Riassunto Nell`esigenza di venire incontro ai bisogni degli studenti e

Riassunto
Nell'esigenza di venire incontro ai bisogni degli studenti e degli insegnanti, ci è parso doveroso
predisporre un riassunto e uno schema che aiutino a cogliere la natura del dialogo platonico che non
consiste solo di discorsi che vengono fatti, ma anche di azioni che si compiono, mentre si parla e
qualche volta l'azione ha un'importanza che non può tacersi.
Socrate è maestro di ironia in quanto maestro di dialettica. Come tiene a ricordare Giorgio Colli, il
bravo dialettico è quello che conduce il dialogo, portando gli interlocutori verso una conclusione
che, salvo dettagli secondari, gli è comunque chiara fin dal principio 1. Eventuali difficoltà che gli
interlocutori più bravi gli creano sono da lui superate, come già previste o prevedibili.
Questo significa che fin dall'inizio Socrate ha in mente tutto il dialogo, comprese le possibili
obiezioni che possono venirgli mosse da chiunque. Da questo punto di vista, sapendo come inizia il
dialogo, dovremmo socraticamente intravedere in pochi passi anche la sua conclusione. Se in effetti
già il titolo ci dice qualcosa, di più ancora ci dice il sottotitolo che da millenni si lega al Teeteto, il
dialogo sulla conoscenza. Si discute attorno a questo argomento, anzi volendo essere più precisi,
questa discussione consiste di alcune divagazioni intorno a ciò che sarebbe (per altri) la conoscenza,
quella cosa che chi conosce bene Socrate, Socrate sa di non avere. Infatti non è possibile, come nel
Teeteto si sostiene, qualcosa come la conoscenza della conoscenza. Questo avvitarsi del pensiero su
se stesso nasconde una sorta di viltà. Manca infatti a quanti si trincerano dietro le teorie di tanti
maestri il coraggio di ammettere la precarietà della conoscenza, anche se ciò dovesse comportare il
più totale nichilismo. Si capisce, per poco che si colleghi questo dialogo di Platone col corpus
dell'opera di Platone e il perno attorno al quale ruota una gran parte di essa (la condanna di Socrate)
che c'è qui una precisa accusa. La gelosia del sapere di cui ogni “iniziato” all'arte propria si sente
depositario, spinge ad accettare ipotesi capaci di minare le tradizionali virtù civili che, coniugando
insieme morale e politica, fanno saldo uno stato. Bisogna trovare qualcuno che capisca bene in che
senso si possa dire che non abbiamo conoscenza. Si tratta di qualcuno che si renda conto che non ha
senso parlare di ciò che non si ha.
Cominciamo allora col dire che Socrate va di proposito a interrogare un giovane allievo di Teodoro
perché è alla ricerca di qualcuno che, essendo bravo in matematica, sia in condizione di intendere il
suo ragionamento. Questo ragionamento non presenta solo tecnicismi logico-dialettici. Infatti ha a
che vedere con quello che noi oggi usiamo porre a fondamento del senso civico, come dimostra il
fatto che il giovane di cui Socrate va alla ricerca sia un suo concittadino. Non è un caso insomma
che nel dialogo si parli esplicitamente di quel che è la conoscenza, in funzione della soluzione dei
problemi relativi ai processi e all'esercizio della giustizia nell'ambito della polis. Diversamente da
quanto accade nei tribunali, non c'è alcuna clessidra a misurare il tempo della filosofica
conversazione tra amici che vogliano giungere a un accordo. Il dialogo dura quel che deve durare,
vale a dire, fin tanto che ci sono questioni da dirimere. Se l'allievo si laureerà campione, allora
l'indomani sarà condotto dallo Straniero, il quale risponderà alla questione di come possano tra loro
distinguersi il sofista, il filosofo e il politico, posto che ai tre nomi corrispondano funzioni diverse e
che essi non designino invece la stessa persona.
Torniamo alle competenze in fatto di matematica, per chiarire un punto che ci pare importante.
Platonica o pitagorica, ovvero pseudo-pitagorica e piuttosto platonica che la si voglia considerare, la
ricerca del giovane matematico ripete quel che si leggeva, a quanto sappiamo, sulla porta d'ingresso
dell'Accademia, “non entri chi non è matematico”. Sono i matematici coloro i quali possono, più
facilmente di altri, seguire il ragionamento dialettico di Socrate, a condizione però che siano
premuti da ragioni che interessano il bene della loro città.
Alla scuola di Teodoro si lavora su quei numeri la cui radice quadrata è un numero irrazionale, cioè
1
Cfr, G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Mialno 1988, pp. 73-81, dove si stabilisce che “la dialettica nasce sul
terreno dell'agonismo”.
non commensurabile rispetto all'unità. Da quanto si legge nel dialogo c'è un'altra
incommensurabilità a cui sembra pensare Platone, per un estensione del concetto, della cui
legittimità non è qui il caso di parlare. Tale “incommensurabilità” è in senso figurato una proprietà
che sembra appartenere ad alcune cose, che risulta impossibile ricondurre ad altre, per quanto si
vogliano scomporre ed esaminare a dovere. La conoscenza, ma anche il santo, il vero e il giusto non
sono riferibili ad altro e non sono quantizzabili, ma vanno presi per sé. Insomma quelli che da
Weber in poi chiamiamo “valori” sono assai difficilmente riducibili ad altro. Il loro essere valori fa
sì che se ne parli, a volte anche tanto, che ci si sforzi di dimostrarne la validità, ma poi, gira e rigira,
ci si accorge che a certe cose crediamo per una nostra personale convinzione che non è facile
spiegare. Insomma, mentre posso dire che l'argilla è terra mescolata ad acqua, non posso
ugualmente dire in che cosa consista la lealtà. Posso, circa la lealtà, capire che o sono leale e allora
mi viene spontaneo esserlo, o non lo sono e allora più mi sforzo di esserlo e meno lo sono. Lo
stesso accade della conoscenza: per quanto finga di conoscere resta il fatto che conosco solo quello
che conosco e l'ammettere che quel che conosco non è molto significa che non voglio prendere in
giro gli altri, magari con lo scopo di imporre loro la mia volontà. Già queste poche considerazioni ci
bastano a dire che la conoscenza è qualcosa che non è commensurabile ad altro. C'è al di là del fatto
che la sappiamo o non la sappiamo ben definire. C'è ed è un valore.
Insomma il dialogo inizia e finisce con l'incommensurabilità che dalla matematica va sul terreno
dell'analisi di certe dinamiche socio-politiche.
Il vantaggio che in partenza ha Socrate è sicuramente nel sapere quanto sia facile condurre un
matematico a constatare che c'è differenza tra quel che sembra e quel che è. Questa differenza
importantissima, da cui si originano molti degli sforzi speculativi compiuti nella tradizione
filosofica occidentale, era stata messa quasi in parentesi da un grande pensatore dell'antichità,
Protagora. Questo maestro del procedimento antilogico, per cui qualsiasi cosa si dica di qualcosa,
può dirsene anche il contrario, legittimava con l'esempio da lui stesso offerto, qualsiasi equivalenza
tra contrari, riducendo per esempio il bene al male e il male al bene. Qui si direbbe che le teorie di
Protagora inducessero i matematici a ridurre tutto al sembrare o tutto all'essere indifferentemente,
negando appunto questa differenza così scomoda per loro che trattano oggetti che non si sa se
sembrino semplicemente o se siano invece, e addirittura con più fondamento, di altri oggetti2. Per
chiarire, facciamo esempi. Se vedo un filo d'erba, il filo d'erba mi sembra filo d'erba; se il filo d'erba
è, io lo vedo filo d'erba. Inoltre se sogno, sogno un sogno che è sogno e che mi sembra, al risveglio,
sogno. Se ne deduce che, se studio un triangolo che sembra un triangolo, è come se studiassi un
triangolo che è un triangolo. Protagora insomma viene pragmaticamente incontro a certe particolari
esigenze della ricerca matematica, spazzando via questioni che possono esulare da quelle che hanno
incidenza sullo sviluppo di un ragionamento matematico, almeno del tipo che si conduceva
all'epoca di Teeteto e di Teodoro. Ma è bene sapere che, nella storia del pensiero matematico c'è
sempre stato il dubbio se gli enti matematici siano enti immaginari, ovvero enti per così dire più
veri della cosiddetta realtà. Per fortuna di Socrate, il giovane Teeteto è versato più alla speculazione
che non al calcolo ed è perciò sensibile a questa delicata questione. Essa si pone dolorosamente per
il matematico (come ha dimostrato la storia tutto sommato ancora recente dell'assiomatico assetto
che si tentò di dare agli inizi del Novecento alle discipline matematiche con la teoria degli insiemi)
quando si tocca la questione di come classificare gli oggetti che la matematica studia, distinguendoli
gli uni dagli altri. Socrate avrà fretta di condurre Teeteto di fronte a questo problema. Peraltro, a
2
.Si consideri quel che Teeteto dice a Socrate disinvoltamente descrivendo le non poche operazioni logiche che lui e i
suoi compagni hanno effettuato raggruppando in categorie e definendo figure geometriche che rappresentano numeri. Il
giovane non si chiede perché e come gli sia possibile “conoscere”. Come infatti rivelerà successivamente la conoscenza
è per lui sensazione, che è quanto gli ha insegnato il suo maestro Teodoro, tagliando comprensibilmente via certi
problemi che, come oggi diremmo, sono a monte del lavoro che il matematico fa. Ciò non toglie che proprio il
matematico sia più di altri sensibile al recupero della dicotomia apparenza / realtà e il dialogo dimostrerà anche questo,
quando dimostrerà l'inutilità del procedimento matematico nella conoscenza delle cose. Non è difficile rendersi conto
del fatto che una concezione della conoscenza che si fondi sulla sensazione è quanto permette di mettere in parentesi un
mare di problemi “filosofici” che per secoli hanno poi accompagnato lo sviluppo del pensiero matematico, a volte
facilitando altre complicando la vita agli studiosi del settore.
conferma che esistono ateniesi intelligenti, Teeteto vi arriverà quasi da solo, esponendo la difficoltà
incontrata nel ragionare con gli amici delle somiglianze e dissimiglianze tra certi numeri. E' da una
difficoltà di questo genere che Socrate porta Teeteto, il quale non se l'aspetta, fuori del solco
tracciato da Protagora.
Non è un caso che, fin dall'inizio, conducendo l'interlocutore al vivo della questione, Socrate dirotti
il discorso non tanto sulla sensazione ma sul riferimento che alla sensazione non più attuale io
faccio nella memoria. Qui sarebbe interessante stabilire in che senso le cose fluiscano se nella
percezione o nella memoria e se il fluire nell'una differisca dal fluire nell'altra o se sia l'una sia
l'altra consistano nel mettere in parentesi proprio il fluire. In ogni caso, come emergerà alla
considerazione dello stesso Teeteto, l'opinabilità è del discorso e l'uomo prudente si avvale
dell'opinare per correggere, valutare, considerare il sentito, o, più precisamente, e socraticamente,
quel che egli giudica di aver sentito.
Piatto forte del dialogo è proprio l'opinabilità, che risulterà a un certo punto costruita attorno al
perno dell'incertezza dell'essere e del non essere. Vi si arriva abbastanza presto, non appena si tenta
di andare un po' oltre la superficie delle cose. E' Socrate a condurvi Teeteto e, di riflesso, Teodoro, il
quale nella prima fase del dialogo assiste, come spettatore, all'interrogazione che Socrate fa di
Teeteto. Si arriva all'opinabilità attraverso un piccolo stratagemma: l'attribuzione di due possibili
significati da darsi alle teorie di Protagora. La trovata è assolutamente geniale, perché è la premessa
per l'espugnazione della torre che intorno a certi argomenti Protagora (o i suoi seguaci?) era riuscito
a costruirsi per avere sempre ragione. La duplicità, cioè l'incertezza della Verità presuntamente
conquistata, è il fisiologico punto debole di una teoria che voglia essere onnicomprensiva di tutte le
possibili ragioni sostenibili. Che ad Atene si fosse diffusa la convinzione che l' abilità di dimostrare
d'avere sempre ragione fosse la principale abilità da acquisirsi da parte dei giovani è del tutto
credibile e ciò spiega l'intervento di Socrate alla scuola di Teodoro. Ma – si badi – non è per
moralistico pregiudizio che Socrate combatte queste convinzioni. Non gli va giù piuttosto questa
logica forte della vittoria da conseguirsi facilmente nell'agone dialettico. Non gli garba l'aspetto per
così dire personalistico che hanno i dibattiti nei tribunali, dove il cittadino va a chiedere giustizia
per un torto subito ma non mostra alcun interesse per le questioni che investono la società a cui
appartiene e non esige, fatto ancora più grave, che i giudici abbiano per lui, che può invece
difettarne, una sensibilità a questioni vitali per la sopravvivenza dello Stato. E' questo e non altro il
significato da darsi al tempo della clessidra che tante ansie crea nei tribunali dove si pensa soltanto
a “spuntarla” nei confronti degli avversari. L'illusione che esista il mezzo per vincere ogni
competizione guasta irrimediabilmente il senso civico degli Ateniesi. Ma vediamo perché né
Protagora né altri possono, ad avviso di Socrate, vantare l'acquisizione di una sorta di arma segreta
per vincere tutti i confronti. Quest'arma non c'è perché a renderla inoffensiva basta lo scrupolo del
giudice onesto che non possa dare serenamente né torto né ragione a due contendenti che ad essa
facessero ricorso nello stesso tempo.
Non rassegnato all'idea che si possa non avere né torto né ragione, Teeteto si rifugia nell'idea che
possano esserci due diverse opinioni quella vera e quella falsa.
La conclusione del dialogo è quella che Socrate aveva evidentemente già chiara alla propria
considerazione e che Giordano Bruno riproporrà nei termini che riproponiamo anche noi, per
quanto sono facili da intendersi, appoggiandoci sul fatto che comunque proprio Socrate introduca,
proprio nel finale del Teeteto, la metafora dell'andare a caccia, che verrà poi ripresa, non a caso, nel
Sofista. Sebbene il senso della “caccia” sia qui diverso da quello dell'esercizio venatorio vero e
proprio è anche vero che il cacciare nel senso del riporre e trarre fuori, ha a che vedere con l'andare
a caccia. Da questo punto di vista chi opina saggiamente è come il buon cacciatore che, avendo
fiuto, si avvicina assieme ai suoi compagni alla preda, ognuno cercando di indovinare da certe
tracce e da certi segni la vicinanza o la presenza di essa, discutendo e ragionando insieme sui “segni”
che tutti trovano. Quando avviene la cattura, il bravo maestro, che ha insegnato ai giovani qualcosa
dell'arte della caccia, si guarda dal cantare vittoria e promettere che si potranno conquistare nuove
prede con la stessa facilità. Sa infatti che la caccia dovrà riprendere. Essa non finisce mai. Si tratterà
quindi di ripensare tutto da capo.
In questo senso l'arte della maieutica è preziosa, non perché ci porti a qualcosa di preciso, ma
perché ci libera di certi sciocchi pregiudizi che, da cacciatori, potrebbero trasformarci in facile
preda per qualcuno più astuto di noi.
La conclusione è assai importante perché rivela quella che da secoli è la vera vocazione della
filosofia che non consiste nello svelare la verità, ma nel rendere evidente qualche più o meno
colossale menzogna.
Schema del Teeteto capitolo per capitolo
l' azione
il procedere del dialogo e dell'analisi dialettica
I. Siamo a Megara nel 369 a. C., dove avviene
l'incontro tra Euclide e Terpsione.
Dalla piazza del mercato dove si sono incontrati i
due amici vanno a casa di Euclide, dove uno
schiavo leggerà gli appunti che lo stesso Euclide
ha preso e sottoposto al parere di Socrate, durante
la prigionia seguita al processo.
A casa sua Euclide mostra a Terpsione il libro
contenente i suoi appunti. Tra Euclide e Terpsione
c'è un'evidente intesa che riguarda la comune
devozione alla memoria di Socrate.
Lo schiavo, come d'accordo, inizia a leggere,
mentre i due amici ascoltano attentamente.
Euclide racconta a Terpsione d'aver visto Teeteto
gravemente malato tornare dal campo di battaglia nella
guerra che vede Atene impegnata contro Corinto.
I due amici convengono di dover ricordare il celebre
dialogo che Teeteto giovane avrebbe avuto con Socrate
ancora vivente, alla vigilia del processo che lo avrebbe
quindi condannato a morte.
Euclide spiega a Terpsione il criterio seguito nel
trascrivere il dialogo. Ha eliminato le frasi che servono a
introdurre le battute dei protagonisti e insomma dal
discorso indiretto è passato a quello diretto.
E' finito il dialogo introduttivo ed inizia la “narrazione” di quello tenutosi trent'anni prima tra
Socrate, il giovane Teeteto e il maestro di questi, Teodoro. Sono presenti anche altri giovani fra cui un
omonimo di Socrate, i quali però non interverranno nella discussione.
II. Siamo adesso ad Atene nel 369 a. C., il giorno
che precede il processo intentato a Socrate per
empietà. Socrate si informa presso il matematico
Teodoro di Cirene che insegna ad Atene e
chiarisce d'essere curioso di sapere se tra i suoi
allievi ce ne siano di particolarmente bravi,
sottolineando il suo interesse per i giovani
ateniesi.
Teodoro chiama Teeteto per consentire a Socrate
di saggiarne la preparazione. Il giovane, che
conosce per fama Socrate, si comporta con lui
come davanti a una persona che incute rispetto e
desta, allo stesso tempo, curiosità e interesse.
Teodoro dice a Socrate che c'è, tra i suoi allievi, un
giovane di grande talento per la matematica che si
chiama Teeteto, figlio di una persona che Socrate ricorda
d'aver conosciuto assai bene.
Teodoro fa l'elogio di Teeteto che, come non è bello
all'aspetto – sembra somigliare a Socrate – è però assai
virtuoso per doti intellettuali e morali. Ha – sostiene
Teodoro – molto coraggio, inoltre è un giovane molto
bene educato.
Interrogando Teeteto, Socrate fa presto a capire che
Teodoro ha detto la verità. Il giovane risponde a tono
con frasi brevi e rispettose, sapendo di dover più
ascoltare che parlare.
Siccome ha superato quella che potremmo chiamare una
sorta di prova di ingresso, Teeteto può ora essere
esaminato da Socrate.
III. Socrate lancia la sua sfida: definire che cosa
sia la conoscenza. E' implicito che egli ritenga di
saper rispondere alla domanda, altrimenti non la
porrebbe.
Per Socrate che vuol sapere che cosa la
conoscenza sia in sé, la risposta di Teeteto è
insufficiente, ma si guarda dal dire al giovane che
s'è sbagliato. Si limita a invitare a partecipare al
“gioco” anche altri ragazzi oltre Teeteto, ma
nessuno accetta l'invito.
Teeteto accetta la sfida, consapevole d'essere
probabilmente uno strumento nella mani di Socrate che
lo interroga, cosa che un po' lo spaventa, un po' lo
incuriosisce. Per rispondere fa alcuni esempi di quel che
per lui potrebbe essere conoscenza, per lo più intesa nel
senso di un'abilità acquisita nel fare qualcosa.
Teodoro, che ha evidentemente capito a che cosa siano
dovute le incertezze di Socrate, insiste perché l'ospite
prosegua nell'esaminare il giovane Teeteto, che è per lui
lo scolaro più brillante, quello su cui Socrate può fare
affidamento.
IV. Socrate non ha a questo punto altra scelta. Teeteto ascolta e conviene con Socrate circa varie forme
Visto che Teeteto non
“collabora”, dovrà di conoscenza, simili a quelle da lui elencate, che
spiegare meglio a Teeteto (e agli altri) come consistono in un saper fare, nell'avere certe abilità (o
stanno le cose. Solo così potrà dare un senso alla competenze). Tali conoscenze non sono però la
sua domanda, il “ti estì?”.
“conoscenza in sé”.
V. Teeteto si mostra assai competente in fatto di
matematica, capace di esporre in modo chiaro un
problema che riguarda la difficoltà di definire
certi enti matematici per quel che essi hanno in
comune.
Adesso tutto sta procedendo come Socrate aveva
previsto. Il giovane matematico è nella
condizione di capire che non è tanto sulle cose
che deve vertere la discussione ma sui discorsi
che intorno alle cose si fanno. Si tratta ora di
sfruttare un vantaggio considerevole, visto che di
fronte alla bravura di Teeteto anche l'autorevole
maestro Teodoro non può che essere soddisfatto.
Socrate ascolta interessato la questione che Teeteto a sua
volta espone e che riguarda la difficoltà di raggruppare
nello stesso genere o classe numeri che hanno proprietà
diverse.
L'esposizione di Teeteto è convincente per tutti. Per il
maestro che vede che il suo allievo sa e ha studiato, per i
compagni che si riconoscono in lui, ma soprattutto per
Socrate, visto che il ragazzo ha mostrato d'avere
perfettamente inteso dove Socrate volesse andare a
parare: cercare la caratteristica comune a una famiglia di
oggetti.
VI. Socrate insiste perché Teeteto si risolva a dare
una qualche definizione di che cosa sia in
generale la conoscenza e, per farlo, racconta di sé
e dell'arte maieutica appresa dalla madre. Ciò
servirà a indurre in Teeteto il pensiero che possa
nascere qualcosa [un'idea] proprio dallo sforzo di
comprendere sotto un unico genere più cose
aventi caratteristiche comuni.
Teeteto e gli altri devono convenire circa la legittimità
della richiesta di Socrate, il quale a questo punto è
esplicito dicendo a Teeteto: “prosegui per la via che tu
stesso poco fa hai mostrato così egregiamente:
tenendo presente, come un modello, la risposta
circa le potenze, come quelle, che erano molte, hai
comprese in un’unica specie, così sforzati di trovare
un unica definizione che raccolga in uno la pluralità
delle conoscenze”.
Fin qui il dialogo è facile. Altre volte gli studenti dell'Accademia hanno udito come si arriva a
elaborare la nozione di idea, intesa nel senso di genere, di gruppo, di classe. Si tratta ora di entrare
nel discorso di tipo socratico, fatto di domande brevi e risposte brevi.
VII. Siamo ad uno dei momenti più comici e più
giocosi di tutto il dialogo. Socrate che è attorniato
da tanti ragazzi, ai quali fa “lezione” esclama
all'improvviso che Teeteto ha le doglie e sta per
partorire la sua “idea”. A parte i risolini che qua e
là possiamo immaginare sui volti dei ragazzi, ci
sono anche quelle indiscrezioni circa il diverso
ruolo della ruffiana e della levatrice che
costituiscono insegnamenti di vita. Insomma
Socrate ce la mette tutta anche per rendersi
simpatico ai giovani. Intanto, così facendo, s'è
guadagnata l'ammirazione dei presenti. Ha
mostrato di intendersene in fatto di matematica, è
spiritoso, coinvolgente e sa che è arrivato il
momento di rilanciare.
Alla fine del racconto circa le proprie virtù
“maieutiche”, Socrate ammonisce Teeteto: “se poi io,
esaminando ciò che dici, giudicherò che sia un falso
feticcio e te lo strapperò e lo getterò via, tu non
infuriarti, come fanno le primipare in apprensione per i
loro nati. Già molti se la sono presa con me, tanto che
pareva stessero li li per mordere, quando ho voluto
togliere loro qualche vuota illusione; lontani come sono
dall'ammettere che nessun dio vuole il male degli
uomini, essi non pensano che io faccia questo per il loro
bene. Eppure io non mi comporto così per malanimo
verso di loro, ma perché credo che in nessun caso sia
lecito assentire alla menzogna e nascondere la verità.”.
E' la più risoluta critica ai pregiudizi comunque indotti
da una tradizione passivamente assunta per “vera”.
VIII. Socrate ha ottenuto l'effetto desiderato e
Teeteto, tornando alla questione da lui proposta si
lancia a dire quel che veramente pensa. Siamo a
un momento delicato del discorso. Bisogna infatti
far capire quale sia la natura della nozione di
idea, per come Socrate la intende.
Il giovane allievo di Teodoro propone che debba
intendersi per conoscenza la sensazione. Dichiara perciò
di ritenere che come sentiamo, così conosciamo e
riferisce (ma non del tutto precisamente) il pensiero di
Protagora, che è quanto Socrate desiderava che egli
facesse.
Adesso che si gioca a carte scoperte, Socrate
incoraggia moltissimo Teeteto, mostrando di
apprezzarne la sincerità. Ha infatti detto
evidentemente quel che pensa. In realtà il vecchio
filosofo ha notato immediatamente l'influenza
Se sentire è lo stesso che conoscere, allora conoscere è
lo stesso che sembrare, visto che sembrare e sentire sono
la stessa cosa.
Siamo sicuri che sia questa la “verità” consegnata da
Protagora ai suoi discepoli?
che sul giovane Teeteto esercita l'opera di
Protagora, né ciò lo stupisce perché sa benissimo
che il maestro del giovane è seguace delle
dottrine protagoree.
Si tratta quindi di sottoporre a esame queste dottrine
vedendo magari se diano o non diano elementi di
appoggio alla teoria formulata da Socrate, secondo cui la
“conoscenza è sensazione”.
Siamo a un punto chiave del dialogo che da adesso in poi conterrà una critica condotta su più piani
alla filosofia di Protagora e alle diverse interpretazioni che di essa sembrano legittime.
Apparentemente si tratta di cercare un punto d'appoggio all'ipotesi formulata da Teeteto, in realtà
questa ricerca servirà di pretesto per dimostrare che la filosofia di Protagora non poggia su solide
basi. Da un lato si dimostrerà come le teorie di Protagora non conducano a nessuna conclusione
attendibile, dall'altra si porrà quasi alla berlina, sempre più apertamente e sistematicamente, la
pretesa di Protagora, e soprattutto dei suoi seguaci, d'aver trovato il modo per avere sempre ragione.
Per il momento però occorre esporre le ragioni che possono aver indotto Teeteto a dire che la
conoscenza è sensazione e quale sia il rapporto tra una tale opinione e l'insegnamento di Protagora.
Teeteto ascolta con attenzione quel che Socrate
gli dice circa la possibilità di intendere in due
modi diversi le teorie di Protagora. Alzando un
“velo” sull'ispirazione autentica di quelle teorie,
sostiene che esse si uniformano al principio di
Eraclito, secondo cui “tutto fluisce”.
Osservazione di Socrate: da un lato c'è la “vulgata” del
pensiero di Protagora, per cui ogni sensazione nasce da
un incontro tra il soggetto che sente e l'oggetto che è
sentito; dall'altra c'è invece la teoria più complessa
secondo cui soggetto e oggetto sono tra loro indistinti ed
esistono solo nella relazione che tra di essi si stabilisce
al momento in cui la sensazione si realizza.
IX. Socrate, maestro di dialettica e di ironia, non
può agire di fronte a un ragazzo come agirebbe
nei confronti di un maestro. Comincia perciò con
l'esporre cautamente le buone ragioni che
possono indurre una persona intelligente a
ritenere che ogni cosa muti.
Primo spunto su essere e divenire, l'essere come quiete,
che è dannoso al corpo (è morte) e il divenire come
movimento (che è vita), ed è salute del corpo e
dell'anima. Infatti la crescita dell'uno e dell'altra si
spiegano solo col movimento.
X. L'intenzione non ancora dichiarata, di Socrate
è mostrare quanto si ingannino i sostenitori delle
teorie di Protagora. Deve però condurre Teeteto a
questa conclusione. Non può e non deve
anticipare conclusioni che possono apparire
stravaganti. Socrate decide allora di suscitare lo
stupore di Teeteto, mostrandogli come sia strano,
e per certi aspetti incongruente, un mondo che,
come quello sensibile, sia così mutevole. E'
questo un argomento utile a portare il discorso
sulla sensazione come fonte di conoscenza.
Il soggettivismo di Protagora induce a ritenere che il
bianco e il nero non siano bianco e nero, né che il freddo
sia freddo o il caldo caldo. Si tratta infatti di sensazioni
che mutano da persona a persona, anzi da essere vivente
a essere vivente.
Quel che accade delle qualità esteriori delle cose accade
anche della grandezza, con l'evidente eccezione dei
numeri che, come sono, così resteranno. Ma su questo
punto Socrate tornerà più avanti.
XI. In realtà, spiega Socrate, diverse sono le
“percezioni” che l'uomo ha e che possono
dividersi in tre gruppi: quelle che, essendo uguali
a se stesse, non mutano; quelle che nulla perdono
e nulla acquistano e restano perciò uguali e quelle
che, prima non erano, quindi sono e sono in
quanto sono divenute.
Socrate spiega il mito di Iride (l'arcobaleno), figlia di
Taumante (lo Stupefacente). Il mito gli serve per
spiegare la mutevolezza (il trascolorare) delle cose.
Nulla resta com'è. Tutto si trasforma.
XII. Socrate deve sincerarsi del talento filosofico
di Teeteto e studia le sue reazioni a quel che dice.
Garantitosi del fatto che il giovane non condivida
assolutamente le pretese di un grossolano
realismo ingenuo (che la tradizione greca
riconosce nell'incapacità di rinunciare a
pregiudiziali” materialistiche”), procede a esporre
concezioni più raffinate.
Si tratta, da parte di Socrate, di non dare addosso
al povero Teeteto, ma di porsi dalla sua parte,
Socrate illustra a Teeteto, che ha difficoltà a seguirlo, il
senso che per alcuni avrebbe il distinguere le sensazioni
a seconda che la sensazione proceda verso il soggetto o
che il soggetto si muova verso la sensazione. Il cercare
una sensazione la rende più veloce, lasciare che essa si
impadronisca di noi più lenta. Assecondarne la
realizzazione o ostacolarla è la partecipazione del
soggetto all'esperienza cognitiva, rispetto alla quale il
soggetto è quindi comunque solamente passivo.
riassumendo le ragioni che l'hanno potuto indurre
a considerare come la conoscenza sia sensazione.
XIII. Per completezza occorre prendere in
considerazione tutte ma proprio tutte le obiezioni
possibili, anche quelle che non hanno
fondamento. Socrate ne illustra una delle più
note, ma anche più facilmente aggirabili. Si
dimostrerà infatti priva di consistenza.
Quindi si deduce che Teeteto ha detto bene: la
conoscenza è sensazione, ci sono argomenti che
lo comprovano.
Socrate espone le difficoltà che insorgono quando si
prendano in esame certi stati di allucinazione, di follia e
più genericamente di patologia che induce a falsare la
percezione delle cose. E inoltre che succede se
dormendo cerchiamo la prova dello stato di sonno o di
veglia in cui ci troviamo?
La cosa sembra complicarsi la volta che s'ammetta che
tra l'individuo sano e lo stesso individuo malato ci sono
tante differenze che sia perfino difficile dire che Socrate
malato sia come Socrate sano. Invece è proprio da
queste situazioni che risulta confermato il fatto che, a
seconda di come si sia al momento in cui si sente, si
senta proprio quello che si sente
XIV. Teeteto appare contento. Si direbbe che La sensazione è frutto dell'incontro di due entità, quella
l'aver avuto ragione sia per lui motivo di che conosce e quella che è conosciuta
soddisfazione
XV. La suggestione da cui era partito Teeteto è finalmente idea, nel senso di quella che verrà poi
discussa come “ragionevole opinione”, fondata su una “spiegazione”. Intanto però il “parto” è
avvenuto. Bisogna ora controllare che tutto sia a posto e che l'idea appena nata sia, esattamente come
i bambini partoriti, viva e vitale. Qui bisogna fare attenzione a non perdere quel che si è comunque
guadagnato. Anche se l'idea espressa da Teeteto si rivelerà fasulla, resterà il fatto che l'idea c'è. Si
tratterà semmai di “aggiustarla”.
XVI. Mostrate le buone ragioni che hanno
condotto Teeteto a formulare la sua idea, si
procede a una verifica che comporterà di qui a
poco, la rinuncia all'ipotesi fatta.
Se – sostiene Socrate – la conoscenza è originata dalla
sensazione, allora tutti saremmo ugualmente sapienti,
non solo tra gli uomini, ma tra quanti sono soggetti
senzienti, dalle forme di vita animale più basse fino agli
dei.
Socrate tenta di tirar dentro alla discussione
anche Teodoro, provocandolo con una forte
accusa diretta a Protagora, che non sarebbe in
alcun modo sapiente. Teodoro, sentendosi parte in
causa, come allievo di Protagora si mostra
riluttante all'invito.
La provocazione di Socrate a Teodoro è forte nel
momento in cui sostiene che l'affermazione “l'uomo è
misura di tutte le cose” può convertirsi nell'altra “di tutte
le cose è misura il porco”, infatti anche il porco ha
sensazione.
XVII. Vista la reazione di Teodoro, al quale si è
data occasione di mostrare la sua indole onesta di
amico leale verso Protagora, occorre che, per
tirare dentro al discorso Teodoro, Socrate cambi
registro, perciò attenua le accuse contro
Protagora.
Socrate dà un assaggio di quella che sarà la Apologia di
Protagora:
Protagora o qualcun altro per lui dirà: “Brava gente,
giovani e vecchi che ve ne state lì seduti insieme: il
vostro è un discorso da demagoghi. Tirate in ballo gli dei
che io nei miei discorsi e nei miei scritti mai nomino, né
per affermare né per negare che ci siano; e adducete
argomenti che solo la folla ignorante piglierebbe per
buoni...”
XVIII. Dopo aver concesso il diritto alla difesa da
parte di Protagora, Socrate non accenna tuttavia a
mollare la presa e insiste nel dire che, per quante
ragioni possano riconoscersi a Protagora, gli resta
il torto di non aver considerato il ruolo della
memoria.
Si arriva a sostenere, tutti d'accordo, che la memoria del
sentito è altra cosa dal sentire infatti “è possibile che nel
momento in cui ci si ricorda di qualcosa, non lo si
conosca”, almeno se conoscere è sentire. Ho visto
Socrate, mi ricordo di lui, ma quando mi ricordo di lui
non lo vedo, quindi tra l'aver memoria e sentire c'è
differenza.
XIX. Qui Socrate forza deliberatamente il suo L'argomento paradossale da cui prende ora le mosse
vocabolario, volendo venire incontro alle Socrate è che si possa non conoscere quel che si
esigenze di Teeteto, il quale ha parlato di
conoscenza come sensazione e, invece di parlare
di “sensazioni forti” e di “sensazioni deboli”,
parla di “conoscenze forti o deboli”. Questo
punto è importante per lo sviluppo ulteriore del
dialogo, perché a un certo punto Socrate si vedrà
costretto a rinunciare all'ipotesi di Teeteto.
conosce. E' quanto accade quando dichiariamo
disinvoltamente di conoscere meglio ora di prima,
implicitamente ammettendo che quella di prima non era
conoscenza nel vero senso della parola.
XX. Socrate deve arrivare a coinvolgere nella
conversazione Teodoro. Solo così infatti potrà
dire d'avere confutato le teorie di Protagora,
quando un suo autorevole discepolo si trovasse
d'accordo con lui circa l'insufficienza di esse.
Perciò inizia quella che si chiama “Apologia di
Protagora”
L'Apologia di Protagora è un bel pezzo di retorica con
cui Socrate mostra di conoscere assai bene le ragioni di
Protagora e di quanti ne condividono la dottrina.
L'Apologia vale un invito rivolto a Teodoro perché entri
anche lui in gara con Socrate.
XXI. Teodoro è ora “costretto” ad accettare la
sfida, giungendo a dichiarare “Non è facile,
Socrate, sederti vicino e non partecipare alla
disputa”. Tiene però a mostrare d'aver capito
come Socrate sia stato fino a quel momento il
regista di tutta l'operazione, colui che “fila il
destino della disputa”.
Socrate interroga
ora Teodoro e mostra alcune
conseguenze delle teorie sostenute da Protagora. In
particolare osserva come non sia credibile che qualcuno
abbia solo e unicamente opinioni vere, ma piuttosto che
si abbiano alcune opinioni vere e altre opinioni false.
Adesso è Teodoro il principale interlocutore di Socrate, che ha ottenuto quello che voleva: mostrare ai
giovani come due esperti maestri debbano disputare attorno a un dato problema.
XXII. Teodoro, anche perché non può fare
diversamente, si pone ad ascoltare con interesse
Socrate che svolge il primo serio attacco al
“sistema” di Protagora.
Secondo Socrate, dicendo Protagora che tutte le
opinioni sono vere, deve ammettere che sia vera
anche un'opinione possibilmente diversa dalla sua.
In questo senso sarebbe vero sia tutte le opinioni,
inclusa quella che l'opinione di Protagora sia falsa.
XXIII. All'obiezione di Teodoro, che giudica
ipercritica la posizione di Socrate verso
Protagora, Socrate replica osservando come sia
inevitabile ricondursi ciascuno alla propria
opinione, giusta l'asserzione dello stesso
Protagora.
Socrate mostra come Il relativismo protagoreo conduca
inevitabilmente all'affermazione del dubbio. Il dubbio
deve riguardare tutto ciò che sia oggetto di sensazione: il
caldo e il freddo, il dolce e il salato.
Socrate è arrivato a uno dei punti nodali del suo
ragionamento. Egli deve far capire a Teeteto (e a
Teodoro) in che senso non si debba rinunciare al
confronto delle opinioni, cercando di arrivare a
un accordo, ciascuno discutendo il proprio punto
di vista.
Quel che vale per ciò che è oggetto di sensazione vale
anche per quel che reputiamo bello o brutto, giusto o
ingiusto, santo o non santo.
La cosa è paradossale, infatti, mentre non c'è nulla da
eccepire circa il fatto che io abbia freddo e tu caldo, le
questioni circa il bello, il giusto e il santo impongono
una soluzione, altrimenti si impone il punto di vista di
chi sa come avere ragione per forza.
Socrate insiste nel suscitare una sorta di sdegno
per quel che può derivare dal fatto che certe cose
siano soggette a valutazioni personali. La polis
non può accettare che non si convenga circa quel
che è giusto o ingiusto.
Per far risaltare l'urgenza di affrontare certe questioni,
Socrate ricorre a un esempio. La clessidra – sostiene –
mette fretta in tribunale tanto ai giudici quanto agli
imputati che, per difendere le loro ragioni, si appellano
anche per questa ragione a bravi avvocati, avendo fretta
d'arrivare in tempo a mostrare la propria non
colpevolezza.
XXIV. Socrate sapeva come le liti giudiziarie
nascessero nell'Atene dell'epoca da presunte
ingiurie (offese, danni) che ciascun cittadino
riteneva gli venissero dalla cattiveria degli altri.
Si delinea, a contrasto, quella che è la natura del vero
filosofo, che non tiene in alcun conto cose che per altri
sono invece fondamentali. In particolare al filosofo non
interessa quel che per gli altri è invece fondamentale.
Una così difficile convivenza trae motivo di
ispirazione dall'idea che ognuno possa
legittimamente avere e mantenere le proprie
opinioni.
Egli non ha partite da vincere contro gli altri. Non gli
interessa se Tizio o Caio abbiano fato qualcosa di
ingiusto contro di lui, ma che cosa sia la “giustizia”
riguardata in sé e per sé.
XXV. Divagazione sul male. Necessità di
sottrarsi al male da parte degli uomini saggi, che
devono sforzarsi di rendersi simili agli dei. Del
male si parlerà sempre troppo. Socrate ha fretta a
lasciarsi alle spalle un tema che sente
sconveniente. Quel che ne è stato detto è
sufficiente e bisogna tornare alle questioni
“importanti”
Conoscere quanto l'uomo sia sostanzialmente vile è
l'inizio della saggezza. Da questo punto di vista il
disprezzo della viltà è virtù. Il punto è che l'uomo non è
buon giudice di se stesso e quanto più è lontano dalla
virtù, tanto più ritiene d'essere virtuoso.
Socrate deve ora condurre Teeteto e Teodoro di fronte al nocciolo del problema e portarli a constatare
come il sembrare e l'essere non possano risolversi l'uno nell'altro. Perciò va ancora più indietro nel
tempo a recuperare quel che Eraclito e Parmenide avevano sostenuto ancor prima di Protagora. Il
tema centrale del dialogo riguarerà comunque da adesso in poi la memoria e la funzione che essa
svolge, proprio in relazione al paasare del tempo.
XXVI. Socrate mostra quanto sia indispensabile
esaminare sia l'una sia l'altra delle due teorie,
quella di Eraclito e quella di Parmenide. Inizia da
quella di Eraclito, secondo il quale tutto si
muove.
Socrate svolge un lungo ragionamento il cui senso è alla
fine questo: “tutto fluisce” dice il sapiente e ciascuno è
maestro dell'arte propria, ma è poi il passare del tempo a
rivelare a tutti se il “maestro” possedeva davvero
quell'arte. Se l'arte della saggezza sta nel saper dare
giuste leggi alla città, chi sia competente in altre materie,
deve cedere il passo ha chi abbia invece quel particolare
tipo di competenza. Non è quindi vero che ogni opinione
valga quanto un'altra.
Di fronte a una tale confutazione del pensiero di
Protagora, Teodoro dichiara la sua resa. Non c'è a
suo avviso argomento migliore per invalidare le
teorie di Protagora.
Socrate rilancia, contestando a Teodoro che sia come lui
dice, dichiarando che la confutazione addotta può a sua
volta essere confutata in tanti modi. Il partito degli
“eraclitei” è infatti agguerritissimo e bisogna esaminare
attentamente le ragioni che potrebbero ribattere.
XXVII. Teodoro deve a questo punto riconoscere
di non essere al corrente quanto Socrate della
ricchezza degli argomenti con cui gli “eraclitei”
difendono il punto di vista del loro
maestro.Perciò accetta di proseguire svolgendo
assieme a Socrate la critica di quel pensiero da
cui aveva tratto ispirazione Protagora, la cui
“dottrina segreta” sarebbe stata appunto quella
secondo cui tutto fluisce.
“Tutto fluisce”, secondo l'insegnamento di Eraclito.
L'insegnamento è giusto, sensato e l'affermazione trova
moltissime conferme. Il punto è che non se ne accetta
per partito preso alcuna confutazione, mentre c'è stato
chi, come Parmenide ha attirato l'attenzione sul fatto che
l'universo sarebbe “immerso nella quiete”.
XXVIII. Alla presenza degli allievi che ne
ascoltano i ragionamenti, i due maestri decidono
essere importante esaminare tanto la dottrine di
Eraclito, quanto quella di Parmenide. Si inizia col
considerare quella di Eraclito. Socrate pone
domande e Teodoro risponde, generalmente
approvando quanto Socrate sostiene.
Ci sono – sostiene Socrate – due tipi di movimento. Essi
sono lo spostamento e il cambiamento. Se così è,
bisogna concludere che non è possibile dir nulla delle
cose, infatti mentre le definiamo relativamente alla
posizione o relativamente alla qualità, esse hanno già
mutato posizione e qualità. Insomma, se tutto muta e
quel che muta è il contrario di quel che è, allora la
conoscenza è anche “non conoscenza”.
XXIX. “Maieuta” Socrate provoca in Teeteto un L'anima conosce senza i sensi per effetto della memoria.
nuovo “parto”. Esistono tratti comuni a famiglie E' nella memoria che predichiamo intorno all'essere (e al
di cose (i koina), che l'anima percepisce da sé.
non essere) delle cose, per quei caratteri che alle cose
sono comuni.
XXX. Identificati questi nuovi oggetti (i koina, Teeteto è deciso: l'essere rientra tra quei koina che
che non sono né “matematici” né sensibili), se ne “l'anima si sforza di cogliere da sé sola”. Seguono il
fa una gerarchia.
simile e il dissimile, il bello e il brutto e in genere tutte
le qualità fra loro contrarie. Bisogna però arrivare a dire
che è col ragionamento che compariamo tra loro le cose,
ad esse attribuendo l'appartenenza a questo o a quel
koinon. Nel far questo gli uomini “opinano”.
XXXI. Sempre nella veste di “maieuta” Socrate
spinge Teeteto a tornare alla domanda, dando
stavolta una risposta diversa, facendo conto “di
cancellare tutto quello che pensava prima”.
Siccome la conoscenza non può farsi coincidere con
qualsiasi opinione, allora – sostiene Teeteto –
conoscenza sarà l'opinione vera, in quanto distinta
dall'opinione falsa.
Ma allora – chiede Socrate – come nascono le opinioni
false? Sicuramente le opinioni false non sono la stessa
cosa delle opinioni che predicano il non essere, infatti
chiunque opini, opina qualcosa che è.
XXXII. Ma come accade che si prenda una cosa
per un'altra?
Teeteto ascolta con grande interesse e non si
accorge dove Socrate lo sta conducendo. Poi, a
un certo punto la denuncia dell'insufficienza degli
argomenti addotti. Infatti “prendere una cosa per
l'altra” non comporta sapere quale delle due sia
sbagliata, quale giusta.
Il pensare – sostiene Socrate – è un ragionamento che
l'anima fa da sé, con sé stessa, intorno agli oggetti che
esamina.
Ciò spiega come capiti, discutendo del bello e del brutto,
del giusto o dell'ingiusto di mutare opinione, giudicando
sbagliata quella che si aveva prima. Questo invece non
accade del pari e dell'impari.
XXXIII. E' ora giunto il momento, per Socrate, di
sollevare una questione di vocabolario. Posto che
conoscere sia sentire si è prima escluso in quanto
impossibile che ci si potesse trovare nella
situazione di opinare che una cosa non conosciuta
sia al contrario qualcosa di conosciuto.
Socrate richiama il mito di Mnemosine madre delle
Muse, che avrebbe fatto un dono agli uomini. “Supponi
che nelle nostre anime – egli dice a Teeteto – ci sia una
massa di cera in uno più grossa in un altro più piccola, in
uno di cera più pura in un altro frammista a scorie; e più
dura e in alcuni più molle...”
L'opinione falsa nascerebbe a questo punto dla calco
imperfetto della nostra memoria, per cui non
“riconosciamo” quel che tuttavia dovremmo già
conoscere.
XXXIV. Per spiegare quanto ha enunciato in
forma teorica, Socrate ricorre a più esempi, in
modo da descrivere una casistica che convinca
Teeteto dell'esistenza di varie possibilità di
incorrere in errore.
Io – dice Socrate – conosco Teodoro e ricordo bene
quale egli è e conosco e ricordo allo stesso modo
Teeteto.
Può però capitare che Socrate, conoscendo Teodoro e
Teeteto e non vedendo né l'uno né l'altro, possa opinare
che Teeteto è Teodoro.
Si fa anche l'esempio di una confusione indotta dalla
distanza. Vedo di lontano qualcuno che conosco e ne
associo l'immagine alla persona sbagliata, poi mano
mano che quello s'avvicina mi accorgo d'essermi
sbagliato. Sull'autorità di Omero, si stabilisce che, a
seconda della recettività dell'anima di ciascuno, si abbia
una memoria più o meno precisa delle cose, tanto che, ci
son di quelli che opinano il vero e di quelli che opinano
il falso.
XXXV. Socrate torna a recitare. Si dà del
“chiacchierone”, si scusa col povero Teeteto, il
fatto è che non s'è accorto d'aver condotto l'amico
a dire e pensare cose sbagliate. Perciò si risolve a
concludere tutto il ragionamento dicendo che
occorre riconoscere senza falsi pudori quel che è,
Socrate fa adesso il caso di colui che sia convinto che
quel che per gli altri è 12 sia per lui 11. E' chiaro che per
quest'uomo 7 + 5 fa 11, dove per tutti gli altri fa
12.Stravagante per quanto, quest'opinione è un'opinione
e vale anch'essa quanto le altre.
che cioè ci si è posto un problema a cui non si sa
dare risposta.
XXXVI. Siccome Teeteto non si è del tutto
rassegnato, Socrate si sente in obbligo di
accontentarlo e ricorre a un altro artificio. Per far
capire a Teeteto di che cosa voglia parlare, sarà
utile ricorrere a un nuovo esempio. Ci sono di
quelli che catturano delle colombe per averle, e di
quelli che invece le catturano per averle a
disposizione. Suppone perciò perciò che lo stesso
avvenga delle nostre conoscenze.
Non sappiamo cos'è la conoscenza e evitiamo, come
suggeriscono alcuni filosofi di parlare di conoscenza tout
court. Parliamo allora di facoltà della conoscenza,
qualcosa che non si ha, ma di cui ci si possa avvalere.
Riferendosi a qualcosa come ciò che oggi noi
chiamiamo “cognizione”, Socrate parla di conoscenze
che, sopite, possono essere ridestate in contrapposizione
ad altre che invece abbiamo ben presenti.
.
XXXVII. La distinzione tra cognizione presente e
cognizione sopita serve a spiegare l'errore: mi
sbaglio quando per esempio, pur conoscendo il
nome di una persona, lo associo a quello di
un'altra. Quando mi fanno notare l'errore mi
correggo riconoscendo d'avere sbagliato.
La cognizione non è peraltro conoscenza, perché io che
so che Socrate e Socrate ma ho confuso Tizio con Caio,
pur poi riconoscendo da solo che Tizio è Tizio e Caio è
Caio, mi trovo nella situazione di avere conoscenza e
non conoscenza allo stesso tempo. Non essendo
attendibile, la cognizione non è quindi conoscenza
(vera).
XXXVIII. Si torna alla definizione precedente di
conoscenza come “opinione vera”, che è quella a
cui mira il giudice in un processo.
XXXIX. Socrate non si smentisce. Dalle mezze
frasi di Teeteto capisce immediatamente quale sia
il ragionamento ascoltato dal ragazzo e glielo
illustra in ogni dettaglio.
Ci sono, secondo la teoria che Teeteto non è stato
in condizione di esporre nei dettagli, elementi e
composti. Gli elementi non sono riconducibili a
nient'altro che a sé stessi, dei composti può darsi
spiegazione. Conosce meglio e più degli altri chi
sappia dare spiegazione di più fatti,
riconducendoli agli elementi che li compongono,
nonostante il fatto che gli elementi non siano
conoscibili, ma solo definibili in quanto elementi.
Ammirato della preparazione di Socrate, Teeteto ne
segue i discorsi ammirato e con molta attenzione.
Esposta la teoria, Socrate intende adesso provarla.
Poiché chi ha proposto la teoria aveva assai
credibilmente inteso riferirsi al discorso in quanto fatto
di lettere che si combinano nelle sillabe, basterà vedere
se chi riconduce le sillabe alle lettere abbia o non abbia
conoscenza delle lettere.
XL. Socrate sa benissimo che avere conoscenza
delle sillabe è impossibile senza avere
conoscenza delle lettere. Ma vuole far toccare
con mano a Teeteto la contraddizione implicita
nell'asserzione che ha appena formulata.
Prendiamo un nome, come può essere “Socrate”. La
prima sillaba è “so”. Chi dice che “so” contiene le lettere
“s” e “o”, evidentemente conosce le lettere in questione.
Dunque queste non sono più elementi, posto che gli
elementi siano inconoscibili. Se è vero che in tal modo
tutto il ragionamento si vanifica, è anche vero che si
sarebbe dovuto tener conto del fatto che tra sillabe e
lettere c'è un rapporto diverso, le prime costituendo la
base per un'idea diversa dall'idea di lettera.
XLI. Interviene a questo punto la necessità di
chiarire se l'intero e il tutto siano o non siano la
stessa cosa. Sarà questa la via per uscire dalle
difficoltà appena incontrata.
Attraverso l'esame della differenza che intercorre tra il
tutto e l'intero, si comprende in che senso si stabiliscano
due diversi livelli di discorso.
L'attacco di Platone sembra rivolto contro gli atomisti ed
è non può condividersi fin tanto che si consideri “atomo”
un elemento non identificato e non identificabile. Dove
invece la critica regge è nel caso in cui, come sembra
voler intendere Platone, la correlazione elemento –
composto si intenda come funzione stabilita del secondo
rispetto al primo. C'è infatti sempre la possibilità di
ribaltare la relazione e che l'elemento sia in funzione del
composto, cioè la nozione di base o elementare posta
proprio per spiegare altre situazioni ad essa correlate.
XLII. Si procede all'esame del significato del Socrate e Teeteto sembrano accordarsi nel definire
termine “logos”, qui usato nel senso di ragionamento o spiegazione il discorso che dà conto di
spiegazione, ragionamento.
quel che si dice. Ora un discorso di questo genere può
essere meramente descrittivo e consistere di rette
opinioni che non sono però, a loro volta, ragionamenti.
E' il caso di chi illustri una per una le lettere o le sillabe
del discorso che viene facendo.
XLIII. Ci si avvia alla conclusione, che è molto
semplice: Non c'è modo di sapere di sapere, di
dare conferma alle proprie opinioni. La maieutica
di cui è capace Socrate non concede questo
privilegio.
XLIV. Socrate si congeda dai suoi amici ma anche dal lettore e dallo spettatore del dialogo, ai quali dà
peraltro appuntamento per l'indomani.
Approfondimento I
Il significato del Teeteto
Come abbiamo accennato nel saggio introduttivo, il Teeteto ha una sua storia e, nella varia fortuna
che l'opera ha avuto, sono emerse interpretazioni tra loro diverse, talora contrastanti.
Fino a qualche tempo fa era prevalente, tra gli studiosi italiani, una interpretazione in chiave
idealistica del dialogo. Tale interpretazione fu talmente consolidata da non essere messa in
discussione neanche da studiosi che non avessero una formazione idealistico o neo-idealistica.
Peraltro questa tradizione ha agito a lungo e agisce anzi in parte tuttora 3 . Oggi le cose sono
cambiate e non si mira più a leggere Platone riconducendo la sua filosofia a un organico e compatto
“sistema di idee”, come conferma l'attenzione sempre più rivolta alla VII lettera, quale documento
imprescindibile per una corretta interpretazione del pensiero platonico.
Venendo al senso del dialogo, ci pare sia da mettere da parte l'illusoria possibilità di ignorare,
aggirandola in qualche modo, la conclusione “aporetica”, per cui, dopo essersi posti sulla via per
definire la conoscenza, i partecipanti al dialogo devono alla fine convenire che una tale definizione
non può darsi.
Per capire questa posizione che può sapere di scetticismo (ma Socrate fu nume tutelare anche degli
scettici) può essere utile richiamare lo schema del dialogo. Alla scuola di Teodoro si insegna che
esistono grandezze incommensurabili, cioè che non sono multipli (o scomponibili in multipli) di
altre grandezze. E' lo stesso Teeteto a parlarne, suscitando l'interesse di Socrate. Si sa che l'esistenza
di numeri irrazionali (non trascrivibili in forma di frazione) destò sgomento nei Pitagorici. Si tratta
di numeri assai particolari che “spezzano” la presunta armonia cosmica di un mondo in cui tutte le
grandezze siano rapportabili le une alle altre. La tradizione vuole che tale scoperta dovesse restare
segreta e su questo “segreto” ci pare ironizzi Platone, nell'omettere di menzionare la sacrilega
rivelazione della natura irrazionale di √2, che pare costasse la vita agli adepti della setta pitagorica
che ne facessero parola al di fuori della scuola. Ci sembra che perciò, passando sotto silenzio quel
caso “storico”, desse indicazione di altri casi conclamati dalla più recente ricerca matematica.
La “conoscenza”, sembra concludere Socrate, ha questo in comune con i numeri irrazionali, che non
la si può ridire in altra forma. E' conoscenza, come √3, di cui Teodoro ha ragionato con i suoi
studenti, è √3. Allo stesso modo conoscenza è solo conoscenza, diversamente dall'argilla che è,
come Socrate fa presente a Teeteto, “terra ammorbidita con acqua o qualcosa del genere”. Mentre
l'argilla somiglia a quei numeri rettangolari che sono prodotto di altri numeri, la conoscenza
somiglia a √3,√5, di cui ragionano Teeteto e i suoi amici.
Eppure quanto abbiamo detto non basta. Infatti, mentre i sofisti cercano con i poeti un accordo e
“velano” questa verità timorosi di comunicarla al “volgo”, Platone la affronta, stabilendo che essa
non comporta necessariamente l'abbandono di un'idea di commensurabilità delle cose fra loro. Per
lui insomma l'argilla è “terra ammorbidita con acqua o qualcosa del genere”, mentre la conoscenza
è nient'altro che conoscenza. C'è quindi la possibilità di identificare l'essenza di alcune cose, mentre
3
Ci riferiamo a quella che Gadamer definisce “la dominante figura tradizionale della filosofia platonica” che “presenta
con ostinazione addirittura assurda, come qualificante del platonismo, la teoria dei due mondi, cioè la completa
separazione del mondo paradigmantico delle idee dalla cngiante mutabilità della nostra esperienza del mondo
sensibile” H.G.Gadamer, Studi Platonici, Marietti, Torino 1984,vol.II, p 88. A dispetto del fatto che tale
osservazione fosse fatta da Gadamer oltre cinquant'anni fa, questa figura tradizionale della filosofia platonica
continua a essere prospettata ai nostri studenti come qualificante il platonismo dalla maggior parte dei manuali
scolastici circolanti in Italia.
di altre occorre riconoscere...l'ignoranza. Importante è il fatto che una tale ammissione di ignoranza
non comporta la negazione dell'esistenza della cosa che comunque “è”, tanto da diventare, nella sua
esistenza, garante anche dell'esistenza dell'essere.
Questa è una delle ragioni per cui Platone rifiuta l'assimilazione dell'essere al divenire. Certo non è
la più importante. La ragione principale emerge nel discorso che si svolge tra questi egregi amici.
La sapienza non è quella dei poeti che sanno parlare, o trovano dentro di sé la verità. Non è neanche
quella dei sofisti che insegnano ad avere ragione di qualsiasi avversario. Il sapiente è colui che lotta
contro la labilità della memoria. Siccome ricordare le cose esattamente è impossibile, occorre
utilizzare degli strumenti adatti a far sì che le cose si ricordino il meglio che sia possibile. Da questo
punto di vista ha fatto bene Euclide a trascrivere il dialogo tra Teeteto e Socrate, dialogo che nessun
aedo potrebbe replicare a memoria. Questo ci pare alla fine il senso del Teeteto.
Sicuramente la denuncia dell'inconsistenza di certe pretese ha senso. Sotto certi aspetti è anzi il
recupero di un senso che si è smarrito e che riguarda innanzitutto l'uso del dialogo, che, come non
mi deve portare a difendere a tutti i costi una qualunque asserzione da me fatta e che riconosco
essere sbagliata, non mi deve indurre a ricercare ostinatamente quello che non c'è. Molto
saggiamente la conclusione è che, se fossimo in condizione di definire la conoscenza, saremmo tutti
sapienti, invece la sapienza umana è tale da essere contenuta tra un più e un meno, cioè tanto è
sapienza quanto è anche ignoranza; tanto frutto di intelligenza, quanto al contrario frutto di
stupidità.
Il senso del Teeteto non è a questo punto difficile a cogliersi. Se si vuole che la tradizione rimanga
viva e operante in una società complessa, organizzata come quella della città d'Atene, polo politico,
economico e culturale di un vasto territorio, non ci si può affidare soltanto a quanti rivendichino
nient'altro che l'esercizio di tanti saperi specifici. Non possiamo affidarci al falegname, al medico,
all'architetto, al pittore, all'avvocato che, in base alle proprie competenze risolvano i problemi che
volta per volta abbiamo. Sarebbe troppo facile. Il punto è che ci sono questioni che nessun sapere
specifico, nessun' arte ci pone nella condizione di risolvere senz'altro. Ciò accade perché in una
collettività ci sono problemi che oltrepassano i limiti dell'immediato e che, a rigore, non sono
visibili e anzi quando sono visibili è ormai tardi per risolverli. Perciò ci dev'essere anche chi della
tradizione si faccia interprete, se si vuole che la giustizia sia bene amministrata e la città si governi
secondo giusti criteri.
Che questo soggetto, idealmente posto al di sopra degli altri e del quale ha ormai bisogno la polis
greca, sia il filosofo è quanto i lettori di Platone fanno presto a intendere. Come fanno anche presto
a intendere che il filosofo non deve essere lasciato solo perché, se non ragiona con altri che come
lui si pongano sulla via di una ricerca che riguarda certi temi, allora non potrà svolgere le delicate
mansioni che gli competono.
Ma nel Teeteto il filosofo si chiama Socrate e i riferimenti alla sua personale vicenda giudiziaria (e
all'ingiusta giustizia di cui sarà fra poco vittima) sono così espliciti da non lasciare dubbi a riguardo.
Dopo il colloquio con Teodoro e Teeteto, Socrate dovrà recarsi in tribunale a difendersi dall'accusa
di Meleto, secondo la quale egli sarebbe corruttore di giovani perché li allontanerebbe dalle
tradizionali credenze religiose. A riprova di quanto nel Teeteto è stato rappresentato, dobbiamo
interrogare quei fatti e intenderli nell'ottica socratico-platonica. Che cosa succederà adesso? E che
cosa sta succedendo a Socrate?
Qualcuno si è evidentemente infastidito della pretesa di Socrate d'andare a discutere di cose che non
erano di sua competenza. In base alla legge, sentendosi leso in un suo diritto, questo qualcuno
sporge denuncia, accusando il filosofo di empietà. E, a quanto ci è dato di capire, l'empietà starebbe
solo nell'andare in giro a suggerire come possano interpretarsi alcuni miti. Ecco perché è un poeta a
eccepire circa questo diritto. Fino a prova contraria competenti in fatto di miti e di mitologia sono i
poeti... Socrate non è poeta... non è neanche sacerdote, è lecito dedurre che parli a vanvera
seminando fra i giovani cognizioni erronee e contrarie alla tradizione, santamente custodita da parte
di chi come Meleto (che evidentemente ha qualcosa come una patente di poeta) insorge sollevando
un gran polverone.
A questo fatto, per così dire storico, c'è qualche riferimento nel Teeteto. Il più importante, proprio
perché sotterraneo e non esplicito, si trova, a nostro avviso, nel passo in cui Socrate chiede a Teeteto
di non adirarsi con lui se gli strapperà di mano e gli getterà via qualche feticcio, di non avventarsi a
morderlo, come fanno le partorienti inesperte con la levatrice (che evidentemente strappa loro di
mano quei ridicoli portafortuna a cui le donne giovani e inesperte si affidano perché nel parto “tutto
vada bene”). E' infatti compito del maestro correggere l'allievo.
La superstizione è sciocca. Come però occorre che dalla superstizione si guarisca, occorre anche
che si sia disposti a porre in discussione le proprie opinioni, cosa che non è possibile fin tanto che ci
si trinceri dietro la persuasione che “ognuno è libero d'avere le proprie idee”, posizione della cui
sostanziale equivocità siamo oggi più o meno tutti consapevoli, vivendo l'esperienza di “democrazie
mature”. All'epoca di Socrate si tratta invece di varcare una frontiera nuova sul piano della
elaborazione culturale e politica. A Socrate non scandalizza il relativismo insito nell'osservazione
che “ognuno è libero d'avere le proprie idee”. A non fargli condividere una tale posizione è, come
abbiamo già illustrato, la resa incondizionata al parere altrui che essa comporta, incluso l'ipocrita
abbandono dell'altro al suo destino e negargli l'aiuto di cui forse ha bisogno. Non gli piace l'alt che
si dà a una ricerca volta a stabilire un accordo, per cui alla fine sappiamo tutti come comportarci,
perché ci siamo divisi i compiti. Qui appare l'umanità di Socrate, con quell'affabilità a volte
fastidiosa e da alcuni giudicata scortese, che è tipica di chi non sappia rassegnarsi a vedere che la
persona che ama non sa fare lo sforzo necessario a intendersi con lui. E che ci vuole! Solo la fatica
di compiere un passo verso l'altro, mediare, raggiungere un compromesso, dividersi il territorio,
ascoltare, essere ospitali. In altri termini, il punto non è avere ragione, ma trovare un accordo,
convenire circa qualcosa, anche se questo convenire dev'essere, come qualsiasi persona avveduta
può intendere, provvisorio, anzi del tutto precario. Giungere comunque all'accordo è fondamentale.
Due i nodi da sciogliere. Il primo è quello di un sereno e distaccato giudizio che porti il filosofo a
prescindere dai casi specifici, a cominciare da quelli che lo riguardano personalmente. Tra filosofi
che conversano e si intendono reciprocamente non c'è chi vince e chi invece soccombe, sconfitto,
come nelle aule giudiziarie. Solo a patto di partire col piede giusto, si coglierà il problema nella sua
essenza. L'altro nodo è quello importantissimo della differenza tra essere e non essere. Del primo di
questi due nodi abbiamo già parlato e quanto abbiamo detto dovrebbe essere sufficiente a capire
quali tensioni sottintenda dal punto di vista politico nel senso alto e nobile della parola.
L'altro nodo vale lo svolgersi di questioni veramente avvincenti dal punto di vista filosofico. C'è ad
esempio chi, come Emanuele Severino, riferendosi alle dense pagine del Sofista e del Parmenide,
asserisce che “nell'ambito della filosofia occidentale, il problema di stabilire in che consista ciò che
vi è di identico nella totalità delle cose molteplici (il problema che nasce insieme alla filosofia)
raggiunge con Platone la sua soluzione definitiva 4 . Sicuramente nel Sofista e nel Parmenide la
questione indicata da Severino raggiunge punte molto alte, forse mai più toccate dai filosofi
successivi e da questo punto di vista comprendiamo il giudizio dello studioso, rispetto al quale però
vorremmo essere più cauti. Al problema di stabilire in che consista ciò che vi è di identico nella
totalità delle cose molteplici si accenna nel Teeteto quasi poeticamente, lì dove Platone se la prende
con la paroletta “è” che crea tanti problemi, ma con la quale dobbiamo fare i conti. Fingere che non
ci sia, dichiarando che “tanto, tutto scorre” sarebbe un errore. Predicando delle cose ciò che esse
sono, le estrapoliamo dal loro naturale fluire e le trasformiamo. Da questo punto di vista Protagora
non ha detto bene, nel senso che la predicazione non consegue alla necessariamente alla sensazione,
anche quando vi faccia esplicito riferimento. Il sospetto che si fa strada in chiunque legga questo
passo del Teeteto è che l'atto della predicazione comporti qualcosa come la morte (peraltro non
definitiva) delle cose che entrano per questa via nel mondo dell'essere che non ha tempo e che è
l'universo parmenideo. Del resto lo abbiamo visto fin dall'inizio, il movimento è salutare al corpo e
all'anima; la quiete (l'essere) è invece mortifera.
Oggi, resi più scaltri da un sapere che ci viene dalle scienze sociali, dagli studi di antropologia e di
psicologia, possiamo cogliere il convergere di più tensioni “nascoste” nell'articolarsi di questo
dibattito e trovarvi un punto di incontro di eros, thanatos che si saldano reciprocamente in un sogno
4
E. Severino, La filosofia antica.I grandi temi del pensiero greco dai prsesocratici a Plotino, Rizzoli, Milano 1984, p.
96.
di impossibile immortalità. Vi accenniamo nella convinzione che forse Platone fosse di queste cose
interprete più avveduto e sensibile di quanto non siamo noi stessi, sicuramente più di lui alienati
dalle nostre verità più profonde. Amore e morte sono del resto due temi fondanti la cultura antica,
specie quella ellenica. Potremmo darne esempi a mai finire.
Volendo concludere, ci pare che proprio questa consapevolezza suggerirà a Socrate di introdurre la
metafora dell'andare a caccia, volendo indicare l'operazione che Teeteto è a questo punto richiesto
di fare per definire che cosa la conoscenza sia. E Teeteto, che non ha capito dove Socrate voglia
andare a parare, cade nella trappola avventurandosi in un nuovo viaggio da cui uscirà sconfitto. Si
comprendono però anche le ragioni dei “sofisti” che, come lo stesso Socrate accenna, hanno bandito
dal loro vocabolario espressioni del tipo “essere” e “conoscere”, preferendo ad esempio dire “avere
conoscenza” invece che “conoscere”5.
Approdato in questo universo parmenideo nel quale domina un onnipresente essere, Teeteto ne
avverte il fascino particolare, e capisce che qui le cose non vi sono “percepite” coi sensi ma vi
abitano in virtù di un organo di cui l'uomo è evidentemente dotato che gli antichi chiamarono
“anima”. L'essere e il suo contrario, il non essere, al pari di altre cose che pensiamo, non sono
percepite con i sensi. L'essere delle cose è nella nostra memoria, la quale alle volte può peraltro
tradirci. Accade così che io conosco Socrate, ma pur conoscendolo, lo scambi con un'altra persona.
Come accade anche, che pur conoscendo benissimo una persona, qualcuno non sia capace di
identificarla correttamente. E' dunque la memoria a dirci che la sensazione può ingannarci. Non
resta che diffidare dei sensi e, evitando di confondere pensieri e sensazioni, affidarsi al solo
pensiero.
Se questa può essere la prospettiva di un platonismo che, criticamente rivisitato, ci porta oltre i
limiti impliciti in una tradizione interpretativa che ha fatto di Platone il filosofo della “teoria delle
idee”, va però detto che nel Teeteto si va ancora oltre. Posto infatti che la conoscenza possa essere
un'opportunità che viene offerta e che ci si procura, un po' come accade dei piccioni che si allevino
dentro una colombaia, non resta che vedere come agire nel guidare i nostri pensieri. E qui una
sorpresa. La nuova definizione di conoscenza è artificiosa e chi ne disponga senza sapere come
regolarsi, non potrà fare altrimenti se non fidandosi delle sue capacità, ignorando di far male,
proprio dove crede di far bene.
Se però – osserva con ingenua malizia Teeteto – l 'opinione non si fonda più sulla sensazione, essa
non sarà più vera e falsa, ovvero la sua verità o falsità non dipenderà solo da ciò che sento, ma
anche da come conduco il mio ragionamento, da come spiego, argomentandola, l'opinione che
esprimo. Altro artificio, con cui ci si avvia al finale del dialogo, nel quale si dimostra ingannevole la
pretesa di compiere a ritroso un cammino che va in un'unica direzione. Infatti è ragionevole dire che
gli elementi non sono né denotabili né connotabili, diversamente dai composti, ma poi l'analisi dei
composti, cioè l'esame del discorso non può risolversi nell'indicazione di qualcosa di elementare
rispetto a ciò che è complesso.
Non esiste artificio con cui risolvere il problema e anche l'ultimo, estremo tentativo sarà infruttuoso,
infatti anche la connotazione negativa della conoscenza come altro rispetto alla semplice opinione,
porterebbe a identificare la conoscenza come conoscenza della differenza che c'è tra opinare e
conoscere.
Restano i tentativi compiuti di giungere ad un accordo che, a questo punto, è garantito sulla base di
una sconfitta che entrambi i filosofi devono registrare. Intanto però, l'arte maieutica, dimostra come
sia possibile all'uomo liberarsi delle ombre che ne opprimono la mente. Compito della filosofia,
come ormai Teeteto ha compreso non è dire che cos'è la verità, ma semplicemente svelare qualche
cumulo di menzogne, su cui è saggio sorvegliare.
5
E' questa una coincidenza, secondo noi, non casuale con il vocabolario introdotto dal cognitivismo contemporaneo, per
ragioni complesse ma che sono sostanzialmente assai simili a quelle di Protagora e Gorgia. Il “cognitivista” infatti è
chi prende atto di una situazione
Approfondimento II
L'importanza del Teeteto, capolavoro della filosofia platonica
1. Temi e caratteri del Teeteto
Veramente con il Teeteto ci troviamo di fronte a una grande opera di Platone. Vi confluiscono più
saperi, variamente stratificati e distribuiti con molta arte. C'è Pitagora e il sapere matematico, ci
sono i sofisti, con uno dei loro capofila che è Protagora, c'è naturalmente Socrate, c'è la pedagogia
cioè il rapporto maestro e allievo che si concreta nel “parto” dell'idea che, con l'aiuto di Socrate,
Teeteto porta alla luce. C'è anche, come vedremo, la questione della tradizione e degli strumenti
utili a consegnarla ai posteri, primo fra i quali la scrittura. Sono importanti, anche a quest'ultimo
riguardo, le cose che vengono dette e ancora di più quelle su cui o si sorvola o addirittura si tace
deliberatamente. Quest'ultimo punto, che come vedremo è uno dei tratti più coinvolgenti del dialogo,
fa di questo testo un nodo della cultura dell'antico Mediterraneo che ci porta ben oltre le coste
greche, nel Medio Oriente, nell'antico Egitto e in altri luoghi ancora con cui la civiltà greca venne in
contatto.
Il tema dichiarato è la conoscenza, come si attui e soprattutto in che cosa consista. Attorno al tema
ci sono alcune interessantissime divagazioni che riguardano un po' tante cose, la sensazione, il
ricordo, la natura dell'anima filosofa, la capacità di sapere non solo quello che è accaduto ma anche
quello che accadrà. C'è infine il mondo greco, con tutti i suoi limiti, a cominciare
dall'emarginazione della donna come rivela lo spunto autoironico con cui Socrate dice di se stesso
di esercitare l'arte della maieutica appresa dalla madre. Ironia che, rivolta a sé e a quanti ritengano
di sapere, è anche rivolta all'universo femminile, orgoglioso, e forse geloso, della prerogativa del
parto, dove dispettosamente Socrate (e Platone) insinuano che anche l'uomo partorisce ma
partorisce idee, procreando a sua volta. Se poi si tiene conto di come Socrate sia stato il primo a
sentire l'esigenza di interrogare i miti per cogliere in essi, un messaggio non immediato, potrebbe
qui scorgersi una tesi interessante circa la nascita di Atena dalla testa di Zeus. Non arriviamo a
sentenza, se non attraverso uno sforzo che ci viene dall'aiuto di un prezioso consigliere, che,
volendo, possiamo anche trovare in noi stessi.
Quest'aspetto, così filosoficamente poco rilevante, non può peraltro essere tralasciato dallo storico
della filosofia perché certi rilievi, che hanno a che vedere con questioni di antropologia culturale,
aiutano a delimitare il contesto reale nel quale la filosofia è nata, venendo a definire i suoi compiti e
le sue prerogative. Che il filosofo sia chi conduce gli altri a concepire e a partorire le idee lo pone in
realtà in una posizione di indubbia preminenza nella realtà della vita politica e sociale, quanto più si
consideri che quel parto è autenticamente virginale, dove le altre creazioni artistiche nascono
comunque nel mondo antico dall'imitazione, cioè dall'acquisizione di un mestiere (l'arte) a cui si
accede acquisendo un modello su cui fondare una tradizione. Ingenuità e autenticità appartengono
insomma alla filosofia; astuzia e maestria alle altre arti. E qui il mito del sofferto ma incruento parto
di Teeteto assume nuovi significati oltre quelli che abbiamo intravisto. Per dirla in termini che
sarebbero forse piaciuti ad Aristotele, l'artista è prigioniero delle sue idee, il filosofo si libera (e si
libra) in un mondo dove da concetti nascono idee nuove. E qui varrebbe anche la pena far presente
che, per tanti filosofi oggi è molto arrischiato sostenere cose del genere. D'altro canto l'abbiamo già
detto: i tempi cambiano e cambia anche il modo di porsi di fronte a certe domande.
2. Il tema della memoria
Sicuramente la memoria, la capacità che l'uomo ha di ricordare le cose viste, i suoni uditi, i sapori
gustati, gli odori avvertiti e le percezioni tattili avute è al centro di tutta la prima parte del Teeteto.
Si sarebbe tentati di dire che la memoria di cui Platone si occupa in questo suo dialogo sia
soprattutto la memoria delle forme viste e delle parole udite. In realtà, per poco che ci si addentri
nel dialogo, si scopre che è la memoria del sentito a venire grado a grado in primo piano. Se è vero
che arti visive e poesia, quest'ultima col necessario accompagnamento musicale, sono più di altri
mezzi di comunicazione presenti all'analisi critica dei partecipanti a questo come ad altri dialoghi
platonici, non va dimenticata la memoria delle cose avvertite appunto come sensibili per effetto
degli altri sensi, anche perché a questo tipo di percezione si accompagnano emozioni della cui
esistenza Platone è assolutamente consapevole.
Il punto è che il Teeteto, come molti altri dialoghi platonici, non è chiuso in se stesso ma si relaziona
all'intero corpus dell'opera del filosofo e, per dichiarata intenzione, che appare nel finale, si
appoggia all'Eutifrone, che è il dialogo col quale prosegue l'azione descritta nel Teeteto. Se questo
non obbliga ad apparentare i due dialoghi tra loro, quasi che siano stati scritti e concepiti nello
stesso tempo (cosa che gli studiosi escludono), induce però a vedere nel Teeteto un dialogo che –
senza essere socratico, cioè senza rientrare nel novero di quei dialoghi che, secondo una tradizione
interpretativa che ha avuto in realtà varie codificazioni, sono detti appunto socratici - dà un
importante rilievo al personaggio di Socrate, quale apparve a Platone, al tempo in cui il filosofo fu
sottoposto al processo di cui si ragiona nell'Apologia. Ci troveremmo quindi di fronte a una
testimonianza relativa all'insegnamento dell'ultimo Socrate, quello personalmente conosciuto da
Platone. Il Teeteto è dunque un'opera che è omaggio del discepolo al maestro e come tale la
memoria che del maestro si consegna ha una funzione anche educativa che non possiamo evitare di
prendere in considerazione.
3. Il ricordo nell'azione del Teeteto
Non bisogna perciò lasciarsi fuorviare da quanto nel Teeteto è spunto offerto dall'occasione da cui
nasce il dialogo, occasione ad arte creata dallo scrittore e sulla quale perciò dobbiamo, pur
brevemente, dire qualcosa. L'occasione, importante per chi voglia seguire uno dei fili del discorso, è
che Teeteto, tornato gravemente malato dal campo di battaglia, è in pericolo di vita. Morto lui, chi
potrà più ricordare il dialogo che da giovane questo virtuoso cittadino aveva avuto con Socrate,
che ne aveva saputo cogliere le doti intellettuali e morali? Vero contraltare di Alcibiade, Teeteto
merita d'essere ricordato tra coloro i quali avevano degnamente raccolto l'esempio e l'insegnamento
di Socrate. Da questo punto di vista il dialogo, al quale possono riconoscersi intenti educativi del
tipo che Platone perseguiva all'interno dell'Accademia, fa tesoro di quanto si contiene nel Simposio
ma è poi, rispetto al Simposio, assai più circospetto nella formulazione dei concetti, concedendo
molto di meno alla poesia e all'invenzione letteraria. Anzi va detto che, forse anche a causa dei
tempi mutati, manca nel Teeteto quella levità così tipica del Simposio dove l'ethos più propriamente
ateniese vi ha tanta parte, come tema attrono al quale ricamare in più modi. Nel Teeteto si dibattono
insomma questioni più gravi, con un Platone che è sempre più consapevole del ruolo che gli studi
hanno per la sopravvivenza di una cultura che è tradizione, cioè sapere fondato su una strategia di
ricerca, la cui fondazione può soccorrere al mantenimento di un'integrità che si vede in pericolo.
Anche questa circostanza ci pare importante. Siamo infatti convinti che non ci sia qualcosa come
una filosofia di Platone, se questo significa una concezione organicamente e sistematicamente
definita all'interno della quale ciascun dialogo svolge un dato tema. A tale riguardo ci pare che,
apocrifa o meno che la si voglia considerare, la VII lettera sia così platonica nella sua sostanza che
chiunque l'abbia scritta vi ha infuso alcuni aspetti autenticamente fondamentali del pensiero
platonico6. Ci pare piuttosto che il Platone dei Dialoghi sentisse il bisogno di venire volta per volta
chiarendo a se stesso e ai suoi discepoli alcuni punti importanti di quella singolare attività che
consiste nella ricerca filosofica. Non abbiamo perciò dubbi che nel Teeteto la preoccupazione
principale dell'autore fosse quella di definire la funzione della memoria nelle varie accezioni del
termine, per cui io ricordo, ma in questo ricordare sollecito anche la memoria mia e degli altri, dove
la memoria non è soltanto memoria dei fatti passati ma un sentimento del tempo che può indurci
perfino a presagire e a prevedere. Inoltre la memoria si può anche rendere da privata pubblica, la
volta che sia partecipata e condivisa, secondo i rituali delle celebrazioni religiose, dei processi in
tribunale e della recitazione in teatro, fatto quest'ultimo notoriamente importante per Platone che,
nato scrittore, è guadagnato alla filosofia anche perché scrittore. In tutta la sua opera, del resto, il
ricordo fa parte dell'azione, che è per così dire, il tema sotteso al dramma del Teeteto. Volendolo
mettere in scena, dovremmo far salire sul palco Euclide e Terpsione, farli accomodare in un angolo,
quindi, mentre fuori campo risuonano le voci di Socrate, Teeteto e Teodoro, far entrare in scena le
loro ombre magari come statue di antichi sapienti. Se poi si riuscisse a dare alla rappresentazione un
effetto come di veglia all'ormai moribondo Teeteto, che si prepara a varcare i confini del mondo, si
creerebbe una suggestione sicuramente in tono con una sensibilità che vorremmo dire platonica. Ma,
a rigore non sarebbe necessario ricorrere a questo espediente anche per certi equivoci che esso
potrebbe creare negli spettatori di oggi, come appresso cercheremo di indicare.
§ 4. Il Teeteto nel corpus platonicum
Tutte le cose fin qui dette sono importanti anche ai fini della datazione del dialogo. Il problema,
assai più spinoso di quanto si immagini, è che il ricco corpus platonicum ha una sua dialettica
interna. Vogliamo dire che non solo l'autore rimaneggia del tutto legittimamente anche a distanza di
tempo alcuni dialoghi, ma, nel farlo, tiene ovviamente conto degli esiti, positivi e negativi, che la
recitazione e la rappresentazione di essi ha avuto all'interno della scuola e fuori della scuola.
Platone insomma si confronta con un pubblico che è fatto essenzialmente di studenti, che nel tempo
diventano insegnanti e si confrontano in altra veste e con altra autorità col “maestro”. Di qui la
necessità di chiarire possibili equivoci interpretativi, di tornare su questioni magari in precedenza
accennate o solo sfumate. Volendo fare una considerazione di quelle che sono d'obbligo nel mondo
degli studiosi, potremmo concludere che è questa una delle ragioni per cui non è del tutto
attendibile l'analisi stilometrica a cui il filologo si riconduce nel fissare un ordine cronologico dei
Dialoghi platonici. Se un certo stile è tipico del Platone giovane e un altro lo è del Platone “maturo”,
è anche vero che un'opera giovanile – rimaneggiata successivamente, per di più con l'accortezza
dello scrittore esperto che, pur mutando qualcosa di importante, riesce a non stravolgere il testo
originario – è poi altra cosa, se non tutt'altra cosa, rispetto a quel che era. Fatto di cui dobbiamo
tener conto a proposito del Teeteto che l'indagine stilometrica “ha collocato tra i dialoghi del
periodo di mezzo, anche se dal punto di vista del contenuto filosofico esso è vicino alle posizioni
dei dialoghi più tardi”7 Sono dettagli che non possiamo ignorare dal momento che è accertato che,
almeno per quanto riguarda la parte introduttiva al dialogo vero e proprio, Platone vi tornasse
6
E' quanto infine osserva Francesco Adorno, il quale sostiene, in margine alle polemiche sorte circa l'autenticità della
lettera, che è “molto tarda, e anche se non di Platone, certo felicissima interpretazione del pensiero di lui e della sua
formazione, tanto che può essere accettata come platonica” (Cfr. F. Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Bari
2008, p. 9.
7
A. M. Ioppolo, Introduzione a Platone, Teeteto (trad. di M. Valgimigli), Laterza, Bari 2010, p. VII.
correggendone l'impostazione iniziale.
Da questo punto di vista una senz'altro complicata ma pur sempre possibile distinzione tra dialoghi
maggiori e dialoghi minori, arbitraria per quanto, dovrebbe innanzitutto tener conto del ruolo avuto
da quei dialoghi che, per un motivo o per un altro, svolsero fin dal principio una funzione di
riferimento sia per il maestro che per i discepoli. Senza perciò entrare nella complessa questione,
mai definitivamente risolta, di una esatta cronologia dei Dialoghi, possono individuarsi senza
difficoltà nell'Apologia di Socrate, nella Repubblica, nel Simposio, nel Fedone, nel Fedro
importanti opere nelle quali Platone fa rivelazioni per così dire programmatiche che è poi costretto a
chiarire. Nascono allora alcuni grandi capolavori come il Parmenide e il Sofista coevi, a quanto
pare, di questo grande importante dialogo che noi stiamo esaminando e che è appunto il Teeteto. Un
discorso a parte meritano invece secondo noi le Leggi e il Timeo. Trattandosi delle ultime opere
scritte da Platone, sono poi quelle intorno alle quali si azzufferanno quanti ambiscono a proporsi
quali eredi e continuatori dell'opera di Platone. Sicuramente le Leggi, con l'asprezza e la durezza
che ne caratterizza il messaggio politico, rivelano abbastanza facilmente quanto la vecchiaia induca
all'insofferenza per ogni deroga da norme viste come imprescindibili ed è perciò filosoficamente
poco interessante. Altro discorso va invece fatto circa il pitagorismo del Timeo. Il dialogo fu da
alcuni assunto come un propendere dell'ultimo Platone verso tesi pitagoriche, cosa in realtà tutta da
dimostrare, visto che nel Timeo è un pitagorico che parla e che Platone non aveva alcuna ragione di
farlo parlare altrimenti che da pitagorico. Potrebbe invece secondo noi facilmente argomentarsi di
una mancata visione cosmologica di ispirazione socratica di cui non c'è traccia nell'opera di Platone,
solo perché mancò al filosofo ormai vecchio il tempo di realizzare quest'altro passo. Qui ci poniamo
una domanda: che ruolo ebbe nell'Atene del tempo il pitagorismo e quale peso ebbe una magari
diffusa religiosità incline a motivi orfici della classe politica cittadina ai fini della esclusione di
Aristotele dall'Accademia? La domanda, che non trova una risposta certa, è tuttavia funzionale
all'impressione che confessiamo d'esserci fatta, per cui Aristotele sarebbe il vero continuatore di
Platone, quello che avrebbe infine messo fuori qualcosa che somigliasse il più possibile a una
cosmologia platonica.
In questo quadro qual è la funzione che svolse il Teeteto? Scritto sicuramente per gli allievi, il
dialogo guarda al futuro della scuola fondata da Platone, nel quale potrebbero agire delle
trepidazioni sull'incerto futuro dell'Accademia. Di qui l'interrogativo che serpeggia nel dialogo:
come trasmettere il senso delle cose dette, senza che il senso venga travisato? Col che appunto
torniamo al ricordo.
§ 5. Rammentare come ricordare a sé e agli altri
Ricordare un dialogo, specie quando abbia il sapore di una conversazione tra affabili amici, e non il
carattere di una disputa è particolarmente difficile. Ha in questo senso ragione Gilbert Ryle a
sostenere che il Teeteto è “relayed or echoed oratio recta”8, dove è senz'altro opportuno il richiamo
al ragionamento filosofico come discorso che è rivolto, come in questo caso a Teeteto e a Teodoro
direttamente, ma non deve neanche trascurarsi la curiosa ed evidentemente voluta atmosfera di una
ricostruzione a posteriori di questo dialogo, riportato secondo un'eco che risuona nei cuori di coloro
che ne organizzano la lettura. E qui Platone giustifica se stesso: non c'è altro modo di ricordare
questo dialogo, se non seguire l'esempio di Euclide, il quale dopo averlo udito, ha preso appunti e,
credibilmente, visitando Socrate in carcere prima che questi morisse, aveva dato ai suoi appunti una
forma il più possibile fedele al dialogo vero e proprio. Di qui l'accorgimento di eliminare il discorso
indiretto e di riportare le battute per come erano state pronunciate dai partecipanti al dialogo.
Il Teeteto insomma certifica la nascita della scrittura come mezzo legittimamente usato per ricordare
cose che altrimenti non ricorderemmo perché non possono essere affidate a una tradizione orale. E'
veramente un'opera di scuola, nella quale si spiega al discepolo che cosa egli debba fare dei suoi
8
G. Ryle, Plato's Progress, Cambridge University Press, Cambridge, 1966, p. 29.
appunti: tornare dal maestro, sottoporli alla sua attenzione e chiedergli quanto effettivamente
rispondano a quel che il maestro vuol dire. Si consideri a questo riguardo la novità del Teeteto
rispetto ad altri dialoghi platonici, come per esempio il Parmenide e il Sofista che la critica
considera coevi al Teeteto e che mantengono ancora oggi intatto tutto il loro fascino. Per quanto
paradossale possa apparire, è pero facile intendere da parte di chi li abbia letti con passione, che
tanto il Parmenide quanto il Sofista possono recitarsi tutto sommato “facilmente” a memoria,
almeno da parte di chi ne abbia inteso il rigore logico, né più né meno di come si memorizza un
teorema di geometria dopo che lo sia sia capito. I passaggi, per quanto aspri, sono obbligati. Non è
così nel Teeteto, dove l'affabilità cortese, l'ironia, la dolcezza della conversazione sono strettamente
legati a un'atmosfera che solo lo scrittore può riuscire a creare.
La cultura, che all'epoca di Platone è tradizione orale, ha ormai assunto dimensioni incompatibili
col contenitore che è tradizionalmente servito di veicolo al suo stabilirsi. La poesia e, assieme alla
poesia le arti che le fanno da supporto (la musica, il canto, la danza e perfino i dipinti da cui il poeta
trae spunto), non bastano al delicato ufficio di ricordare quel che di questo dialogo è memorabile. Il
verso cantato, l'enfasi, la coralità, la solennità qui non servono, si tratta di raccontare la storia di un
incontro tra amici che hanno però qualcosa di eccezionale da dirsi, per il modo in cui tra loro
parlano di cose alte, come se fossero cose della vita quotidiana. A questo proposito sarebbe anche
interessante una comparazione dal punto di vista del linguaggio tra questo e altri dialoghi di Platone
e le Nuvole di Aristofane.
Una cosa è certa, tanto è memorabile il dialogo che nel il 369 a. C. c'era stato tra tre anime elette,
quella di Socrate e quella di Teeteto, e quella di Teodoro, che ancora oggi lo leggiamo e ne parliamo.
E' d'altro canto ragionevole ritenere che, per quanto ottimista potesse essere Platone circa la fortuna
della sua opera, egli scrivesse per i suoi contemporanei e, nello spirito dell'insegnamento socratico,
per quei giovani ai quali doveva consegnarsi il lascito prezioso di quell'insegnamento.
Il compito quindi di Euclide e Terpsione è quello di riascoltare un dialogo avvenuto anni addietro,
cercando di capirne il senso, per come ad essi sarà possibile.
E' chiaro che Euclide e Terpsione – quest'ultimo soprattutto – hanno una funzione di intermediari
rispetto al lettore, il primo come autore del dialogo, l'altro come primo ad aver fatto l'esperienza di
ascoltare la voce di Socrate per interposta persona. L'esperimento si propone quindi all'infinito, per
quanto numerosi potranno essere da allora in avanti gli ascoltatori, i lettori, o gli spettatori di questo
dialogo.
Ribadiamo quindi quanto già detto. Se, come è lecito supporre, il Teeteto nacque tra le mura
dell'Accademia, l'opera fu suggerita dall'urgenza di istruire degli allievi; di porli nella condizione di
apprendere. Ora è chiaro che l'apprendimento avesse luogo anche e soprattutto con la messa in
scena dei dialoghi. Vedo, ascolto e memorizzo. Qui però ci può essere anche la scelta di consegnare
all'allievo un testo per la lettura. Del resto, che si partecipi o meno alla recita, il copione, messo a
disposizione di chi assiste o (a maggior ragione) di chi debba apprendere una parte ha un'utilità
didattica a cui guarda con attenzione il promotore di una tale operazione. Un tale intendimento ci
pare trasparente in quello che Platone dichiara nel prologo, facendo dire a Euclide: “ho trascritto la
conversazione in questo modo, non facendola raccontare da Socrate, appunto come egli me la
raccontò, ma mettendo Socrate a conversare direttamente con quelli con i quali mi disse di aver
conversato, cioè Teodoro, il matematico, e Teeteto. Non volevo che nello scritto creassero
imbarazzo quelle proposizioni inframmezzate al dialogo, con cui Socrate distingueva le parti della
conversazione pronunciate da lui – come “e io affermai”, “e io dissi” – da quelle dei suoi
interlocutori – “ne convenne”, oppure “non fu d'accordo”; per questo nella mia trascrizione, Socrate
conversa direttamente con i suoi amici...”
E' chiaro quindi che l'autore di un dialogo così concepito pensa a chi debba leggerlo, figurandosi
delle persone che, ragionando tra loro, parlano come veramente si parla. Di questa scelta bisogna
tenere il dovuto conto, considerando che ci si trova di fronte a un'opera nata per essere letta e
recitata. Non ci pare neanche casuale che una tale funzione sia assolta non da Euclide e Terpsione,
che sono due uomini liberi, abituati a conversare tra loro, ma da uno schiavo ideale lettore in
quanto costretto dal suo ruolo sociale alla passività. Mentre cioè Euclide e Terpsione potranno
ricamare su quanto ascoltano, lo schiavo (come l'allievo a casa propria) deve attenersi a quello che
legge per come quello che legge sta scritto, evitando di interpretare.
§ 6. Una questione di metodo?
Quello che va fatto rivivere insomma non è l'abilità, la bravura dell'oratore, come nel caso del
Parmenide o la scarsa agilità mentale dell’interlocutore di Socrate come nell' Eutifrone, ma lo
spirito del dialogo, il senso di quell'affinità di carattere e di intendimenti che aveva unito Teeteto a
Socrate. E' questo spirito che dà spazio all'anima di Socrate, a quella di Teeteto e a quella di
Teodoro, che si qualificano, agli occhi del lettore del dialogo, come anime elette.
Insistiamo a usare questa locuzione per indicare la tensione che domina il dialogo e che consiste
nella ricerca di idee nuove suggerite dalla volontà di risolvere il problema volta per volta proposto.
Questo percorso in salita, nel quale sono coinvolti Socrate, Teeteto e Teodoro, non può ignorarsi. Si
tratta infatti di un percorso di vera e propria elevazione, di distacco dalla volgare apparenza, che è
possibile grazie all'arte maieutica praticata da Socrate. Questa tecnica, per cui sia Teeteto che
Teodoro “partoriscono” idee, è, teniamo a dirlo, aspetto fondamentale non dell'insegnamento ma del
metodo socratico.
Tale metodo peraltro, come la tecnica di cui Socrate è maestro, rende evidente il fatto che persone
autenticamente interessate alla filosofia, possono col ragionamento salire a un grado più alto di
consapevolezza. L'esperienza che Socrate è in condizione di far fare sia a Teeteto che a Teodoro è
nuova per l'uno e per l'altro, ma è da ritenere che in futuro, essi cercheranno di ricordare come
Socrate fosse riuscito a porli nella condizione di concepire un'idea nuova in modo da avventurarsi a
esplorare un terreno non ancora noto.
Va osservato come sarà proprio questo metodo ad essere preso in considerazione da Aristotele, il
quale rivendicherà come preziosa la nozione di concetto riferendone la paternità a Socrate, senza
però insistere circa l'assistenza prestata dalla levatrice a chi si ponga a riflettere procedendo
dall'ignoto verso il noto.
Tutto questo è importante. Lo è sul piano di una filologia che miri a ricostruire gli strumenti stessi
dell'indagine filosofica, vale a dire il modo, le strategie con cui certe nozioni sono state introdotte.
Se le nozioni sono rimaste, le strategie, cioè gli espedienti retorici sono nel tempo spariti. Oggi
ragioniamo tranquillamente di idee e di concetti, senza pretendere che idee e concetti siano le prime
partorite e gli altri concepiti. Allo storico della filosofia spetta però il compito di spiegare come e
perché le strategie fossero necessarie al momento in cui queste nozioni vennero proposte. D'intuito
tutti arriviamo a capire che la metafora del maestro che aiuta l'allievo a partorire verrà nel tempo
bruciata come poco utile, mentre cure a mai finire verranno dedicate alla “creatura” nata
dall'operazione di Socrate che è appunto il “concetto”, l'idea non ancora nata: l'idea, per dirla
aristotelicamente, in potenza, che nasce dall'intelletto possibile, dove l'intelletto possibile, per un
pasticcio di vocabolario che è per noi assai complesso, Aristotele chiama anche intelletto passivo,
pasticcio sul quale torneremo rapidamente a ragionare nella conclusione a questa introduzione al
Teeteto platonico.
§ 7. L'anima filosofa
Volendo, come è doveroso, dar conto e ragione della necessità da parte di Socrate di parlare di
quella particolare forma di maieutica da lui praticata, dandone esempi ripetuti, prima su Teeteto
quindi su Teodoro, dobbiamo partire dall'idea che non solo Socrate non possiede la nozione di
concetto, ma che in lui anche quella di idea è incerta, nel senso che non c'è una consolidata
tradizione che abiliti il filosofo ad usare disinvoltamente l'una e l'altra delle due nozioni, senza che
il fatto susciti nell'interlocutore un qualche ragionevole sospetto. Egli deve, per così dire, introdurre
tali nozioni. Va a questo proposito detto che, sebbene sia dubbio il ruolo di Platone come
impassibile e neutrale testimone di una verità storica circa i modi dell'insegnamento socratico,
questo gioco di Socrate che spiega in che cosa consista l'idea è bene o male ricorrente nei dialoghi
platonici e ci dà l'immagine di un Platone che aderisce consapevolmente alla richiesta di un
pubblico che vuole docilmente seguirlo in una già altre volte riuscita ricostruzione della via che
porta Socrate a proporre la sua teoria delle idee. E' chiaro allora che uno degli intenti possibli del
Teeteto fosse quello di discutere, fondandola, la nozione di idea, per renderla definitivamente
accettabile. In altri termini, Platone – che è chi materialmente pensa e scrive il dialogo che leggiamo
– confida sul fatto che ormai il pensiero di Socrate e quello di Cratilo 9 siano ormai abbastanza noti.
Egli scrive per gli Ateniesi che su questa cosa hanno avuto l'agio di riflettere e scrive per i discepoli
dell'Accademia tra i quali ci sono figli di cospicue famiglie della città. Valuta perciò che, pur con
tutte le riserve nei confronti della cosiddetta “teoria delle idee”, si possa comunque capire senza
difficoltà di che cosa si ragioni quando si parla di “idea”. Tutt'altra cosa è invece per quanto
riguarda quello che noi abbiamo disinvoltamente chiamato “concetto” e che è l'idea quale è
concepita, ma non ancora espressa e comunicata (anche perché non comunicabile) agli altri.
Particolarmente significativo ci appare a questo punto il ruolo di Teodoro, il maestro di Teeteto, il
quale ammette le ragioni di Socrate, proprio per quanto riguarda l'efficacia del metodo socratico,
vale a dire della concezione pedagogica che Platone farà sua, desumendola dal suo maestro Socrate.
C'è un modo interrogare gli altri (e virtualmente sé stessi) per creare idee nuove.
L'ammissione di Teodoro è un fatto da non sottovalutare. Teodoro, il quale apprezza quella sorta di
vera e propria Apologia di Protagora che Socrate conduce all'interno del dialogo, conosce le
tecniche argomentative e, quando è a sua volta sottoposto a interrogazione da parte di Socrate come
prima era accaduto al suo allievo Teeteto, ammette d'aver concepito un'idea nuova, deve di fatto
rinunciare alla tesi protagorea dell'uomo misura di tutte le cose. Infatti la teoria di Protagora è
congeniale a un mondo nel quale non si elaborano idee e dove da un'idea non non si passa a una
nuova idea, l'idea essendo semmai l'immagine dell'oggetto percepito, che dell'oggetto percepito è
“emanazione”.
Stabilite queste cose, ci restano da affrontare alcuni punti legati alla vicenda culturale che fa da
sfondo al Teeteto platonico e alla fortuna che nelle età successive ebbe questa importante opera di
Platone, nella quale si danno convegno, come abbiamo detto delle anime elette. Ciò ci costringe a
prendere in esame la nozione di anima e la sua centralità, sia all'epoca in cui scrive Platone che in
quelle successive. Scopriremo come la visione sensista, di cui è campione Protagora nell'età di
Socrate, costituisce una sorta di continuum che nei vari secoli ha fatto da contraltare, ma anche da
sponda, a quello che, con termine secondo noi alquanto equivoco, è stato detto idealismo platonico.
Sarà perciò importante prendere in esame quella sorta di apologia di Protagora di cui abbiamo
appena detto e che costituisce quasi il perno attorno al quale ruota la discussione tra Socrate e
Teodoro, testimone il giovane Teeteto.
Prima però avvertiamo la necessità di una precisazione di natura vagamente più letteraria che non
filosofica, utile a capire la peculiarità di questo dialogo platonico.
C'è, nel passaggio che il traduttore compie dalla lingua greca a quella italiana, qualcosa di questo
dialogo (come di altri dialoghi platonici) che più o meno fatalmente si perde. Il fatto è che l'italiano
è una lingua letteraria che, per di più, per inveterata tradizione, non rinuncia alla sua letterarietà
quando si tratta di avvicinarsi a un classico. Ora quando si accentuano certi toni letterari, scegliendo
i termini più appropriati, talvolta preziosi, si deforma facilmente il senso di un'opera come il Teeteto.
E' infatti come se il dialogo non avvenisse più tra anime elette, come abbiamo detto, ma parlassero
piuttosto dei gentiluomini, che più o meno graziosamente fanno quasi a gara a rispettare l'uno i
tempi di ingresso nel dialogo facendo moine e complimenti e l'altro mostrandosi affabilmente
consenziente ai suoi desideri. Questa è la sensazione di tanti studenti alla lettura del testo e più
ancora in un esercizio di traduzione dal quale risulta che Teeteto è piuttosto un “bravo ragazzo” che
risponde sempre di sì e qualche altra volta “come no?” o “Hai perfettamente ragione, o Socrate”,
9
E' a Cratilo, maestro di Socrate, che si deve la prima formulazione della nozione di “idea”, come qualcosa di stabile e
immutabile a cui fare riferimento nel nominare le cose. Lo facciamo presente anche perché è proprio Platone a
testimoniarlo nel dialogo che è appunto intitolato Cratilo (439b-440e).
cosa che lo rende antipaticissimo a dei giovani che dovrebbero al contrario essere indotti a vedere la
“spontaneità” di questo dialogo. Quanto a Socrate e Teodoro finiscono loro malgrado col
somigliare a compiti signori del Seicento che conoscano i cerimoniali della disputa dotta e invece di
polemizzare rispettandosi l'un l'altro, sembrano sdilinquiti cicisbei. Noi invece insistiamo nella
nostra idea: a ragionare sono anime elette che trovano spontaneamente la via per accordarsi non per
affettata cortesia ma per un'urgenza che nasce dalla generosità di un loro impegno. C'era all' epoca
di Platone e c'era fino a qualche decennio fa una rettitudine naturale dell'uomo di scienza, che non
ha vergogna nel mettere a nudo quel che pensa, perché quel che sa e vuole sapere di numeri, di
calcoli, di rapporti, di somiglianze e dissimiglianze è il suo trasparente pensare, giocoso nell'età di
Teeteto, grave in quella di Teodoro e di Socrate che conoscono entrambi la via per salire in alto
intendendosi l'un l'altro. Anche per questo il dialogo avviene tra matematici e in una scuola di
matematici. Che tutto questo celi il sogno platonico dei filosofi consiglieri dei potenti, che
costituirebbero la classe dirigente, è vero, ma quei filosofi non vanno confusi con i diversamente
variopinti colleghi di Galilei, che gelosia e invidia del valore altrui, rende meschini quanto più siano
legati a quella toga, ridotta simbolo di potere, per la quale Giordano Bruno li disprezza.
§ 8. La dottrina di Protagora e il punto di vista platonico
E' nota a tutti gli studenti la frase con cui si sintetizza la posizione di Protagora di Abdera, “l'uomo è
misura di tutte le cose di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non
sono”. Siamo in altri termini noi a stabilire, in base a una sensazione più o meno forte, più o meno
chiara, più o meno distinta, in che termini qualcosa è o non è. Ciò, arguisce Teodoro che espone il
pensiero di Protagora, nasce dalla sensazione. Alcune cose sono evidenti, come il fatto che il cielo è
azzurro, o che gli asini non volano; altre possono essere oggetto di disputa, ad alcuni parendo in un
modo ad altri in un altro.
Non è questo soggettivismo estremo ad essere messo sotto accusa da Platone. Quel che Socrate
mostra di non condividere della teoria di Protagora è il fatto che la sola sensazione, cioè l'apparato
sensoriale, non basta a creare memoria delle cose percepite. Il discorso è più serio di quanto possa
sembrare ed avrà il pieno consenso da parte di Aristotele. Posso vedere una cosa o udire un suono,
ma un conto è vedere la cosa o udire un suono, altro conto aver visto o aver udito qualcosa.
Questa consapevolezza, che è un mantenere nel ricordo e che nella storia della filosofia occidentale
si incontra con il concetto di coscienza, che attraversa gli ultimi cinque secoli della riflessione
filosofica, non ha a che fare con la sensazione. Il ricordo non è effetto della semplice sensazione,
infatti la sensazione non è altro, ogni volta, che una sensazione attuale, che inizia e termina nel
tempo in cui avviene. Il vedere di adesso non implica che ricorderò domani quel che adesso vedo,
infatti vedere è vedere, non è aver visto. Aver visto è avere memoria del veduto e come questa
memoria si costruisce? Per Platone non sono i sensi a produrre l'immagine (lievemente sfocata) di
un qualcosa che abbiamo visto. Proprio questo legittima l'opinione che sia l'anima e non il corpo a
ricordare. Né questo basta.
Alla richiesta di Socrate “di quale organo si vale la facoltà che ti chiarisce ciò che è comune […] a
tutte le cose in generale? Quale è l'organo per mezzo del quale puoi dire 'è' e 'non è' ….” Teeteto
risponde convinto che all'anima non serve un organo particolare, perché “l'anima da sé sola esamina
quel che di comune hanno gli oggetti tra di loro”.
Questo punto del dialogo è cruciale nel vero senso della parola. Da un lato è infatti il nodo nel quale
converge la ricerca, dall'altro diventerà nel tempo il tema critico e criticabile di tutto il dialogo. E'
nodo del discorso all'interno della cultura antica, punto debole del discorso all'interno della cultura
cristiana quando l'anima sarà altra cosa rispetto a quello che era invece per gli antichi. Ed è questo
l'aspetto che dovremo discutere nel prossimo capitolo.
Approfondimento III
Platone, l'anima e l'animico
§ 1.L'anima nel Teeteto
Leggiamo nel Teeteto una delle più belle (e realistiche) rappresentazioni del tipo umano del filosofo,
una rappresentazione che, a rigore, potrebbe dirsi comica proprio perché riguarda un tipo e che fra
l'altro è calco a certe rappresentazioni volgari che del filosofo si danno anche al di fuori dei circoli
più o meno “iniziatici” nei quali si ragiona di queste cose da parte di chi le vive.
La sua goffaggine è spaventosa e gli fa fare la figura dello sciocco: infatti, quando si scende agli insulti, egli non sa
lanciare contro nessuno l'insulto che lo colpisca personalmente, perché non sa niente di male di nessuno, non essendosi
mai curato di informarsene; e allora tace, non sa che dire e fa ridere la gente; quando poi si fanno gli elogi dì qualcuno o
qualcuno si vanta, o egli ride, non maliziosamente ma di cuore e senza pensare a dissimulare il suo riso, allora lo
prendono per un insensato. Il fatto è che quando sente fare le lodi di un potente o di un re, egli crede di sentir
magnificare la virtù di un pastore, che sia pastore di porci, di capre o di vacche, per il molto latte che ne può mungere;
solo pensa che il re pascola e munge bestie più riottose e infide [...] E quando sente raccontare di uno che possiede
nientemeno che diecimila ettari di terra, o anche più, pensa che si tratti du un podere assai piccolo, lui che è avvezzo ad
abbracciare con lo sguardo la terra intera. E se celebrano la nobiltà della stirpe e ammirano uno che può far mostra di
sette avi tutti ricchi, egli pensa che la lode sia fatta da uomini ottusi e di vista corta, che, per ignoranza, non sono in
grado di tener fermo lo sguardo sull'insieme del genere umano né di fare questo calcolo, che ciascuno ha migliaia e
migliaia di avi e di proavi, fra i quali si sono avvicendati spesso, per qualsiasi uomo, innumerevoli ricchi e poveri, re e
schiavi, barbari e Greci; se uno vanta un albero genealogico di venticinque generazioni e fa risalire il suo lignaggio fino
ad Ercole, figlio di Anfitrione, a lui questo pare un discorso straordinariamente meschino, perché il venticinquesimo
antenato di Anfitrione fu tale quale la sua sorte volle che fosse; e allo stesso modo il venticinquesimo antenato di costui;
e gli viene da ridere, vedendo come gli uomini siano incapaci di fare questo calcolo e deporre, dalla loro stolta anima,
l'orgoglio che li fa tronfi.
La divagazione è importantissima. Serve ad asserire che, con tutta evidenza, il filosofo, al quale si
riconosce una psicologia che anticipa quelle di un Amleto, di un Don Chisciotte o di un principe
Miskin, è avvertito dalla sua stessa esperienza del fatto d'avere un'anima. Nessuno può sentirla più
di lui.
Questo punto è importante perché, mentre nella nostra cultura, la maschera del filosofo si tinge di
colori adatti alla tragedia, Platone si guarda dal fare del filosofo un eroe, bastandogli di farne un
uomo autenticamente virtuoso.
Perciò, comica per quanto si voglia intendere la tirata sul filosofo – comica nel senso proprio e
originario del termine che indica la rappresentazione dell'umano piuttosto che del divino o
dell'eroico (che è materia di tragedia) – va chiarito che si tratta di un piccolo mito, che è fra l'altro
un capolavoro del Platone scrittore, col quale si giustifica (o si certifica) con studiata levità il fatto
che l'anima esista.
Non deve stupire tanta levità su un tema che nella nostra cultura è invece legato indissolubilmente a
visioni ispirate al soprannaturale, perché è appunto questo quel che differenzia la cultura antica
dalla moderna. Se per noi l'anima è immateriale, l'anima, per quanto possiamo supporre in base ai
dati che possediamo, è per Platone più esattamente incorporea, cioè fatta di una sostanza diversa dal
corpo e dal corpo separata o, per essere più precisi, separabile. Ciò non significa che l'anima ci
appartenga miracolosamente. Ognuno di noi la possiede anzi naturalmente. Il corpo infatti la
trattiene a sé, facendola soffrire quanto più l'anima sia, come abbiamo detto, eletta.
Non possiamo tacere a questo punto quanto, probabilmente nell'atmosfera di un risorto platonismo,
il teatro umanistico abbia ricamato sulla dialettica tra servitore e padrone (per noi sicuramente
dialettica dell'anima col corpo), dove tutto fa pensare che il corpo sia il padrone che tiranneggia
l'anima che si farà deliziosamente inquieta nel Don Giovanni di Molière, vero punto d'arrivo di
questo tipo di teatro in cui la commedia va oltre se stessa.
Questo punto della sofferenza dell'anima ha in Platone una sua delicata dolcezza, perché si tratta pur
sempre di un dolce soffrire, del tipo che, secondo l'aneddotica illuministica, avrebbe provato quel
tale monsignore che, in punto di morte, sollecitato niente meno che dal re a rassegnarsi a lasciare
“questa valle di lacrime”, avrebbe risposto che lui in questa valle di lacrime ci piangeva bene e che
insomma questo era il suo problema, dovendosi da questo mondo dipartire.
Se quindi c'è un velo di mestizia e di piacere nella sofferenza dell'anima prigioniera del corpo, più
complessa è la questione dell'immortalità dell'anima in Platone. Il fatto che essa torni da dove è
venuta non significa necessariamente che essa sopravviva, come anima di Socrate o di Teeteto.
Tornare al mondo iperuranio (una sorta di mondo parallelo più che non soprannaturale) può
configurarsi come la morte dell'anima che perde la sua individualità. Sappiamo che c'è tutta una
letteratura critica che va in senso contrario al dubbio da noi esposto 10. Ciò comporta quindi un
chiarimento.
Per quanto le finalità didattiche siano centrali alla nostra esposizione, pur tuttavia anche questa
nostra ricerca, contenuta nei limiti modesti di un avviamento alla pratica della filosofia, è e deve
essere a suo modo filosofica. Perciò, senza entrare nei dettagli di una disputa, che potrebbe
disorientare lo studente sempre alla ricerca di dati “certi” o per lo meno attendibili, ci permettiamo
su questo punto di invocare due voci per noi autorevoli. La prima è il già ricordato Hans Georg
Gadamer il quale sostiene a proposito del Fedone una certa interpretazione di questo dialogo “ha
favorito l'idea che qui si abbia a che fare con una sorta di pendant del superamento cristiano della
morte e che gli argomenti addotti da Socrate a dimostrazione dell'immortalità, possano venire
considerati come la prefigurazione pagana del superamento cristiano della morte” 11. Proseguendo
Gadamer osserva anche che “le prove dell'immortalità dell'anima, che si susseguono in questo
dialogo, hanno tutte qualcosa di profondamente insoddisfacente”12. Lasciamo da parte quel che può
del tutto legittimamente congetturarsi circa i reali intendimenti di Platone che nel Fedone deve
infine giustificare il suicidio di Socrate, resta il fatto che dopo il processo contro di lui, gli amici di
Socrate lasciarono Atene e che i due pitagorici Cebete e Simmia i quali – secondo il racconto del
Fedone - vanno a trovarlo in carcere vi vanno, come tutto lascia intendere, per indurlo a non bere la
10
Veramente c'è da dire su questo punto che in diversi studiosi del Novecento si nota un certo ridimensionamento
dell'importanza in precedenza riconosciuta a questo tema. Poco vi si soffermano Leon Robin (Storia del pensiero
greco, tr. it, Mondadori, Milano 1982) e meno ancora François Chatelet (Storia della filosofia, vol I, La filosofia
pagana, tr. it. Rizzoli, Milano 1976), che danno entrambi la sensazione di sorvolare sulla questione dell'immortalità
dell'anima. Non così L. Gerymonat per il quale “il pitagorismo condurrà, in breve, il nostro filosofo ad una mentalità
religiosa, che è proprio agli antipodi di quella di Socrate” (L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico,
vol I L'antichità e il Medioevo, Garzanti, Milano 1970, p. 199). Emanuele Severino è esplicito sostenendo che “per
Platone, non solo l'anima è immortale, ma preesiste anche alla sua unione col corpo” (E. Severino, La filosofia
antica. I grandi temi del pensiero greco dai presocratici a Plotino, Rizzoli, Milano 1990, p. 100)
11
H. G. Gadamer, Studi platonici, trad. it. Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 73.
12
Ivi, pp. 73 – 74.
cicuta e chiedere la grazia ai suoi carnefici, cosa che, con molta dignità, Socrate si rifiuta di fare. I
discorsi sull'immortalità dell'anima andrebbero in questo senso interpretati come risposta, per così
dire catechistica, che, risparmiando a Socrate l'accusa d'empietà, ne fanno però un ironico cantore
del pitagorismo e soprattutto di certe sue rimasticature. Conclusione quest'ultima a cui si arriva
senza troppe difficoltà per poco che si osservi come per certi aspetti Socrate si mostri più informato
degli stessi suoi interlocutori di quel che il Pitagorismo fosse stato, almeno sul piano di una ricerca
filosofica.
La seconda voce autorevole che chiamiamo in causa è Giacomo Leopardi che così fa dire a Porfirio
circa quel che Porfirio stesso avrebbe avuto da dire a Platone:
Si noti che Porfirio si trova più o meno nella posizione psicologica di Socrate nel senso che sta lui
pure meditando di darsi la morte, a ciò sollecitato dalla filosofia che pone lui, come già Socrate, di
fronte al grande interrogativo circa il senso del vivere umano.
Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine, e le sue fantasie. Altra cosa è lodare,
commentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell'uso pratico. Alla scuola e nei libri,
siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poiché tale è l'usanza oggi: nella vita, non che gli approvi,
io piuttosto gli abbomino. So ch'egli si dice che Platone spargesse negli scritti suoi quelle dottrine della vita avvenire,
acciocché gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato loro dopo la morte; per quella incertezza, e per timore
di pene e di calamità futura, si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia e dalle altre male opere. Che se io stimassi che
Platone fosse stato autore di questi dubbi, e di queste credenze; e che elle fossero sue invenzioni; io direi: tu vedi,
Platone, quanto o la natura o il fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell'universo, è stata ed è
perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale molte, anzi innumerabili ragioni potranno contendere quella
maggioranza che noi, per altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà che le tolga
quel principato che l'antichissimo Omero le attribuiva; dico il principato della infelicità13.
Appunto Porfirio, che qui presta voce a Leopardi, esprime forti riserve circa la possibilità di
attribuire a Platone l'opinione che l'anima sia immortale e in conclusione affermerà: “queste cose io
direi, se credessi che Platone fosse stato autore o inventore di quelle dottrine; che io so benissimo
che non fu“14.
§ 2. l'animico dell'anima
Sul piano del mito che riguarda l'anima e il suo mondo, il mondo animico, le cose che abbiamo
detto sono filosoficamente importanti. Riservandoci di trattare più estesamente il tema nei prossimi
paragrafi, ci limitiamo a indicare come la teoria dell'anima non interessasse nel mondo antico
aspetti di un ascetismo “primitivo” e che lo stesso ilozoismo che si riflette nei primi filosofi greci va
interpretato in altra chiave, ponendosi in stretta relazione con la concezione che la società antica
ebbe dell'uomo sotto il profilo medico. Da questo punto di vista esiste nella tradizione antica una
fisiologia del corpo umano e un'altra fisiologia dell'anima, dove di corpo e anima sono fatti tutti gli
esseri, i quali tutti sono, fino a prova contraria, viventi, in quanto soggetti a generazione e a
corruzione, cioè nascono e muoiono. Tralasciando almeno per il momento quel che può accadere in
altri viventi, soffermiamoci su quel che accade nell'uomo, stando a quanto possiamo dedurre nel
Teeteto. Finché ha memoria, l'anima è legata al corpo, conosce imperfettamente e soffre per i legami
che al corpo la trattengono e che fra l'altro le impediscono la conoscenza piena di quel che vorrebbe
pure conoscere e che sono (forse) le idee. Quando dal corpo si separa, la funzione della memoria si
perde e il “sapere” dell'anima diventa attuale, sapere in atto, per dirla aristotelicamente, ma proprio
perché in atto, visione nella quale il visto (cioè quella frammentazione dell'essere che sono gli enti)
si dissolve e, come in una bolla di sapone, tutto finalmente perisce: noi, il mondo sensibile, le stesse
idee. Siamo insomma alla visione aristotelica del nous o, per meglio dire, a una visione che con
quella di Aristotele si accorda pienamente.
Su questo punto ci pareva doveroso attirare l'attenzione.
13
G. Leopardi, Operette Morali (a cura di Cesare Galimberti), Guida, Napoli p. 460.
Ibidem, p. 466
14
Stabilito questo, procediamo col far presente che, sebbene il concetto di anima sia legato nel mondo
antico a tradizioni religiose a cominciare dall'orfismo, non è assolutamente detto che il concetto si
fondasse nella cultura greca in un ambito solo religioso. Questo aspetto che è alquanto difficile da
intendere da parte di un moderno, al quale si continua a insegnare che la domanda fondamentale è,
almeno formalmente, quella religiosa, va però posto in luce, altrimenti si rischia di fraintendere non
solo questo dialogo di Platone, ma probabilmente tutta l'opera di questo grande filosofo
dell'antichità. In fondo, attraverso Socrate, Platone non accetta il ruolo di sacerdote della tradizione,
almeno non senza aver prima compiuto lo sforzo di esaminarla e interpretarla. In questo deve usare
tutta la prudenza necessaria per non cadere a sua volta nell'accusa di empietà, da cui lo tengono
comunque lontano l'elevato status sociale e le relazioni di parentela 15 . La dice lunga la stessa
astuzia alla quale ricorre di non discutere i miti ma di introdurne di nuovi nei quali si adombrano
situazioni reali (come quello della caverna, con cui si indica il disprezzo degli uomini per la
filosofia), o si rinnovano miti più antichi (come quello di Er, versione mutata rispetto a quello di
Narciso).
§ 3. L'anima nel mondo antico
Sappiamo tutti che nel mondo antico si dava al sogno una grande importanza e quel che nel sogno
accadeva veniva spesso inteso come segno premonitore. Il sogno insomma non è vano, come verrà
considerato in epoche posteriori, quando Cartesio avrà il suo da fare per sostenere che il mondo nel
quale viviamo non è sogno. Il sogno nel mondo antico è l’aggirarsi dell’anima in un suo mondo,
diverso da quello corporeo “sensibile”. Questo mondo di presenze fantasmatiche si scopre alla
nostra considerazione durante il sonno, quando il corpo riprende le sue forze e l’anima, come se si
liberasse dal legame che la tiene avvinta al corpo, può finalmente vagare nel suo mondo, per poi al
risveglio, tornare a legarsi saldamente al corpo. Platone queste cose le sa e perché le sa, per come le
sa, ne parla proprio nel Teeteto.
Si tratta di una visione tutt'altro che “primitiva”. Sia dalla storia, sia dalla pratica della caccia e da
quella della scultura sappiamo come in tempi più lontani chi fosse in condizione di appropriarsi
dell'immagine di un animale raffigurandola nei dettagli, si sarebbe, nell'opinione comune,
facilmente impossessato della sua anima e lo avrebbe pertanto sconfitto in caso di scontro sul
terreno. Per il resto, basterà ricordare i riti con cui ancora oggi le fattucchiere infliggono su pupazzi
sofferenze che si vorrebbe patire le persone che quei pupazzi rappresenterebbero in effigie. Ciò ci
aiuta a farci un'idea del contesto nel quale e dal quale nasce nel mondo antico la nozione di anima,
la quale è strettamente connessa alla possibilità di un passaggio da un corpo a un altro corpo, alla
trasformazione dell'uomo che perde o acquista valore agli occhi di una comunità che assiste alla
trasfigurazione dell'eroe e lo celebrerà come fu celebrato Ercole che significativamente indossa la
pelle del leone ucciso.
Se una concezione dell'anima legata alla superstiziosa e puntuale celebrazione di riti sacrificali
sembra essere estranea a quella di Platone, quella legata al culto dell'eroe guerriero e cacciatore va
invece presa in attenta considerazione anche per quanto riguarda la relazione anima – immagine,
dove l'immagine non è certo l'anima ma ha molto a che fare con l'anima in quanto soggetto capace
di ricordare, evocare e perfino creare idee (cioè appunto immagini). Tema quest'ultimo centrale
proprio al Teeteto. In fondo quel che nel dialogo si cerca di definire è la conoscenza, della quale
bisogna farsi un'idea. Osserviamo come, ripercorrendo la strada che assieme ad Aristotele abbiamo
in parte già fatto (e che di nuovo faremo seguendone più da vicino i passi), la conclusione
apparentemente aporetica del dialogo è tale fino a un certo punto. Infatti la conoscenza non è né una
figura geometrica né una cosa e nell'impossibilità di rappresentarcela esibendone le caratteristiche
15
Il padre, Aristone, vantava discendenza dal re ateniese Crodo e la madre da Solone, inoltre Crizia, uno dei trenta
tiranni, era zio di Platone. Sono informazioni che possono rinvenirsi in qualsiasi documentata biografia su Platone e
non riteniamo di dover dare indicazioni bibliografiche.
per così dire figurali, ci dobbiamo rassegnare a farcene nient'altro che un'idea, cioè a dare a un
oggetto del genere una collocazione non ben definita. Torna qui il tema della caccia di cui ragiona
Marcel Detienne a proposito di una ricerca condotta da Giulia Piccaluga16. Ci sarebbero, secondo
questa studiosa, delle partite di caccia concluse tragicamente con la morte del cacciatore. L'esempio
più noto è quello di Atteone (Adone), studiato già nel Cinquecento da Giordano Bruno. In sintesi
“per G. Piccaluga, Adone appartiene alla categoria dei cacciatori infelici” 17. Lasciando da parte i
rilievi critici che Detienne rivolge allo studiosa italiana, ci pare interessante l'esistenza di una
categoria come quella qui delineata: il “cacciatore infelice”, che muoia come Adone sbranato dai
suoi stessi cani o che come altri si perda nei boschi o si abbrutisca, è il cacciatore sconfitto dalla
stessa ansia di catturare la preda. Anche Bruno, il quale ha su questo piano delle profonde intuizioni,
parlava del cacciatore che deve identificarsi nella preda, per cui i cani che lo sbranano non
riconoscendolo, stanno a significare che Atteone si è talmente immedesimato nel cervo da catturare
da essersi quasi sostituito a lui, cosa che spiega il fatto che i suoi stessi cani non l'abbiano
riconosciuto. Quando si va a caccia è invece saggio avvicinarsi il più possibile alla preda, per farla
cadere poi nella trappola che le è stata tesa. Si badi come allo stesso modo, secondo la ricostruzione
da noi fatta, proceda Platone che si pone sulle tracce di Socrate.
Va qui detto che, il Teeteto indica, che meglio non si potrebbe, come lo studioso dovrebbe procedere
nell'analizzare il pensiero di qualcun altro. Studiare significa porsi sulle tracce di qualcuno e la volta
che lo si sia raggiunto non farlo scappare intimidendolo e, nel caso in cui non sia nella condizione
di fuggire, intrattenersi con lui fin tanto che il suo discorso non sia stato da noi effettivamente capito.
Si noti come tutto il dialogo consista nel seguire la strategia adatta allo scopo. Si noti come
Terpsione ed Euclide, entrambi buoni cittadini che hanno a cuore i destini di Atene, siano in
apprensione per l'esito della battaglia e addolorati per l'incerto destino di Teeteto che di lì a poco
morirà. Essi si prendono cura di ricostruire una conversazione memorabile di cui si rischia di
perdere il ricordo, con la morte imminente dell'ultimo testimone attendibile. Esattamente come un
abile cacciatore, essi si pongono nella condizione di farsi un'idea del dialogo tra Socrate, Teeteto e
Teodoro che aveva avuto luogo una trentina di anni prima.
Farsi l'immagine di qualcosa è andare oltre la semplice sensazione e richiede facoltà che, a pensarci
attentamente, sono esercitate anche quando la persona sogna. Si pensi alla capacità di porre in
sequenza delle immagini, attività che poi induce a porsi la fatidica domanda relativa al senso che
tali immagini possono avere o non avere. Ma di questo sembra che Platone non voglia interessarsi
più di tanto.
Per noi la concezione “platonica” dell'anima, per quanto presa a prestito dalla tradizione, non
intende radicarsi se non nel mondo della filosofia. Probabilmente anzi essa intende essere correttiva
di concezioni “poetiche” e mitopoietiche”, per via dei troppi veli che il mondo della mitologia ha
posto su una nozione in realtà spendibile nella vita quotidiana per spiegare tante cose. La prima e
fondamentale, addirittura urgente nell'ottica di Platone, è quella del rapporto educativo maestrodiscepolo che la teoria dell'anima spiega meglio di qualsiasi altra filosofica congettura 18. Il Teeteto è
più ancora di altri dialoghi platonici teso a sottolineare quanto la pratica dell'insegnamento avvicini
tra loro anime curiose di conoscere la verità. L'educazione filosofica, come da secoli tutti sono
concordi a intendere circa quanto detto da Platone, si compie nell'ideale incontro di due anime,
come abbiamo detto, elette, che guardano a cose alte e disdegnano le cure degli affari quotidiani.
Per capire questo punto, ci pare utile riandare alla composizione sociale del mondo greco. Vi sono
nel mondo greco dei ceti sociali, che si distinguono in base al censo e al rapporto che il nucleo
familiare di appartenenza ha col territorio. Sicuramente, da un certo momento in poi, il discrimine
più importante di tutti (per Platone importantissimo) è quello che separa lo schiavo dall’uomo libero.
16
M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Laterza Bari 2007, pp. 43-53.
Ivi, p. 45.
18
Ci permettiamo, su questo punto di rinviare al nostro I pregiudizi psicopedagogici del platonismo In “Nuovo Sviluppo”
2001, pp. 49-58. In quell'occasione parlavamo di un principio secondo il quale l'uomo apprende in quanto soggetto
pensante, principio che, alla luce di alcune teorie sorte all'interno della filosofia analitica, si configura quale
pregiudizio.
17
§ 4. la trasmigrazione delle anime e la riduzione in schiavitù del prigioniero
In tutti i tempi la schiavitù è considerata orribile. Lo schiavo è infelice perché deve solo obbedienza
e non può decidere autonomamente neanche circa le cose che lo riguardano, come diremmo noi
oggi personalmente. Dire che in certo modo lo schiavo, diversamente dall’uomo libero, non ha
l’anima non è esagerato. Lo schiavo è infatti ridotto agli stessi termini degli animali domestici sui
quali l’uomo esercita una qualche signoria. Il cacciatore – e la caccia è come abbiamo visto
importantissima nel Teeteto – sa farsi obbedire dal cane che lo accompagna nelle sue spedizioni e sa
prevedere le mosse della preda che catturerà. Lo schiavo, che non è poi altro che un prigioniero di
guerra, è preda a sua volta e chi possiede uno schiavo ne possiede in certo modo l’anima, come il
cacciatore possiede l’anima dell’animale sconfitto. Che questo accada in una lotta sostenuta contro
il toro, o contro altre bestie ritenute pericolose perché feroci o aggressive, o accada perché l’animale,
nato in cattività non è più selvatico, non cambia molto le cose. La sua anima è come trasmigrata in
quella del suo padrone, rispetto al quale l’animale e lo schiavo sono in soggezione. Se questa non è
l'idea che Platone ha della schiavitù, è da tenere comunque presente che queste cose rispondono al
comune sentire di una cultura che, per giustificare l'eccezionalità dell'uomo libero, deve anche dare
un'immagine negativa e desolante di chi libero non sia e abbia rinunciato a qualcosa di importante
che gli fosse in origine appartenuto o ne sia stato privato. Si pensi al mito di Dioniso che viene
rapito, fatto schiavo, venduto per poi ritrovare la sua libertà.
L’anima eletta è quella che ha più delle altre consapevolezza della propria esistenza, anzi della
propria essenza. Di quell’ordinamento sociale che è descritto nella Repubblica il Teeteto è la
conferma. Il filosofo, anima eletta, sa di doversi governare risolutamente mirando alla saggezza.
Quanto poi all’Accademia, spazio nel quale il Teeteto fu pensato e composto, vale la pena ricordare
il motto che sembra campeggiasse sul portale della scuola di Platone, “non entri chi non è
matematico”, e Teeteto che è matematico, non ha difficoltà a compiere sotto la guida di Socrate i
primi passi nel mondo della filosofia, cioè dell’arte dialettica.
§ 5.Platone e la tradizione pitagorica
Si è discusso a lungo del debito che Platone avrebbe avuto nei confronti del pitagorismo e,
attraverso Pitagora, di un tributo da lui pagato al culto d'Apollo. A noi non pare che le cose stiano
esattamente così. Se c'è un pitagorismo in Platone, è sicuramente un pitagorismo eterodosso che
mira a separare la filosofia dalla magia, tracciando un percorso inverso rispetto a quello della
tradizione oracolare. Se c'è poi nel Teeteto un passo fondante la tradizione che riferisce a Socrate
una qualche devozione ad Apollo, occorre che su quel passo ci si interroghi un po' meglio. Che sia
Apollo il dio che costringe Socrate ad esercitare la maieutica è verissimo, ma non perché quel dio lo
abbia ispirato a tanto. Per noi Socrate sarebbe stato condotto alla professione di “maieuta” dal
responso oracolare che ne avrebbe fatto un “sapiente”, cioè il più sapiente di tutti. Si noti come
anche nel Teeteto egli non profetizzi, non cada in alcuna forma di delirio, ma persista
nell'atteggiamento di chi, di fronte al mito si interroga per interpretarlo. Se poi il culto d'Apollo,
correttamente inteso, porti all'esercizio di quest'arte che è tipicamente filosofica, allora possiamo
dire che Socrate è devoto ad Apollo. Escludiamo tuttavia che lo fosse nel senso usuale del termine,
e ci guardiamo dall'attribuire a Socrate una devozione che si configuri come una sorta di pietas. Se
Socrate è “pio”, lo è nei confronti della sua città, che antepone a tutto. Per il resto sembrerebbe che
proprio il Teeteto sia il dialogo in cui meglio si metta a fuoco l'arte socratica di sfatare i miti.
Se le pratiche dell'orfismo e la teoria della migrazione delle anime non sono strettamente necessari
per comprendere il punto di vista platonico, ciò è perché tali elementi sono parte di una cultura
essenzialmente poetica e mito-poietica con cui la filosofia era entrata, proprio all’epoca di Socrate,
in competizione. L' Eutifrone, a cui il Teeteto si collega idealmente, è la più eloquente
dimostrazione di quel che lo stesso Platone non può negare, pur assumendosi il ruolo dell'accorto
mediatore tra le ragioni della filosofia e quelle della poesia: Socrate non si lascia incantare dalle
storie dell'Olimpo, è piuttosto dalla parte dell'analisi dialettica, in ciò concedendo qualcosa ai Sofisti,
ai dissacratori della tradizione religiosa, da cui Platone (o i cosiddetti platonici?) lo vorrebbe
distanziare. Resta il fatto che dell'anima e del suo essere legata al ciclo cosmico della generazione e
corruzione Platone dà rapidi e assai sobri cenni. Questo fatto non può ignorarsi per poco che si
rifletta circa l'opera che sarà svolta dal suo più grande allievo, Aristotele, il quale farà dell'anima
qualcosa di assai simile a una funzione vitale.
Da questo punto di vista la teoria delle idee, in quanto riconducibile a una teoria dell’anima
costituisce senz’altro una soluzione brillante alle difficoltà di intendersi con i poeti i quali temono
che i filosofi intendano ridurne l'autorità e il prestigio.
Intanto va detto che se Teeteto non avesse l'anima, non potrebbe concepire e partorire idee, cosa che
invece riesce a fare con l'aiuto di Socrate e questa conoscenza, cioè la conoscenza circa l'esistenza
dell'anima è alla fine il risultato positivo di questo dialogo che viene tradizionalmente inteso (e non
senza ragione) aporetico. I dialoganti infatti non giungono a definire che cosa sia la conoscenza, ma
riconoscono l'utilità della maieutica, il che significa che adesso sanno che nel cammino che porta
alla conoscenza (precaria per quanto essa sia) l'anima, la quale partorisce idee, gioca un ruolo
fondamentale.
§ 6. Aristotele e il Teeteto
Abbiamo già detto dei punti che nel Teeteto sembrano anticipare alcune importanti tesi aristoteliche.
Ci pare ora di dover riprendere il discorso vedendo più da vicino in che senso la nozione di concetto
e quella di nous si troverebbero anticipate nel dialogo di Platone. Nella Metafisica (I, 6 - 987a)
Aristotele espone brevemente la filosofia di Platone. Accenna all’inizio alle dottrine seguite in
gioventù dal suo maestro, quindi alle analisi condotte successivamente da Platone e ai contributi
originali da lui dati al progresso della filosofia. In sintesi – secondo quanto riferisce Aristotele –
Platone, allievo in gioventù di Cratilo, avrebbe condiviso “le dottrine eraclitee, secondo le quali
tutte quante le cose sensibili scorrono perpetuamente e di esse non c’è scienza”19.
In altri termini, secondo la ricostruzione di Aristotele, il punto di partenza della riflessione platonica
sarebbe la constatazione che le cose sensibili sfuggono alla capacità di comprensione. L’intelletto
umano, infatti, non distingue chiaramente gli oggetti del mondo sensibile e fra tanti fili d’erba che
osserva non ha strumenti per distinguerli bene l’uno dall’altro. Occorre quindi ammettere che la
conoscenza, se la conoscenza c’è, si riferisce ad altri oggetti. Da quanto abbiamo studiato, sappiamo
già che tali oggetti saranno per Platone le idee. E’ però importante vedere come Aristotele ci porta
ad acquisire questo nuovo dato. Da come Aristotele prosegue nel suo racconto, risulta confermata
l’importanza che nella vicenda culturale di Platone ebbe l’incontro con Socrate, del quale Platone –
dice sempre Aristotele – accolse il pensiero. Ma qual era il pensiero di Socrate accolto da Platone?
Da quel pochissimo che Aristotele dichiara, questo pensiero consisterebbe nella possibilità di
individuare l’universale nel mondo dell’etica. Qui Aristotele comincia a parlare col suo linguaggio.
Quella di “universale” è infatti una nozione tipicamente aristotelica, che qui si riferisce alla
possibilità di convertire alcuni aggettivi in sostantivi generici, quali il buono, il virtuoso, il santo
ecc., ritenendosi, da parte di chi come Socrate ne discuta, che sia possibile definirli, non denotarli
semplicemente. La precisazione di Aristotele è su questo punto veramente preziosa. Per lui, che è
essenzialmente un naturalista, il filo d’erba è importante, nel senso che anche del filo d’erba devo
farmi una ragione, come di tutti gli oggetti che appartengono al mondo sensibile. Ma ahimé, nulla
ancora mi autorizza a prendere in esame il filo d’erba come oggetto conoscibile, almeno fin tanto
che sarà il filo d’erba che mi sta davanti, che vedo e che colgo dal prato. Questo filo d’erba è infatti
19
Aristotele, Metafisica (I, 6 - 387a). Per la traduzione in italiano ci siamo attenuti al testo di Antonio Russo (Cfr.
Aristotele, Opere, a cura di Gasbriele Giannantoni, Laterza Bari vol. VI, Metafisica, p. 26)
un individuale, come tale, oggetto su cui posso pormi delle domande ma sul quale non posso fare un
discorso definitorio e anzi, volendo essere rigorosi, non sono ancora in condizione di dire che sia
veramente un filo d’erba. Si comprende a questo punto quanto importante fosse agli occhi di
Aristotele, il passo compiuto da Socrate, il quale fa ciò che tutti gli uomini naturalmente fanno
quando tra loro ragionano di cose che sono di loro comune interesse e di cui è ragionevole supporre
abbiano tutti una cognizione. Tali cose sono appunto il buono, il virtuoso ecc.
Si noti perciò come, nel rifare la storia della “formazione” di Platone, Aristotele sintetizzi i vari
passi del Teeteto, quasi che questo sia a suoi occhi il dialogo più di altri platonico, spianandosi al
tempo stesso la via alla soluzione del problema proposto. Infatti, proseguendo il suo discorso, tiene
a precisare che, mentre gli oggetti sensibili designati da nomi comuni non sono platonicamente (e
socraticamente) definibili, lo sono i concetti dell’etica. In altri termini, concede (momentaneamente)
che parlare del filo d’erba e cercare di darne una definizione precisa è del tutto inutile perché la
conversazione non si esaurirebbe mai. Discutere invece di ciò che è giusto può rivelarsi utile. La
presunzione è appunto che, mentre del filo d’erba, cioè di questo particolare filo d’erba non ho
conoscenza (e ancora non so – platonicamente – se posso avere un’idea del filo d’erba in generale),
ho invece sicuramente un’idea circa il “giusto”. Come altrimenti spiegare che tra gli uomini corrano
dei discorsi su questo oggetto, che non è un oggetto sensibile? Questo punto è molto importante per
capire quale sia il ruolo che Aristotele riferisce a Socrate, sia nella formazione di Platone, sia nel
percorso seguito dalla filosofia greca dopo Eraclito.Socrate avrebbe avuto il merito di individuare
l’esistenza di oggetti per loro natura diversi da quelli sensibili e che intervengono nell’atto della
predicazione, quelle che Socrate chiama “idee” e che Aristotele preferirà chiamare concetti e che,
riferiti alle cose sensibili che sono particolari, chiamerà universali.
Intanto ci pare che, con l'autorità di Aristotele, si sia chiarito in che senso il discorso di Teodoro che
fa, come abbiamo detto l'Apologia di Protagora, venga nel Teeteto abbandonato al suo incerto
destino. Esistono infatti cose, come suggerisce Socrate, delle quali parliamo non altrimenti che di
cose che non sono individuali. Tali idee sono i concetti morali.
§ 7. Dalle idee ai concetti
In realtà la proposta di un oggetto posto fuori del mondo sensibile (l’idea socratica prima che sia
partorita, ovvero il concetto aristotelico) è, a pensarci, una proposta alquanto coraggiosa.
L’esistenza del concetto è infatti dedotta, arguita da Aristotele che, appellandosi all’autorità di
Socrate, dà un nome a “qualcosa” di cui pure si ragiona nel Teeteto platonico.
Il concetto è infatti, come accennavamo, qualcosa che precede l’idea, quella che Teeteto si avvia a
“partorire”, ma non ha ancora partorito e che, appunto non è ancora idea. E tuttavia il concetto, per
quanto non possa esibirlo sotto l’aspetto di idea, c’è, so che c’è, anche se non è cosa sensibile. Ecco
perché Aristotele insiste su questa nozione. Vuole liberarsi delle fisicità dell’idea, che per Platone è
(al pari delle cose sensibili che in essa si contengono) per muovere verso una dimensione
dell’impalpabile, dell’invisibile, dell’immateriale. Il concetto , a cui si arriva per astrazione20, gli
serve d’altro canto anche per poter dare legittimità al discorso che sul filo d’erba possono fare gli
uomini. Posto quindi il concetto morale, potrà senza difficoltà ammettersi l’universale, inteso quale
concetto che astrae dall’esperienza e che consiste in un’idea che mi vado facendo. Insomma è
Aristotele, non Platone, il primo a ragionare abbastanza esplicitamente di oggetti mentali. Il
concetto è infatti un oggetto della mente, mentre non lo è l’idea, che è. L’idea, infatti, si esibisce, si
propone, si esprime ed ha una sua fisicità. Da questo punto di vista il famoso argomento del terzo
20
Su questo punto ci appare veramente preziosa l’indicazione data da Reale circa il significato del termine greco
afaìresis, che in Aristotele indica il processo attraverso cui si arriva al concetto. L’afairesis – dice lo studioso italiano –
esprime il concetto di “sottrazione”, “separazione”, “eliminazione” e si oppone a pròsthetis, che significa
“aggiunzione”. Pertanto, afairesis non implica un passaggio dal “reale” al “pensiero puramente ideale” ma un
procedimento che si svolge all’interno del reale, ossia in dimensione ontologica. (G. Reale,
uomo, che era già presente in Platone, viene, come vedremo, da Aristotele ripreso per delegittimare
la nozione di idea e affermare quella più astratta di concetto. Il concetto di “uomo” non può
confondersi infatti con l’uomo, visto che il concetto è l’idea nel suo farsi, non in atto, ma in potenza.
Situazione che soddisfa la concezione di un intelletto che come quello umano è, secondo Aristotele,
solo possibile, come più avanti illustreremo.
Ma proseguiamo nell’esporre il discorso di Aristotele su Platone.
§ 8. Particolare e universale
Ricominciamo perciò ripartendo dal filo d’erba. Del filo d’erba, al di là del fatto che lo conosca o
non lo conosca, posso tuttavia parlare in tanti modi (sta di fatto che ne parlo) e potrò per esempio
dire che è grande o che è piccolo, che è tenero o quasi secco. Ora, mentre il filo d’erba è un oggetto
sensibile, non lo è il “grande”, il “piccolo”, il “giovane” o il “vecchio”. C’è questa cosa grande e
quest’altra piccola; c’è questa cosa vecchia e quest’altra nuova, ma il grande e il piccolo, il vecchio
o il nuovo presi per sé non appartengono al mondo sensibile. Allo stesso modo non vi appartengono
i concetti dell’etica. Tali concetti sono diversi dalle idee platoniche e diversi anche dai numeri di
pitagorica memoria. E il naturalista Aristotele non manca di farlo notare, proseguendo nell’illustrare
quanto Platone aveva fatto prima di lui. Infatti, secondo Aristotele (Metafisica I, 6 – 987 b), Platone
“non solo diede a tali entità l’appellativo di idee, ma sostenne anche che le cose sensibili sono al di
fuori di queste e che tutte quante prendono il loro nome in virtù della loro relazione con esse,
giacché solo mediante una partecipazione le cose particolari, nella loro pluralità, hanno lo stesso
nome specifico”21.
A questo punto il problema di Platone (nell’aspetto che più preme allo stesso Aristotele) può dirsi
risolto: anche il filo d’erba ha una sua legittimità. Per quanto ingannevole sia la sua esistenza
particolare, devo infatti pensare che come genere il filo d’erba esista e che quel particolare filo
d’erba che (non) conosco, fa parte di un’idea conoscibile.
Tenendo presente quel che Platone sostiene, non è difficile intendere questo passo. Ma Aristotele
non è ancora soddisfatto. Secondo lui, infatti, stabilito che le idee non sono cose sensibili (sono al di
fuori di esse), ma che comunque sono, Platone avrebbe dedotto che le cose sensibili sono chiamate
con un nome generico per il fatto di essere contenute nelle idee, ovvero di parteciparne (farne parte).
In questo senso non parlo del filo d’erba perché lo vedo, ma vedo e distinguo il filo d’erba e ne
parlo come di un filo d’erba perché il filo d’erba particolare è parte dell’idea (generale) di filo
d’erba. Quindi precisa Aristotele: “Platone ha introdotto, come cosa nuova, soltanto il termine
“partecipazione”, giacché, mentre i Pitagorici asseriscono che le cose esistono per imitazione dei
numeri, egli dice che esistono per partecipazione, limitandosi a cambiare solo il nome. Ma di qual
natura fosse mai l’imitazione o la partecipazione delle forme ideali, è questione che essi hanno
lasciato insoluta”22.
Qui il termine più di altri rivelatore ci pare quello di “imitazione”. “Imitazione” infatti non può
significare in questo contesto che le cose sensibili “imitino” i numeri, ma che nel loro formarsi, per
come vengono distinte l’una dall’altra in idea, esse sono rese intelligibili alla stregua di quel che
accade dei numeri. Del resto sono grandi o piccole, sono il doppio o il triplo o in altra relazione
frazionaria tra loro, sono più o meno numerose circa la quantità ecc. Cosa che effettivamente
corrisponde a quanto si tramanda anche da altre fonti circa Pitagora e i pitagorici.
La platonica teoria della “partecipazione” dunque deve presentare qualche differenza rispetto alla
teoria pitagorica del “numero” e possibilmente una differenza che tenga conto
dell’incommensurabilità accertata di certe grandezze numeriche. Partecipare o esser parte significa
cadere in un dominio, avere una collocazione, abitare in un luogo, muoversi in un ambito, sicché
l’oggetto (animale o cosa) che partecipa di un’idea ha come una mobilità all’interno di essa, cosa
21
Per il testo italiano seguiamo la traduzione di Antonio Russo in Aristotele, Opere. Vol. VI Metafisica, Laterza, Bari
1973, p. 26.
22
Ibidem.
che ne giustifica la mutevolezza.
E’ quanto del resto lo stesso Aristotele sembra dire quando, proseguendo nella sua esposizione,
chiarisce: “Platone aggiunge ancora che, oltre gli oggetti sensibili e le forme ideali, esistono, come
qualcosa di intermedio, le entità matematiche, le quali differiscono dalle cose sensibili perché sono
eterne e immobili, e differiscono dalle forme ideali perché c’è una pluralità di enti matematici che si
somigliano, mentre ogni forma ideale è di per sé unica, individuale e singolare”23.
E’ importante osservare come in questo passaggio Aristotele abbia omesso di ricordare quel che
invece prima aveva fatto presente, che cioè gli oggetti sensibili e le forme ideali non esistono
indipendentemente gli uni dalle altre, infatti, come sappiamo, gli oggetti sensibili sono parte delle
forme ideali ed è proprio questo che li rende intelligibili, dal punto di vista di Platone.
E’ qui la differenza. E’ qui che l’allievo volta le spalle al maestro. Per Aristotele c’è un dualismo di
cose sensibili e forme ideali, che in Platone non c’era, perché Platone era riuscito a risolvere il
dualismo apparente in un monismo sostanziale.
Approfondimento IV
La fortuna del Teeteto platonico nella cultura medievale e moderna
§ 1.Il platonismo, la nozione di anima e quella di coscienza
C'è nella tradizione della filosofia occidentale un rapporto vivacemente dialettico tra sapere e
pensare. Il sapere, come conoscenza della verità è definitivo e certo, il pensare è invece un
ponderare, valutando le cose, quale ne possa essere la validità, l'attendibilità, la rispondenza alla
verità.
Con Socrate il pensare balza in primo piano. Il sapere, suggerito agli uomini da una suggestione
poetica, resta un ideale. Socrate, che fa professione di insipienza, apre la via a una concezione della
saggezza tutta filosofica di cui Platone e Aristotele si faranno eredi, senza peraltro mancare –
specialmente il secondo – di dare qualche confortevole rassicurazione circa saperi attendibili che,
senza essere assolutamente certi, vanno però tenuti in qualche considerazione per via dell'utilità che
hanno.
L'attenzione che Aristotele presta alle scienze del fare, alle quali annette maggiore importanza
rispetto alle scienze teoretiche, significa che quel sapere inteso come saper fare è alla fine un sapere
veramente risolutivo, al di là di una sua plausibile provvisorietà.
Quanto ai poeti e agli artisti, essi proseguono nella tradizione che riferisce agli dei una qualche
invidiabile e rara competenza che ne fa dei maestri ideali delle arti che gli uomini praticano. Tanti
talenti, tanti dei che ispirano coloro che rivelano di possedere la graziosa protezione di un dio. C'è
chi sa dipingere, chi sa cantare, chi sa guerreggiare, chi danzare, chi cucinare, costruire, rubare
senza farsi scorgere.
L'avvento del cristianesimo cancella la presenza di queste più o meno oscure divinità che si
sommano in una sola.
Senza nulla togliere ai meriti che il nuovo credo religioso ha avuto e continua ancora oggi ad avere
23
Ivi, p. 27.
nella nostra storia, non c'è dubbio che la dialettica sapere / pensare si sia fatta, all'ombra della
teologia cristiana, sempre più drammatica man mano che i principi più profondi (e nascosti) della
nuova religione sono stati partecipati a un sempre più vasto numero di persone. C'è infatti nel
cristianesimo, come fatto culturale preso nel suo complesso, una sorta di dicotomia, per cui da un
lato esso si basa su una concezione del divino assai elaborata ed astratta, la quale richiede il
possesso di strumenti assai raffinati; dall'altra sostiene che la verità della fede sia a tutti
comunicabile.
Per capire quanto sia complessa la concezione teologica che dal di dentro anima la spiritualità
cristiana, sarà sufficiente ricordare che, fondandosi sull'idea dell' ineffabilità di Dio, essa colloca la
divinità così in alto da renderla inarrivabile non solo sensibilmente ma perfino intellettivamente
all'uomo. Di Dio non mi posso fare propriamente neanche un'idea, tutt'al più (se voglio sottilizzare
con le armi del filosofico argomentare, un vago concetto che però non si trasformerà mai in idea,
non potrà essere esibito, consentendo di dire: “ecco è questo”. Una tale concezione sicuramente
suggestiva, ma logicamente negativa sul piano formale, ha avuto costantemente bisogno di una
sponda polemica per potersi proporre. Per secoli questa sponda polemica è stata il paganesimo che,
in varie forme, è paradossalmente sopravvissuto all'avvento della nuova religione che nel
combatterlo, lo ha in certo modo tenuto in vita. In poche parole il cristiano, per arrivare a farsi un
concetto sia pure vago del suo Dio (nel senso che abbiamo detto), ha bisogno del pagano a cui
contrapporsi. Se popolarmente questo ha comportato fra l'altro un qualche disprezzo per coloro che
fossero di religione diversa, anche le persone che coniugassero insieme devozione e cultura, videro
nel paganesimo un errore da cui rifuggire. L'accusa di idolatria rivolta alla tradizione pagana,
nonché la condanna della superstizione, costituiscono perciò due importanti piedistalli su cui il
cristianesimo ha, nelle sue varie forme (cattolica e protestante), rivendicato la purezza della fede.
Non sarebbe secondo noi azzardato sostenere che l'affermarsi del cristianesimo nell'arco di tempo
che è compreso tra il terzo e il quinto secolo dopo Cristo è anche nel fatto che la nuova religione
fosse speculare alla realtà di un mondo che andava sempre più acquistando un accentuato
bipolarismo sociale. Da un lato i miserabili, dall'altro i ricchi; da un lato chi comanda (talvolta
cercando una divina ispirazione), dall'altro chi obbedisce con rassegnazione; da un lato i diseredati,
dall'altro quanti godono di una possibilità che viene loro offerta. Da un lato insomma un popolo che
deve “elevarsi” ma non ha gli strumenti per farlo; dall'altro chi può intendere “tante cose”,
affinando la propria sensibilità. Quando questo bipolarismo sociale comincia a incrinarsi le cose
cambiano e, da Sant'Anselmo in avanti, nella teologia cristiana, c'è stata una sorta di inversione di
tendenza rispetto all'ispirazione religiosa iniziale che non vedeva necessario alcuno sforzo
intellettuale per arrivare a Dio. Anche i semplici, anzi soprattutto i semplici sono vicini a Dio. Ciò
spiega, fra l'altro, come mai tanti pensatori, particolarmente attenti a salvare lo spirito della
religione cristiana, come per esempio Guglielmo di Ockam, mostrassero insofferenza per certi
arzigogolii della teologia medievale.
Quando però alla coscienza di un numero crescente di persone si è mostrata inconsistente la pretesa
di attribuire facoltà miracolosamente terapeutiche a immagini più o meno “sacre”, quella che per
secoli era stata un'esigenza dettata da purezza di cuore e di fede in Dio, diventa esigenza critica. A
questo punto, invece di guardare contrito e vergognoso all'esperienza di rapimento mistico di un
San Francesco d'Assisi perché incapace di elevarsi fino a seguirne l'esempio, il popolo dei fedeli,
che è poi cristianamente il popolo dei peccatori, ha visto in quella viltà e pochezza d'animo la
manifestazione di ignoranza e insipienza. Quando poi, acculturandosi, questo popolo si è rivolto al
mondo antico, ha scoperto che, pagani per quanto, né Virgilio né Cicerone né Platone o Aristotele
erano “pagani” nel senso che l'espressione aveva ancora all'epoca di Dante e di Petrarca che,
attraverso Virgilio e Cicerone riscoprirono appunto il fascino della cultura classica, in questa
includendo la filosofia di Platone e di Aristotele. E' da questa scoperta che, insieme alla difficoltà di
insistere a rappresentare l'età antica come il mondo “degli dèi falsi e bugiardi”, sorge l'altra
difficoltà di declinare insieme la verità di ragione con la verità di fede. E si torna a interrogare
Platone.
Sappiamo benissimo della vocazione senz'altro presente nel cristianesimo a una pietas che
sostanzialmente esaurisce qualsiasi sapienza, per cui chi sa pregare, sa concepire Dio e non ha
quindi bisogno di filosofare. Il punto è che, se qualcosa del mondo antico trapassa in quello
medievale sarà proprio la filosofia, intesa nella sua accezione più ampia, cioè non come sapere ma
piuttosto come aspirazione al sapere. Ma proprio questo è il problema: la religione cristiana che è
coraggiosa messa a nudo dell'insipienza dell'uomo circa le cose divine, si coniuga più volentieri con
la tradizione poetica che non con quella filosofica. Il libro sacro, su cui fonda la sua scienza, è un
libro ispirato nel quale la voce di Dio si mescola a quella dei profeti. Anche per questo Dante è un
grande sapiente del mondo medievale, più grande perché più popolare di San Tommaso. Dante ha
parlato a tutti, Tommaso d'Aquino ai dotti.
Se si prescinde da questo quadro non può capirsi quale sia stato il modo che il medioevo ebbe di
recepire il platonismo.
Non è nel contesto di un'introduzione al Teeteto di Platone che possano farsi discorsi di
approfondimento su un tema così vasto e così specifico al tempo stesso. Pur tuttavia, ragionandosi
nel Teeteto di sapere e di pensare, con un'accentuata funzione che al pensare si riferisce come a una
tensione volta a vedere di acquistare sapere, tutto quello che ha a che vedere col rapporto tra queste
due attività può aiutarci a capire quale sia stata la ricezione dell'opera platonica nel suo complesso
da parte del mondo cristiano. Si è trattato di un Platone mescolato più o meno costantemente alla
tradizione pitagorica, complice il Timeo, capolavoro tradizionalmente ritenuto quasi conclusivo
della carriera di Platone scrittore di materie filosofiche. Ma chi dice che il Timeo, concedendo che
questa fosse l'opera di una qualche compiuta maturità di Platone, contenga qualcosa come il
testamento spirituale e intellettuale del vecchio maestro? E se fosse l'esposizione sostanzialmente
fedele di una concezione pitagorica che Platone riteneva dovesse esser presa in considerazione,
magari per uno scopo critico? Che il lavoro di Platone non fosse concluso lo dimostrano il Filebo e
il Politico che si fanno risalire alla stessa epoca del Timeo. Inoltre nella VII lettera, che gli studiosi
prendono sempre più in considerazione come documento capace di rivelare qualche importante
verità circa gli intendimenti della filosofia platonica24, si parla esplicitamente dell'assenza di una
dottrina platonica, e la cosmologia pitagorica è invece una dottrina, nella quale musica, poesia e
matematica si mescolano armonicamente.
Sicuramente il Timeo esercita la sua influenza fino a tutto il Rinascimento. Non a caso Raffaello lo
porrà sotto il braccio dell'antico maestro nella celebre Scuola d'Atene da lui dipinta, mostrando di
ritenere il Timeo opera chiusa e conchiusa di Platone. Al contrario il libro di Aristotele è aperto,
quasi a significare che l'opera si intende per i riferimenti alla realtà fattuale, costituendo uno
strumento di indagine circa i fenomeni naturali, di cui il libro della natura è specchio. Con la nascita
della scienza sperimentale Aristotele, e specialmente l'aristotelismo, verranno fortemente
ridimensionati, ma non può negarsi che lo spirito della nuova scienza avesse alla fine qualcosa più
di aristotelico che di platonico. Quanto al Timeo, dopo d'allora, uscirà piano piano di scena. E' qui,
infatti, che cominciano i primi problemi che sorgono attorno alla difficoltà di far coincidere la verità
della religione con la verità della scienza. Ma già qualcosa era pur successo in occasione del
dibattito sorto attorno alla questione degli universali.
2. La questione degli universali e il Teeteto
Quando si studia la questione degli universali la si fa risalire a Platone e Aristotele. Riferendo nel
capitolo precedente quel che Aristotele dice di Platone, abbiamo brevemente ricordato che cosa per
Aristotele fosse l'universale in quanto contrapposto all'individuale. Qui va detto che la disputa
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Di tale avviso sono un numero sempre crescente di studiosi, che hanno messo da parte alcune remore in passato
espresse circa l'autenticità della VII lettera. Noi qui facciamo nostra la posizione di Francesco Adorno, il quale circa
questa famosa lettera, sostiene che è: “molto tarda, e anche se non di Platone certo felicissima interpreatazione del
pensiero di lui, tanto che può essere accettata come platonica” (F. Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Bari
2008, p. 9).
avvenne in età medievale, quando di Platone si leggevano il Timeo (nel commentario di Calcidio), il
Fedone e il Menone, tutto il resto dell'opera platonica essendo conosciuto assai poco e molti dei
Dialoghi che oggi leggiamo del tutto ignorati. Noi perciò ragioneremo della questione degli
universali solo per quel poco che di tale controversia può investire il Teeteto, non certo come testo
di riferimento (tale sarebbe divenuto solo in tempi successivi), quanto come testo nel quale si
contengono comunque alcuni aspetti fondamentali della filosofia platonica per come questa si lega a
quella aristotelica.
Il punto è che la disputa di cui ragioniamo, e che fu importante all'interno della filosofia scolastica,
si fonda su una tradizione che molto impropriamente può dirsi “neoplatonica”. Ma siccome le
parole hanno una storia che si incontra con i capricci dei tempi sta di fatto che tale tradizione che tra
molte virgolette può definirsi “neo-platonica” lo è solo forzando agli occhi dei moderni il
significato sia del prefisso “neo”, sia del suffisso “ismo”, costituendo quel neoplatonismo una sorta
di disinvolto stravolgimento del pensiero platonico nel suo complesso. Tuttavia così apparve
quell'atteggiamento dominante gli studi teologici all'epoca della scolastica e così continua da parte
degli storici della filosofia, a parlarsi di un “neoplatonismo” che si basava nel Medioevo su quel
pochissimo che di Platone circolava negli ambienti colti dell'area latina e non implicava alcuna
sostanziale ripresa o rivalutazione del pensiero platonico, trattandosi piuttosto dell'azione esercitata
da alcune tarde e in parte arbitrarie interpretazioni del pensiero platonico. Quanto agli universali, si
intesero per tali quei termini generici che, designando un gruppo di oggetti aventi caratteristiche
comuni, non designano cose particolari, oggetto di un'esperienza immediata (p. es. questa penna),
ma categorie, gruppi per cui la penna in generale (=universale) è diversa comunque da qualsiasi
penna particolare (individuale).
Per inciso facciamo osservare come proprio nel Teeteto si ragioni a un certo punto di koina (quel
che si accomuna), cioè anche e soprattutto degli universali. Sicché può esser pure che quando
Porfirio, allievo di Plotino fiorito nel III secolo d. C., fonda in certo modo la questione degli
universali nell' Isagoge (Introduzione [alle Categorie di Aristotele]), avesse in mente il passo del
Teeteto [186c – 186d ] nel quale si riconosce all'anima la funzione di presiedere all'importante
compito di decidere intorno alla somiglianza e dissimiglianza delle cose fra di loro. Ma di questo,
che per noi è cosa degna di attenzione, i filosofi medievali non avevano alcun sentore e utilizzarono,
del tutto legittimamente s'intende, gli strumenti in loro possesso per dirimere una questione per loro
urgente.
Il problema che apparve in tutta la sua gravità nel XII secolo, all'epoca di Guglielmo di Champeaux
e di Abelardo, era divenuto assai spinoso, infatti si trattava di stabilire quanto la logica invisibile,
ma pur tuttavia presente, che presiede al raggruppamento in famiglie, generi, ordini ecc.
comprendenti le singole realtà individuali. sia da porre in relazione all'atto di Dio creatore, al cui
intervento si deve la formazione così delle cose come degli organismi viventi. La gravità del fatto
sta che, nel negare qualsiasi nesso tra la realtà creata e quella visibile, viene virtualmente meno
anche quel mistico slancio a una preghiera che sia suggerita dalle meraviglie della creazione, dove è
difficile accettare quel che il partito dei francescani più puri, Guglielmo di Ockam tra i primi,
avrebbe comunque accettato, vale a dire che le lodi del Creatore possano senza timore alzarsi a Lui,
nella certezza che in ogni caso sarebbe anche meraviglioso l'aver nascosto all'uomo il segreto del
cosmo.
Prima che l'universale fosse concepito post rem, due diverse soluzioni si confrontarono per lungo
tempo. La prima quella dell'universale ante rem, che è di ascendenza platonica (prima l'idea, poi la
cosa); l'altra dell'universale in re (nella cosa c'è come il principio di essa, in essa individuabile e
riconoscibile; visione ispirata all'empirismo aristotelico).
Stabilito questo, va detto che la filosofia medievale colse la possibilità di porre l'universale post rem,
cioè dopo la cosa, dalla cosa deducendolo, solo quando maestri e studenti delle Arti furono messi a
contatto di alcune esperienze e pratiche di lavorazione degli oggetti “creati” dall'immaginazione
dell'uomo. In questo senso la casa è concetto che si chiarisce dopo che io abbia imparato a costruirla.
Lo stesso può dirsi del tavolo, della sedia, del camino, ma anche della mela ottenuta apprendendo le
tecniche di coltivazione, o del cane di razza o dell'albero innestato.
Da questo punto di vista la questione degli universali servì essenzialmente a porre in competizione
Platone con Aristotele, cioè il platonismo e l'aristotelismo, per come questi furono intesi nel mondo
tardo medievale e a creare i presupposti per una conoscenza più attenta delle fonti a cui attingere
per risolvere certe questioni inerenti il complesso rapporto tra fede e ragione.
La questione peraltro interessa come prova generale di una via che la filosofia successiva avrebbe
tentato, continuando a contrapporre in qualche modo Aristotele a Platone.
La via che si continuerà a seguire sarà infatti sostanzialmente la stessa che aveva suggerito di porre
la questione degli universali in quanto questione attinente all'ontologia: che cosa sono gli universali?
Idee, concetti o nomi, comunque si intendano, quale ne è l'origine in che rapporto stanno rispetto
alle cose di cui colgono l'essenza? Insomma qual è la relazione tra materia e idea?
La domanda così posta rivela d'avere una stretta relazione con questioni da lungo tempo dibattute in
ambito teologico, dove la questione si traduce nei termini del rapporto tra anima e corpo e in effetti
per lungo tempo la questione filosofica si presenterà come indissolubilmente connessa a quella
teologica.
3. L'universale e l'idea innata. Il giusnaturalismo come “platonismo”
Se, come abbiamo visto, esiste un asse lungo il quale si stabilisce un nesso tra Socrate, Platone e
Aristotele, esistono almeno altre due “vocazioni” che dal pensiero antico sono passate a quello
moderno. Ci riferiamo alla filosofia epicurea e a quella stoica. Assai meno ingenua di quanto sia
stata descritta, la filosofia epicurea ha avuto non a caso una particolare vitalità nonostante parecchi
tentativi di confutarne sia i presupposti che le conclusioni. A noi interessa come alternativa a punti
di vista tendenti a definire nella tradizione filosofica occidentale una visione del mondo, una vera e
propria cosmologia in nome della quale proporre poi una concezione dell'uomo e del suo mondo.
Abbiamo già detto di come si debba parlare con molta cautela di una visione cosmologica di
Platone se questa si fa risalire al Timeo, opera senz'altro suggestiva, ma nella quale Platone espone
punti di vista che non possono con certezza riferirsi a lui. Al contrario degli epicurei, gli stoici
proposero esplicitamente una cosmologia dettata da una visione etico-politica che nel mondo antico
agì come una sorta di ideologia di tenuta rispetto ai non pochi segni di crisi, anche avanzata, che si
coglievano nel mondo greco e in quello latino che ne aveva accolto l'eredità. Con tale tradizione di
pensiero la cultura cristiana ha avuto atteggiamenti vari che da una iniziale indifferenza hanno nel
tempo condotto a un apprezzamento tutto sommato positivo dell'opera degli stoici, cosa che non ha
mancato di esercitare una sua influenza anche sulle interpretazioni da dare alla filosofia platonica e
platonico-aristotelica.
Le ragioni di un tale orientamento vanno cercate nella storia della politica e delle istituzioni. Finché
i domini dell'Europa furono sostanzialmente posti unitariamente sotto l'egida di un imperatore,
nessuno ebbe interesse a rinverdire quella vocazione al localismo così tipica della cultura greca e
che si sarebbe espressa, sia pure diversamente all'interno della cultura latina. Poi in età comunale i
vari centri dell'Europa medievale diedero i primi segni di una certa autonomia. Così fu a Milano,
così a Firenze che fu non a caso detta la “nuova Atene”. Così fu anche delle grandi città del Nord
Europa, a cominciare da quelle che costituirono la Lega Anseatica Quest'autonomia venne nel
tempo emergendo, creando infine una spinta alla formazione di una cultura nazionale. Come in
precedenza avevano fatto gli imperatori, anche i re nazionali tennero a rivendicare un'origine divina
al potere da loro esercitato.
La rinascita degli studi e l'impulso dato dalla nuova cultura umanistica agirono incontrandosi lungo
l'asse storico definito da questa novità, costituita appunto dalla nascita degli stati nazionali moderni.
Il giusnaturalismo fu l'idea che piacque a intellettuali e potenti della terra che alla natura si rivolsero
per comprendere come fosse fatto il mondo, come fosse fatto l'uomo, come si formassero le
istituzioni politiche e gli ordinamenti giuridici. La risposta che fu data provvisoriamente, e che a
lungo sembrò dover reggere alle accuse del tempo, fu che appunto tutte queste cose avessero origine
nella natura e fossero perciò frutto di una volontà e di un'intelligenza divine. Nacquero allora le
grandi metafisiche che tentarono di vedere come naturalmente gli uomini fossero conformati e
come naturalmente conformassero il loro mondo a somiglianza e imitazione di quello naturale.
L'ordine non il chaos deve naturalmente regnare. Di qui l'avversione del potere religioso e di quello
politico all'epicureismo, al libertinismo e a qualsiasi altra utopia che si tingesse di anarchismo. Di
qui anche l'aspirazione a coniugare insieme motivi dell'antico stoicismo con spunti ora platonici ora
aristotelici, nella consapevolezza che l'aristotelismo, legato alla scienza tolemaica, dovesse almeno
in parte essere messo in parentesi. Platone tornò in auge e sembrò che nulla potesse essere più
naturale se non che l'uomo naturalmente possedesse certe idee che, innate, sono condivise
naturalmente da tutti gli uomini. Di qui la ricerca di criteri capaci di soddisfare le esigenze di tutti,
purché questi tutti accettino di sottostare alla ragione.
4. Il Teeteto e l'empirismo anglosassone
L'innatismo trova nel mondo anglosassone le critiche più dure e più radicali. Diversamente da
quanto accade in altri regni europei dove si cerca spontaneamente o a forza un'unità religiosa, il
mondo anglosassone decide di demandare alla coscienza individuale lo spinoso problema della fede
da professare. Ciò significa che nel Regno Unito ci si rassegnò prima che altrove all'idea che di Dio
ognuno può farsi l'idea che crede, pensandolo ora come lo pensano gli anglicani, ora come lo
pensano i calvinisti e ora come lo pensano i luterani. Ma ciò significa anche che evidentemente le
idee innate sono solo un sogno. Se infatti ci fosse qualcosa come un'idea innata, la prima fra tutte
dovrebbe essere quella di Dio, che, come creatore dell'universo ordinato, avrebbe
conseguentemente all'ordine universale, inculcato nell'uomo questa idea fondamentale chiara,
distinta e uguale per tutti. Invece i fatti dicono che gli uomini non si accordano gli uni con gli altri
proprio e innanzitutto su questa materia che dà luogo a infinite controversie. Ciò fa tornare di
grande attualità il tema del Teeteto col suo finale aporetico. Il discorso sulla verità, premio al
virtuoso che sappia definire che cosa sia la conoscenza, è insomma aperto e si chiude solo nel senso
che o si conviene per utilità, o per abbandono del campo.
In tutto questo non possiamo ignorare che la ripresa delle discussioni che Platone conduce nel
Teeteto concorrono anche gli studi di fisiologia umana che hanno reso di attualità anche il discorso
sulla sensazione, cioè la tirata apologetica di Teodoro su Protagora. L'ottica e l'acustica, che hanno
compiuto prodigiosi passi avanti, attirano l'attenzione sul soggettivismo delle sensazioni che
effettivamente si formano differentemente da individuo a individuo, ciascun individuo avendo una
diversa sensibilità ai suoni, ai colori, alla percezione delle distanze ecc.
Importantissimo, in quanto rivelatore dell'interesse suscitato dal Teeteto negli ambienti della cultura
dell'epoca, è il motivo della mente come tabula rasa e l'acquisizione delle idee attraverso
l'esperienza. A quest'ultimo proposito non possiamo tacere un fatto importante. Mentre nella
tradizione culturale continentale la mente si associa all'anima, in quanto le facoltà mentali sono
viste come facoltà personali, nella filosofia anglosassone il mind che più da vicino prosegue la
nozione aristotelica di di intelletto passivo e perché passivo anche possibile, i due concetti di
intelletto e anima (ma dovremmo dire coscienza) cominciano a distinguersi, con i filosofi che li
maneggiano con molta cautela.
Questo punto non è da trascurare, specie se si consideri che è in ambiente anglosassone che si è
cominciato a supporre che il giovane Aristotele mettesse mano ad alcuni dialoghi di Platone, come
il Sofista e il Parmenide che sono da sempre considerati coevi al Teeteto, che come abbiamo visto,
presenta molti spunti che anticipano la filosofia di Aristotele.
5. I nodi della metafisica illuministica
Se Locke e Hume muovono dal fatto fisiologico della percezione per concepire le idee, assai
significativamente Leibniz muove da altri presupposti. Eppure Leibniz è la sponda che, in una sorta
quasi di polemica (che va secondo noi vista come dialettica cooperazione a quanto fanno gli
empiristi) concorre a far proseguire il discorso degli illuministi.
Ingegno essenzialmente matematico, senz'altro capace di apprezzare le applicazioni che le scienze
avevano mostrato di avere nel mondo delle pratiche realizzazioni, Leibniz è uno dei più geniali
pensatori della nostra storia. L'idea da cui parte è un'intuizione delle più affascinanti, che si
mostrerà oltretutto feconda. Parliamo dell'idea secondo cui necessario e possibile possono alla fine
coincidere. Per Leibniz il punto in cui questi due termini coinciderebbero è la mente di Dio, o più
precisamente l'occhio di Dio, sotto il quale in piena luce tutti i misteri del mondo si dissolvono.
Agisce in lui qualcosa come un'idea di Dio cristiana e autenticamente aristotelica, per cui in Dio
ogni conoscenza è attuale, perciò definitiva e tale da non essere suscettibile di miglioramento o di
incremento.
Il possibile è invece, sempre secondo Leibniz, quel che l'uomo, per la limitazione del suo intelletto
non riesce a vedere come necessario. L'intuizione, come abbiamo detto, è affascinante e, per poco
che si guardi avanti, verso quello che è poi stato il progresso delle scienze, questa intuizione può
addirittura vedersi come una profezia che delle profezie ha anche l'oscurità. Ci riferiamo a quel
campo di studi delle scienze naturali, allora di grande interesse per l'opera di Cuvier e di Buffon che
oggi è costituito dal complesso corpo delle scienze biologiche. La darwiniana teoria della selezione
naturale converte a ben guardare il possibile nel necessario, facendo del necessario il caso più facile
fra tutti i casi possibili. In altri termini tutto è possibile e quello che chiamiamo “necessario” è la
possibilità che ha il più alto grado di realizzabilità. L'intuizione insomma era vera, ma non nel senso
che il possibile diventasse necessario, ma che il necessario si chiarisse diventare un caso particolare
di possibilità.
Il fatto però spiega quanto appassionante e profondo fosse lo spunto iniziale da cui partì Leibniz, il
quale è insieme l'ultimo grande metafisico e l'ultimo grande cosmologo dell'età moderna. Per lui
l'armonia di pitagorica memoria è il senso del mondo nel quale viviamo, dove ogni cosa è
preordinata e nulla può avvenire per caso. Tutto alla fine è necessità, tutto converge verso un'unica
soluzione. L'intelletto limitato dell'uomo può tuttavia arrivare a capire, attraverso la propria
riconosciuta limitatezza, la perfezione che nel mondo regnerebbe.
6. La filosofia scozzese del common sense, il noumeno kantiano e la facoltà di giudicare
Riaffiora quindi l'aporia che mette in crisi, come già all'epoca in cui Platone contestava a Protagora
le tesi sensiste da lui sostenute, l'idea di una conoscenza certa o per lo meno attendibile, più della
semplice opinione.
Qui diciamo, per onestà di commentatori, che non ci riconosciamo nella tradizione secondo cui
Platone condannerebbe il relativismo gnoseologico di Protagora. Egli contesta a Protagora la
pretesa di individuare nei sensi la conoscenza, ma non perché in questo modo ognuno conoscerebbe
per proprio conto e secondo una prospettiva per così dire personale, individuale, collocandoci tutti
in una sorta di tragicomico solipsismo. Platone è rigoroso e non contesterebbe un ragionamento solo
perché esso non corrisponde a un suo moralistico pregiudizio o non soddisfa il suo senso estetico,
cosa che semmai desta in lui una divertita ilarità. Innanzitutto Platone osserva, come abbiamo già
ricordato, che la sensazione non dà luogo a memoria del sentito. Si tratterà poi di vedere come
questa imperfetta memoria del percepito, induce a un confronto quanti, discutendo su quel che
ciascuno ricorda, tentano di chiarirsi l'un l'altro quell'idea che a nessuno è propriamente (per dirla
cartesianamente e modernamente) chiara e distinta. Se questo è un dramma che l'età moderna
eredita da quella medievale, è plausibile che per Platone quest'incidente sta solo a significare che
l'uomo tende alla verità, ma non potrà mai esser certo d'averla raggiunta. Cosa che lo riappacifica
con quel pitagorismo, da cui ci pare invece volesse prudentemente tenersi più discosto il suo fido
discepolo Aristotele. Il punto è che il concetto, per come Aristotele lo intenderà elaborando la
nozione di idea, è come una freccia che va a colpire un bersaglio mobile. Ora che cosa la nostra
mente coglie di un mondo in perenne inarrestabile corsa, se non un pallido riflesso dell'istante in cui
la cosa è stata come tratta fuori dal suo naturale contesto? Mettendo in campo l'essere di
parmenidea memoria, abbiamo lo strumento per dire come sono o non sono le cose. E intanto le
cose, mentre ne stiamo a discutere, non sono più come erano né noi siamo a nostra volta sicuri che
fossero come credevamo perché la nostra memoria può ingannarci.
Quest'ultima parte del ragionamento, che pure corre nel Teeteto , non interessa troppo gli illuministi.
Storicisti, per atteggiamento mentale, si sentono forti di una memoria che è costituita di un sapere
accumulato nel tempo e sentono che un edificio logico, come per esempio la geometria euclidea, è
una realtà. Nessuno più pensa come Socrate o come Aristotele, che, pur di rispondere al problema
dei problemi, riesce a far muovere tutto: il mondo che ci circonda, quello che immobilizziamo ad
arte nell'immagine che ce ne facciamo, in quanto soggetti non attivi (come siamo inclini a ritenere)
ma passivi, cioè mossi a nostra volta dall'intelletto che abbiamo e che è appunto “passivo”. Era
questo l'unico modo per confinare la creatura più invadente e capricciosa della filosofia antica, cioè
l'essere, nelle regioni più lontane del nous a questo punto “attivo”.
Nel Settecento il problema è un altro ed è già come lo formulerà poi con molta chiarezza Immanuel
Kant: quali sono i limiti e le possibilità del conoscere umano?
Tornando al dramma della difficoltà di un'idea chiara e distinta, a cui si giunga la volta che fosse
leibnizianamente chiusa la catena dei rapporti di necessità, l'unica è spostare l'aporia del Teeteto
dalle cose alla natura stessa del conoscere umano.
A porsi su questa strada furono gli esponenti della filosofia del common sense.
Dire che Kant si riconducesse al punto di vista dei filosofi di questa scuola ci sembra sminuire
almeno in parte il valore del suo operato. Va ricordato come, nel panorama del dibattito allora assai
intenso che si conduceva all'ombra del sensismo di Condillac e che in Lamettrie e in d'Holbach si
colorava di materialismo, fosse urgente una “fisiologia” del pensiero che saldasse mondo
fenomenico e mondo spirituale, evitando di passare per le strettoie suggerite da una fisiologia degli
apparati sensori. Veramente con Kant, al di là di un linguaggio che ribalta alcuni significati (la
famosa rivoluzione copernicana), torna in primo piano la tradizione platonica. Anche in Kant,
proprio come in Platone, il processo cognitivo non si risolve nell'applicazione meccanica di regole e
anzi la rivendicata presenza del noumeno al di là del mondo fenomenico rivela la irrinunciabilità del
mondo ideale, che impone di pensare la cosa in sé. Nulla come la filosofia kantiana può aiutare a
capire il senso della natura aporetica del Teeteto. In questo suo dialogo Platone fa presente l'utilità
di un'indagine che pone l'uomo costantemente di fronte a idee, il cui possesso e la cui formulazione
non garantiscono la conoscenza della verità, ma sono un modo per pesare il valore delle percezioni
di cui l'uomo sia capace, stabilendo una comparazione tra quello che io ho percepito e quello che tu
hai percepito. Da questo punto di vista sia l'uno sia l'altro filosofo spostano l'uno al dialogo
(Platone), l'altro al giudizio che dobbiamo formulare, il terreno di indagine relativo alla conoscenza.
Quel che fin qui abbiamo detto serve a far capire quanto utile sia la lettura del Teeteto a scuola. In
fonda è vero che quest'opera di Platone attraversa svariati secoli della storia del pensiero filosofico e
in certo modo anzi ha contribuito a riferire alla filosofia piuttosto che alle scienze mediche lo studio
di un capitolo tradizionalmente filosofico, che è quello della gnoseologia.
Quali sono le prospettive per il futuro? E' ancora il Teeteto vitale e capace di costituire un punto di
riferimento o almeno di ispirazione per tanti studiosi?
E' quanto passiamo a vedere col prossimo capitolo.
Approfondimento V
Platone e le neuroscienze
§1. Neuroscienze e filosofia
Le neuroscienze, per quanto recente possa esserne la vicenda, hanno una loro storia e, sebbene
costituiscano oggi un capitolo quasi a sé stante nella sua specificità, questa loro storia non è
estranea alla vicenda che fin qui abbiamo raccontato e che interessa la ricezione che il Teeteto ha
avuto nelle varie epoche della storia. Non vogliamo certamente sostenere che le neuroscienze
traggano la loro origine da questo dialogo di Platone. Sicuramente la fisiologia della percezione e
tutto quello che ha a che vedere col processo di formazione della memoria, per come questi
fenomeni sono stati studiati già a partire dall'epoca in cui la psicologia sperimentale compiva i suoi
passi, sono materie che fanno un po' la preistoria delle neuroscienze per come oggi esse si
intendono. Da questo punto di vista è veramente incolmabile la distanza tra quello di cui al presente
si occupa un neuroscienziato e quello di cui Socrate discuteva con Teeteto. Non va infine
dimenticato che le neuroscienze nascono da quella emancipazione delle scienze dalla filosofia, a
nostro avviso più che opportuna. Nella loro sacrosantemente rivendicata autonomia le scienze da
quelle matematiche e fisiche a quelle sociali e alla psicologia si sono date autonomamente i loro
statuti, definendo nello stesso momento i concetti base da cui muovere e un programma di lavoro.Il
problema peraltro è che nel condurre questa operazione importantissima accade talvolta che lo
scienziato faccia suoi certi filosofemi senza riconoscerli per quello che tuttavia sono.
Il nodo è ancora quello: la sensazione e il suo ruolo nel processo cognitivo. Ma c'è anche qualcosa
di più. Questo qualcosa sono i dubbi crescenti attorno all'entità, per certi aspetti misteriosa e
suggestiva, che sarebbe la mente.
Può essere che la mente, quale è normalmente concepita, sia una sorta di evoluzione del concetto
teologico-morale di anima, per come questa fu concepita in età medievale. Sicuramente l'uomo
moderno cura più la sua salute mentale che non la purezza della propria anima. E ci pare che in
questo senso la storia della follia di Michel Foucault non sia stata scritta invano. E' per noi assai
significativa questa differenza di vocabolario, che descrive comunque, una cultura di riferimento a
quanto filosofi e scienziati dibattono fra di loro, i primi in ricerche di laboratorio, gli altri in
convegni. Colpisce tuttavia il fatto che, sempre in convegni, gli uni e gli altri continuino a curiosare
nell'attività che gli altri perseguono. Se ultimamente i filosofi sono non senza ragione più
“sorvegliati” che non “spiati” dai neuroscienziati, per lungo tempo è accaduto che fossero gli
scienziati a trarre ispirazione dalla filosofia. In questo noi vediamo un imbroglio. Ci sono infatti nel
lavoro che lo scienziato conduce fasi preparatorie nelle quali alcuni concetti vengono o definiti o
assunti, e altre successive nelle quali ci si vede a volte costretti a tornare su quel che pareva assai
chiaro. In queste fasi lo scienziato è esposto al rischio di filosofeggiare, cioè di avventurarsi, senza
avvedersene completamente in un territorio sul quale farebbe bene a muoversi con maggiore cautela.
E ci si perdonerà il desiderio di difendere una volta tanto la specificità degli studi filosofici che,
meno vaghi di un tempo, richiedono da parte di chi maneggi i concetti della filosofia un minimo di
attenzione e di consapevolezza circa il fatto di fare bene o male filosofia, un esercizio nel quale
occorre usare molta circospezione.
Noi siamo convinti in particolare che non sia affatto vero quel che tanti uomini di scienza ritengono
e sorridiamo dell'ingenuità filosofica di quegli scienziati che si dicono, magari in buona fede,
persuasi di non avere alcun legame con certe teorie bislacche e superate che si attribuiscono a un
filosofo del mondo antico, il quale voleva che il mondo delle cose nascesse da quello più nobile
delle idee. Se volgarmente il platonismo è questo, noi sappiamo che platonismo significa anche ben
altro, se non tutt'altro. Il peso che l'opera di Platone ha sulla cultura occidentale non è pari a quello
di tanti altri filosofi antichi. E' da lui che abbiamo appreso a condurre un'indagine, interrogandoci su
quel che alle prime ci sembra assodato e non lo è. Ammesso e non concesso che il vocabolario al
quale noi oggi ricorriamo sia diverso, esso consiste spesso o di formulazioni più complesse o al
contrario di banalizzazioni del vocabolario utilizzato dallo stesso Platone. Si tratta in ogni caso di
qualcosa che più spesso che non si sospetti consiste di un falso e apparente arricchimento di nozioni,
ovvero di tagli e immiserimenti di intuizioni e suggestioni che chi non abbia mai letto Platone non
potrà mai valutare nella loro sostanziale pochezza.
§2. L'attualità dell'insegnamento socratico-platonico
Dalla ricostruzione che noi abbiamo fatto, la mente (l'intelletto) sarebbe, da un punto di vista
platonico, una facoltà, o se si vuole, la funzione svolta da un organo (il cervello?) adatto a svolgere
una funzione complementare a quella dei sensi. Più o meno questa è una definizione di “anima”, di
ciò che l'anima è e fa, che Teeteto dà a Socrate che lo interroga maieuticamente.
Da Platone fino all'Ottocento le strategie comunicative messe a punto dalla filosofia greca non sono
state granché messe in discussione. Ancora oggi, per quanto equivoche possano apparire certe
nozioni, è tuttavia vivissimo il bisogno di definire la via attraverso la quale il contenuto di una
percezione viene a fissarsi nella memoria di un soggetto che “conosce”.
Senza avere alcuna pretesa di invadere un campo che non è di nostra competenza e che può
costituire oggetto di legittima curiosità da parte dei giovani più attenti a certi temi, che noi possiamo
assai poco lumeggiare, ci pare però doveroso attirare l'attenzione di chi legge il Teeteto su una
sostanziale immobilità di uno scenario culturale assai poco mutato nel corso dei millenni.
Vogliamo dire, come prima cosa, che le neuro-scienze ci pongono, da quel possiamo intendere, di
fronte a una complessità in altri tempi inimmaginabile circa la natura del fatto percettivo. Percepire
non sarebbe percepire e basta. Immagini, suoni, odori, sapori, sensazioni tattili sono ormai
considerati frutto di un complesso ed elaborato iter che necessariamente comporta un'elaborazione
anche logica che potrebbe pure essere un'elaborazione culturale. Da questo punto di vista la
percezione sarebbe effetto del naturale concorso di gruppi che così determinatamente convengono
sulla definizione del percepito da agire sulla percezione stessa. In ciò l'apprendimento, compreso
quello del vocabolario, giocherebbe un ruolo fondamentale. Un esempio può esser dato dall'alto
numero di termini che presso gli Esquimesi designa le numerose sfumature di bianco che la loro
lingua distingue. Anzi a questo riguardo potrebbe anche richiamarsi quel che Socrate dice proprio
nel Teeteto:
Ammetteremo noi che le cose che sentiamo, con la vista o con l’udito, tutte queste cose nello stesso istante, per il fatto
stesso di sentirle, anche le conosciamo? Facciamo un esempio: prima di aver imparato una certa lingua straniera,
negheremo noi di udire quando la parlano, o affermeremo di udire e quindi di intendere quello che dicono? E così,
nell’ipotesi che non sapessimo leggere e guardassimo le lettere di uno scritto, sosterremo di non vederle o di vederle e
quindi di intenderle?
Insomma già Platone aveva capito che intendere una lingua o riconoscere una musica è qualcosa
che non è possibile al di fuori di un processo cognitivo che escluda un apprendimento, che impegna
quelle che una volta si sarebbero dette “facoltà superiori”.
Per poi passare da cose piuttosto facili a cose un pochino più difficili, si pensi alla percezione dello
spazio e del tempo. Percezione nella quale l'assenza o presenza di uno sforzo concettuale operato
dai singoli potrebbe perfino rivelare, a seconda delle epoche storiche, la funzione sociale di chi
concorre alla definizione (o re-definizione) di tali concetti e di chi invece vi si sottrae. Insomma
sono Numa Pompilio, Giulio Cesare e Gregorio XIII a dare il calendario o a riformarlo. Sono i loro
sudditi a recepirlo, accogliendo supinamente una proposta che vale la definizione di una realtà che
si suppone immutabile. In questo senso si badi al fatto apparentemente strano, ma (a pensarci bene)
del tutto naturale, che all'epoca della Rivoluzione Russa il popolo degli Zar credeva a novembre
d'essere in ottobre, sensazione che in certo modo era vera, ma da cui Platone consiglierebbe di
diffidare, costituendo un tipico esempio di opinione rettamente argomentata, supportata cioè da
varie possibili definizioni di “stagioni”, “calendario”, “regolarità” “irregolarità”, secondo il
vocabolario russo dei primi del Novecento.
Oggi siamo al punto di dover ridefinire il problema di come si compia il passaggio dalla percezione
sensoriale all'attività logica che l'uomo svolgerebbe intorno ai dati, frutto di un'elaborazione che
sembra compiersi, proprio come all'epoca di Platone (ma viste le perplessità espresse da Socrate,
sarebbe più corretto dire all'epoca di Democrito), per via di apparati sensoriali di cui l'uomo dispone
naturalmente. Una tale concezione non è più proponibile e i “dati” sono probabilmente essi stessi
frutto di elaborazione a un tempo personale (e fisiologica) e culturale (collettiva). Intendiamo dire
che quella dei data è in fondo una teoria e il fatto che sia scientifica e che abbia avuto per secoli
dignità scientifica, non vuol dire che abbia una veste solo scientifica. Per come fu formulata,
sostenuta, argomentata, una celebre teoria scientifica, come quella della gravitazione universale di
Newton si arricchì di elementi pesantemente ideologici che facevano parte della cultura filosofica
del tempo e di Isaac Newton in particolare.
Chi oggi opera nel campo delle neuroscienze non deve secondo noi fare l'errore di valutare come
“scientifico” tutto ciò che afferisce alle teorie scientifiche, specie quando alla loro formulazione
concorrano concetti presi a prestito da una tradizione che non è solo scientifica. Metafore e simboli,
sul cui senso non ci si interroga, ricorrono quando si descrivono certi eventi perfino se il linguaggio
che si usa sia quello matematico, infatti non è mai solo un linguaggio matematico. Per fare un
esempio che ci viene alla mente riflettendo alla buona, se il tempo è una cognizione che – per
quanto vaga, imprecisa, convenzionale impalcatura utile a costruire il “mondo esterno” – ci guida
nell'osservazione e catalogazione dei fenomeni, quanto potrà essere rigoroso sul piano
metodologico, misurare i tempi che interessano le operazioni in cui sono implicate le parti del
nostro corpo nello stabilire un quadro di avvenimenti posti in una successione temporale?
Se poi ci si riferisce a ricerche sul campo come, per esempio, le strategie di apprendimento e di
comunicazione in classe, si arriva più facilmente a mettere a fuoco che certi disturbi un tempo
ritenuti “psichici” sono legati all'apprendimento, cioè a tecniche inadatte alle esigenze della persona
alla quale ci rivolge. Da questo punto di vista i limiti maggiori del platonismo, come pratica di
insegnamento, stanno nell'applicare tecniche adatte a Teeteto, che è con tutta chiarezza un aristos,
non certo un barbaro o uno schiavo ed è oltretutto già incline a un tipo di riflessione che è quella
che si conduce nel campo delle matematiche.
Che cos'è la consapevolezza del percepire, da dove nasce la memoria per così dire lucida di aver già
visto una persona tanto che la riconosciamo, ricordandone il volto e il nome? Che le due cose si
associno fra loro si intende senza troppa difficoltà. E va detto che già Platone lo aveva inteso assai
bene. E' quella sorta di corto circuito tra due esperienze distanti nel tempo che sembra non essere
riferibile al fatto percettivo, ma piuttosto a un'affettività che governa le nostre pulsioni e le nostre
reazioni. Che possa trattarsi di qualcosa che insorge man mano che da qualcosa di semplice
procediamo verso qualcosa di più complesso è quanto non possiamo ormai da secoli escludere.
Finché tuttavia tutti gli anelli del complesso processo cognitivo non siano saldati l'uno con l'altro, le
aporie del Teeteto resteranno a monito di un problema non ancora risolto. Se questo possa
comportare un giorno la riformulazione dell'intera questione per come da Platone è stata posta,
questo è quanto ci suggerisce il buon senso, ma è impossibile dire in che termini la questione vada
riformulata. Ciò però rende prezioso questo dialogo di Platone, come punto d'origine di un certo
tipo di analisi, a cui bene o male torniamo, comunque la questione si discuta alla buona e da
incompetenti sia di filosofia che di neuroscienze, o che venga dibattuta in consessi così alti da
sfuggire alle capacità di intendimento di persone che non possiedano determinate cognizioni.
Come seconda cosa teniamo a dire che non si si è ancora smesso, esattamente come ai tempi di
Platone, di prendere in considerazione il mondo dei concetti matematici come un serbatoio di
nozioni di cui l'uomo dispone per acquisire conoscenze che tuttavia non riguardano le cose. Da
questo punto di vista Platone è assai diverso da Kant che giunge a ritenere normative le leggi
matematiche ai fini del grande edificio del mondo fenomenico di cui l'io-penso sarebbe il
demiurgico ordinatore. Si noti come, forzando un po' certe interpretazioni “idealistiche” di Kant, si
possa progressivamente spostare il limite presuntamente invalicabile delle leggi matematiche, man
mano che queste vengono indagate. Sicché Kant non sarebbe più legato indissolubilmente a una
visione newtoniana25. Resterebbe comunque una differenza sostanziale del punto di vista kantiano
rispetto a quello platonico, dove risulta difficile dire quale dei due possa essere, per così dire, più
“avanzato”. Come diffida dei sensi, e lo abbiamo visto a proposito della “tirata” su Protagora, così
Platone diffida anche della conoscenza “esatta” (e astratta) della matematica che, secondo quanto a
noi sembra, gli appare, almeno nel Teeteto, come un modello di indagine, non come uno strumento
per arrivare a conoscere il filo d'erba, di cui parlavamo a proposito del passaggio dalla filosofia
platonica a quella aristotelica.
Platone e l'interiorità
Qui ci pare indispensabile far presente come fosse assai cauto Platone anche circa quella che non
esitiamo a chiamare la favola dell'interiorità con ciò alludendo alla dimensione privilegiata dell'io
pensoso, dedito allo svolgimento delle cosiddette attività logiche superiori, precluse invece agli altri
viventi. Non vogliamo con ciò negare che per Platone l'uomo avesse una posizione privilegiata
rispetto agli altri animali. Abbiamo parlato di “cautela” e non abbiamo remore a riferire a tutto il
mondo antico un atteggiamento che, per quanto chiaro (l'uomo è “superiore” agli altri animali), è su
questo punto assai più cauto di quello che avrebbe successivamente dominato la cultura medievale e
moderna. Non solo la concezione dell'anima (e dell'animico) che ebbero gli antichi è, come
abbiamo tenuto a illustrare, altra cosa rispetto alla nozione oggi corrente, è altresì evidente che
l'attività “speculativa” che impegna Socrate e i suoi interlocutori passa per il dialogo, al logos
trasferendosi in tal modo alcune delle presunte capacità “creative” riferite all'anima individuale,
secondo un luogo comune oggi diffuso, che non trova riscontro certo in Platone. E' vero: l'anima di
Teeteto “partorisce”, ma ci pare evidente l'uso metaforico del termine26. Qui vogliamo insistere su
25
Su questo punto ci sembrano essenziali gli studi di Luigi Scaravelli, a cui ci permettiamo di rimandare i Colleghi (L.
Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1968, volume preziosissimo la prima parte del quale contiene
tutta una sezione dedicata al tema “Kant e la fisica moderna).
26
Sarebbe inoltre da discutere circa la funzione che certe metafore hanno nel quadro della filosofia socratico-platonica in
quanto funzionali all'ironia. Siamo sicuri del “parto” dell'idea da parte di Teeteto? Che “parto” è? E se Teeteto non
un concetto che abbiamo appena sfiorato ma che ci pare importante. L'idea, nel senso platonico, ha
una visibilità e una materialità che, come secondo noi rileva giustamente Reale, non piace ad
Aristotele27, che cerca di astrarre dalle cose il concetto. Questa visibilità dell'idea, la sua materialità,
il significato proprio del termine greco usato da Platone per cui idea è immagine, disegno, cifra, non
esclude che le idee siano per così dire esterne all'uomo, che non siano cioè platonicamente quegli
oggetti “mentali” di cui solitamente si parla. In più passi dell'opera di Platone si ragiona di figure, di
come esse nascono e non ci pare fuori luogo ricordare come la cultura greca avesse dimestichezza
con le immagini dipinte sui vasi, i bassorilievi sui frontoni e le metope dei templi, la policromia
degli abiti, dei tappeti. Sono tutti esempi di immagini e figure corporee, materiali insomma e
finalmente indipendenti e sicuramente esterne alla “mente”, ma anche “finte” nel senso proprio, e
vorremmo dire leopardiano, per cui “ci fingiamo” le cose e questo fingerci le cose abbiamo
chiamato pensiero. Ci sarebbe insomma, platonicamente ragionando, una parte di noi che sogna,
che è la stessa che ricorda e che cerca di fissare, fingendo, le sensazioni. Nel far ciò entifica
eleaticamente le cose, scoprendo l'essere. Detto tra parentesi: “mentali” potrebbero essere, da un
punto di vista platonico, gli enti matematici, che, riguardati però come disegni geometrici,
potrebbero intendersi quali imperfette rappresentazioni del percepito. Ma è bene dirlo, accogliendo
questa seconda ipotesi, ci troveremmo di fronte a un ribaltamento del punto di vista platonico, lungo
la linea di un possibile sviluppo della tradizione eraclitea per come questa trapassa
(paradossalmente) nell'epicureismo. Gli enti matematici sono infatti assai probabilmente per Platone
suggestioni dell'anima. Ed è forse per questo che la matematica non garantisce, almeno stando al
Teeteto, la possibilità di giungere alla conoscenza delle cose.
Tutto ciò stabilito, dal nostro punto di vista sarebbe da istruire una ricerca volta a chiarire quale
fosse il reale rapporto di Platone (e prima di lui di Socrate) con la precedente tradizione
mitopoietica che aveva esaltato nell'uomo un'ispirazione per così dire divina, la quale sarebbe alla
base dei motivi fondanti la civiltà umana. Alcuni passi in questa direzione sono stati già compiuti e
a noi appaiono di grande interesse anche per i convincenti risultati fin qui conseguiti. Da quanto
emerge dall'opera condotta da vari studiosi, risulta infatti che Platone e prima di lui i Sofisti,
avessero condotto una delicata e importante operazione culturale, forzando gli strumenti della
comunicazione oltre i limiti consueti.
Concludendo vogliamo ricordare come Platone abbia difeso la nozione di idea, proposta dal suo
maestro. Questa nozione, che è un po' la maledizione della filosofia, è restia a un'analisi profonda.
Quando andiamo a scomporre nei suoi componenti un'idea, ci troviamo sempre di fronte a un
residuo simbolico di cui sembra impossibile disfarsi, cosa che potrebbe pure far pensare che l'idea
sia per sua natura complessa, a meno di negarle la natura di “idea” che, con buona pace di Aristotele,
essa non avrebbe.
avesse affatto partorito? Non potrebbe quello della “maieutica” essere un gioco, un “trucco” con cui far riuscire un
gioco di abilità?
27
G. Reale, op. cit.