articolo di claudio giua

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Il giornalismo sulla scena digitale
Politiche industriali e scelte tecnologiche, informazione e Costituzione
di Claudio Giua
Nell’ottobre 2008, grazie alla campagna elettorale americana, il mio
blog ha avuto 23 milioni di contatti. Nello stesso mese il Baltimore
Sun ha registrato 17 milioni e mezzo di contatti, il Dallas Morning
News 12 milioni, l’Atlanta Journal-Constitution 14. Il blog che metto
insieme lavorando da casa mia ha più lettori online di alcuni dei
principali quotidiani americani.
Andrew Sullivan sul “Sunday Times”, dicembre 2008
“Il principio è che se tagliamo il personale facciamo un giornale meno
ricco, e se facciamo un giornale meno ricco il numero dei lettori
diminuisce e di conseguenza diminuisce il numero degli inserzionisti”,
sbottò Erika Berger, caporedattore dello Svenska Morgon-Posten.
“Un eterno circolo vizioso”, disse Christer Sellberg, il direttore
amministrativo del giornale.
Stieg Larsson, “La regina dei castelli di carta”, p.362, Marsilio, 2009
Le cose non stanno esattamente come Stieg Larsson1 scriveva nel 2004 nell’ultimo
volume della trilogia “Millennium”: non c’è mai una diretta corrispondenza tra quant’è
folta una redazione e la qualità dell’informazione prodotta. Può persino essere vero il
contrario. La citazione segnala, però, come in un paese come la Svezia fosse da
tempo percepita la natura della crisi che s’è abbattuta sui giornali italiani solo
nell’ultimo anno e che è sfociata nell’obbligato ricorso alle riduzioni di organico e al
contenimento dei costi. Una crisi le cui cause vanno cercate sia nella rottura di una
catena di valore che si riteneva più che solida, sia - più antropologicamente - nel
mutato comportamento di un’utenza travolta dalla colata di notizie2 che arrivano dalla
radio, dalle molte piattaforme tv, soprattutto da Internet e dai cellulari.
Peraltro, non è nemmeno vero che in Europa la crisi colpisca indiscriminatamente. Ci
sono editori come Axel Springer Verlag in Germania e The Economist Group in Gran
Bretagna che hanno chiuso il 2008 con bilanci record: utile di 571 milioni di euro a
fronte di ricavi per 2,7 miliardi i tedeschi (che però hanno goduto della vendita della
pay tv ProSiebenSat); utile di 38 milioni di sterline su un fatturato di 313 i britannici.
In entrambi i casi le ragioni del successo sono la diversificazione dei prodotti e l’aver
puntato su Internet, sulle nuove piattaforme di distribuzione e sui mercati emergenti:
gli editori della Bild e dell’Economist hanno intuito la crisi prima degli altri e si sono
organizzati di conseguenza.
1
Romanziere, giornalista esperto di associazioni neonaziste e consulente del Ministero della Giustizia
svedese, Stieg Larsson è stato l'autore più letto in Europa tra marzo 2008 ed aprile 2009. E’ morto
d’infarto nel 2004 non appena consegnato al suo editore il testo di “La regina dei castelli di carta”,
ultimo volume della trilogia.
2
Chiamato nel maggio 2009 a tenere un breve corso a un master post-laurea per aspiranti giornalisti a
Padova, ho chiesto ai tredici iscritti quanti di loro comprassero o leggessero un quotidiano: nemmeno
uno ha alzato la mano.
Poi c’è la questione dei “nuovi concorrenti” dei giornali - di cui ci parla Andrew
Sullivan3 nel primo distico - come quei blog che hanno più lettori dei siti di consolidati
quotidiani. In Italia è accaduto, in occasione di fatti di rilievo, a giornalisti come
Sandro Gilioli con il suo “Piovono pietre”, Luca Sofri (“Wittgenstein”), Vittorio
Zambardino (“Scene Digitali”), Luca De Biase4. Ma, ammette Sullivan, “il blog
realizzato da una sola persona non può produrre in alcun modo gli articoli
approfonditi che un buon giornale propone”. Per superare questo limite, America On
Line sta tentando di realizzare una federazione di blog di qualità: a partire dalla
primavera 2009 ha assunto o chiamato a collaborare oltre duemila giornalisti
licenziati dai giornali americani in crisi e li ha messi a lavorare per siti e micrositi
gratuiti, in grado di contrastare efficacemente il lavoro delle redazioni carta + web5.
Va da sé che il buon giornalismo non è più un’esclusiva della carta, anzi. Il rapporto
con i lettori e la capacità d’intervenire in tempo reale fanno del blogger un giornalista,
a mio giudizio, a tutto tondo. Certo, il blog fa saltare la mediazione della redazione
che mette in fila i fatti salienti, ma forse è proprio questo che, oggi, l’utenza chiede
meno: essere guidata nella lettura dei fatti, subire una gerarchia delle notizie.
Salvare i giornali
o salvare il giornalismo?
I numeri e le sensazioni dicono che i giornali di carta sono in via d’estinzione, e a
darne per primi la notizia sono stati, ovviamente, i giornali stessi. Tutti ricordano la
copertina dell’Economist dell’agosto 2006 dove – citando il libro “The Vanishing
Newspaper” di Philip Meyer in cui si preannuncia la morte dei quotidiani nel 2043 – ci
si chiedeva “Who killed the newspaper?”. Nel febbraio del 2007, Arthur Sulzberger
Jr., proprietario del New York Times, fu il primo grande editore a parlare - sul
quotidiano israeliano Haaretz - dell’imminente uscita di scena dei giornali cartacei,
aprendo un partecipatissimo dibattito. A vaticinare che tra dieci o quindici anni i
giornali si leggeranno solo su supporti digitali è anche Rupert Murdoch, intervistato il
29 maggio 2009 da Fox Business Network, rete televisiva di sua proprietà come il
Wall Street Journal e il Times di Londra.
Ma davvero la stampa è condannata? Se sì, dobbiamo limitarci a cercare di salvare il
giornalismo? Che cosa sta succedendo?
In sintesi succede che la pubblicità sui quotidiani italiani crolla del 26% nel primo
quadrimestre del 20096. E che negli Stati Uniti, dove nel 2008 circa il 10% del
fatturato dei quotidiani è stato generato dai loro siti, nello stesso anno per ogni
dollaro perso dalla pubblicità sulla carta sono stati recuperati solo 1,7 centesimi da
quella digitale: cento passi indietro, nemmeno due avanti. Succede che diminuiscono
le copie vendute7, che rotative e distribuzione incidono sempre più pesantemente sui
3
Andrew Sullivan, giornalista e scrittore britannico, ha diretto il settimanale New Republic. Blogger
per Time e poi Atlantic, vive negli Stati Uniti. Cattolico e gay, scrive soprattutto di politica americana.
4
La classifica quotidiana dei più frequentati blog italiani viene pubblicata da BlogBabel
(http://it.blogbabel.com).
5
Tra i cento blog più letti al mondo ci sono, secondo Technorati, 27 prodotti di Aol, tra cui Playsavy,
AolLatino, Luxist e Spinner.
6
Nel primo quadrimestre 2009 la pubblicità online non solo editoriale è cresciuta del 6,7% rispetto
allo stesso periodo del 2008. Fonte Nielsen Media Research, giugno 2009.
7
Nel primo quadrimestre 2009 è in discesa la diffusione pagata di tutti i quotidiani italiani, con il calo
record del -8,2% in aprile (-5,2% in gennaio, -5,3 in febbraio, -6,6 in marzo). Fonte FIEG, giugno
2009.
conti economici8, che i tempi e i luoghi di produzione vengono “razionalizzati”, che gli
investimenti in marketing e tecnologia sono ridotti all’osso o congelati. Succede che
si tagliano le spese redazionali a cominciare da viaggi e abbonamenti alle agenzie di
stampa. Che, per abbattere il costo del lavoro, si smagriscono le redazioni con i
prepensionamenti, vengono smaltite d’ufficio le ferie arretrate che appesantiscono i
bilanci, si riduce il numero di collaboratori e corrispondenti.
E’ questa la preoccupata quotidianità del mercato, degli editori9 e delle redazioni dei
giornali al tempo di Internet e della crisi globale. Contrariamente ad altre fasi difficili
della storia dell’informazione, l’attuale non è il punto più basso di una curva destinata
a risalire. Passata la crisi, nulla sarà più come prima: se non adegueranno le proprie
prospettive e i propri obiettivi, gli editori di giornali dovranno abituarsi a utili ridotti10,
se mai torneranno a farne; le redazioni saranno costrette a lavorare in condizioni
meno facili; non ci sarà il dietrofront dei lettori passati alla rete. Pazienza per gli
editori, alcuni dei quali hanno accumulato in passato profitti economici e di potere
non marginali, e pazienza anche per i giornalisti: cambieranno mestiere, sic stantibus
rebus. Ma i lettori? Per definizione i lettori vogliono essere cittadini informati e,
dunque, consapevoli: saranno altrettanto informati e consapevoli in un futuro senza
redazioni professionali diffuse sul territorio e organizzate per fornire ricostruzioni,
analisi e commenti? Basteranno i blog, gli aggregatori, il giornalismo fai-da-te alla
YouTube e quello di 140 battute di Twitter a surrogare il ruolo per secoli svolto dalla
libera stampa11?
In ultima istanza, quanto di cui stiamo parlando è il destino del pluralismo e della
democrazia. Scrive l’Economist del 14 maggio 2009: “La stampa è il quarto stato. I
giornalisti indagano e criticano i governi, quindi aiutano gli elettori a decidere se
tenerli in vita o cacciarli. I regimi autoritari funzionano perfettamente senza le notizie,
le democrazie no”.
L’articolo 21 della Costituzione italiana garantisce “il diritto di manifestare liberamente
il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Per
estensione, secondo i giuristi, la nostra Costituzione garantisce anche il diritto a
essere informati con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Più esplicita
è la Costituzione tedesca, che all’articolo 5 recita: “Ognuno ha diritto di esprimere
liberamente le proprie opinioni con parole, scritti e immagini e di informarsi senza
8
Uno studio di Moody’s del giugno 2009 valuta che i quotidiani spendono il 70% del budget per
stampa, diffusione e gestione del personale, il 16% per la struttura che vende la pubblicità, il 14% per
realizzare i contenuti.
9
Il presidente della Federazione italiana editori giornali, Carlo Malinconico, sostiene che la crisi
dell’informazione su carta “è dovuta al 30% alla congiuntura, per il restante 70% è strutturale”.
10
In Italia gli editori pagano anche il crollo della vendita in edicola di prodotti collaterali come le
enciclopedie, i romanzi, i dvd e i cd, che si p retendeva diventassero una voce stabile nella colonna dei
ricavi. Nel 2008 la flessione delle vendite degli abbinati ai quotidiani è stata del 59,4% rispetto
all’anno precedente. Il loro peso rispetto al fatturato, arrivato anni fa al 14% del totale, nel 2008 è
sceso al 6%.
11
Clay Shirky, docente alla New York University, teorico dell’informazione dal basso, è convinto che
“il giornalista professionista presta più attenzione al giudizio dei suoi pari piuttosto che a quello dei
clienti e ha legami con chi possiede i mezzi di comunicazione e produzione”: la sua estinzione non
porterebbe quindi che giovamenti all’informazione. Nel maggio 2009 gli risponde indirettamente
l’Economist con la lettera a firma Albert Kirsch a forma d’editoriale: “I giornali differiscono dalle
altre fonti d’informazione perché fanno lavorare giornalisti professionali, che vengono inviati nei
luoghi dove i fatti accadono, cercano documentazione di rilievo a corredo dei propri pezzi eccetera.
Yahoo non ha uffici a Washington, Londra o Tokio e qualsiasi cosa troviate su YahooNews è una
sorta di riassunto fatto da qualcuno che, alla scrivania, ha letto un giornale o ha scaricato le notizie dal
web. Anche tutto quello che finisce sui blog è, di fatto, una fonte secondaria, che riprende quanto
scritto dai giornalisti o lo commenta. Una scrivania e un computer sono davvero un punto di vista
parziale, se si vuole capire il mondo”.
impedimento attraverso fonti accessibili a tutti”. In entrambi i casi, il rispetto del diritto
sia attivo sia passivo dipende non dalla quantità di mezzi e di fonti disponibili ma
dalle loro qualità, verificabilità, trasparenza e accessibilità.
I rischi maggiori che il lettore/cittadino corre in una società con una mole enorme
d’informazioni digitali prêt-à-porter ma poche organizzazioni di raccolta, selezione e
trattamento professionali delle notizie sono anzitutto l’”effetto Babele”, cioè
l’impossibilità di distinguere, nel frastuono di voci che reclamano attenzione, le più
professionali, affidabili e autorevoli; poi l’”effetto copia-e-incolla”, per cui si perde
traccia dell’origine e del percorso di un’informazione ripresa e rilanciata da
aggregatori, siti, blogger, che si trasforma in una verità auto referenziale; infine,
l’”effetto rassicurazione”, che è quello provocato dai software che riconoscono gli
interessi dell’utente12 e gli fanno avere solo un certo tipo d’informazione: quando
questo accade, diventa più difficile confrontarsi con il nuovo e dunque, nel caso,
cambiare opinione (anche qui, una democrazia che evolve non può che soffrirne).
Per non correre questi rischi, va tenuta viva la funzione del giornalismo professionale
e, dunque, della libera stampa. Il rapporto Newspaper Economic Action Plan
dell’American Press Institute13 sostiene che “i giornali hanno un lungo futuro davanti
e coesisteranno con gli altri media. Ovviamente, i formati dovranno adattarsi alle
condizioni di mercato, ai nuovi canali di distribuzione (che comprendono i lettori
elettronici e i cellulari) e alla tecnologia, che continuerà ad evolvere”.
La crisi va dunque affrontata definendo gli ambiti e le opportunità grazie ai quali
l’informazione scritta sopravvivrà ed crescerà. Eccoli:
Brand. Va salvaguardata e rilanciata la centralità del marchio, che garantisce la
qualità dell’informazione.
Organizzazione del lavoro. Il prodotto informativo deve avere le caratteristiche di
flessibilità e usabilità multipiattaforma che derivano da un’organizzazione del lavoro
totalmente rinnovata.
Piattaforme di distribuzione. La carta non è più la piattaforma di distribuzione
principale perché l’utenza usa il web sia fisso che mobile per l’informazione di base.
Valorizzazione del prodotto. Va progettata e realizzata una nuova catena del valore
che parta dalla notizia e la monetizzi ad ogni passaggio e su ogni mezzo di
diffusione.
La centralità del marchio
e il prodotto integrato
Qual è oggi il valore principale di un’azienda di informazione di qualità? E’ la struttura
industriale? Oppure il corpo redazionale? O, ancora, il controllo della catena di
distribuzione fisica del prodotto? Io credo che il valore stia soprattutto nel marchio,
che sintetizza il rapporto tra una testata giornalistica e la sua utenza, si costruisce in
anni di lavoro e permane al di là della vita del prodotto: ci sono milioni di italiani che
giudicano il TV7 degli anni Settanta il miglior magazine televisivo e l’Europeo un
settimanale di reportage mai più eguagliato. Aver rinunciato a quei marchi determinò
perdite di valore per Rai e Rcs. In una recente riunione a Bruxelles di FAEP e ENPA,
le federazioni europee degli editori di periodici e quotidiani, sono state ribadite da più
voci le considerazioni che stanno guidando le battaglie per la sopravvivenza della
stampa nelle sue più varie articolazioni: siccome chi mi legge fa professione di
12
Si tratta dei sistemi di behavioural targeting, ormai molto diffusi per la pubblicità e in via di
implementazione anche per le news sul web.
13
Il documento, che è frutto dello scambio di esperienze di 50 top manager dell’editoria americana, è
stato reso pubblico a fine maggio 2009.
fiducia nei miei confronti, io devo difendere la qualità e la credibilità dei miei prodotti;
ogni tentativo di usare i miei contenuti sotto un altro marchio mi sottrae valore; ogni
novità editoriale o tecnologica deve essere valutata rispetto agli effetti sulla credibilità
del brand14. Il marchio è garanzia di qualità del prodotto e fidelizzazione dell’utenza:
all’inizio leggo il sito Repubblica.it perché so che dietro c’è una redazione autorevole
come quella di Repubblica, poi mi rendo conto che lì trovo le notizie prima che
altrove, infine mi affeziono a un prodotto multimediale che mi dà l’informazione-base
di cui ho bisogno. E non è escluso che adesso decida, se già non lo facevo, di
comprare Repubblica in edicola. Insomma, il mio punto di riferimento diventa il
sistema Repubblica nelle sue varie articolazioni.
Stiamo vivendo la transizione dal newspaper al newsbrand. L’obiettivo di editori e
redazioni deve essere estendere il marchio giornalistico a più prodotti che usino e
assemblino testo, video, audio, fotografia e infografica a seconda delle notizie, dei
differenti pubblici da raggiungere, delle diverse possibili piattaforme, dei tempi senza
più chiusure in tipografia. In realtà occorre pensare un prodotto-base che sia
scollegato dal mezzo di presentazione, diciamo dalla sua impaginazione. Il brand
deve confermarsi e affermarsi non tanto o non solo nella confezione di nuovi
contenitori in sé conchiusi (si pensi al giornale su carta elettronica) ma trovare una
“ragione d’essere” a livello di singolo elemento di contenuto: il cosiddetto contenuto
molecolare.
Spesso anche chi cerca in maniera specifica il contenuto di un giornale inserisce
nella buca di Google la testata e l’argomento piuttosto che recarsi sul sito e usare il
motore di ricerca interno. E’ una dimostrazione del fatto che nel mondo digitale il
contenuto molecolare fa premio sul contenitore: un fenomeno già esploso
nell’industria musicale dove l’unità creativa, produttiva e commerciale di base è la
singola traccia, mentre per decenni quel che contava era il supporto fisico, disco,
nastro o cd che fosse.
Detto in altro modo: i contenuti digitali fruiti in rete sono liquidi. Assumono, cioè, la
forma del contenitore che li riceve e possono essere plasmati in forme diverse,
anche secondo i desideri o i bisogni dell’utente. Questo crea, allo stesso tempo,
nuove opportunità15 e qualche problema per l’organizzazione giornalistica
tradizionale, come vedremo più avanti. Da sempre i quotidiani offrono un contesto e
costruiscono significati espliciti o impliciti tra i diversi elementi stampati. Per i giornali
italiani ciò è ancora più vero: l’elemento costitutivo non è tanto l’articolo, quanto la
pagina o l’insieme di pagine, con tutti i loro rimandi testuali e paratestuali. Un articolo
estratto dal contesto della pagina di un quotidiano italiano e buttato nel gran mare
digitale rischia di essere poco comprensibile per la mancanza del contesto grafico (il
contenitore) che ne definisce il senso. Gli editori si trovano dunque nella necessità di
continuare a “costruire senso” edificando contenitori tradizionali (l’edizione di carta) e
contenitori nuovi (i siti web e mobili etc.) ricontestualizzando in modo diverso e
dinamico gli elementi informativi16.
14
Nello specifico, nel corso dell’incontro con i rappresentanti della Commissione europea si stava
discutendo del behavioural targeting pubblicitario, ossia della possibilità di erogare - via web o
terminali mobili - banner a seconda degli interessi del navigatore: una possibilità per avere nuovi
ricavi ma, nello stesso tempo, un rischio di erosione della fiducia dell’utenza.
15
La molecolarizzazione dei contenuti è una precondizione necessaria per la loro retribuzione, come
vedremo più avanti parlando della monetizzazione di ogni “pezzo” dell’informazione digitale.
16
Immaginare che sia possibile affidare all’informazione online solo l’informazione di flusso –
l’ultim’ora o poco di più - riservando agli antichi contenitori la “costruzione del senso” vuol dire
rinunciare a produrre l’informazione complessa per ogni piattaforma, che è invece quanto chiede
l’utenza.
Se questo è vero, ne consegue la necessità di ripensare il prodotto creato dalle
redazioni centralmente, organizzando il lavoro in modo integrato e creando flussi e
strumenti produttivi perché il singolo contenuto sia significativo di per sé e sia
organizzato in modo strutturato. La testata (il newsbrand, appunto) dovrà immaginare
un’architettura dell’informazione17 che consenta sia al giornalista, sia al lettore/utente
di aggregare e navigare i contenuti in modi e tempi diversi, secondo priorità e
interessi diversi. Il che implicherà, per esempio, di scrivere testo e titoli in un certo
modo, di collegare diversi elementi in maniera organica.
Non va tuttavia esclusa un’evoluzione estrema verso la “liquidità assoluta”: per Jeff
Jarvis, docente alla City University e strapagato consulente editoriale per i nuovi
media, è inutile perdere tempo sull’impacchettamento delle notizie, degli articoli e dei
video visto che “per anni ci siamo scervellati su come disegnare le homepage,
eppure negli Stati Uniti l’ottanta per cento dei traffico dei quotidiani locali non arriva
da lì, dalla homepage. Su Internet le notizie trovano la loro strada per arrivare al
pubblico”18. Piuttosto, andrebbero definite nuove vie di distribuzione collegate a
diversi modelli di business.
Un esempio di avanzate liquidità dei contenuti e integrazione organizzativa è stato
offerto all’inizio di luglio 2009 da Michael Zimbalist, vicepresidente di Times Co., agli
investitori pubblicitari e ai responsabili dei centri media in visita al ventottesimo piano
del New York Times. Quasi un happening teatrale. Mentre è in corso una
presentazione, un tecnico riceve via Twitter sul suo pc un messaggio con il quale un
amico gli raccomanda un video prodotto dal critico gastronomico del giornale, Mark
Bittman. Con una semplice manovra di drag-and-drop, trascina-e-rilascia, il video
passa dal pc a uno schermo televisivo, dove Zimbalist e suoi ospiti possono vederlo
comodamente. Tempo pochi secondi e su un iPhone arriva la ricetta del piatto
proposto da Bittman con un annuncio pubblicitario di un negozio a due passi dal
giornale che vende tutti gli ingredienti necessari. Secondo Zimbalist, il NYT sarà in
grado di proporre qualcosa del genere entro 18 mesi19.
L’organizzazione
del lavoro
nelle redazioni digitali
I responsabili dell’informazione digitale devono accettare alcune scommesse: grazie
a servizi editoriali innovativi, convincere gli utenti che hanno lasciato la carta a
rimanere comunque collegati al brand via pc, cellulare o lettore con carta elettronica;
portare il prodotto al pubblico dei non lettori; aumentare la permanenza online di chi
al momento si limita a compulsare l’homepage. Secondo l’economista neoliberista
Moises Naim, “nelle aziende i cambiamenti impossibili diventano possibili solo
quando si profila l’ombra della bancarotta”. Se la regola vale anche per le aziende
editoriali, le cui componenti – i giornalisti anzitutto – sono refrattarie a modificare riti
antichi e consolidati che quasi sempre celano privilegi, è ora il momento di cambiare
tutto, o quasi. In questa fase di forte contrazione delle redazioni – le direzioni di RCS,
Gruppo Espresso, Stampa, Sole24Ore hanno raggiunto all’inizio dell’estate 2009
accordi con le organizzazioni sindacali per prepensionamenti massicci – potrebbe
17
Qui si parla dell’informazione profonda e complessa, quella dei database, non quella che appare sul
sito web o sul giornale di carta.
18
Dall’articolo “I giornali? Servizi web” di Luca Dello Iacovo, pagina 9 di Nòva, inserto del
Sole24Ore di giovedì 2 luglio 2009.
19
L’exploit del team di Zimbalist ha generato nuovi contratti pubblicitari con gli ospiti in visita quel
giorno al New York Times.
essere miope non accompagnare tali riduzioni con la riprogettazione del prodotto
giornalistico integrato e la relativa riorganizzazione del lavoro. In altre parole: se non
si cambiano prodotto e produttori, diventa un rischio reale il circolo vizioso di cui
parla il personaggio creato da Stieg Larsson nel distico all’inizio di questo articolo.
Le esperienze
dei grandi giornali stranieri
All’estero questo fenomeno è stato già affrontato. I modelli organizzativi possono
essere diversi, mantenendo un certa indipendenza e specializzazione per “canale” o
spingendo per una integrazione totale delle redazioni, ma tutti – tranne poche
eccezioni – rispondono all’idea che il prodotto è uno solo e che quindi serve una
mente organizzativa centrale unificata, anche se poi articolata per mezzi.
Tra i pionieri c’è il britannico Daily Telegraph, che da due anni ha integrato
radicalmente le redazioni in un unico ambiente a stella con il desk piazzato al centro
e, nei raggi, i settori redazionali che si occupano sia del prodotto digitale, sia della
stampa, sia dei materiali audio-video. Sempre a Londra The Guardian ha deciso una
integrazione analoga, pur applicandola in modo più graduale.
Negli Stati Uniti l’ultimo grande giornale dove esisteva una organizzazione
rigidamente separata, il Washington Post, è impegnato nella costituzione di un desk
centrale unico e nuclei di cronisti organizzati per temi o microtemi. Il New York Times
lo aveva anticipato con una organizzazione più modulare nella quale ogni capo
settore è responsabile dei contenuti su tutte le piattaforme. Il Wall Street Journal
mantiene aree produttive separate, ma unificate nel “manico giornalistico” centrale.
Sistema misto per il quotidiano economico finlandese Kauppalehti, che ha totalmente
integrato la pianificazione della scaletta degli argomenti e i cui cronisti possono
essere utilizzati per i diversi canali (carta, web, tv) ma sono incardinati in un canale
specifico, per non perdere le capacità specifiche acquisite. Più chiaramente distinte
le redazioni stampa e online del quotidiano norvegese Aftenposten, dove però
vicedirettori e capo redattori centrali addetti alla stampa e all’online siedono con le
loro squadre fisicamente allo stesso tavolo, al centro della redazione.
Radicale, invece la scelta del gruppo Springer in Germania che ha creato un’unica
redazione per i quotidiani Die Welt, Die Welt Kompakt, Berliner Morgenpost, il
domenicale Welt am Sonntag e i rispettivi siti web, con diversi addetti che ruotano
sulle stesse postazioni. L’ultimo in ordine di tempo a puntare sull’integrazione è il
francese Les Echos, che a breve vedrà “ogni suo giornalista lavorare per il giornale, il
web e la telefonia cellulare”, come anticipa Nicola Beyout, direttore generale del polo
media di LVMH, il gruppo che controlla il quotidiano economico.
In Italia il giornale più avanti nel processo di cambiamento è, al momento,
Repubblica, che sta integrando il lavoro della redazione web con quelli di alcuni
settori (ha iniziato lo sport) e, anche logisticamente, di Kataweb, il portale del Gruppo
Espresso specializzato nella realizzazione di formati narrativi evoluti e multimediali.
Il sistema editoriale
integrato
Lo strumento chiave dell’integrazione è il sistema editoriale, ossia la filiera produttiva
che parte dal giornalista e arriva alla tipografia, che deve unificare le diverse
piattaforme per la pubblicazione digitale (ci sono sistemi editoriali studiati per la carta
che prevedono output per l’online e per altre piattaforme come cellulari, ePaper etc.)
e produrre un flusso di contenuti liquidi e annotati dai redattori con metadati20 di
descrizione tematica e classificazione morfologica, in modo che sia semplice
riconfezionarli, assemblarli per filoni, ricercarli.
Oggi l’organizzazione del lavoro redazionale in un quotidiano-tipo italiano è
policentrica, con un nucleo organizzativo principale (direzione e ufficio centrale) e
una serie di desk dimensionati per produrre in tempi concentratissimi le pagine a loro
assegnate21. Ai desk rispondono i cronisti, che consegnano entro l’ora stabilita il
pezzo per cui hanno raccolto informazioni nel corso della giornata. Salvo rare
eccezioni, i cronisti producono per una sola piattaforma22.
Di norma, invece, la testata digitale multimediale è una fabbrica in linea, aperta 24
ore su 24, di contenuti informativi da strutturare su tutte le piattaforme, dalla carta
alla carta digitale, dai dispositivi mobili alla radio e alla televisione se disponibili. Il
lavoro si declina con differenti prime time: tra le 8 e le 9 per l’apertura degli uffici,
prima della sosta del pranzo, nel pomeriggio a fine orario di lavoro, durante gli
spostamenti casa-ufficio e nei fine settimana per chi è in mobilità e accede alle
notizie via cellulare o palmare. Ad ogni prime time corrisponde una piattaforma
principale ma non esclusiva di distribuzione.
L’edizione digitale (il sito) è il “motore d’accensione” del sistema perché acquisisce e
valuta in prima battuta le notizie d’agenzia e di fonti terze (blog etc.) e gestisce le
iniziali segnalazioni provenienti dai cronisti. Nel modello di organizzazione più
diffuso, il sito risponde a un superdesk che ha il compito di ripartire e confezionare
per tutte le piattaforme il lavoro dei redattori nel corso delle 24 ore23.
Questa organizzazione deve avere una nuova struttura gerarchica. E’ possibile
mantenere le specializzazioni nel superdesk (meglio evitare che un deskista “passi”
altrettanto disinvoltamente un pezzo di sport e uno di esteri), ma solo una grande
flessibilità consente aggiornamenti continui. Inoltre, il materiale gestito dal superdesk
è molto maggiore di quello che finisce sul giornale cartaceo. Tra i contributi vanno
considerati a pieno titolo i blog-notiziari realizzati dai collaboratori esterni e le
informazioni di servizio (spettacoli, eventi, traffico, inquinamento etc.) strutturate in
database e consultabili da pc e in mobilità.
In alcuni giornali già integrati il superdesk, con la collaborazione del sito, organizza le
inchieste aperte sulle quali chiedere la collaborazione dei cittadini/utenti
(crowdsourcing)24 e innesta la copertura di aree tematiche solitamente tralasciate,
offrendo ad associazioni spazi online federati e visibilità sul sito del giornale; inoltre,
guida e sovrintende la disseminazione dei contenuti nei luoghi in cui normalmente
l’informazione non entra, dai social network alle comunità online: per esempio, il New
York Times ha già oggi un responsabile della diffusione delle notizie su Twitter e
Facebook che partecipa alle riunioni della redazione e della direzione nello stanzone
al piano rialzato della sede sulla 8th Avenue.
20
I metadati sono definiti tag e sono di solito aggettivi e sostantivi che descrivono l’articolo, la foto
etc.
21
I giornali italiani vengono “chiusi” in redazione intorno alle 23, dunque si lavora per rispettare solo
questo appuntamento.
22
E’ raro che per un fatto di cronaca battente un inviato sappia e possa produrre per il sito: è abituato
a considerare come priorità - e i desk ancora più di lui - quella del giornale cartaceo, che chiude alle
11 di sera, e su quella deadline si concentra.
23
Nel giornale integrato, il flusso decisionale è continuo: con la guida della direzione, si stabilisce in
tempo reale cosa va online, cosa viene distribuito sui cellulari, cosa su carta, cosa sul sito nazionale,
cosa nelle edizioni locali, e con che tipo di copertura.
24
Di recente il New York Times ha lanciato cinque edizioni web locali dove si tenta di coinvolgere
l’utenza nella realizzazione del prodotto informativo. Altrettanto è stato fatto dal Chicago Tribune con
l’iniziativa TribLocal.
Le nuove piattaforme
di distribuzione
Per Jonathan Galassi, presidente della casa editrice Farrar, Strauss &
Giroux,“Internet ha cambiato tutto. L’informazione, da quotidiana che era, è ora
minuto per minuto. Il giornalismo è diventato qualcosa di diverso, non è più la notizia
ma una sorta di metabolizzazione intermedia della notizia, troppo rapida per
un’analisi approfondita ma più contestualizzata”25. Di fatto, i maggiori siti
d’informazione sul web sono apprezzati dall’utenza più per le breaking news che per
gli approfondimenti. Lo stesso vale per i siti ottimizzati per i palmari di ultima
generazione, che forniscono un numero limitato di notizie e una ridotta possibilità di
costruire aggregati con più pezzi, foto, video, grafici etc.
Il prodotto giornale – che con le gerarchie della prima pagina, con la foliazione, con
la lunghezza degli articoli, con la collocazione dei titoli evidenzia la “lettura” che la
direzione e la redazione danno dei fatti della giornata precedente – è un’altra cosa;
nessun sito web, nessun dispositivo di riallocazione dell’informazione del giornale26
replica il messaggio complesso e a più strati che un quotidiano trasmette.
Per riproporre su piattaforme diverse l’esperienza di lettura del quotidiano, bisogna
convincere il lettore “vecchio” e il potenziale “nuovo” a provarle27. La piattaforma più
adatta allo scopo è la carta elettronica (ePaper). Brevettata oltre un decennio orsono,
per l’occhio ha caratteristiche simili alla carta stampata, non riflette ma assorbe la
luce, viene montata su strumenti a bassissimo consumo d’energia in grado di
memorizzare migliaia di testi (libri, giornali, documenti) ed è costantemente
aggiornabile via wi-fi o rete mobile. Sul mercato ci sono già alcuni apparecchi
collaudati basati sull’ePaper come il Kindle di Amazon28, il SonyReader e l’iLiad della
società olandese iRex. Altri sono attesi a breve da aziende come Plastic Logic e
FirstPaper del gruppo Hearst.
I reader con carta elettronica sono l’uovo di Colombo perché abbattono i costi di
distribuzione e influiscono poco sulla gerarchia informativa dei giornali, non
stravolgono le abitudini di lettura e potenziano il valore della pubblicità (soprattutto
con l’introduzione del colore, prevista per il 2011). L’acquirente abituale del giornale
è pronto a passare alla carta elettronica? A certe condizioni, sì. Bisogna risolvere
problemi d’interfaccia come la mancanza per ora di uno standard d’impaginazione
che non sia il rullo di titoli adottato dal Kindle di prima generazione. E definire prezzi
25
Jonathan Galassi è intervenuto sul Sole24Ore del 31 maggio 2009. In Italia ai siti-dispenser di
informazione snack e gratuita si rivolgono mediamente ogni giorno 1,4 milioni di utenti di
repubblica.it, 1,2 milioni di corriere.it, quasi trecentomila di ilsole24ore.com, poco più di
duecentomila di stampa.it, mentre notizie.libero.it, il servizio news del portale di Wind che fa il copiae-incolla di agenzie e video, conta oltre settecentomila utenti medi (dati Audiweb, giugno 2009).
26
Il tentativo più significativo di fornire sul web un layout alternativo a quello del giornale cartaceo è
stato proposto da Microsoft con il sistema operativo Vista, che ha un’applicazione chiamata Reader
per l’impaginazione di articoli e foto secondo la gerarchia data dalla redazione. Adottato da alcuni
quotidiani – il New York Times e il Seattle Post-Intelligencer sono stati i primi – non ha però riscosso
successo.
27
Si vendono online le versioni digitali in facsimile del giornale: non rendono perché la lettura di un
articolo sul personal computer è farraginosa e la stampa su carta della versione in PDF del giornale è
procedura lenta e costosa.
28
Il prodotto della società fondata da Jeff Bezos è il più diffuso. Si collega alla rete telefonica mobile
Sprint, che opera però solo sui mercati nordamericani. La versione maxi dedicata più specificatamente
ai giornali, il Kindle Dx, è in commercio dal maggio scorso. Attualmente sono disponibili 25
quotidiani americani, 9 europei (tra cui il Corriere della Sera e la Repubblica) e il cinese Shanghai
Daily.
accettabili, visto che oggi si parte da cifre superiori ai 400 euro per gli strumenti con
schermo a sei pollici per arrivare a 800 per quelli a dieci pollici, collegabili alla rete
cellulare. Decisivi anche i costi degli abbonamenti, che secondo gli editori americani
non possono superare i 15 dollari al mese29. Infine, dovrà essere risolto il problema
del billing, ossia di chi fattura e di come viene ripartito quanto l’utente paga. Il
modello di Amazon per Kindle prevede che al gestore del servizio vada il 70% e
all’editore il 30% dell’incassato al netto delle tasse: inaccettabile, anche se Amazon
gestisce sia la transazione sia il traffico dati. In Europa gli operatori telefonici hanno
in testa un modello a tre, che veda quote di ricavo più o meno equivalenti per
l’editore, il gestore del servizio (Plastic Logic o iLiad, per esempio) e la compagnia
telefonica. Anche qui al produttore dei contenuti va più o meno uno striminzito 30%.
E’ auspicabile che le aziende editoriali mettano in cantiere, magari consorziandosi,
un proprio sistema di fatturazione, che faccia saltare l’intermediazione delle case
produttrici e degli operatori telefonici. L’obiettivo deve essere ribaltare le quote
applicate da Amazon: chi produce i contenuti ha diritto ad almeno il 70% dei ricavi.
E’ necessario che i produttori di contenuti raggiungano al più presto un accordo di
categoria su come affrontare l’opportunità rappresentata dalla carta elettronica. Va
anzitutto decisa l’interfaccia da adottare, perché l’utenza deve accedere a tutti i
giornali in modalità analoghe30. La soluzione più semplice è quella di fornire
un’immagine della pagina cartacea in PDF cliccabile, da cui accedere a ogni singolo
articolo. In futuro, ovviamente, con il mutare del contesto informativo e grazie alla
possibilità di aggiornare in tempo reale i contenuti, si potrà passare a interfacce più
complesse31. Poi gli editori devono trattare con i produttori degli apparecchi con
l’ePaper per ottenere prezzi più bassi di quelli ipotizzati, così da poter studiare
politiche di marketing che aiutino l’utenza ad affrontarne l’acquisto32.
Un altro settore in rapidissima evoluzione è quello dei dispositivi telefonici mobili.
L’avvento dell’iPod, soprattutto, ha aperto la strada a molti prodotti innovativi anche
per i giornali. La piccola azienda pisana 8080, per esempio, distribuisce
un’applicazione che consente di scorrere, zoomandole, decine di prime pagine di
quotidiani di tutto il mondo. L’americana ScrollMotion propone a chi possiede un
iPhone 3G33 un servizio a pagamento, chiamato Iceberg, che consente la lettura di
170 quotidiani e centinaia di libri. Altri servizi editorialmente rilevanti come il meteo e
gli annunci garantiscono all’utente contenuti e pubblicità geolocalizzati.
La retribuzione
dei contenuti
a valore aggiunto
Fino a pochi anni fa, i contenuti editoriali avevano un valore economico espresso da
quanto speso dai lettori per l’acquisto del giornale più quanto investito dagli
inserzionisti pubblicitari meno i rilevanti costi di redazione, carta, distribuzione etc.
Oggi gli stessi contenuti informativi o d’approfondimento vengono anche diffusi, in
misura assai più capillare, attraverso le piattaforme digitali: gratis e con pubblicità mal
29
Un prezzo forse alto per il mercato italiano, che sul web vede le versioni digitali dei quotidiani
cartacei vendute a circa 110 euro l’anno.
30
Un test condotto nella primavera 2009 da FirstPaper con Vodafone ha dimostrato che l’utenza
comprerebbe l’apparecchio solo se in grado di offrire e far leggere tutti i giornali.
31
Molto interessante a questo proposito è la proposta di Adobe con il prodotto Air.
32
New York Times e Washington Post pensano a offerte che includano il Kindle Dx gratuito per gli
utenti che acquistano un abbonamento biennale.
33
La novità dell’iPhone 3G con il sistema operativo 3.0 è che alcune applicazioni possono essere
associate a servizi in abbonamento o a pagamento singolo.
pagata. L’editoria d’informazione sta dunque vivendo due paradossi strettamente
correlati: da una parte, “mai in passato i contenuti realizzati da redazioni professionali
hanno avuto, grazie ad Internet, una diffusione e un’influenza tanto larghe e
riconosciute” 34; dall’altra, proprio nel momento in cui è massima la diffusione del
prodotto informativo, “le aziende editoriali si trovano a disinvestire, perché
raccogliere e confezionare notizie, ideare e scegliere linee di commento ha costi non
coperti dai ricavi”35.
Il problema è tutto qui: per ogni persona che legge un articolo, vede un video o una
fotogalleria sul sito originario, cinque persone fruiscono degli stessi contenuti su un
blog, un aggregatore, una rassegna stampa36. In un mondo che vede diminuire la
pubblicità sulla carta e crescere a ritmi insufficienti quella online, gli editori non
possono più permettersi di regalare ad altri - ai motori di ricerca, a chi fornisce
l’accesso alla rete - il valore generato dai quei cinque utenti su sei che vanno a
informarsi dai “pirati del copia-e-incolla”. E nemmeno l’utente “legale” del sito
produce sufficiente reddito.
A fine maggio 2009, come ha rivelato il magazine The Atlantic, la Newspapers
Association of America ha riunito a Chicago, a porte chiuse, i grandi editori
americani, tra cui Gannett, McClatchy, New York Times Co., Scripps e Hearst. Le
domande erano: come proteggere – tutti d’accordo e senza infrangere le leggi
antitrust – le news online evitando che il prodotto, appena messo in rete, venga
cannibalizzato e non dia più alcun ricavo a chi l’ha prodotto? Quali le strategie che
consentono di continuare a produrre in qualità e quantità a chi fa il mestiere di editore
dell’informazione? Ufficialmente, di quanto discusso nella riunione non è stato
rivelato molto. Si è saputo che le iniziative ipotizzate sono: creare efficaci servizi di
micropagamenti per i contenuti online e incoraggiare gli abbonamenti alle nuove
piattaforme (carta elettronica); studiare un modello di business che metta insieme
micropagamenti, abbonamenti e pubblicità; cominciare una battaglia senza quartiere
a chi non rispetta i diritti collegati ai contenuti, facendosi pagare per ogni loro utilizzo;
aprire la contrattazione con Google e con i grandi aggregatori per monetizzare il
valore creato dai contenuti editoriali; sfruttare il rapporto con i lettori/utenti per
trasformarli anche in clienti di prodotti non solo editoriali.
L’obiettivo è dunque doppio: ottenere la retribuzione indiretta da parte di terzi che
lucrano sui contenuti; potenziare l’area di retribuzione diretta da parte degli utenti.
Vale per gli editori americani come per quelli europei.
Retribuzione indiretta
Secondo un’indagine tedesca, il traffico su Internet generato dai produttori di
contenuti di qualità (esclusi dunque blogger, aggregatori, siti commerciali,
pornografia, social networking etc.) è pari al 30 per cento del totale. Si deve trovare il
modo di far sì che i siti, i portali, i giornali online e offline che utilizzano contenuti ad
alto valore aggiunto realizzati da editori professionali portino valore a questi ultimi in
misura corrispondente. L’idea, non nuova, è quella di chiedere soldi a chi sfrutta i
contenuti editoriali reintermediando la catena della visibilità e dell’attenzione, come
fanno gli operatori di telefonia fissa con le ADSL, quelli della telefonia mobile con il
traffico dati, i motori di ricerca basati su piattaforme di pubblicità pay-per-click, gli
aggregatori di news online, le aziende che distribuiscono al proprio interno rassegne
34
Dalla memoria presentata dal Gruppo Espresso all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni il
22 aprile 2009.
35
Ibidem.
36
Lo sostiene uno studio della società Attributor citato dal Wall Strett Journal del 7 giugno 2009.
stampa. Un paio di azioni sono già allo studio in Italia, da rendere effettive grazie
all’intervento delle autorità regolatorie.
La prima azione. Ottenere che sia riconosciuta agli editori una quota del valore che
procurano agli operatori di telefonia fissa con il proprio lavoro: in altre parole, una
piccola parte di quanto pagano gli utenti per l’Adsl va “girata” agli editori di contenuti
a valore aggiunto. In Francia è stata Nathalie Collin di Libération a parlare per prima
di quest’ipotesi. In Germania hanno scelto una strada diversa, una tassa sui
computer aziendali collegati ad Internet che va a compensare gli editori. Di fatto
viene stabilito per legge l’obbligo per tutte le aziende di dichiarare quanti sono i
computer collegati alla rete. L’assunzione è che ogni pc generi una qualche forma di
reddito indiretto per l’azienda grazie all’informazione giornalistica (per esempio
fornendo notizie su fornitori, clienti etc.). La raccolta della flat fee, che si ipotizza di 5
euro a computer, è affidata a una sorta di SIAE creata ad hoc. La successiva
suddivisione dei ricavi, che andranno solo agli editori di qualità, avviene grazie a un
complesso algoritmo che tiene conto di traffico, qualità etc.
La seconda azione. I motori di ricerca, titolari di piattaforme pubblicitarie a
performance37, dovrebbero corrispondere ai produttori di contenuti una parte dei
ricavi generati attraverso le ricerche degli utenti (keyword advertising). Idem gli
aggregatori come Google News, che – come vedremo più avanti – è già nel mirino
dell’Antitrust italiana proprio su sollecitazione dell’associazione degli editori.
Retribuzione diretta
dei contenuti
da parte degli utenti finali
Nel corso dell’estate del 2009 i siti di alcuni quotidiani americani sono stati rimessi
“sotto chiave”, come il texano Valley Morning Star e il Lima News (Ohio) dell’editore
Freedom Communications e l’indipendente Daily Gazette di Schenectady, New
York38.
Il 6 agosto Rupert Murduch ha confermato di voler lanciare per i suoi giornali
americani, britannici e australiani tra cui New York Post, Sun e Times un sistema di
micropagamenti39 che consenta di acquistare il singolo articolo grazie a una
procedura elementare che non comporti il riempimento di moduli o l’inserimento
reiterato dei dati della carta di credito. Oltre al suo, sono in cantiere parecchi sistemi
37
Si stima che Google nel 2009 in Italia realizzerà 370 milioni di fatturato pubblicitario online, il
Gruppo L’Espresso e Rcs un decimo a testa.
38
Dal 3 agosto i contenuti del sito del giornale sono disponibili dietro pagamento di un abbonamento
mensile di 2,95 dollari. Rimangono gratuiti solo alcuni blog e i notiziari di base.
39
Secondo Rupert Murdoch, le organizzazioni giornalistiche sopravvivranno solo se i contenuti
saranno pagati anche sul web. Gli è stato chiesto se non teme che il suo pubblico possa emigrare verso
i concorrenti rimasti gratuiti. “La soluzione - ha risposto - sta nel rendere i nostri contenuti migliori, e
differenziarli. Se avremo successo, poi tutti ci verranno dietro”. Ne è così convinto da aver contattato
a fine agosto 2009 gli editori di New York Times e Washington Post oltre a Hearst e Tribune per
convincerli ad adottare il suo stesso sistema di micropagamenti. Il Wall Street Journal è il quotidiano
di maggior successo in termini di pagamento di contenuti da parte degli utenti. Si tratta tuttavia di un
giornale particolare perché: l’informazione finanziaria ha per sua natura un alto valore d’uso; spesso è
pagata direttamente dalle società o è acquistata per motivi professionali; si accompagna a servizi di
fornitura di dati finanziari esclusivi e poco fungibili; i suoi lettori fanno parte di un gruppo
sociale/professionale omogeneo. Il WSJ dichiara un milione di abbonati all’edizione online. Il costo
dell’abbonamento annuale è di 89 dollari. Ma il ricavo non è di 89 milioni: buona parte degli
abbonamenti online, infatti, deriva dall’estensione digitale dell’abbonamento su carta, che costa 10
dollari l’anno. Fonti interne alla società fissano i ricavi online per il 2007 in circa 60 milioni di dollari.
Il primo giornale dell’impero Murdoch a proporre contenuti a pagamento dopo il WSJ sarà, a fine
novembre 2009, il britannico Sunday Times.
di valorizzazione dei prodotti editoriali digitali. I più avanzati sono Journalism Online,
ViewPass, Attributor e CircLabs, presentati agli editori americani nel corso della
riunione semiclandestina a Chicago del 28 maggio.
JournalismOnline propone un modello alla iTunes: l’editore si dota del motore di ecommerce della società fondata da Steven Brill e Gordon Crovitz, due guru del
giornalismo digitale; gli utenti che hanno aperto un conto su Journalism Online
possono acquistare contenuti in maniera diretta e semplice da qualsiasi editore del
circuito.
ViewPass, che ha tra i proprietari un notissimo tecnoblogger, Alan Mutter, fa la
stessa cosa ma aggiunge la raccolta, dietro autorizzazione, dei dati degli utenti da
usare come “pagamento” dei contenuti stessi (chi accetta di ricevere la pubblicità
adatta al suo profilo alimenta il proprio conto online, cui attingere per fare acquisti di
contenuti).
Attributor propone il riconoscimento e la retribuzione dei diritti collegati ai contenuti.
CircLabs funziona come un agente personale che, riconoscendo le preferenze
dell’utente, gli raccomanda alcuni contenuti rilevanti degli editori che partecipano al
servizio (è un sistema che sembra destinato soprattutto all’informazione locale). In
Italia è in via di realizzazione un’iniziativa che ha caratteristiche simili a ViewPass: si
chiama Dmin e fa capo a Leonardo Chiariglione, “inventore” dello standard MP3.
Essendo View Pass e compagni organizzazioni terze rispetto agli editori, è probabile
che chiedano a quest’ultimi una quota della pubblicità raccolta: quanta lo sapremo
solo quando saranno operative, presumibilmente nel primo semestre 2010. In ogni
caso, il pieno controllo delle piattaforme di transazione da parte dell’editore è
essenziale.
In Italia, dove l’utenza ha ancora una scarsa fiducia nelle transazioni online, è
necessario pensare ad architetture complesse che diano più opzioni partendo da un
efficiente sistema di micropagamenti. Si devono prevedere conti personali alimentati
da carta di credito o da bonifico (PayPal, MoneyBookers); abbonamenti con carte di
credito, prepagate, bonifici o conti correnti postali; addebiti sulle bollette dei provider
di connettività (come Alice Pay) che facciano da esattori per conto dell’editore;
acquisti da telefono fisso o mobile con numerazione premium (es. 899); acquisti via
sms premium; acquisti presso edicole, bar e supermercati di prepagate che abbiano
un codice da inserire in rete.
Come cambieranno
le abitudini
dell’utenza web
Bisogna a questo punto porsi due quesiti non separabili. L’utenza è preparata a
pagare i contenuti giornalistici online? Se sì, quali contenuti farsi retribuire?40 Alla
prima domanda rispondono molto parzialmente alcune analisi di mercato. Per
esempio, si sa che in Gran Bretagna il 23% dei lettori online dei giornali è disposto a
spendere qualcosa per tenersi informato41. In Italia, un’indagine della Boston
40
Due esempi. Il New York Times fino all’agosto 2007 aveva una propria offerta di contenuti web a
pagamento, Times Select, acquistabile con carta di credito al costo di 49 dollari l’anno. Il pacchetto
comprendeva editoriali e commenti, aveva 200mila abbonati e produceva ricavi pari a 10 milioni di
dollari l’anno (i ricavi da pubblicità internet del NYT nel 2007 sono stati pari a 282,5 milioni di
dollari). L’abbandono del pagamento ha portato a un aumento del 64% degli utenti unici nei primi
mesi dalla chiusura di Times Select. In Europa il caso più interessante è quello del sito di el Pais, che
due anni fa decise di tornare al tutto-gratis dopo aver compromesso la possibilità di raggiungere la
leadership di traffico, saldamente nelle mani del concorrente el Mundo.
41
Indagine di New Media Age, maggio 2009.
Consulting, giugno 2009, rileva che la metà degli interpellati (18-65 anni d’età, utenti
Internet e lettori costanti di notizie online) si dichiara interessata ad avere sul proprio
pc la versione integrale del giornale cartaceo, peraltro già disponibile a pagamento
per la stragrande maggioranza dei quotidiani italiani (ma forse pochi lo sanno). La
cronaca italiana sembra essere la sezione più gradita, mentre scarso interesse viene
mostrato per economia e sport42. Comunque, nessuno spenderebbe più di cinque
euro al mese per questo servizio. L’offerta deve adeguarsi a queste indicazioni,
peraltro poco illuminanti.
Per rispondere alla seconda domanda (quali contenuti?): si potrebbe favorire la
fruizione sui siti di tutti o parte dei contenuti “cartacei” vincolandoli a pagamento,
come fa il Wall Street Journal che sia nella homepage sia nelle sezioni propone un
mix di articoli originari del web e provenienti dalla carta, alcuni dei quali,
contrassegnati da una chiave, possono essere letti solo da chi è abbonato43.
Meglio ancora sarebbe progettare contenuti realizzati ad hoc. In futuro, le redazioni
nelle loro auspicabili identità unitarie e integrate potrebbero produrre contenuti
premium ad alto valore aggiunto (per esempio, materiali speciali di firme ed analisti;
materiali di analisi su fatti e/o persone) da offrire solo a pagamento sul web o altri
supporti digitali (non su carta). E’ la strada che intende seguire in Francia il
quotidiano Le Figaro che ha annunciato che all’inizio del 2010 metterà in vendita dei
contenuti online realizzati in esclusiva per il sito lefigaro.fr. Per produrli, l’editore
assumerà, probabilmente a tempo, alcuni giornalisti specializzati e sottoporrà
l’esperimento alla valutazione di un panel di utenti. Non è stato annunciato se questa
parte del sito sarà raggiungibile solo dagli abbonati o se si potranno fare acquisti di
singoli contenuti.
Diritto d’autore
Qualsiasi iniziativa legata alla retribuzione dei contenuti in ogni fase della loro vita
dipende necessariamente dal pieno riconoscimento legislativo del diritto d’autore del
giornalista e dell’editore44. Il tema merita un approfondimento. La legge italiana sul
diritto d’autore45 recita: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o
religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a
disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere
liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche
radiotelevisivi, se (1) la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente
riservata, purché si indichino (2) la fonte da cui sono tratti, (3) la data e (4) il nome
dell’autore, se riportato”.
Per adeguare la legge sul diritto d’autore al mondo digitale, al comma 1 si potrebbe
aggiungere: “I soggetti che realizzano a scopo di lucro diretto o indiretto con qualsiasi
42
Un’indagine a livello internazionale, Italia compresa, di Price Waterhouse Cooper del maggio 2009
rileva invece che il 62 per cento del campione interpellato (4900 soggetti) è disposto a pagare
informazione di alta qualità sul web, soprattutto di sport ed economia.
43
Il Wall Street Journal sta pensando di ampliare la propria offerta a pagamento con nuovi contenuti
profilati ad alto valore aggiunto, dedicati a nicchie specifiche di lettori, con prezzi più alti degli attuali.
Alla domanda “…che farete se una parte delle stesse notizie offerte a pagamento continueranno a
filtrare gratis su siti come Google e Yahoo?”, Rupert Murdoch, intervistato il 6 agosto 2009, ha
risposto: “Difenderemo il nostro copyright in tutte le sedi, puntigliosamente”.
44
In Germania, con la “legge sulla tassa per ogni pc”, diventa possibile agire legalmente nei confronti
di chiunque violerà il “diritto d’autore giornalistico”. In tal modo, pur sapendo che il ritorno
economico sarà nullo o addirittura negativo a seguito del gran numero di cause, si potrà far crescere
un clima negativo nei confronti di chi verrà scoperto a utilizzare il frutto del lavoro giornalistico altrui.
45
Articolo 65 della legge. 633, 22 aprile 1941.
medium la riproduzione totale o parziale di articoli e contenuti devono corrispondere
un compenso agli editori di tali articoli o contenuti. Le misure di tale compenso e le
modalità di riscossione sono determinate sulla base di accordi tra i soggetti di cui al
periodo precedente e le associazioni interessate”46. La riscossione dei diritti d’autore
giornalistico/editoriale potrebbe essere affidata della costituzione di una società non
a scopo di lucro, sempre sul modello della SIAE.
All’estero sono già in atto azioni positive su questo versante. Va segnalata
l’esperienza della britannica NLA (Newspaper Licensing Agency), il cui primo
obiettivo è diffondere la consapevolezza tra il pubblico che i contenuti editoriali sono
protetti da diritto d’autore e che la loro fruizione deve sempre generale valore. NLA è
in sostanza un database di ritagli (clips in inglese) digitali dei giornali cartacei, gestito
dal sistema proprietario eClips47, cui partecipano i maggiori giornali britannici. Il
servizio mette tutti i ritagli a disposizione delle agenzie specializzate e di chiunque
produca rassegne stampa. Chi accede al database e preleva un ritaglio, deve
pagare. Chi usa i ritagli altrimenti, infrange la legge. Al secondo anno di attività, nel
2008 NLA ha prodotto ricavi per oltre 22 milioni di sterline. I guadagni vengono divisi
pro quota tra gli editori a seconda della quantità di ritagli di ciascuna testata scaricati
dal database48.
WAN-IFRA (World Association of Newspapers and News Publishers) ed EPC
(European Publishers Association), le principali associazioni internazionali degli
editori, stanno facendo pressione perché sia adottato ovunque l’Automated Content
Access Protocol (ACAP), lo strumento che “incapsula” i contenuti editoriali
lasciandone il controllo ai legittimi proprietari, che possono sviluppare nuovi modelli
di business senza essere condizionati dall’indicizzazione da parte dei motori di
ricerca.
A fine luglio 2009, in un incontro tra la News Corp. di Murdoch e Google, quest’ultima
ha ribadito che “ACAP distrugge Internet per come la conosciamo”. Tradotto: Google
teme che ACAP apra un varco nella sua architettura e nel suo modello di business
che prevedono un controllo diretto o indiretto di tutto quanto viene indicizzato.
E’ evidente che, su questi versanti, in tutto il mondo il principale interlocutore/nemico
degli editori è Google, nei confronti del quali si stanno moltiplicando le ipotesi di
azioni di contrasto, politiche e/o negoziali, per ottenere ritorni economici dai propri
contenuti indicizzati. C’è già una casistica di contenziosi, trattative e, talvolta, accordi
tra editori da una parte, Google e aggregatori dall’altra49.
A livello internazionale sta emergendo la convinzione che sia venuto il momento per
gli editori di puntare su Bing, il nuovo motore di ricerca di Microsoft, che sostituirà a
tutti gli effetti la Search di Yahoo nel caso in cui andasse in porto l’accordo tra le due
aziende annunciato a fine luglio 2009. Sembra che Microsoft sia disponibile a dare
46
In un incontro tra editori tenutosi in occasione della convention annuale della Newspaper
Association of America a San Diego è stato ipotizzato l’oscuramento della pubblicità nei confronti di
siti che ripubblichino contenuti dei giornali violando il diritto d’autore.
47
Il sistema eClips può essere acquistato da terzi. Trattative sono in corso tra NLA e le associazioni
degli editori di alcuni paesi europei.
48
A partire dal gennaio 2010 NLA lancerà un nuovo servizio dedicato ai “ritagli” dei siti dei giornali,
ovviamente utilizzando quella parte di contenuti che non viene messa a disposizione gratuitamente
dall’editore e resa integralmente disponibile anche ai motori di ricerca.
49
Nel 2006 un tribunale belga ha dato ragione ad alcuni editori che avevano fatto causa a Google
ordinandogli di eliminare i contenuti relativi ai giornali belgi in lingua francese o fiamminga dai siti
diretti al pubblico belga (google.be e news.google.be). Gli stessi contenuti sono rimasti tuttavia
disponibili attraverso le altre “localizzazioni” del motore di ricerca. La causa non è ancora chiusa.
Anche alcuni giornali danesi hanno fatto causa a Google per impedirgli di usare i loro contenuti in
assenza di accordi preventivi. Molti giornali britannici, tra cui il Guardian, hanno chiesto al governo
di intervenire per impedire a Google l’accesso ai loro materiali se non dopo avere pagato.
risposte positive alla richiesta degli editori di avere un maggiore controllo sui propri
contenuti.
La FIEG (Federazione italiana editori giornali) e le associazioni degli editori degli altri
paesi, con l’ausilio di OPA (Online Publishers Association), FAEP (European
Federation of Magazine Publishers) ed EPC si stanno muovendo per ottenere che
siano stabilite alcune regole di base da imporre anche a colossi come Google. Nel
giugno 2009 è stato messo a punto un documento, l“Hamburg Declaration”, firmato
dai principali editori europei, che definisce alcuni principi il cui mancato rispetto mette
in serio pericolo la libera stampa e, in definitiva, la democrazia. Vi si dice tra l’altro:
“(…) Numerosi operatori di Internet usano il lavoro degli autori, degli editori e dei
broadcaster senza pagare alcunché. A lungo termine, questo mette a rischio la
produzione di contenuti di alta qualità e l’esistenza del giornalismo indipendente. Per
questa ragione, noi chiediamo con forza che sia rafforzata la protezione della
proprietà intellettuale su Internet. (…) L’accesso per tutti ai siti web non significa
accesso gratuito. Non siamo d’accordo con quanti sostengono che la libertà
d’informazione è assicurata solo se tutto è disponibile online gratuitamente.
Dev’essere mantenuto l’accesso per tutti ai nostri servizi, ma non possiamo essere
forzati a lasciar distribuire i nostri contenuti se non dopo aver dato il nostro
permesso. (…) Non ci devono essere parti di Internet dove la legge non viene
applicata. I legislatori e i governi devono proteggere più efficacemente, a livello
nazionale e internazionale, la creazione intellettuale di valore da parte di autori,
editori e broadcaster”.
FIEG sta studiando a fondo il dossier Google soprattutto per le conseguenze delle
sue politiche scarsamente trasparenti sul mercato pubblicitario. All’inizio di agosto
2009 ha presentato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM,
meglio nota come Antitrust) un esposto in cui tra l’altro si sostiene che “Google è un
operatore verticalmente ed orizzontalmente integrato, presente in tutte le fasi
produttive e in tutti i segmenti del mercato della pubblicità online, compresa la
raccolta pubblicitaria e i servizi di intermediazione. Grazie alla sua posizione
dominante nel mercato dei motori di ricerca, esso dispone di un patrimonio
informativo immenso, inaccessibile agli altri operatori del mercato e da costoro non
replicabile. Ciò costituisce un vantaggio competitivo non eguagliabile dai concorrenti,
attuali o potenziali”. Secondo FIEG, “Google abusa della propria posizione
dominante, sfruttando informazioni commerciali privilegiate, con effetti escludenti in
danno dei concorrenti effettivi e potenziali nel mercato della raccolta pubblicitaria
online e dell’intermediazione pubblicitaria”. L’Antitrust ha in tempi rapidissimi
concretizzato la segnalazione di FIEG: il 27 agosto è stata notificata a Google Italia
l’apertura di un’istruttoria che dovrà portare a un giudizio entro il 15 ottobre 2010. Nel
corso della visita dei funzionari dell’Autorità presieduta da Antonio Catricalà agli uffici
milanesi di Google sono stati sequestrati documenti utili all’istruttoria.
Quest’ultimo è solo un episodio della “guerra” scatenata dall’attacco concentrico e
senza precedenti che l’informazione giornalistica sta subendo nel nostro paese più
che altrove. Attacco portato dalla politica (si pensi alle norme restrittive sulla
pubblicazione delle intercettazioni telefoniche), dalle concentrazioni economiche e
tecnologiche alla Google e dalla moltiplicazione delle piattaforme, ma favorito
dall’incapacità dell’informazione di adeguarsi a realtà che a lungo non ha nemmeno
saputo a cogliere e descrivere, che poi sarebbe il suo mestiere.
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