diritti civili dei cittadini ebrei fu la “Legge per la Restaurazione del Servizio Civile Professionale”, varata il 7 aprile 1933. Esso prevedeva che funzionari e impiegati pubblici ebrei, oltre quelli giudicati “politicamente inaffidabili”, fossero esclusi dalle cariche e dalle funzioni pubbliche. Il nuovo “Codice della Pubblica Amministrazione” anticipava il cosiddetto “Paragrafo Ariano”, un regolamento appositamente concepito per escludere sia gli Ebrei, sia, spesso, altri gruppi “non ariani”. Questo documento aprì la via alle “Leggi Razziali di Norimberga” del 1935, le quali – ecco il punto – ‘classificavano gli Ebrei non in base al credo religioso, ma bensì secondo la loro ascendenza, formalizzando la separazione della popolazione ebraica dalla restante. Dopo il pogrom della “Kristallnacht”, la “Notte dei Cristalli”, tra il 9 e il 10 novembre 1938, le leggi naziste proibirono agli Ebrei l’accesso non solo alle scuole pubbliche e alle università, ma anche ai teatri, ai cinema e persino agli impianti sportivi. Nella maggior parte delle città, agli Ebrei era precluso l’accesso a determinate zone classificate “ariane”. Il tutto, mentre le gerarchie naziste imprimevano l’accelerazione finale ai preparativi per la folle guerra finalizzata al dominio del mondo, cominciando dall’Europa. De facto, è palese che la precedente legislazione antisemita costituiva soltanto l’abbrivio per una ben più radicale e totale persecuzione degli Ebrei. Difficile dimenticare che addirittura due premi Nobel, Philipp von Lenard e Johannes Stark, distintisi altresì per una reprimenda contro Max Planck, scatenarono una campagna ad personam, etichettando, la “Teoria della relatività” e altre ricerche di Einstein come "fisica ebraica", in contrasto con la "fisica tedesca" o "ariana". Oppure che, nel 1944, a Rignano sull'Arno, la moglie e le figlie di suo cugino Robert furono uccise in una indiretta rappresaglia contro di lui da un reparto delle SS, e questa strage, unita , l’anno dopo, al suicidio del cugino, turbò profondamente Einstein, il quale nel 1940 assumeva la cittadinanza statunitense. Non rientrerà mai più in Europa e, fino alla morte, rimarrà in USA, dove proseguì le sue ricerche all'”Institute for Advanced Study”, appunto, a Princeton, intorno ad alcuni problemi cosmologici e alle probabilità delle transizioni atomiche. Negli ultimi anni di vita concentrò i suoi sforzi nel tentativo di unificare le due forze fondamentali allora conosciute, la gravità e l'elettromagnetismo, sebbene Enrico Fermi, negli anni ’30, avesse già sviluppato una teoria di base della forza debole. A causa di un’improvvisa emorragia, provocata dalla rottura di un aneurisma, morì all’ospedale di Princeton, nella notte del 18 aprile del 1955. Ebbene, ormai quasi da un secolo, uno dei temi più tenaci e affascinanti del dibattito intorno al padre della relatività concerne il significato della sua “religiosità”, della sua “fede”, nonché la sua interpretazione del “fatto religioso”. Il campo della discussione appare, tuttora, equamente diviso tra i sostenitori dell’”ateismo” dello scienziato e gli assertori, in prevalenza di parte cattolica, della sua prossimità al Dio della fede cristiana. L’archivio comincia a fornire utili indicazioni, conferme e smentite rispetto a quanto era ampiamente già noto, soprattutto agli addetti ai lavori. Proviamo, tuttavia, a compiere un passo indietro. Einstein aborriva tutto ciò che viene presentato e svilito in termini superficiali e schematici, tutto ciò che non viene interrogato in profondità. Che è, poi, a ben guardare, una delle ragioni che lo spinsero verso la scoperta della “relatività speciale”, nel 1905, verso ossia la soluzione dello ‘storico’ conflitto tra la teoria meccanica classica e la teoria elettromagnetica della luce, distintivi della fisica dell'Ottocento dopo Newton. Una conquista guadagnata in virtù e per l’effetto di una revisione radicale dei concetti di spazio e di tempo assoluti. Il grande fisico tedesco mostrava una spiccata propensione a considerare i molteplici aspetti della vita, individuale e collettiva, in una prospettiva latamente “culturale”, nella luce e nello spirito della ricerca, a cominciare dalla sua stessa appartenenza all’ebraismo. L’archivio digitale appena pubblicato esibisce un notevole numero di documenti dai quali si desume che “Dio” rappresenti per Einstein un essenziale riferimento lessicale, una ‘costante’, in certo modo anch’essa ‘cosmologica’, del suo stile comunicativo, persino della sua riflessione monologica. In una lettera da Zurigo del mese di giugno del 1897, arriva ad affermare: “God is sending to me by one of those angels…”, Dio manda a me uno di quegli angeli. Per chiarire, subito dopo, che “this angel is a lady who is already grandmother”, questo angelo è ormai nonna… Pochi anni dopo, nel 1905, da un’altra, in cui ipotizza che “il dio onnipotente” potrebbe averlo “preso per il naso”. Nel febbraio del 1919, in riferimento a una questione controversa, scrive al ricercatore medico di Zurigo Heinrich Zangger, un ottimo amico: “Dio sa quale sarà la fine di tutto ciò”. Zangger lo considerava “un docente di prima classe, le cui lezioni costringono gli ascoltatori a pensare insieme con lui” e si era inutilmente prodigato per lui presso il Politecnico. Ma Einstein lo aveva invitato a “lasciare il Politecnico alle mosse imperscrutabili di Dio”. Ancora. Da Berlino, nel mese di gennaio del 1920, scrive di essere “convinto del fatto che l’atteggiamento aggressivo del Monismo verso le organizzazioni religiose non è giustificato in linea di principio. Il contenuto sovra-personale veicolato dalla religione, per quanto primitivo nelle forma, primitive in form though it is, ha un valore più prezioso, more valuable”. E aggiunge: “L’eliminazione della tradizione religiosa, pious, comporterà un impoverimento, impoverishment, spirituale e morale”. Si giunge, così, al mese di dicembre del 1922, un anno decisivo ai fini di un primo bilancio dell’atteggiamento in cui Einstein si pone riguardo alla “questione religiosa” e alle sue implicazioni. L’occasione si presentò sotto forma di un questionario che gli fu sottoposto, e che verteva intorno alle seguenti domande. Il rapporto tra “verità scientifica e verità religiosa” e, in particolare, se esse possano “promuoversi reciprocamente”. Ovvero: “se la scoperta scientifica valga a valorizzare e confermare [to improve] la fede religiosa e rimuovere la superstizione, dal momento che il senso religioso può favorire l’impetus alla scoperta scientifica”. “Quale concetto di Dio” Einstein coltivasse. “Quale opinione avesse sul Salvatore”. Ed ecco, di seguito, le risposte del grande teorico della relatività, ovvero, come taluno preferisce, delle relatività. Chiarisce, in premessa, di ritenere “non facile” annettere un “significato chiaro” all’espressione “verità scientifica”, poiché esso “muta in ragione del suo ambito di riferimento: un fatto d’esperienza; un teorema matematico; una teoria scientifica”. E aggiunge che quella locuzione non gli suggeriva e non lo induceva a concepire “nulla [at all] di univoco e chiaro”. Quanto alla “superstizione”, poi, si dice convinto che la ricerca scientifica possa contribuire a “ridurne” l’impatto, incoraggiando il “pensiero causale”, ossia l’esame razionale. “E’, infatti, certo, soggiunge, che un appassionato convincimento (an appassionate conviction), relativo al senso religioso, circa la razionalità e intellegibilità del mondo, si fonda [lies at the basis] su ogni più raffinata opera scientifica”. In risposta alla terza domanda, Einstein sottolinea, ancora, come la “profonda convinzione di una superiore razionalità, che si manifesta nelle forme del mondo sensibile, costituisce il mio concetto di Dio. Si potrebbe esprimerlo, conclude, con il nome di “panteismo”. Infine, in merito al “Salvatore”, dichiara di “riuscire a guardare le tradizioni confessionali soltanto in chiave storica e psicologica”, e di non considerare “altra possibilità di rapporto con esse”. Come si può facilmente constatare, si tratta di posizioni di pensiero giovanile, e però di straordinaria rilevanza. Che Einstein sostanzialmente, talora persino nell’espressione, non modificherà mai più. Basti considerare, tra l’altro, il fatto che, più di trent’anni dopo, nel 1954, l’anno precedente la scomparsa, vergherà parole letteralmente consonanti e inequivoche, fortemente critiche rispetto a ogni forma di “antropomorfismo”: “Io non credo in un Dio personale [leggi: Dio-persona] e l’ho sempre dichiarato esplicitamente. In me di religioso c’è solo una sconfinata ammirazione per la struttura del mondo”. E’ qui in parola quel “sentimento religioso cosmico” evocato nell’ultima fase della sua vita. L’anno successivo, nel 1955, in un’altra lettera, recentemente pubblicata, dichiara di considerarsi “appagato dal mistero dell’eternità e della vita” e, ancora, “dalla meravigliosa struttura del mondo esistente”, che sollecita la Ragione, manifesta nella Natura, a “comprenderne una parte, sia pure minuscola”. E “Dio”, scriveva al filosofo ebreo tedesco Eric Gutkind, “non è nulla di più che una parola che esprime l’umana debolezza”. Una parola. “Nessuna interpretazione, per quanto sottile, può modificare il mio pensiero sul punto”. E’ palese che un siffatto movimento di pensiero lo avvicinava notevolmente a Spinoza, come lui stesso aveva anticipato, inducendo molti studiosi a parlare tout court di “panteismo” di Einstein. In realtà, nel prosieguo, è divenuto sempre più evidente che il solo “Dio” spinoziano che lo interessasse era lo spettacolo dell’”ordinaria armonia di ciò che esiste”. Non il Dio-persona-volontà del cattolicesimo, “preoccupato dell’umano”, peraltro estraneo al pensiero di Spinoza. Per questi ovvi motivi, rifiutò sempre sia l’etichetta di ateo, sia quella, uguale e contraria, di panteista, sebbene, come dichiara, accettasse quest’ultima come indicazione astratta, utile al discorso: “si potrebbe dire”. Mentre non cessava di contemplare, commosso, “l’ordine incredibile dell’universo”, ragionevolmente certo che “i nostri limitati pensieri non possono afferrare la forza misteriosa che muove le costellazioni”. Descrive così “la situazione dell’essere umano, anche il più intelligente, di fronte a Dio: la convinzione profondamente appassionante della presenza di un superiore potere razionale, che si rivela nell’incomprensibile universo, fonda la mia idea su Dio". Un superiore potere razionale e la (antispinoziana) incomprensibilità dell’universo. In un’importante occasione, alla domanda: "Professore, sento dire che lei è profondamente religioso", Einstein rispose: "Vero. Cerchi e penetri con i limiti della nostra mente i segreti della natura e scoprirà che, dietro tutte le discernibili concatenazioni, rimane sempre qualcosa di sottile, di intangibile e inesplicabile. La venerazione per questa forza, al di là di ogni altra cosa che noi possiamo comprendere, è la mia religione. A questo titolo io sono religioso". Chiamava, infatti, questo Dio "ausserpersönlichen", sovra o extra-personale, un Dio "fisico", insomma, non l’entità morale e spirituale della concezione ebraico-cristiana, fonte spuria di “superstizione primitiva” e credenze irrazionali. Einstein attribuisce alla nozione di “superstizione” la medesima valenza del concetto di “superstitio”, traduzione del greco “deisidaimonia”, elaborato dalla cultura classica, da Teofrasto a Polibio e Plutarco, dal “De natura deorum” di Cicerone, al “De Rerum Natura” di Lucrezio. Una rozza congerie di idee e pratiche miste, condannate, per ragioni ovviamente diverse, dalla stessa Chiesa cattolica, sul presupposto di una “religione” superiore a fronte di altre “inferiori”. In ogni caso, pur implicitamente aderendo a una raffinata interpretazione del lemma, secondo la quale “superstitio” indica l’atteggiamento di chi, appunto, “stat”, “si ferma”, attonito, al cospetto dei segni celesti, Einstein rigetta tale forma di “credenza” per sostituirla con l’esercizio dello sguardo libero sul cosmo, uno sguardo sempre nuovamente ammirato, ma razionale, investigativo e conoscitivo. Lo sguardo dell’episteme. Fuori, perciò, tanto dai paradigmi della teologia razionale, quanto da quelli della teologia naturale. Un Dio, quindi, esistente e presente in modo misterioso nella natura, pur senza identificarsi con essa, diversamente dall’entità panica del “maledetto Spinoza”, come si legge nel testo di “cherem”, il violento atto di scomunica del 1656. Perché il Dio di Spinoza, per quanto impersonale, è l’uno-tutto, origine di sé e di tutto l’esistente, e viene a coincidere in toto con l'universo: “Deus sive Natura”, per l’appunto, Dio, ovvero la Natura. Nessuna differenza tra lui e tutte le cose, cosicché non esiste alcuna cosa al di fuori di Dio, nessun un limite ‘esterno’. Il triangolo, somma degli angoli interni eguale a 180°, è Dio. Dunque la natura è perfetta? Ecco il punctum dolens. Spinoza cerca di fronteggiarlo con la teoria della “doppia causalità”, che esula dalla presente riflessione. Ciò che, invece, rileva, è il fatto incontrovertibile che Einstein, da qui in avanti, percorrerà un cammino differente e laterale rispetto alla linea di pensiero di Spinoza. Come vedremo. E tuttavia, quando l’intransigente vescovo di Boston, William Henry O’Connell, gli rivolse l’accusa di “ateismo autentico, mascherato da panteismo cosmico”, il padre della relatività rimase profondamente turbato, convinto com’era della sua estraneità a quell’addebito, poiché riteneva che a un ateismo irragionevole o del tutto irrazionale resti irreparabilmente precluso lo splendore del cosmo, la possibilità di “sentire la musica delle sfere”. In breve. Il “miracolo” del mondo, il suo “mistero”, pur intellegibile, è che esso rivela “un alto grado d’ordine”, che rende possibile il parziale successo degli “assiomi della teoria posti dall’uomo”. Come attesta “la teoria della gravitazione di Newton”: il successo dell’impresa scientifica, quale creazione umana, è sempre parziale e revocabile, non necessariamente nell’accezione popperiana dell’aggettivo. Un alto grado d’ordine, infatti, non suppone per un ordine totale e assoluto. Questi i tratti salienti della “fede” religiosa di Einstein, la “fede” in un universo, certo, ordinato e funzionante, seppure privo di garanzie quanto alla sua intellegibilità mediante le procedure, i protocolli e la ‘legislazione’ della scienza. Lungo questa via, si può ora più agevolmente raggiungere il punto più alto della presente riflessione. Si può, vale a dire, cercare di comprendere il senso dell’equazione kantiana di Einstein: “La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca”. Per intendere, nel contempo, il valore e la portata di un interrogativo cruciale: “Posto che la fisica non cancella Dio, in quanto che deve domandarsi non solo il <che>, ma altresì il <perché> dei fenomeni, Dio avrebbe potuto creare un ordine diverso?”. Siamo al nocciolo della questione. Alla stregua delle considerazioni precedenti, Albert Einstein, che aveva più volte espresso una sentita ammirazione per la figura ‘storica’ del Nazareno, quale valore e significato vuole annettere al suo linguaggio religioso, spinto fino alla continua invocazione di Dio e finanche all’evocazione, ancorché metaforica, degli “angeli”? Quale ai lemmi “Dio” e “creare”, ove si tenga presente che la “creazione dal nulla” – il nulla dell’esistente, s’intende - rappresenta il principale tratto distintivo della “potentia absoluta Dei”, la potenza assoluta di Dio, celebrata nelle Scritture e nella tradizione religiosa e teologica che egli rifiuta? In riferimento all’intelligenza cosmica dell’universo spazio-temporale, che cosa intende con una terminologia come “incarnazione” e “trascendenza”? In particolare, quale precisa relazione lega uno dei massimi fisici della storia della scienza alla tradizione culturale occidentale? Einstein, insomma, può essere considerato a pieno titolo uno dei paradigmi vitali di questa tradizione, e non solo uno dei più importanti e geniali pensatori del ‘900? E può costituire un efficace antidoto contro-nichilistico, nell’odierno crescendo di pittoresche - e rassegnate - forme di ‘sbullonamento’ intellettuale e morale? Dopo cent’anni di fraintendimenti, non sempre involontari e incolpevoli, però sempre inopportuni e talora capziosi, bisognerà pur trovare o, almeno, saggiare ipotesi di risposta tendenzialmente più coerenti e plausibili. Il “Dio” di Einstein, si diceva. Un’entità “sovra-personale”, che manifesta la sua radicale alterità rispetto non solo e non tanto all’entità soprannaturale delle Scritture e della rivelazione cristiana. E però, emblematicamente, anche a quella del fondatore della scienza moderna, Galileo Galilei. Ad apertura del “Sidereus Nuncius” – che preferiamo interpretare come “L’informatore cosmico”, in luogo della traduzione convenzionale “L’avviso o il Messaggero celeste” - nel 1610, Galileo propone “all’osservazione e alla contemplazione degli studiosi della natura grandi cose, sia per l'eccellenza della materia in se stessa, sia per la novità mai udita nei secoli, sia anche per lo strumento attraverso il quale queste stesse cose si sono manifestate al nostro senso”. Proprio l’anno precedente, aveva puntato per la prima volta verso il cielo uno strumento da lui “escogitato”, previa illuminazione, come precisa, della “grazia divina”. Il telescopio. “Grande cosa è certamente aggiungere all'immensa moltitudine delle stelle fisse, che con la naturale facoltà visiva si sono potute scorgere fino ad oggi, altre innumerevoli stelle, non mai vedute prima d'ora e che superano più di dieci volte il numero delle stelle antiche già note”. Il riferimento alla “grazia divina” appare inequivoco, ed è tanto più significativo in quanto, a quel tempo, al termine del periodo padovano, Galilei ignorava che il suo pur giustificato entusiasmo stava suscitare le prime reazioni di diffidenza in ambito ecclesiastico. Di lì a poco, il cardinale Roberto Bellarmino avrebbe chiesto ai matematici vaticani una relazione sulle nuove scoperte di “un valente matematico per mezo d'un istrumento chiamato cannone overo ochiale”. Mentre la Congregazione del Santo Uffizio, in via cautelare, avrebbe chiesto all'Inquisizione padovana se ivi pendessero procedimenti a carico di Galilei. Invero, le alte gerarchie vaticane già subodoravano gli effetti che “avrebbero potuto avere questi singolari sviluppi della scienza sulla concezione generale del mondo e quindi, indirettamente, sui sacri principi della teologia tradizionale”. Malgrado ciò, rapidamente maturava la percezione forte di essere giunti a uno snodo cruciale della storia dell'umanità. La conoscenza e la scienza si avviavano lungo la via ‘inaudita’ dell’osservazione diretta dei fenomeni, tendenzialmente affrancate dal paradigma “deduttivo” classico, e dal quadro di principi auto-evidenti e universali di matrice aristotelica. La nuova metodologia induttiva apriva la strada alla sperimentazione, nel contempo modificando in radice, dopo venti secoli, la concezione del mondo e dell'uomo. Le vie sconosciute dell'universo spalancavano la porta agli osservatori dell’immensità dello spazio e consentivano di “risalire” persino il tempo, sulla spinta di interrogativi riguardanti l'origine stessa del cosmo e la sua storia. Una storia, tuttavia – ecco il punto – iniziata con la “creazione”, dunque sussunta nella sfera della fede cristiana, anima dell’istituzione religiosa cattolica. Naturalmente, a condizione di annettere al termine “religione” il suo proprio – l’”idion” aristotelico – valore latamente culturale, a prescindere dal significato etimologico, ancora controverso e controvertibile. Vincolo, se positivo o negativo sotto tale profilo non rileva, al divino, anche come “sacro”, in proiezione “totalmente altra”. Perché Galilei, è noto, è un uomo di fede. Dio, sostiene con forza e coerenza, “ci parla” grazie a due “libri”: la Scrittura e il libro della creazione, squadernato sotto i nostri occhi. Nella lettera del 1615 a Madama Cristina di Lorena, sviluppo della precedente, del 1613, a Benedetto Castelli, scrive: “Che quell’istesso Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì che anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi agli occhi e all’intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il crederlo”. Cosicché, la verità della Scrittura e quella della scienza non possono contraddirsi. “Nelle quistioni naturali – ancora a Madama Cristina - e che non sian de fide prima si deva considerar se elle sieno indubitabilmente dimostrate. ..o vero se una tal cognizione e dimostrazione aver si possa: la qual ottenendosi ed essendo ella ancora dono di Dio, si deva applicare all’investigazione dei veri sensi delle Sacre Lettere in quei luoghi che in apparenza mostrano di sonar diversamente”. Richiamandosi ad Agostino, ricorda la lettera a Foscarini del cardinale Bellarmino. Per giungere alla conclusione, secondo cui, in consonanza con la frase, famosa e pressoché certa, del cardinale Cesare Baronio: “l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia in cielo e non come vadia il cielo… La teologia non discende alle più basse e umili speculazioni delle inferiori scienze; anzi quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine”. Come si vada in cielo, è lo Spirito a insegnarci. Come vada il cielo, è la scienza. Senza conflitto, è palese. La testimonianza scritturale, insomma, dovrebbe, secondo Galileo, “esser riserbata nell’ultimo luogo”, ossia posposta a quanto emerge dalle risultanze dell’indagine scientifica. Benché, infatti, la Sacra Scrittura e la natura siano ambedue un prodotto della potenza creatrice di Dio, scaturendo entrambe dal ‘Verbo divino’, la prima deve adattarsi al limitato intendimento delle persone comuni, mentre la seconda si attiene strettamente ai termini delle ‘leggi imposteli’, ed è “inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini”. La Natura, pertanto, dotata di una intrinseca necessità – si pensi alla cogenza “legale” aristotelica – è sottratta a qualunque possibilità di mediazione ermeneutica e governata da leggi immutabili, dunque insensibili ai desideri e alle aspettative degli uomini, nel senso precipuo declinato in un nostro recente articolo sul tema della relazione che stringe l’”onnipotenza divina” e la realtà del “male”, apparso in questo spazio. Una connotazione del divino, l’”inesorabilità”, che esibisce la specifica accezione etimologica del lemma latino “in-exorabilis”: ‘non passibile di preghiere e invocazioni’, da cui non si lascia vincere. Ne discende, nella prospettiva di Galilei, che, mentre la conoscenza dei fenomeni naturali si dimostra intrinsecamente refrattaria all’approfondimento ermeneutico e, perciò, immodificabile nella sua necessità, il testo scritturale appare suscettibile di molteplici letture, in armonia con la ricerca di significati coerenti con le acquisizioni progressive dell’impresa scientifica. Di conseguenza, argomenta lo scienziato pisano, in ragione di una siffatta relazione ‘asimmetrica’ tra la cogenza naturalistica e l’indeterminatezza ermeneutica, “quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono”, non deve in nessun modo “esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura”. Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. Dio è la sorgente prima e assoluta dell’esistente, e la sua “grazia”, dono gratuito, per l’appunto, inerisce ed illumina, vera e propria guida ontologica e corroborante, le dinamiche procedurali e gli esiti della ricerca scientifica. Fin qui Galilei. Possiamo, ora, riprendere la riflessione sul ‘nostro’ Einstein. Nel teorico della relatività, il rifiuto preliminare della tradizione religiosa ebraico-cristiana è netto, costante e intransigente. Essa non viene mai interpretata e riconosciuta come la “sede” istituzionale naturale del Dio della rivelazione e della creazione. Ché, anzi, quest’ultima rimane ancora tutta da decodificare nel suo significato autentico, mentre la prima trova ampie dilucidazioni nel testo di Einstein. La sola “rivelazione” pensabile e plausibile è il “superiore potere razionale” di cui la metafora filosofico-scientifica contempla l’“incarnazione” nel cosmo, come il grande fisico ribadisce a ogni piè sospinto. Entro tale manifestazione vivente di un ”ordine meraviglioso”, come ospiti, non signori, noi ci troviamo immersi e l’impresa scientifica mette a dura prova l’umano intelletto. Quanto alle Scritture, non può che stupire la loro incredibile ‘ricchezza’ di leggende primitive e infantili, intorno alle quali c’è ben poco da “interpretare”. “La principale fonte dei conflitti odierni tra le sfere della religione e della scienza sta tutta in questa idea di un Dio personale… fonte della paura e della speranza, che nel passato ha garantito ai preti un potere così ampio”, è l’inevitabile conclusione. Il cosmo è l’ordine, la potenza dell’universo, scenario e sfondo delle nostre vite e del nostro ‘naturale’ bisogno di sapere e di saperi. “La ragione umana – scrive Kant - viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana”. E Nietzsche, di rincalzo: “Si possono concepire i filosofi come persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l' uomo possa elevarsi”. Fino a che punto, ossia, ed entro quali limiti, possano curare la trattazione di questioni intrattabili, pur rinunciando all’illusione di potere “tentar l’essenza”, come suggeriscono Galilei, prima di Hume e Kant, e lo stesso Einstein. E però il cosmo non appare come un ordinamento qualsiasi, ma, bensì e classicamente, come una configurazione, se finita o infinita ora non importa, dotata della massima ‘autorevolezza’ e di “splendore”, a mente del radicale “kens” che costituisce e genera, tra l’altro, il lemma latino “censeo”, “penso autorevolmente”. Come ciò, insomma, che gloriosamente trionfa sul “chaos”, l’infinita apertura primordiale dell’universo, lo spalancamento dell’immensa “voragine” originaria dell’essere. Un trionfo che non esclude parziali commistioni e ‘simbiosi’ tra “chaos” e “kosmos”. Questo il conclamato “Dio” di Einstein. Le cui espressioni al riguardo restano sempre sufficientemente distanti da qualsiasi attestazione di “fede” istituzionale e chiesastica – la chiesa è un’istituzione civile, che talora, a parer suo, non ha demeritato - anche quando lo scienziato, spontaneamente od occasionalmente sollecitato, non nega la sua “religiosità”. La sua, ossia, profonda adesione al “mistero” e alla “gloria” dell’universo, concepito come incessante “challenge”: la “sfida” più grande per la ragione umana. Dio è il ‘nome’ dell’essere nella luce. “Raffiniert ist der Herr Gott, aber boshaft (hinterlisting) ist Er nicht”, “Sottile è il Signore, ma non malizioso”. Queste parole, ora incise sopra un caminetto nella sala di ritrovo del Dipartimento di Matematica di Princeton, significano che la mente di Dio è sottile, non già che egli è furbo o astuto, che è profondo ma non falso e ingannatore. Che “Dio non mette in piazza le sue cose” significa soltanto che “i segreti della natura” non sono penetrabili e dominabili in modo estrinseco e superficiale. La realtà ultima dell’universo, di Dio-ordine, è profonda, non falsa, e, per quanto complessa e sottile, nel contempo semplice e affidabile. Le trame dell’ordine, insomma, in quanto innervano le interconnessioni dell'universo, in tanto sono degne di fiducia ed esibiscono la loro intellegibilità, anche quando ciò non appaia, quando ossia non disponiamo di una comprensione razionale immediatistica. Ecco il ‘razionalismo’ di Einstein, esplicitamente ribadito in una conversazione con Aldo Sorani, apparsa sul “Messaggero” di Roma, il 26 ottobre del 1921, e ora disponibile sul website di Princeton. “Si dice che la mia teoria è anti-razionalista; mentre io credo di essere un perfetto razionalista. Io proseguo Newton, non lo annullo. Non sono un poeta”. E’ di assoluta evidenza che uno statuto siffatto ha a che fare con il tema della luce, cui abbiamo fatto riferimento, nel suo significato fisico, poiché lo spazio e il tempo si definiscono in riferimento alla luce. Che è la costante generale, rispetto alla quale tutti gli enti definiscono la loro conoscibilità. E, nonostante l’instabilità di alcuni principi della fisica e dell’astrofisica, la “costanza” della luce fornisce la ragionevole certezza che il ‘divino’ ordine cosmico immanente non solo non ci inganna, ma bensì suggerisce e rende possibile l’investigazione della ragione. Altrimenti, la nostra (kantiana e marxiana) condizione di “enti naturali finiti”, situati entro le coordinate spazio-temporali, non ci permetterebbe l’esercizio delle funzioni razionali. Senza la luce, insomma, non si darebbe neanche l’impresa scientifica, lungo la medesima linea di pensiero inaugurata ad Atene alcuni secoli prima della era cristiana. “Dio” come “ordine” rappresenta una tale essenziale garanzia. Tale la risposta di Einstein agli agguerriti assertori della teoria quantistica, e al loro convincimento concernente i valori di causalità e discontinuità nel dominio sub-atomico. La risposta, nel consueto spirito di umiltà, di chi riteneva di essersi guadagnato il “diritto di commettere degli errori” eventuali. In perfetta armonia con una complessa e ricca famiglia lessicale indoeuropea – “deiwos”, “div”, “dev”, etc. - Dio è ‘per l’appunto, ciò che risplende, lo “splendore” del giorno e del cielo, dies-giorno in latino, la luce dell’essere disponibile al nostro sguardo, alla nostra sconfinata ammirazione, nonché, non da ultimo, all’intelletto che interroga. Dio è, dunque, il nome di una condizione ontologica, l’eccelsa “dignità” dell’intero ‘olofrasticamente’ condensata in un nome: olo-frase, anzi, più che parola-frase, parola-pensiero, puro segno linguistico denotativo dell’“oggetto” in termini referenziali. Ben più che nelle lingue di origine germanica, infatti, dall’antico germanico “Got” al moderno “Gott”, l’”invocato”, e invocato con frequenza anche da parte di Einstein, “Dio” s’identifica nella sfera semantica del “Deus” della tradizione culturale greco-latina – dal genitivo di Zeus “diòs” e, tra gli altri, secondo Emile Benveniste, dalla voce “ho theòs”. Ma poiché “Dio non mette in piazza le sue cose”, non ci è possibile vedere la luce stessa, ma solo ciò che è illuminato dalla luce, “la realtà nella sua profondità, mediante l’intercettazione dei pensieri del Grande Vecchio”, l’Universo, come Einstein talora amava esprimersi. Perché ciò che si manifesta nella luce è la regolarità dell’ordine, senza necessità alcuna di escogitare cause occulte e separate, la cui immaginazione egli rigettava al pari, o più radicalmente, di Francis Bacon e Isaac Newton, quale becero “dualismo”. La visione dell’”alto grado di ordine” del mondo naturale lo indusse ad affermare: “Sembra difficile dare una sbirciata alle carte di Dio. Ma che Egli giochi a dadi e usi metodi <telepatici>…è qualcosa a cui non posso credere nemmeno per un attimo”. Pare che si riferisse alle teorie di Niels Bohr, il quale replicò "Non dire a Dio come deve giocare". Successivamente, rispetto a uno dei precursori della gravità quantistica, John Archibald Wheeler, il teorico dell’equazione che determina alcune proprietà generali della funzione d'onda dell'universo, Einstein ribadì: "Non riesco ancora a credere che Dio giochi a dadi… ma forse mi sono guadagnato il diritto di commettere degli errori". Eppure il convincimento è tenace, e sembra mutuato da una proposizione saliente di Spinoza, nell’”Etica”: “Nella natura non vi è nulla di contingente, ma tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura ad esistere e a operare” Se non ché, la replica di Bohr non teneva conto di una cruciale ‘presumption’ dell’epistemologia di Einstein, il fatto che mai il padre della relatività avesse concettualizzato l’universo quale ordine assoluto, trasparente e perfetto, dunque perfettamente intellegibile. Basti considerare la tonalità generale e il linguaggio delle sue lettere, sopra citate. Dio-ordine è l’”imperscrutabile”, persino “oscuro” per l’impresa scientifica e la storia della scienza un cammino affascinante ma impervio, non mai lineare e progressivo. “We see the universe marvelously arranged and obeying certain laws but only dimly understand these laws “, accediamo alla meraviglia dell’universo in modo labile e incerto, anche se, scrive Einstein, “I am not an Atheist”, non sono ateo. Non sono, intende, “sordo alla musica delle sfere”, cieco davanti allo splendore del cosmo. Emozioni profonde, che l’uomo nutre e manifesta da sempre, precisamente quelle di cui è parola lirica nell’“Inno ai Patriarchi” (1822) di Giacomo Leopardi. Che cosa accadde quando l’uomo vide la prima alba? Semplicemente inizia, secondo il poeta, la “maledizione della conoscenza”, come la chiamerà in modo lapidario Thomas Mann. Il mondo esisteva anche prima, evidentemente. E tuttavia, questa speciale capacità di meraviglia, già esaltata da Aristotele come il principio stesso dei più alti saperi dell’uomo, per Einstein è propria della scienza e dell'arte. In proposito, Ernest Gordon, decano della Cappella Universitaria di Princeton, non esitò ad affermare: “Credo che dipenda dal senso di Einstein di grande rispetto (reverence)”. Non si potrebbe dire meglio. ‘Religiosità’ cosmica e ratio scientifica in Einstein coincidono, nei quadri epistemici del pensiero proteso verso “the Old One”, il Grande- vecchio-universo. E la “fede” altro non è se non fiducia e fedeltà, doverosa corrispondenza all’ordine e leale impegno intellettuale e morale: “fides” latina e “pistis” greca , deverbale da “peitho”, persuado. "Eines gelebten Glaubens”, sì è opportunamente detto, fede vissuta. Con una precisa avvertenza, a scanso di equivoci tutt’altro che infrequenti. E’ la fede di chi si sente “completamente vocato alla libertà e alla comprensione”, e ‘crede’ nella possibilità “che le regole valide per il mondo dell'esistenza siano razionali, cioè comprensibili per la ragione”, come afferma nel discorso al seminario teologico di Princeton. Convinzione forte e radicata che accompagnerà sempre la riflessione di Einstein. Il rischio, sempre incombente, è, allora, quello di fare rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta, facendo precipitare il “principio di contraddizione” in “principio di esplosione”, e connessa autodistruzione di basilari criteri di rilevanza e comprensione razionale. L’esegesi interpretativa, invero, non può spingersi oltre il limite consentito dal rispetto della rigorosa concatenazione argomentativa del discorso teorico di Einstein. Come accade, ad esempio, a Thomas Torrance, il noto teologo recentemente scomparso, quando afferma, tra l’altro e con aria di trionfo: “Albert Einstein coglieva la rivelazione di Dio nell'armonia e nella bellezza razionale dell'universo”. Rivelazione, abbiamo visto, è una parola imbarazzante e potenzialmente inquinante, perciò da maneggiare con (molta) cura, ogniqualvolta in cui si ponga il presente tema di riflessione. Einstein però si guarderà bene dal compiere questo “salto mortale per il pensiero”, come lo definisce lo Hegel critico dell’idea di “sapere immediato” di Jacobi a Jena, nel 1802, in “Glauben und Wissen”, “Fede e sapere”, apparso sul “Kritisches Journal der Philosophie”, il Giornale critico di filosofia. In un certo senso, acquisire conoscenza è come “intercettare i pensieri di Dio”, sebbene non sia poi possibile sapere “se il buon Dio non rida di esse”, affermò una volta nell’atto di derivazione delle implicazioni della teoria della relatività. “Penso a questo in connessione con il fatto che le equazioni della teoria della relatività prevedono i propri limiti, e così ci conducono indietro verso un punto zero dell'espansione dell'universo, conosciuto comunemente con il termine di "singolarità gravitazionale", “black hole”, il buco nero che Henry Margenau riteneva implicasse il principio della “creatio ex nihilo”. Lo scienziato, tuttavia, osservava che “non si può concludere che <l'inizio dell'espansione> dell'universo debba corrispondere a una singolarità in senso matematico, poiché le equazioni non possono essere estese a queste regioni, se anche <l'origine del mondo> costituisce realmente un inizio”. Inizio, dunque, quale creatio ex nihilo, tassativamente escluso dalla nozione del ‘suo’ Spinoza, il predetto “Deus sive Natura”: infinita, eterna sostanza autocreantesi. La conoscenza, allora, “emancipa dai ceppi delle speranze e dei desideri personali, e con ciò perviene a quell'atteggiamento di umiltà mentale verso la grandezza della ragione incarnata nell'esistenza e che, nei suoi più abissali recessi, è inaccessibile all'uomo. Consideravo tale atteggiamento, tuttavia, religioso nel senso più alto del termine. E così ho l'impressione che la scienza non solo purifichi l'impulso religioso dalle scorie del suo antropomorfismo, ma contribuisca altresì ad una spiritualizzazione religiosa della nostra comprensione della vita”. La “religione, umile ammirazione dell'illimitato e superiore Spirito che rivela sé stesso negli esili dettagli che noi siamo capaci di percepire con il nostro fragile e flebile pensiero. La profonda emotiva convinzione di <a superior reasoning Power>, una Ragione superiore, come si rivela in un universo incomprensibile, questo forma la mia idea di Dio. In linguaggio corrente si può chiamarla <panteismo>”. Come non pensare, giunti a questo snodo, all’intelligenza scientifica profonda e problematica di Charles Darwin? In una lettera a James Grant, l’11 marzo 1878, scrive: “L’argomento più forte per l’esistenza di Dio (for the existence of God), a quanto mi sembra, è rappresentato dall’istinto o l’intuito che tutti (suppongo) avvertono che ci sia dovuto essere un iniziatore intelligente dell’Universo (an intelligent beginner of the Universe); ma sorge poi il dubbio e la difficoltà se o meno tali intuizioni siano degne di fede”. In una precedente lettera a Down Beckenham, il 2 aprile 1873, aveva già ammesso: “L’impossibilità di concepire che quest’universo grandioso e meraviglioso, con i nostri sé coscienti, sia scaturito per caso a me pare l’argomento principe a favore dell’esistenza di Dio; ma se questo sia un argomento di reale valore, non sono mai stato capace di deciderlo. Sono consapevole che, se pur ammettiamo una causa prima, la mente arde comunque dal desiderio di sapere da dove sia venuta e come sia scaturita”. E tuttavia, “ la conclusione più sicura sembra essere che l’intero tema vada al di là dell’orizzonte dell’intelletto umano” (“the whole subject is beyond the scope of man's intellect”). A Mrs. M.E. Boole, il 14 dicembre 1866, confidava: “Mi è sempre sembrato più soddisfacente considerare l’immensa quantità di dolore e sofferenza a questo mondo come l’esito inevitabile della sequenza naturale degli eventi, ossia leggi generali, piuttosto che dell’intervento diretto di Dio (as the inevitable result of the natural sequence of events, i.e. general laws, rather than from the direct intervention of God), per quanto sia consapevole come ciò non sia logico se rapportato a un Dio onnisciente”. E pone a tema la questione cruciale del “Libero Arbitrio e della Necessità che la maggioranza della persone ha ritenuto insolubile”. Il male come naturale sequenza degli eventi secondo leggi generali. E ancora, ad Asa Gray, il 22 Maggio 1860: “Non riesco comunque ad accontentarmi (I cannot anyhow be contented) di guardare questo meraviglioso universo e specialmente la natura dell’uomo (this wonderful universe & especially the nature of man) e di concludere che tutto sia l’esito della forza bruta. Sono incline a guardare tutto come risultante da leggi mirate, con i dettagli, vuoi buoni vuoi cattivi, lasciati all’elaborazione di quello che noi potremmo chiamare caso (resulting from designed laws, with the details, whether good or bad, left to the working out of what we may call chance). Non che questa concezione mi soddisfi affatto. Nel più intimo di me stesso, sento che l’intera materia è troppo profonda per l’intelletto umano. Ma più penso più mi sento sconcertato È come se un cane tentasse di speculare sulla mente di Newton, ognuno speri e creda come può”. Infine, ancora in una lettera a Down Beckenham, il 7 maggio 1879, esprime il convincimento che “un uomo può essere al tempo stesso teista e evoluzionista”. Stephen Gould, il discusso ideatore, con Niles Eldredge, della “theory of punctuated equilibrium”, la “teoria degli equilibri punteggiati”, ha osservato che teismo ed evoluzionismo afferiscono a due ordini di conoscenza diversi, due “non overlapping magisteria”: due magisteri non sovrapponibili. E si rivela, sul punto, un fedele interprete di Darwin. Il quale, difatti, può affermare in modo inequivoco di non essersi mai ritenuto un ateo che nega l'esistenza di Dio, ma piuttosto un agnostico: “Nelle mie fluttuazioni più estreme, non sono mai stato un ateo nel senso di negare l’esistenza di un Dio (I have never been an atheist in the sense of denying the existence of a God). Ritengo generalmente (e sempre di più invecchiando), ma non sempre, che agnostico corrisponderebbe alla definizione più corretta della mia condizione intellettuale”. Com’è stato acutamente osservato, nel pensiero di Darwin, Dio, più che assente, non è necessario. La realtà ‘creata’ non deve essere vista nell’ottica della teologia naturale, dei teologi fortemente avversati da Darwin, né, a dispetto di Newton, come un orologio predefinito, funzionante, ‘semper idem’. La sollecitazione culturale più forte dell’evoluzionismo concerne, infatti, proprio il carattere ‘storico’ della vita e delle sue complesse vicende ambientali e connesse, continue variazioni sulla terra e negli esseri viventi, che ne fanno una realtà dinamica. Il punto è oltremodo rimarchevole, in virtù della palese somiglianza di vedute problematiche e critiche presente in Einstein. Nelle edizioni dell’”Origine delle specie” successive alla prima del 1859, nella penultima frase Darwin aggiunse un inciso: “Nella vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma sola, vi è qualcosa di grandioso; e mentre il nostro Pianeta ha continuato a ruotare secondo l'immutabile legge di gravità, da un semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano ad evolversi”. Se non ché, a seguito di immediati malintesi sull’occorrenza (e l’opportunità) del termine “creatore”, ritenne di precisare: “Mi sono a lungo pentito di aver ceduto all'opinione pubblica, e di aver usato il termine pentateucale di creazione, con il quale intendevo in realtà dire “apparso” per qualche processo interamente ignoto”. Naturale vaghezza del linguaggio: Albert Einstein si situa sulla medesima linea di pensiero. E però, in riferimento a siffatti passaggi argomentativi, e a prescindere da Darwin, l’attenzione degli studiosi, fermandosi unicamente sull’esplicita connessione di Einstein con il pensiero di Spinoza, si lascia poi sfuggire l’implicito e forte richiamo al criticismo kantiano. V’è un mondo che noi non possiamo davvero sapere (“zu wissen”) quale sia, e che possiamo soltanto “pensare”, non “conoscere”, “denken”, non “erkennen”, nell’espressione di Kant: un mondo che non può mai costituire oggetto di “Wissenschaft”, di scienza. Epperò, d’altra parte, v’è un uomo il quale, applicandosi alla realtà, è in grado di conoscerne alcuni aspetti, che sono consoni alla sua propria costituzione. Gli “esili dettagli” di Einstein, i “dettagli, vuoi buoni, vuoi cattivi” (“the details, whether good or bad”) di Darwin. Il che significa che, sebbene non avesse mai studiato a fondo il pensiero di Kant, Einstein tuttavia ne recepiva l’istanza materialistica soggiacente, quale, ad esempio, emerge sia nella nota kantiana all’”Anfibolia dei concetti della riflessione”, in appendice all’”Analitica trascendentale”, sia e soprattutto, nella “Widerlegung des Idealismus”, la celebre “Confutazione dell’idealismo” aggiunta nella seconda edizione della prima “Critica”, che tanti problemi creò a Hegel, e non solo a lui, e che ha esaltato i massimi studi kantiani contemporanei, da Cassirer a de Vleeschauwer al nostro Luigi Scaravelli. A partire da ’questo‘ Kant, peraltro, Ernest Cassirer evidenzia la centralità dei kantiani "Primi principi metafisici della scienza della natura": “Lo spazio assoluto non è in sé nulla e nessun oggetto, significa soltanto uno spazio relativo a tutti gli altri che posso sempre pensare oltre quello dato”. Lo spazio relazionale di Einstein. Del resto, in un breve trattato del 1763, "Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative", Kant stigmatizza la consuetudine dei metafisici – l’obiettivo critico erano i contemporanei d'ignorare la peculiare funzionalità dell’impresa scientifica, che “si occupa di conoscenze comprensibili ed evidenti”, mostrando di preferire un preteso sapere basato su “astrazioni oscure e difficilmente controllabili”. Si noti che – la ‘coincidenza’ è significativa - nello stesso anno 1763, Kant dava alla stampa il decisivo “Beweisgrund”, in cui argomenta che predicati o determinazioni sono posizioni relative a un ‘quid’, cioè caratteri di una cosa, mentre l’esistenza non è una “nota di concetto”, è la posizione assoluta della cosa in sé stessa. Da non sovrapporre al “Ding an sich”, la “cosa in sé”, la “Realität”, la realtà rappresentata e rappresentabile unicamente come “fenomeno”, all'interno delle condizioni a priori della sensibilità e dell'intelletto, dove si genera la sintesi conoscitiva. L'apparire della cosa, nelle sue proprie modalità, non “die Sache selbst”, la cosa stessa. E’ solo con esso che il pensiero entra in relazione, in quanto, appunto, esso è altro dal “noumeno”, sebbene la confusione sul punto continui a dilagare. Ad opera di quanti non prestano la necessaria attenzione neppure ad altre pagine decisive della prima “Critica”, quali, ad esempio, quelle dedicate alla “Elementarlehre des Verstandes”, la “teoria elementare della mente” e, in particolare, alla “dottrina trascendentale degli elementi”, che ne rappresenta il fulcro. In tema, una volta di più, la reciproca implicazione e coniugazione delle “due fonti” della conoscenza: sensibilità e intelletto. Ebbene, è quest’idea della ragione “naturalmente” prodotta dalla mente nel suo incessante sforzo di rappresentarsi il “mondo” ed eccedente la sua effettiva capacità conoscitiva, che Kant chiama “to noumenon”, il “pensato/pensabile”, dai corrispondenti lemmi greci “noeo” e “nous”, “pensare/pensiero nella mente/intelletto”, integranti un’ampia famiglia lessicale e scientifica interlinguistica. Una libera ”eccedenza” del pensiero, connaturata alla finitudine della “condition humaine”, sulla soglia ontologica del “limite”. Intorno ai nessi epistemici sopra enucleati, e all’irriducibile ‘libertà della mente’, il breve excursus che segue può fornire qualche utile indicazione. Gerald Edelman, l’autorevole neurofisiologo di recente scomparso, Nobel per la Medicina nel 1972, grande avversario del “riduzionismo”, nel testo “Sulla materia della mente”, scrive: “L’analogia tra mente e calcolatore non regge. Il cervello si forma secondo principi che ne garantiscono la varietà e anche la degenerazione; a differenza di un calcolatore non ha una memoria replicativa; ha una storia ed è guidato da valori; forma categorie in base a criteri interni e a vincoli che agiscono su molte scale diverse, non mediante un programma costruito secondo una sintassi”. E Joseph LeDoux, celebre neuroscienziato USA, ne “Il sé sinaptico”, aggiunge che la mens cognitiva e l’intelligenza artificiale possono anche giocare a scacchi, e persino barare, ma non conoscono l’”umano sentimento del senso di colpa”, quando barano, non sono distratte dall’amore, dalla rabbia o dalla paura, né automotivate da spinte competitive, oppure dall’invidia e dalla compassione. Per finire con John Searle, uno dei massimi filosofi del linguaggio e della mente. In “Mente, cervello, intelligenza”, egli argomenta in modo nitido e persuasivo come la mente non possa consistere in un semplice “programma”, poiché “la sintassi formale di per sé non garantisce la presenza di contenuti mentali…in quanto che un calcolatore può simulare un “programma di capacità mentale” di comprensione della lingua cinese “senza capire una sola parola di quella lingua”. Invero, Searle conclude, “sintassi e semantica non si equivalgono, e la prima di per sé non è sufficiente a costituire la seconda”. Ed è proprio lungo questa via, peraltro, che incontriamo e realizziamo meglio il senso della distinzione, introdotta da Edoardo Boncinelli, tra “neurostato” e “psicostato”. Ma ritorniamo, ora, al nostro tema. Se le cose non stessero come sopra rappresentato, prosegue Kant, non saremmo enti naturali finiti, ma esseri di cui non si capisce come siano costituiti, puri spiriti, non uomini ma dei. Esseri, insomma, improbabili e misteriosi, i quali presumono di “sapere”, ma di ‘affrancarsi’ nel contempo dalla sensibilità, percepita come un handicap, al pari della colomba, che, se pensasse, potrebbe ritenere che la resistenza dell’aria, in virtù della quale può volare, rappresenta invece un ostacolo al suo volo. Ormai, il passo verso il criticismo pratico dell’opzione morale, i.e. delle cerchie della libertà, lungo l’arco che si estende dal mondo del “müssen” all’infinita determinazione del “sollen”, è relativamente breve, e pertanto predisposto allo scandaglio delle sorgenti della normatività dell’obbligo morale, al fine di rendere conto dell’oggettività della pratica morale. L’esperienza morale mostra, innanzitutto, il fallimento del progetto naturalista e/o realista, poiché la ragione non è “inerte”, ché, anzi, la nozione stessa di ragione pratica può trovare applicazione soltanto rispetto ad esseri dotati di ragione. Oltre, dunque, la razionalità empirica e strumentale, Kant punta ora al “fatto della ragione”. “Queste due cose – si legge nella Critica della Ragion pratica su questo punto cruciale - io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevoli di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell’universo) la materia del quale si formò, dopo essere stata provvista per qualche tempo ( e non si sa come ) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito”. L’estesa citazione, nel ricondurci al cuore della questione, vero e proprio platonico “to pragma autò”, suggerisce un rapido cenno al progetto costruttivista nel dominio della filosofia pratica, indirettamente utile a sgomberare il terreno da qualche equivoco. Il costruttivismo, infatti, non nega che vi siano ‘fatti’, afferma tuttavia – John Rawls è esplicito - che “al di fuori di una ragionevole procedura di costruzione, i fatti restano semplicemente fatti”. Non ‘contano’, ossia, come ragioni normative. Non ‘contano’ per noi: la relazione “für uns” (per noi), prima di Hegel, costituiva il nucleo essenziale della ragion pratica di Kant. La metafisica, dunque, configurandosi come la ricerca della cosa al di fuori delle condizioni in cui soltanto può essere conosciuta nel suo apparire, induce Kant a disegnarne l’”intero contorno”, come icasticamente si esprime. Ed è proprio qui che risiede il significato della tenace opposizione di Newton a ogni vano progetto di saperi inagibili e della sua elaborazione del noto principio metodico: “hypotheses non fingo, e mi attengo al fatto che la legge descrive bene come funziona il mondo, ma non ne indago i motivi". Vale a dire: “Non invento, non immagino ipotesi” metafisiche, per formulare unicamente “ipotesi” plausibili della e per la scienza. Certamente, nella prospettiva epistemica di Kant, nell’esistente non vi sono più qualità o caratteri che nel semplice possibile, poiché ciò che vi è in più è la “posizione assoluta”, la reale “esistenza dell’ente” o cosa. E se il principio di contraddizione rimane la condizione formale della “possibilità”, la possibilità intrinseca delle cose suppone sempre qualche esistenza. Se, infatti, nulla di fatto esistesse, nulla sarebbe neppure pensabile e possibile. Dagli “Scritti precritici” fino all’”Opus postumum” - quel “Nachlass” che assorbe tuttora l’interesse e l’impegno della storiografia filosofica, specialistica e non - Kant ribadisce, con invariata coerenza, che “la metafisica... invece di utilizzare taluni concetti o dottrine della matematica, si è al contrario spesso eretta in armi contro di essa... Anche la considerazione matematica del moto, unitamente alla conoscenza dello spazio, fornisce una quantità di dati atti a mantenere sui binari della verità la metafisica del tempo”. Cosicché, nella prassi scientifica, l'impostazione einsteiniana rispetta i criteri già prefigurati da Kant ai fini della comprensione e configurazione teorica della realtà naturale, in funzione degli “schemi categoriali” insiti nel pensiero e idonei all’acquisizione sintetica e all’”ordinamento” della congerie degli eventi fenomenici, dotati di caratteri empirici, non assoluti, ma non per questo meno razionali. Einstein, insomma, dopo Hegel, aveva ben compreso che il “fenomeno” di Kant è identico al “phenomenon” della fisica newtoniana, in quanto “Erscheinung”, “fatto naturale oggettivo”, non “Schein”, pura “dileguante parvenza”. Un fatto naturale irriducibile nella sua autonomia ontologica all’attività del pensiero, poiché nella realtà concreta v’è sempre “Etwas mehr”, “qualcosa di più” che nel semplice pensato, nella pura possibilità trascendentale di esso. E ciò vale per “cento talleri” come per tutto il resto, a conclusiva refutazione dell’ontologia anselmiana e cartesiana e leibniziana, etc. etc. In Einstein, dunque, con tutta evidenza, questo “credo epistemologico” incrocia il tema di una “religione” libera, antipode esatto di quella rivelata, una religiosità/razionalità depurata da ogni forma di “antropomorfismo” o “antropopatismo”, i.e. da ogni grottesca rappresentazione della divinità con sembianze e passioni umane, sia da parte dei credenti, sia, paradossalmente, di molti non credenti, sensibili a una ampia gamma di suggestive iconografie, evidentemente. “Thinking with animals”, pensare con gli animali, “to transcend the confines of self and species”, per trascendere i confini del sé e della specie, secondo la crescente letteratura sulla coscienza, la cognizione animale e la continuità tra le menti umane e animali, a giudizio autorevole degli autori dell’omonima pubblicazione Columbia University Press, 2005, a cura di Lorraine Daston, direttore presso l'Istituto Max Planck per la Storia della Scienza e Gregg Mitman/William Coleman, storico della Scienza presso l'Università del Wisconsin. Einstein, dunque, consapevole, come pensava anche Max Planck, il grande torico della fisica quantistica, di un’elementare verità intrinseca alla struttura della comprensione: “Rimane sempre un abisso, incolmabile dal punto di vista della scienza esatta, fra il mondo reale della fenomenologia e il mondo reale della metafisica. Questo abisso è la sorgente di una tensione costante, fonte inesauribile dell’insaziabile sete di conoscenza del vero scienziato. Ma al tempo stesso noi possiamo dare un rapido sguardo ai confini che la scienza esatta è incapace di valicare”. Uno sguardo dal ponte. Da qui la “decisione” di dedicarsi alla scienza, conseguenza diretta di una scoperta che non aveva mai cessato di riempirlo di entusiasmo fin dalla giovinezza. “Le leggi del pensiero umano coincidono con le leggi che regolano la successione delle impressioni che riceviamo dal mondo intorno a noi, sì che la logica pura può permetterci di entrare nel meccanismo di quest’ultimo. A questo proposito è di fondamentale importanza che il mondo esterno sia qualcosa di indipendente dall’uomo”. In questo senso, si può affermare che “scienza e religione non sono in contrasto”, pur restando fermo che “la scienza non può svelare il mistero fondamentale della natura. E questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte dell'enigma che stiamo cercando di risolvere”. Ne consegue che “soltanto quando ci sentiamo sotto i piedi il saldo terreno dell’esperienza della vita reale, ci è lecito darci senza timore ad una concezione del mondo fondata sulla fede in un ordine razionale dell’universo”. Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. Al di qua dell’”abisso”, solamente il “terreno dell’esperienza”, del “mondo esterno e indipendente dall’uomo”, è “saldo”, in connessione intrinseca con la “fede in un ordine razionale”. Anche qui, come si vede, la “fede”, schiettamente scientifica e materialista, affrancata dal segno ingombrante dello scientismo positivista, concerne l’ordine, non Dio. Che rimane un “Grenzbegriff”, un concetto-limite, kantianamente, seppure con un ampio seguito non trascurabile. Ci sorprende, ammirati, la straordinara consonanza, anche di toni, con Einstein. La sola seppure decisiva differenza risiede nel maggiore ‘disincanto’ del padre della relatività, la weberiana “Entzauberung”, nella sua consapevole distanza dall’immaginazione di vie “verso l’alto, verso Dio”, il Dio-alterità, s’intende, secondo l’espressione contenuta in una conferenza di Planck del 1937. L’ordine cosmico si configura, pertanto, come “potere razionale superiore” e “sovrapersonale”. Superiore, s’intende, alla mens individuale e collettiva. E non può certo ricondursi al caso la peculiare circostanza che, nel lessico filosofico greco, il termine ”arché” includa, oltre al significato di “principio”, “origine” e “causa”, anche il valore semantico, appunto, di “potere”. L’enunciato cristologico del vangelo di Giovanni, “in principio era il logos”, diviene così riformulabile: in principio era l’ordine. Il “principio” non è “altro” dall’ordine. E’ l’ordine. Mitologemi esiodei sul “Chaos” a parte. Goethe, in certo modo, coglie la sostanza della questione, quando fa scegliere al suo “Faust”, quale traduzione del titolo cristologico di “Logos”, “die Tat”, l’"atto/azione". Realtà in azione: il “working”, si potrebbe anche dire. Non si deve, peraltro, trascurare l’espressiva salienza della parola “ordine”, la cui radice indoeuropea “or/ar”, ampiamente registrata e attestata dalla cultura greco-latina, ma non solo, rinvia direttamente a uno specifico gruppo lessicale comprendente voci come il greco “ornumi” e il latino “orior”: nascere, cominciare, mettersi in movimento” e, di conseguenza, “disporsi e andare in un certo modo”. Anche qui, come si può constatare, nessuna traccia di “creazione”, lemma costruito sulla radice allotria “kar”: produrre/dominare. Anche per queste ragioni, Einstein, non riuscirà mai ad accettare la nuova visione della fisica teorizzata da Heisenberg con il “Principio d’indeterminazione”, nucleo centrale della meccanica quantistica, sebbene Einstein stesso ne fosse stato uno dei fondatori. Mentre nella meccanica classica un evento era sufficientemente ben determinato dalle coordinate spazio-temporali – sia detto en passant - per Heisenberg non era possibile una valutazione simultanea della posizione e della velocità di un elettrone, dal momento che i “quanti di luce”, ossia i vettori dell’informazione, ne avrebbero modificato la realtà. Se non ché, un concetto siffatto, d’indole statistico-probabilistica, di un dato evento rappresentava proprio la condizione fisica che Einstein rigettava. Riteneva inammissibile che la misurazione dei fenomeni fisici potesse dipendere da una tale incertezza. Al punto che, negli ultimi anni della sua vita, si trovò relativamente lontano dalla comunità scientifica e in rapporti con pochi collaboratori, se prescindiamo da un grande logico-matematico, il boemo Kurt Gödel, anche perché Einstein considerava la matematica come la via privilegiata per esprimere e formulare la legalità universale. Nonostante le differenti personalità, Einstein e Gödel, due ‘caratteri’ profondamente diversi, erano accomunati dal rifiuto nei confronti della meccanica quantistica. Nel grande parco di Princeton s’intrattenevano insieme e conversavano nella loro lingua d’origine. Com’è noto, Gödel rappresenta per la matematica quello che Einstein significa per la fisica, al punto che il suo “teorema d’indecidibilità” configura la terza rivoluzione scientifica del XX secolo, assieme alle teorie della relatività e alla fisica quantistica. Nel 1931, Gödel dimostrava che dato un qualsiasi sistema formale, assiomi e regole di procedure, come l’aritmetica o la geometria euclidea, esiste sempre una proposizione vera che, pur facendo parte dello stesso sistema, non è dimostrabile con gli assiomi propri del sistema stesso. La matematica, insomma, lungi dal configurare un sistema chiuso, completo e auto-consistente, costituisce un dominio aperto, e la sua “incompletezza” promuove ulteriori relazioni logiche, vale a dire l’ammissione di nuovi enti. Una teoria logica è dunque vera solo a condizione della sua “incompletezza”. Li chiamavano amichevolmente “i due Princeton”. Queste le ragioni profonde dell’opposizione, implicita ma ferma, di Einstein all’”agostinismo” imperante, anche in ampi segmenti della scienza, e costituitosi sul presupposto teologico e metafisico, di chiara ispirazione neoplatonica, di un fondamentale scritto giovanile di Agostino, “De ordine” (387-386). Un’opposizione ‘intellettuale’, ancor prima che scientifica, che ormai risulta evidente e compiuta. Il grande fisico fu costantemente mosso dall’esclusivo interesse di penetrare nelle profondità di questa struttura dinamica della regolarità ordinata delle cose, che presiede alla superficie strutture fenomenica del mondo. L’epistemologia della relatività generale, infatti, mostrava che fattori e valori empirici e teorici sono inter-relati, in natura come nella scienza. E, se la superficie fenomenica dell'esistente varia al variare dell'osservatore, la profondità ontologica invisibile, riteneva, resta oggettivamente invariante per qualsiasi osservatore, integrando l’ordine ‘fenomenico’. Al riguardo, John Wheeler ha spesso ricordato che, a differenza di Bohr, interessato soltanto ad atomi ed elettroni, e dunque indifferente, persino ostile, come dichiarò una volta, alla parola stessa “universo”, Einstein perseguiva e coltivava un’immagine “onnicomprensiva” dell’intero. Teologia razionale o naturale, è la conclusione di Wheeler. Un giudizio palesemente azzardato. Perché Einstein, il cui ‘programma di ricerca’ – secondo la terminologia invalsa ad opera di Imre Lakatos - non mirava a una “teoria del tutto” nel senso convenzionale della locuzione, aveva ben presente la celebre conclusiva confutazione kantiana di siffatte posizioni di pensiero, che, scolastica medievale a parte, incrociano e attraversano anche il pensiero moderno: da Francis Bacon a Descartes e Leibniz. Sicché, la congettura, se anche proveniente da chi aveva ben conosciuto il teorico della relatività, stride visibilmente. Memore e discepolo dell’incisiva lezione epistemologica del fisico e filosofo austriaco Ernst Mach, dal quale egli si distaccò solo nella piena maturità, contestandogli di costruire non un “sistema”, ma bensì un semplice “catalogo della natura”. E tuttavia Mach rimane uno dei grandi precursori della teoria della relatività, nonché ‘ispiratore’ del “Wiener Kreis”, e nel suo nome Einstein coniò la definizione di “principio di Mach”. Ciò nonostante e curiosamente, negli anni dalla scoperta della relatività (1905) fino alla sua morte (1916), Mach cambiò gradualmente atteggiamento verso la relatività, tanto vero che, poco prima di morire, scrisse una lettera pubblicata soltanto nel 1921 - in cui sconfessava il proprio sostegno alla teoria. Einstein, pertanto, si mostrò sempre intransigente nella preoccupazione di non infrangere il divieto kantiano mediante un uso “costitutivo” delle idee della ragione, qual è, per eccellenza, quella di Dio. Irriducibilmente avverso ai “sogni dei visionari”, opportunamente derisi da Kant, e rigorosamente ancorato alla dimensione oggettiva dei “fatti” osservabili e indagabili, non mostrava alcun interesse al vezzo pseudo-filosofico delle “dimostrazioni” dell’esistenza di supremi “modelli di perfezione”. E, anch’egli, pensava la soggettività dell’io come “insalvabile”, “Unrettbares Ich”, come fu propriamente definito dallo stesso Mach. E’ sufficiente considerare che, nella cultura ebraica, la relazione di fede configura un vincolo a due: “Io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo”. Il rapporto tra un Io e un tu: una convinzione che fonda la pretesa di superiorità del “popolo eletto”. Pur nel “rispetto per le peculiarità ebraiche di coscienza e di fede”, prosegue l’intervista del 1921, Einstein precisa con estremo vigore di non credere all’”elezione”, “being chosen”, e alla superiorità, “superiority”, ebraica. Gli ebrei meritano e hanno diritto a una condizione dignitosa e umana, ma “are not superior”, non sono superiori. In realtà, per questa via Einstein si congedava anche dal Dio di Spinoza, allo scopo, per lui ineludibile, di “sozein ta phainomena”, salvare i fenomeni, secondo la ‘formula’ dei primi fisici greci della natura, nel quinto secolo, l’età dell’”illuminismo greco”, da Anassagora agli atomisti, spesso – e pour cause - richiamati dalla fisica novecentesca. Ebbene, non è dato sapere con certezza se egli conoscesse l’interpretazione hegeliana del pensiero di Spinoza, secondo la quale “Philosophieren ist Spinozieren”, filosofare significa spinozare, apertura, a giudizio di Jürgen Habermas, del “discorso filosofico della modernità”. E tuttavia, si tratta pur sempre di una severa lettura critica, da parte di Hegel, del pensiero di Spinoza in termini di “acosmismo”, vale a dire eliminazione surrettizia del mondo, non già di “ateismo”. Che Einstein non poteva certo condividere, in quanto forma di configurazione del mondo non già nella sua irriducibile effettualità e autonomia ontologica, ma bensì quale semplice costellazione di modalità espressive di Dio/sostanza infinita, ancorché formalmente immanente. “Tutta la scienza, scriverà nel 1936 in “Physik und Realität”, “Fisica e realtà”, non è altro che “un raffinamento del senso comune”, ai fini della formazione dei concetti, “creazione arbitraria della mente umana”, nonché “primo passo verso una descrizione sistematica di un mondo reale esterno”. Con tutta evidenza, la discussione non verte sull’”esperienza sensoriale individuale”, che potrebbe anche essere il prodotto “di un illusione o di un’allucinazione”. L’esistenza del mondo reale non “si giustifica” per “credenza”, bensì e soltanto nella totalità delle connessioni mentali che strutturano la teoria e ci “orientano nel labirinto delle impressioni sensoriali”. Una delle più forti e decise posizioni antiriduzionistiche dell’epistemologia e della filosofia della scienza novecentesca, di ‘tono’, almeno tendenzialmente, olistico. Non senza la capitale avvertenza che la detta “totalità delle connessioni mentali”, inerendo intrinsecamente al dispositivo dell’episteme, esclude improbabili evocazioni di “saperi totali” e, quindi, non infrange, per le ragioni sopra enucleate, il divieto kantiano versus l’idea antinomica del mondo come “totalità delle condizioni”. Nel 1911, il celebre chimico fisico Walther Nernst indusse l’industriale belga Ernest Solvay a patrocinare una conferenza nella quale i fisici attivi nel capo dei fenomeni quantistici potessero fare il punto della situazione. Einstein fu uno degli invitati. “Il possesso intellettuale del mondo extra-personale – dichiarò - mi balenò alla mente, in modo più o meno consapevole, come la meta più alta fra quelle concesse all’uomo. Gli amici che non si potevano perdere erano gli uomini del presente e del passato che avevano avuto la stessa meta, con i profondi orizzonti che avevano saputo dischiudere. La strada verso questo paradiso non era così comoda e allettante come quella del paradiso religioso; ma si è dimostrata una strada sicura, e non ho mai più rimpianto di averla scelta.” Una strada sicura. Un mondo di relazioni e affetti più terreni e immediati, che lo avrebbe indotto, più tardi a definirsi “un viaggiatore solitario”: “Non mi sono mai dato con tutto il cuore né al paese che mi ha visto nascere, né alla casa, né ai miei amici, e nemmeno ai miei congiunti più prossimi”, nella citazione e sottolineatura di Abraham Pais. Pochi anni dopo, nel 1918, in un discorso rilevante, "Prinzipien der Forschung", “Principi della scoperta scientifica”, in occasione del sessantesimo compleanno del suo amico e collega Max Planck, dalla cui concezione piuttosto ‘metafisica’ sullo scopo della scienza Einstein ormai si situava alla medesima distanza che dal positivismo, proponeva "un'immagine semplificata e lucida del mondo", compito prioritario per uno scienziato. Scelta che corrispondeva, a giudizio condivisibile di Gerald Holton, anche al bisogno psicologico di staccarsi dalla soggettività dell’identità personale, dalla vita di tutti i giorni, con le sue delusioni e tristezze, per “rifugiarsi” nel mondo della percezione oggettiva e del pensiero, ”centro di gravità del Gefühlsleben, della vita emotiva”. Aggiunse l’osservazione che l’esame dei più difficili problemi scientifici richiede un “Gefühlszustand”, uno stato del sentimento simile a quella di una persona religiosa o un amante”. A far data dalla fine degli anni ‘20, infatti, cerca di chiarire il rapporto tra i suoi impulsi scientifici e la sua coscienza ‘trascendentale’, scrivendo alcuni saggi sulla religiosità, esito maturo di una lotta iniziata nei suoi anni di scuola, quando cominciava a sviluppare, o meglio a inventare, un’idea di ‘religione’ connessa con la scienza. In un primo stadio evolutivo, secondo Einstein, "l'uomo primitivo è dominato soprattutto dalla paura. Questa è la “religione della paura, stabilizzata dalla formazione di una speciale casta sacerdotale" collusa con le autorità secolari per il proprio interesse. Il passo successivo, "mirabilmente illustrato nelle scritture ebraiche", fu una la religione morale dell’imperativo etico, "uno sviluppo proseguito nel Nuovo Testamento." Il suo fatale difetto? "Il carattere antropomorfico del concetto di Dio," facile da cogliere per le "menti sottosviluppate" delle masse, che perseguono la liberazione dalle loro responsabilità. Questo difetto scompare nel terzo stadio di Einstein, la fase matura della religione, che attraverso i grandi spiriti, come Democrito, Francesco d'Assisi e Spinoza, aveva già raggiunto il "sentimento religioso cosmico "che ripudia tutti gli elementi antropomorfici”. Nel terzo paradiso, "l'individuo si rende conto dell'inutilità dei desideri umani, e mira alla sublimità dell'ordine meraviglioso che si rivela nella natura e nel mondo del pensiero, affrancato dall’ esistenza individuale – un omaggio a Schopenhauer - che lo impressiona come una sorta di prigione, e vuole sperimentare l'universo come un unico complesso significativo”. Ed Einstein conclude: "Io sostengo che il sentimento religioso cosmico è il motivo più forte e più nobile per la ricerca scientifica.... Un contemporaneo ha detto non ingiustamente che in quest’epoca materialistica nostra veri lavoratori scientifici sono solo persone profondamente religiose”. Religiose, nella sua accezione del termine. Fu proprio questo volgere di idee a indurre Karl Popper ad affermare: “Nelle mie conversazioni con Einstein, non ho imparato alcunché, poiché egli tendeva ad esprimersi in termini teologici, non risultando affatto interessante”. Eppure, le cose stavano altrimenti. Nella citata intervista italiana, Einstein mostrerà, anzi ribadirà la fiera consapevolezza di appartenere a una precisa e grande tradizione scientifica-culturale: “Non rivoluziono nulla nel campo della scienza, perché derivo coerentemente dal passato”. Una più completa adesione allo spinozismo, invece, avrebbe potuto, se non inibire, quanto meno demotivare e affievolire l’impegno, per lui prioritario, di concentrarsi sull'unità razionale delle leggi dell'universo, allo scopo di elaborare una “teoria unificata dei campi”, capace di abbracciare, all’interno di un pensiero razionale unitario, la teoria della relatività e la teoria quantistica. Anche per tali ragioni, nel 1929 lamentava la rinuncia della scienza, appagata della descrizione di “come” la natura è, a fronteggiare la domanda intorno al “perché” essa sia in questo modo e non in un altro. La grande questione dell'"unità logica" della legalità naturale, scrive, disegna un compito “prometeico”. Tale l’autentica, correttamente intesa, “base religiosa” dell’impresa scientifica. Sul “New York Times Magazine”, il 9 novembre del 1930, scriverà: “L'uomo che è convinto dell'esistenza e della operatività della legge di causalità non può concepire l'idea di un Essere che interferisce con il corso degli eventi. A patto naturalmente che egli prenda l'ipotesi della causalità veramente sul serio”. Ed Einstein la prendeva maledettamente sul serio, fino ad espungere in toto quell’”Essere”, d’indole palesemente ‘confessionale’, dal rigore del discorso filosofico-scientifico sul cosmo, in connessa e completa rimodulazione della riflessione sul “divino. Saggi di energico, laico realismo. “Tutto ciò che è umano, comunque appaia, è umano soltanto perché vi opera e vi ha operato il pensiero”, annota Hegel nelle “Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie” berlinesi del 1825-26, i celebri manoscritti delle "Lezioni di storia della filosofia". Einstein, con lucida consapevolezza fin dalla giovinezza, completava l’assunto hegeliano con la notazione determinante che l’attività del pensiero è però resa possibile dall’esistenza di un ordinamento oggettivo, indipendente e tendenzialmente ‘regolare’ del cosmo. “Perché c’è l’essere piuttosto che il nulla?”. Nella domanda moderna di Leibniz risuona il senso profondo del pensiero greco antico: “Tà onta”, gli “enti” del pensiero greco aurorale, sussistono. Con la rassicurante la conseguenza che la pulsione nichilista, sempre di nuovo ri-emergente, si trova energicamente relegata al bando. La mente non può non correre all’origine storica di questa costellazione di opzioni di pensiero, a Platone, sbrigativamente archiviato come ‘metafisico’, a svantaggio bimillenario di una lettura differente e possibile, scevra di suggestioni pseudo-religiose, e più aderente alla filologia determinata del testo. Rispetto all’immaginario collettivo, autorevolmente supportato, anche e in primis da Aristotele, e dal suo giudizio corrivo circa il “chorismòs”, l’”astrazione” o “separatezza” delle forme, di un platonismo come pensiero “dei due mondi” – Garibaldi ante litteram! - basterà, in questa sede, fare rapido cenno a una plausibile alternativa. L’interpretazione, vale a dire, che rileva in Platone la concezione di “due piani” della medesima realtà, in reciproca coniugazione e articolazione di unità-distinzione, peraltro ormai inaugurata da qualche decennio, specie nel mondo culturale franco-tedesco. Le famigerate “idee separate” – che non casualmente la fisica più recente sembra rivalutare - in realtà, sono tanto poco scisse dal reale, che Platone non riesce a concepirle se non come “eide en tois ousi”: strutture “del” reale, forme interne e immanenti, in-erenti agli enti, intrinseche agli esistenti. Un caso di scuola, nel quale il testo originale greco si rivela illuminante e risolutivo, a dispetto dello stile ‘comunicativo’ e del registro linguistico di Platone, non del tutto immuni da forzature e licenze poetiche, in particolare in ambito matematico. E, come tali, abilmente cavalcate e assimilate dalla filosofia del cristianesimo dei primi secoli. Platone non era neoplatonico. Come Cristo non era cristiano. E Marx marxista. Che il mondo sia ‘formoso’, infatti, appare ictu oculi, e negare un’evidenza è solo segno di dabbenaggine, ammonisce Aristotele. L’asserzione, invece, che le sue forme ideali siano indipendenti e separate in un “altrove”, ovvero “in nessun luogo”, sembra un gesto intellettuale ingeneroso, più che un’interpretazione (in libertà) tra le altre. Se non gratuita offesa, pura trasfigurazione fantastica di un paradigma teoretico vitale in salsa schizoide. Più di uno studioso, cattolico e non, si affanna ad osservare come il Dio di Einstein non possa essere semplicemente considerato come un “modo di dire”, una locuzione idiomatica convenzionale, il cui “significante fisso” risulta incomponibile con valori ed effetti di significanza autentica e univoca. Non si può che consentire. Il nome di Dio, lemma polisemico per antonomasia, ha sempre innescato, fin dalla cultura greco-latina, questioni cruciali relative all’assegnazione di valore ai “nomi degli dei”. E certamente, nel complesso della prospettiva di Einstein, esso non funge da banale metafora artistica di uno scienziato geniale, nonché ottimo suonatore di violino. Tutt’altro. In quanto sostanza dell’effettuale realtà, il “divino” ne costituisce il nome proprio. Come ‘sostantivo’, però – dai lemmi: greco, ypokeimenon e ousia, e latino: “substantivum” e “substantia” – realtà ossia di ciò che oggettivamente esiste ed è pensabile, fuori e indipendentemente da noi, e persino immaginabile, secondo la valenza linguistica convenzionale della nozione di ‘nome’, da Aristotele alla linguistica contemporanea. De facto, una potente affermazione di sano, perspicuo materialismo. Azionando il potente motore della sintesi, Einstein assegna al nome un valore ‘identificativo’, fortemente espressivo e unitario: “to semainomenon”, il “significato” greco classico, è “das Substratum”, il sostrato, la reale presenza e il fondamento del lessico filosofico-scientifico greco e della lingua madre di Einstein. Antipode, solo per esemplificare, dell’”ipostasi” metafisico-teologica del “De oratione” di Origene, storico incipit di una valanga di rovinose distorsioni culturali nella tradizione occidentale. Così, anche ad Einstein è toccato, tocca ancora in sorte di sperimentare le delizie della saussuriana “vaghezza del linguaggio”, con il suo ineliminabile statuto di ambiguità. Un rapido rimando alla terminologia più che pertinente di Guglielmo di Ockham, cui significativamente s’intitola il nostro “Rasoio”, può forse essere utile. Invero, nel pensiero di Einstein, il nome di Dio “suppone” semplicemente per l’intera ‘sostanza’ e la configurazione intrinseca del reale. Dalla mente alla torcia e ai corpi celesti. Nulla di meno, ma nemmeno nulla di più. A differenza della (libera) esternazione di Galilei quanto al telescopio, infatti, Albert Einstein non avrebbe mai affermato che, nella scoperta della relatività, il “concorso della divina grazia” gli aveva fornito un “aiuto maggiore” che non l’intelligenza e la scienza. Oppure, come Newton, nella sua granitica certezza di un Dio autore da adorare, che “bisogna essere ben ciechi per non restare estasiati a questo spettacolo, sciocchi per non riconoscerne l’Autore, pazzi per non adorarlo”. Perché, “l’uomo che non ammette Dio è un pazzo”, in quanto che l’armonia celeste “non poté sorgere senza il progetto e la potenza di un ente intelligente e potente”. Un “progetto”, peraltro, implicante la specifica relazione, hegeliana ante litteram, di “signoria-servitù”: il “dominio di Dio sui servi, che lo adorano”, come esplicitamente assume nei “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” (1687), i capitali “Principi Matematici della filosofia naturale”. Cosicché, prosegue, “l’intera diversità per luoghi e per tempi delle cose create poté sorgere soltanto dalle idee e dalla volontà di questo Ente”, rappresentato, sì, come un “orologiaio”, epperò dotato, per l’appunto, di “volontà”. Ovvero, infine, come Keplero, il quale, pur riconoscendo che “Giordano Bruno sostenne l'inutilità di tutte le religioni e che Dio è presente nel mondo”, così ringrazia il suo “Creatore e Signore”: “per l’estasi in cui mi ha rapito la contemplazione delle opere delle tue mani”. La consonanza con l’esprit galileiano appare evidente. Altro il rapporto di Albert Einstein con il pensiero filosofico e le tematiche teologiche e religiose. Di scuola originariamente machiana e positivista, egli fu sempre un convinto sostenitore dell’idea profonda di uno “spazio relazionale”, contro la “metafisica degli assoluti”, aspirazione del circolo di Vienna. Ma qui anche il nostro necessario dissenso da Holton, secondo il quale Einstein scivola progressivamente “verso posizioni realiste”, fatte coincidere sic et simpliciter con la “metafisica degli assoluti”. Nella fattispecie: uno spazio assoluto. Perché Einstein, ancora Holton, pensa sempre più che “la pura esperienza deve essere sottoposta a un pensiero fondamentale che gli serva di base, un pensiero così generale da poterlo chiamare essenza cosmologica”. Infatti. Se non ché, tale “pensiero fondamentale”, correttamente inteso, non incrina minimamente il tenace rifiuto da parte di Einstein di qualsiasi approccio alla “metafisica degli assoluti”, che non ha per lui neppure il valore della “presumption”, come tematizzata, nella seconda metà del ‘900, ad opera dell’epistemologia anglosassone. Nel 1944, scrivendo a Max Born, ripropone la parafrasi su “Dio che non gioca a dadi”, già utilizzata, come abbiamo visto, nella lettera del 4 dicembre 1926 a Niels Bohr: “You believe in the God who plays dice, and I in complete law and order in a world which I, in a wildly speculative way, am trying to capture”. E ritorna sull’”ordine del mondo”, che egli cerca di “catturare in modo selvaggiamente speculativo”, annettendo a tale aggettivo, talmente intriso di fuorvianti filosofemi, che potrebbe trarre in inganno, il senso di “teorico-congetturale” proprio dell’universo linguistico della cultura scientifica del suo tempo, come del resto anche del nostro, in conformità alla valenza classica latina della voce deverbale <specula> (vedetta legionaria e luogo d’osservazione), da cui <specere>, greco <skeptomai>, latino <speculare>, i.e.: osservare, scrutare, indagare, guardando lontano e in profondità. Come per altro attesta la scelta di un avverbio aspro e forte come “wildly”, indicante la “furia selvaggia” della ricerca. Le sole “assunzioni preanalitiche” di Einstein, infatti, concernono e si identificano con la “Wirklichkeit”, la realtà effettuale come intero (più o meno) intellegibile, situandosi entro una grande tradizione culturale, il cui focus moderno può considerarsi l’”Oratio de hominis dignitate” (1486) di Giovanni Pico della Mirandola. La finitezza dell’uomo, proprio perché tale, s’illumina nell’apertura illimitata e indefinita della mente, “potestà” di auto-definizione libera e progressiva, “naturalmente” idonea ad abbracciare con il pensiero l’universo, ad “afferrare la ragione di un'opera così grande, amarne la bellezza, ammirarne la vastità”. “M’illumino d’immenso”, nel canto lirico di Giuseppe Ungaretti. Un’immagine della ragione, della “potenza” dell’intelletto, che rileva in modo del tutto indipendente dal (cosiddetto) carattere “premoderno” del pensiero “sistematico” di Pico, quanto all’idea della centralità dell’uomo nel cosmo, del resto più di cinquant’anni prima del “De revolutionibus” di Niccolò Copernico. Pur tuttavia, temperie luminosa e tensione spirituale dell’età rinascimentale. Nella trepida attesa della prossima pubblicazione digitale presso la Princeton University, è giocoforza farsene una ragione. Un’osservazione conclusiva. Nel 1954, l’anno precedente la scomparsa, in una conferenza dedicata al ruolo dell’università, in un’occasione relativa all’Università ebraica sul Monte Scopus di Gerusalemme, Einstein lascia un elevato testamento spirituale in materia di umanissimi…assoluti. Ribadisce, infatti, una volta di più, la centralità del lavoro intellettuale ed educativo “nelle collettività umane”. Nelle quali, sottolinea con forza, “non è il politico, né il soldato, né il commerciante, quello che può rappresentare l'ideale. L'ideale è rappresentato dal professore, persona capace, con i suoi apporti ed il suo lavoro, d'arricchire la vita intellettuale, morale e artistica del suo prossimo". Assai di rado, infatti, entro le dinamiche delle società storicamente determinate, fino al presente modello di produzione con capitale (oggi finanziario) - Marx conosceva a fondo la lezione del “fornaio” di Adam Smith - politici e commercianti arricchiscono le comunità e il prossimo, più spesso sé stessi o i loro clientes, nel quadro della “morale del pagamento in contanti”, del denaro, ossia, sovrana “ratio” di scambio universale. Einstein esalta, nelle fasi di storia e di cultura segnate da crisi più o meno gravi, il ruolo decisivo e pervasivo del pensiero e della coscienza, individuali e collettivi, ai fini della formazione di un’etica pubblica, ritenuta possibile e necessaria. Anche se egli non fece in tempo ad assistere al tramonto delle ideologie, pochi anni dopo la sua scomparsa avrebbe almeno in parte condiviso le tesi esposte ad Harvard da Daniel Bell in “La fine dell’ideologia”. Alla sola condizione che la nozione classica di “ideologia” non venisse impropriamente dilatata - com’è accaduto ed accade - fino a comprendere le “idee” e i “valori” come tali, anche in ragione del rapporto ‘positivo’ del grande fisico con il pensiero di Schopenhauer. Al cui scritto “Sul fondamento della morale” lo accomunava l’idea profonda di una morale priva, sì, di “Grundlage”, di fondamento metafisico, ma non per questo meno plausibile ed ‘operativa’, pur nella lucida consapevolezza dell’inanità del mito del progresso e dell’impervietà estrema dell’azione storica. Cosicché, il “gran mistero dell’etica” può essere riconosciuto e fronteggiato solo affrancandosi dalla (pur necessaria) illusione-velo di Maya, che reclude gli uomini nella gabbia di un’individualità asfittica, solitaria e irrelata. Lungo questa via, peraltro – diciamo incidenter tantum - lo Schopenhauer caro ad Einstein incontrerà Leopardi, sebbene quest’ultimo, se ancora in vita, non avrebbe certamente liquidato come “canagliume democratico” la grande rivoluzione europea del ’48, come invece capitò al pensatore di Danzica, per ragioni complesse che non è qui possibile analizzare. Al netto, pertanto, delle ricorrenti trahisons des clercs, di certo, a giudizio di Einstein, le deficienze dell’”intelletto” inibiscono le vie d’uscita e anzi aggravano le crisi. Ai nostri chiari di luna, che ci vedono impegnati in estenuanti, ancorché legittime, rivendicazioni salariali, come se la ‘qualità’ dell’insegnamento dipendesse unicamente da esse, e non anche dal valore del docente, dalla sua formazione professionale e istituzionale, beh, una riflessione – coraggiosa? - non apparirebbe affatto peregrina. Nel “Manifesto Russell‐Einstein", presentato a Londra il 9 luglio del 1955, meno di tre mesi dopo la scomparsa di Einstein, la più drammatica denuncia mai scritta sulla minaccia rappresentata dalle armi nucleari per il genere umano, si legge: “Nella tragica situazione che affronta l’umanità… noi non stiamo parlando come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio… Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi il rischio di un’estinzione totale”. Ed ecco recuperata, in queste parole giustamente considerate come il vero testamento spirituale di Einstein, l’idea greca classica di “Paradeisos”, “Paradiso”, nel significato storico-culturale originario del lemma: “giardino” del bene, “parco” dei valori, di ciò che conta per noi, non già luogo sovrumano, remoto e inaccessibile, men che mai emblema di irreparabile “caduta” invocante la grazia. Immagine, dunque, di una meta concreta e possibile, non (miltonianamente) “perduta”, e sempre ancorata e nutrita dell’inquieto pensiero dell’umano. Perché Einstein è stato portatore di un’elevata ‘Weltanschauung’, una precisa, ricca e nobile concezione del mondo, della storia e della vita, imperniata sul tema della pace, della libertà, dell’etica e della giustizia, che la comunità scientifica internazionale, galvanizzata e rimotivata dall’entusiasmante novità della Princeton University, l’edizione digitale della sua “Opera Omnia”, in queste ore sta celebrando, “in modo indipendente” (apart from) dalla sua impresa scientifica. L’invito è, ora, a riconsiderare con maggiore attenzione il suo pensiero filosofico, dopo decenni di intenso studio di quello scientifico. Con le parole della direttrice del progetto, Diana Kormos-Buchwald: “Speriamo anche di demolire alcuni miti in sospeso. Einstein non era il teorico isolato che lavora da solo in un attico con carta, penna e calamaio”. Per l’appunto. Dalla lezione dell’epistemologia anglosassone del secolo scorso, da Imre Lakatos a Thomas Kuhn a Paul Feyerabend, abbiamo ormai appreso che l’impresa scientifica non è mai ‘pura’, in quanto che incorpora sempre un’ampia gamma di “presumptions”, assunzioni preanalitiche, principi di fondo e di ‘sfondo’, ossia, che precedono e innervano la teoria, contribuendo a generare nel tempo le stesse “rivoluzioni scientifiche”. Tanto vero che Einstein, in esplicita parafrasi dal pensiero di Kant sulla relazione senso-intelletto, poteva affermare: “La scienza senza la religione è zoppa. La religione senza la scienza è cieca… Il mistero è la sorgente di tutta la vera arte e la vera scienza… E l’autentica religione è il vero vivente”. Quod demonstrandum. Chi non lo comprende, e trova la vita senza senso “è squalificato per vivere”. Con il rischio concreto che “tutta la nostra civiltà, il nostro esaltato progresso tecnologico” si trasformi in “una scure nelle mani di un criminale patologico”. “Ricordate”, ammonisce Einstein. Contro la “hybris” tragica, la protervia di una “ragione” (ideologicamente) troppo sicura di sé, fino alla violenza. Non più, tuttavia, che nei riguardi di una “religione” accecata e accecante, immemore dell’invocazione di Aiace nell’Iliade omerica: “Padre Zeus, liberaci da questa nebbia, facci pure morire, se credi, ma nella luce”. La “semenza” dantesca in versione integralmente umana. Ancora. Sempre. Bibliografia essenziale The Collected Papers of Albert Einstein – Da Boston University a Princeton University Nuovo archivio digitale: htpp://einsteinpapers.press.princeton.edu/ Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo. 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