i quaderni del cineforum
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PASOLINI - UNA STORIA SBAGLIATA
Il cinema di Pier Paolo Pasolini a quarant’anni dalla morte
A CURA DI CLAUDIO ZITO E MARCELLO PERUCCA
Claudio Zito, Marcello Perucca
PASOLINI: UNA STORIA SBAGLIATA
Il cinema di Pier Paolo Pasolini a quarant’anni dalla sua morte
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
CINEFORUM DEL CIRCOLO
NOVEMBRE 2015
È una storia da dimenticare
è una storia da non raccontare
è una storia un po' complicata
è una storia sbagliata.
Cominciò con la luna sul posto
e finì con un fiume d'inchiostro
è una storia un poco scontata
è una storia sbagliata.
Storia diversa per gente normale
storia comune per gente speciale
cos'altro vi serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.
Fabrizio De André/Massimo Bubola
da Una storia sbagliata, 1980
La mia indipendenza, che è la mia forza,
implica la solitudine, che è la mia debolezza
Pier Paolo Pasolini
Bologna 5 marzo 1922 – Lido di Ostia 2 novembre 1975
Introduzione
Questa rassegna del Cineforum del Circolo è nata di parto naturale. Fin troppo facile, ma al contempo
obbligatorio, per una realtà come la nostra, celebrare il quarantennale dell’omicidio di uno dei più acuti
intellettuali del secolo scorso, un artista “profetico” che continua a darci innumerevoli spunti di
riflessione sulla realtà che viviamo tutt’oggi. L’Italia odierna, post-industriale ed economicamente in
crisi, svela ancor più che nel dopoguerra le sue miserie non solo materiali, non superate con il boom
e accentuatesi con la recessione. Chissà il rigetto che Pasolini avrebbe provato di fronte a una piccola
borghesia italiana (“la più ignorante d’Europa”, dice Orson Welles ne La ricotta, mentre il popolo
italiano era “il più analfabeta”) che oggi, in crisi, ragala il peggio di sé. E chissà come il Nostro avrebbe
giudicato, sempre col suo sano moralismo, la massa istruita ma sottoproletarizzata dei ragazzi del nuovo
millennio. Come avrebbe valutato la Chiesa di Bergoglio? Per non parlare degli intellettuali: ci sono
ancora un Moravia, uno Sciascia...? In ogni caso, ci mancano terribilmente i moti di sdegno, anche
quelli non condivisibili, di un fustigatore dei più geniali.
Quarantennale, dicevamo. L’anniversario cade proprio di lunedì, giorno di proiezioni del Cineforum. Dal 2
novembre programmiamo cinque serate in compagnia del cineasta-giornalista-poeta e chi più ne ha più ne metta:
tra le altre cose, Pasolini fu anche semiologo, sceneggiatore, direttore del doppiaggio di film stranieri, attore; e la
sua carriera si è interrotta tragicamente: siamo sicuri che si sarebbe confrontato anche con altre discipline.
Per altro abbiamo aperto la stagione con Nanni Moretti, uno dei suoi eredi ideali, che mai ha mancato di
rendere omaggio a Pasolini; in forma filmica l’ha fatto esplicitamente nell’episodio In vespa di Caro Diario.
Escludiamo il debutto Accattone, capolavoro che tuttavia abbiamo già presentato in una rassegna di
poco tempo fa. Apriamo invece con Mamma Roma, film con cui Pasolini lavora per la prima volta con
un’attrice professionista. E che professionista! La grande Anna Magnani. Dibattito da cineforum: il
personaggio morto, inquadrato con i piedi in primo piano, è ispirato al Cristo del Mantegna? In tanti
sostengono di sì, tra cui un conoscitore e collaboratore del Nostro come Bernardo Bertolucci. Ma c’è
chi replica che i riferimenti pittorici sono altri. Antonio Pettierre di “Ondacinema”, coautore di una
monografia dell’autore (www.ondacinema.it) è nostro ospite e ci introduce a questo e ad altri temi.
Segue un altro caposaldo della filmografia pasoliniana: Il vangelo secondo Matteo. Dedicato alla figura
(“all’ombra”) di papa Giovanni XXIII, il Vangelo è il discorso di un marxista alla parte più progressista
della Chiesa Cattolica. L’intervista al non-attore protagonista, un antifranchista basco esule, riassume
bene il dibattito sullo schieramento politico del film. Al di là di tale attribuzione, resta un’opera scarna,
pittorica come non mai, che tra i sassi di Matera scova principalmente il lato terrestre, umano del
Cristo, e ne ribalta l’iconografia dominante.
Procedendo in ordine cronologico, abbiamo inserito Uccellacci e uccellini, il lungometraggio in cui è
impiegato Totò, in un ruolo per lui davvero insolito. Mentre Mario Monicelli ricercava in Antonio De
Curtis la maschera realista, Pasolini ne tira fuori il lato surreale, presente in tanti filmetti comici
interpretati dal principe della risata, ma mai così prevalente. Affiancandolo al “riccetto” Ninetto Davoli,
Pasolini lo fa dialogare con... un pennuto. Da questa bizzarra composizione esce una riflessione sul
ruolo dell’intellettuale marxista nella società.
Inusuale per il Cineforum è una serata dedicata ai corti e ai mediometraggi. Abbiamo scelto questa
soluzione perché riteniamo che questi film siano tra i lasciti più felici dell’intera produzione
cinematografica di Pasolini (e al contempo non era praticabile, per limiti di orario, accompagnare i due
medi a un lungometraggio). La ricotta risale al 1963, dopo Mamma Roma e racchiude innumerevoli
elementi della poetica dell’autore, dalla cristologia al ruolo dell’artista (qui un regista, interpretato da
Orson Welles!) fino, nuovamente, ai rimandi alla pittura. La terra vista dalla luna e il corto Che cosa sono
le nuvole? ripropongono la strana coppia Totò-Ninetto Davoli.
Chiudiamo la rassegna col controverso Salò o le 120 giornate di Sodoma, un de Sade ambientato tra i repubblichini.
Il film, l’ultimo della carriera, uscito postumo e dopo mille guai con la censura, è sconsigliabile agli spettatrori
impressionabili, o deboli di stomaco. Opera sull’anarchia del potere (l’unica possibile? Il film sembra
suggerirlo), ci offre l’occasione anche per parlare della morte di Pasolini, del tutto ascrivibile agli innumerevoli
misteri d’Italia. O comunque, le cui circostanze restano alquanto oscure.
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Biografia
Noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a
dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo,
lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo
i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le
sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese
gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto
scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua
storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono
dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili.
Imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande ma
con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono
incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima
indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza,
a una tensione morale.
P.P. Pasolini, Scritti Corsari, 1975
I primi anni
Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo
1922 da Carlo Alberto Pasolini, discendente da
un’antica famiglia nobile romagnola, e da Susanna
Colussi, maestra elementare di origini friulane e
contadine.
Nel corso della sua infanzia Pasolini si trasferisce
con la famiglia in numerose città del nord Italia:
da Bologna a Parma, da Conegliano a Belluno,
Cremona e ancora Bologna. A Belluno, nel 1925,
nasce il fratello Guido.
Proprio a causa dei continui spostamenti – per i
quali si definirà: “un nomade privato di un focolare stabile” - Pier Paolo avrà come unico punto
di riferimento Casarsa, in Friuli, paese di origine
della madre con la quale coltiverà sempre un rapporto di simbiosi mentre, al contrario, con il padre
andrà progressivamente accentuandosi un rapporto assai conflittuale.
quietudine che metteva in discussione in ogni momento il mio essere al mondo. [...] Quando mia
madre stava per partorire ho cominciato a soffrire
di bruciori agli occhi. Mio padre mi immobilizzava
sul tavolo della cucina, mi apriva l’occhio con le
dita e mi versava dentro il collirio. È da quel momento simbolico che ho cominciato a non amare
più mio padre.”
Mentre, riferendosi alla madre, confessò:
“Mi raccontava storie, favole, me le leggeva. Mia
madre era come Socrate per me. Aveva e ha una
visione del mondo certamente idealistica e idealizzata. Lei crede veramente nell’eroismo, nella carità, nella pietà, nella generosità. Io ho assorbito
tutto questo in maniera quasi patologica”.
Sin dai tempi della scuola elementare, si nota in
Pasolini una forte vocazione per la scrittura. Annota su un quadernetto, andato poi perduto durante la guerra, i suoi primi componimenti poetici.
Dei suoi rapporti col padre Pasolini ha dichiarato
a Dacia Maraini, in una intervista uscita per Vogue
nel maggio 1971:
“Tutte le sere aspettavo con terrore l’ora della cena
sapendo che sarebbero venute le scenate [...] In
me c’era una iniziale rimozione della madre che
mi ha procurato una nevrosi infantile. Questa nevrosi mi aveva fatto diventare inquieto, di un’in-
È di quell’epoca il conio del termine noto come
“Teta veleta”, che più tardi lo stesso Pasolini spiegherà in questo modo:
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“Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni. Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte
a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le
gambe soprattutto nella parte convessa interna al
fondato l’Academiuta di lenga furlana. Ma non solo.
Per Pasolini l’uso del dialetto rappresentava anche
un tentativo di privare la Chiesa dell’egemonia
sulle masse sottosviluppate, portando a sinistra
l’uso dialettale sino ad allora prerogativa clericale.
ginocchio, dove piegandosi correndo si tendono i
nervi con un gesto elegante e violento. Vedevo in
quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavano l’essere grande in quel gesto di giovanetto corrente. Ora
so che era un sentimento acutamente sensuale.
Se lo riprovo sento con esattezza dentro le viscere
l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio. Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale
- un senso per cui non è stato ancora inventato un
nome. Io lo inventai allora e fu “teta veleta”. Già
nel vedere quelle gambe piegate nella furia del
gioco mi dissi che provavo “teta veleta”, qualcosa
come un solletico, una seduzione, un’umiliazione”.
Gli anni della guerra rappresentano per Pasolini
un periodo estremamente difficile. Nel 1943 viene
arruolato nell’esercito. All’indomani dell’8 settembre si rifiuta di consegnare le armi ai tedeschi e
fugge per tornare, dopo molto peregrinare, a Casarsa
Nel febbraio 1945 un grave lutto segnerà la vita di
Pier Paolo. Il fratello Guido, arruolatosi nella Brigata partigiana Osoppo, viene ucciso presso le
malghe di Porzûs, in provincia di Udine, durante
un’azione compiuta da parte di un’altra formazione di partigiani garibaldini capeggiata da Mario
Toffanin, detto “Giacca”. L’accusa all’Osoppo,
mai provata, era quella di tradimento per aver
avuto contatti con esponenti della X Mas di Junio
Valerio Borghese.
Pasolini metterà in versi la morte del fratello in
una poesia, Corus in morte di Guido, che apparirà
nello “Stroligut” dell’agosto1945.
Fu per via della morte di Guido e del dolore straziante nel quale la madre si rinchiuse, che il rapporto fra Susanna e Pier Paolo divenne ancora più
stretto.
Il Friuli
Durante gli studi superiori, Pasolini crea insieme
a un gruppo di amici un gruppo letterario per la
discussione di poesie. Collabora inoltre a “Il Setaccio”, periodico della Gioventù Italiana Littoria
(G.I.L.) di Bologna e scriverà le prime poesie in
dialetto friulano che, successivamente, raccoglierà
nel volume Poesie a Casarsa (1942).
Il dialetto, o meglio, la lingua friulana, rappresentò
per Pasolini una sorta di opposizione al potere fascista. Infatti, come ebbe a dire in un’intervista a
Enzo Siciliano: “Il fascismo non tollerava i dialetti,
segni dell’irrazionale unità di questo paese dove
sono nato; inammissibili e spudorate realtà nel
cuore dei nazionalisti”. Anche per questo partecipò alla redazione della rivista “Stroligut” insieme ad alcuni amici friulani con i quali aveva
Dopo la laurea, conseguita nel 1945, Pasolini inizia
la sua militanza, aderendo nel 1947 al Partito Co-
Pasolini ai tempi dell’Università
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munista e iniziando una collaborazione al settimanale del partito “Lotta e lavoro”. L’adesione al
P.C.I. non fu facile, a causa dell’uccisione del fratello ad opera di partigiani comunisti e della
contrarietà dei genitori.
Pier Paolo non volle comunque mai strumentalizzare il lutto che colpì la
propria famiglia, per
paura di infangare il
nome di Guido.
anni più tardi, troverà la morte.
Della sua drammatica fuga verso la Città eterna,
Pasolini scriverà:
“Fuggii con mia madre e
una valigia e un po’ di
gioie che risultarono
false, / su un treno lento
come un merci, / per la
pianura friulana coperta
da un leggero e duro
strato di neve. / Andavamo verso Roma. / Andavamo
dunque,
abbandonato mio padre
/ accanto a una stufetta
di poveri, / col suo vecchio pastrano militare / e
le sue orrende furie di
malato di cirrosi e sindromi paranoidee. / Ho
vissuto quella / pagina di
romanzo, l’unica della
mia vita: / per il resto, / son vissuto dentro una
lirica, come ogni ossesso”.
(Pier Paolo Pasolini, il poeta delle ceneri, a cura di Enzo
Siciliano, in “Nuovi Argomenti” n. 67/68, Roma,
luglio dicembre 1980).
La militanza politica di
Pasolini non fu facile, mal
visto dai vertici del P.C.I.
friulano e dagli intellettuali comunisti locali, per
il fatto che si serviva della
lingua del popolo, senza
cimentarsi in soggetti politici.
Il 15 ottobre 1949 la segnalazione del poeta da parte dei carabinieri di
Cordovado per corruzione di minorenni e atti
osceni in luogo pubblico, darà inizio a una umiliante trafila giudiziaria che ne cambierà per sempre la vita. Per questo fatto Pasolini verrà espulso
dal P.C.I.
L’Unità del 29 ottobre 1949 ne dà così l’annuncio:
Gli anni romani
I primi anni romani sono, per Pier Paolo, estremamente difficili. Si trova d’improvviso, catapultato
in un mondo a lui sconosciuto, in una realtà
nuova, quale è quella delle borgate romane.
Disoccupato, costretto a vivere in condizioni precarie, Pasolini inizia a scrivere le prime pagine di
quello che sarebbe poi diventato il suo primo romanzo, Ragazzi di vita, che narra le vicende di un
gruppetto di ragazzi appartenenti al sottoproletariato romano.
“ESPULSO DAL PCI IL POETA PASOLINI
La federazione del Pci di Pordenone ha deliberato
in data 26 ottobre l’espulsione dal partito del Dott.
Pier Paolo Pasolini di Casarsa per indegnità morale. Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a
carico del poeta Pasolini per denunciare ancora
una volta le deleterie influenze di certe correnti
ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di
altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà
raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese”.
Pasolini è distrutto. Espulso dal partito, perso il
posto da insegnante che aveva a Casarsa, il rapporto con la madre che, almeno momentaneamente si incrina, decide di abbandonare l’amato
Friuli. Con la madre si trasferisce a Roma, città
nella quale inizierà una nuova vita e dove, molti
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La madre di Pier Paolo, per sbarcare il lunario, inizia a lavorare presso una famiglia romana, mentre
il padre, ammalato, che nel frattempo ha raggiunto la famiglia nella capitale, si indurisce sempre di più nei rapporti con il figlio.
Pasolini lotta. Si rifiuta di chiedere aiuto ai letterati
che conosce e cerca da solo di risollevarsi. Troverà
lavori che gli permetteranno di non morire di
fame: da comparsa a Cinecittà, a correttore di
bozze. Riuscirà anche a farsi pubblicare qualche
articolo su alcuni quotidiani.
Nel frattempo conosce il grande poeta Sandro
Penna, che diventerà un amico inseparabile. Fa la
conoscenza anche con Sergio Citti, un imbianchino romano che lo aiuterà a imparare il dialetto
romanesco, permettendogli di addentrarsi sempre
di più nell’ambiente delle borgate romane, che diventeranno il mondo che sostituirà, in Pasolini,
quello della amata Casarsa.
successo di pubblico.
Pasolini e il cinema
Pasolini inizia a lavorare stabilmente anche per il
cinema. Dapprima come sceneggiatore per Federico Fellini (Le notti di Cabiria (1957), Mauro Bolognini in Marisa e la civetta (1957) e La giornata
balorda (1960), Francesco Rosi, Florestano Vancini e Carlo Lizzani, per il quale esordisce come
attore nel film Il gobbo (1960).
Lentamente e faticosamente Pier Paolo si lascerà Del 1957 è la raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci
alle spalle i primi difficili anni romani. Stringe ami- e nel 1961 realizza il suo primo film da regista.
cizia con numerosi intellettuali fa cui Giorgio Ca- Si tratta di Accattone, con Franco Citti, fratello
proni, Carlo Emilio Gadda, Attilio Bertolucci. I dell’amico Sergio, nella parte del protagonista.
suoi scritti cominciano ad essere pubblicati e con L’anno successivo sarà la volta di Mamma Roma,
Ragazzi di vita, uscito nel 1955 per Garzanti, as- sempre con Citti e con una intensa Anna Magnani.
sume un ruolo centrale nel panorama letterario Nel 1963 La ricotta, episodio del film collettivo
italiano.
Ro.Go.Pa.G., viene sequestrato e Pasolini imputato
Scritto in dialetto romanesco, il romanzo suscitò per vilipendio alla religione.
scalpore e non poche obiezioni di carattere mora- Seguiranno poi, fra le opere cinematografiche più
listico. La presidenza del Consiglio dei ministri, importanti, Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccelnella figura di Antonio Segni, lo taccerà di porno- lacci e Uccellini (1965), Edipo Re (1967) Teorema
grafia, per il tema della prostituzione maschile. (1968), Porcile (1969), Medea (1969).
D’altro canto anche la critica, soprattutto quella Tra il 1970 e il 1974 lavora alla “Trilogia della vita”.
marxista, fu feroce nei confronti del romanzo ma, Tre film, Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury
nonostante questo, e nonostante l’esclusione dal (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974), tratti riPremio Strega, Ragazzi di vita divenne un grande spettivamente dalle novelle di Giovanni Boccac-
NELLA PAGINA PRECEDENTE - copertina della prima edizione delle Poesie a Casarsa
SOPRA - Pasolini e la periferia romana
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cio, dai racconti medioevali dell’inglese Geoffrey
Caucher e dalle novelle arabe del Fiore delle mille e
una notte.
Pasolini si dedicò alla realizzazione di queste tre
opere partendo dall’idea che, poichè la borghesia
condannava, con una visione medioevale, il sesso,
diventava necessario denunciare questa chiusura,
portando il nudo e il sesso all’interno delle sue
opere. Ma poiché la consapevolezza che semplici
scene di nudo avrebbero potuto essere facile preda
dei censori, utilizzò alcuni capolavori della letteratura antica per essere meno vulnerabile sotto questo punto di vista. L’intento di Pasolini era
pertanto quello di innalzare un inno alla vita esaltando l’uomo libero e senza freni.
Del 1975, uscito postumo dopo la morte del
poeta, è Salò o le 120 giornate di Sodoma, liberamente
tratto dalle “Centoventi giornate di Sodoma” del
Marchese De Sade. Il film, trasposto nel 1944-45
durante la Repubblica di Salò, è una riflessione
amara e lucida sulla degenerazione del potere. Potere che si distacca dall’umanità trasformandola in
oggetto e dove il sesso, come ebbe a dire lo stesso
regista “diventa la metafora sia pure in modo onirico e stravolto, di ciò che oggi il potere fa dei
corpi”, cioè li mercifica. Nell’ultimo film di Pasolini l’essenza del potere è fatta di brutalità, sopraffazione, viltà e, soprattutto, certezza nell’impunità.
Il ’68 di Pasolini
di Roberto Carnero
(Docente di Letteratura italiana contemporanea presso
l’Università degli Studi di Milano)
Sembrerebbe di trovare una certa sintonia intellettuale tra
le istanze della contestazione sessantottesca e le riflessioni
che Pier Paolo Pasolini andava compiendo in quegli anni
sulla società italiana. Tuttavia negli scritti pasoliniani
emerge anche una forte antipatia verso le pose esteriori del
movimento.
recitavano le parole del decreto firmato da Ferdinando Mautino, il dirigente della Federazione comunista di Udine che prese la decisione.
Del resto, il suo comunismo ‘inquieto’ aveva trovato espressione in alcuni versi celeberrimi del
poemetto Le ceneri di Gramsci (il componimento
eponimo dell’omonima raccolta, 1957), in cui, rivolgendosi all’urna del fondatore del Partito comunista italiano, scriveva: “Lo scandalo del
contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con
te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere”. E alcuni versi più avanti il poeta spiega tale
contraddizione: “Attratto da una vita proletaria /
a te anteriore, è per me religione // la sua allegria,
non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la
sua / coscienza”.
Davanti a Gramsci, assurto a simbolo dell’ortodossia marxista, Pasolini dichiara che il suo amore
per il mondo popolare è qualcosa di viscerale, di
estraneo a ogni ideologia. La conquista della coscienza di classe, che il comunismo indicava come
l’obiettivo prioritario, in quanto preliminare alla
possibilità di una lotta di massa finalizzata alla rivoluzione proletaria, avrebbe significato per il proletariato una maggiore consapevolezza politica,
civile e culturale. Ma questo avrebbe finito con il
compromettere quell’autenticità, quella originarietà, quella spontaneità che Pasolini vedeva come
le caratteristiche fondamentali di quel proletariato
e di quel sottoproletariato che nei suoi anni friulani prima e in quelli romani poi aveva imparato a
conoscere. Da qui la sua sofferta posizione politica: da una parte razionalmente desidera, insieme
con il Partito e aderendo al suo programma, l’evoluzione culturale e il miglioramento delle condizioni materiali di vita dei lavoratori; ma dall’altra
intimamente teme che quel processo di cambiamento potrebbe determinare la corruzione dell’ingenua essenza proletaria.
La contestazione secondo Pasolini
Il ‘68 vede dunque Pasolini in una situazione
Pasolini e la sinistra italiana
Controverso e ambivalente il rapporto di Pasolini nuova e delicata. Destò scalpore la sua poesia Il
Pci ai giovani!!, scritta in occasione degli scontri fra
con il ‘68.
A quell’epoca la figura di Pier Paolo Pasolini gli studenti che occupavano la Facoltà di Architet(1922-1975) era quella di uno degli intellettuali di tura di Roma e i poliziotti. Lo scrittore prendeva
sinistra più in vista nel nostro Paese. Anche se i posizione contro gli studenti e a favore dei polisuoi rapporti con il Pci non furono mai dei più ziotti, poiché i primi erano “figli di papà”, mentre
rosei, a far data da quando, alla fine del 1949, era i secondi erano figli del popolo, costretti dalla loro
stato espulso dal Partito in seguito ai fatti di Ra- povertà a indossare la divisa. La critica alla società
muscello “per indegnità morale e politica”, come e al sistema messa in atto da parte degli studenti|10|
contestatori per Pasolini era solo apparente, in
quanto interna alla borghesia e da questa del tutto
assorbita.
Ma il ‘68 è per Pasolini anche l’anno del film e del
romanzo Teorema. L’avvento di un Ospite in una
famiglia alto-borghese produce un autentico terremoto. Seducendo tutti quanti – madre, padre,
due figli, oltre alla domestica – attraverso l’esperienza di una sessualità trasgressiva, mette in crisi
le loro certezze e li spinge all’autodistruzione, una
volta che, come all’improvviso è arrivato, altrettanto improvvisamente partirà da loro.
L’unico personaggio su cui la sua visita avrà un effetto positivo è quello della domestica, in quanto,
appartenendo al popolo, alla civiltà contadina, a
lei è consentita quell’esperienza del sacro (a cui allude la figura dell’Ospite) che alla borghesia, la
quale ha ridotto la fede a religione, razionalizzata
e rassicurante con i suoi codici morali, invece risulta preclusa.
La protesta antiborghese
Pasolini disprezza e detesta la borghesia, e, andando avanti, la disprezzerà e detesterà sempre
più, man mano che, con il miglioramento delle
condizioni materiali del Paese e poi con il boom
economico, assisterà all’inarrestabile processo di
“borghesizzazione” della società italiana.
Si può dire – come ha scritto Filippo La Porta –
che “l’avversione per la borghesia, intesa non
tanto come classe sociale quanto come mentalità,
quasi come malattia, accompagna Pasolini fino
all’ultimo”. Ma in cosa consiste questa “mentalità”? Spiega La Porta: “Nel ritenere che persone,
affetti, corpi, oggetti, cose, insomma la vita, si possano possedere. Nel pretendere di codificare ciò
che è incodificabile”.
“Borghesia”, allora, non sarà più una classe, ma
una condizione antropologica diffusa presso tutti
gli strati sociali, una condizione che si basa sulla
distruzione dell’originario patrimonio della millenaria civiltà contadina e popolare, a vantaggio
della nuova civiltà di massa.
A questo tema dedicherà molte pagine, percorse
da una fortissima vis polemica, degli Scritti corsari
(1975), la raccolta degli articoli usciti tra il ‘73 e il
‘75 principalmente sul Corriere della Sera, in cui
parlerà del “nuovo fascismo” della società dei consumi.
Ma lo vediamo già sintetizzato in alcuni versi della
poesia Il glicine (nella raccolta La religione del mio
tempo, 1961), scritta alle soglie del miracolo economico, quando la televisione già cominciava a entrare, con il suo potere seduttivo (anche sul piano
linguistico, nel senso di un appiattimento delle
possibilità espressive della lingua stessa), nelle case
degli Italiani: “Il mondo mi sfugge, ancora, non
so dominarlo / più, mi sfugge, ah, un’altra volta è
un altro... // Altre mode, altri idoli, / la massa,
non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere
/ al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni
schermo, a ogni video / si abbevera, orda pura che
irrompe / con pura avidità, informe / desiderio
di partecipare alla festa. / E s’assesta là dove il
Nuovo Capitale vuole. / Muta il senso delle parole: /chi finora ha parlato, con speranza, resta /
indietro, invecchiato”. Evidentemente la ‘contestazione’ di Pasolini era iniziata ben prima del ‘68.
Scritti Corsari
“Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non
quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o
dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di
non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a
nessun patto che non sia quello con un lettore che io del
resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.”
Scritti corsari è una raccolta (edita da Garzanti nel
1975) di articoli che Pasolini pubblicò sulle colonne del Corriere della Sera, Tempo illustrato, Il
Mondo, Nuova generazione e Paese Sera, tra il
1973 ed il 1975 e che comprende una sezione di
documenti allegati, redatti da vari autori.
Negli Scritti si evidenziano i nodi centrali del pensiero pasoliniano. Vengono analizzati temi e fatti
che toccano in maniera più o meno evidente la
vita e la coscienza degli italiani. Si tratta di una analisi lucida e priva di retorica, a volte spietata e sgradevole, della società italiana dell’epoca. In molti
casi i temi trattati risultano di estrema attualità ancora oggi, benché siano passati quarant’anni. Pasolini denunciava il degrado culturale e morale
della società, scontrandosi con il conformismo
imperante e, come sempre aveva fatto, andava
controcorrente, come un corsaro all’assalto delle
navi mercantili.
Nei suoi articoli toccava temi delicati come
l’aborto, sul quale scatenò una violenta polemica,
il divorzio, la sessualità e l’omosessualità. I giovani,
contro i quali scrive un articolo assai polemico che
apparve sulle colonne del Corriere della Sera il 7
gennaio 1973, dal titolo “Contro i capelli lunghi”,
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IN ALTO - Pasolini gioca a calcio con dei ragazzi delle borgate
SOPRA A SINISTRA - copertina della prima edizione degli Scritti corsari
SOPRA A DESTRA - dall’alto in basso: Pasolini e Orson Welles sul set de La ricotta;
Pasolini con Anna Magnani sul set di Mamma Roma
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sostenendo la tesi dell’omologazione della società
italiana con il conseguente superamento del concetto di “destra” e “sinistra”. Di questo fenomeno, che all’epoca creò un grosso scandalo,
Pasolini ne fornisce un’interpretazione semiologica, cioè attraverso l’analisi dei comportamenti e
dei costumi.
Pasolini racconta, in questi articoli, l’Italia. Un’Italia che non riconosce più e che rifiuta; un’Italia
corrotta che verrà ben descritta in Salò, il suo ultimo film.
Gli ultimi anni
A partire dal 1970 Pasolini inizia a lavorare a Petrolio, che sarebbe stato il suo ultimo romanzo,
uscito postumo per Einaudi in forma incompiuta
sotto forma di frammenti e appunti. In Petrolio
tratta temi scottanti quali l’Eni e la morte di Enrico Mattei con il coinvolgimento di Eugenio
Cefis e dei servizi segreti. Tratta delle stragi di
stato e della strategia della tensione.
Pasolini, di questa sua ultima fatica diceva, nel
gennaio del 1975: “Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita.
Non voglio parlarne, però basti sapere che è una
specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di
tutte le mie memorie”. E allo scrittore Paolo Volponi confidò: “Ci sono tutti i problemi di questi
venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il
petrolio sullo sfondo come grande protagonista
della divisione internazionale del lavoro, del
mondo del capitale che è quello che determina poi
questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni
di sudditanza della nostra borghesia, del nostro
presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto,
e ci saranno vari protagonisti. Ma il protagonista
principale sarà un dirigente industriale in crisi”.
Nelle intenzioni dello scrittore il romanzo avrebbe
dovuto contare di circa duemila pagine.
In esso, nei frammenti, nei capitoli, nelle note e
negli appunti che Pasolini ci ha lasciato, c’è tutta
la storia del nostro paese nel periodo che va dagli
anni Sessanta agli Ottanta.
Petrolio appare anche come un libro in cui Pasolini
mette molto di se stesso. Come, ad esempio, nel
seguente brano:
«Carlo guardava quei fascisti che gli passavano davanti. […] Le persone che passavano davanti a
Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia e del benessere, corrotti e di-
strutti dalle mille lire di più che una società “sviluppata” aveva infilato loro in saccoccia. […] I
giovani avevano i capelli lunghi di tutti i giovani
consumatori, con cernecchi e codine settecentesche, barbe carbonare, zazzere liberty; calzoni
stretti che fasciavano miserandi coglioni. La loro
aggressività, stupida e feroce, stringeva il cuore.
[…] Quella massa di gente sciamava per quella
vecchia strada senza il minimo prestigio fisico,
anzi fisicamente penosa e disgustosa. Erano dei
piccoli borghesi senza destino, messi ai margini
della storia del mondo, nel momento stesso in cui
venivano omologati a tutti gli altri». (pp. 501-503)
In Petrolio vi è addirittura (p. 546, Ed. Einaudi,
1992) un inquietante passaggio, un appunto premonitore:
“La bomba viene messa alla stazione di Bologna.
La strage viene descritta come una ‘Visione’”.
La strage alla stazione di Bologna è del 2 agosto
1980 e, in questo suo ultimo romanzo incompiuto,
pare che la “visione” l’abbia avuta proprio Pasolini.
Intorno a Petrolio ruota un mistero andato via via
infittendosi, soprattutto da quando, nel 2010,
Marcello Dell’Utri allora senatore, nonché collezionista di libri antichi, dichiarò di essere in possesso di un manoscritto facente parte dell’opera
di Pasolini e andato misteriosamente scomparso.
In realtà il manoscritto - un capitolo mancante che
avrebbe dovuto intitolarsi “Lampi sull’Eni” e che
avrebbe dovuto contenere verità sull’uccisione di
Enrico Mattei - Dell’Utri non lo mostrò mai, nonostante avesse dichiarato di volerlo presentare
alla Mostra del libro antico di Milano.
E guarda caso i personaggi principali, pur con
nomi di fantasia, facevano chiaramente riferimento a Enrico Mattei e al suo vice Eugenio
Cefis.
Nel 1972 Pasolini inizia una collaborazione con
Lotta Continua e firma, insieme ad alcuni esponenti di questa formazione, un documentario dal
titolo 12 dicembre, sulla strage di piazza Fontana.
Dal 1973 inizia la collaborazione con il Corriere
della Sera, per il quale firmerà molti articoli, alcuni
dei quali rientreranno nella raccolta degli Scritti corsari.
Nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, Pasolini
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viene ucciso sul litorale di Ostia, in via dell’Idroscalo Il corpo, barbaramente straziato, viene ritrovato la mattina da una donna, Maria Teresa
Lollobrigida, Toccherà all’amico carissimo Ninetto Davoli riconoscere il corpo del poeta
“I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla
fronte, escoriata e lacerata. La faccia deformata
dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nere, livide
e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita
della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella
sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso
destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra
divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace,
sui lombi, con il segno dei pneumatici della sua
macchina sotto cui era stato schiacciato. Un’orribile lacerazione tra il collo e la nuca.
Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore
scoppiato”. (da: Perizia
compiuta sul cadavere di Pasolini, Corriere della
Sera, 2 novembre 1977)
Nella notte i carabinieri
fermano un giovane diciassettenne, Giuseppe
Pelosi, detto “Pino la
rana”, alla guida di una
Alfa 2000 GT che risulterà di proprietà di Pasolini. Il ragazzo, interrogato
dai carabinieri, di fronte all’evidenza dei fatti, confessa
l’omicidio. Racconta di aver incontrato
Pasolini presso la Stazione Termini e che lo scrittore gli aveva promesso un regalo se fosse andato
con lui. Dopo una cena in un ristorante, secondo
il racconto di “Pino la rana”, i due avrebbero raggiunto il litorale di Ostia presso una spianata che
viene normalmente chiamata Idroscalo. Un luogo
degradato, pieno di baracche abusive. Lì, secondo
la versione di Pelosi, il poeta avrebbe tentato un
approccio sessuale e, vistosi respinto, avrebbe reagito violentemente. La reazione di Pasolini
avrebbe scatenato la feroce reazione del ragazzo.
Il processo che segue porta alla luce retroscena inquietanti. Si ipotizza da diverse parti il concorso
di altri nell’omicidio. Pasolini muore perché la sua
macchina gli passa ripetutamente addosso, spappolandogli il fegato e il cuore, spaccandogli le
ossa. Prima lo scrittore era stato massacrato con
colpi inferti da oggetti contundenti. Una violenza
tale che Pelosi, 17 anni, mingherlino (era alto 1
metro e 71 e pesava 70 kg), non può certo aver
compiuto. Senza contare che, quando viene arrestato non ha praticamente macchie di sangue addosso, solo due o tre, sul polsino, sui pantaloni e
sotto le suole. E non evidenzia neanche segni di
colluttazione. Eppure Pasolini si era ben difeso
durante l’aggressione.
Non verrà mai fatta chiarezza. Pino Pelosi viene
condannato a una pena detentiva di nove anni e
sette mesi in tutti e tre i gradi di giudizio e risulterà essere l’unico colpevole per la
morte di Pasolini.
Eppure… eppure le
ombre sul delitto Pasolini sono molte. Troppe.
A cominciare dalle ipotesi che quello di Pasolini sia stato un delitto
“politico”. Perché Pasolini stava scrivendo Petrolio, e in Petrolio parlava
dell’Eni e faceva ipotesi
sulla morte di Enrico
Mattei e del coinvolgimento di Eugenio Cefis,
suo braccio destro (e questo capitolo non fu mai ritrovato fra le carte dello scrittore,
come abbiamo già visto). Perché Pasolini aveva scritto un articolo sul Corriere della Sera
dal titolo: “Cos’è questo golpe? Io so” nel quale
dichiarava di conoscere i nomi dei mandanti delle
varie stragi di stato, da piazza Fontana, a piazza
della Loggia, all’Italicus, pur non avendo le prove
necessarie per denunciarli. Perché Pasolini sapeva
“i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato ‘golpe’ (e che in realtà è una serie di ‘golpe’
istituitasi a sistema di protezione del potere)”.
Insomma, perché Pasolini era un personaggio che
dava fastidio. Un intellettuale, per di più comunista, che andava a ricercare verità scomode.
Quindi, perché Pasolini era un soggetto da eliminare.
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COS’È QUESTO GOLPE? IO SO
di Pier Paolo Pasolini
Corriere della Sera, 14 novembre 1974
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe”
istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del
12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e
di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque,
sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti
autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti”
autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi,
opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della
Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della
mafia), hanno prima creato (del resto miseramente
fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il
‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione
della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista,
a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno
dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a
vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la
tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino
a questo momento, e forse per sempre, senza nome
(per creare la successiva tensione antifascista). Io so i
nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro
a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a
Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a
dei personaggio grigi e puramente organizzativi come
il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno
dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si
sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che
cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere
tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che
non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lon-
tani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare
l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del
mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè
attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti
e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti
altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io
in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ‘68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta
dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio:
è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche
delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur
avendo forse delle prove e certamente degli indizi,
non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma,
insieme, non è compromesso nella pratica col potere,
e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere:
cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere,
tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla
possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come
intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in
quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi
partecipare del diritto ad avere, con una certa alta
probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in
un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a
fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica
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sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce
un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile:
quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se
non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei
chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e
per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così
vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un
grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un
Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un
Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni
tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti - e il resto dell’Italia, si è aperto
un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è
proprio per questo che esso può oggi avere rapporti
stretti come non mai col potere effettivo, corrotto,
inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici,
quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali
sono incommensurabili, intese nella loro concretezza,
nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi,
prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse
salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra
due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno
nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino
al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro
intatto e non compromesso, non può essere una ragione
di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo
oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è
sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non
possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così
drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se
l’intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma
soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove
o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili
reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose
stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno
nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto
farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al
corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto
normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello
che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il
proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare
momento della storia italiana - di fare pubblicamente
una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica.
Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella
che - quando può e come può - l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e
non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia
debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e
credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non
aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi
di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come
me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a
un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si
è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o
poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno
condiviso con essi il potere: come minori responsabili
contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel
caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in
definitiva il vero Colpo di Stato.
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I FILM
MAMMA ROMA
SINOSSI
Mamma Roma, una prostituta non più giovane, in seguito al
matrimonio del suo protettore Carmine, con una contadina, decide di abbandonare il mestiere. Desiderosa di cominciare una
nuova vita insieme a suo figlio Ettore, cresciuto in campagna,
compra una casa alla periferia di Roma e si aggiudica un banco
al mercato rionale. Per Ettore, però, lei non è altro che un'estranea e a nulla valgono i suoi sforzi per garantirgli un lavoro e un
avvenire sicuro. Mentre Carmine la spinge di nuovo sul marciapiede, minacciandola di raccontare la verità a Ettore, questi, che
è venuto a sapere da tempo del passato di sua madre, lascia il
lavoro per dedicarsi a piccoli furti con conseguenze che si riveleranno fatali per tutta la famiglia.
CRITICA
Pasolini ha voluto ricordare che il tema dell'amor materno, assente dai suoi romanzi, non lo è nella sua poesia; e che in questo film [...] c'è un'effusione
autobiografica (come c'è, del resto, nella vibrante passione con cui Anna Magnani ha interpretato il suo
ruolo). Alcuni difetti di logica [...] diventano “maniera”,
urtano contro la inesorabilità dell'impostazione ideale,
la raffrenano e la smorzano . [...] Pur essendo centrato
su fatti più commoventi e su una visione più ampia e
aperta della realtà, noi troviamo che Mamma Roma rimane artisticamente indietro ad Accattone [...].
Ugo Casiraghi, l’Unità, 1° settembre 1962
REGIA: Pier Paolo Pasolini
INTERPRETI: Anna Magnani, Ettore
Garofalo, Franco Citti, Silvana Corsini,
Luisa Loiano, Paolo Volponi
SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini
SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini,
Sergio Citti - (coll. ai dialoghi)
FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli, Franco
Delli Colli - (operatore)
MUSICHE: Carlo Rustichelli (coordinamento) - Brani di Antonio Vivaldi.
La canzone "Violino tzigano" di Cherubini
e Bixio è cantata da Joselito.
MONTAGGIO: Nino Baragli
SCENOGRAFIA: Flavio Mogherini
ARREDAMENTO: Massimo Tavazzi
AIUTO REGIA: Carlo Di Carlo
DURATA: 106’
PAESE DI PRODUZIONE: Italia
ANNO DI PRODUZIONE: 1962
Mamma Roma è un piccolo capolavoro sul tramonto degli oracoli. L’anarchia di Pasolini qui è sentita
nel profondo. Alla solitudine disperata di Accattone risponde l’impossibilità di essere normale di
Mamma Roma e qui si coglie con maggiore invettiva, la responsabilità della società verso quella comunità abbandonata, soggiogata, offesa... laggiù, nei bassifondi della scala conviviale. La povertà,
quando non serve come carne da cannone, serve come serbatoio elettorale. I boia sono sempre gli
stessi. Anche le parate militari, ideologiche, culturali... che i semidei del parlamento inscenano ad ogni
giro di boia... servono a un piccolo numero di potentati a mantenere l’ordine costituito. E Pasolini
(sulle scorte di Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Thoreau, Ferrer, Russell...) insegna che la libertà di un
uomo non è nulla se anche tutti gli altri uomini non sono liberi. L’obbedienza non è mai stata una
virtù.
Il patrimonio linguistico/figurativo di Mamma Roma è enorme. Le contaminazioni, gli scippi, i rimandi
ad altri autori cinematografici, pittori o fotografi sono forti e non sempre denunciati. È la storia di
un’educazione sbagliata. Di un’iniziazione alla vita (anche sentimentale) che Goethe, Flaubert, Proust,
Rilke, Dostoevskji... hanno ampiamente trattato nei loro libri immortali. Pasolini butta via ogni carico
letterario e rovescia sulla “tela bianca” una plasticità dell’immagine ereditata dal Masaccio e più ancora
ri/mescola le figurazione Neorealista con l’iconologia della povertà che fuoriesce dai lavori di Henri
Cartier-Bresson o Walker Evans.
Il cinema di Pasolini (non importa se in bianco e nero o a colori), è una specie di tableau emozionale
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che rivisita la dialettica della putrefazione e del superamento della cultura di regime o domestica. I
chiaroscuri, il bianco e nero o il colore... sono disseminati secondo una morbidezza/grana bidimensionale che esalta la figura su uno sfondo
arcaico che annulla il paesaggio e interrompe ogni
flusso storico. “Amo lo sfondo, non il paesaggio”
(Pier Paolo Pasolini). E ciò che viene dal suo cinema poetico non è per oggi, è per domani.
Pino Bertelli, www.pierpaolopasolini.eu
DIARIO DI LAVORAZIONE DEL FILM MAMMA ROMA
DELL’AIUTO REGISTA CARLO DI CARLO
non conosce nulla di Buñuel e che vorrebbe finalmente
vedere il film.
Tratto da Teoria e tecnica del film in Pasolini, a cura di
Antonio Bertini, Bulzoni 1979 e da L’Europa letteraria,
III, n. 17, ottobre 1962, Roma.
Lunedì, 9 aprile
Il ciak a Casal Bertone. C’è la troupe al completo:
Pasolini, Ettore, la Magnani, Franco Citti e suo fratello
Sergio, l’insostituibile aiutante e collaboratore di Pier
Paolo, Tonino Delli Colli e suo cugino Franco
operatore alla macchina l’assistente Gioacchino Sofia,
Lina D’amico, la segretaria di edizione, Boschi,
Franchi, Bruno Frascà, Casati della produzione,
Mariano il capo, con Gianduia, Alberto, Alfredino,
Profili, Conti, Silvio Citti e gli altri. É la stessa troupe
di Accattone. Il sole oggi fa nascondino e si girano
quindi solo pochi esterni: l’arrivo a casa di Mamma
Roma con Ettore. Franco Citti che nel film sarà
Carmine, il pappone di Mamma Roma, non si è fatto
crescere i baffi come doveva. Li porterà finti e
assomiglierà a Don Fefè Cefalù, il personaggio di
divorzio all’italiana, interpretato da Mastroianni. C’è
una schiera foltissima di fotografi che salutano il
ritorno di Nannarella sul set e il ciak di Mamma Roma.
- Sarà meglio di Accattone? - Non sanno dire altro. A
pranzo Pier Paolo mi parla del prossimo film che girerà
prima di quello africano, prima de Il padre selvaggio.
Sarà uno sketch per un film a episodi sul vitalismo
degli italiani. In breve la storia è questa: si sta girando
un film storico, la scena della passione di Cristo. Sul
Calvario le tre croci, la Maddalena, due angeli... il
protagonista è il ladrone buono. Tutto è pronto; il
regista si agita, strilla, urla. Si dispongono gli attori sulle
croci, da ultimo il ladrone buono. Ma nell’attimo in cui
viene inchiodato, è colpito da un infarto. Gli parlo di
Buñuel. Penso anche all’inizio di Mamma Roma. Mi
ricorda l’ultima cena di Viridiana. Pasolini mi dice che
Martedì 10 aprile
Oggi si girano gli interni nella stanza della casa di Casal
Bertone. E naturalmente fuori c’è il sole che serve per
svelare Pasolini calciatore. La Magnani incontra Citti:
“Buongiorno, signor Citti, sempre stanco della vita,
no?”. Franco non si scompone. Si gira dodici volte una
scena con la Magnani, ma non diventerà una abitudine.
Arriveremo a girare cinquantasei inquadrature in una
giornata. Pasolini vuole “seguire” Anna nella battute e
desidera indicarle le sfumature, i toni che lei ha già
trovato ovunque nelle didascalie della sceneggiatura
rigorosissima. Quasi non bastasse questa, Pasolini
disegna nervosamente ogni inquadratura su dei fogli
volanti con accanto il dettaglio tecnico e l’eventuale
battuta. Serve anche per Delli Colli, che capisce a volo
ciò che Pier Paolo vuole. Tra l’altro, è un abile
giocatore di luci. Si prepara la scena del tango, sotto
gli occhi di Bini, in visita alla troupe. Il lavoro prosegue
fino al tardo pomeriggio. Sarà il ritmo di tutti i giorni.
Dopo si andrà a vedere il “girato” del giorno prima.
Bini non vuole nessun estraneo - oltre la Magnani,
Delli Colli, Salina (l’assistente) e me - tranne Ettore che
si abitua da oggi a “vedersi”. Forse non si è proprio
reso conto di che cosa sia il cinema. Non nasconde
esteriormente una certa ribellione all’immagine, ma in
fondo è intimamente soddisfatto e contento.
Venerdì 13 aprile
Continuiamo gli interni a Casal Bertone. La Magnani
è di un altro umore, ora che si è “rodata” e si è intesa
con Tonino. Ha indovinato le luci per il suo naso, che
lei chiama “la sciabola”. Seguita però a discutere con
Pier Paolo perché insiste a farle recitare le battute
staccate e mai unite. Mai una scena intera. Dice che
“recita” e non è naturale come la vuole lui, girando in
questo modo inconsueto. L’odio, la rabbia,
l’umore, insomma, improvviso e secco com’è
richiesto dal copione - non può essere
“estratto” battuta per battuta. Ma Pasolini
insiste. Le discussioni seguiteranno anche nei
giorni a venire e Anna alla fine prenderà
l’abitudine e ne sarà contenta. Oggi si girano
anche le prime scene con Carmine (Franco
Citti). È un attore nato, un temperamento
eccezionale. Non occorre dirgli la battuta più
di una volta, non occorre che Pasolini gli dica
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niente oltre alcuni suggerimenti e la posizione fisica.
Lo chiamano Fefè; sta al gioco e recita alcune battute
in siciliano. Ettore parla con gli amici dell’intervista che
hanno strappato a Franco nell’ultima trasmissione di
“Cinema d’oggi”. L’artificio televisivo è stato
esemplare e sono riusciti a presentarlo come volevano.
Franco invece è tutto il contrario: basta rimanere poco
tempo con lui e ci si rende conto. È difficile capirlo
perché non dà confidenza, è scontroso, ha un habitus
esteriore che è esattamente il contrario di se stesso.
(Solo Pasolini l’ha capito). Fa il cinema perché
Accattone gli ha aperto questa strada, ma fa l’attore
così come un altro mestiere. Tutto ciò che guadagna
lo spende e non gli
interessa; perché - dice - se
questa esperienza dovesse
finire, ricomincerei tutto
da capo.
Sabato 14 aprile
Finiti gli ultimi esterni a
Casal Bertone, finalmente ci
spostiamo. Sembravamo
dei confinati.
Gli interni per ora sono
finiti e si va, nonostante
l’inclemenza del tempo un cielo grigio e buio che promette pioggia, un sottile
e continuo vento di tramontana che agita mulinelli di
polvere - a Torre Spaccata, al villaggio Ina-Casa, dietro
Cinecittà. Ogni giorno scopriamo una Roma inedita,
che Pasolini in questi anni è andato a cercare con la
pazienza, l’attenzione e l’osservazione di un
esploratore. Si gira la scena della “fontanella” dove
Ettore, preso a botte dai compagni, arriva grondante
di sangue e incontra un vecchio “frocio” che lo
spaventa, e scappa. Sarà una scena che ci perseguiterà
giorni e giorni. Infatti il tempo non ci darà pace quasi
fino agli ultimi giorni di riprese. Alla fine poi questa
scena sarà tolta, al montaggio. C’è un prato
lunghissimo che pare una collina e un deserto
contemporaneamente. Un muretto, vicino, a strisce
nere e bianche. In fondo una torraccia e, ai lati, enormi
caseggiati popolari - una distesa - che paiono un muro.
In proiezione vediamo tutto il girato. Ci sono delle scene
stupende, quella del tango soprattutto. La Magnani è
molto contenta e Pier Paolo questa volta non sa
nascondere la sua soddisfazione e il suo compiacimento.
Lunedì 16 aprile
Pier Paolo mi dice che il commento musicale di
Mamma Roma sarà costituito da brani del Cimento
dell’armonia e dell’invenzione e del Concerto di San
Lorenzo di Antonio Vivaldi. Si parla di musica. Chiedo
se gli piace la musica elettronica, “Non mi piace
Antonioni, non mi piace l’arte astratta e nemmeno la
musica elettronica”. Nei prossimi giorni ci saranno
accese discussioni.
Giovedì 19 aprile
Dopo alcuni esterni - siamo stati a Guidonia, nei giorni
scorsi - eccoci di nuovo in interno. Siamo alla cava
Aurelia, dietro San Pietro, per girare le scene del ricatto.
C’è Luisa Orioli che nel film sarà Biancofiore, la
compagna di vita di Mamma Roma. Lui, il ricattato è
un certo signor Pellisier (La Paglia è il vero nome)
proprietario di un ristorante, il quale darà a Ettore un
posto di cameriere nel suo locale. È altissimo con una
faccia allungata e grassoccia, la fronte molto alta e i
capelli tutti dietro. Lo si trova sempre in un bar e non
si sa bene cosa faccia
nella vita. Non è stato
scelto casualmente da
Pier Paolo - come
d’altronde non lo è stato
nessun altro dei suoi
personaggi - ma questo
in modo particolare.
Assomiglia a qualcuno...
Venerdì 20 aprile
Come Accattone ebbe la
Morante, così Mamma
Roma
avrà
Paolo
Volponi. Sarà il prete, a cui Mamma Roma andrà a
chiedere di sistemare suo figlio. Rifiuta il posto di
manovale che il prete le offre e Mamma Roma cercherà
qualcosa di più degno. Siamo ancora nella casa di
Biancofiore: una stanzetta di poco più di quattro metri
quadrati. Incredibile davvero che in questa superficie
trovino posto la troupe, Biancofiore, Pellisier, la
Magnani, Zaccaria, Pasolini e noi, oltre a quel cimitero
di luci e di croci-sostegno appesi alle pareti e al soffitto.
Vengono Moravia e Levi a trovare Pasolini. Ma
Moravia è impaziente, non riesce a fermarsi più di
pochi minuti, mentre invece Levi scopre luoghi
bellissimi da dipingere, è divertito della definizione di
Pier Paolo: “Geova onirico e preconfessionale”.
Sabato 28 aprile
Franco Citti è stato arrestato. Pasolini sapeva solo del
fatto, ma non dell’arresto. È accaduto ieri sera a
Piazzale Flaminio che a beneficio degli automobilisti è
stato mosso e rimosso, coperto di bianco e di nero, di
strisce e di zebre e pare diventato un parco per le
automobiline dei ragazzini. Franco e un amico,
ubriachi, in macchina, avrebbero “assalito”, con
ingiurie, due dipendenti comunali che stavano
rinfrescando di bianco alcune strisce, nel nuovo caos
del piazzale, insultato pubblici ufficiali e fatto gesti
osceni. Domani si scatenerà un’altra delle solite
vergognose campagne della nostra stampa perbene.
Non sembrerà vero a questi giornalisti di avere in
mano il nuovo caso di quello che viene definito “il suo
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pupillo”, per sputare sulla figura e sull’opera di
Pasolini. Quanti meriteranno, domani, un epigramma?
Giovedì 3 maggio
A Cecafumo. Laggiù l’acquedotto con una fila
interminabile di baracche, le baracche degli umili penso ai Rudy di via Veneto che ubriachi e molestatori,
ma di altra condizione sociale... vengono accompagnati
alla loro casa dopo gli schiamazzi notturni, dagli agenti
che chiedono scusa ai loro genitori - un prato
lunghissimo, verde con l’erba alta e qualche rudere
sparso qua e là, circondato da una cintura di case
enormi, bianche, a ventaglio: un paesaggio stranissimo,
il più strano che ho visto qui a Roma. Il sole è
infuocato e bruciante. Mi viene in mente una poesia di
Pasolini: Al sole. “No, non a noi: tu manchi / a loro,
che pure vivono a livelli / d’esistenza di sole, in
pienezza, / e tra le baracche e sterri, / prati zeppi di
canne e d’immondezza, / sentono in questa
disorientata brezza, / con altro cuore, il tuo non
esserci... Io sono qui, nel loro / mondo (ma sempre al
mio impoetico / livello d’uomo colto, come sopra /
un muro che si sgretola): / col vero cuore sento che tu
manchi, sole”. Con Pier Paolo in macchina parliamo
di Franco. Si confesserà, con la bocca amara e i ricordi
vivi, al registratore, con me, isolato dagli altri.
Venerdi 4 maggio
Il ritmo del film sembrava essersi rallentato. La notizia
di Franco ci ha tutti un po’ sconvolti. Si parla con
Sergio, suo fratello, si domandano notizie ad altri amici.
Il 15 ci sarà il processo. Pier Paolo è sempre più
preoccupato. Franco, come ogni altro personaggio, è
insostituibile. Non sono molte le scene da girare con
lui, ma devono essere girate ancora quasi tutte. Ora
siamo alle prese col mercato. Il mercato lunghissimo
di Cecafumo.
Venerdi 11 maggio
Da mercoledì fermi nei pressi di un ospedale, dietro a
piazza dei Navigatori a girare tutte le scene di Ettore
con i compagni, l’ingresso, la corsia, il furto della
radiolina all’ammalato Roscio. Durante le pause parlo
con Maggiorani. Farà la parte di un malato, a cui Ettore
ruberà la radiolina. Sul suo volto si legge tristezza e
malinconica rassegnazione. I suoi ricordi migliori sono
ancora fermi a Ladri di biciclette, per la cui
interpretazione prese seicentocinquantamila lire. Mi
dice che la sua debolezza è di non essere capace di
chiedere. Non fu capace di chiedere allora, non è stato
capace dopo. [...] Spera che l’incontro con Pasolini
segni il nuovo incontro col cinema che gli sta tanto a
cuore. Di Pier Paolo mi ha detto: “Non mi è nuovo,
ma lo credevo più vecchio”.
Martedì 15 maggio
Siamo di nuovo in interni, agli stabilimenti De Paolis,
dove è stata ricostituita, fredda e d’un biancore
spettrale, la cella di segregazione che vede Ettore legato
ad un tavolaccio di pietra, disteso come un crocefisso.
Sono gli ultimi momenti di vita di Ettore, che, delirante
invoca la madre. Pasolini stamattina usa per la prima
volta il dolly sul corpo di Ettore, in inquadrature
simmetriche di evidente ispirazione figurativa.
Masaccio e Vivaldi si accomuneranno in una delle
sequenze del film, forse la più bella.
Mercoledì 16 maggio
Franco Citti è stato condannato per i fatti del Flaminio
a un anno e tre mesi di reclusione. A Ciampini, che
uccise un uomo, daranno tre anni e alcuni mesi. La
stampa si è scatenata. Ma la perla, in questo processo
che riempie colonne e colonne di piombo, è la
requisitoria del P.M., dottor Pedote. Un atto d’accusa,
un processo alla letteratura e al cinema...
Venerdì 18 maggio
Siamo all’anulare olimpico, in fondo alla Flaminia
vicino al Palazzetto dello sport. Sono le 20. Di sera,
questo posto sembra un cimitero; c’è solo più luce.
Alberi al neon fittissimi e tante strisce bianche per
terra. Ne avremo per alcuni giorni; si devono girare gli
esterni-notte più spettacolari del film ed anche i più
tipici. Una carrellata continua, ininterrotta, un cameracar di oltre un chilometro e mezzo che segue Mamma
Roma in una camminata piena di folgorazioni
inventive, mentre “batte e balla il cha-cha-cha della
vita”. Lo scenario è allucinante: sullo schermo si vedrà
un nero assoluto, stagliato da figure che paiono ombre,
da tanti punti di luce e da una croce, quella del Calvario.
Freddo. Umido. Si rimane fino alle quattro di mattina.
Prove su prove, chilometri di strada. Per alcune sere è
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stata abbandonata l’Arriflex per la Mitchell...
Lunedì 28 maggio
Un grande salone - enorme, bianchissimo, vuoto - in
uno dei tanti palazzoni dell’Eur è stato scelto come
interno della Chiesa. Qui gli incontri di Mamma Roma
col prete e altre scene d’ambiente. C’è Volponi, dopo
il clamoroso successo del Memoriale, che non ha
difficoltà a vestire la tonaca e ad entrare
immediatamente nel personaggio. Deve essere un
prete apparentemente sincero e dall’aria dimessa, ma
con un fondo sostanzialmente ipocrita, che reagisce
freddamente al dolore di Mamma Roma.
Lunedì 4 giugno
Finalmente Franco è uscito. Le ansie e le
preoccupazioni - siamo ormai agli ultimi giorni delle
riprese e non in molti abbiamo creduto alla sua
scarcerazione - sono finite. Pasolini è piuttosto freddo
con lui, quando lo rivede. L’incontro rientra nella
normalità. Anna lo accoglie calorosamente e scherza.
“Se le do uno schiaffo Citti, lei me lo restituisce?”.
“No, le porgo l’altra guancia: è così che mi è stato
insegnato”.
Giovedì 7 giugno
Non ho mai domandato alla Magnani, prima d’ora,
cosa pensa di Mamma Roma e come avvenne l’incontro
con Pasolini. È giunto il momento: siamo agli ultimi
giorni ed è stato visto quasi tutto il “girato” che è stato
quotidianamente montato con l’aiuto del bravissimo
Baragli. “Molti hanno parlato del “ritorno” della
Magnani” - mi ha detto Nannarella. “Non c’è nulla di
eccezionale nel fatto che abbia accettato la parte di
Mamma Roma, dopo due anni. Non ho mai
interpretato più di un film in un simile intervallo di
tempo, altrimenti sarei un’attrice ricca e invece non lo
sono. Faccio solo i film che mi interessano, che giudico
adatti a me, nonostante le continue, insistenti offerte
che ho avuto e che seguito ad avere. “L’incontro con
Pier Paolo: andai a Venezia per Castellani, la sera della
prima de Il brigante. Fu lì che vidi Accattone e ne uscii
sconvolta. Avevo conosciuto casualmente Pasolini, una
volta, in casa di Elsa De Giorgi, e mi aveva detto che
stava pensando a una storia - che sarebbe poi stata
quella di Mamma Roma. Me ne parlò sommariamente e
mi propose di interpretarla. Dopo la proiezione di
Accattone, al Palazzo del cinema, ci fu l’incontro
definitivo. Una sera, in macchina, dopo essere stati a
cena, Pasolini mi raccontò come sarebbe stato in
definitiva il vero volto di Mamma Roma. Nacque così
il film. Il rapporto con Pier Paolo, nei primi tempi”,
continua la Magnani, “è stato difficile, ma si è risolto
subito in un rapporto di cordialità e di amicizia, come
avviene di solito tra persone intelligenti che si
capiscono. Sono contenta di lavorare con questi
straordinari personaggi, soprattutto perché, quando
posso, preferisco lavorare con i non attori”. La
domanda che le pongo è imbarazzante, ma alla fine
risponde: “Sono molto affezionata ai personaggi di
Roma città aperta, di Amore, de La rosa tatuata, ma se non
sbaglio credo che questo sia il personagggio più
“grosso” che ho interpretato finora”.
Venerdi 8 giugno
Una sala, appena rinfrescata di calce, all’interno di una
fattoria abbandonata, nei pressi di Frascati, è il luogo
scelto per girare il pranzo di nozze, la prima scena del
film. La tavola è a ferro di cavallo, piena di invitati: da
Mamma Roma a Zaccaria, da Biancofiore ai papponi.
Al centro, Carmine, lo sposo, la sposa e il padre.
Mamma Roma deve entrare con tre maialetti vestiti
con le giarrettiere, con un giglio in testa e col nastrino
rosa. C’è da faticare. Ma in fondo anche questo
problema è risolto felicemente. Sarà l’exploit comico
del film: una sarabanda di battute, di invenzioni, di
stornelli “burini” su arrangiamenti musicali dei “pezzi”
di Vivaldi, in una cornice da ultima cena.
Giovedì 14 giugno
Da oggi, e per alcuni giorni, siamo confinati in un
luogo terribile: è chiamato “canalone”. Sembra il letto
di un fiume, abbastanza largo, con l’erba gialla, arido,
infuocato dal sole bruciante di questa estate senza
vegetazione. Dobbiamo girare “le scene del prato”,
cioè gli incontri di Ettore con Bruna, con gli amici, la
lotta. L’altro luogo, ancora per queste scene, sarà quel
meraviglioso prato di Cecafumo attorno al quale
abbiamo ruotato per tanti giorni, all’inizio. Ci si ripara
sotto miseri ombrelloni da spiaggia, cercando ognuno
di noi di rubare all’altro un centimetro d’ombra o
comunque di riparo, tranne Pasolini che imperterrito
seguita a stare ore e ore sotto il sole romano di piena.
A Cecafumo non è stato dato il permesso alla
produzione per girare sul prato. È di proprietà di
persone che qualcuno di tanto in tanto ha letto nelle
cronache romane, nei pettegolezzi su via Veneto.
L’odio per Pasolini è un odio viscerale, categorico.
Forse quell’epigramma? “Non siete mai esistiti, vecchi
pecoroni papalini / ora un po’ esistete, perché un po’
esiste Pasolini”. Ma giriamo ugualmente, alla macchia,
tra pochi giorni il film sarà finito.
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IL VANGELO SECONDO
MATTEO
SINOSSI
Seguendo fedelmente il Vangelo di S. Matteo, il film narra la
vita di Gesù Cristo dall'Annunciazione alla Vergine Maria al
matrimonio di Lei con Giuseppe, dalla nascita di Gesù alla
strage degli Innocenti. Divenuto adulto, Gesù, nel deserto, affronta le tentazioni e dopo 40 giorni percorre la Palestina per
predicare la Buona Novella, seguito dagli Apostoli. La Sua presenza fra gli uomini è segnata dai miracoli, dal Sermone della
Montagna, dal tradimento di Giuda Iscariota, fino al momento
in cui, processato da Pilato, viene condannato alla crocefissione.
La Resurrezione conclude la vita terrena del Redentore.
CRITICA
Evitando rigorosamente i pericoli e i veleni
dell’estetismo (...) ripropone così un Cristo radicato
nella terra e nel paesaggio, circoscritto dalla dolente
coralità della folla (...). Il suo è soprattutto un Cristo
del processo implacabile e strenuo alla razza di vipere
(...) che esplode nelle grandi sequenze della collera (...)
e ritorna nel grido di protesta e di ribellione del
Crocefisso, che si stacca sull’atroce indifferenza della
città, murata nella luce dell’alba.
Adelio Ferrero, Cinema Nuovo, n.171, settembre
1964
REGIA: Pier Paolo Pasolini
INTERPRETI: Enrique Irazoqui, Margherita Caruso,
Susanna Pasolini, Marcello
Morante, Mario Socrate, Settimio Di Porto, Enzo
Siciliano, Natalia Ginzburg, Ninetto Davoli, Enrico
Maria Salerno (voce di Gesù Cristo)
SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini
SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini,
Sergio Citti - (coll. ai dialoghi)
FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli, Giuseppe Ruzzolini
(operatore)
MUSICHE: Luis E. Bacalov (coordinamento) - Brani
tratti da musiche di Bach, Mozart, Prokofiev,
Webern, "Missa Luba" congolese, Spirituals e
canti rivoluzionari russi
MONTAGGIO: Nino Baragli
SCENOGRAFIA: Luigi Scaccianoce, Dante Ferretti
ARREDAMENTO: Andrea Fantacci
COSTUMI: danilo Donati
AIUTO REGIA: Maurizio Lucidi
DURATA: 106’
PAESE PRODUTTORE: Italia, Francia
ANNO DI PRODUZIONE: 1964
Note:
- Il film è dedicato alla “lieta, cara familiare ombra
di Giovanni XXIII”
- XXV mostra del Cinema di Venezia: premio spe-
Alcuni critici si sono meravigliati che Pier Paolo
ciale della giuria; premio Ocic, premio Fipresci, prePasolini, scrittore marxista, traducendo sullo schermo
mio Federazione Italiana Cineforum, Premio
Grifone d’Oro
Il Vangelo secondo Matteo, si sia mantenuto fedele al testo
originale. Non c’è, infatti, incompatibilità assoluta fra
- Nastro d’argento 1965 per Miglior film, fotografia
il cristianesimo e il marxismo? Fra gli apostoli e i
e costumi
ragazzi di vita? Fra la poesia civile di sinistra e il
cattolicesimo di destra? Nella meraviglia si esprimeva
il moralismo d’una società come quella italiana,
pochissimo religiosa e perciò costretta ad un conformismo di comportamento, Pasolini s’era
“comportato” fin ora in un certo modo; come poteva, ad un tratto, “comportarsi” in un modo tanto
diverso?
In realtà Pasolini s’è mantenuto soprattutto fedele a se stesso; e poiché il cristianesimo costituisce in
lui il nesso sentimentale e ideologico che collega le ardue esperienze opposte del marxismo e del
decadentismo, egli è stato anche, in maniera molto naturale, fedele al cristianesimo. Un cristianesimo,
appunto, di specie insieme popolare e raffinata, che gli ha permesso da un lato di illuminare il carattere
rivoluzionario del messaggio cristiano, dall’altro di recuperare la bellezza che è nel testo del Vangelo e
nelle interpretazioni che ne ha dato l’arte di tutti i tempi.
Rispetto ad Accattone, Il Vangelo secondo Matteo segna un processo indubbio, prima di tutto per
l’eccezionale impeto espressivo che in questo film rivela direttamente e immediatamente quali sono le
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cose che stanno a cuore a Pasolini. E in secondo luogo perché, nelle singole parti, Pasolini mostra
questa volta di sapere alleare la poesia ad una rifinitezza e levità che in Accattone, più elementare, non
si potevano ancora che intravvedere.
Pasolini ha un senso acuto della realtà del volto umano, come luogo d’incontro di energie ineffabili
che esplodono nell’espressione, cioè in qualche cosa di asimmetrico, di individuale, di impuro, di
composito, insomma il contrario del tipico. I primi piani di Pasolini sarebbero sufficienti da soli a
mettere Il Vangelo secondo Matteo sopra un livello eccezionale. Ma questi primi piani non basterebbero
a darci la storia di Gesù, come una galleria di ritratti non basta a darci l’idea degli avvenimenti ai quali
hanno preso parte i personaggi. Il film, dunque, sarà un alternarsi di volti in primo piano e di scene
drammatiche per lo più contemplate da lontano, cioè come può vederli uno spettatore il quale ora fissi
lo sguardo sulle facce, ora cerchi d’abbracciare la scena intera. Niente dunque di naturalistico in questa
maniera ora di avvicinare, ora di allontanare, volti e scena, semmai una rappresentazione francamente
estetizzante, che non pretende mai, come fa il naturalismo, di darci la verità fotografica delle cose.
Pasolini ha capito il valore plastico e poetico, così del silenzio, come della parola. Diciamo subito che
i silenzi sono la forza del film e le parole la debolezza. I silenzi di Pasolini sono affidati all’organo che
è più legato al silenzio: gli occhi. Non parliamo qui degli occhi degli spettatori, bensì degli occhi dei
personaggi. Le sequenze silenziose del Vangelo secondo Matteo sono le più belle, appunto perché il silenzio
è il mezzo più sicuro per farci fare il salto vertiginoso all’indietro che ci propone Pasolini con il suo
film. La parola è sempre storica; il silenzio si pone fuori della storia, nell’assolutezza delle immagini: il
silenzio della Annunciazione, il silenzio che accompagna la morte di Erode, il silenzio degli apostoli
che guardano Gesù e di Gesù che guarda gli apostoli, il silenzio di Giuda che sta per tradire, il silenzio
di Gesù che sa di essere tradito. Il silenzio nel film di Pasolini non è, d’altra parte, quello del cinema
muto, cioè un silenzio per difetto; bensì è il silenzio del parlato, cioè un silenzio plastico, espressivo,
poetico.
Mentre i silenzi sono di Pasolini, le parole, ovviamente, sono del Vangelo. Abbiamo sempre pensato
che la parola nel cinema ha un carattere veristico, cioè, in fondo, superfluo, come dimostra se non
altro il fatto che per molto tempo il cinema fu muto e tuttavia lo stesso completamente e felicemente
espressivo. Questo carattere della parola nel cinema rendeva tanto più difficile la trascrizione
cinematografica d’un linguaggio così denso e così ricco di metafore, come quello del Vangelo.
Vedendo il film di Pasolini si riporta l’impressione che lo schermo, per sua natura adatto all’immagine
che scorre e si mostra, piuttosto che alla parola che si ferma e dice, non sia il luogo migliore per
accogliere la risonanza di un discorso che sembra esigere le architetture e gli sfondi dipinti d’un tempio.
Pasolini, il quale s’è servito della voce assai efficace di Enrico Maria Salerno, ha cercato in tutti i modi
di risolvere il problema di questa incompatibilità, ma non vi è riuscito che parzialmente.
Adesso resta da dire che specie di Gesù è questo di Pasolini. Diciamo subito che si tratta d’un Gesù molto
diverso da quello conformistico
che predomina ancora oggi.
Non vogliamo sprecare troppe
parole su un fatto ovvio: è
chiaro che la bontà di Gesù ha,
in sede storica, un carattere
paradossale e rivoluzionario, e
che, nel momento stesso che
Gesù diceva: “Ama il tuo
prossimo come te stesso”, egli
diceva qualche cosa che non era
soltanto l’espressione di un
sentimento, ma soprattutto,
rispetto al mondo di allora,
qualcosa di oggettivamente
sovvertitore.
Per questo, Pasolini ha mirato
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a darci un Gesù duro, violento, iconoclasta,
inflessibile, come appunto doveva apparire ai suoi
contemporanei e non come appare oggi a noi che,
com’è stato già detto, non possiamo non
dichiararci tutti cristiani.
Lo stesso va detto dell’ambiente nel quale Gesù
si trovò a predicare. Per essere pienamente
rivoluzionario, il cristianesimo doveva essere non
soltanto paradossale, ma anche “invisibile”. Che
cosa di più invisibile allora, d’una religione
predicata da un povero tra i poveri, in una
provincia remota, in un linguaggio sconosciuto ai
potenti? E così ci pare che anche il
“miserabilismo” di Pasolini trovi una sua
giustificazione storica e ideologica oltre che
artistica.
Pasolini ha preso i suoi attori dalla strada, sia si
tratti di amici dell’ambiente letterario, sia di
popolani dei luoghi dove il film è stato girato. E
stata ancora una volta una buona idea e il
rendimento è notevole. Enrique Irazoqui, lo
studente spagnolo che interpreta il personaggio di
Gesù, ha un volto che ricorda il greco, i bizantini
e i primitivi. Questo volto, spesso grave oppure
adirato, più di rado sorridente, è una delle più belle
invenzioni del film.
Alberto Moravia, l’Espresso, 4 ottobre 1964
TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SU
IL VANGELO SECONDO MATTEO.
INTERVISTA A ENRIQUE IRAZOQUI
Pier Paolo ma, viceversa, tutti hanno parlato della
propria interpretazione soprattutto la Chiesa Cattolica.
di Giovanna Gammarota (da www.puntodisvista.net,
9/2014)
Il 4 settembre 1964, alla Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia, Pier Paolo Pasolini
presenta il suo sesto film: Il Vangelo secondo Matteo,
un’opera per la quale impiegò due anni prima di
trovare il volto che avrebbe interpretato il ruolo di
Cristo. Per questo film Pasolini era stato invitato da
Alfredo Bini, suo produttore storico, a recarsi in
Palestina per dei sopralluoghi ma già sapeva che non
avrebbe ambientato lì il suo film: il paesaggio, ma
soprattutto i volti, non avevano più nulla di quell’antico
che egli cercava, necessario a dipingere il quadro di una
rappresentazione vera e pura quale era il testo del
Vangelo di Matteo. Il film venne girato interamente in
Italia: a Barletta, Crotone, Matera, Massafra, nella valle
dell’Etna e nei pressi di Chia e italiani furono i visi,
tranne quello di Enrique Irazoqui. Lo abbiamo
intervistato dopo il suo passaggio in Italia alla 71ma
Mostra del Cinema di Venezia.
A cinquant’anni dalla presentazione a Venezia del Vangelo
secondo Matteo quali analisi sono state fatte, secondo te,
sul significato che Pasolini voleva veicolare con questo
film?
So di convegni in cui hanno parlato rappresentanti
della Chiesa i quali hanno cercato di accaparrarsi il film
ma di quel racconto epico-lirico in chiave nazional
popolare che Pasolini aveva in mente non ho sentito
parlare nessuno. Anzi direi che il film, in questo
cinquantesimo anniversario, si è trasformato in un
fiore all’occhiello per molti luoghi come per esempio
Matera. Negli eventi ai quali ho partecipato sino ad ora
non mi è parso che a qualcuno interessasse l’opera di
In effetti la Chiesa ha dichiarato che questo è
probabilmente il film più vero mai girato sul Vangelo.
Qualche anno fa, In Spagna, mi trovavo a passare
davanti a un museo del cinema, per curiosità sono
entrato e ho visto in vendita il dvd, ho domandato:
“Chi lo compra?” mi hanno risposto l’Opus Dei.
Questo per me è uno schiaffo alle intenzioni del film.
A Venezia, pochi giorni fa, sul palco assieme a me a
parlare del Vangelo, c’erano cardinali e vescovi: hanno
raccontato di come 800 padri conciliari lo
applaudirono durante la proiezione al Concilio
Vaticano II. Sono intervenuto dicendo che per me
questo era il segno di un fallimento, perché quello che
noi volevamo fare era restituire il Cristo a un popolo
a cui l’avevano rubato per trasformarlo in una forma
di potere della classe dominante. Quel popolo è
esattamente lo stesso che durante la guerra civile
spagnola, gridava: l’unica chiesa che illumina è quella
che brucia. Pasolini ha dedicato il film a Papa Giovanni
XXIII dunque la Chiesa si sente autorizzata a
rappresentarlo. In realtà Pasolini lo dedicò alla persona
Giovanni XXIII, colui che voleva aprire la Chiesa in
un’epoca in cui si parlava di dialogo tra cattolici e
marxisti, invece quello che rimane è la dedica a un papa
di una Chiesa che Pasolini detestava.
Parliamo invece della sinistra. Quando uscì il film,
all’epoca, ci furono molte polemiche.
Ricordo che Pasolini fece una proiezione, un mese
prima di andare alla Mostra di Venezia, per un ristretto
numero di invitati tra cui una rappresentanza del PCI,
se non ricordo male vennero: Ingrao, Alicata, e Longo.
Dopo la proiezione andammo, come sempre, da
Rosati: questi tre che sedevano a un altro tavolo, mi
chiamarono, sapevano che appartenevo al partito
comunista clandestino spagnolo, mi dissero che
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dovevo convincere Pasolini a tagliare tutti i miracoli
perché altrimenti il film sarebbe diventato uno
strumento di propaganda della Chiesa. Pier Paolo,
saputo di cosa avevamo parlato mi chiese: “Tu cosa ne
pensi?”, io risposi che i miracoli dovevano rimanere, o
era il Vangelo secondo Matteo o non lo era. Ho invece
provato un gran piacere, successivamente, nello
scoprire che il film è stato una bandiera per il
movimento della Teologia della Liberazione, molto
importante in Sud America, e di cui fanno parte preti
cattolici della sinistra radicale, quello che essi facevano
era dare il messaggio evangelico alla gente, così
com’era. Proprio ciò che noi volevamo dire con il film.
Come si conciliano le posizioni politiche di Pasolini con la
messa in scena di un film realizzato su un testo evangelico?
Penso ci siano parecchie cose da dire su questo: voglio
ricordare un carteggio tra Pasolini e Alfredo Bini, il
produttore, in cui questi gli domanda come mai un
ateo vuole girare un film sul Vangelo di Matteo. Pier
Paolo risponde dicendo che fino a quel momento
aveva conosciuto la bellezza morale, la bellezza
letteraria ma non aveva ancora conosciuto la bellezza
assoluta. Dunque ha voluto fare un film senza
condizionamenti ideologici su quella che secondo lui
era la bellezza assoluta. C’è un’altra cosa più sociale,
nel contesto dell’epoca, il dialogo tra marxisti e
cristiani. Pier Paolo lesse i Vangeli ad Assisi, dove fu
invitato proprio nell’ambito di uno di questi confronti,
questo spiega perché non vedesse contraddizioni tra il
Vangelo di Matteo e il marxismo. Poi c’è un terzo
fattore, strettamente personale: secondo me esiste un
prima e un dopo il Vangelo, nella vita di Pasolini. Lui,
che era un poeta maledetto, che era stato cacciato dal
PCI perché omosessuale, che andava in tribunale ogni
due ore a rispondere delle sue opere, non credo non
abbia considerato quali sarebbero state le conseguenze
nel fare un film su questo tema in un paese come
l’Italia nel 1964: forse lo avrebbero lasciato un po’ più
in pace. Ma sappiamo che non è stato così.
Hai raccontato tante volte come è accaduto il tuo incontro
con Pier Paolo ma non altrettanto di quando lui venne in
Spagna a parlare con gli studenti universitari. Come fu
quell’esperienza?
Venne nel novembre del ’64 per tenere una conferenza.
Non riuscimmo a ottenere il permesso per un’aula, alla
fine la organizzammo nella sala delle autopsie
dell’ospedale dell’università, un luogo abbastanza
sinistro, non avevamo nemmeno le sedie, eravamo tutti
in piedi, la sala era gremita. Vi furono altre
conversazioni nell’albergo in cui lo avevamo ospitato,
tra lui e il nostro padre intellettuale Manolo Sacristán,
ne ricordo una molto interessante su grammatica e
logica matematica, alla fine Pier Paolo venne a dirmi
quanto eravamo fortunati perché in Italia non
esistevano professori così.
A quali conseguenze sei stato esposto per aver girato
questo film?
La conseguenza più seria la vissi durante il servizio
militare: per tutti i quindici mesi fui ripetutamente
punito, in primo luogo perché ero stato arrestato per
motivi politici e poi perché avevo preso parte a una
pellicola di propaganda comunista. Pensa mentre in
Italia il film era osannato da 800 padri conciliari, in
Spagna era considerato “propaganda comunista”.
Pasolini ti propose di girare un altro film.
Sì, Pier Paolo voleva fare con me Il padre selvaggio, mi
disse che se non avessi accettato non lo avrebbe girato.
E così è stato. A me non importava nulla del cinema:
volevo e voglio ancora lavorare per la fratellanza
universale. Volevo tornare a casa e fare la rivoluzione.
Così non c’è stato Il padre selvaggio. Fu un errore. Era
un film in cui voleva contrapporre la cultura europea
bianca a quella nera africana, il conflitto che scaturisce
quando la cultura bianca irrompe, anche se ben
intenzionata, nell’Africa nera. Ma forse era il “Cristo”
che doveva fare quel film, il Cristo di Pasolini doveva
andare lì.
Si è appena conclusa la Mostra del Cinema di Venezia dove
in concorso è stato presentato il film Pasolini di Abel
Ferrara, in cui Pier Paolo è interpretato da Willem Dafoe,
che ne pensi?
In primo luogo penso che nessun film al mondo,
anche con il miglior attore, girato dal miglior regista,
che abbia come tema la figura di Pier Paolo Pasolini,
possa essere accettabile. Questo perché quel Pasolini
che diceva a me e a Elsa quando arrivava e si lasciava
cadere sulla sedia: “Che angoscia!”, quel personaggio
dalla “disperata vitalità”, quel nervo che lui era non
penso si possa interpretare. Quello che temo è che
invece di avere un’immagine di Pier Paolo attraverso
la visione dei suoi film, la lettura delle sue poesie, dei
suoi romanzi ma soprattutto degli scritti corsari, si
abbia un’immagine di Willem Dafoe come se fosse
Pier Paolo Pasolini. In due parole: sarebbe il suo
secondo assassinio.
Perché secondo te Ferrara ha voluto affrontare quest’ultimo
giorno di vita di Pasolini e non il personaggio?
C’è un elemento che lo rende attraente per il pubblico:
un finale con l’uccisione, quei quattro, cinque, che si
buttano sul corpo di Pier Paolo, il sangue, la lotta.
Viene mostrato ciò che, a mio parere, mai si deve
mostrare: le fotografie di Pier Paolo ucciso a Ostia.
|26|
MAI. Assolutamente. Perché è deformante e morboso.
Il vero Pasolini non è quello dei mostri che lo hanno
ucciso, il vero Pasolini è quello della ‘disperata vitalità’,
questo per me in un film non si deve fare, e meno
ancora si deve affrontare come spettacolo quell’ultimo
giorno nella vita di Pier Paolo.
Qualche girono fa, a proposito di questo film, hai detto che
questo continuare a strattonarlo da più parti lo sta
annullando, come quando una figura diventa iconica per
tutti e di conseguenza la sua essenza, il suo pensiero
diventa nullo.
Esatto, tutti vogliono recuperare Pasolini, farne una
loro proprietà: la Chiesa, gli Stati Uniti, la destra, la
sinistra. È successo lo stesso in Spagna con Antonio
Machado che pur morendo in esilio, durante il
fascismo era considerato il poeta ufficiale della Spagna.
Cosa ha rappresentato nella tua vita l’incontro con Pasolini,
che segno ti ha lasciato?
La libertà. Da un giorno all’altro sono passato da un
mondo fascista, grigio, omogeneo dove tutto era
proibito, da una famiglia dove si pranzava alle due e si
cenava alle nove a un mondo dove c’erano Pier Paolo
Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Sandro
Penna. Stando con loro ho capito forse la cosa più
importante di tutte: che il fascismo non era soltanto
una formazione politica, era anche un atteggiamento
quotidiano. Che non esisteva soltanto il fascismo come
forma di potere in un governo ma esisteva anche in
tutto quello che si faceva durante il giorno. Il peggiore
insulto, oltre all’essere fascista, poteva risiedere anche
nell’essere qualunquista, volgare, erano tutti caratteri
fascisti, questo mi hanno fatto capire. Pier Paolo e Elsa
hanno rappresentato la scoperta della libertà, della vita.
Le conversazioni con loro, quelle cene, quei viaggi
rappresentano una felicità che ancora ricerco al punto
che quando recentemente sono tornato a Massafra ho
avuto la chiara sensazione di essere a casa. Per spiegare
che tipo di rapporto avevamo ti dirò che in “Poesia in
forma di rosa” l’ultimo pezzo, quello che si chiama
“Vittoria”, Pier Paolo mi disse era dedicato a me, ma
non poteva scriverlo perché dovevo rientrare in
Spagna. Io ero il resistente, il partigiano, ciò che era
stato suo fratello, forse. Quale poteva essere il
rapporto tra Guido e un giovanotto di diciannove anni
antifranchista clandestino, che veniva, praticamente da
partigiano, a incontrare lui, quale era il rapporto tra
questo e offrirmi il ruolo del Cristo, non lo so, ma
penso che un rapporto ci sia.
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UCCELLACCI E UCCELLINI
“Non ho mai “messo al mondo” un film così
disarmato, fragile e delicato come Uccellacci e uccellini. Non solo non assomiglia
ai miei film precedenti, ma non assomiglia
a nessun altro film. Non parlo della sua
originalità, sarebbe stupidamente presuntuoso, ma della sua formula, che è quella
della favola col suo senso nascosto. Il
surrealismo del mio film ha poco a che
fare col surrealismo storico; è fondamentalmente il surrealismo delle favole [...]”.
Pier Paolo Pasolini
SINOSSI
Totò e suo figlio Ninetto si mettono in cammino per raggiungere un casolare
nei dintorni di Roma e minacciare di sfratto della povera gente che non
paga l'affitto e si ciba di nidi di rondine. Durante il cammino, i due discorrono di vita e di morte con un corvo parlante, un petulante e saccente
ospite autoinvitato, sedicente intellettuale marxista vecchia maniera. Il racconto del corvo spinge padre e figlio a indossare un saio francescano, divenendo rispettivamente Frate Ciccillo e Frate Ninetto, per ripetere agli uccelli
la predica di San Francesco. Con una certa fatica e una lunghissima preparazione spirituale, Fra' Ciccillo riesce a farsi ascoltare dai falchi e dai
passerotti, facendo loro accettare il messaggio di Dio, senza però far desistere i rapaci dalle loro abitudini sanguinose. Ripreso il cammino in abiti
borghesi, i due s'imbattono nei funerali di Togliatti, in manifestazioni popolari e in una prostituta. Continuano a camminare e a parlare finché,
presi dai morsi della fame, uccidono il corvo per il loro pasto.
CRITICA
Il film imposta una favola filosofica, dibattendo problemi
spirituali e sociali di attualità. Nonostante qualche cedimento
di ritmo e d'invenzione, la difficile impresa può considerarsi
in parte riuscita, soprattutto in alcuni momenti ricchi di poesia.
Segnalazioni cinematografiche, vol. 60, 1966
REGIA: Pier Paolo Pasolini
INTERPRETI: Totò, Ninetto Davoli, Femi
Benussi, Francesco Leonetti, Gabriele
Baldini, Riccardo Redi, Lena Lin Solaro,
Rossana Di Rocco, Vittorio Vittori,
Fides Stagni
SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini
SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini
FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli, Mario
Bernardo
MUSICHE: Ennio Morricone
MONTAGGIO: Nino Baragli
SCENOGRAFIA: Luigi Scaccianoce, Dante
Ferretti
PRODUTORET: Alfredo Bini
DURATA: 85’’
PAESE PRODUTTORE: Italia
ANNO DI PRODUZIONE: 1966
Note:
- Fstival del Cinema di Cannes 1966:
menzione speciale a Totò per
l’interpretazione
- Nastro d’argento 1967: miglior soggetto
originale, migliore attore protagonista (Totò)
[...] Proprio per appartenere a quel “cinema di poesia” [...] è un film da vedere [...]e non da descrivere:
la sua realtà di messaggio etico-politico è tutta sostanziata dalle spezzettature, dai ritmi [...] dalle sottolineature sonore che costituiscono in ultima analisi la vera chiave contenutistica del film [...]. Cosicché
l'ardita complessità di metafore [...] (ha) il potere di trasformarsi in umanissima tensione lirica.
Lino Micciché, L’Avanti!, 12 maggio 1966
Uccellacci e uccellini (1965-6) è una favola ideo-comica che vede due protagonisti in Totò e Ninetto Davoli.
Il primo episodio, tagliato poi nel film, rappresenta la crisi del razionalismo di fronte alla realtà più as|28|
soluta del Terzo Mondo ancorato al mito e alla religione (quindi all’irrazionale). Un domatore di circo
tenta invano di civilizzare un’aquila (che rappresenta l’irrazionalismo terzomondista) ma finisce per
convertirsi lui alla visione più ampia e libera che gli insegna tacitamente l’animale, sino a volare via
come se fosse lui stesso aquila. Il film come è in realtà, narra metaforicamente di due eventi importanti
in quegli anni: 1) il rapporto della religione nei confronti della lotta di classe (e qui vediamo Totò e Ninetto che impersonano due umili fraticelli mandati da San Francesco a portare la novella evangelica a
falchi (i prepotenti) e a passeri (gli umili); dopo varie difficoltà la predicazione viene recepita, ma non
messa in pratica, perché i due frati vedono la loro gioia iniziale per il successo avuto annullarsi di fronte
all’episodio di un falco che uccide un passero: tornano dal santo, che dice loro di riprendere la predicazione e non cessarla mai); 2) l’altro evento rappresentato è la crisi del marxismo (il marxismo della
Resistenza e degli anni Cinquanta), che non può far fronte alle novità del mondo, soprattutto all’omologazione del linguaggio. Tutti devono per forza parlare allo stesso modo per non essere esclusi dalla
società, e quindi si comportano tutti come consumatori di prodotti (inutili) che gli tolgono l’anima. E’
il corvo (che simboleggia Pasolini stesso) a voler portare alla coscienza di due popolani, Totò e Ninetto,
padre e figlio, la crudeltà del nuovo mondo universalmente imborghesito; inoltre c’è il problema dell’esplosione demografica e della fame nelle aree sottosviluppate. Cosa deve fare un marxista? Rinnovarsi, fare della non-violenza (come volevano Gandhi e papa Giovanni XXIII) lo strumento migliore
per rispondere all’altrui violenza; capire inoltre l’urgenza di una risacralizzazione del mondo (attraverso
la cultura non superficiale e il mito), contro la volgarità desacralizzante del neocapitalismo. I due uomini,
scocciati dalla “predica” di questo mite corvo, lo divorano dopo averlo arrostito: “Il corvo «doveva
essere mangiato», alla fine: questa era l’intuizione e il piano inderogabile della mia favola. Doveva essere
mangiato, perché, da parte sua, aveva finito il suo mandato, concluso il suo compito, era, cioè, come
si dice, superato; e poi perché, da parte dei suoi due assassini, doveva esserci l’«assimilazione» di quanto
di buono - di quel minimo di utile - che egli poteva, durante il suo mandato, aver dato all’umanità [...].”
Viene da pensare che Pasolini, scrivendo queste righe, prevedesse, almeno come possibilità, la sua fine
cruenta.
www.homolaicus.com
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CONVERSAZIONE CON NINETTO DAVOLI
In L’importanza della figura femminile nella vita e
nelle opere di Pier Paolo Pasolini
di Cristina Girelli, www.storiaefuturo.com
[…]
Qual è il ruolo che più le è piaciuto interpretare?
Il ruolo, il film che mi è rimasto più impresso è stato
Uccellacci e uccellini, ma per un fatto, diciamo, perché era
l’inizio, il primo, l’entusiasmo della cosa, poi di aver lavorato con questo grandissimo personaggio… per me
è stato Uccellacci e uccellini, anche gli altri, però Uccellacci
e uccellini è quello che mi è rimasto più impresso. È
quello a cui sono più affezionato perché lì è stato proprio l’inizio del mio lavoro. Ho conosciuto Pier Paolo,
Totò, il mondo del cinema, anche se a me, ti dico la
verità, non è che me ne fregava più di tanto perché non
era la mia professione fare l’attore. Anzi ti dirò non
volevo neanche farlo. È stato Pier Paolo ad insistere: “Dai Ninetto ti diverti, è carino”. Ed io: “Ma
no, lascia perdere, ma che c’ho la faccia d’attore io?”.
“No ma dai che ti diverti!”. È stato lui, Pier Paolo, a
scovarmi. Poi una volta iniziato devo dire che è stata
una scoperta meravigliosa. Io sto ancora lavorando, sto
facendo teatro, tutte le sere ho lo spettacolo. Finisco il
19 di questo mese (febbraio), cioè tutte le sere affronto
il pubblico, mi diverto, mi piace, perché è una cosa che
ormai mi entra dentro e devo dire che ogni volta che
faccio qualcosa sappi che comunque penso sempre a
Pier Paolo. Sempre, immancabilmente, penso a Pier
Paolo. […]
|30|
LA RICOTTA
SINOSSI
Stracci, una comparsa che interpreta la parte del ladrone buono in un film
sulla passione di Cristo, non è che un poveraccio perennemente affamato.
Quando la sua numerosa e poverissima famiglia lo va a trovare sul set,
Stracci dona loro il cestino del pranzo che gli spetta in quanto attore, per
consentire loro di consumare un misero pasto in mezzo al prato. Per non
saltare il pasto riesce a “rimediare” un nuovo cestino, senza però riuscire
a mangiarlo. Quando finalmente riesce a comperare un pezzo di ricotta
lo mangia con atavica fame. Successivamente si divora gli avanzi rimasti
sul set della scena dell’Ultima cena. Infine, stremato, torna sul set per
girare la scena della crocifissione, ma subito dopo il ciak si scopre che è
morto di indigestione sulla croce.
Episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G. –
Laviamoci il cervello
CRITICA
REGIA: Pier Paolo Pasolini
[…] La ricotta nell’opera cinematografica di Pasolini nasce
INTERPRETI: Orson Welles, Mario Cipriani,
dalla stessa ispirazione delle poesie; così come Accattone riLaura Betti, Edmonda Aldini, Vittorio
prendeva sullo schermo i temi dei romanzi. L’idea amaraLa Paglia, Maria Berbardini, Rossana
mente, dolorosamente sentita ed espressa in questo piccolo
Di Rocco
capolavoro è quella del contrasto tra la grande civiltà italiana
SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini
SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini
del passato simboleggiata dalla Sacra Famiglia dipinta da tutti
FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli
i nostri pittori su su dai primitivi fino ai secentisti, e la corCOMMENTO E COORDINAMENTO MUSICALE::
ruttela e l’imbastardimento di questa stessa civiltà, simboCarlo Rustichelli
leggiata dalla disgregazione e decomposizione canagliesca
SCENOGRAFIA: Luigi Scaccianoce, Dante
di quella stessa Sacra Famiglia. Mentre Accattone, spoglio ed
Ferretti
COSTUMISTA: Danilo Donati
essenziale conteneva la polemica umana e sociale di Pasolini,
ARCHITETTO: Flavio Mogherini
nella Ricotta si esprime, con modi barocchi e grotteschi, la
PRODUTORE: Alfredo Bini
polemica culturale e religiosa. L’episodio di Pasolini ha la
DURATA: 35’
complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livelli
PAESE PRODUTTORE: Italia, Francia
delle sue poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema
ANNO DI PRODUZIONE: 1963
in immagini cinematografiche. Da notarsi l’uso nuovo e atNote:
traente del colore alternato al bianco e nero. Orson Welles,
Grolla d’oro per la miglior regia, Saint
nella parte del regista straniero che si lascia intervistare, ha
Vincent, 4 luglio 1964
creato con maestria un personaggio indimenticabile. Resterebbe ora da chiedersi il motivo della freddezza con la quale
è stato accolto dalla critica cinematografica quest’episodio. La
chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell’impreparazione culturale di molti critici ,
anche nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. Diamine: il regista nell’intervista dichiara: “L’Italia
ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa”, ed ecco scontentati così i partiti di
destra come quelli di sinistra, Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: “L’uomo medio è un pericoloso
delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista”, ed ecco scontentati tutti
quanti. L’Italia del passato, infatti, era il paese dell’uomo, in tutta la sua umanità; l’Italia di oggi, invece,
è soltanto il paese dell’uomo medio.
Alberto Moravia, L’Espresso, 3 marzo 1963 (raccolta in: Alberto Moravia, Cinema italiano.
Recensioni e interventi 1933-1990, Bompiani, 2010)
[…] Con l’uso del colore, le possibilità espressive (di Pasolini, ndr) s’allargano e si giunge, nell’episodio
di La ricotta (1963), a un gioco di dissonanze e di contrappunti cromatici e sonori, di citazioni croma|31|
tiche e pittoriche, di sacralità e desacralizzazione , che segna uno dei momenti più alti dell’invenzione
figurativa del dopoguerra. È a partire da La ricotta che si rende conto che il suo cammino di intellettuale
non ha alcun punto di contatto con quello del mondo sottoproletario con cui ha tentato per anni di
identificarsi e di assumerne il punto di vista o rubarne la vitalità. Certo, nel borgataro e nel povero
Stracci morto di fame di La ricotta è possibile riconoscere la figura dell’alter Christus, ma è lui, che si riconosce nella figura del regista interpretata da Orson Welles, che capisce di non poter del tutto diventare
i suoi personaggi. Può certo ancora esercitare il suo ruolo di grillo parlante e di corvo, ma la sua storia
non è più assimilabile a quella dei suoi personaggi popolari. […]
Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, pag. 295, Einaudi, 2003
La ricotta, dal film allo spazio scenico
Immaginato agli inizi degli anni sessanta, e sceneggiato nel 1962 (quindi, dieci anni prima che Elio Petri e
Ugo Pirro constatassero l’impossibilità della classe operaia di accedere al paradiso) La ricotta di Pasolini è,
in prima istanza, una sceneggiatura in forma di racconto, fertile di un’immaginazione e forza evocativa che
sarebbero di per sé esaustive anche senza la visualità dell’immagine filmica. In cui il poeta radicalizza le riflessioni teoriche messe a punto nei tanti tipi di ‘scrittura’ diversi dell’immagine riprodotta (ma ad essa indirizzati). Come, ad esempio, il principio di ‘narrazione cinematografica’ quale sintassi autonoma (rispetto
a quella della narrazione vergata e orale), conforme alle ‘partiture di preparazione al film’ (dal soggetto ai
sopralluoghi), concepiti come vera e propria liturgia di introduzione alla natura collettiva - non più ‘ripensabile’ - della realizzazione filmica: nel momento del suo ‘distacco’ dall’artefice letterario al contributo di
chi ne assumerà le responsabilità esecutive (direttore della fotografia, attori, maestranze). Dubbi, travagli,
incertezze densi di analogie con la lacerazione, l’’esaltazione, il dolore che si accompagnano ad ogni ‘creatura’ che viene al mondo, strappata a quello delle idee.
Dal progetto alla prassi, La ricotta (la cui edizione restaurata è parte integrante della serata al Vascello)
divenne uno dei quattro episodi del film a episodi Ro.Go.Pa.G. – Laviamoci il cervello, dove Pasolini
veniva affiancato ad autori di culto quali Rossellini, Godard e al ‘giovane’ Gregoretti. Trattandosi di
una crudele allegoria incastonata come ‘film nel film’, la vicenda si compie, come triste rapsodia, nel
corso delle riprese di un ‘peplum’ sulla Passione e
la Deposizione del Cristo, in braccio a Maria, alla
Maddalena e agli apostoli radunati sul Golgota.
A un figurante di nome Stracci è assegnato il ruolo
di uno dei ladroni crocefissi al fianco di Gesù, cui
‘spetta’ realmente di morire (‘a ciascuno la sua
croce’) a causa di una congestione addominale per
eccesso di fame e di cibo. Del resto - commenterà
Orson Welles, magnifico e indolente regista del film
in lavorazione, circondato da giornalisti melliflui e
panciuti produttori - “Povero Stracci…non aveva
altro modo per ricordarci che anche lui era vivo”riassumendo il senso di una morte narrata in un
perfetto intarsio di tensione morale e ‘ridicolizzanti’
sequenze con fotogrammi accelerati - tra vocazione
pittorica (primi piani di facce liete e lombrosiane,
citazioni da Caravaggio, Pontormo, Mantegna) e vilipendio della religione farisaica (che costò a Pasolini una condanna penale e il sequestro dell’opera).
Dotato di cruda compostezza cronistica, l’omaggio
che Antonello Fassari e Adelchi Battista ne desumono sui praticabili del Vascello, asseconda quel
teatro di ‘parola’ e ‘straniazione critica’ perorato da
Pasolini nella prefazione ad “Affabulazione”,
“Orgia” e “Bestia da stile”.
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Su spogli elementi scenografici che rimandano ai residuati di un set cinematografico ‘povero e desolato’,
il teatro di narrazione professato da Fassari lavora per sottrazioni e prosciugamento di orpelli, emozioni,
consolazione. E Il ‘racconto’, costernato e neutro della sceneggiatura ‘tale e quale fu scritta’, esalta lo
spessore politico e poetico della serata.
Nella quale si trasfigura, con laico disinganno, il rapporto tra ‘assoluto e profano’ , tra ‘poveri cristi’ e
calvario reale di chi affonda nell’indigenza ‘famelica’ senza (nemmeno) l’idea di chiedersi chi sono i
suoi veri aguzzini - ad estremo sfregio della dignità umana, triturata in catene di montaggio tra (induzione ai) consumi e (momentaneo) valore d’uso.
Angelo Pizzuto, http://www.articolo21.org
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LA TERRA VISTA DALLA
LUNA
SINOSSI
In un cimitero di periferia Ciancicato Miao e suo figlio Baciù (entrambi
dai capelli inverosimilmente color rame), che vivono in un imprecisato futuro, piangono la morte della moglie-madre Crisantema, uccisa da un’indigestione di funghi avvelenati. Appena terminata la lamentazione funebre
i due, constatato che Ciancicato ha ancora "qualche cartuccia da sparare"
decidono di intraprendere un viaggio alla ricerca della Donna, madre e
moglie che diventi la nuova anima femminile della loro catapecchia, in un
paesaggio da bidonville, in cui passano di tanto in tanto due improbabili
turisti vestiti da safari. Dopo tanto cercare si imbattono in Assurdina,
che è sordomuta. Ciancicato Miao sposa Assurdina e i tre si trasferiscono
nella catapecchia dei due Miao. Assurdina, con gesti accelerati come in
Episodio del film collettivo Le streghe
una vecchia comica muta, la trasforma la bicocca in un luogo grazioso e
accogliente. Ma i due vogliono una casa più grande. Quindi convincono
REGIA: Pier Paolo Pasolini
Assurdina a simulare un tentativo di suicidio dal Colosseo, minacciando
INTERPRETI: Totò, Ninetto Davoli, Silvana
Mangano, Laura Betti, Luigi Leoni, Mario Cidi buttarsi se la società non le darà una mano: sotto il monumento si racpriani
coglie una folla (tra cui dei complici) che iniziano a raccogliere una colletta,
SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini
Il trucco pare funzionare. Se non che la coppia di turisti abbarbicata sopra
SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini
il Colosseo getta una buccia di banana su cui Assurdina scivola, cadendo
FOTOGRAFIA: Giuseppe Rotunno
nel vuoto. I Miao sono disperati e nuovamente soli. Ma quando stremati
MUSICA: Ennio Morricone
DURATA: 40’
dal dolore tornano a casa, i due ritrovano Assurdina vestita da sposa, sePAESE PRODUTTORE: Italia
renamente intenta ad attenderli. Ciancicato e Baciù fuggono terrorizzati,
ANNO DI PRODUZIONE: 1966
poi si fanno coraggio e prendono a interrogare l'apparizione. Constatato
che Assurdina, sebbene morta può comunque cucinare, lavare i panni, fare
i bisogni e andare a letto con Ciancicato, i due Miao gioiscono entusiasti. L'episodio termina con un cartello, che indica: "Morale: essere morti o essere vivi è la stessa cosa".
CRITICA
Subito dopo Uccellacci e uccellini […] Pasolini ha in mente di realizzare un nuovo film ad episodi con
protagonisti Totò e Ninetto Davoli, con l’intento di approfondire quella che definisce la sua “vena comica”, il suo punto di osservazione disincantato sul mondo. Il progetto […] viene in parte ridimensionate allorquando nell’autunno del 1966 Dino De Laurentiis gli propone di partecipare con un
cortometraggio al film che ha in produzione, dal titolo Le streghe, accanto agli episodi affidati alla
regia di Rosi, Bolognini, Visconti e De Sica, L’intenzione del produttore, secondo i dettami dell’allora
in voga “film a episodi”, era quello di incentrare il film attorno a un unico tema, in questo caso, intorno
alla figura della donna-strega; un argomento, dunque, piuttosto lontano dalle usuali tematiche pasoliniane. Pasolini risponde alla domanda ripescando la vecchia traccia di uno stralunato racconto mai realizza, che avrebbe dovuto intitolarsi Il buro e la bura dove si narrano le donchisciottesche gesta di un
padre e un figlio alla ricerca della donna ideale per la loro famiglia, della perfetta donna-madre, nel desolato panorama di una povertà tanto interiore che esteriore, nella disperata, volgare e stolida tenerezza
del loro vuoto essere-nel-mondo. Così nasce La Terra vista dalla Luna, che appare, nella sua struttura
fondamentale, come la continuazione, proiettata in un ipotetico presente-futuro, del viaggio di Uccellacci
e uccellini. Ma la continuità del breve episodio con il precedente lungometraggio è tale solo in parte,
poiché, come ha spiegato lo stesso regista, il vero nucleo di Uccellacci era l’ideologia, che in La Terra
vista dalla Luna resta invece una sindone sfuocata, “misteriosa e imprevedibile”, avvolta dalle nebbie di
uno sguardo fiabesco che trova risibile e assurdo il brancolare senza tempo dell’umanità. Dell’apologo
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ideologico di Uccellacci e uccellini resta solo il clima generale, surreale e farsesco, generato in primo luogo
dall’allegra tristezza di Totò e Ninetto Davoli, ancora una volta padre e figlio intenti a compiere un
viaggio attraverso lo squallore del mondo del Dopostoria, a dimostrare l’assioma, espresso da Totò
Innocenti di Uccellacci, secondo cui “i poveri passano da una morte a un’altra morte”.
Il modello dichiarato dall’autore è quello “delle prime comiche di Chaplin”, che essendo “mute” dovevano contenere già nell’immagine tutta la forza espressiva di cui le didascalie, cioè le parole, non
erano che una sintesi. Fu per questo motivo che l’autore non scrisse una vera e propria sceneggiatura
“a parole” dell’episodio, ma ne elaborò le scene disegnandole sotto forma di fumetti. È in questa
chiave di ricerca “linguistica” che il breve film, generalmente sottovalutato dalla critica, deve essere
letto. La Terra vista dalla Luna, infatti, non è parte di una parentesi creativa di Pasolini, come molti all’epoca hanno sostenuto accusandolo più o meno chiaramente di formalismo, ma al contrario rappresenta il primo, graduale e consapevole passo del regista verso l’elaborazione concreta di quel
“linguaggio filmico” che deve fare a meno della concettualizzazione borghese del discorso, e che non
può essere compreso se affrontato con i soli parametri del “senso comune”. Risulta emblematica in
questo senso anche l’epigrafe del film: “Visto dalla Luna questo film che si intitola appunto La Terra
vista dalla Luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla Terra, sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da certo Pier Paolo Pasolini.”; in essa viene messa in
questione fin dall’inizio la sensatezza di qualsiasi esperienza umana, finanche di quella del regista,
esperienza oramai ridotta ad un grottesco ed inutile viaggio attraverso una vita che non differisce in
alcun modo dalla morte. In pochi, leggeri tratti, Pasolini riesce ad esprimere l’assurda condizione di
solitudine e di incomunicabilità dei suoi personaggi (in cui si riflette anche la propria incomunicabilità),
stravolgendone i gravami tragici attraverso un’aura comica che giunge quasi fino al cinismo esistenziale:
la realtà del dolore e del disorientamento di questi individui-massa senza più amore e senza più storia,
la loro intrinseca tragicità, trova la sua piena espressione in una “fine del mondo” immanente e senza
senso […]. Gioco di specchi tra mondi complementari (quello della Terra e quello della Luna, quello
della Vita e quello della Morte), dunque La Terra vista dalla Luna mantiene il suo margine di ideologia
soltanto peritralmente, mettendo in scena le marionette di un Terzo Mondo interno all’occidente, quell’immenso mondo-periferia che è la società di massa, un Terzo Mondo culturale in cui l’inconsapevolezza dei due protagonisti aumenta l’enorme senso di morte e di tristezza che emana dalla loro vitalità
ottusa, dalla loro infingarda e obbligata allegria a dispetto di tutto; un Terzo Mondo accentuato dall’ossessiva presenza di ue turisti stranieri che fotografano come “tipico” e “pittoresco” ogni angolo
dello squallore in cui prende corpo questa fiaba amara dalla morale antioccidentale, questo feroce e
disincantato atto di protesta contro la nuova, onnifaga società dei consumi e dell’industria culturale di
massa. […]
Nell’incantevole e imperscrutabile silenzio di Assurdina è riposto il senso, del tutto “muto”, della vita: il
suo esistere senza aggettivi, senza definizioni, una vita che dall’esterno può essere denominata, usata, contemplata, ma del cui segreto consistere nessuno può farsi mai davvero interprete. […] Il ruolo della donna
in una simile società è tale da essere pari al nulla della morte: la remissività di Assurdina che cela chissà
quali cose (o forse anche il nulla) dietro al suo forzato silenzio, è nel contempo santità e ottusità, inferiorità
e superiorità, rispetto alla violenta intraprendenza degli
uomini della sua famiglia che pure ruotano attorno a lei
per sopravvivere. Cos’è, in fondo, Assurdina? Un desiderio maschilista realizzato (la bellezza muta e disponibile), una vittima del proprio silenzio, o una “strega”
come vorrebbe il titolo del film collettivo, il simbolo della
moglie-madre di cui, morta o viva, in questa società non
si può fare a meno? […]
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Ed. Il Castoro
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CHE COSA SONO LE
NUVOLE?
SINOSSI
La storia è una rivisitazione dell'Otello, recitato da un gruppo di marionette che sulla scena interpretano i ruoli shakespeariani ma che dietro le quinte si pongono delle domande sul perché fanno ciò che fanno.
La rappresentazione è interrotta dal pubblico che, nel momento più
drammatico, l'omicidio di Desdemona da parte di Otello, irrompe sulla
scena e, disapprovando i comportamenti di lui e di Iago, li fa a pezzi.
Un monnezzaro getta cantando le due marionette in una discarica,
dove i due fantocci rimangono incantati a guardare le nuvole e notano
la “straziante, meravigliosa bellezza del creato”.
Episodio del film collettivo Capriccio all’ita-
CRITICA
liana
Le tematiche caustiche e celatamente ideologiche di La Terra vista
dalla Luna si trasformano, con Che cosa sono le nuvole?, in una ri- REGIA: Pier Paolo Pasolini
flessione densamente poetica sul senso dell’esistenza, sul rap- INTERPRETI: Totò, Ninetto Davoli, Laura Betti,
porto tra l’apparenza e la verità, tra l’agire e il pensare, e Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Domenico
Modugno, Adriana Asti
soprattutto, tra la nascita, il breve barlume di coscienza che è la SOGGETTO: Pier Paolo Pasolini
vita, e la morte. Ed è proprio Pasolini, parlando dei suoi due cor- SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini
tometraggi, a sostenere che ciò che li unisce, a dispetto della FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli
forma “comico-picaresca” attraverso cui sono espressi, è quella MUSICA: La canzone Che cosa sono le nuche lui definisce “ideologia della morte”: la stessa ideologia, dun- vole?, di Modugno-Pasolini, è cantata da
Domenico Modugno
que, che era alla base della riflessione sulla religione del Vangelo, DURATA:20’
quell’ideologia immanente nel percorso umano e poetico di Pa- PAESE PRODUTTORE: Italia
solini che fa corpo con l’inesplicabile mistero della vita, di quella ANNO DI PRODUZIONE: 1967
disperata vitalità che assume valore e significato solo grazie al
mistero del suo avere fine. In Che cosa sono le nuvole? Pasolini fa
luce sul rapporto di reciprocità tra la morte e la vita facendo ricorso ad una doppia finzione, quella della messa in scena nella messa in scena: il film è infatti la narrazione, effettuata tra le tavole di uno scarno palcoscenico teatrale, di come un gruppo di marionette
pensanti, di uomini-marionette, personaggi di una beffarda e semplicistica versione grottesca della shakespeariana tragedia di Otello, manovrati dal marionettista-artigiano che li ha costruiti, reagiscono al
loro obbligato destino, alla loro messa in scena sempre identica a se stessa. In questo modo Pasolini
può dispiegare la realtà della finzione artistica cme se fosse (come dice a un certo punto il suo JagoTotò) “un sogno dentro un sogno”:
in uno spazio vago e senza tempo, da
cui si avvertono appena dei deboli
segnali di un mondo esterno, diviene
possibile osservare tanto l’esteriorità
dell’arte, la sua apparenza, l’aspetto
rivolto verso la società-pubblico
(cioè la tragedia di Otello), - in altri
termini , l’aspetto visibile e comunicabile di un’opera dell’immaginazione; quanto, come se il sogno
dell’artista potesse vivere di vita propria, il pensiero dei personaggi e il
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loro dubbio, l’incertezza che nasce da un’esistenza immobile, dalla ripetizione di un medesimo ruolo
entro lo stesso destino che non ha mai fine, legato all’irrevocabilità delle disposizioni del marionettista:
quanto, infine, l’inafferrabilità di quel “mondo esterno”, il mondo della “realtà”, che si svolge nel
tempo, dove tutto è ogni volta diverso e dove tutto può cambiare. In altri termini, il mondo della vita.
È come se il regista, dunque, mettesse in scena se stesso, il suo mondo interiore, quella monade artistica
da cui non si esce, se non con la morte, che è l’unico atto della rivelazione del vero. Se l’arte è il tentativo
di costruzione di una realtà necessaria, di qualcosa che resti oltre la singola vita, nella sua inequivocabile,
straziante bellezza, che surclassa persino la “necessità” artistica, è il trionfo della gratuità, della caducità
e del cambiamento, di tutto ciò che non trova spiegazione se non in se stesso: è solo la morte delle
marionette, delle creature del pensiero, che di solo pensiero e di dramma tutto umano sanno nutrirsi,
a rivelare improvvisamente la grandiosità dell’assenza di senso, di quell’unicità senza scopo che è l’attimo folgorante della vita.
[…]
La vita delle marionette è nel contempo metafora della vita interiore e metafora della vita esteriore: da
questo gioco ambiguo nasce la sensazione di inestricabilità del significato di questa fiaba. Il cammino
delle marionette verso la coscienza, cominciato con i dubbi fuori scena dell’ingenuo Otello, si comie,
con la morte, unico attimo in cui avviene la comprensione della verità, di quel tutto senza tempo e
senza scopo che sovrasta le singole esistenze: come Pasolini aveva già detto nella poesia-commento
del film La rabbia, “noi non siamo mai esistiti, la verità sono queste forme nella sommità dei cieli”. [...]
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Ed. Il Castoro
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SALÒ O LE 120 GIORNATE
DI SODOMA
SINOSSI
I fatti si svolgono in due località, nella Salò dove Mussolini fece la sua
ultima tappa (1944-45) e a Marzabotto dove i nazisti uccisero gli
abitanti di un intero paese. Il filo conduttore è quello di De Sade: quattro "signori", fascisti di quel tempo, ma particolarmente colti, capaci
di leggere Nietzsche e di citare Baudelaire, organizzano prima dei rastrellamenti e rapimenti di ragazzini e ragazzine e poi, coadiuvati da
giovani militari fascisti, organizzano in una villa appartata tremende
feste e infine uccidono tutti. Questi "signori" riducono a cose delle vittime
umili. E ciò in una specie di "sacra rappresentazione". La vicenda si
svolge nello spazio di tre giorni durante i quali le tre "narratrici" ingaggiate raccontano storie intonate alle caratteristiche dei tre diversi
giorni: "cerchio delle passioni", "cerchio della merda", "cerchio del sangue".
REGIA: Pier Paolo Pasolini
INTERPRETI: Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi,
Umberto Paolo Quintavalle, Aldo Valletti
SOGGETTO: Donatien Alphonse (dal romanzo
di François de Sade)
SCENEGGIATURA: Sergio Citti, Pier Paolo
Pasolini
FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli
MUSICA: Ennio Morricone
MONTAGGIO: Nino Baragli
SCENOGRAFIA: Dante Ferretti
PRODUTTORE: Alberto Grimaldi
DURATA:112’
PAESE PRODUTTORE: Italia, Francia
ANNO DI PRODUZIONE: 1975
CRITICA
Rileggendo in questi giorni L’Innocente di D’Annunzio, vi
trovo un pensiero che sono tentato di applicare al Salò di
Pasolini: “Ahimè, quante volte noi crediamo sentire la verità
in una voce che mentisce! Nulla ci può difendere
dall’inganno”.
Penso alla verità dell’arte, ma anche alla trappola in cui può
essere caduto il povero Pasolini e che può contenere, o non
contenere, il film: così ambiguo, così sconcertante a chi non
Note:
sappia troppo giocare con le parole, e apportatore per tutti
- Aldo Valletti è doppiato da Marco Bellocdi malessere profondo, sembrandomi il suo ultimo modo di
chio e Giorgio Cataldi da Giorgio Caproni.
usare l’immagine del male per condannarlo.
- Pasolini fu assassinato prima che il film
Mi chiedo se la ricerca della verità, che egli indubbiamente
uscisse
nelle sale.
perseguiva con assillo furibondo, non fosse ormai guidata
.
- L'uscita nelle sale era prevista per il
da una fantasia così ossessionata dal turpe da impedirgli di
22.11.1975 ma il film subì un sequestro prepossedere il reale. Mi sento molto vicino a quanti, suoi amici,
ventivo. Uscì l’11.01.1976 ma fu sequestrato
oggi si adoperano perché la sua fine appaia sotto una luce
e il 30 dello stesso mese fu condannato per
non ignobile. Dopo aver visto Salò, l’ipotesi che Pasolini sia
oscenità e tutte le copie furono sequestrate.
andato volontariamente in cerca di qualcuno che lo
A febbraio 1977 fu dissequestrato ma con
l’obbligo di alcuni tagli.
suicidasse in uno scenario sentito come luogo canonico della
desolazione mi sembra rafforzarsi.
Il suo film, voglio dire, avvalora il dubbio che negli ultimi
mesi Pasolini non sapesse più guardarsi da quella forma di autodistruzione, di separazione dalla realtà,
di fuga dalla storia, che si esprime da un lato nella frenetica predicazione di assetti sociali
utopisticamente regrediti e dall’altro nell’anarchico rifiuto dell’idea di potere, tenuto esso stesso per
trionfale espressione dell’anarchia.
Doveva esserci una dissociazione tragica, risolta nel delirio letterario, in un Pasolini che mentre
rimpiangeva “il tempo del pane”, tornando a contemplare il mondo qual è denunciava la vocazione
dei suoi protagonisti subalterni, umili e casti, a essere con la loro passività complici delle aberrazioni
dei potenti, sboccando così in un nichilismo nel quale forse si esprime l’impotenza di molta cultura
contemporanea a reggere la difficoltà di vivere.
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Perché altrimenti Pasolini,
col suo grande talento di
artista, avrebbe scelto di
ispirarsi, fra mille opere e
mille esempi, a pagine della
storia letteraria che per
quanto possano essere
interpretate come una
rivolta metafisica non
cessano perciò di restare un
mito repellente, un rifiuto
della ragione e dell’amore?
Pasolini sapeva bene che
l’immagine
ha
una
concretezza sconosciuta
alla parola, e che il
simbolismo del marchese
De Sade, una volta portato
sullo schermo, non avrebbe
potuto serbare la sua carica
di scandalo intellettuale, ma
prodotto un disagio fisico e
morale in cui il fascino del
male
sarebbe
stato
maggiore del suo orrore. Se
lo ha fatto, credo, è perché
la nausea di sé, complice e
vittima egli stesso del
consumismo del sesso, lo
induceva al più tetro “cupio
dissolvi”
che
possa
albergare in chi è costretto ad arrendersi dinanzi alla violenza corruttrice di quel potere che Pasolini
considerava la negazione della storia e che invece è inerente alla sua stessa nozione. Perché la storia
dell’umanità è la storia del potere, e viceversa.
Salò trasferisce al 1944-45, nel clima della Repubblica sociale italiana, le vicende narrate nelle Centoventi
giornate di Sodoma, scritte da Sade, esattamente centonovanta anni fa, in una cella della Bastiglia, e
per la prima volta pubblicate, non a caso da uno psichiatra, nel 1904. Il film si apre su quattro
personaggi (un’eccellenza, un presidente, un monsignore, un duca) che firmano un regolamento, da
loro redatto, nel quale si prevede il cerimoniale delle pratiche cui si apprestano a dedicarsi. Di che cosa
si tratti veniamo a sapere ben presto: appena rastrellati fra le campagne e sottratti a famiglie e collegi,
adolescenti dei due sessi vengono raccolti in una villa, selezionati, e costretti ad assistere e partecipare
ad azioni nefande, compiute su di sé e su di loro dai quattro signori e dalle guardie del corpo in divisa
repubblichina. Perché l’atmosfera si scaldi, tre vecchie ruffiane d’abito e movenze eleganti (scendono
scale come Wanda Osiris) raccontano a turno, accompagnate al piano da una quarta, nel corso di tre
gironi intitolati alle manie, alla merda e al sangue, le maggiori perversità di cui sono state testimoni e
protagoniste nel corso della vita: di un professore che si faceva masturbare dalle bambine, di un ministro
che associava il piacere al culto degli indumenti carbonizzati, di un generale che amava mangiare
escrementi, e via insanendo.
I quattro signori, secondo il programma, ascoltano i racconti con crescente agitazione, pretendono
ogni dettaglio, e sovente li interrompono per metterne in pratica i passaggi più scabrosi. Il film ci
mostra così, senza veli, mani maschili che afferrano i giovani ospiti, li sbottonano, li piegano alle loro
voglie, li trascinano nei cessi, coram populo li violentano, e se occorre li oltraggiano sino alla morte. Alle
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ragazze innocenti si dà lezione su un manichino, e se taluna scoppia in lacrime la festa è più eccitante.
Accade che i pranzi, serviti da giovani nude, si chiudano con brindisi sodomitici, commentati da canzoni
della grande guerra, che si celebrino falsi matrimoni intervallati da dibattiti culturali, e che i giovani
siano costretti a comportarsi da cani. La vetta si tocca durante un banchetto di nozze nel quale vengono
servite feci umane fumanti, e tutti ne mangiano, quando si indice un concorso per il culo più bello
(primo premio, la morte), e tre dei signori, travestiti da donna, sposano altrettanti ragazzi.
Dopodiché bisogna punire quanti fra i giovani hanno violato la legge che proibiva rapporti fra sessi
diversi. Una catena di delazioni porta i signori a scoprire che molti hanno compiuto infrazioni al
regolamento. Siano dunque castigati immergendoli in un catino di sterco e sottoponendoli agli affronti
più crudi. Chi sfugge al capestro, alla fiamma e alla garrota verrà accecato e scuoiato. Gli aguzzini
assistono a turno allo spettacolo da lontano, muniti di cannocchiale, e la vista delle perfidie è pretesto
per nuove delizie. Due danze chiudono il film: fra tre carnefici, che intrecciano un balletto da
avanspettacolo, e fra due ragazzi che affettuosamente parlano di fidanzati. L’unica che non ha retto è
la ruffiana pianista, gettatasi dalla finestra.
Che Salò sia fedele alle Centoventi giornate, e che quindi non si debbano attribuire alla fantasia di
Pasolini le sue infamie, importa poco. Nemmeno intimidisce l’operazione critica che sarà compiuta, in
una bella gara di intelligenze, per affermare il valore libertario di questo catalogo di follie, con il
prevedibile elogio della bellezza dell’inferno: dato ricorrente in una cultura che esorcizza la paura della
propria sterilità celebrando le virtù dei porcili. Tanto meno l’accusa di non saper controllare i
meccanismi moralistici indotti dalla tradizione. Ciò che sgomenta è il ricatto di cui tutti siamo vittime
dinanzi a un film sul quale è quasi impossibile esprimere un giudizio che in qualche modo prescinda
dalla morte violenta del suo autore, e non lo correli alla provocazione, esplicitamente cercata, di un
Pasolini prigioniero del proprio ruolo in una società che digerisce ogni scandalo.
Le sue intenzioni si conoscono. Egli intendeva compiere una metafora delle nequizie cui conduce il
potere, quali gli sembravano esprimersi soprattutto nel rapporto sessuale sadico. In qualsiasi potere,
insisteva Pasolini, c’è qualcosa di belluino, che porta al possesso dei corpi, usati come oggetti. I delitti
nazifascisti nei mesi di Salò ne sono l’esempio storico piu persuasivo, ma oggi se ne ha la riprova nei
crimini del consumismo. I veri anarchici sono sempre quanti manovrano le leve di comando: la storia
non esiste, odio i corpi e gli organi sessuali, odio il sesso divenuto, da gioia e libertà per gli umili in
epoche repressive, atroce espressione di violenza in epoche permissive. “Faccio un film perverso per
protesta contro la perversione che è ormai dappertutto”.
Mi chiedo questo: se la protesta non sia contro la perversione ma contro la vita stessa, se l’odio di sé
non spingesse Pasolini a un supplizio autopunitivo in quel fango che a lungo era riuscito a
intellettualizzare, aiutato dalle mode letterarie, ma del quale aveva misurato (anche per il complesso di
colpa creatogli dal successo del cinema decameronico) l’irreparabile ribrezzo. Io non sono affatto
sicuro che la ruffiana la quale si getta dalla finestra non sia il simbolo della coscienza di Pasolini. Mi
sembra
certo
invece che il
cammino della sua
ricerca espressiva,
volta a stilizzare la
degenerazione in
una specie di sacra
rappresentazione
del laido con
elementi di sinistra
comicità, sia stata
frenata da ingorghi
personali,
dalla
quasi maniacale
venerazione di riti
troppo vissuti o
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sognati per potervi ironizzare senza straziarsi le carni.
Lasciamo perdere l’immagine di Salò come asilo di pazzi, sebbene anche quella parentela fra il castello
svizzero del Seicento in cui Sade aveva ambientato le fiabesche “Giornate” e la “Villa Triste” dei
repubblichini confermi la sfiducia di Pasolini nell’analisi storica. È che gli spunti sarcastici del film,
riassunti nelle barzellette idiote che i quattro signori ogni tanto si raccontano ma anche nell’irridente
invito d’una ragazza a sopportare ogni ingiuria facendo un fioretto alla Madonna, sono annullati nello
stupore che Pasolini, sotto l’apparenza di un occhio glaciale, prova nell’esibire le svolte del male. Il suo
pessimismo giunge a inglobare le vittime, non tutte spaurite dal satanismo dei padroni. Viene il sospetto
che egli abbia più odio per quei giovani corpi inermi, esposti dalla stupidità dell’innocenza a ogni
oltraggio, che per i loro carnefici, strumenti d’una fatale demenza.
Mai come di fronte a Salò si misura l’assurdo del crinale fra bello e brutto, buono e cattivo. Il distacco
di Pasolini dalla sua terrificante materia essendo intermittente, il film ha nel contempo la sacralità d’un
mistero blasfemo, narrato come un sogno mentale di assoluta coerenza, e la bassezza del cinema osceno
che dell’accumulo di immondizie fa, a seconda della tollerabilità dello spettatore, un elemento stilistico
o un fattore di tedio umiliante. Con molte intuizioni narrative, quali il rapporto fra la squisitezza triviale
dei racconti e la matta bestialità delle azioni, le pitture “degenerate” di cui i mostri si circondano, l’uso
di sfatte bellezze per le parti delle ruffiane di lusso, la musica che accompagna le orge, il silenzio delle
torture finali e certe parentesi assorte, ma anche con civetterie quali la bibliografia sadiana offertaci
nei titoli di testa e strappi di gusto quali l’attribuire a uno dei quattro carnefici una voce molto simile
a quella di Aldo Moro, il battezzare Gentile e Missiroli alcuni campioni di sadismo, e far salutare col
pugno chiuso una delle vittime.
Salò è un film privo di gioia erotica, e per paradosso anche privo di volgarità, ma dove la luce
dell’intelligenza di Pasolini è appannata da un’ideologia della sconfitta. Non saprei dar torto a chi,
respingendo il ricatto d’una cultura che spesso si sposa allo snobismo, si dolesse di veder affidato a
Salò il testamento di Pasolini. Il marchese De Sade si augurava, morendo, che la sua memoria
scomparisse dallo spirito degli uomini. Forse Pasolini ha sperato che, avviato al suicidio universale, il
nostro mondo traesse dal suo film il coraggio di buttarsi. Per rinascere come?
Giovanni Grazzini, da AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976, già in Giovanni
Grazzini, Gli anni Settanta in cento film
Salò e altre ipotesi - Incontro con Dacia Maraini
di Giovanni R. Ricci, da: AA.VV., Dedicato a Pier
Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976, già nel n. 7
della rivista letteraria «Salvo imprevisti»
Roma, fine di marzo. Quaggiù è arrivata la primavera:
il Tevere, pieno di luce, sembra meno inquinato del
solito. Soffia un vento leggero. Fa caldo. Incontro
Dacia Maraini, nel suo attico di quasi periferia, per
un’intervista sulle ultime opere filmiche di Pasolini.
Alberto Moravia lavora nella stanza vicina.
Dalla finestra si vedono – nitidi – ampi spazi del
lungofiume e un cielo di un azzurro particolare, che fa
venire in mente – è una sensazione privata – certi
pomeriggi di Inverness, in Scozia, o certe albe estive
di Copenaghen.
Parlare di Pasolini, dei suoi film, dei suoi libri significa,
credo, impegnarsi su problematiche che vanno al di là
dell’estetica, del formalismo letterario o visivo.
Parlare e scrivere di Pasolini vuol dire calarsi nel
magma
politico-esistenziale
di
quest’Italia
(quest’Europa) che ci circonda. Intanto il processo [si
riferisce al processo in corso contro l’ultima opera
cinematografica di Pier Paolo Pasolini, Salò o le centoventi
giornate di Sodoma] va avanti stravolgendo – come
osserva Dacia Maraini al termine del colloquio – i ruoli
effettivi, reali del carnefice e della vittima.
Salò subisce, da noi, la condanna al rogo; in Francia
lotta ancora coi baroni della commissione di censura;
a Francoforte i bravi borghesi germanici arricciano il
naso, evidentemente turbati più dal simbolismo dei
cineperiodi che dal rimorso d’un retroterra storico in
massimo grado colpevolizzante.
Dacia Maraini è un’operatrice culturale che ama partire
nel giornalismo, nella letteratura, nel teatro, nel cinema –
da dati razionali, concreti, una donna che fa cultura e
politica secondo una linea d’azione che niente ha da
spartire coi tetri decadentismi in cui si dibattono vasti e
ambigui settori della “intelligentija” romana.
Discutere con lei intorno alla figura di Pier Paolo Pasolini,
questo compagno di strada e di lotta costantemente
attratto dal non razionale, dal non scientifico, è
un’esperienza di grande interesse.
Reputo giusto, e doveroso, trascrivere in modo pressoché
integrale il resoconto fonografico del nostro dialogo,
avvenuto a Roma tra le ore 12 e le 13 del 29 marzo 1976.
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Inizierei col parlare di Salò. Come hai
reagito tu dinanzi alla visione del film?
Dice Sciascia: «I più non ne avranno
che nausea e orrore: e o sentiranno
l’impulso di ripagare con la violenza
tanta violenza (magari sfasciando il
cinema)
o
sentiranno
tanta
disperazione e dannazione da trovarsi
a invocare Dio come nel film la
vittima». E aggiunge di aver chiuso gli
occhi alla ricerca di un buio fisico che
si contrappone al buio morale
erompente dallo schermo.
Salò o le centoventi giornate di Sodoma è
un film in certo modo sgradevole,
però è anche una parabola
DACIA MARAINI
abbastanza chiara sulla violenza. In
fondo le cose che infastidiscono
sono le cose ambigue: Pasolini è invece estremamente
chiaro, anche troppo, a tal punto che diviene quasi
astratto, simbolico. Questa metafora sul Potere e sulla
sua violenza verso gli oppressi si differenzia dal film
della Cavani [Portiere di notte, ndr] che era tutto basato
su un coinvolgimento della vittima dentro il male. Qui
c’è un distacco nettissimo, manicheo: ci sono gli
oppressi e gli oppressori, e fra di loro non si instaurano
rapporti se non di brutale violenza. Forse la cosa che
più colpisce non è tanto la violenza quanto la parte
escrementizia: siamo abituati a vedere sia il sesso che
la violenza, ma la parte escrementizia è nuova, e dà una
certa impressione. Poi una cosa che dice Moravia e su
cui io sono d’accordo è che il film non è sadico, perché
non è fatto da una persona sadica: i film sadici sono i
film americani. Sono talmente sadici da non dare più
l’impressione del sadismo che – come in Mandingo e in
certi film western – diviene un qualcosa di
assolutamente assimilato. Salò, al contrario, è un film
sul sadismo di una persona che non è affatto sadica.
Pasolini a un certo punto della sua vita ripudia la trilogia
Decameron-Canterbury-Oriente oppresso dalla sperimentazione quotidiana di un mondo ove anche i sensi hanno
perso ogni ipotesi di felicità, di innocenza, e le stesse masse
subproletarie sono omologate, standardizzate persino
nell’aspetto fisico. Come mai, in che modo, in quali termini
dall’apparente ottimismo della “Trilogia della vita” Pasolini
perviene alla drammaticità mortuaria di Salò?
Pasolini aveva seguito molto da vicino la
trasformazione del sottoproletariato e ne era rimasto
colpito. Bisogna dire che il sottoproletariato è lo strato
sociale che è cambiato di più negli ultimi anni,
passando da una specie di accettazione paesana della
realtà a una presa di posizione molto violenta e brutale:
i sottoproletari si sono impadroniti dei valori della
borghesia portandoli alle estreme conseguenze, senza
addolcimenti di alcun genere. E poiché il mondo che
Pasolini conosceva meglio era appunto quello del
sottoproletariato, partendo da queste considerazioni
era portato a generalizzare. Qui, secondo me, lui
sbagliava, perché non è vero che anche nel proletariato
o negli studenti vi sia questa omologazione. Il discorso
diviene anzi un po’ pericoloso, così com’è pericoloso
risalire per esempio dal fatto che ci si veste in un certo
modo al fatto che si pensa tutti nello stesso modo. È
vero comunque che non c’e più la separazione di una
volta tra mondo borghese e mondo popolare, ma
questa piccoloborghesizzazione della massa è un
fenomeno verificatosi ovunque. La massa oggi non è
popolo ma piccola borghesia (come stile di vita), e da
ciò Pasolini traeva la conseguenza che destra e sinistra
si equivalgono, entrambe omologate da un certo modo
di comportarsi, da una certa segnaletica. E arrivava al
punto di dire che sotto il fascismo il sottoproletariato
era più intatto perché l’ideologia fascista gli era imposta
mentre adesso l’ideologia dominante gli viene inculcata
e i sottoproletari la accettano come propria.
Ecco, mi pare chiaro che Pasolini, ai tempi di Salò, volesse
prendersela più col potere di oggi, distruttivo e omologante,
che col fascismo repubblichino. Diceva anzi che era stata
l’impossibilità di sopportare fisicamente “i beni di consumo
di oggi, le facce di oggi, i capelli lunghi di oggi” a fargli
proiettare la critica al Potere di oggi nell’epoca di Salò, che
diventa simbolo recente eppure non storicizzato, per dirla
con Argentieri «travestimento storicistico e sociologico di
una angoscia esistenziale» (“Rinascita”, 28 febbraio 1975).
Pasolini insomma sembrava più ossessionato da certa
violenza mercificante del Potere che dai pericoli del
neofascismo: era, questo di Pasolini, un atteggiamento
politicamente motivato, vorrei dire oggettivo, scientifico, o
non piuttosto personalistico, frutto di problemi di
adattamento esistenziale integralmente soggettivi?
I suoi atteggiamenti non erano mai dettati da ragioni
oggettive: lui era molto soggettivo e la sua qualità
consisteva appunto nel razionalizzare questa sua
soggettività, questo suo irrazionalismo. E si è spesso
trovato al momento giusto, nel posto giusto a creare,
così, una sorta di scandalo, di rottura che aveva una
sua funzione, come quando se la prese con gli studenti
prima del ‘68.
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L’erotismo. Diceva Pasolini: «I miei film non sono mai
erotici, purtroppo». E a proposito di Salò: «No, neanche
questo, non credo che sia erotico, può essere sconvolgente
oppure non so scioccante, ma erotico no, mai, forse perché
sono inibito e non so rappresentare l’erotismo in quanto
erotismo... l’eros nei miei film è sempre un rapporto
drammatico, metaforico» (“Il mondo”, 1 aprile 1975). In che
senso l’eros pasoliniano è sempre rapporto drammatico?
Anche nella “Trilogia della vita” l’eros è rapporto
drammatico?
In questo penso che lui avesse ragione. È vero che,
così come Salò non è erotico-sensuale, anche gli altri
suoi film non possono essere definiti erotici. Ed è vero
che lui era inibito, che per lui l’eros era un dramma:
basta pensare un momento alla sua vita,
all’allontanamento dalla scuola, a tutto il resto per
capirlo. La sua omosessualità, oggetto di persecuzione
fin dal principio, evidentemente gli ha fatto vivere il
sesso in maniera drammatica. Nella stessa “Trilogia”
c’e un’idea indiretta della sessualità: la sessualità è
rivista e vissuta attraverso gli occhi dei protagonisti,
dei ragazzi di vita, dei giovani. È inoltre una sessualità
molto letteraria e figurativa, sempre concepita come
un quadro rinascimentale o come un’opera di Chaucer,
di Boccaccio... È una sessualità molto raggelata, non è
ricca di carica vitale, non è semplice, diretta, non lo è
mai...
«La vera anarchia è quella del potere». Sei d’accordo?
Credo che Pasolini volesse dare alla parola “anarchia”
– intesa come “disordine”, come caos un senso
dispregiativo. L’anarchia in quanto fine politico è
un’utopia, mentre di solito quando si parla di “realtà
anarchica” ci si riferisce a una situazione negativa di
confusione estrema. Penso che lui intendesse dire
questo: è la condanna del Potere come legge del più
forte. Naturalmente sono d’accordo.
Ha scritto Leonardo Sciascia, a proposito dell’atteggiamento di Pasolini nei confronti del marxismo: «[...] Si
potrebbe azzardare una specie di ipotesi di lavoro: che
certe verità dette da Pasolini – sul capitalismo, sul
comunismo, sulla violenza, sulla classe dirigente italiana
(cioè non-dirigente), sull’istruzione pubblica fossero
marxiste in quanto verità, per la capacità e mobilità del
marxismo e far propria ogni verità [...] e non lo fossero per
estrazione, per adesione, per meditazione» (“Rinascita”, 12
dicembre 1975). Qual è la tua opinione in merito?
avanti i discorsi che lo interessavano con grande
slancio e grande coraggio. Questo ha un’importanza
enorme, perché il nostro è un paese poco coraggioso
in cui gli intellettuali non parlano chiaro e il linguaggio
è estremamente ermetico. In questo mondo letterario
così estetizzante lui estetizzava in maniera clamorosa,
violenta, ammirevole. Io credo che lui si sia espresso
in modo completo soprattutto nelle poesie, più che nel
cinema: per me le poesie sono il massimo che ci ha
dato. Nelle poesie riusciva a fondere le preoccupazioni
esistenziali private con il momento pubblico, con
l’apertura verso la realtà politica. Anche perché forse
la poesia si serve di strumenti irrazionali, non ha
bisogno di una struttura rigida come il cinema o il
romanzo.
Come si poneva Pasolini in rapporto con le strutture
economiche della produzione cinematografica tradizionale
e capitalistica? E in che rapporto era coi circuiti del ci-nema
cooperativistico e alternativo? Grimaldi, mi pare, è un
altoborghese piuttosto illuminato, mentre d’altra parte
abbiamo avuto Visconti che ha lavorato per Rusconi...
Non c’è dubbio che oggi, è inutile nascondere la testa
sotto la sabbia, l’artista, l’uomo di cinema lavorano con
capitali borghesi: non è che ci siano molte scelte. I
giornali, le case editrici, tutto appartiene al capitalismo,
appartiene alla borghesia. I circuiti alternativi, sia quelli
del cinema che quelli della letteratura, sono talmente
embrionali e minimi che servirsene per un discorso un
po’ allargato risulta quasi impossibile. Ogni tanto ci si
lavora, ma certamente non possono essere questi gli
unici canali a disposizione degli autori. E anche vero
però che, all’interno di questa non-scelta, sussiste una
differenza profonda: c’è come dicevi giustamente,
Rusconi, che porta avanti una politica di
conservazione, di oscurantismo, e ci sono altre
produzioni che invece, se non altro, si avvicinano a
tematiche più moderne, più interessanti: che poi lo
facciano per ragioni economiche e non certamente
politiche non importa poi molto, si sa, è ovvio. E in
questo senso credo che Pasolini non avrebbe fatto un
film per Rusconi. Mi pare di ricordare, ne abbiamo
parlato a volte, che lui criticasse Rusconi.
Quelle di Pasolini non sono tanto delle posizioni
marxiste quanto piuttosto delle rotture. E in questo
senso era più un cristiano, cioè era per lo scandalo nei
confronti del mondo borghese, del Potere dominante.
Sebbene non fosse sempre disposto a vedere la verità,
era un uomo sincero, onesto, coraggioso e mai
opportunista: rischiava spesso di andare contro
l’opinione pubblica, di essere aggredito, attaccato,
criticato... Non aveva niente a che vedere con quei
letterati che si nascondono dietro le formule. Portava
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Sembra esistere, seppure non negli ultimi tempi, anche un
Pasolini che storicizza, che avvicinandosi dall’esterno
tocca i confini espressivi del reportage, che guarda con
qualche interesse al cinema-verità, magari al film
d’intervento. Pensiamo agli Appunti per un film sull’India,
a La rabbia (con quei brani di cinegiornali della fine degli
anni Cinquanta rimontati da Pasolini: la guerra in Algeria,
Papa Giovanni...). Pensiamo ai Sopralluoghi in Palestina
(del ‘64) per il futuro Vangelo secondo Matteo, e a un filone
come Comizi d’amore (in cui, sempre nel ‘64, Pasolini volle
mettere insieme una serie d’interviste sui tabù sessuali
degli italiani). E la collaborazione a 12 Dicembre di Bonfanti,
e l’Orestiade africana girata in 16 millimetri... Pensi si tratti
di filoni secondari? Viene da chiedersi se questi film
abbiano qualche legame con l’altro cinema di Pasolini...
Penso che Pasolini sentisse il bisogno, come credo
succeda a tutti i registi che lavorano nel mondo
cinematografico ufficiale, di intervenire in canali e in
produzioni di tipo alternativo. E certamente qualcosa
ha fatto: non molto, perché il tempo che gli portava
via il cinema diciamo così costoso, ufficiale, era quasi
tutto il tempo che lui aveva a disposizione. L’opera
secondo me più riuscita è senz’altro gli Appunti per una
Orestiade africana che ho visto recentemente in Spagna
dove hanno fatto una proiezione, un dibattito su
questo film e su di lui. Pasolini l’aveva girato per la
televisione italiana e la televisione non l’ha mai messo
in onda: quindi vedi che anche lavorare per canali non
commerciali diventa un problema. Io per esempio
devo fare un documentario sulle donne in un villaggio
africano, il progetto è stato discusso e approvato ma
sta lì da due anni, non riesco a iniziare i lavori. Sono
sicura che il giorno in cui magari ho la possibilità di
ultimarlo resta poi in un cassetto. È estremamente
frustrante per un autore lavorare fuori dal cinema
commerciale perché le sue opere o hanno scarsissima
diffusione oppure, come nel caso del denaro pub-blico,
finiscono con l’essere messe da parte.
Ha scritto Moravia: «Si dovrebbe dire che Pasolini forse si
sentì impacciato dalle parole e allora ricorse all’immagine
che, per essere nuova per lui, dovette sembrargli, almeno
per un certo tempo, più libera, più vergine, più espressiva»
(“Corriere della Sera”, 6 dicembre 1975). Una tua opinione
in proposito, e anche una tua posizione personale sul tema
del rapporto parola-immagine.
Pasolini certamente era una persona irrequieta e aveva
il bisogno di provare sempre cose nuove. In questo
senso credo che abbia ragione Moravia: Pasolini
sentiva la limitatezza della parola (limitatezza come
diffusione), soprattutto perché lui era poeta, scriveva
soprattutto poesie e le poesie, si sa, hanno pochissima
diffusione: il nostro è un mondo che in un certo senso
rifiuta la poesia. Quindi Pasolini voleva parlare a un
maggior numero di persone e non c’è dubbio che il
cinema è il linguaggio più comune, che si diffonde
meglio, che non ha bisogno di traduzione, che si può
trasferire in altri paesi: c’è un senso di grande libertà a
lavorare col cinema. Quanto al mio caso personale
esiste una certa affinità di posizioni, anche se io mi
muovo in un campo diverso dal suo, perché il cinema
che io faccio è un cinema alternativo, un cinema
d’intervento politico, ho fatto una cosa sull’aborto,
faccio cose sui problemi delle donne... Per me il cinema
e il giornalismo, due armi che io uso per intervenire
pubblicamente, sono in effetti strumenti molto efficaci
e immediati: i prodotti del cinema e del giornalismo
possono circolare in tutti gli ambienti, hanno una
capacità di intervento sulla realtà, di avvicinamento al
problema che la letteratura è un po’ più difficile abbia.
Qualche tema meno generale. Come vedi, all’interno di Salò
e dei film precedenti, i rapporti tra Pasolini e la religione
cattolica? Si può cogliere una certa intuizione del peccato,
un certo interesse per il cristianesimo...
Proprio per il suo carattere in fondo irrazionale
Pasolini era abbastanza influenzato da fenomeni come
il cattolicesimo, che razionalmente rifiutava ma che
sentimentalmente subiva. E questo si ritrova, credo, in
tutti i suoi film. Il suo è un tipico rapporto
sentimentale con la religione: perché lui non era
religioso.
La religione diveniva un fatto irrazionale, emotivo...
Sì, una religione irrazionale, mistica, emotiva e anche
rituale. È molto importante il
momento rituale. Non so se tu
hai visto La ricotta: ne La ricotta,
e anche nel Vangelo, c’è un
rapporto sentimentale con
Cristo.
Addirittura
di
identificazione. Non solo, ma
lui dà il Vangelo come se fosse
vero, non lo discute, non lo
storicizza:
lo
illustra,
mettendoci dentro una carica di
identificazione sentimentale e
personale. E in questo torno a
quello che dicevo prima:
Pasolini, pur nella sua grande
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capacità intellettuale, aveva con la realtà un rapporto
fuori da moduli razionali.
Pasolini e il femminismo. Pasolini e l’immagine (filmica)
della donna. A me personalmente sembra che la posizione
di Pasolini nei confronti della donna fosse abbastanza
contestabile. A questo proposito, più che ai film di Pasolini,
penso sempre a una pellicola di cui Pasolini ha fatto la
sceneggiatura, le Storie scellerate di Citti, in cui mi pare vi
sia un’immagine della donna oggettualizzata al massimo...
Perché Pasolini dava quest’immagine della donna se la sua
concezione del mondo era totalmente, innegabilmente
democratica?
Il rapporto di Pasolini con le donne passa attraverso il
rapporto di Pasolini con la madre, perché è l’unico
rapporto in cui è andato a fondo. Pasolini aveva
pochissimi rapporti con le donne, soprattutto non
aveva mai avuto un rapporto sentimentale, che è
sempre un modo di capire le persone: amare una
persone vuol dire capirla. Ora, l’unica donna che lui ha
amato è la madre. Quindi in un certo senso lui ha
cercato di vedere il mondo attraverso gli occhi della
madre e attraverso quello che per lui rappresentava
questa madre. Infatti, quando aveva un certo
sentimento di amicizia con una donna, spesso la
vedeva come una madre: è successo nel caso della
Laura Betti, è successo nel caso della Elsa Morante. E,
anche se io ero più giovane di lui, c’era un po’ anche
con me questo tipo di rapporto. Quindi, non amando
le donne, non le conosceva, non le capiva, e anche era
portato per una specie di vezzo sentimentale a vederle
attraverso gli occhi dei suoi ragazzi. E spesso parlava
delle donne, non tanto delle donne intelligenti che lui
conosceva e che stimava, ma delle ragazze, come ne
parlerebbe un ragazzo di borgata, cioè con grande
familiarità ma anche con molto disprezzo, con
disinteresse. Il fatto di generalizzare, il fatto di non
vedere le donne nella loro realtà lo ha poi portato, per
esempio, a prendere una posizione così negativa nei
riguardi dell’aborto. Sul “Corriere” ha scritto, e gliel’ho
fatto notare, un lungo articolo contro l’aborto senza
mai riflettere un momento che è la donna a subire
l’aborto: lui ha visto tutto dal punto di vista di questo
bambino ancora non nato, potenziale uomo,
naturalmente maschio. Dunque ha sùbito colto il
rapporto madre-figlio e l’aborto gli ha ripugnato
profondamente perché ha visto una negazione di se
stesso come figlio e una violenza da parte della madre.
Senza pensare che invece la violenza prima è quella
subita dalla donna. Questo non gli veniva neanche in
mente, infatti quando a un certo punto gli ho detto:
ma scusa, tu hai scritto un lungo articolo in cui sembra
che la donna non esista, che l’aborto venga fatto non
si sa da chi, che sia un atto meccanico, lui ha ribattuto:
sì, forse è vero, non ci ho pensato, ho pensato soltanto
alle ragioni del figlio immaginario, di questo figlio che
deve ancora nascere. E questo è abbastanza indicativo:
Pasolini vedeva un mondo con uomini reali e donne
irreali. Così in certi momenti intuiva le donne come
immagini della madre, in altri momenti le vedeva
attraverso gli occhi dei ragazzi che amava, in altri
momenti ancora le concepiva come figure poetiche e
molto astratte. Non riusciva mai a vederle nella loro
realtà, in maniera problematica.
Vorrei sapere quale tra i film di Pasolini tu ami di più, per
motivazioni estetiche o ideologiche o di altro genere.
Uno dei film che amo di più è Accattone, poi Teorema,
anche perché forse in Teorema ci sono due personaggi
di donna che per la prima volta Pasolini prende
abbastanza stranamente sul serio: il personaggio
(interpretato da Laura Betti) della serva che finisce
santa, martire, e il personaggio della moglie
dell’industriale, che tenta di afferrare il mondo, di dare
un senso al mondo attraverso un tipo di erotismo cieco
ma non femminile come tradizione storica.
Concluderei, se sei d’accordo, con qualche ricordo della
tua collaborazione cinematografica e culturale con Pasolini.
Il lavoro più impegnativo che ho fatto con lui è stata
la sceneggiatura de Il fiore delle Mille e una notte. Pasolini
aveva molta fretta perché la sceneggiatura doveva
essere pronta entro un mese: è stato molto faticoso. E
stranamente abbiamo lavorato in parallelo, cioè io ho
fatto una metà, lui ha fatto l’altra metà, poi ci
incontravamo la sera a vedere il lavoro reciproco, che
– per quanto mi riguarda – lui ha modificato
abbastanza durante la lavorazione del film. Infatti l’ho
rimproverato di aver introdotto qualche modifica alle
figure femminili, che io avevo cercato di rendere più
dal punto di vista della donna e che lui non ha potuto
fare a meno all’ultimo di cambiare. Poi, per esempio,
gli ho molto rimproverato quella scena, non so se ti
ricordi, della freccia, che io ho trovato bruttissima, anzi
molto offensiva. Secondo me non è neanche un’idea
sua ma dello scenografo perché è un’idea, così... quasi
da barzelletta, no? Ecco, per il resto c’erano degli
elementi meno oggettuali del solito nei riguardi delle
donne.
Fra gli ultimi film probabilmente è il meno antifemminista.
Il meno antifemminista, sì. Forse si sente un po’ la mia
mano, anche se in seguito appunto molte cose sono
state cambiate. Comunque questo è il mio lavoro più
impegnativo con Pasolini. Poi abbiamo fatto insieme
alcun doppiaggi, alcuni – diciamo – adattamenti: Sweet
movie, Trash... In realtà il lavoro di tipo pratico lo facevo
io, perché lui non aveva tempo. Però mi aiutava a
scegliere le voci, mi aiutava a scegliere i personaggi, e
poi correggevamo insieme i dialoghi...
Cioè avete fatto la traduzione e curato la parte tecnica..
. E curato il doppiaggio, sì, che è riuscito piuttosto
bene proprio perché abbiamo compiuto una scelta
scrupolosa delle voci, che non erano quelle del
|45|
mercato
italiano
ha
rifiutato
decisamente qualsiasi forma di film con
sottotitoli. Adesso forse le cose stanno
cambiando. Allora, comunque, noi
abbiamo tentato di realizzare un
doppiaggio che fosse più umano, un
doppiaggio nel quale gli attori fossero
consapevoli di ciò che facevano,
conoscessero il film, venissero scelti
perché veramente adatti a quella parte
e non soltanto in base a opportunità di
mestiere. Tutto questo con una calma,
una attenzione che di solito non si usa.
PASOLINI FRA MORAVIA E DACIA MARAINI
doppiaggio tradizionale, ripugnanti per la loro
meccanicità. Abbiamo cercato al contrario delle voci
che dessero l’idea di un qualcosa di autentico, di
genuino, di umano, ecco...
Le voci originali...
Nel caso di Trash si trattava d’una presa diretta, quindi
le voci inglesi non erano affatto convenzionali. Mi
riferisco alla convenzione del doppiaggio italiano che
viene fatto in 56 giorni mentre gli attori non sanno che
cosa vanno a doppiare: il massimo dell’alienazione. Il
doppiaggio in Italia avviene così, no? Si chiama un
attore, di solito perché partecipa a una certa
cooperativa, e dunque spesso neanche adatto al
personaggio, viene messo davanti a un testo che non
conosce, vede soltanto quei brani che lo riguardano,
doppia rapidissimamente – con uno stile ormai
meccanico – la sua parte e poi se ne va, prende i soldi,
e basta. Noi in realtà eravamo contrari al doppiaggio,
ma nel mercato italiano è molto difficile sfuggire...
Tu sei favorevole ai sottotitoli...
Sarei per i sottotitoli, contro il doppiaggio,
naturalmente, e anche Pasolini lo era, perché trovo che
la lingua originale è molto più efficace. Però finora il
Siamo al termine dell’intervista. Non so, se
vuoi aggiungere qualcosa...
Io vorrei adesso semplicemente dire una cosa che
credo sia bene dire: anche se qui parliamo di tutt’altro,
delle sue opere, dei suoi film, non bisogna dimenticare
che è importantissimo oggi prendere posizione per far
capire che non bisogna ucciderlo un’altra volta.
Secondo me Pasolini è stato ucciso dall’intolleranza
della nostra società profondamente repressiva,
falsamente tollerante. E adesso si rischia di ucciderlo
un’altra volta, proprio per intolleranza, perché in un
certo senso questo ragazzo che l’ha ucciso sta
diventando la vittima e lui il colpevole. Questo non
deve accadere, bisogna prendere posizione contro ciò
che hanno scritto, non so, Filippini su “Repubblica”, e
altri. Questa società ha eliminato Pasolini, per mano di
quello che vuoi, di un ragazzo inconsapevole,
incosciente, immaturo, però oggi sta cercando di
eliminarlo di nuovo facendone un colpevole, mentre
basta rifiettere un attimo su quello che è stato fatto di
questo povero corpo di uomo mite (perché era
assolutamente un uomo mite, non sadico) per capire
che non può assolutamente passare dalla parte dei
colpevoli: la sua unica «colpa» era quella di essere
dichiaratamente omosessuale.
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Approfondimento
LA MUSICA NEI FILM DI PIER PAOLO PASOLINI
CON QUALCHE CENNO RIGUARDANTE ANCHE ALCUNE
SCELTE PITTORICHE DEL POETA-REGISTA
di Angela Molteni, da www.pierpaolopasolini.eu
E finalmente arrivò il suono...
Affiancare un commento sonoro alla proiezione
di pellicole cinematografiche fu un evento che
ebbe i natali contemporaneamente all’avvento
della stessa arte cinematografica. Ma come!? – si
obietterà – se fino alla seconda metà degli anni
Venti si produssero e si proiettarono nelle sale
solo film muti? Ebbene: mai come in questo
genere di film l’accompagnamento musicale si
rivela indispensabile. Proiettare un film muto a un
pubblico senza un tale accompagnamento sarebbe
come rappresentare un balletto escludendo
l’orchestra (o anche solo uno strumento che fosse
in grado di eseguire, per esempio, una melodia con
il suo bravo accompagnamento in tre quarti). Se
questa tesi non è convincente, provate a visionare
un film muto senza alcun accompagnamento
sonoro: vi sentirete irrimediabilmente condannati
ad una forzata, sgradevole, insopportabile sordità;
non solo: il film muto provocherà in voi una
strana e indecifrabile sensazione di angoscia che
nessun valido elemento estetico della pellicola sarà
in grado di neutralizzare.
Chi ha visto, per esempio, il film di Milos Foreman
Amadeus sa esattamente di che cosa sto parlando.
Riassumo brevemente: il sovrintendente dei
compositori, “concorrente” di Mozart alla Corte
dell’imperatore d’Austria Giuseppe II, impedì, allo
scopo di boicottare il giovane compositore
salisburghese, l’esecuzione di musica da ballo
all’interno dell’opera teatrale che era in fase di
allestimento. Mozart in quei giorni stava
lavorando alle prove di Nozze di Figaro e per tale
opera aveva tra l’altro composto un balletto:
dovette subire l’imposizione del sovrintendente.
Lasciò inalterati interpreti e scenario (i ballerini
eseguivano quindi sul palcoscenico passi di danza)
e fece contemporaneamente tacere l’orchestra.
L’imperatore, invitato ad assistere alla prova
generale, protestò vivacemente per l’incongruenza
e l’insensatezza di quanto stava vedendo e,
ottenutene spiegazioni dallo stesso Mozart,
ordinò che la musica fosse immediatamente
“reintegrata”.
A Parigi, dal 1886, il Cabaret du Chat Noir divenne
il luogo deputato alla proiezione di immagini
animate, accompagnate da un pianoforte sulla cui
tastiera si avvicendarono anche le mani illustri di
Eric Satie e di Claude Debussy. Nel 1892 Émile
Reynaud presentò al pubblico del Musée Grevin il
suo “Théâtre-Optique”, dotato di alcune
“pantomime luminose” in cui cani, clown, acrobati
e cavallerizze si muovevano al ritmo di
un’orchestrina, creando le premesse della
sincronizzazione.
Dalla preistoria alla storia: i manifesti che
pubblicizzavano le “sedute” del Cinématographe
Lumière al Grand Café del Boulevard des
Capucines riportavano il nome della maison du
piano nonché quello del pianista-compositore. Il
più delle volte i pianisti si sedevano a fianco dello
schermo e suonavano, improvvisando i brani a
seconda del carattere delle scene.
In Unione Sovietica, nel 1928, Sergej Ejzenstejn
– il primo grande “cineasta” della Federazione
delle Repubbliche Socialiste (Pasolini amò
profondamente il cinema di Ejzenstejn, insieme a
quello di Charlie Chaplin) – progettò
l’introduzione in Urss del cinema sonoro. Il 20
luglio di quell’anno il regista e due suoi colleghi,
Grigorij Aleksandrov e Vsevolod Pudovkin,
pubblicarono un documento che passerà alla
storia del cinema come il manifesto
dell’asincronismo, i cui presupposti teorici sono:
- dare priorità assoluta, in termini di importanza,
al montaggio quale “mezzo fondamentale e unico,
in virtù del quale il cinema ha raggiunto un alto
livello espressivo”;
- evitare di dare vita a una “produzione pseudoletteraria con rinnovati tentativi d’invasione
teatrale”;
- orientare la realizzazione di pellicole sonore a
una “non coincidenza tra immagine visiva e
immagine sonora: questo sistema”, sostenevano i
registi, “porterà alla creazione di un nuovo
contrappunto orchestrale”.
Dagli anni Venti in poi, dunque, in Europa, e
soprattutto in Unione Sovietica e in Francia, il
cinema ricorse frequentemente a musicisti che
raggiunsero grande fama non solo per le rispettive
collaborazioni cinematografiche, quali: Sergej
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Prokofiev (la cui musica fu congeniale proprio al
cinema di Ejzenstejn), Juri Šaporin, Aram
Cachaturian, Lev Švarz, Gavril Popov, Isaak
Dunaevskij, Dmitrij Šostakovich in Urss; Maurice
Jaubert, Georges Auric, Jacques Ibert, Darius
Milhaud, Arthur Honegger in Francia.
Un cenno particolare su Prokofiev: scrisse per
Ejzenstejn le musiche per Aleksandr Nevskij, Ivan
il Terribile, La congiura dei Boiardi. “Come credete
che un normale musicista scriverebbe un pezzo
per paesaggi autunnali?”, dirà il regista, nel 1946,
durante una lezione di cinema. “Prenderà lo
stormire delle foglie, poi passerà qualche
venticello, una certa trepidazione. Prokofiev,
invece, parte da una percezione molto complessa
dell’immagine visiva. Per lui anche le diverse
sfumature di colore giocano un ruolo nel
passaggio all’immagine musicale. Qualsiasi
musicista è capace di trasporre in musica uno
stormire di foglie. Ma per tradurre il ritmo della
tonalità di giallo dall’inquadratura nella
corrispondente tonalità musicale, ci vuole ben
altro talento [...] Quando noi registi abbiamo, per
esempio, una fortezza in campo, non ci limitiamo
a riprenderla di fronte, ma facciamo altrettanto
con la torre, con le entrate eccetera, e dalla
composizione delle diverse prospettive risulta
infine una immagine globale. Allo stesso modo
lavora con la musica Prokofiev (1)”.
Tutto ciò significa, oltretutto, che la musica non
deve essere mai al servizio del cinema e viceversa.
Infatti, sono entrambe espressioni artistiche che
utilizzano linguaggi non verbali e che tuttavia sono
assolutamente differenti e agiscono in modo
diverso e indipendente sulla percezione.
Scriverà Pasolini: “I valori che essa [la musica]
aggiunge ai valori ritmici del montaggio sono in
realtà indefinibili, perché essi trascendono il
cinema, e riconducono il cinema alla realtà, dove
la fonte dei suoni ha appunto una profondità reale,
e non illusoria come nello schermo.(2)
.
Primi approcci di Pier Paolo Pasolini alla
musica e alle arti figurative
Nel corso della seconda guerra mondiale, Pasolini
– studente-laureando a Bologna – si recava sempre
più di frequente a Casarsa, luogo di origine della
madre, dove soggiornava spesso e per lunghi
periodi, e dove aveva molti amici. Nei primi mesi
del 1943 la cerchia degli amici si ampliò, con
l’arrivo a Casarsa di una violinista slovena, Pina
Kalc, rifugiatasi in casa di parenti a seguito delle
vicende belliche. E, mentre gli accadimenti di
quella terribile guerra disperderanno gli altri amici,
Pina, rimasta sola, si dedicherà al tentativo di
instaurare con Pier Paolo un’amicizia esclusiva.
Di lei, Pasolini scriverà:
.
“[...] La conobbi nel febbraio del ’43. Subito dopo
mi divenne necessaria per il suo violino(3); mi
suonò dapprima il moto perpetuo di Janácek che
divenne quasi un motivo del nostro incontro, e si
ripeté in molte occasioni. La ricordo
perfettamente nell’atto di suonarlo, con la gonna
blu e la camicetta bianca. Ma presto cominciò a
farmi udire Bach: erano le sei sonate per violino
solo,(4) su cui emergevano, ad altezze disperate, la
Ciaccona e il Preludio della III; il Siciliano della I.
Le centinaia di sere che abbiamo trascorso
insieme, dal ’43 all’estate del ’45 quando, finita la
guerra ripartì per la Jugoslavia, mi danno la solita
disperazione dell’inesprimibile, del troppo unico;
tuttavia resta la musica come qualcosa di solido,
di avvenuto senza equivoco e che riassume tutta
la nostra tempestosa amicizia [...]” (5)
Nei momenti di calma, in assenza delle incursioni
aeree con allarmi che si ripetevano di giorno e di
notte, Pina andava ogni giorno in casa Pasolini e
dava lezioni di violino a Pier Paolo. Dopo le
lezioni eseguivano insieme qualche duetto portato
a termine con visibile emozione. Infine Pina
suonava da sola Bach.
“Era soprattutto il Siciliano che mi interessava”,
narra Pasolini, “perché gli avevo dato un
contenuto, e ogni volta che lo riudivo mi metteva
con la sua tenerezza e il suo strazio, davanti a quel
contenuto: una lotta cantata impassibilmente tra
la Carne e il Cielo, tra alcune note basse, velate,
calde, e alcune note stridule, terse astratte. Come
parteggiavo per la Carne! Come mi sentivo rubare
il cuore per quelle sei note, che per un’ingenua
sovrapposizione di immagini, immaginavo cantate
da un giovanetto siciliano dal petto bronzeo e
ardente. E come invece sentivo di rifiutarmi alle
note celesti!”(6)
.
Nel 1944, Pasolini scriverà uno Studio sulle sonate
di Bach con molti paragoni letterari, quasi una
ricerca di equivalenti, come, per esempio, alcuni
passaggi musicali di una sonata e alcuni versi
poetici. Frattanto, all’Università di Bologna – ove
Pasolini otterrà la laurea con lode discutendo la
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tesi Antologia della lirica pascoliana: introduzione
e commenti(7) – le lezioni di storia dell’arte
medievale e moderna sono tenute da Roberto
Longhi(8); nel 1941 Longhi tiene i corsi “Sui fatti
di Masolino e Masaccio”. Pasolini li frequenta con
entusiasmo. La formazione di Pasolini, avvenuta
alla scuola di un grande storico dell’arte quale fu
appunto Longhi, gli permetterà non solo di
costruire con grande gusto figurativo le
inquadrature dei suoi film, ma anche di orientare
il suo stesso pensiero.
Longhi affermava, per esempio, che nei quadri di
Caravaggio gli apostoli e i santi sono rappresentati
da personaggi umili, dei ceti popolari; allo stesso
modo Pasolini dichiarerà di avere scoperto che nel
mondo della piccola delinquenza e dei ragazzi di
strada, nel mondo del sottoproletariato, ci sono
effettivamente dei “santi”. Oltre alla pittura,
Longhi amava il cinema (andrà a Parigi
appositamente per vedere La grande illusione di Jean
Renoir e Il grande dittatore di Chaplin) e trasmetteva
ai giovani allievi anche il “gusto” per la nascente
arte cinematografica. Longhi, infine, oltre ad avere
avuto, per quanto riguarda le arti figurative, molta
influenza sulla formazione di Pasolini, rimarrà suo
“consigliere” e critico quando il Poeta affronterà
le sue opere cinematografiche.
Nei suoi soggiorni a Casarsa, Pasolini frequenta
spesso una sala cinematografica di San Vito al
Tagliamento: proprio in occasione di una della sue
puntate al cinema incontra un giovane pittore,
Federico De Rocco. Vanno a dipingere insieme e
Pasolini viene introdotto alle tecniche pittoriche:
dipinge paesaggi “alla De Pisis”, sentendo di
accingersi a conquistare un suo stile e una sua
tavolozza. “I quadri appena terminati vanno a
riempire le pareti del ‘camerone’ e quell’estate
sono più di una dozzina. Quadri e poesie nascono
sugli stessi fondali friulani”.(9) Più avanti, Pasolini
stringerà stretti rapporti di amicizia con un altro
pittore, Giuseppe Zigaina, con il quale rimarrà in
contatto per tutta la vita e che sarà chiamato in
qualche caso anche ad avere un ruolo nei suoi
film.
Giungeranno presto, per Pasolini, gli anni
dell’insegnamento nella piccola scuola organizzata
nella sua stessa abitazione (“il camerone” di cui
parla il cugino Nico Naldini) in Friuli, delle prime
pubblicazioni poetiche, e poi della fuga da
Casarsa, con la madre Susanna, destinazione
Roma, dopo la denuncia per atti osceni e
corruzione di minorenni dell’ottobre 1949. Vera
e propria vittima di persecuzioni dovute a quegli
inestirpabili pregiudizi che tendevano, e tendono,
a emarginare quando non a criminalizzare chi era,
ed è, diverso – ho proprio l’impressione che ben
poco sia mutato a oltre vent’anni di distanza dalla
tragica scomparsa del Poeta – tale denuncia fu la
prima di una lunga serie di vicende giudiziarie che
costituiranno per Pasolini un vero e proprio
calvario.
A Roma, dopo alterne vicende, dapprima di
miseria e di umile lavoro come insegnante in una
scuola privata, quindi di lenta e progressiva
affermazione, come scrittore prima, come regista
cinematografico
poi,
Pasolini
chiuderà
definitivamente il violino nell’astuccio, ma gli
rimarrà nel cuore “la musica come qualcosa di
solido”, e di ciò si rintracceranno agevolmente i
segnali significativi nelle scelte musicali “istintive”
che costituiranno una parte non secondaria della
sua opera cinematografica. Continuerà invece ad
usare tele e pennelli: infatti, durante la lavorazione
dei suoi film, spesso Pasolini utilizzerà disegni e
schizzi, soprattutto per indicare la disposizione dei
personaggi e degli elementi paesaggistici nelle
inquadrature.
1961, l’anno di Accattone
Dopo alcune collaborazioni alle sceneggiature di
film diretti da registi già affermati, quali Soldati,
Fellini, Bertolucci e altri, Pasolini inizia la
lavorazione della prima pellicola cinematografica
con un soggetto da lui scritto e diretto: Accattone.
“Accingendosi a realizzare il suo primo film
Pasolini ha idee ben chiare per quanto riguarda la
musica che avrebbe adoperato. È convinto –
come regola generale a cui rimarrà
sostanzialmente fedele, sia pure con qualche
eccezione – che è preferibile usare musica di
repertorio (cioè brani classici o leggeri di autori
noti) piuttosto che farla espressamente comporre.
Questo perché, secondo Pasolini, è più efficace
una buona musica già collaudata piuttosto che una
mediocre partitura che, il più delle volte, è un
cattivo rifacimento di temi e motivi già noti.”(10)
Elsa Morante, l’amica più cara in quei giorni, ha
una ricca collezione di dischi che sarà da allora in
poi una preziosa miniera cui Pasolini farà ricorso
per realizzare il commento musicale dei suoi film.
In Accattone il commento musicale è costituito in
gran parte da brani di Johann Sebastian Bach; vi
è poi l’utilizzo di canzoni popolari e di stornelli
con testi parodiati e una scena in cui esplode,
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bellissimo, il blues di William Primrose St James
Infirmary.
Scrive Pasolini: “La Passione secondo Matteo di
Bach, nel momento della rissa di Accattone, assume
questa funzione estetica. Si produce una sorta di
contaminazione fra la bruttezza, la violenza della
situazione, e il sublime musicale. È l’amalgama (il
magma) del sublime e del comico di cui parla
Auerbach(11) [...] La musica si rivolge allo
spettatore e lo mette in guardia, gli fa capire che
non si trova di fronte a una rissa di stile
neorealista, folklorica, bensì a una lotta epica che
sbocca nel sacro, nel religioso [...] Io sentivo,
sapevo, che dentro questa degradazione c’era
qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso
vago e generale della parola, e allora questo
aggettivo, ‘sacro’, l’ho aggiunto con la musica. Ho
detto cioè che la degradazione di Accattone è, sì,
una degradazione, ma una degradazione in
qualche modo sacra, e Bach mi è servito a far
capire ai vasti pubblici queste mie intenzioni(12)”.
Il Coro finale della Passione secondo Matteo viene
inserito dal regista sia nella scena sopra ricordata
sia nelle ultime inquadrature del film, quando si
compie il tragico destino di Accattone e
sopravviene la morte, unica vera libertà concessa
dalla società a uomini “privi di dignità” che
ignorano (come Accattone) o rifiutano (come
Pasolini) le leggi della “ragione dominante”.
Sempre in Accattone, il secondo movimento del
Concerto brandeburghese n. 2 di Bach viene
utilizzato per creare forte contrasto nei confronti
delle immagini che frattanto scorrono sullo
schermo, quelle cioè in cui la prostituta Maddalena
viene malmenata nella radura dell’Acqua Santa dai
ragazzi di vita amici del suo sfruttatore. E Pasolini
chiarisce:
[...] Questo aver contaminato una musica
coltissima, raffinata come quella di Bach con
queste immagini, corrisponde nei romanzi
all’unire insieme il dialetto, il gergo della borgata,
con un linguaggio letterario che per me è di
derivazione proustiana o joissiana. È l’ultimo
elemento di questa contaminazione che rimane
così un po’ esteriore nel film. Quanto alla scelta,
è una scelta molto irrazionale, perché prima
ancora di pensare ad Accattone quando pensavo
genericamente di fare un film, pensavo che non
avrei potuto commentarlo altrimenti che con la
musica di Bach: un po’ perché è l’autore che amo
di più; e un po’ perché per me la musica di Bach è
la musica a sé, la musica in assoluto [...] Quando
pensavo ad un commento musicale, pensavo
sempre a Bach, irrazionalmente, e cosi’ ho
mantenuto, un po’ irrazionalmente, questa
predilezione iniziale”.(13)
Anche la formazione pittorica di Pasolini entra in
gioco, a partire da Accattone: “Come modello
formale pensa alla grande tradizione pittorica
italiana del Tre-Quattrocento, a Giotto, a Masaccio
e quindi all’esigenza di rappresentare i suoi
personaggi
frontalmente,
fortemente
chiaroscurati, statuari”. E, riguardo al luogo
prescelto per le ultime inquadrature del film,
Pasolini scriverà:
“[...] era soprattutto su Olevano [una località del
sud del Lazio] che puntavo, come luogo dipinto
da Corot. Ricordavo le sue montagne leggere e
sfumate, campite come tanti riquadri di sublime,
aerea garza contro un cielo del loro stesso
colore.”(14)
Nei primi giorni di aprile 1962 hanno inizio le
riprese di Mamma Roma in un prato di Cecafumo
alla periferia di Roma, sparso di ruderi antichi e
limitato da una cintura di enormi caseggiati
bianchi. In questo film Pasolini ha scelto di
commentare alcune scene utilizzando musica di
Vivaldi, ritenendola conosciuta, familiare al grande
pubblico.
In P.P. Pasolini, Per il cinema, Milano, Mondadori,
2001 la filmografia contenuta nel Tomo secondo
relativa al film Mamma Roma riporta le seguenti
indicazioni: Musica: Antonio Vivaldi: Largo in mi
minore dal Concerto RV 443; Larghetto in sol
minore dal Concerto RV 481; Largo in fa
maggiore dal Concerto RV 540 - P 266.
Sulla scelta del protagonista, Ettore, dirà Pasolini:
“Ho visto Ettore Garofalo mentre stava
lavorando come cameriere in un ristorante dove
una sera ero andato a mangiare, [...], esattamente
come l’ho rappresentato nel film, con un vassoio
di frutta sulle mani come la figura di un quadro di
Caravaggio”.
Ancora dal punto di vista pittorico, la scena
iniziale del film (banchetto di nozze), costituisce
un forte richiamo a molte classiche
rappresentazioni
pittoriche
rinascimentali
|50|
dell’Ultima cena (dal Ghirlandaio a Leonardo da
Vinci).
movimento,
al
movimento
all’interno
dell’inquadratura) per ricondurla in un ambito
figurativo e pittorico. Il richiamo a Masaccio (che
ritorna spesso nelle dichiarazioni della sua tecnica)
non è casuale. L’obiettivo viene paragonato a un
pennello nelle mani di un pittore, un pennello
leggero e agile che, tuttavia, ha la forza di rendere
greve, massiccia la materia, con una forte
accentuazione del chiaroscuro. (15)
Le esperienze successive, fino al progetto del
Vangelo
Tra il 1962 e il 1964 più che una successione di
film vi è un intreccio di progetti. Durante un
convegno ad Assisi, Pasolini, casualmente, legge
il Vangelo di san Matteo e scopre quanta parte del
mondo contadino dell’età di Cristo sia finita nelle
pagine del testo dell’evangelista Matteo, “il più Il Vangelo secondo Matteo
rivoluzionario perché il più realista”. Da questa Nel mese di aprile 1964 le prime scene del film
lettura trae una riflessione: la storia di Cristo è furono girate in provincia di Viterbo, tra i massi
fatta di due millenni di interpretazione cristiana; del torrente Chia (che “diventerà” per l’occasione
tra la realtà storica è oggi si è creato lo spessore il fiume Giordano nel quale Cristo riceverà il
del mito e questo mito è già un’idea trascinante battesimo). La troupe si trasferì quindi in Lucania:
la parte antica di Matera (i Sassi) si trasformò in
per farne un film.
Alfredo Bini, produttore di Accattone e di Mamma una suggestiva Gerusalemme. Betlemme venne
Roma, è attratto dall’idea e accoglie la proposta di “ricostruita” in un villaggio pugliese. Tra le
realizzare un film sul Vangelo. Chiede però a montagne di Crotone furono effettuate le riprese
Pasolini di dare la precedenza a un film a episodi delle scene del Golgota.
i cui registi sono Roberto Rossellini, Jean-Luc Per Il Vangelo secondo Matteo Pasolini effettuò la
Godard e Ugo Gregoretti. Pasolini realizzerà il scelta della musiche con la collaborazione di Elsa
proprio episodio, La ricotta. Un brano musicale Morante. Il regista utilizzò in questo caso, vista la
molto significativo che il regista inserirà nel film è sua dichiarata predilezione per Bach, alcuni brani
il Dies Irae attribuito a Tommaso da Celano, (1190 dalla Passione secondo Matteo con i quali il
ca - 1260), musicista oltreché discepolo e biografo compositore tedesco aveva ripercorso lo stesso
di san Francesco d’Assisi. Nella Ricotta è anche cammino che Pasolini avrebbe intrapreso nel film
notevolmente appropriata la sottolineatura
dell’atmosfera grottesca di alcune scene,
ottenuta con l’inserimento di un brano
verdiano, “Sempre libera degg’io” dalla
Traviata, deformato nel tempo, nella dinamica,
nell’uso filologicamente non ortodosso degli
strumenti, tutti elementi trattati nelle scene del
film con intenti ironici e per qualche verso
evocativi delle comiche degli anni Venti e
Trenta.
.
Sugli intendimenti figurativi di Pasolini, scrive
Antonio Bertini: “[...] All’uso semplificato e
rigoroso degli obiettivi 50 e 75, impiegati in
Accattone, Pasolini aggiunge il pancinor o zum.
Si tratta di un obiettivo, come si sa, che
permette di passare (senza soluzione di
continuità) dall’inquadratura di un dettaglio o
di un primo piano fino a un totale o a un
campo lungo. [...] Sembra quasi ci sia la
volontà – da parte del regista – di togliere
all’immagine filmica l’impressione di La deposizione dalla Croce (1521) dipinta da Gambattista
tridimensionalità, di profondità di campo di Jacopo, detto Rosso fiorentino, al quale si ispirò
(dovuta soprattutto all’immagine in Pasolini per La ricotta
|51|
(e, in un certo senso, con lo stesso spirito che
ispirerà il film di Pasolini: l’evocazione e la
meditazione della morte).
Dalla Passione secondo Matteo di Bach, oltre al
Coro già udito in Accattone, Pasolini utilizza
ripetutamente,
nel
Vangelo,
un’Aria,
originariamente per voce di contralto e orchestra,
qui nella versione solo strumentale rielaborata da
Ennio Morricone – nelle predicazioni in cui Cristo,
una prima volta, parla delle beatitudini (beati
coloro...) e ancora, quando raccomanda l’osservanza
dei comandamenti oppure l’abbandono delle
ricchezze (è più facile che un cammello...); quando
si reca a pregare nell’Orto del Getsemani dopo avere
rassicurato gli Apostoli (...vi precederò in Galilea...)
e subito dopo ammonisce Pietro (...mi
rinnegherai...); nel momento in cui prega il Padre
perché allontani da lui la morte atroce che l’attende;
quando viene processato, condannato a morte,
deriso.
Nel film, un rilievo notevole è dato anche al Gloria
della Missa Luba congolese la cui citazione si può
ascoltare in apertura del film (già dai titoli di testa);
allorché Giuseppe torna alla sua povera abitazione
dopo che l’Angelo lo ha illuminato circa il motivo
della gravidanza di Maria; quando Cristo compie il
primo miracolo; all’entrata in Gerusalemme e
nell’ultima scena del film (la tomba è vuota, Cristo
è risorto). Un altro compositore di cui si servì
Pasolini per il suo Vangelo è Mozart: la Maurerische
Trauermusik, K 477 (Musica funebre massonica),
rende perfettamente l’atmosfera di “presagio” che
si percepisce dopo che Gesù ha reclutato gli
Apostoli (...pecore in mezzo ai lupi..., non sono
venuto a portare la pace...); in seguito fa da
commento alla salita al Calvario.
Vi è anche un’efficace citazione di
Ejsenstejn/Prokofiev (Aleksandr Nevskij) allorché i
soldati di Erode compiono la strage degli innocenti
e nel momento della terribile fine (la decollazione)
provocata da Erodiade e Salomè a Giovanni il
Battista. Nel film sono compresi inoltre brani
originali di Luis Enrique Bacalov (nelle scene degli
indemoniati e di Cristo che prega nell’orto di
Getsemani) e di Anton Webern, spirituals e cori
russi.
Sui riferimenti pittorici vi è da dire anzitutto come
sia noto che la scelta di Enrique Irazoqui per la
parte di Gesù nel Vangelo sia stata casuale: alla
prima occhiata, Pasolini fu certo di aver trovato il
“suo” Cristo: lo stesso volto bello, fiero, umano,
distaccato dei Cristi dipinti da El Greco. Nei
molteplici primissimi piani immobili si può
osservare un riferimento ai ritratti di trequarti
tipici del tardo Quattrocento (Masaccio, ma anche
Carpaccio); per quanto riguarda i farisei e gli scribi,
già per le loro vesti sono simili alle figure degli
affreschi di Piero della Francesca. Pasolini ha
rappresentato Maria incinta appunto come nella
figurazione della Madonna del Parto di Piero della
Francesca: un volto semplice con le palpebre
semichiuse, la ripresa frontale, e un arco sullo
sfondo. Un’altra scena ispirata a Piero della
Francesca è quella nella quale è ripreso Il
battesimo di Cristo. Al posto dei tre angeli di Piero
della Francesca vengono posti, sulla sinistra, tre
giovani di campagna. Altri elementi che
suggeriscono espliciti richiami a Piero della
Francesca sono costituiti inoltre dalla ripresa dei
farisei, vestiti tutti in modo uguale, dalla carrellata
nel baratro roccioso, dal lungo primo piano del
volto di Gesù. Molte scene del Vangelo, poi, si
“rinviano” l’una all’altra: è la medesima operazione
Il compositore Ennio Morricone. Iniziò
con Uccellacci e uccellini un proficuo
sodalizio con Pasolini.
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La Madonna del parto, di Piero della
Francesca. A questo affresco (14551465 circa) Pasolini si è ispirato per rafigurare Maria incinta nel suo Vangelo.
intitolato Uccellacci e uccellini. In ottobre iniziano le
riprese del film che, già dalla sceneggiatura, si è
trasformato però in un film unitario; sarà
organizzato del tutto artigianalmente, con un
finanziamento minimo e nessun compenso per il
regista.
Inizia, con Uccellacci e uccellini, una proficua
collaborazione di Pasolini con Ennio Morricone,
Ennio Morricone che collaborerà alla
realizzazione delle musiche e al coordinamento
musicale del film e anche di successive pellicole
pasoliniane: Teorema, Decameron, I racconti di
Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, Salò o le
centoventi giornate di Sodoma. L’idea di aprire e
chiudere il film con dei titoli cantati fu di Pasolini,
che scrisse i testi; “la piccola ballata interpretata
da Domenico Modugno potrebbe essere
considerata, per la ricchezza di soluzioni e di
allusioni ironiche e autoironiche a modi, stili,
timbri, una sintesi estrema del comporre di
Una nuova stagione nel cinema di Pasolini
Uccellacci e uccellini segnerà un ulteriore passaggio Morricone nel cinema”.(17)
nella storia del cinema di Pier Paolo Pasolini: dai Vi sono poi nel film, oltre a un bellissino blues
lavori di carattere popolare a opere più dello stesso Morricone, due citazioni mozartiane,
problematiche, che culmineranno in Teorema.
dal Flauto magico (duetto Papageno-Pamina);
Alla fine di aprile 1965 Pasolini pubblica su “Vie Aria di Sarastro, risolte gradevolmente dalla
Nuove” tre soggetti cinematografici e invita i rielaborazione di Morricone, con degli assolo di
lettori a fargli conoscere i loro pareri e violino e con l’uso di un’ocarina.
osservazioni: tali soggetti sono “L’aigle”, È pure citata, sempre nella rielaborazione di
“Faucons et moineaux”, “Le corbeau”, che Morricone, la canzone partigiana, tratta da un
dovrebbero costituire i temi per un film a episodi motivo popolare russo, Fischia il vento che si ode
compiuta in cicli di affreschi del Trecento, tra cui
quelli di Giotto, nei quali lo scenario paesaggistico
e architettonico viene riproposto dall’una all’altra
scena. Da Giotto, poi, derivano le raffigurazioni
della fuga in Egitto e dell’entrata di Cristo a
Gerusalemme. Nella scena di Cristo nell’orto del
Getsemani vi sono infine attinenze, sia di postura,
sia paesaggistici alle opere omonime di Mantegna
e di Giovanni Bellini.
Rispondendo a un intervistatore sulle differenze
e affinità tra Vangelo, Pasolini dichiarerà: “Il [...]
contrasto [...] viene fuori nei riferimenti alla
pittura: in Accattone c’è soltanto un elemento
figurativo, Masaccio, e forse nel fondo Giotto e la
scultura romanica, invece nel Vangelo ci sono
numerose fonti: Piero della Francesca, negli abiti
dei farisei, la pittura bizantina, la faccia di Cristo
[...]” (16)
|53|
subito prima della sequenza dei funerali di
Togliatti. A loro volta, i funerali di Togliatti, con
quella vasta, corale e commossa partecipazione
popolare, ma anche con la presenza di personaggi
noti dell’epoca, sono un richiamo a un celebre,
omonimo dipinto di Renato Guttuso.
Il sodalizio tra il musicista Ennio Morricone e il
regista ci permette di avere una indicazione più
che significativa, che riportiamo qui di seguito,
sulla “filosofia” che informava la sensibilità di
Pasolini rispetto all’inserimento della musica nei
film.
“La musica di un film può anche essere pensata
prima che il film venga girato (così come se ne
pensano i volti dei personaggi, certi attacchi di
montaggio ecc.): ma è solo nel momento in cui
viene materialmente applicata alla pellicola, che
essa nasce in quanto musica del film. Perché?
Perché l’incontro e l’eventuale amalgama tra
musica e immagine, ha caratteri essenzialmente
poetici, cioè empirici. Ho detto che la musica si
‘applica’ al film: è vero, in moviola l’operazione
che si compie è questa. Ma l’‘applicazione’ può
essere in vari modi, secondo varie funzioni.
“La funzione principale è generalmente quella
di rendere esplicito, chiaro, fisicamente presente il
tema o il filo conduttore del film. Questo tema o
filo conduttore può essere di tipo concettuale o di
tipo sentimentale. Ma per la musica ciò è
indifferente: e un motivo musicale ha la stessa
forza patetica sia applicato a un tema concettuale
che a un tema sentimentale. Anzi, la sua vera
funzione è forse quella di concettualizzare i
sentimenti (sintetizzandoli in un motivo) e di
sentimentalizzare i concetti. La sua è quindi una
funzione ambigua (che solo nell’atto concreto si
rivela e viene decisa): tale ambiguità della funzione
della musica è dovuta al fatto che essa è didascalica
e emotiva, resta un fatto misterioso, e difficilmente
definibile. Io posso dire empiricamente che ci
sono due modi per ‘applicare’ la musica alla
sequenza visiva, e quindi di darle ‘altri’ valori.
“C’è un’‘applicazione orizzontale’ e
un’‘applicazione
verticale’.
L’applicazione
orizzontale si ha in superficie, lungo le immagini
che scorrono: è dunque una linearità e una
successività che si applica a un’altra linearità e
successività. In questo caso i ‘valori’ aggiunti sono
valori ritmici e danno un’evidenza nuova,
incalcolabile, stranamente espressiva, ai valori
ritmici muti delle immagini montate.
L’applicazione verticale (che tecnicamente avviene
allo stesso modo), pur seguendo anch’essa,
secondo linearità e successività, le immagini, in
realtà ha la sua fonte altrove che nel principio; essa
ha la sua fonte nella profondità. Quindi più che
sul ritmo viene ad agire sul senso stesso. [...]
“In altre parole: le immagini cinematografiche,
riprese dalla realtà, e dunque identiche alla realtà,
nel momento in cui vengono impresse su pellicola
e proiettate su uno schermo, perdono la
profondità reale, e ne assumono una illusoria,
analoga a quella che in pittura si chiama
prospettiva, benché infinitamente più perfetta. Il
cinema è piatto, e la profondità in cui si perde, per
esempio, una strada verso l’orizzonte, è illusoria.
Più pratico è il film, più questa illusione è perfetta.
La sua poesia consiste nel dare allo spettatore
l’impressione di essere dentro le cose, in una
profondità reale e non piatta (cioè illustrativa).
“La fonte musicale – che non e’ individuabile
sullo schermo – e nasce da un ‘altrove’ fisico per
sua natura ‘profondo’ – sfonda le immagini piatte,
o illusoriamente profonde, dello schermo,
aprendole sulle profondità confuse e senza confini
della vita.”(18)
Pasolini, nell’autunno del 1966 è in Marocco per
un sopralluogo di ambientazione di Edipo re.
Risponde a una intervista di Alberto Arbasino:
“Un Edipo da girare in fondo al Marocco (in
un’architettura arcaica e meravigliosa, senza pali
della luce e quindi senza tutte le fatiche del
Vangelo girato in Italia). Certi rosa e verdi
stupendi; berberi quasi bianchi, però ‘alieni’,
remoti, come doveva essere il mito di Edipo per i
greci: non contemporaneo, fantastico [...]”.(19)
Il regista compie poi un nuovo viaggio in Marocco
per proseguire la ricerca dei luoghi più adatti alle
scene di Edipo re e, al ritorno, partecipa con
Capriccio all’italiana a un nuovo film a episodi, Che
cosa sono le nuvole?, ancora con Totò e Ninetto
Davoli: tale episodio sarà caratterizzato, tra l’altro,
da una canzone (che ha lo stesso titolo
dell’episodio cinematografico) musicata e cantata
da Domenico Modugno su testo di Pasolini.
In Edipo re, ispirato ai capolavori di Sofocle Edipo
re ed Edipo a Colono, che girerà tra aprile a luglio
1967, Pasolini affronta una volta per tutte il suo
personale “complesso di Edipo”.
Assegna ai suoi personaggi un linguaggio che è il
risultato di una mescolanza di vari dialetti e, allo
stesso modo, nel film, gli scenari e il commento
|54|
musicale sono “costruiti”, come in un puzzle, con
frammenti di immagini e di suoni nordafricani,
turchi, giapponesi e rumeni, tutte melodie molto
ambigue, indefinibili, poiché potrebbero essere
allo stesso tempo arabe, slave o greche. Il regista
curerà personalmente il coordinamento musicale
del film: spiegherà così la sua scelta di tali musiche:
“Esse sono un poco fuori della storia. Come io
desideravo fare di Edipo un mito, così desideravo
una musica astorica, atemporale”. Nell’estate del
1968 Pasolini gira con Ninetto Davoli un altro
brevissimo film, La sequenza del fiore di carta, un
episodio di Amore e rabbia, e cura personalmente
la scelta del commento musicale.
Qualche mese prima, in marzo, Garzanti pubblica
il libro Teorema. Diverrà anche il soggetto
dell’omonima
pellicola
cinematografica,
presentata nel 1968. Chiamerà l’amico Zigaina a
collaborare al film Teorema come consulente per il
colore e per le tecniche pittoriche, e lo incaricherà
di eseguire tutti i grandi disegni che nel film
appaiono come opera di Pietro, il giovane pittore
folgorato dall’amore per l’Ospite.
Tra i brani musicali che commentano Teorema, la
cui scelta è curata dallo stesso Pasolini, spicca
soprattutto il brano iniziale del Requiem, l’ultima
composizione di Wolfgang Amadeus Mozart. Il
commento musicale originale è elaborato da
Ennio Morricone.
Mentre Teorema è ancora sotto sequestro per
oscenità (sarà ritirato qualche giorno dopo la sua
Domenico Modugno in una scena di Che cosa sono
le nuvole? nella quale canta la canzone omonima
scritta insieme a Pier Paolo Pasolini.
uscita dalle sale di proiezione), nel novembre 1968
Pasolini inizia le riprese di Porcile; le concluderà nel
giro di un solo mese.
Il commento sonoro di Porcile, con musiche
originali di Benedetto Ghiglia, interviene
raramente nel dramma rappresentato nella
pellicola, caratterizzando però assai efficacemente
i due “mondi” che vi appaiono: quello contadino,
con brani di sapore antico eseguiti
prevalentemente con un flauto dolce; quello alto
borghese con un quartetto d’archi che suona
musica colta. In alcune scene Klotz-Lionello (con
baffetti alla Hitler) suona voluttuosamente un’arpa
e in altre scene sono proprio visualizzati quattro
componenti di un quartetto d’archi in una delle
grandi sale della ricca villa di Klotz.
Pasolini scriverà alcune Note su Porcile per parlare
del film alla conferenza stampa di presentazione
alla Mostra del cinema di Venezia. In tali note dirà,
tra l’altro: “Il messaggio semplificato del film è il
seguente: la società, ogni società, divora sia i figli
disobbedienti che i figli né disobbedienti né
obbedienti. I figli devono essere obbedienti e
basta. Dipingere con la tecnica di Giovanni Bellini
una bolgia infernale”.(20)
Un richiamo pittorico che mi è parso di
individuare nel film è costituito dal notissimo
Quarto stato di Pellizza da Volpedo (una
delegazione di contadini si reca nella ricca villa del
padrone-Klotz per riferire della orribile fine fatta,
nel porcile, dal giovane Julian Klotz).
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Tra maggio e agosto 1969 Pasolini effettua le mistero proprio dell’esistenza, coi suoi vasti
riprese di Medea (interprete principale Maria paesaggi da preistoria, i suoi miseri villaggi abitati
Callas, che riecheggia la tragedia di Euripide. da un’umanità contadina e primitiva, le sue due o
Come nei film precedenti, il regista si propone di tre città modernissime già industriali e proletarie.
rappresentare le storture presenti nel mondo Pasolini ‘sente’ l’Africa nera con la stessa simpatia
moderno rifacendosi alle analogie presenti in poetica e originale con la quale a suo tempo ha
epoca antica. “Ho riprodotto in Medea tutti i temi sentito le borgate e il sottoproletariato romano. E
dei film precedenti”, dirà Pasolini. E proseguirà: questo è già un avvio per comprendere il rapporto
“Specifico, per inciso, all’intenzione di quelli che che egli cerca di stabilire tra l’Africa nera e la
la partecipazione della Callas indurrebbe in errore, Grecia arcaica
che non mi riferisco affatto all’opera musicale di
Cherubini. Su questo non c’è ambiguità possibile. La “trilogia della vita”
Quanto alla pièce di Euripide, mi sono Dopo Medea, tre nuovi progetti, ispirati a
semplicemente limitato a trarne qualche importantissime opere letterarie di tre culture
citazione.[...]”.
diverse, apriranno un nuovo capitolo della
Tra i due personaggi principali, Medea e Giasone, cinematografia pasoliniana. Pasolini stesso chiama
non vi è mai dialogo: canti
i tre film “trilogia della vita”, e
d’amore iraniani e antiche
spiega che si tratta di: “ [...] film
musiche giapponesi, indecifrabili
sulla fisicità umana e sul sesso.
e misteriose – le scelte per il
Questi film sono abbastanza
commento musicale sono dello
facili, e io li ho fatti per opporre
stesso Pasolini in collaborazione
al presente consumistico un
con
Elsa
Morante
–
passato recentissimo dove il
“sostituiscono” le voci dei
corpo umano e i rapporti umani
protagonisti.
erano ancora reali, benché arcaici,
Nel corso della lavorazione di
benché preistorici, benché rozzi,
Medea si diffusero “voci” di un
però tuttavia erano reali, e
idillio nato fra la Callas e Pasolini:
opponevano
questa
realtà
tra loro si stabilì in realtà una
all’irrealtà
della
civiltà
profonda amicizia, destinata a
consumistica”.
durare negli anni anche dopo
Durante l’estate 1970 Pasolini
Medea. Pasolini riscoprirà, grazie
scrive la sceneggiatura di dieci
Maria
Callas
e
Pier
Paolo
all’amicizia con Maria Callas, la
novelle dal capolavoro di
sua passione per il disegno e la Pasolini
Boccaccio, scelte tra quelle che
pittura. Farà numerosi ritratti alla
hanno un equilibrio tra il tragico
cantante, raffigurandola di profilo e utilizzando e il comico-burlesco e fa parlare i personaggi in
una “tecnica mista” che prevedeva di inserire nel napoletano. Quest’ultima scelta – di ambientare le
disegno anche fiori e conchiglie.
novelle del Decameron a Napoli e dintorni – a mio
Qualche mese prima di iniziare la lavorazione di parere è stato un vero e proprio “colpo di genio”
Medea, Pasolini fece un viaggio in Uganda, in del regista; in ciò dissento da quanto dichiarerà
Tanzania e al lago Tanganika, per studiare Morricone, che definirà “strana” la trasposizione
l’ambientazione di Orestiade africana, una del pasoliniano Decameron nel Sud Italia.
trasposizione “africana” della tragedia di Eschilo Nel Decameron Pasolini stesso assunse il ruolo di
(il film non fu però mai realizzato). Durante tale un allievo di Giotto. Sulle pareti che, insieme ad
viaggio, girò per la televisione italiana il aiuti, dipingerà appaiono rifacimenti di opere
documentario Appunti per un’Orestiade africana, con giottesche. Si vestì come il “Vulcano” di Velasquez
commento musicale di Gato Barbieri.
nel dipinto La fucina di Vulcano conservato al
Il documentario fu così commentato da Moravia: Museo del Prado: grembiule di cuoio e fascia
“Diciamo subito che è uno dei più belli di Pasolini. bianca sulla fronte. Pasolini aveva visitato il museo
Mai convenzionale, mai pittoresco, il madrileno nel 1964 e si era scoperto “tale e quale”
documentario ci mostra un’Africa autentica, per al personaggio raffigurato nel quadro di
niente esotica e perciò tanto più misteriosa del Velasquez. Inoltre, venne a sapere che La fucina
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di Vulcano era stata dipinta dal pittore spagnolo a
Roma ‘’con modelli tratti dalle borgate romane” e
questo fu per Pasolini un ulteriore motivo di
identificazione.
“Quanto Accattone e Mamma Roma erano film di
contestazione sociale”, dichiarerà il regista nel
corso di una intervista, “espressione della volontà
di presa di coscienza, tanto il Decameron
rappresenta la mia nostalgia di un popolo ideale,
con la sua miseria, la sua assenza di coscienza
politica (è terribile dirlo, ma è vero), di un popolo
che ho conosciuto quando ero bambino.”
La musica, curata da Pasolini e arricchita da
composizioni originali di Ennio Morricone, è
costituita anche da antiche musiche napoletane, a
cominciare da Fenesta ‘ca lucive, un “classico”
della canzone napoletana (la musica,
originariamente di autore anonimo, è attribuita a
Vincenzo Bellini).
Riferisce Morricone in una intervista: “[Pasolini]
volle mettere una canzone napoletana [...] non è
che io fossi molto contento di tutto ciò [...] Mi
pare fosse Fenesta ‘ca lucive. Poi, a vedere il film,
aveva ragione, perché era tutto collocato nel Sud,
cioè era una trasposizione strana quella del
Decameron. Quindi mi pareva giusto quello che
m’aveva chiesto, anche se mi scocciava, dico la
verità che mi scocciava proprio”. (21)
Alcune scene di Decameron sono girate a Sana’a,
nello Yemen del Nord; qui Pasolini girerà anche
un “documentario in forma di appello all’Unesco”
per fornire, attraverso immagini bellissime e
suggestive, un’ampia documentazione di luoghi da
salvare da un degrado e da una distruzione
incombenti.
Nella primavera del 1971 Pasolini scrive la
sceneggiatura del secondo film della “trilogia della
vita”, I racconti di Canterbury. Terminata la
sceneggiatura, all’inizio dell’estate effettua alcuni
viaggi in Inghilterra alla ricerca di luoghi e di
personaggi adatti all’ambientazione del film. Lui
stesso apparirà come Geoffrey Chaucer [vedi foto
qui sotto], l’autore delle Canterbury Tales alle quali
il film si ispira.
Anche per questo film, così come per il
successivo, Il fiore delle Mille e una notte, le musiche
originali sono di Ennio Morricone. Parlando delle
composizioni inserite nei tre film, e sollecitato
dall’intervistatore che gli chiedeva se per essi
avrebbe voluto fare della musica diversa,
Morricone rispose: “Forse sbagliando ma...
Comunque avrei fatto una musica originale,
popolaresca italiana, negli episodi italiani. Poi, per
l’Oriente, avrei fatto una versione diversa... adesso
non so quello che avrei fatto. Non ho riflettuto:
ho accettato passivamente certi suoi consigli [di
Pasolini] ed in certi casi ho anche reagito
dicendogli che mi sembrava sbagliato e lui ha
accettato anche e spesse volte le mie
osservazioni... Insomma, c’è stato sempre un
dialogo, però, che mi vedeva all’inizio un po’
arrendevole. [...] Per Canterbury Tales ho scritto
delle cose originali per zampogna”.(22)
Nel 1972 Dacia Maraini collabora con Pasolini alla
sceneggiatura del Fiore della Mille e una notte, che
conclude la “trilogia della vita” del regista. Le
riprese avverranno tra marzo e maggio 1973 in
Nepal, Persia, Etiopia, nello Yemen del Nord e in
quello del Sud.
L’ultima fatica: Salò o le centoventi giornate
di Sodoma
“Il mio principale apporto a questa
sceneggiatura”, disse Pasolini rispondendo alle
domande di un intervistatore della televisione
svizzera a proposito della trasposizione filmica
delle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade,
“è consistito nel dare alla sceneggiatura una
struttura di carattere dantesco che probabilmente
era già nell’idea di De Sade, cioè ho diviso la
sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura
questa specie di verticalità e di ordine di carattere
dantesco. Ma mentre lavoravamo a questa
sceneggiatura, Sergio Citti [collaboratore alla
sceneggiatura insieme a Pupi Avati] man mano si
disamorava perché gli era giunta un’altra idea,
l’idea di un altro film e io invece pian piano me ne
innamoravo definitivamente quando è avvenuta
questa illuminazione, quando cioè è venuta l’idea di
trasporre De Sade nel ’44, a Salò.(23)
Durante gran parte del film una pianista, in
apparenza completamente assente da quanto sta
accadendo attorno a lei, esegue come un’automa
canzoni degli anni Trenta, qualche motivo di regime,
alcuni Valzer e Preludi di Chopin, a rappresentare
con il commento sonoro, oltre all’ambiente e al
momento storico, la decadenza, il disfacimento di
quell’epoca di massima espansione della dittatura,
della repressione, della nefasta guerra fascista.
Quando, dopo inenarrabili torture commesse su
giovani tenuti come schiavi in una tetra villa di Salò,
avverranno nei confronti degli stessi ragazzi e
ragazze i primi crudeli omicidi, anche la pianista
apparentemente estraniata, robotizzata, non reggerà
allo strazio e al disgusto e si suiciderà. Sarà in questo
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stesso momento del film che, anche musicalmente, si
avrà la percezione “infernale” di ciò che sta accadendo,
con alcune introduzioni accordali e canti dai Carmina
Burana di Carl Orff, una composizione del 1936 che
raccoglie antichi canti medievali e li rielabora unendo
arcaico e moderno, musica colta e popolare con soluzioni
antiche e attuali. (I contenuti dei Carmina Burana sono
vari: accanto a canzoni sulla primavera, l’amore, le gioie
del sesso e della tavola vi si trovano poesie satiricomoraleggianti che lamentano la perversione del mondo,
la decadenza dei costumi e degli studi, la malvagità del
clero e del potere, lo strapotere del denaro).
Vi è infine da dire, a conclusione di questa breve
riflessione sulle scelte musicali nei film di Pier Paolo
Pasolini – oltre che su qualcuno dei riferimenti pittorici
che in alcuni casi hanno costituito la fonte di ispirazione
del regista e che sono, a mio parere, bene amalgamati e
in gran parte assolutamente congruenti con i commenti
musicali –, che un elemento rilevante in tutta la
produzione cinematografica del poeta è il silenzio dei
personaggi, l’assenza della parola e di qualsiasi altro
suono. Le sequenze completamente prive di suono (la
“musica dei silenzi”, la definisco), che prevedono la sola,
nuda presenza delle immagini dei personaggi – a volte
immobili, se si eccettua il fuggevole mutare di una
espressione del viso o l’impercettibile movimento di una
mano o, ancora, un lieve battere di palpebre – sono
momenti indimenticabili nel cinema di Pasolini.
Momenti nei quali pare di trovarsi in comunione
spirituale con l’artista e con i personaggi da lui creati,
momenti che fanno rimanere con il fiato sospeso,
rispettosi, quasi timorosi di disturbare in qualche modo
i pensieri, le riflessioni trasmessi in un modo così
informale dal regista. Sono silenzi che pretendono il
massimo della concentrazione intellettuale e un grande
coinvolgimento emotivo da parte di chi, più che assistere,
“partecipa” all’avvenimento che si svolge sotto i suoi
occhi comprendendone e spesso condividendone i
messaggi. Questa musica del silenzio è, nelle opere
cinematografiche di Pier Paolo Pasolini, lo specchio
stesso della sua poesia.
NOTE
(1)
“Amadeus” n. 71, ottobre 1995
(2)
Antonio Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni
Editore 1979.
(3)
Pasolini aveva avuto una educazione musicale; aveva infatti
iniziato a studiare il violino all’età di tredici anni.
(4)
Pasolini cita poco più avanti la Ciaccona, che è
inequivocabilmente uno dei brani della II Partita (e non della III
Sonata) per violino solo di Bach. Nel suo scritto, Pasolini
intendeva riferirsi quindi alle tre sonate e tre partite per violino
solo e più in particolare alla Ciaccona dalla II Partita (la Ciaccona
appare solamente in questa Partita), al Preludio dalla III Partita
(l’unica Partita che abbia un Preludio) e al Siciliano dalla I Sonata.
(5)
“Quaderni rossi del ‘46”, in Nico Naldini, Pasolini, una vita,
Einaudi, Torino 1989.
(6)
“Quaderni rossi...”, cit.
(7)
In un primo tempo Pasolini aveva pensato di laurearsi con una
tesi sulla Pittura italiana del Novecento e aveva iniziato a lavorarvi
nel 1942. Nello stesso periodo pubblicava sul “Setaccio” articoli
di critica d’arte.
(8)
Roberto Longhi (1890-1970) fu storico dell’arte, scrittore e
didatta. Fu tra i primi in Italia a introdurre un metodo di critica
di tipo formale.
(9)
Nico Naldini, Pasolini, una vita, cit.
(10)
Antonio Bertini, cit.
(11)
Erich Auerbach (1892-1957), filologo e critico tedesco, ha dato
contributi fondamentali allo studio della letteratura occidentale.
Nella citazione, Pasolini si riferisce a un passo di Mimesis. Il
realismo nella letteratura occidentale (1946).
(12)
Quaderni di filmcritica - Con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni,
Roma 1977.
(13)
Ibidem.
(14)
Nico Naldini, cit.
(15)
Antonio Bertini, cit.
(16)
Nico Naldini, cit.
(17)
Sergio Miceli, Morricone, la musica, il cinema, Ricordi-Mucchi,
Modena 1994.
(18)
Pier Paolo Pasolini, “La musica del film”, opuscolo allegato
all’album discografico Ennio Morricone. Un film una musica, ora
in Antonio Bertini, cit.
(19)
Nico Naldini, cit.
(20)
Ibidem.
(21)
Antonio Bertini, cit.
(22)
Ibidem.
(23)
Nico Naldini, cit.
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Indice
Introduzione.......................................................................................................................................................................5
Biografia..............................................................................................................................................................................6
I primi anni............................................................................................................................................................6
Il Friuli................................................................................................................................................................... 7
Gli anni romani.................................................................................................................................................... 8
Pasolini e il cinema.............................................................................................................................................. 9
Il ‘68 di Pasolini (di Roberto Carnero)........................................................................................................... 10
Scritti Corsari...................................................................................................................................................... 11
Gli ultimi anni.....................................................................................................................................................13
Cos’è questo golpe? Io so...............................................................................................................................................15
I film.................................................................................................................................................................................. 17
Mamma Roma..................................................................................................................................................................18
Diario di lavorazione del film Mamma Roma
dell’aiuto regista Carlo Di Carlo.......................................................................................................................19
Il Vangelo secondo Matteo............................................................................................................................................ 23
Tutto quello che avreste voluto sapere su Il Vangelo secondo Matteo.
Intervista a Enrique Irazoqui........................................................................................................................... 25
Uccellacci e uccellini........................................................................................................................................................28
Conversazione con Ninetto Davoli.................................................................................................................30
La ricotta........................................................................................................................................................................... 31
La Terra vista dalla Luna................................................................................................................................................ 34
Che cosa sono le nuvole?............................................................................................................................................... 36
Salò o le centoventi giornate di Sodoma..................................................................................................................... 38
Salò e altre ipotesi. Incontro con Dacia Maraini...........................................................................................41
Approfondimento: La musica nei film di Pier Paolo Pasolini (di Angela Molteni)...............................................47
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