Italianica - Romanica

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Italianica.doc - Romanica.doc
Numer 2 (3)/2011
Italianica.doc
część1:
Literaturoznawstwo
Redakcja numeru:
Małgorzata Karczewska
Edyta Bocian
Recenzja naukowa
prof. dr hab. Mirosław Loba
Skład i publikacja on-line
Maja Koszarska
Romanica.doc
Poznań 2011
1
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Spis treści
Wstęp
str.3
Łukasz Jan Berezowski
Se Mussolini fosse... le visioni alternative del potere fascista dopo il 1945
nella letteratura
ucronica italiana del XXI secolo: alcune considerazioni allostoriche
str.5
Agnieszka Domaradzka
Le sfumature del nuovo noir italiano
Dal giallo al nero
str.11
Karol Karp
Il teatro italiano del grottesco: verso un indirizzo originale?
str.21
Agnieszka Liszka
Difficoltà di traduzione e ricezione del discorso politico-sociale di Pier
Paolo Pasolini in Polonia
prima e dopo il 1989
str.31
Paulina Malicka
«Topi d’avorio, sciacalli al guinzaglio e bulldog di legno».Il dono nella
poesia di Eugenio
Montale
str.40
Marta Mędrzak-Conway
Una filosofia umanizzata: Italo Svevo e le teorie freudiane
str.51
Ewa Nicewicz
Il caso Baricco. Lo scrittore e il panorama della super-offerta attuale
str.59
Gianluca Olcese
Le maschere della Baìo di Sampeyre
str.66
Alicja Raczyńska
Gli influssi ovidiani nella descrizione delle sofferenze amorose nell’Elegia
di Madonna Fiammetta
di Giovanni Boccaccio
str.92
Emilia Sypniewska
Svevo, Tozzi, Alvaro e la condizione dell’antieroe novecentesco
str.99
Małgorzata Trzeciak
Il «Sistema di Belle Arti» di Giacomo Leopardi
str.105
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Wstęp
Niniejszy zbiór artykułów zawiera referaty wygłoszone podczas III Krajowej
Konferencji Młodych Italianistów „Intorno alla lingua e letteratura italiana:
teoria e
pratica”, która odbyła się w dniach 24-25 listopada 2009 roku w Poznaniu.
Konferencja
została zorganizowana z inicjatywy Zakładu Italianistyki Instytutu Filologii
Romańskiej
UAM.
Konferencja ta kontynuuje tradycję zapoczątkowaną w 2006 roku przez Katedrę
Italianistyki Uniwersytetu Warszawskiego, a podjętą w 2007 roku przez Zakład
Italianistyki
Instytutu Filologii Romańskiej Uniwersytetu Jagiellońskiego. To trzecie zatem
spotkanie
młodych italianistów dało nam kolejną sposobność wymiany naukowych
doświadczeń oraz
refleksji, a także możliwość zacieśnienia więzi przyjacielskich, a dla
niektórych, nowych
uczestników, okazję poznania starszych stażem kolegów i koleżanek, co w
dalszej przyszłości
przyczyni się z pewnością do przedsięwzięcia wspólnych inicjatyw naukowych.
W spotkaniu uczestniczyło 23 młodych naukowców, którzy wygłosili referaty w
zakresie literaturoznawstwa i językoznawstwa. Konferencja nie miała z góry
narzuconej
tematyki. Po pierwsze chodziło o zachęcenie do udziału w spotkaniu jak
najliczniejszej grupy
młodych italianistów. Po drugie niezawężanie horyzontów tematycznych
umożliwiło
każdemu z uczestników zaprezentowanie aktualnie prowadzonych badań, w
większości
związanych z problematyką przygotowywanej dysertacji doktorskiej.
Jednocześnie, chciałybyśmy serdecznie podziękować recenzentom, Pani Profesor
Ingebordze Beszterdzie oraz Panu Profesorowi Mirosławowi Lobie, za czas
poświęcony na
zrecenzowanie artykułów.
La presente raccolta di articoli contiene gli interventi presentati nel corso
dei lavori
durante il III Incontro dei Giovani Italianisti „Intorno alla lingua e
letteratura italiana: teoria
e pratica” svoltosi a Poznań, il 24-25 novembre 2009. La conferenza è stata
organizzata per
iniziativa dell’Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Poznań.
La conferenza mantiene la tradizione iniziata nel 2006 dalla Cattedra di
Italianistica
dell’Università di Varsavia, ripresa successivamente dall’Istituto di
Filologia Romanza
dell’Università Jagellonica nel 2007. Questo ormai terzo incontro dei giovani
italianisti ci ha
dato un’altra opportunità per uno scambio di idee ed esperienze nel campo
della ricerca, ma
anche la possibilità di rafforzare i legami d’amicizia e per alcuni, nuovi
partecipanti,
l’occasione di conoscere le colleghe e i colleghi con più esperienza, il che
in futuro
contribuirà sicuramente ad intraprendere iniziative scientifiche congiunte.
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All’incontro hanno partecipato 23 giovani ricercatori, i quali hanno
presentato i
contributi nell’ambito della letteratura e linguistica, per i quali abbiamo
preferito non imporre
nessun tema specifico. Tale decisione è stata dettata da due considerazioni.
Prima di tutto, si
trattava di incoraggiare la partecipazione del maggior numero possibile di
giovani italianisti.
In secondo luogo, il mancato restringimento tematico ha consentito a ciascun
partecipante di
presentare la ricerca in corso di svolgimento, nella maggior parte legata
alla tematica della tesi
di dottorato in stesura.
Inoltre, vorremmo ringraziare di cuore la Professoressa Ingeborga Beszterda e
il Professor
Mirosław Loba per il tempo dedicato alla preparazione delle recensioni.
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Łukasz Jan Berezowski
Università di Varsavia
Se Mussolini fosse... le visioni alternative del potere fascista dopo il 1945
nella letteratura ucronica italiana del XXI secolo: alcune considerazioni
allostoriche.
L'avversario strategico è il fascismo... il fascismo che c'è in tutti noi,
nelle nostre teste
e nel nostro comportamento di tutti i giorni, il fascismo che ci fa amare il
potere e desiderare
proprio ciò che ci opprime e ci sfrutta.
Michael Foucault
Il 25 luglio 1943 in Italia cadde il regime fascista. Con l’arresto e la
morte del Duce, a
seguito della conclusione della seconda guerra mondiale e dell’espulsione dei
Savoia fu
fondata la Repubblica. Così terminò il Ventennio senz’altro più tragico nella
storia dell’Italia
contemporanea, i cui ricordi lasciarono segnati sia i testimoni oculari
superstiti di quell’epoca
sia le generazioni successive degli italiani che ne sarebbero venuti a
conoscenza tramite le
fonti storiche e le relazioni dei loro avi. Visto il tempo decorso che rende
possibile
l’interpretazione di quei fatti, si pongono in essere vari interrogativi non
solo sul perché di
quegli accadimenti, sulla giustezza o fondatezza delle decisioni prese dalle
camice nere e altri
revisionismi basati su circostanze e documenti finora ignorati o rimossi, ma
anche su come
sarebbe stata l’Italia (e il mondo) se la storia fosse andata per un verso
diverso, e il fascismo si
fosse tramandato ai nostri giorni. La risposta a questa e altre domande del
genere giunge in
alcune recenti opere di carattere ucronico, opere che sono oggetto del
presente articolo.
Il concetto di ucronia (proveniente dal greco: ou-chronos – “il tempo che non
esiste”,
formato per analogia a ou-topos – “il luogo che non esiste”) è stato
teorizzato per la prima
volta dal filosofo possibilista francese Charles Renouvier che nella seconda
metà
dell’Ottocento pubblicò due saggi sull’argomento: Uchronie, tableau
historique apocryphe
des révolutions de l'Empire romain et de la formation d'une fédération
européenne del 1857
sull’immagine apocrifa della storia della rivoluzione dell’Impero Romano e
della formazione
della federazione europea e Uchronie (L'Utopie dans l'histoire). Esquisse
historique
apocryphe du développement de la civilisation européenne tel qu'il n'a pas
été, tel qu'il aurait
pu être nel 1876 sullo sviluppo della civiltà europea come non fu ma come
sarebbe potuto
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essere. A questo proposito, va aggiunta la metateoria degli universi
paralleli formulata un
secolo dopo dal fisico quantistico statunitense Hugh Everett al quale si
ispirò un suo
connazionale, scrittore Philip K. Dick che nel romanzo La svastica sul sole
(The Man in the
high castle, 1962) profetizzava la vincita della seconda guerra mondiale1 da
parte dei paesi
dell’Asse (la Germania e il Giappone) che in seguito avrebbero colonizzato
gli Stati Uniti. Da
allora in poi l’ucronia e il relativo tipo di scrittura formano un
sottofilone della narrativa
fantascientifica, denominata a seconda della tradizione letteraria
fantastoria, storia
contrafattuale oppure allostoria (quest’ultima nozione proposta da Umberto
Eco).
La storia vera e propria dell’ucronia in Italia inizia nei primi anni trenta
del Novecento
quando fu pubblicato il romanzo (allora appartenente alla categoria di
fantapolitica) Lo zar
non è morto. Quell’opera, scritta dal gruppo dei Dieci capeggiato da Filippo
Tommaso
Marinetti, presentò uno scenario alternativo in cui si immaginava come
sarebbe stato il mondo
se l’imperatore russo Nicola II non fosse stato ucciso dai bolscevichi e si
ritrovasse
all’improvviso in Cina, dove tramasse un piano ingegnoso per riconquistare il
potere perduto.
Nel periodo a noi più recente, cioè negli anni settanta del Novecento
uscirono i due romanzi
allostorici di Guido Morselli Contro-passato prossimo (1974) e Roma senza
papa (1975): nel
primo l’autore proponeva una visione retrospettiva della prima guerra
mondiale vinta dai
paesi centrali, invece nell’altro immaginava il futuro dello Stato Pontificio
alla fine del
Novecento che sotto il papa irlandese Giovanni XXIV diventava un centro della
piena libertà
di costumi (abolendo tra l’altro il celibato dei preti). Finalmente,
nell’anno 2000 viene
pubblicata l’antologia Fantafascismo! Storie dell’Italia ucronica curata da
Gianfranco de
Turris e composta da racconti i cui autori immaginano la sorte del pianeta
sotto il regime
mussoliniano (o post-mussoliniano) tuttora esistente. Questo volume, la cui
elaborazione
doveva superare numerose difficoltà nel corso degli anni, oltre a dare avvio
a una nuova
corrente con un nome tutto suo2 tratto dal titolo dell’omonimo libro
(fantafascismo), ispira
autori successivi che nell’ultimo decennio hanno confermato la popolarità del
fenomeno. Tra i
più importanti sono i romanzi: la trilogia Occidente di Mario Farneti, Nero
italiano di
Giampietro Stocco e L’inattesa piega degli eventi di Enrico Brizzi, a fianco
di alcune opere
secondarie incluse nei volumi collettivi di de Turris.
1
Lo scenario alternativo della seconda guerra mondiale vinta dai paesi
dell’Asse è stato anche ripreso da uno
scrittore britannico Robert Harris nel romanzo Vaterland (1992) e nel suo
successivo adattamento filmico
(1994).
2
Tuttavia, Gianfranco de Turris sostiene di aver inventato il termine ormai
nei primi anni ottanta del Novecento
in risposta al racconto di Vittorio Catani Il pianeta dell’entropia
pubblicato nel 1978 su Robot, autodefinito
come opera di fantacomunismo.
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Le differenze di posizione riguardo all’andamento della storia che
riscontriamo tra gli
autori in oggetto iniziano negli anni quaranta del Novecento. Nelle opere di
Farneti e di
Stocco l’Italia sceglie la strada della neutralità e non aderisce alla
seconda guerra mondiale
aspettando la fine del conflitto per conquistare l’Europa e il mondo. Secondo
la visione di
Brizzi, invece, Mussolini rompe l’alleanza con Hitler e grazie a tale mossa
l’Italia esce
trionfante dalla grande guerra, mentre nello scenario di Ramperti, il Duce
schieratosi a fianco
degli altri paesi dell’Asse vince la guerra e con l’impiego dell’atomica
colonizza tutti i
continenti. In quasi tutte queste progettazioni l’Italia diventa un paese che
gode un certo
prestigio internazionale e prosperità economica, allargando il suo territorio
che si estende
dall’estremo Est fino all’Ovest. Quello che rende diverse le loro visioni è
l’organizzazione
dello stesso stato fascista. Un giornalista statunitense John T. Flynn
all’epoca diceva: «la
dittatura è il prodotto del fascismo, poiché il fascismo non può essere
gestito se non da un
dittatore». D’accordo con questa tesi, la maggior parte delle opere in
questione presentano
l’Italia come un regime autoritario governato dal Duce (con passivo
beneplacito degli eredi
della Casa Savoia). Solo dal romanzo di Brizzi scompare la monarchia e il
paese assume il
nome de «la Repubblica d’Italia» diventando un conglomerato delle nazioni
associate. Cade
anche il ruolo sociale della Chiesa Cattolica, siccome la nuova costituzione
introduce il
carattere laico e littorio dello stato.
La prima crisi che ciascuno di questi organismi statali immaginari deve prima
o poi
affrontare è il problema della successione del potere dopo la morte di
Mussolini (avvenuta,
nella maggior parte delle opere, attorno agli anni settanta del Novecento).
Se nel caso degli
scrittori Stocco e Bologna il governo del paese spetta ai personaggi
veramente esistiti come
Galeazzo Ciano, l’ex ministro degli esteri dell’Italia fascista o Pietro
Badoglio, il capo del
governo provvisorio dopo l’arresto del Duce, altri scrittori decidono di
riporre le sorti del
popolo italiano nelle mani degli uomini fittizi come, per esempio, Romano
Tebaldi
protagonista principale dell’intera trilogia Occidente, inventato da Mario
Farneti, e salito al
potere in seguito all’estinzione di triumvirato. In alcuni casi come in
quello del romanzo di
Brizzi, la scomparsa di Mussolini provoca una lotta fratricida tra i gerarchi
fascisti e porta alla
guerra civile.
Un altro punto nevralgico è la politica estera. Siccome l’Italia
fantafascista non ha
rinunciato mai alle sue aspirazioni imperialistiche ed extraterritoriali, era
prevedibile che
queste provocassero dei conflitti militari con altri paesi come
nell’Occidente di Farneti dove
Mussolini decide di dichiarare la terza guerra mondiale e conquistare
l’intero pianeta (inclusa,
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perfino, l’Unione Sovietica, il cui capo Iosif Vissarionovič Džugašvili viene
catturato dalle
Forze Armate dell’Impero). Il piano dell’espansione prevedeva anche la
colonizzazione
dell’Africa, un sogno fallito in realtà, ma realizzato nel romanzo di Brizzi.
Tuttavia, non erano
sempre gli italiani ad invadere le altre nazioni. Come ha dimostrato Farneti
nello stesso
Occidente a volte bisogna assumere una posizione di difesa per respingere
l’attacco degli
estremisti arabi o diverse forze nemiche dell’Oriente.
Nella politica interna invece gli stati fantafascisti devono affrontare
numerosi problemi
sociali di ogni tipo come la disoccupazione, gli scioperi degli operai, le
epidemie delle
malattie contagiose ecc. Non mancano poi degli opponenti politici
(soprattutto di sinistra) che,
formando una forte resistenza, preparano un colpo di stato o qualche piano
complottistico per
abbattere il governo. Un aspetto non meno interessante è rappresentato dal
fatto che molti di
questi organismi statali, pur essendo di fantasia, portano dei riferimenti e
legami con la realtà
fattuale odierna: vi appaiono dei personaggi autentici (per esempio Yasser
Arafat, il
presidente della Federazione Araba) e gli eventi storici posteriori veramente
accaduti come la
contestazione studentesca del ‘68, il terrorismo islamico o la crisi
economica globale.
Per quanto concerne la vita quotidiana della società, molti paesi
fantafascisti illustrati
dagli autori, dominano in campo commerciale e industriale, sviluppano le
tecnologie
moderne, gli scienziati e gli studiosi italiani vengono riconosciuti e
apprezzati nel mondo,
fiorisce la cultura d’elitè, mentre il calcio diventa una disciplina sportiva
di particolare
importanza dopo che la squadra azzurra vince i mondiali del 1982 (nella
visione di
Pierfrancesco Prosperi). Anche nelle colonie si organizza la Serie Africa, la
lega che raduna il
meglio del calcio eritreo, etiope e somalo sotto l’egida della Federcalcio di
Roma.
Gli autori della maggior parte delle opere in oggetto hanno ideato per le
superpotenze
fantafasciste una lunga sopravvivenza, stimata in migliaia di millenni, a
volte infinita. Ciò
nonostante, alcune di queste superpotenze, una volta sottoposte ad una prova
più dura,
sprofondano in autodistruzione e guerra totale contro i nemici. La storia
conclusiva del regime
profetizzata da Errico Passaro nel Tempus fugit assume una dimensione
esoterica: l’autore
vede la Terra alla vigilia della caduta della Luna, con il suo ultimo Duce
che trovatosi all’orlo
della catastrofe ormai scontata, medita sui destini dell’umanità e
dell’ideologia che la
sorregge.
Quasi tutti gli autori citati tentano di dimostrare l’Italia fantafascista
come uno stato
potente, ben sviluppato, militarizzato, dotato di una forte rappresentanza
politica e ampie
ambizioni imperialistiche. Alcuni, però, indicano un suo graduale
allontanamento dal modello
totalitario sensu stricto tramite l’astensione dalla politica del terrore
talmente crudele
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(specialmente su sfondo razziale) e il consenso alla presenza
dell’opposizione legale (come
nel romanzo di Stocco) a favore dell’introduzione del sistema autoritario che
consente una
certa autonomia in alcune sfere della vita pubblica (per esempio, al mercato
libero della
stampa nelle colonie africane del romanzo di Brizzi). Non adempie, quindi,
l’ideologia di
fantafascismo tutti e cinque i criteri del sistema totalitario modello
formulati da Carl Friedrich
e Zbigniew Brzeziński nel libro Totalitarian Dictatorship and Autocracy
(1956: 52-53),
ovvero: 1. concentrazione del potere in capo ad un’oligarchia inamovibile e
politicamente
irresponsabile, 2. imposizione di un’ideologia ufficiale, 3. presenza di un
partito unico di
massa, 4. controllo delle forze operanti nello Stato (polizia) ed uso del
terrore, 5. completo
controllo della comunicazione e dell’informazione. Nel contempo, si compie
una naturale
autolegittimizzazione del potere avvenuta in corso della successione dopo la
scomparsa del
Duce (ovvero tramite un passaggio dalla legittimità carismatica a quella
tradizionale o, nel
caso di Brizzi, legale-razionale riferendosi alla tipologia del potere di Max
Weber). D’altro
canto l’immagine del paese fantafascista proposta dagli autori qui citati
diviene
un’emanazione vera e propria del mito del grande Impero Romano. Il filone
della romanità è
ubiquo in tutte le opere in questione, siccome l’ideologia del fascismo
stesso è fondata sul
misticismo e simbolismo della Roma antica (per esempio il saluto romano). Non
va
dimenticato anche l’altro motivo nazionale ripreso dagli scrittori, cioè
quello del colonialismo
africano che stava al cuore dei governanti dopo l’unità d’Italia, ma che
rimase un progetto
fallito.
In conclusione, si proverà a rispondere alla domanda posta più frequentemente
da
studiosi, critici e lettori: quali sono le finalità della scrittura
speculativa? Quali possibili
profitti derivano da un simile tipo di scrittura? Secondo Hayden White la
storiografia è un
altro genere letterario, la storia viene raccontata secondo le modalità
narrative, mentre la
realtà creata nel corso della riflessione è un torrente degli eventi che la
gente descrive e si
spiega da sola. Così, egli cancella il confine tra la storia e la
letteratura, accomunate di fatto
dalla medesima categoria di mezzi di espressione linguistica, mezzi retorici,
ecc. Le ucronie
presentate di sopra potrebbero svolgere l’obiettivo non limitato solamente
alla produzione
delle storie immaginarie, ma anche quello di provocare – mediante l’uso del
contesto
notoriamente fittizio fornito dalla convenzione allostorica – una riflessione
addirittura storica,
quella riflessione sul recente passato dell’Italia e quella resa dei conti
che secondo molti
storici non avvengono. Come sostiene già menzionato de Turris:
9
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Il risultato [delle opere di ucronia] è un tentativo d’immaginare come il
fascismo, se non avesse
fatto/fosse sopravvissuto/ avesse vinto la guerra, si sarebbe evoluto o
involuto; quali scelte avrebbe
effettuato, che direzioni avrebbe preso una volta morto/sostituito/non
essendoci Mussolini, dipanatasi la
politica internazionale, sviluppatasi la “società dei consumi”, imperversata
la tecnologia,
americanizzatosi il mondo. Come avrebbe affrontato la crisi della morale, il
problema del sesso, la
questione della rappresentanza democratica, il dissenso intellettuale, la
fronda dei giovani, il conflitto
con la monarchia, l’evolversi dei mass media, l’assedio delle grandi potenze
“democratiche”, la
guerriglia nelle colonie. A quali valori avrebbe ricorso, a che appigli
ideali si sarebbe aggrappato, che
periodi critici avrebbe vissuto, come ne sarebbe uscito, che soluzioni
pratiche avrebbe adottato?3
Gli scrittori di fantafascismo forniscono alcune risposte alle domande poste,
anche grazie alla
maggiore libertà di cui godono, rispetto agli storici, libertà che gli
permette di assumere
atteggiamenti diversi, poiché l’ucronia supera i limiti della cosiddetta
“correttezza politica”,
produce un numero infinito di scenari possibili della storia, a volte
rendendo un volto più
umano a quello che si percepisce occulto, crudele oppure demonizzando quello
che è solito,
comune. Però, anche questa licentia poetica non li protegge dalle accuse di
falso storico, di
interpretazioni arbitrarie dei fatti storici o di revisionismo storico, e a
volte di criptofascismo.
Ne è un esempio Gianfranco de Turris che da anni affronta ostacoli editoriali
nella
pubblicazione delle sue antologie, o Mario Farneti a cui le autorità locali
hanno negato il
permesso di organizzare delle mostre dei suoi fumetti ucronici Albi di
Occidente. A tale
punto, immediatamente sorge la questione ben diversa: dov’è il confine tra la
libertà
dell’opinione e dell’espressione artistica? È probabilmente l’unica domanda a
cui la
letteratura ucronica di oggi non sappia rispondere...
Bibliografia
I. Volumi
Brizzi, Enrico (2008). L’inattesa piega degli eventi, Milano: Baldini
Castoldi Dalai.
de Felice, Renzo (2005). Interpretazioni del fascismo, Roma: Laterza.
de Turris, Gianfranco (2000) [a cura di]. Fantafasicsmo! Storie dell’Italia
ucronica, Roma: Settimo Sigillo.
de Turris, Gianfranco (2005) [a cura di]. Se l’Italia. Manuale di storia
alternativa da Romolo a Berlusconi,
Firenze: Vallecchi.
Farneti, Mario (2001). Occidente, Milano: TEA/Nord.
Farneti, Mario (2002). Attacco all’Occidente, Milano: TEA/Nord.
Farneti, Mario (2004). Nuovo Impero Occidente, Milano: TEA/Nord.
Friedrich, Carl / Brzeziński Zbigniew (1956). Totalitarian Dictatorship and
Autocracy, New York: Harvard
University Press.
Ricoeur, Paul. Temps et Récit, Paris: Le Seuil, 1983-1985,
White, Hayden (1973). Metahistory: The Historical Imagination in NineteenthCentury Europe. Baltimore:
Johns Hopkins UP.
II. Articoli
Bucci, Stefano. Se Mussolini si fosse impadronito dell’Asia, Corriere della
Sera, 18.04.2001
Evangelisti, Valerio. Italy: Fascist sci-fi, Monde diplomatique, ottobre 2001
Folena, Umberto. 1972, il duce regna a Mosca, Avvenire, 27.04.2001
3
G. de Turris, Fantafascismo!, p. 10
10
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Valzania, Sergio. ITALIA. Così poteva cambiare la storia, Il Giornale,
21.04.2001
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Agnieszka Domaradzka
Università Adam Mickiewicz di Poznań
Le sfumature del nuovo noir italiano
Dal giallo al nero
Uno dei tratti distintivi della narrativa contemporanea è la mancanza di
confini precisi tra
un genere letterario e l’altro. Il problema nasce dal fatto che tantissimi
autori non volendo
limitare la loro produzione artistica ad una forma particolare, si situano in
una terra di
nessuno, componendo opere fra vari generi e attingendo ai più diversi stili e
linguaggi. La
questione riguarda innanzitutto la nuova letteratura noir che sfugge ancora
più di prima ai
tentativi di formulare una delimitazione definitiva. La narrativa nera
suscita dunque molte
polemiche, i critici non concordano neanche sul fatto se essa costituisca un
genere a parte o
appartenga soltanto come sottogenere all’ampia categoria del giallo. Capita
addirittura che il
termine venga utilizzato non di rado come sinonimo di “romanzo poliziesco”.
Insomma, per
capire quali sono i problemi che coinvolgono la letteratura nera occorre
prima stabilire quali
attributi possieda il noir.
Il termine noir evidentemente proviene dalla lingua francese: venne usato per
la prima
volta nel 1946 da Nino Frank che lo riferì ad alcuni film americani di tipo
hard–boiled,
importanti in quegli anni in Francia1. Così il concetto noir si trova
all’incrocio di questi due
poli: arrivò in Italia attraverso il francese, ma risente dell’indelebile
atmosfera metropolitana
delle opere hard–boiled dell’America di allora. Da quel momento il nome viene
adoperato per
descrivere la parte particolarmente inquietante e stravagante del mondo
“giallo”: sia letterario
sia cinematografico, perché il noir può riguardare entrambi i campi
artistici.
Come nell’immaginario collettivo, il colore nero rievocato dal termine noir
fa pensare
all’opacità, induce l’inquietudine e l’insicurezza. La narrativa di genere
quindi provoca timore
nel pubblico, focalizzando l’attenzione sulle zone d’ombra della società. Per
questo serve
spesso a denunciare i problemi sociali che gli altri generi non riescono o
non possono
mostrare. Loriano Macchiavelli, un autore contemporaneo, sostiene che il
genere noir è come
un “virus nel corpo sano della letteratura, autorizzato a parlare male della
società in cui si
sviluppava”2. Comunque la narrativa nera non solo presenta l’uomo nell’ottica
ampia della
società, ma permette di osservare da vicino l’uomo come individuo. Analizza
la natura umana
1
G. Cesareo, Sulle tracce di un filo nero, in: AA. VV., I colori del nero, a
cura di: M. Fabbri, E. Resegotti,
Ubulibri, Milano, 1989, p. 15.
2
Wu Ming, New Italian Epic, Einaudi, Torino, 2009, p. 20.
12
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esaminando i protagonisti nelle situazioni estreme. Il noir non descrive i
personaggi
nettamente distinti tra i buoni e i cattivi, dimostra piuttosto che nel mondo
tetro il confine tra
il bene e il male non è facilmente delineabile. Il clima noir quindi rompe la
sensazione
dell’ordine delle cose che possiede il lettore, le storie non possono essere
né consolatorie né
rilassanti. Anzi, assomigliano piuttosto a ragnatele che imprigionano il
lettore e dalle quali è
impossibile liberarsi.
Il termine noir comunque può essere inteso in due maniere: può indicare
soltanto
l’atmosfera particolarmente angosciante e in questo caso appare come un’onda
in diversi
generi letterari, emergendo anche soltanto nelle singole scene, non
necessariamente in tutta
l’opera. Comunque il nero può segnare pure l’intero genere letterario o
cinematografico che si
basa sull’oscurità. A partire dagli anni Novanta del Novecento il termine
noir ha cominciato a
volgersi sempre di più verso questo suo secondo significato. È divenuta una
corrente in voga,
alla quale si dedicano scrittori diversi che ne hanno amplificato pure la
concezione. Il nuovo
noir italiano crea delle atmosfere soffocanti in maniera particolarmente
crudele, i noiristi
narrano dunque “l’orrore estremo”3 descrivendo minuziosamente i delitti.
Offre al lettore la
realtà deviata e patologica piena di serial killer, alienati e psicopatici e
presenta le città
italiane innanzitutto dalla prospettiva dei bassifondi, che grondano di
costante pericolo. Il
nuovo noir dunque ha lo stesso scopo che la letteratura nera di una volta –
ci trascina dentro
un mondo privo di ogni speranza e di ogni sicurezza, ma lo fa in modo
particolarmente atroce
e spietato.
Le particolarità del nuovo noir Italiano
La nuova letteratura nera è il risultato dell’evoluzione del giallo e il suo
graduale
passaggio al noir. Come ammette Luca Crovi: “I tanto celebrati e fortunati
anni Novanta del
“giallo italiano” non sono dunque stati che la punta di un iceberg
costruitosi nel tempo, grazie
a forte nevicate e glaciazioni”4. La sezione editoriale dedicata al noir o
mystery è cresciuta
notevolmente nell’ultimo decennio, fino al punto in cui si parla di “caso
letterario a cavallo
dei due secoli”5: le case editrici fondano numerose collane di genere
(Vertigo, Stile libero noir
di Einaudi; Black di Marsilio; Neonoir di Minotauro; Il nero italiano di
Theoria) o addirittura
nascono case editrici che si occupano solamente della narrativa nera
(Meridiano Zero). Anche
Internet è stracolmo di siti dedicati esclusivamente al noir, sia di riviste
on line (Milano nera,
Napoli noir), sia di pagine degli autori stessi (Alda Teodorani, Carlo
Lucarelli) o addirittura di
3
D. Brolli, copertina, in: AA. VV., Gioventù cannibale, a cura di: D. Brolli,
Einaudi, Torino, 2006.
L. Crovi, Tutti i colori del giallo, Marsilio, Venezia, 2002, p. 17.
5
M. Testa, op. cit. , p. 132.
4
13
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siti che lanciano dei concorsi per promuovere il genere e pubblicano sul web
i testi vincitori
(Roma noir).
Prima di tutto però bisogna rispondere alla domanda: che cosa distingue il
noir odierno
dal poliziesco? Le opinioni in proposito sono diverse. Secondo alcuni
critici, tra l’altro
Alberto Casadei6, l’elemento che distingue la letteratura nera dal giallo è
la mancanza del
fattore logico nell’inchiesta. L’indagine si svolge a scatti che conducono
alla conclusione o
lasciano la trama in sospeso, comunque ci vuole almeno un minimo di elemento
giuridico per
poter utilizzare la denominazione noir. Tra gli autori che condividono questo
atteggiamento ci
sono Carlo Lucarelli, Sandrone Dazieri, Andrea G. Pinketts e Loriano
Macchiavelli. Infatti,
Sarti Antonio, il protagonista creato dall’ultimo autore è il buon esempio
del personaggio
nero:
Sarti Antonio, sergente, avrà tanti difetti, sarà pieno di fissazioni, e di
malanni, sarà un povero coso fin che
si vuole, ma in fatto di memoria bisogna lasciarlo stare. Vede ed è come se
fotografasse, ascolta ed è come
se registrasse. Il difficile comincia quando si tratta di mettere insieme,
secondo un criterio logico, le
fotografie e le registrazioni. Ma se fosse in gamba anche in questo non
sarebbe un sergente: sarebbe un
mostro!7
Invece per altri critici come Elisabetta Mondello o Fabbio Giovannini,
l’elemento
fondamentale del noir è il crimine, non più l’indagine, anzi, capita spesso
che essa sia ridotta
o assente e tutta la trama si concentri intorno al reato stesso. Per questo
sparisce il detective
come figura centrale e il suo posto è occupato da altri due protagonisti: il
criminale e la
vittima. La letteratura noir spesso presenta il male dal cosiddetto “punto di
vista di Caino”8
ossia al centro dell’azione mette l’assassino, con il quale il lettore,
controvoglia, è costretto ad
immedesimarsi e partecipare al delitto. Questa prospettiva viene introdotta
nel racconto di
Niccolò Ammaniti intitolato Rispetto (raccolta Fango) in cui il narratore
collettivo è costituito
da un gruppo di giovani ragazzi che incontrano tre ragazze in discoteca che
in seguito portano
sulla spiaggia, stuprano e uccidono. Noi vediamo la situazione attraverso gli
occhi dei
malviventi, la storia viene raccontata con le loro parole. Il lettore è
forzato ad entrare nei
panni degli stupratori e assassini e non c’è proprio nessun elemento che ci
possa permettere di
prendere le distanze da tutte le atrocità.
Ci sono tuttavia anche storie in cui la situazione viene presentata da una
prospettiva
addirittura opposta: dal punto di vista della vittima, di cui soffriamo tutti
i dolori. Esemplare
6
A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Il Mulino,
Bologna 2007, pp. 96 – 102.
L. Macchiavelli, Ombre sotto i portici, Einaudi, Torino, 2003, p. 20.
8
E. Mondello, Il Neonoir. Autori, editori, temi di un genere metropolitano,
romanoir.it/pdf/Mondello_Il
Neonoir.pdf, 2005, p. 4.
7
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per questo approccio è il racconto Tutto il resto è boia di Sandrone Dazieri
(raccolta Anime
nere). Un giornalista riceve certe importanti notizie dal suo informatore che
riguardano i
servizi segreti. Quando indaga, essi lo catturano e l’Ufficiale e il Boia lo
torturano per
scoprire il nome del suo informatore. I tormenti causano la massima
sofferenza: pian piano gli
tagliano le mani, le gambe, gli estraggono tutti i denti e lo privano di un
occhio. Nella scena
finale, al momento in cui il Boia sta per ucciderlo, sappiamo che
l’informatore è stato proprio
il carnefice.
Come si è già detto le storie nere nell’ultimo Novecento diventano sempre più
spietate e
violente. Sembra che all’accanimento del noir contribuisca il modello
cinematografico
costituito da pellicole come Pulp fiction di Quentin Tarantino o Natural Born
Killers di
Olivier Stone, i film straboccanti in maniera particolare dell’insensata
aggressione. Nelle
opere nere così come nei modelli cinematografici il crimine viene commesso
con la massima
ferocia e descritto in ogni minimo dettaglio. Nel racconto Sed efficiente
malum di Giulio
Leone (raccolta Anime Nere), l’avvocato descrive l’assassinio effettuato dal
suo cliente:
Così loro si sono fatti prendere dal panico. Hanno tentato di soffocarla con
la sua vestina. Ma quanto è difficile soffocare una che proprio
non vuole morire, che morde le mani che la stringono, che sputa da tutte le
parti. Che per paura ti fa pure la pipì addosso.
Poi le hanno sfondato il cranio con una pietra9.
Il recente successo delle opere noir ha provocato larga produzione dei libri
del genere, ma
bisogna sottolineare il fatto che provoca tante ambiguità e polemiche della
critica: sono in
gran parte libri che oltrepassano varie tradizioni e stili. Gli scrittori
delle storie nere hanno
allargato le possibili realizzazioni del noir, mescolandolo con il giallo
classico, il romanzo
d’avventura, l’horror, il thriller o la fantascienza. Questa contaminazione
dei generi ha una
principale ragione ed occorre cercarla nella tendenza generale della
letteratura della fine del
XX e dell’inizio del XXI sec.
La narrativa noir contemporanea trova diverse denominazioni e spiegazioni.
Filippo La
Porta in Sul banco dei cattivi propone Nuovo Giallo Italiano, invece secondo
Wu Ming il
nuovo noir c’entra nella categoria della Nuova narrazione epica italiana (New
Italian Epic).
Wu Ming spiega il termine dichiarando che esso riguarda tutte le opere nate
tra l’anno 1993 e
l’anno 2005. NIE10 sono le opere letterarie, di ampio ventaglio tematico e
narrativo, che si
esprimono attraverso il giallo, il noir, il fantastico e l’horror, e che sono
ispirate da
problematiche ed eventi rilevanti per la realtà contemporanea. Inoltre secondo Wu Ming - la
9
G. Leoni, Sed efficiente malum, in: AA. VV., Anime nere, a cura di: A. D.
Altieri, Mondadori, Milano, 2007, p.
194.
10
New Italian Epic. Si utilizza anche la sigla NEI: Nuova Epica Italiana
15
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Nuova Epica Italiana è caratterizzata da una presa di posizione di fronte ai
problemi descritti e
l’assunzione della responsabilità, che nel caso del nuovo noir è la
continuazione della sua
funzione tradizionale: la denuncia della crisi e l’attrazione dell’attenzione
ai problemi sociali.
Anche Fabio Giovannini, critico e autore di genere, elenca quattro elementi
indispensabili per
il nuovo noir (che costituisce il programma del suo gruppo letterario
Neonoir). Come primo
punto enumera la figura dell’assassino che occupa la posizione centrale nella
narrazione. Di
seguito parla della struttura dei testi ovvero il voler mescolare diversi
generi tra i quali noir,
giallo, spy story, l’horror e cyber usando il criterio multimediale,
inserendoci cinema,
televisione e fumetto. Il terzo principio secondo Giovannini è la
collocazione delle storie tra
cronaca nera e immaginario, in quanto la realtà costituisca il punto di
partenza e la fantasia,
l’elemento che serve a oltrepassarla. L’ultima condizione è il privilegio
delle situazioni
estreme che rifiutano ogni perbenismo.
Molti critici letterari tra le caratteristiche indispensabili del nuovo noir
nominano il
continuo mescolamento dei generi che porta alla nascita dei cosiddetti
“oggetti narrativi nonidentificati”11. Le opere oltrepassano tutte le linee e
divisioni, persino quella primaria fra
prosa e poesia. Sono i cosiddetti crossover, ossia i libri che trasgrediscono
i generi, che
contengono anche gli elementi fuori letterari, tra l’altro frammenti
caratteristici del cinema,
della televisione o di Internet. Gli scrittori ricorrono pure alla
transmedialità proseguendo la
produzione narrativa in forme non necessariamente letterarie: escono dai
limiti del romanzo e
fanno continuo uso di Internet, dedicandosi a diversi siti, blog, twitter,
mash-up, fumetti o
disegni. Lo testimonia il personaggio creato da Andrea G. Pinketts, Lazzaro
Santandrea, alter
ego dell’autore, che è spesso ospite di diversi episodi delle storie a
fumetti Lazarus Ledd,
Mister No o Martin Mystère.
Il tratto distintivo di molti fra questi libri è l’atteggiamento sperimentale
nei confronti
dello stile e del linguaggio. Gli scrittori utilizzano una lingua che spesso
sembra parlata, in
confidenza con ogni slang e dialetto, con il turbamento continuo dei registri
e stili della
lingua. Andrea G. Pinketts nell’Assenza dell’assenzio mescola uno stile
elevato con uno basso
citando il celebre inizio della Commedia dantesca in un contesto triviale in
cui il pube
femminile viene paragonato alla “selva oscura”. I noiristi non evitano né
volgarità né
11
Il nome si basa sull’espressione inglese “Unidentified Narrative Object”, che
abbreviato dà forma UNO,
analogo a UFO.
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forestierismi, creando una lingua vivace e liberata da ogni limite, una
specie di
“neoespressionismo”12.
Un’altra caratteristica comune alla maggior parte delle opere noir è
l’ambientazione
urbana della trama, per questo Elisabetta Mondello tra varie denominazioni
del genere utilizza
giustamente anche quella di “genere metropolitano”13. Le storie si svolgono
quasi
esclusivamente nelle grandi città d’Italia, inoltre di solito determinati
autori scelgono sempre
gli stessi posti: Carlo Lucarelli e Loriano Macchiavelli sono legati alla
città di Bologna,
Sandrone Dazieri colloca le sue opere a Milano e Alda Teodorani sceglie
solitamente Roma.
Le metropoli noir sono “il regno di Caino”14, risentono dell’atmosfera delle
città ritrattate
dagli scrittori hard–boiled o di Giorgio Scerbanenco: l’azione abitualmente
ha luogo nei
margini della società turbati da prostituzione, droga, crimine e mafia. Le
storie si svolgono
nella realtà contemporanea, per questo si menzionano spesso gli avvenimenti o
problemi
importanti nel mondo odierno. Così le vicende dell’11 settembre costituiscono
l’evento di
sfondo per Karma del Gorilla di Sandrone Dazieri, la mafia appare in Neve
sporca di
Giancarlo De Cataldo (Crimini Italiani) e il tema centrale di Tufanaltorba di
Danilo Arona
(Anime Nere) è il terrorismo.
Come si è detto all’interno del nuovo noir troviamo varie tendenze che si
sviluppano
intorno a diverse scuole o gruppi letterari che spesso si trattano a vicenda
con una certa dose
di litigiosità. Così intorno a Andrea G. Pinketts nel 1993 si forma la
cosiddetta Scuola dei
Duri. Accanto all’autore più celebre le hanno dato vita Carlo Oliva e
Sandrone Dazieri
insieme ai cofondatori Sandro Ossola, Andrea Cappi, Raoul Montanari. Il
gruppo si
costituisce nella città della Milano post Tangentopoli, nella realtà nuova
che gli scrittori
vogliono ritrarre. Il nome di Scuola dei Duri indica l’atteggiamento che
bisogna avere:
occorre “tener duro”, avere perseveranza senza arrendersi di fronte alle
difficoltà, anche in
campo letterario. Nella fondazione della scuola, a Pinketts interessava
l’idea di costruire “una
birreria letteraria”, alternativa ai vecchi caffè letterari, un posto più
vivace di quello
tradizionale, in cui ci si potrebbe occupare del mistero, in tutti i sensi.
Andrea G. Pinketts si è
ispirato a Giorgio Scerbanenco, che nella sua prosa ha descritto la città
degli anni Sessanta
attraverso i crimini volendo svolgere lo stesso compito. Per questo scopo ha
lanciato un
concorso per un racconto che narrasse di un delitto nella città di Milano. I
testi scelti si
trovano nell’antologia che costituisce contemporaneamente il manifesto della
scuola: risale al
12
AA. VV., Sguardo sulla lingua e la letteratura italiana all’inizio del terzo
millennio, a cura di Sabina Gola,
Michel Bastianensen, Franco Cesati Editore, Firenze, 2004, p. 45.
13
E. Mondello, op. cit., p. 1.
14
M. Fabbri, E. Resegotti, Ombre amare, in: AA. VV., I Colori del nero, op.
cit., p. 9.
17
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1995 ed è intitolata Crimine Milano giallo-nera. Raccolta di inediti della
Scuola dei Duri.
Dopo dieci anni di iniziativa il fondatore ha deciso di mettere fine al
movimento, essendo
convinto che ogni generazione ogni decina di anni trova un proprio linguaggio
per parlare dei
problemi della società contemporanea, di cui i delitti sono uno specchio.
La successiva città in cui si sviluppa la corrente nera in Italia è Bologna,
in cui opera il
cosiddetto Gruppo 13 radunato intorno a Loriano Macchiavelli. Esso si forma
nell’estate 1990
per iniziativa dello scrittore insieme a Carlo Lucarelli e a Danila Comastri
Montanari, che
desideravano creare un momento d’incontro fra scrittori e illustratori
giallo-neri operanti nel
territorio emiliano– romagnolo. Il team iniziale era costituito da dodici
persone, tra cui dieci
scrittori e due disegnatori. I letterati appartenenti al Gruppo 13 sono, a
parte i fondatori: Pino
Cacucci, Nicola Ciccoli, Massimo Carloni, Marcello Fois, Lorenzo Marzaduri,
Gianni
Materazzo e Sandro Toni. Poi si sono aggiunti anche Eraldo Baldini, Mario
Coloretti e
Giampiero Rigosi. La loro prima antologia di racconti viene pubblicata nel
1991, si tratta dei
Delitti del Gruppo 13, seguita dalla raccolta del 1995 Giallo, nero, mistero.
Altri due movimenti letterari suscitano molte polemiche a seconda della
comprensione del
termine noir. Se riduciamo l’etichetta solo alle storie in cui l’indagine è
l’elemento
indispensabile, soltanto due scuole citate sopra rientrano nella categoria.
Se invece, come
pensano gli altri, è piuttosto il dominio della violenza la componente
distintiva del noir,
bisognerebbe menzionare altri due fenomeni importanti in Italia.
Il primo dei due gruppi nasce a Roma nell’estate del 1994 e si chiama
Neonoir. Il termine
è stato preso in prestito da Maitland McDonagh che lo ha inventato per
designare lo stile delle
pellicole di Dario Argento, il maestro del gruppo letterario. Lo formano
diversi registi,
scrittori e critici e la loro azione prende l’invio con una serie di incontri
con Dario Argento
che si trasforma in un programma radiofonico di Radio Città Aperta
Appuntamenti in Nero e
uno spettacolo teatrale Il vampiro di Londra. Tra i suoi esponenti si trovano
Antonio Tentori e
Fabio Giovannini, curatori e portavoce, inoltre vi appartengono Pino
Blastone, Sabrina
Delizia, Paolo De Pasquali, Nicola Lombardi, Marco Minicangeli, Aldo Musci,
Claudio
Pellegrini e Alda Teodorani. Gli autori si definiscono «un movimento-non
movimento»,
comunque compongono insieme i testi radiofonici, teatrali e narrativi nelle
introduzioni delle
quali espongono dichiarazioni programmatiche e critiche. Hanno pubblicato
varie antologie
quali: Neonoir, 16 storie e un sogno pubblicato nel 1994, Neonoir. Deliziosi
raccontini con il
morto dello stesso anno, Giorni Violenti. Racconti e visioni neonoir
proveniente dal 1995,
Cuore di pulp. Antologia di racconti italiani pubblicato nel 1997 e le
raccolte dell’inizio del
18
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XXI sec.: Bambini Assassini (2000), Grande macello. Racconti di horror
estremo (2001),
L’orrore della guerra. Racconti estremi di autori italiani (2003).
I Giovani cannibali vengono di solito inclusi nel pulp, però visto che uno
dei loro tratti
distintivi è infatti la violenza, alcuni critici accanto ai movimenti
menzionati prima, tra gli
esponenti del noir elencano anche questo gruppo. Irrompono alla scena
letteraria nel 1996 con
«la prima antologia italiana dell’orrore estremo»15 intitolata Gioventù
cannibale, volume a
cura di Daniele Brolli che dà spazio a tali autori come Niccolò Ammaniti,
Aldo Nove, Luisa
Brancaccio, Alda Teodorani, Daniele Luttazzi, Andrea G. Pinketts,
Massimiliano Governi,
Matteo Curtoni, Matteo Galiazzo, Stefano Massaron e Paolo Caredda. Il tratto
distintivo dei
Giovani cannibali che li differisce da altri gruppi della nuova letteratura
nera è la comicità
con la quale descrivono la bestialità (il fattore rifiutato intensamente dal
gruppo Neonoir).
Marino Sinibaldi il loro atteggiamento descrive come «civettare con
l’orrore»16, perché le
atrocità descrivono con onnipresente allegria per mezzo della quale si crea
un distacco tra il
racconto e il lettore che in questa maniera lo salva e protegge dalle
crudeltà a cui assiste.
Il nuovo noir italiano in tutte le sue sfumature è dunque il genere
letterario che continua la
strada del giallo, che comunica con i lettori odierni presentando il mondo
contemporaneo e
servendosi delle nuove possibilità narrative ed extraletterarie. È dunque una
corrente che si
distingue sia dal punto di vista tematico sia da quello formale. La nuova
letteratura nera
descrive in ogni atroce particolare la vita ai margini della società e le
oscurità dell’anima
umana con una chiave assai sperimentale abolendo i confini tra diversi
generi, stili e registri e
abbattendo qualsiasi barriera. Per la sua contaminazione costante è senza
dubbio un filone
difficilmente definibile e ambiguo, ma il suo enorme successo dimostra
l’efficacia della nuova
maniera espressiva. Il nuovo noir testimonia come siamo noi oggi e come è la
realtà che ci
siamo creati, quindi rispecchia in pieno e in maniera terribilmente violenta
la nostra epoca,
così come l’hanno fatto nel corso del tempo le diverse varianti del giallo e
nero.
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20
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Karol Karp
Università Niccolò Copernico di Toruń
Il teatro italiano del grottesco: verso un indirizzo originale?
L’inizio della nuova epoca del Novecento è pieno di inquietudini, di
insicurezza e di
disagi. Esso provoca la nascita di tendenze nuove in tutte le sfere della
vita, ben compresa
quella culturale e teatrale e per questo motivo il teatro italiano del primo
Novecento subisce
numerose trasformazioni.
Nei primi anni del Novecento appaiono dunque nel teatro italiano delle
correnti nuove
che cercano di sottolineare la loro diversità opponendosi spesso alle regole
stabilite e
rispettate dai loro predecessori. In tale ambito vedono la luce le opere
teatrali che
appartengono alla poetica del grottesco; esso insieme alle pièce futuriste e
al teatro
monumentale ottocentesco dominano il terreno del teatro italiano del primo
Novecento. Ma
quali autori occorre annoverare parlando del teatro italiano del grottesco?
L’elenco
comprenderebbe i massimi esponenti della drammaturgia italiana quali: Luigi
Chiarelli (18801947), Enrico Cavacchioli (1885-1954), Luigi Antonelli (18771942) e Pier Maria Rosso di
San Secondo (1887-1956). Che cosa unisce esattamente questi drammaturghi? Tra
i legami
che si possono ritrovare bisogna accennare l’uso delle strutture tematiche
che tendono a
dimostrare la realtà espressa nella dimensione magica e surreale attraverso
cui si mette in
evidenza l’assurdità delle azioni umane. Nelle opere teatrali si nota anche
la visualizzazione
dello stato dei personaggi; essi sono condannati a vivere con <<la maschera>>
ben accollata
al loro volto, con <<la maschera>> che nasconde i vizi umani. Essa consente
spesso al lettore
o allo spettatore di capire e decifrare le loro vere intenzioni. Ma come
definire il vero
grottesco nel teatro italiano del periodo fra le due guerre?
1.Il termine <<grottesco>>
Secondo il Dizionario del teatro di P. Pavis (1998) grottesco è un “aggettivo
derivato
dal sostantivo grotta, riferito alle pitture scoperte nel Rinascimento in
monumenti sepolti,
raffiguranti motivi fantasiosi: animali aventi forme vegetali, chimere e
figure umane”(Pavis
1998: 195). Da ciò si può concludere che il grottesco intende legare il lato
realistico cioè : gli
esseri umani, gli animali a quello fantastico compreso nell’ampiezza di
questa nozione. La
fusione dunque di un elemento reale con un elemento irreale deve provocare un
effetto
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comico o semplicemente bizzarro, un effetto di deformazione molto visibile
nelle opere
chiarelliane ossia sansecondiane. Ambedue gli scrittori, sia Chiarelli che
Pier Maria Rosso di
San Secondo, vengono classificati come grotteschi nonostante che le loro idee
e le loro pièce
siano differenti. Questo fatto non significa che fra loro non emergono i
punti di convergenza.
Luigi Chiarelli segna l’inizio del grottesco mentre Rosso appartiene alla sua
fase finale che
riassume e allarga i concetti degli autori precedenti. Il teatro di Rosso
mira ad un certo punto e
deforma i concetti dei suoi predecessori. In questo caso occorre evocare le
caratteristiche
principali del teatro borghese che ritrovano il loro pieno rovesciamento
proprio nelle pièce di
Pier Maria Rosso di San Secondo. Anche le opere di Chiarelli, di Antonelli o
di Cavacchioli
cercano di rovinare la poetica del dramma borghese, ma solo Rosso riesce a
farlo in modo
quasi rivoluzionario. Per poter percepire bene quest’evoluzione ci si deve
riferire ai lavori
teatrali più significativi degli scrittori sopramenzionati.
2. Il manifesto del grottesco
La prima pièce di Luigi Chiarelli che viene intitolata La maschera e il
volto,
costituisce un vero fibre del teatro grottesco1. L’opera fu messa in scena
per la prima volta nel
1916 cioè nell’anno considerato come il vero inizio della creazione teatrale
grottesca. Questa
pièce fu accolta calorosamente dal pubblico italiano e il suo valore fu
apprezzato da numerosi
critici. Ma l’affermazione non vuol dire che nessuno prima non aveva scritto
un’opera simile
a quella grottesca. Ben diversamente, nel 1914 a Milano la compagnia BorelliPiperno
rappresentò La campana d’argento di Cavacchioli, un’opera con numerosi
elementi
grotteschi. L’opera non piacque al pubblico e fu fischiata forse visto che
gli attori non furono
tanto adatti a rappresentare un dramma grottesco (Livio 1989: 181). Chiarelli
nel suo
manifesto <<del grottesco>> La maschera e il volto evoca la medesima
problematica in cui si
iscrive l’opposizione bilaterale basata sul rapporto fra la maschera e il
volto. Si vede il
continuo paradosso fra quello che è vero e naturale nella personalità umana e
quello che è
falso, e che deve perciò essere nascosto sotto la maschera. I protagonisti
principali del
manifesto chiarelliano portano una maschera grazie a cui vogliono
sopravvivere; una
maschera che permette loro di mostrarsi come desiderano esser visti d’altrui.
Prendiamo in
considerazione il protagonista principale della pièce – il conte Paolo Grazia
il quale afferma a
più riprese che, se sua moglie lo tradisce, egli l’uccide immediatamente.
Poi, dopo aver
scoperto il tradimento della donna del suo cuore, il tradimento della bella
Savina, non è in
1
Altre pièce di Chiarelli che s’inseriscono pienamente nell’ambito del
grottesco sono: La scala di seta (1917),
Chimere (1920), La morte degli amanti (1921) o Fuochi d’artificio (1923).
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grado di assassinarla e per nascondere le sue vere intenzioni e idee, è
costretto a farla
disparire. In effetti, la moglie parte e il marito confessa a tutti di l’aver
uccisa ma attraverso la
buona difesa dell’avvocato Luciano Spina, del resto amico di Paolo e amante
di Savina, non
viene punito. Quando egli ritorna a casa per poter finalmente calmarsi, si
informa che nel lago
fu trovato un cadavere della donna in cui riconosce sua moglie. Il giorno dei
presunti funerali
di Savina, ella viene in quanto fantasma a casa del marito che è sbalordito,
ma finalmente non
può più celare l’amore che prova per l’infedele. L’inganno del conte viene
scoperto e la
coppia infine si decide ad andare all’estero.
In questa pièce si possono individuare due tipi di personaggi: gli uni che
portano le
maschere e gli altri che tendono a smascherare (Bronowski 2000: 67). La
maschera invisibile
viene appiccicata alla faccia di Paolo Grazia; in essa si riflette l’immagine
della società con le
convenzioni sociali che costringono il protagonista ad immergersi nel mondo
della falsità.
Non sembra giusto incolpare solo la società. È importante il carattere
volontario della scelta
fatta dal conte. Essa gli impone l’atteggiamento ben definito verso
l’infedeltà eventuale della
moglie. Il disagio può risultare dai problemi della psiche del protagonista
perché “la maschera
diventa sinonimo della sua coscienza” (Bronowski 2000: 69). Il personaggio
stesso viene
ridotto a una sorta di fantoccio. Il suo stato d’animo oscilla fra due
alternative che riguardano
il continuare a vivere sottomettendosi al potere eminente della maschera o
l’iniziare una vita
nuova ma priva di falsità:
Savina: Ebbene, Paolo, hai deciso qualche cosa?
Paolo: Deciso?!...C’è poco da decidere; bisogna scappare, e
subito...Scappare, capisci, come due furfanti
qualunque!...E non c’è da porre tempo in mezzo; prima di sera bisogna essere
via di qua, lontano, perché
quel signore, quel rappresentante della legge, si precipiterà immediatamente
a rivelare ogni
cosa!...Bisogna fare presto, presto!...In galera?...Non l’avranno questo
gusto!...Ah, no!...Io non voglio più
rendere conto a nessuno della mia vita, alla società, agli amici, alla legge,
niente, basta [...]. (Chiarelli
1991: 183)
Paolo desidera finalmente liberarsi dalla maschera e vuole partire per
dimenticare e
trovarsi lontano dalle convenzioni sociali che lo limitano e non gli
permettono di godere della
felicità coniugale. La maschera possiede la connotazione totalmente negativa;
essa appare
come ostacolo che impedisce una relazione riuscita. Ma se il protagonista
avesse tolto dal viso
questo simbolo della falsità, avrebbe cambiato la sua vita? Egli sarebbe
potuto esistere al di là
delle convenzioni? Comunque, attraverso la fuga si può provare a vivere
diversamente.
La maschera e il volto è imperniata principalmente sulle vicende di tre
protagonisti :
marito, moglie, amante. Vediamo dunque un tipico triangolo borghese che
comunque
acquisisce la propria dimensione e può esser definito come opposto alle
regole del teatro
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borghese. Abbiamo qua la tipica costruzione trittica dell’affare amoroso in
cui però <<la
maschera>> diventa un vero svolgimento del dramma. La maschera deforma la
storia
dandone un’altra immagine. Le scelte del “cornuto magnifico” non sono dettate
dall’invidia.
Egli non divampa d’ira a causa della gelosia. Sono le sfumature della
maschera ad imporre il
suo atteggiamento verso la moglie infedele. Il carattere del triangolo ed i
principi che
stimolano le persone coinvolte sembrano dunque deformati rispetto a quello
borghese. Di più,
la storia di Paolo e Savina, il loro futuro, le loro vicende a venire non
sono presentate. La
storia sembra infinita. Non si sa se il protagonista sia in grado di
togliersi la maschera dalla
faccia e ritrovare la felicità.
3. Il teatro di Cavacchioli ed Antonelli
Fra i drammaturghi grotteschi occorre anche ricordare Enrico Cavacchioli che
nelle
sue opere cruciali quali: La campana d’argento (1914), L’uccello del paradiso
(1919), Quella
che t’assomiglia (1919), Pinocchio innamorato (1922) o Pierrot impiegato del
lotto (1925)
usa le tematiche e tecniche inerenti al grottesco. Nei suoi drammi si possono
dunque
individuare molte strutture grottesche. Vediamo una gamma dei protagonisti
viventi nel
mondo che oscilla fra l’illusione e la realtà, i protagonisti che pur
apparendo veri e reali
rappresentano piuttosto i fantocci che esistono sotto il predominio della
maschera. La
decisione di portare la maschera è spesso dettata dai sentimenti come nel
caso di Pierrot –
protagonista dell’opera intitolata Pierrot impiegato del lotto, che a causa
dell’amore per una
donna si decide ad accostarsi ad una maschera. Il microcosmo rappresentato
nei drammi di
Cavacchioli è pieno di storie d’amore che ne costituiscono spesso l’asse
principale. Le sue
storie d’amore subiscono le influenze delle strutture del vecchio dramma
ottocentesco (Livio
1989). Da queste risultano le risa, molti eventi tipicamente comici che
permettono di
considerare il grottesco come mescolanza di poetiche (Pavis 1998: 196). Nelle
opere
grottesche si possono notare elementi delle poetiche differenti quali : ”il
comico graffiante”
(Pavis 1998: 196) che spesso “paralizza la ricezione dello spettatore, che
non può né ridere né
piangere impunemente” (Pavis 1998: 196), il tragico che fa piangere, il
burlesco e la farsa.
Un altro autore appartenente al gruppo dei drammaturghi grotteschi che
bisogna
elencare si chiama Luigi Antonelli. Attraverso i suoi drammi l’autore cerca
di rovinare le
vecchie strutture del teatro ottocentesco poggiandosi sul tentativo di
rendere un fatto
impersonale, sulla volontà di rendere l’azione credibile, sulla tendenza
all’oggettività.
Antonelli sembra opporsi a tutte queste caratteristiche servendosi di ironia,
di deformazione,
di paradossi. Egli mostra un universo del malinteso, dell’ambiguità, un
universo della tragicità
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e nello stesso tempo della comicità del destino umano. Le più famose opere
antonelliane sono:
Il gioco della morte (1909), L’uomo che incontrò se stesso (1918), C’è
qualcuno al cancello2
(1920), L’isola delle scimmie (1922), La bottega dei sogni (1927), L’uomo che
vendette la
propria testa (1933). Il tutto rappresenta la stessa linea del grottesco.
Tuttavia vale la pena di
analizzare una pièce esemplare in modo più dettagliato. L’opera intitolata
C’è qualcuno al
cancello, oltre alle tipiche strutture grottesche, essa contiene un concetto
che la rende
specifica. Questa singolarità consiste nell’usare la tecnica del teatro nel
teatro, tanto cara e
spesso praticata da Luigi Pirandello3 che si iscrive parzialmente anche nella
corrente
grottesca. Gigi Livio, un grande critico teatrale afferma che:
I personaggi di Pirandello hanno iniziato la loro lotta contro il teatro
borghese che è anche,
ineluttabilmente, sentimentalistico e psicologico e che si esprime in un
determinato linguaggio che è
quello che va dal dannunzianesimo – con tanto di versione benello-berriniana
- , alle traduzioni rotonde
dal francese, al nicodemismo più o meno pochadistico : la critica [...], i
capocomici, gli attori e il
pubblico, ciascuno per ciò che li riguarda, se ne sono accorti (Livio 1989:
189).
La pièce teatrale di Antonelli è poggiata sulla tecnica del teatro nel
teatro. C’è
qualcuno al cancello è un atto unico la cui azione si svolge in un teatro
dove gli attori
provano a recitare un tipico dramma borghese. I personaggi principali si
chiamano: moglie,
marito, amante – un triangolo quasi inseparabile. Il luogo e la dimensione
temporale delle
vicende non sorprendono. L’azione avviene in un : “salone di un castello. A
sinistra una porta.
In fondo la comune che dà in una veranda, ai piedi di una selva. È circa la
mezzanotte.
Nessuno è in scena all’aprirsi del velario. Dopo un poco entra il marito
dalla
comune”(Antonelli 1991: 170).
Si assiste dunque ad una situazione proveniente dalla pièce del tutto
borghese ma
ambientata sulla scena di un teatro. Lo spettatore ha la possibilità di
partecipare allo
spettacolo che tocca gli aspetti importantissimi per il buon funzionamento
dello stesso teatro e
dello stesso spettacolo. È possibile grazie all’uso della sopramenzionata
tecnica del teatro nel
teatro. Tra i protagonisti principali si possono elencare non solo i membri
del triangolo
borghese ma anche le persone che semplicemente lavorano nel teatro, quali :
il suggeritore o il
direttore che stimolando gli attori svolge parzialmente la funzione del
capocomico.
2
Nel 1925 il titolo dell’opera fu mutato in Il dramma, la commedia e la farsa.
Le opere pirandelliane sono considerate spesso come capolavori dove si trova
la piena realizzazione del
pensiero grottesco e nei quali si nota la lotta contro il modo ottocentesco
di fare teatro. Fra esse occorre
soprattutto annoverare: Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell’onestà
(1917) o Il giuoco delle parti (1918).
3
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L’asse principale della vicenda è poggiata sull’affare amoroso. Nelle mani
del marito
cade per caso una lettera scritta da sua moglie ad un altro uomo. Il servo
che la porta è
costretto a dargliela e il marito scopre il tradimento. Essendo furioso,
decide di preparare un
tranello per denunciare l’infedele. Ecco un brano del discorso del marito e
del servo:
Il marito: Tu hai una lettera in tasca.
Il servo: (china il capo. Un pausa)
Il marito: Dammela
Il servo: Sì, signore
Il marito: Quel signore... a cui è diretta la lettera, vi sta aspettando in
qualche posto, immagino...Dove,
precisamente?
Il servo: Nella selva, all’ingresso della lupa.
Il marito: Benissimo. Badate che tra mezz’ora voi sentirete, forse, un colpo
d’arma da fuoco venire dalla
selva. Se la signora vi manderà a vedere, voi vi affretterete a rassicurarla
con un pretesto. Qualsiasi
altro ordine che vi venga dato dalla signora non dovrà da voi essere
eseguito. Fingerete però di
eseguirlo.
Il servo: Sì, signore. (Antonelli 1991: 171)
Il servo consente di aiutare il suo padrone. Parlando con la signora segue
ciecamente
le sue indicazioni ben precise. La moglie sente un colpo d’arma da fuoco
proveniente dal
bosco ed è inquietante. Sembra aver paura che al suo amante sia avvenuto
qualcosa di male.
Manda il servo a dormire. Essendo piena di timore e nello stesso tempo piena
di speranza si
avvicina alla finestra per incontrare il destinatario della sua lettera.
Ammira un po’ la notte ma
all’improvviso nota la figura di suo marito. Non sa nascondere di esser
sorpresa e ansiosa. Il
marito si accorge dello stato d’animo della moglie. Comincia a dialogare con
lei. La loro
conversazione non è solita. La donna si rende conto che suo marito avrebbe
potuto scoprire la
verità. Non avendo una via d’uscita si decide a porgli delle domande. Infine,
il marito cornuto
confessa con calma forse provvisoria che seppe che lei l’aveva tradito:
Il marito: (fissandola) Che cosa vuoi dire?
La moglie: (enigmatica) Mah! Che cosa sai tu di me?
Il marito: (sempre fissandola lungamente) Che cosa so?
La moglie: Già!
Il marito: (con terribile calma) So che hai un amante [...]
La moglie: È una menzogna! una menzogna!
Il marito: La prova... la prova... Io l’ho la prova! (Antonelli 1991: 174)
La moglie temendo l’ira del marito non vuole dire la verità. Ad ogni costo
desidera
nascondere la sua colpa. Tuttavia non riesce a farlo. Che cosa la costringe
però, a rischiare la
sua perdita? Quando decide di denunciare se stessa? E perché? La risposta si
trova nel
frammento che segue:
La moglie: Qual è questa prova? Io ti sfido a darmela!
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Il marito: Tu mi sfidi? Ebbene, vorresti miglior prova di questa? Io ho
ammazzato dinanzi, con un colpo
di fucile, il tuo amante all’ingresso della lupa.
La moglie: (con un grido straziante) Assassino!
Il marito: (freddo) Ecco. Ora nega, se puoi.
La moglie: (stringendosi la faccia tra le mani) Assassino! Assassino! Ho
udito il colpo...
Il marito: Ah sì, L’hai udito?
La moglie: (dopo una pausa, fissandolo con uno sguardo in cui si leggono
tutte le disperazioni) Ebbene,
sì! Assassino, era il mio amante! Era! Era! (Antonelli 1991: 174)
Dopo che la moglie si informa della presunta morte dell’amante, non può più
nascondere la verità e confessa al marito il suo tradimento. Probabilmente si
sente più
colpevole di quanto lo pensasse e questo la spinge a svelare il suo segreto.
Sembra che il
marito abbia fatto il canovaccio di tutta questa situazione e il
comportamento della moglie è
solo una tappa della trappola che egli preparò all’inizio. In seguito il
marito rivela che non
ammazzò l’amante della moglie. Perché glielo dice? Perché desidera sapere di
che carattere fu
l’amore che sua moglie provava per Francesco. Vedendo le sue reazioni con
amarezza
afferma che fu un sentimento forte. Quando la moglie scopre che il suo amante
non fu ucciso
non riesce a nascondere la sua gioia. Sono molto interessanti le parole del
marito che
riassumono non solo il carattere dell’affare amoroso descritto lassù ma anche
sottolineano la
comicità e l’uso ironico delle tecniche e delle strutture del dramma
borghese:
Il marito: (sarcastico) Peccato! S’io fossi stato più prudente avrei avuto il
piacere di vederlo capitare qua
dentro, per puro caso... Ah! Ah! poverino! La sua ansietà in questo momento
deve essere enorme. Egli ha
veduto le nostre due ombre agitarsi e immaginerà forse qualche brutto
scherzo. In ogni caso, ecco per lui
un’avventura romantica andata a male! Un castello, un vero castello, una
selva e una signora che si
annoia... E la luna sopra tutto ciò! Una luna inverosimile e coreografica...
(Antonelli 1991: 174)
Il marito sembra avere una sorta di compassione per il suo rivale. Secondo
lui, la
situazione nella quale si trovò Francesco è difficile, e per questo motivo
non lo uccise. Il
marito è in grado di valorizzare le sfumature di quello che successe agli
amanti. Qui il comico
tocca lo spirituale. Il pathos viene assimilato al thanatos. Tale mescolanza
può provocare solo
la nascita del grottesco (Pavis 1998: 196). Emerge dunque un evento tirato
dal tipico dramma
borghese giudicato ironico anzi dalle persone coinvolte. In tutta l’opera si
percepisce
facilmente la mescolanza di diverse poetiche. I vecchi schemi teatrali sono
derisi in modo
particolare attraverso l’uso dell’ironia e l’introduzione della tecnica del
teatro nel teatro la
quale rende possibile l’intervento indiretto dell’autore del testo. Egli può
esprimere il suo
parere attraverso la voce di un personaggio o mettere i suoi pensieri nei
discorsi della maggior
parte dei protagonisti.
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4. Verso il culmine del grottesco
Il teatro italiano del grottesco è un fenomeno letterario coi confini ben
determinati.
Analizzandolo si può arrivare all’esistenza di un certo filo conduttore,
all’esistenza del suo
evolversi temporale. Il grottesco sembra maturare col tempo e dar vita alle
nuove soluzioni.
Come il culmine del grottesco vengono considerate le opere di Pier Maria
Rosso di San
Secondo fra cui occorre elencare soprattutto Marionette che passione (1918),
La bella
addormentata (1919), L’ospite desiderato (1921), La scala (1925), o Tra
vestiti che ballano
(1927). I personaggi sansecondiani vivono nelle realtà delle quali si
stufano, nelle realtà che
spesse volte non possono sopportare e cercano una via d’uscita che davvero
non esiste.
Possono solo dunque esser destinati a un’infinita sconfitta nel campo
esistenziale. Si assiste a
un tipo di debolezza umana che fa pensare alle opere degli esistenzialisti
francesi come ad
esempio Jean Paul Sartre (1905-1980), autore del capolavoro intitolato La
nausea (1938). Le
personalità dei protagonisti sansecondiani sono deboli. L’interno non è tanto
importante
quanto l’esterno perché l’esterno traduce l’interno. Si percepisce dunque una
sorta di
dipendenza reciproca. I personaggi tipici delle opere di Pier Maria Rosso di
San Secondo si
vedono per esempio nella pièce Marionette che passione. Essi non hanno nomi.
Si chiamano
il Signore a Lutto, il Signore in grigio, la Signora dalla volpe azzurra. I
loro sentimenti e i loro
problemi si esteriorizzano attraverso l’apparenza. Tutti soffrono, nessuno
può godere della
gioia. Nella maggior parte dei casi è l’amore a costituirne la causa diretta.
Essi in vano
cercano di ritrovare un rimedio per i loro dolori. Ecco le parole del Signore
in Grigio che
aspira alla felicità:
C’innamoreremo perdutamente tutti e tre di noi stessi. Non ci lasceremo più.
Ancora per qualche tempo
avremo da superare tristezze e sconforti, poi la vita del nostro terzetto ci
darà vita : ci verrà una gran
voglia di godere. Goderemo a più non posso. Viaggeremo, andremo all’estero,
in Europa, poi in America,
poi forse in Australia ... (Rosso di San Secondo 1991: 188)
I dialoghi dei protagonisti sono spesso irragionevoli. Le loro conversazioni
non si
adeguano alle situazioni in cui essi si trovano. In quest’opera sansecondiana
si percepisce
dunque la mancanza della comunicazione. I protagonisti agiscono e si
comportano come
marionette che hanno un ruolo ben determinato da recitare. Benché stiano
spesso negli spazi
piuttosto piccoli o semplicemente chiusi non sono in grado di arrivare alla
reciproca
comprensione. Creano l’impressione del marasmo eterno, dell’eterno caos
mentale e
spirituale. Rosso di San Secondo in Marionette che passione riuscì dunque a
ampliare i
confini del grottesco e nello stesso tempo rovesciò in definitiva i canoni
del dramma
borghese. Ma esattamente mediante quali procedimenti lo fece? Franca
Angelini, una studiosa
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della storia del teatro italiano ne individua quattro. (Angelini 1976: 105)
Anzitutto menziona
la riduzione dei personaggi alle marionette che non hanno né nomi né veri
caratteri, sono
solamente dotati di una sorta di riferimenti sia visuali sia esistenziali.
Poi Angelini elenca
l’uso delle singolari intelaiature spaziali permeate di luoghi chiusi cioè il
salottino di un
modesto appartamento o la sala del telegrafo che danno anche l’impressione
degli incontri
apparentemente casuali. In continuazione la studiosa individua la presenza
del tipico triangolo
borghese tuttavia “mal assortito” su cui viene basata l’azione della pièce.
Infine Angelini
sottolinea il peso della morte volontaria del Signore in grigio che viene
identificato coll’autore
dell’opera. Il suo suicidio provoca il proseguire delle connotazioni negative
nella relazione
autore – dramma.
Marionette, che passione di Pier Maria Rosso di San Secondo sembra essere un
vero
culmine del teatro italiano del grottesco. La pièce, insieme ai procedimenti
usati prima da altri
scrittori grotteschi, propone le proprie soluzioni le quali contribuiscono al
rovesciamento
totale degli schemi borghesi.
5. Conclusioni
Analizzando le sfumature del teatro italiano del grottesco si percepisce
facilmente la
presenza di una certa evoluzione dei modi di strutturare le pièce. I lavori
dei primi autori
grotteschi, dei precursori del movimento hanno proprio il ruolo trainante
nello sviluppo di
questo teatro. Ma è giusto considerare le attività artistiche di Chiarelli,
Antonelli, Cavacchioli,
Pier Maria Rosso di San Secondo come una scuola o un movimento? Giovanni
Antonucci,
giornalista e storico del teatro, propone di scorgerle come “una fortunata
definizione.”
(Antonucci 1988) Chiamarle una scuola o un movimento sarebbe forse troppo
visto le
differenze sia stilistiche che tematiche che emergono nell’analisi minuziosa
delle loro opere
principali. L’esistenza di un tipo di filo conduttore caratteristico del
grottesco finisce quando
appaiono i testi di Pier Maria Rosso di San Secondo o di Pirandello nei quali
il grottesco
ritrova la sua pienezza ed anzi il superamento dei suoi concetti basilari. Le
pièce pirandelliane
benché siano vicinissime alle intelaiature grottesche vengono raramente
analizzate dal punto
di vista delle pièce di Luigi Chiarelli o Enrico Cavacchioli. Comunque, Mario
Verdone crede
che Pirandello debba esser ritenuto il maggiore rappresentante del teatro
italiano del grottesco
(Verdone 1981) perché rovescia i vecchi schemi borghesi in modo definitivo.
In Pirandello e
in Pier Maria Rosso di San Secondo sparisce il linguaggio classico o
convenzionale e il suo
spazio viene sostituito dalle enunciazioni vive, portatrici dei temi
esistenziali. Comunque,
bisogna anche sottolineare le differenze che si manifestano nel loro stile
drammatico. Rosso si
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concentra sull’importanza degli aspetti espressivi. Vengono apprezzati le
grida, i gesti o i
silenzi che hanno spesso il proprio ruolo. I personaggi sansecondiani
soffrono a causa dei
dolori metafisici. Le loro decisioni sono dettate dalla passione che li
divora. I personaggi
pirandelliani invece sembrano essere delle vittime di una certa crisi dei
valori etici o sociali
che sono storicamente determinati. Per lo più, il teatro pirandelliano si può
definire soprattutto
come logico – discorsivo. (Orsini 2001: 96-104)
Quali meccanismi vengono dunque usati dai precursori del grottesco che
intendono
rovesciare il teatro borghese ma non riescono a farlo in modo definitivo?
Senza dubbio loro
cercano di mescolare le poetiche e avendo per lo scopo la volontà di stupire
il lettore creano
una sorta di confusione. Questa tecnica è assimilabile ai mezzi estetici
praticati dagli autori
barocchi come ad esempio Federico della Valle (1560-1628) che nelle sue pièce
teatrali
tendeva spesso a mescolare il tragico e il comico.
Il teatro italiano del grottesco desidera proporre delle novità ma esse
insomma si
possono definire come scarse. Per quale motivo dunque il grottesco non
rovescia totalmente il
borghese? Perché volendo provocare una vera rivoluzione utilizzò degli
attrezzi inadatti. A
dire la verità, i grotteschi lottando contro il teatro borghese si servirono
dei mezzi borghesi.
Le loro pièce sono imperniate sul vecchio triangolo borghese: marito-moglieamante e sulle
vicende amorose, di più il linguaggio dei protagonisti può esser nominato
classicheggiante. Le
novità relative ai concetti strutturali consistono nell’uso rarissimo della
tecnica del teatro nel
teatro la quale fiorirà poi nelle opere pirandelliane. Ma bisogna soprattutto
mettere in
evidenza il ruolo decisivo della maschera e la sua dominanza nella realtà
scenica piena di
falsità, piena di rimorsi, oscillante fra due mondi privi di verosimiglianza,
due mondi ambigui
che spesso lasciano la storia infinita.
Bibliografia
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2. Antonelli, Luigi (1991). C’è qualcuno al cancello, [w:] Gibellini P. ,
Oliva G. , Tesio G. (red.), Lo spazio
letterario antologia della letteratura italiana 4. Brescia: La scuola.
3. Antonucci, Giovanni (1988). Storia del teatro italiano del Novecento, [w:]
Gibellini P. , Oliva G. , Tesio G.
(red.), Lo spazio letterario antologia della letteratura italiana 4. Brescia:
La scuola.
4. Bronowski, Cezary (2000). La maschera e la marionetta nel teatro italiano
negli anni 1918-1930. Toruń:
Wyd. Uniwersytetu Mikołaja Kopernika.
5. Livio, Gigi (1989). La scena italiana. Milano: Mursia.
6. Orsini, François (2001). Pirandello e l’Europa. Cosenza: Luigi Pellegrini
Editore.
7. Pavis, Patrice (1998). Dizionario del teatro. Bologna: Zanichelli.
8. Rosso di San Secondo, Pier Maria (1991). Marionette che passione, [w:]
Gibellini P. , Oliva G. , Tesio G.
(red.), Lo spazio letterario antologia della letteratura italiana 4. Brescia:
La scuola.
9. Verdone, Mario (1991). Teatro grottesco, [w:] Gibellini P. , Oliva G. ,
Tesio G. (red.), Lo spazio letterario
antologia della letteratura italiana 4. Brescia: La scuola.
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Agnieszka Liszka
Università Jagiellonica di Cracovia
Difficoltà di traduzione e ricezione del discorso politico-sociale di Pier
Paolo
Pasolini in Polonia prima e dopo il 1989
1. Da una cultura all'altra
Nel campo della traduzione, quella letteraria costituisce una categoria molto
particolare,
soprattutto perché il traduttore deve tenere conto simultaneamente di più
elementi rilevanti
per rendere nella lingua di destinazione i concetti contenuti nell'opera
originale. Non sempre è
possibile conservare nel testo tradotto tutti questi elementi e il lavoro del
traduttore consiste
anche nel saper a volte rinunciare a qualcosa, scegliendo nello stesso tempo
elementi la cui
importanza per il significato generale del testo è invece essenziale.
Il problema della
traduzione, e soprattutto della traduzione letteraria, è allora la ricerca
dell'equivalenza dei due
testi. La difficoltà nel raggiungere questa equivalenza risulta da più
fattori, non solo quelli
puramente linguistici ma anche sociologici e culturali. Come sostiene Umberto
Eco nel suo
libro Dire quasi la stessa cosa
(...) una traduzione non riguarda solo un passaggio tra due lingue, ma tra
due culture1, o due enciclopedie. Un
traduttore deve non solo tenere conto di regole strettamente linguistiche, ma
anche di elementi culturali, nel
senso più ampio del termine. (Eco 2003: 162)
Tradurre significa allora anche trasmettere diversi significati da una
cultura all'altra. E
visto che le culture spesso dimostrano molte differenze tra di loro, il
traduttore ha due
possibili strategie diverse. In effetti, deve decidere se, come dice sempre
Eco:
(...) una traduzione deve condurre il lettore a comprendere l'universo
linguistico e culturale del testo di origine, o
deve trasformare il testo originale per renderlo accettabile al lettore della
lingua e della cultura di destinazione?
(Eco 2003: 171)
Naturalmente la situazione ideale sarebbe se le due cose fossero possibili da
raggiungere
simultaneamente, il che è relativamente più facile, se le due culture sono
vicine e dimostrano
molte similitudini: di conseguenza, più lontane sono le culture, più
difficile sarà raggiungere
questi due scopi contemporaneamente.
2. Tradurre Pasolini
1
Evidenziamento AL.
31
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In particolare nel caso di Pier Paolo Pasolini sembrerebbe che la vicinanza
culturale tra
l'Italia e la Polonia, il fatto che entrambi paesi appartengono alla cerchia
della civiltà europea
occidentale, nonché il periodo in cui ha vissuto il poeta, da cui ci dividono
appena alcuni
decenni, dovessero rendere relativamente facile la traduzione delle sue opere
in polacco. In
effetti, anche se prendiamo in considerazione la scarsa conoscenza della
letteratura italiana in
Polonia, sembra strano che uno scrittore così importante e prolifico come
Pier Paolo Pasolini
rimanga quasi completamente non tradotto in polacco e perciò sconosciuto
almeno fino a
pochi anni fa. Durante gli anni alcuni frammenti della vasta opera
dell'autore (si tratta
prevalentemente della poesia) sono stati tradotti in polacco e pubblicati in
diverse riviste
letterarie, soprattutto in più numeri del mensile “Literatura na świecie”.
Prima degli anni
novanta sono apparse allora alcune poesie, saggi e un frammento di una delle
sue opere
teatrali, Affabulazione (Pasolini 1985 – in Polonia messo in scena due volte:
nel 1984 a
Varsavia2 e nel 1985 a Cracovia3). Sicuramente il fatto che le opere del
poeta erano sempre
impegnate politicamente, ha già dall’inizio determinato in qualche modo la
loro ricezione in
Polonia. Anche se legato alla sinistra, Pasolini non era un comunista
ortodosso, anzi, la sua
critica diretta verso partiti comunisti e la società laica lo rendeva un
personaggio scomodo
anche per le autorità della Repubblica Popolare Polacca.
In effetti, finora in Polonia Pier Paolo Pasolini è conosciuto soprattutto
come un regista ed
in più come un regista scandalizzante, mentre quasi ignota rimane la sua
opera di scrittore,
poeta e drammaturgo. I suoi film naturalmente non venivano mai programmati
nei grandi
cinema ma sicuramente erano guardati, apprezzati e largamente commentati non
solo negli
anni in cui sono stati realizzati4, ma anche dopo, nei decenni successivi
alla tragica morte del
regista avvenuta nel 19755.
3. Riscoprire Pasolini
Ultimamente invece occasionali visioni dei film di Pasolini, soprattutto
durante dei festival
o rassegne cinematografiche (ad esempio “Era Nowe Horyzonty” nel 2002, ma
anche
rassegne nel 2004 a Łódź e nel 2006 a Cracovia6), vengono accompagnate da
diverse
iniziative culturali il cui scopo è quello di avvicinare allo spettatore
polacco il personaggio di
Pasolini e tutta la sua opera. Tra eventi importanti legati a Pasolini, prima
di tutto vanno
2
Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/11190,szczegoly.html.
Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/9381,szczegoly.html.
4
Cfr. ad es. Kornatowska 1966, 1969 e Kossak 1968, 1972.
5
Cfr. ad es. Kornatowska 1975, Kossak 1976, Ugniewska 1983, Modrzejewska 1986
e Czapliński 1992.
6
Cfr. Kino Pod Baranami:
http://www.kinopodbaranami.pl/wydarzenie.php?evnt_id=242
3
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menzionate le pubblicazioni di intere opere pasoliniane: un volume di poesie
tradotte da
Jarosław Mikołajewski, intitolato Bluźnierstwo (Bestemmia) nonché due volumi
di opere
teatrali tradotte da Ewa Bal, Orgia. Chlew (Orgia. Il porcile) e Pilades.
Calderon (Pilade.
Calderón). In più la stessa traduttrice scrive anche un libro dedicato
principalmente all'opera
di Pasolini e al suo impatto sullo sviluppo della drammaturgia italiana degli
ultimi anni (Bal
2007). L'ultima traduzione importante pubblicata in Polonia è un frammento
della
sceneggiatura del film su San Paolo, tradotto da Zygmunt Borawski e
pubblicato in un
numero della rivista “Krytyka Polityczna” (Pasolini 2007).
Nel 2005 e 2006 vengono anche presentati due spettacoli basati sull'opera e
sulla biografia
di Pasolini, Pasolini – modlitwa na zlecenie (Pasolini – preghiera su
commissione) a
Varsavia7 e Wygnani (Esiliati) a Łódź8. Altre iniziative particolarmente
importanti sono le
Giornate di Pasolini organizzate a Cracovia nel 2007 da Teatr Stary che hanno
accompagnato
la pubblicazione della menzionata traduzione di Pilades e Calderon9. Infine
bisogna
menzionare un convegno dedicato a Pasolini svoltosi a Varsavia nel 2009 e
organizzato dal
teatro Teatr Rozmaitości in occasione della prima dello spettacolo di
Grzegorz Jarzyna
T.E.O.R.E.M.A.T. basato principalmente sull'omonimo romanzo ma anche su altri
testi del
drammaturgo italiano, tra cui soprattutto frammenti delle interviste ed
incontri con l'autore10.
Lo spettacolo di Jarzyna non solo è stato apprezzato da spettatori e
critici11 ma ha anche
provocato una discussione sull'attualità dell'opera di Pasolini oggi12.
Interessante anche che
neanche un anno dopo la realizzazione di Jarzyna, Teorema di Pasolini ha
ispirato un altro
spettacolo, questa volta a Opole, intitolato Wszystko jutro, czyli lalki
wybawione13 (Tutto
domani ovvero bambole salvate).
4. Differenze culturali e difficoltà
Da questa breve presentazione della ricezione dell'opera pasoliniana risulta
chiaro che la
parte della sua opera più comunemente e più velocemente recepita in Polonia è
stata la sua
opera cinematografica (nella quale il significato viene trasmesso soprattutto
tramite mezzi
7
Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/38798,szczegoly.html.
Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/40192,szczegoly.html.
9
Cfr. Stary Teatr w Krakowie:
http://www.stary.pl/files/11679258920OPIS%20ca%B3o%B6ci.29.12.2006.pdf.
10
Cfr. TR Warszawa: http://www.trwarszawa.pl/przeglad-filmow-piera-paolopasoliniego-i-konferencja-pasolinipoeta-wolnosci.
11
Cfr. ad esempio Drewniak 2009, Michalak 2009, Reksnis 2009.
12
Mi rivolgo qui soprattutto alle recensioni ed articoli pubblicati in diversi
giornali e riviste dopo la prima dello
spettacolo, tra cui lo scambio di opinioni avvenuto sulle pagine del mensile
“Krytyka Polityczna” tra Igor
Stokfiszewski e Kinga Dunin e dedicato principalmente al ruolo del discorso
politico nello spettacolo di Jarzyna.
Cfr. Dunin 2009, Stokfiszewski 2009.
13
Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/44395,szczegoly.html.
8
33
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audiovisivi non solo linguistici), mentre negli ultimi anni si può osservare
in Polonia un
maggiore interesse soprattutto verso la sua opera teatrale. Sembra infatti
che la principale e
nello stesso tempo la più grande difficoltà che deve essere affrontata da un
traduttore che
voglia rendere i testi di Pasolini in polacco, sono ancora alcuni termini
italiani che a stento
trovano il loro corrispettivo nella nostra lingua. Visto proprio che il tema
politico e il discorso
sociale ed economico costituiscono elementi rilevanti nei testi dello
scrittore, con una simile
frequenza appaiono anche alcune nozioni che – anche nel caso in cui il loro
corrispettivo
polacco si trovi subito – nel nostro idioma non trasmettono più né gli stessi
concetti né le
stesse idee. Vediamo ad esempio un concetto fortemente presente nei testi del
regista di Salò
cioè comunismo che in polacco viene tradotto ovviamente come komunizm. La
parola
comunismo, se paragonata al suo corrispettivo polacco, crea delle difficoltà
enormi: anche la
definizione che troviamo in vari dizionari di lingua, rispettivamente
italiani e polacchi, può
differire leggermente.
Ad esempio la versione on-line del dizionario Sabatini-Coletti sul sito del
“Corriere della
Sera” riporta questa definizione della parola comunismo: „Teoria e prassi
economicopolitiche, che prevedono l'abolizione della proprietà privata dei
mezzi di produzione e la
gestione collettiva dei beni e della loro distribuzione.”14 Un dizionario
polacco invece,
precisamente quello di PWN, sempre versione on-line, oltre a una definizione
molto simile a
quella italiana aggiunge anche un secondo significato, secondo il quale
comunismo equivale a
“ustrój totalitarny realizowany w ZSRR, narzucony krajom Europy Środkowej i
Wschodniej
po II wojnie światowej, oparty na monopolu władzy skupionej w rękach jednej
partii.”15
Il significato delle parole non è circoscritto a queste limitate denotazioni
che attribuisce
loro il dizionario. Sia nella realtà linguistica polacca che in quella
italiana il significato del
comunismo viene decisamente allargato dalle loro rispettive connotazioni che
nelle due
culture sono ugualmente forti ma estremamente opposte. Questa differenza la
possiamo
osservare facilmente, anche esaminando come viene spiegata la parola
comunismo in due
versioni linguistiche di Wikipedia, l'italiana e la polacca: redatta dagli
utenti e perciò non
sempre freddamente oggettiva. Anche se due versioni sono paragonabili per
quanto riguarda
la definizione, in quella italiana comunismo viene trattato soprattutto come
“un insieme di
idee”16 mentre quella polacca lo definisce come “un sistema ideologico
radicale”17. Quando la
14
Corriere dizionari: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/index.
html.
PWN Słownik języka polskiego on-line: http://sjp.pwn.pl/ (“sistema
totalitario realizzato nell'Unione Sovietica,
imposto ai paesi dell'Europa centrale ed orientale dopo la Seconda guerra
mondiale, basato sul monopolio del
potere concentrato nelle mani di un partito.” Trad. AL).
16
Cfr. Comunismo, in: Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Comunismo.
15
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versione italiana sottolinea l'esistenza di diverse varietà del comunismo,
menzionando anche
la corrente cristiana e ricorda anche il carattere antifascista del
comunismo, la versione
polacca si concentra piuttosto sulle vittime dei regimi comunisti.
Non ci dovrebbe stupire che tali incongruenze esistono tra diverse versioni
di Wikipedia,
dove spesso possiamo incontrare perfino avvertenze riguardanti la mancanza di
fonti
sufficienti o dell’oggettività. Quello che può sembrare invece più importante
e più grave è che
le differenze, anche se meno evidenti, si possono trovare anche nelle
definizioni dei dizionari
pubblicati da case editrici
rinomate che indubbiamente dedicano molta attenzione alla
professionalità, alla accuratezza ed all’oggettività delle loro
pubblicazioni.
In effetti, possiamo costatare che in Polonia comunismo è sempre associato a
“un regime
totalitario”, i simboli comunisti vengono trattati dal codice penale polacco
alla stregua dei
simboli nazisti o fascisti e il loro uso è punito dal codice penale18. In
Italia falce e martello o
bandiera rossa non solo sono comunemente usati come simbolo di diversi
movimenti di
sinistra oppure organizzazioni sindacali, ma perfino costituiscono il simbolo
ufficiale di un
partito19. Nonostante queste differenze, non troviamo altra parola per
rendere in polacco il
comunismo italiano e così per il lettore polacco il significato del discorso
pasoliniano in
maniera automatica slitta leggermente ma inevitabilmente verso una sfumatura
negativa e
diversa da quella dell'originale.
L'importanza del movimento comunista in Italia, il ruolo cruciale degli
intellettuali come
Antonio Gramsci nello sviluppo della cultura italiana, nonché la posizione
cruciale del Partito
Comunista Italiano nella realtà politica del secondo dopoguerra fanno sì che
comunismo
diventa se non una corrente dominante nella cultura, almeno una delle più
importanti, con il
ruolo rilevante del PCI come uno dei principali partiti d'opposizione del
sistema politico
italiano della Prima Repubblica. Mentre in Polonia quasi 45 anni del regime
sovietico, il fatto
che comunismo funzionava durante quegli anni come l’unica possibile
ideologia,
ufficialmente adottata e imposta alla società, hanno inevitabilmente
provocato grande
risentimento non solo nei confronti della ideologia comunista propriamente
detta ma in
generale di tutto quello che è in qualche modo legato al concetto di sinistra
nella scena
politica.
17
Cfr. Komunizm, in: Wikipedia: http://pl.wikipedia.org/wiki/Komunizm.
Kodeks karny, art. 256, § 2, citato da Internetowy System Aktów Prawnych:
http://isap.sejm.gov.pl/index
19
Quello della Rifondazione comunista. Rifondazione.it:
http://home.rifondazione.it/xisttest/content/view/25/432/
18
35
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Una simile difficoltà creano altre espressioni usate spesso da Pasolini. In
una poesia dal
volume Religione del mio tempo intitolata Alla mia nazione tradotta da
Jarosław
Mikołajewski troviamo anche le seguenti parole:
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti
tra case coloniali scrostate ormai come chiese. (Pasolini 1999: 76)
Mikołajewski traduce “piccoli borghesi” con la parola “mieszczanie” anche se
letteralmente dovrebbe essere “drobnomieszczanie” che però avrebbe una
sfumatura diversa,
forse troppo legata al linguaggio tipico dei tempi del regime comunista nel
nostro paese. Ma
poi “mieszczanie” rende veramente il concetto di “piccolo borghese” così come
esso si
presenta nella cultura italiana? È piuttosto discutibile. Se allora il
lettore polacco incontra in
un testo di Pasolini parole come: proletariato, classe, imperialismo,
capitalismo, facilmente
associa il testo al discorso propagandistico dei tempi del socialismo reale
sovietico. Il fatto
che il discorso non solo marxista, ma pure marxiano veniva usato dalle
autorità del “vecchio
sistema” ha fatto sì che in Polonia questo tipo di discorso venga subito
recepito come
totalitario. Sicuramente anche il fatto che la sinistra parlamentare in
Polonia ha le sue radici
nel regime crollato nel 1989, ha delle conseguenze importanti per il tipo di
associazioni che
provoca in Polonia ad esempio la parola sinistra e altre nozioni che vi si
associano.
5. Nuova realtà, nuove idee
Sembra però che con gli ultimi cambiamenti sociali ed economici avvenuti in
Polonia
dopo il 1989 e soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso e dopo la
nostra adesione
all'Unione Europea cominci a formarsi anche in Polonia quel tipo di società
capitalistica e
consumistica che esisteva già negli anni Sessanta nel mondo occidentale. Di
conseguenza
nascono anche tutti i problemi della società di consumi che Pasolini
osservava alcuni decenni
fa in Italia: consumismo, omologazione, conformismo ecc. Si cominciano a
formare altresì
gruppi di sinistra critici rispetto alla realtà del capitalismo ma che
rinunciano decisamente
anche l'eredità del socialismo reale e dello stalinismo e si rifanno invece
non solamente
direttamente a Marx, che in Polonia viene sempre ancora associato al regime
sovietico, ma
piuttosto a certi nuovi personaggi del pensiero di sinistra, tra cui Alain
Badiou, Giorgio
Agamben o Slavoj Žižek.
In questo contesto Pasolini appare di nuovo negli ultimi anni anche a teatro
e precisamente
al Teatr Rozmaitości di Varsavia. Si tratta dello spettacolo, già menzionato,
preparato e
36
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diretto da Grzegorz Jarzyna, intitolato T.E.O.R.E.M.A.T. che si basa
principalmente, ma non
esclusivamente su un testo eponimo di Pasolini. Né il testo, né lo spettacolo
si concentrano
prevalentemente in apparenza sulla dimensione politica. In fondo però sia la
versione di
Pasolini, sia quella di Jarzyna sono in forte maniera impegnate politicamente
al che
accennano alcuni critici. Si vede così che negli ultimi anni le opere dello
scrittore di Casarsa
vengono recepiti in Polonia anche, e forse soprattutto, se contengono un
discorso politico
rilevante.
In più oltre ai quattro drammi pubblicati a Cracovia, appare la traduzione
dei frammenti di
Appunti per un film su San Paolo, legata alla pubblicazione in polacco, dalla
casa editrice di
“Krytyka Polityczna” del libro di un filosofo francese di sinistra, ormai
famoso e già
menzionato sopra, Alain Badiou, intitolato appunto Saint Paul. La fondation
de
l'universalisme. Il personaggio di San Paolo, che ha ispirato fortemente
Pasolini negli anni
Sessanta e Settanta del Novecento, negli ultimi anni viene spesso citato da
alcuni studiosi e
filosofi di sinistra. Bisogna dire che il testo di Pasolini viene pubblicato
in “Krytyka
Polityczna” proprio come un altro modo ancora di vedere “l'apostolo dei
pagani” che, non
rinunciando alla visione originale della Bibbia, propone una lettura del
personaggio e del suo
comportamento in chiave strettamente politica. San Paolo diventa per Pasolini
soprattutto un
uomo politico che combatte contro il sistema del potere, contro la società
concentrata troppo
sul consumismo e sul perbenismo borghese, contro l’esclusione dei più poveri
ceti della
società. Ma oltre a essere un ribelle, San Paolo è per lo scrittore anche un
grande
organizzatore che dedica tutta la sua vita dopo la conversione a creare, a
formare
un'organizzazione efficace che possa funzionare e realizzare il programma
accettato da questo
gruppo20.
In effetti, il personaggio di San Paolo negli ultimi anni è diventato una
specie di modello
dell'eroe di sinistra. Inoltre nel discorso dei filosofi menzionati un ruolo
sempre più
importante viene assunto dalla religione e in generale dall'esperienza del
sacro. In Polonia
l’unione della cristianità e il pensiero di sinistra non sarà sicuramente
facilmente accettata, né
lo sarà l’idea di San Paolo come propagatore dell’universalismo ed
organizzatore del
movimento rivoluzionario.21 Sia la pubblicazione del libro di Badiou che
della sceneggiatura
di Pasolini dimostra però che è possibile almeno una discussione sui valori
rappresentati
rispettivamente dalla religione cristiana e dal nuovo pensiero di sinistra,
fondamentali per la
cultura occidentale.
20
21
Cfr. Pasolini 2001, p. 1089.
Cfr. ad es. Szostkiewicz 2007.
37
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6. Pasolini, critico della società polacca?
La domanda che bisognerebbe porsi e a cui questo breve testo non può, visto
soprattutto la
mancanza di spazio, rispondere è la seguente: le differenze tra le due
culture, che rendono la
traduzione dei testi di Pasolini così difficile, cominceranno a ridursi?
L’opera pasoliniana sarà
più accessibile ai nuovi lettori polacchi di quanto era ancora qualche anno
fa? I cambiamenti
sociali avvenuti in Polonia negli ultimi anni avvicineranno veramente il
discorso pasoliniano
alla realtà polacca? Sarà più facile adesso tradurre Pasolini in polacco
dicendo nella
traduzione “quasi la stessa cosa” che viene detta nel testo originale? Sono
le domande a cui
adesso è ancora difficile rispondere, ci vorranno probabilmente ancora alcuni
anni per poterne
trovare la conferma o la negazione. Sicuramente è vero però che con il
formarsi del sistema
democratico in Polonia comincia a nascere nel paese anche un nuovo discorso
della sinistra.
Anche se la rottura con il vecchio modo di dividere la scena politica in
sinistra (“postcomunisti, legati al regime della Repubblica Popolare) e
destra (post-“Solidarność”) persiste
ancora, questa netta distinzione comincia ad attenuarsi. La nuova realtà
politica rende sempre
più debole l’importanza delle differenze storiche, mettendo simultaneamente
in rilievo le
questioni che costituiscono proprio il centro dell’interesse sia della
sinistra moderna, sia del
discorso
sociale
pasoliniano.
Le
questioni
come
consumismo,
uniformizzazione,
marginalizzazione dei più deboli o “diversi” membri della società
(disoccupati, immigrati ma
anche ad esempio omosessuali o donne) diventano sempre più discusse anche in
Polonia e
questo forse significa che anche nel nostro paese si avverte il bisogno di
tornare alla
letteratura politicamente impegnata, così come la vedeva Pasolini. Questi
cambiamenti forse
promettono allora anche un interesse maggiore verso l'opera pasoliniana, la
possibilità che la
sua letteratura venga in Polonia capita meglio anche se sono passati alcuni
decenni dalla sua
pubblicazione in Italia. Paradossalmente, proprio adesso l’opera pasoliniana
può mostrarsi
sorprendentemente attuale.
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39
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Paulina Malicka
Università Adam Mickiewicz di Poznań
«Topi d’avorio, sciacalli al guinzaglio e bulldog di legno».
Il dono nella poesia di Eugenio Montale.
1. Il perché del dono in Montale
Topi d’avorio, sciacalli al guinzaglio, bulldog di legno. Sciarada? Rebus?
Gioco di
parole? Abracadabra? Ebbene, lungi da qualsiasi stregoneria, non possiamo non
intravedere in
questo susseguirsi di presenze animalesche ed oggettuali, che qui salgono
all’onore del titolo,
una qualche sorta di totemismo o di una formula magica le cui qualità,
seppure altrove
fortemente negate dal Montale stesso, ci introducono miracolosamente in una
nuova
dimensione, che a quanto pare non sia stata ancora percorsa dagli ermeneuti
della poesia
montaliana, – ovvero quella del dono. Prima di entrarci però, occorre fare
una breve premessa
che ci aiuterà a capire meglio la ragione del cimentarsi in un tale
argomento. Il fatto di voler
relegare l’universo poetico di Eugenio Montale nell’ambito della riflessione
sul dono, il quale
negli ultimi decenni si è impostato come uno dei temi principali
dell’indagine filosoficoantropologica, non è del tutto casuale. A portarci
fin qui è stato inizialmente un «Flatus
vocis»1 (Grignani 1987: 11) - una voce, un nome suggerito o «soffiato»2
(Derrida 2002: 219),
capace, come nel caso di Montale, di attivare un frammento del vissuto,
sprigionare ricordi e
flashback del passato per poi ri-donarli di nuovo alla memoria o fissare come
in un fermoimmagine, un oggetto qualsiasi capace di salvare inaspettatamente
l’esistenza di un altro/a.
Un «Flatus vocis» che ha agito come un vero e proprio ordigno esplosivo dando
la vita ad un
progetto più ampio di cui protagonista diventa per eccellenza il dono. Si
tratterà cioè, di una
formula magica che con la sua carica semantica ed emotiva ha dato l’inizio ad
una vera e
propria gara nell’inseguire il moto del dono nelle liriche montaliane. Si
pensi agli Xenia
montaliani, 28 componimenti dedicati alla moglie scomparsa (Drusilla Tanzi,
chiamata
1
Si pensi qui ad uno dei capitoli dei Prologhi ed epiloghi di Maria Antonietta
Grignani, intitolato appunto Flatus
vocis, in cui la studiosa analizza diversi codici onomastici nella poesia di
Montale. Per Flatus vocis la Grignani
intenderà nomi propri, nomi di diverse figure femminili che popolano le
liriche montaliane, soprannomi,
pseudonimi, personaggi ridotti a pura esistenza nominale, diversi toponimi,
il nome di Dio (Grignani 1987).
2
Si pensi alla convinzione di Jacques Derrida che la parola di cui facciamo
uso non è mai nostra, in quanto
appartenuta precedentemente a qualcun altro. Si tratta sempre di una parola
rubata, «sottratta» oppure «soffiata»
– data, suggerita.
40
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Mosca) rifusi poi nel quarto libro del poeta intitolato Satura3. Il titolo
rimanda al xenium
latino che sta per dono, regalo mandato a casa di un amico che è stato nostro
ospite, e come
suggerisce il poeta stesso deve intendersi come tale, nel senso appunto di
offerta e donoricordo. «Il piccolo insetto miope» (Drusilla era affetta da
una forte miopia) chiamato Mosca,
continua a vivere in quei ricordi grazie all’intromissione degli oggetti
dell’uso quotidiano che
ne hanno accompagnato l’esistenza: «l’infilascarpe, il cornetto di latta
arruginito, gli ombrelli
smarriti, antibiotici velenosi, le bende e i gessi, gli occhiali da
tartaruga» (Montale 1984). Il
fantasma femminile sopravvive allo scorrere del tempo in questi oggetti buffi
e bizzarri, in
questi piccoli talismani, solo apparentemente senza importanza, nei ricordi
dei posti visitati
insieme, i cui nomi vengono scrupolosamente riportati dal coniuge: «l’albergo
Saint James a
Parigi, il Grand-Hotel Danieli a Venezia, il bar dell’Avenida da Liberdade in
Portogallo», nei
nomi dei vari personaggi a lei più o meno cari: «Celia, Hedia, il dottor Cap,
il chirurgo
Mangàno», nei nomi dei vini da lei graditi: «Inferno, Paradiso, Madeira»
(Montale 1984). Il
dono degli Xenia quindi è da intendersi come offerta votiva alla moglie
scomparsa, ma anche
come oggetto o nome offerto al poeta dalla quotidianità coniugale che salva
il ricordo di lei
per poi non permetterle di rimanere debitrice nei confronti del marito. Così
è scattata la
scintilla. Il «Flatus vocis» ha scatenato tutta una serie di ragionamenti,
seppure contorti,
riconducibili però ad una ferma convinzione di poter leggere le liriche
montaliane attraverso
la figura del dono nel quale si rispecchiano quasi tutti i leitmotiv della
poesia del ligure. Ed è
da qui che il raggio d’azione del Nome inizierà ad ampliarsi riabbracciando
altri «flatus
vocis» ancora, dietro i quali si nasconderanno, come nel caso del nostro
titolo che andiamo a
decifrare, sia presenze animalesche ed oggettuali che quelle umane o quasi
divine.
2. Il dono nell’antropologia (Malinowski, Mauss)
A fare da filo d’Arianna nella presente ricerca dello xenion montaliano, è
stata in
primo luogo la lettura dei due pilastri dell’antropologia novecentesca:
Bronisław Malinowski
che negli Agronauti del Pacifico Occidentale descrive un fenomeno socioculturale chiamato
kula consistente nello scambio simbolico di doni effettuato tra le
popolazioni delle isole
Trobriand dell’Oceano Pacifico, e Marcel Mauss, il quale con il suo celebre
Saggio sul dono,
ha dimostrato, in base all’osservazione antropologica delle società arcaiche,
quanto le forme
del dono in popolazioni del Pacifico e del Nord America fossero variabili. La
tesi centrale che
traspare da l’Essai sur le don, sta nell’affermazione che il dono si
manifesta sempre come
3
Satura - dall’espressione lanx satura – ovvero piatto ricolmo di molti e vari
cibi offerti come primizia agli dei.
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relazione tra gruppi e persone consistente in una triade radicata nella mente
umana, basata su
questi tre obblighi assoluti: quello di «dare», «ricevere» e «restituire»
(Mauss 1965: 217). Ad
ogni dono quindi deve corrispondere un contro-dono, ogni dono ricevuto
vincola il ricevente
obbligandolo alla reciprocità, allo scambio, che però non deve essere inteso
come
un’operazione economica, bensì come un ininterrotto circuito di doni il cui
scopo, «è prima di
tutto quello morale, quello di produrre un sentimento di amicizia tra le due
persone
interessate» (Mauss 1965: 183), quello di manifestare un rispetto reciproco.
Lo scambio tra
rappresentanti di collettività, clan, tribù o famiglie non consiste, secondo
l’autore,
esclusivamente in beni materiali, ricchezze, oggetti di valore (amuleti,
talismani, maschere,
ornamenti ecc.), ma «prima di tutto di cortesie, di banchetti, di riti, di
prestazioni militari, di
donne, di bambini, di danze, di feste» (Mauss 1965: 161). Così, osserva
Mauss, attraverso il
dono e nel dono si instaurano sodalizi ed alleanze, si creano legami
indissolubili, basati sulla
collaborazione e sulla reciprocità. La circolazione di doni e di contro-doni
presuppone una
comunicazione che non si limita ad una semplice transizione dell’oggetto
mediatore tra due
soggetti, perché «regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa
di se stessi»
(Mauss 1965: 172). La cosa ricevuta quindi, non è un oggetto inerte, poiché
anche se riposto
nelle mani altrui, trattiene sempre qualcosa del donatore, del suo spirito.
In questa ottica l’atto
del donare corrisponde ad una specie di legame, ma non in modo assoluto. Il
dono può essere
anche causa di continue diffidenze, sfide e opposizioni ed assumere così una
valenza negativa
trasformandosi inaspettatamente in veleno. Questo carattere ambivalente del
dono viene
ricollegato alla duplicità semantica della parola «gift» che nelle lingue
germaniche significa
sia «dono» che «veleno» (Mauss 1965: 267), ma anche al nesso indissolubile
nella lingua
greca: «dôron» – «dôlos» (dono-inganno), oppure ancora alla polisemia del
termine greco
«dosis» che indica l’atto del donare, ma anche la dose di una sostanza
mortale, al
«pharmakon» inteso come «veleno» e «medicina» nello stesso tempo. Il dono
quindi può
essere considerato come un atto di generosità, come un obbligo morale o
costrizione, come
dimostrazione del proprio prestigio, della propria superiorità, ma anche come
«ciò che
bisogna dare, ciò che bisogna ricevere e ciò, che tuttavia, è pericoloso
prendere» (Mauss
1965: 261). Offrire qualcosa in dono quindi è anche trarre in inganno
(dôlos), tradire o
addirittura, uccidere, o per dirla con Derrida: «donare la morte» (Derrida
2002: 43).
3. Il dono nella fenomenologia (Husserl, Heidegger)
Un altro importante indizio nell’analisi del dono in Montale viene suggerito
dalla
fenomenologia classica di Edmund Husserl e dal tardo pensiero di Martin
Heidegger. Si pensi
42
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alla categoria «es gibt» coniata dal concetto husserliano, la cui ambiguità
semantica, come
sostiene Heidegger, esige che si pensi «l’essere» soprattutto come «il dare»,
in quanto il
termine tedesco («es gibt») significa in primo luogo si dà
(geben=dare/donare) e in secondo
luogo: «c’è». Un dato di estrema importanza quest’ultimo, visto che il
concetto dell’essere
heideggeriano nel quale «l’esserci» (Dasein) viene gettato, corrisponde
all’immersione,
dell’io poetico in un determinato contesto spazio-temporale (paesaggio
ligure, il mare degli
Ossi, la civiltà umanistica delle Occasioni, la guerra storica e cosmica de
La bufera e altro, la
realtà di consumo e la società di massa nella Satura, ecc.) impostogli a
priori, senza che gli
venga concessa una minima possibilità di poter decidere sull’accettazione o
meno di ciò che
gli viene offerto. La realtà nella quale l’io viene proiettato, come l’essere
heideggeriano non
solo è, ma si dà al poeta costringendolo non solo a riceverla ma anche a
ricambiarla. In effetti,
in Montale, ogni tentativo di un eventuale rifiuto della realtà circostante
(si pensi al rapporto
tormentato tra l’io e il mare negli Ossi di seppia), nei confronti della
quale il poeta ha sempre
provato un sentimento di «totale disarmonia» (Montale 1996: 1592), dovrà
essere represso,
soffocato e trasformato in forma di un’accettazione, voluta o meno, di ciò
che viene offerto ed
infine seguita da un ricambio falso o sincero di quello che si è ricevuto. Ci
ritroviamo quindi
all’interno della relazione triadica del rifiutare – ricevere – ricambiare,
all’interno della quale
la figura del dono costituisce una specie di saldatura tra questi tre
imperativi che governano
l’esistenza dell’io poetico nel mondo.
Che fine però hanno fatto i nostri topi, sciacalli e quei simpatici
molossoidi chiamati
bulldog? Come mai, prima di tutto, sono stati chiamati in causa? Che affinità
possono avere
con la tematica del dono? Vediamo un po’. È interessante intravedere
all’interno del nostro
titolo la fusione di tre presenze animalesche, la cui identità può essere
ridotta ad una semplice
presenza oggettuale (souvenir, gadget, portafortuna). C’è di più però. Dietro
queste
apparizioni misteriose, si cela ancora qualcos’altro o qualcun altro.
Torniamo quindi allo zoo
poetico montaliano, che qui riduciamo alla presenza di soli tre esemplari, ma
che in realtà è
abitato da «circa centocinquanta animali, un terzo dei quali uccelli, pochi
meno i mammiferi,
ancor meno gli insetti, quindi i pesci, i rettili e finalmente gli anfibi»
(Manacorda 1984: 118).
4. Un topo bianco d’avorio
Il 25 settembre del 1928, Bobi Bazlen, un carissimo amico di Montale, nonché
un
famoso intellettuale triestino, gli invia una strana lettera con una foto
dentro: «Gerti e Carlo:
Bene. A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe
meravigliose. Falle una
poesia. Si chiama Dora Markus». Al ché Montale non esita rispondergli: «Dora
Markus?????
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Manda!!!!!» (Isella 1996: 53). Così, quasi per scommessa, dietro il
«suggerimento-sfida»
(Marcenaro 1999: 109, 110). di Bazlen e dietro l’occasione-spinta della
fotografia scattata
dalla comune amica Gerti Frankel Tolazzi, originaria della Carinzia, nascono
i versi di una
delle più celebri poesie di Montale. Ed è qui che incontriamo il nostro «topo
d’avorio». La
lirica è composta di due parti: la prima Dora Markus I è del ’28, la seconda
Dora Markus II
risale al 1939. È interessante sottolineare questo fatto, dato che il
soggetto della fotografia e la
sua esecutrice nella seconda parte vengono fusi in un’unica figura femminile:
Dora continua a
vivere nel corpo e nell’immagine di Gerti condividendo con lei lo stesso
destino: quello di due
ebree di fronte alle persecuzioni raziali che dilagano con il terrore. In
questa sede però,
vogliamo riportare soltanto la chiusa della prima parte del componimento che
narra:
«La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d’avorio; e così esisti!»
Montale traccia l’immagine di una donna esule dalla propria terra, ma anche
dalla
propria vita. Dora si ritrova a Porto Corsini, nei pressi di Ravenna e con
una mano indica
come lontana la Carinzia, la sua «patria vera» e la città già capitale
dell’impero romano
d’Occidente appare affondata in una «primavera inerte, senza memoria». Il
discorso però è
ben più complesso di una semplice nostalgia. Ciò che colpisce il poeta è
l’irrequietezza
interiore e l’enigmaticità del suo personaggio che realmente non conosce4, la
cui esistenza
può dipendere da un piccolo amuleto: «un topo bianco d’avorio», conservato
accanto agli
oggetti d’uso personale, alle cianfrusaglie ed ai belletti femminili
necessari per il trucco: alla
«matita delle labbra», al «piumino» della cipria ed alla «lima». Un piccolo e
banale oggetto
permette alla donna di rassegnarsi al destino e di proseguire la sua vita «in
questo lago
d’indifferenza» trattenendola al di là della morte. Con il suo irrompersi e
con il suo darsi,
quell’apparentemente insignificante portafortuna che abita la borsetta della
donna, porta
salvezza e misteriosamente ri-dona la vita alla propria padrona. Rientriamo
forse nella logica
«do ut des» (io do affinché tu dia) – visto che un mero «flatus vocis»
realmente suggerito,
4
«Io Dora non l’ho mai conosciuta» (Montale 1996: 1512).
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offerto in dono al poeta riesca a produrre in lui l’immediato atto di
riconoscenza che si
trasforma in un dono-offerta proiettato verso l’altro: verso la donna che tra
l’altro molto
spesso porterà in Montale le vesti di una donataria che riceve la vita o la
salvezza. Si pensi al
gesto altruisco e al sacrificio etico degli Ossi di seppia («Cerca una maglia
rotta nella rete/
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ Va, per te l’ho pregato; Ti dono
anche l’avara mia
speranza/l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi; Se un’ombra scorgete,
non è/un’ombra –
ma quella io sono/Potessi spiccarla da me,/offrirvela in dono; il dono che
sognavo/non per
me ma per tutti»). Questa proiezione oblativa di un augurio di salvezza sulla
figura
femminile che forse continuerà ad esistere grazie al «topo bianco d’avorio»,
oltre a costituire
un perfetto esempio di dono disinteressato, rispecchia quello che
Montale chiama
«occasione-spinta», ovvero un’indicazione, un dato, un elemento realistico,
un oggetto che
attraverso il modo in cui viene descritto e il significato simbolico di cui
si grava, fornisce al
lettore il compito di intuire il messaggio poetico a modo suo. Ecco la
spiegazione montaliana
del procedimento riportata in extenso: «Ammesso che in arte esista una
bilancia tra il di fuori
e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere
l’oggetto e tacere
l’occasione-spinta. Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore
in medias res,
un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi» (Montale
1996: 1481). Una
tecnica compositiva riconducibile al concetto del correlativo oggettivo di
Thomas Stearns
Eliot formulato nel saggio Hamlet and his problems del 1919: «Il solo modo di
esprimere
emozioni in forma d’arte è di scoprire un “correlativo oggettivo”; in altri
termini una serie di
oggetti, una situazione, una successione di eventi che saranno la formula di
quella particolare
emozione; tali che quando i fatti esterni, che devono terminare in esperienza
sensibile, siano
dati, venga immediatamente evocata l’emozione» (Eliot 1992: 397). Montale
però, si
dissocia categoricamente dalle posizioni eliotiane dicendo: «ero mosso
dall’istinto non da
una teoria (quella eliotiana del “correlativo obiettivo” non credo esistesse
ancora, nel ’28,
quando il mio Arsenio fu pubblicato nel “Criterion”)» (Montale 1996: 1482).
Infatti, come
osserva la critica (Giuliucci 2007), c’è una sottile differenza tra queste
due prese di
posizione. Mentre la regola di Eliot tende soprattutto a trasformare
l’oggettività in
soggettività attraverso una correlazione tra l’emozionalità ed una serie di
oggetti concreti che
potrebbero esprimerla, Montale distaccandosi da essa vuole passare sotto il
silenzio il dato
fisico da cui nascerà lo slancio verso il metafisico. Quel dato fisico, che
con il suo essere si
dà, corrisponde quindi «all’occasione, alla spinta» che, per poter generare
un densitometro di
emozioni in forma di una parola-oggetto, deve ricorrere al silenzio. Per
Montale infine, far
poesia è un continuo rispecchiarsi del vero su uno «schermo di immagini», un’
incessante
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proiezione della realtà abitata dall’infinità di oggetti di vario genere,
così come appare nella
sua presenza, un confi-dare al lettore, bensì inconsapevolmente, un frammento
del proprio
vissuto eliminandone ogni antefatto e sottacendone la ragione. Il nostro
«topo» quindi
diventa un dono, che oltre ad offrire la vita alla donna, emerge dalla realtà
quotidiana, si
presenta e si dà. Quello del poeta invece, diventa un tentativo di immergere
il lettore in
«medias res» che si sposa con un crescente sforzo di precisazione,
concretezza e di
significazione nei confronti della realtà circostante e del mondo nel quale –
per dirla con
Heidegger – l’uomo («l’Esserci») viene gettato, e dal quale l’io parlante
riceve in dono un
infinito repertorio di oggetti che rendono possibile il suo «essere-nelmondo», il suo «dare»
in forma di parola scritta (Meynaud 1984).
5. Sciacalli al guinzaglio
Il silenzio di quell’occasione che spinge il poeta a scrivere, ci porta a
prendere sotto
esame il secondo abitante dello zoo poetico montaliano: «sciacallo» o più
esattamente
«sciacalli» che diventano protagonisti del celebre mottetto La speranza di
pure rivederti (Le
occasioni; datata 1937) che, come preciserà il poeta, fanno parte di un
remoto ricordo
(occasione − apparizione) di un pomeriggio d’estate. Riportiamo la
spiegazione montaliana:
«Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici (...) Ed ecco
apparire a Mirco un vecchio in
divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli
color sciampagna, due cagnuoli che a
una prima occhiata non parevano né lupetti né bassotti né volpini. Mirco si
avvicinò al vecchio e gli chiese: <<
Che cani sono questi?>>. E il vecchio, secco e orgoglioso: <<Non sono cani,
sono sciacalli>>. (...) Clizia
amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! Pensò Mirco. E
da quel giorno non lesse nome di
Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli.
Strana, persistente idea. Che le due
bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un
emblema, una citazione occulta, un
senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua
decadenza, della sua fine? Fatti
consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani
prodotti della boîte à surprise della
vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli ... E sempre
sul vivo della piaga scendeva il
lenimento di un balsamo. Una sera Mirko si trovò alcuni versi in testa, prese
una matita e un biglietto del
tranvai (l’inica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe. (…)
S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo
sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse
anche una conclusione (…) la
parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo
stupore di un ricordo intimo e
5
lontano» (Montale 1980: 908,909).
Il mottetto nato da questo “incontro” recitava:
La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;
e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
5
Isella rivela altri retroscena di questo episodio:« Che poi si trattasse non
di una specie strana di cagnuoli, ma di
sciacalli veri e vivi, testimonia su ricordi personali modenese Aurelio
Roncaglia che sa perfino citare nomi del
padrone e del servitore» (Isella 1971: 90) .
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ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:
(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).
Di nuovo dono – animale nella chiusa del componimento e di nuovo, come
risulta dal
6
paratesto esplicativo fornito dal poeta, la figura di una donna ebrea dietro:
Clizia . Il caso
tipico di un referente extratestuale, di un antefatto «dato» e taciuto quello
degli «sciacalli»
che grazie al lavoro della memoria (contrariamente quindi da come accade in
Derrida, il
quale vuole che il dono venga dimenticato per liberarlo dall’obbligo dello
scambio)
spuntano, appaiono all’improvviso, quasi per epifania, come un «barbaglio»
appunto,
provocando nel lettore, come direbbe la Grignani, uno «shock di oggetto»
(Grignani 2007:
122). Il poeta introduce le figure dei due cagnetti bizzarri e offre al
lettore un dato concreto,
che crede sufficiente, ma non svela del tutto i retroscena che si celano
dietro la parola stessa
«sciacallo», poiché colui che legge può restare nel dubbio, non può sapere
tutto, anzi non
deve. Il compito del lettore è quello, come sottolinea Ioli, di «addentrarsi
tra i dati di un reale
particolarissimo, e collegarlo con un altro piano, ossia con quella sua
metafisica e a volte
domestica universalità» (Ioli 2002: 230). «Addentrarsi» – ritrovarsi
nell’essere che già c’è e
che si dà, quindi prendere, accogliere e ricevere ciò che gli viene offerto,
poiché secondo il
fiducioso poeta, un lettore attento riuscirà a sentire anche quello che non è
detto
esplicitamente, ma dato, suggerito, sarà in grado di capire la parola
«soffiata» o «rubata» (in
quanto posseduta precedentemente da un altro) e trovarne un senso giusto.
«Un» senso e non
«il» senso, poiché, secondo Montale, un vero significato della poesia non
esiste, esiste solo
«un terremoto verbale con molti epicentri» (Montale 1976: 9). Dunque la
taciuta
«occasione» deve partire dal reale, da un dato concreto, dalla vita
quotidiana, dai suoi oggetti
e dal colloquio con i personaggi, poiché dalla «pura invenzione il poeta non
riesce a ricavare
nulla» (Montale 1980: 913). I due sciacalli, come il «topo d’avorio»,
diventano doppiamente
dono sia in quanto elementi «dati», seppure sottaciuti, del presente, sia
come ricordi che «ridonano» alla memoria del poeta l’immagine della donna
amata, restituiscono, riattualizzano
6
Clizia (Irma Brandeis) – the «Only Begetter», «Visiting angel», «Beatrice
montaliana», donna angelicata, la
protagonista centrale e destinataria de Le occasioni e de La Bufera e altro,
nonché l’amore più tormentato del
poeta. Lo pseudonimo della donna risale a Clizia, figlia dell’Oceano, amante
del Sole dal quale viene
abbandonata ed in seguito trasformata in eliotropio o girasole (Ovidio,
Metamorfosi, IV). (Cfr.Baldissone 1996:
53).
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ciò che è andato perduto, costituiscono una sorta di fissaggio di segni o
indizi che rimandano
alla sua presenza o ricordi che forse «donano» la morte e, contrariamente a
come si era
propensi a pensare, vogliono uccidere la rimembranza di lei per liberare il
poeta da questa
relazione tanto tormentata e sofferta. Il dono dell’ambiguità quindi: quello
di un «balsamo»
lenitivo che mantiene fresco il ricordo di lei e quello di un veleno che lo
abolisce. Così,
quello degli «sciacalli» diventa un vero e proprio «pharmakon» - che cura e
uccide allo
stesso tempo. Ci induce a pensarlo anche l’aspetto simbolico che si cela
dietro la parola
stessa «sciacallo», il quale viene ritenuto «un animale malefico, (...) di
cattivo augurio, (...) il
simbolo del dio egizio Anubis (...) destinato alla cura dei morti, (...) alla
veglia sui riti
funebri, (...) sul viaggio verso l’altro mondo» (Chevalier, Gheerbrant 1986:
340). Il dono
dello «sciacallo» è da intendere quindi sia come resurrezione del ricordo,
sia come il
preannuncio della sua morte.
6. Bulldog di legno
Il terzo e l’ultimo casus del dono è quello incorporato nella figura di un
simpatico
«bulldog di legno» che realmente ha abitato la casa di Montale e che diventa
un simbolo di
una commuovente lirica della terza raccolta La bufera e altro intitolata La
ballata scritta in
una clinica (datata 1945) e dedicata alla moglie malata – alla stessa Mosca
degli Xenia.
Anche qui ci limitiamo a riportare la parte finale del componimento.
Hai messo sul comodino
il bulldog di legno, la sveglia
col fosforo sulle lancette
che spande un tenue lucore
sul tuo dormiveglia,
il nulla che basta a chi vuole
forzare la porta stretta;
e fuori, rossa, s'inasta,
si spiega sul bianco una croce.
Con te anch'io m'affaccio alla voce
che irrompe nell'alba, all'enorme
presenza dei morti; e poi l'ululo
del cane di legno è il mio, muto.
Il contesto è quello di allerta: di una morte inevitabile della moglie,
rinchiusa per una
grave malattia «in un manichino di gesso», dietro una porta della camera
ospedaliera (la croce
rossa). Lo schema sempre quello di prima: animale, oggetto, donna. Anche qua,
come nel
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caso del «topo bianco d’avorio», appare un talismano, un oggetto-emblema al
quale viene
affidato il compito di salvare, o comunque proteggere, l’uomo dal male. Il
dolore psichico di
Dora Markus, si fonde qua con il dolore fisico della malata, ma anche con il
male storico della
guerra – nel 1944, al ricovero della compagna in clinica, i tedeschi
dichiarano a Firenze lo
stato d’emergenza e fanno saltare tutti i ponti sull’Arno. La donna mette sul
comodino della
stanza ospedaliera una figurina di legno: un piccolo bulldog (uno degli
abitanti della casa
Montale), quasi per esorcizzare il destino, e una sveglia. Il cane veglia sul
sonno della malata
e sul tempo («lancette della sveglia») che le è rimasto ancora da vivere. Un
altro amuleto
quindi che, secondo una forma di feticismo montaliano per gli oggetti desueti
ed inutili,
rappresenta un vero e proprio totem. Alla presenza e al darsi del «cane di
legno» dell’ultima
strofa, si sovrappone un accostamento: «ululo» e «muto» che segna il
passaggio dall’oggetto
(«cane di legno») ad uno stato d’animo: ad un grido di dolore soffocato. Il
piccolo «bulldog»
diventa quindi un correlativo oggettivo, un rimedio, un balsamo che lenisce
il dolore della
donna, un dono che deve scacciare il male per proteggerla. Lo stesso
animaletto impietrito
però, può rappresentare una specie di veleno, un simbolo di inerzia fisica e
di impotenza di
fronte al dolore della donna e di fronte all’imminente pericolo. Anche qui il
dono agisce come
«pharmakon» che da una parte salvaguarda la vita dell’uomo e dall’altra lo
accompagna nel
suo ultimo viaggio ululando alla morte come lo fanno gli sciacalli7.
Sarebbe questo il dono in Montale: la realtà fenomenica delle cose imposta a
priori
nella quale l’io è immerso e che continua ad offrirgli un repertorio di
indizi inscritti nel
determinato oggetto, capaci di tradurre i stati d’animo del soggetto; un
«ingorgo» di oggetti di
ogni genere, solo in apparenza buffi o banali che popolano la quotidianità
dell’uomo; oggetti
quasi domati, addomesticati dal poeta per poi poter offrirli al lettore; sono
«occasioni –
spinte», segnali occulti, dietro i quali si celano dati emblematici concreti
ma sottaciuti. Il dono
in Montale è anche un gesto benefico ed altruistico in direzione dell’altro,
il sacrificio della
propria esistenza a favore dell’altro. Il dono è ancora l’essere che si dà
sempre e comunque e
che non può essere rifiutato. Il dono infine è anche quello malefico, è ciò
che cura e uccide,
ciò che bisogna accettare pur rischiando di diventarne vittima. I nostri tre
simpatici animaletti
sono soltanto pochi esempi di un’infinita collezione di doni all’interno
dell’universo poetico
di Eugenio Montale, che però sembrano rispecchiare perfettamente l’immagine
del dono,
dietro il quale si cela sempre un mistero: un oggetto bizzarro, un animale,
una donna che,
come sosteneva recentemente scomparso Claude-Lévi Strauss in riferimento alle
tesi
7
Lo sciacallo «ulula alla morte, vaga intorno ai cimiteri e si nutre di
cadaveri» (Chevalier, Gheerbrant 1986:
340)
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maussiane, assume un ruolo fondamentale nelle relazioni sociali e diventa
simbolo di un
valore inestimabile, un dono pregiato che lega e che dà vita.
Bibliografia
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Montale, Eugenio (1980). Eugenio Montale. L'opera in versi. Edizione critica
a cura di Rosanna Bettarini e
Gianfranco Contini. Torino: Einaudi.
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Marta Mędrzak-Conway
Università di Varsavia
Una filosofia umanizzata: Italo Svevo e le teorie freudiane
Noi romanzieri usiamo baloccarci con grandi filosofie e non
siamo certo atti a chiarirle:
le falsifichiamo ma le umanizziamo
Italo Svevo, Soggiorno londinese, 1926
Poeti e filosofi hanno scoperto l’inconscio prima di me;
quel che ho scoperto io è il metodo scientifico
che consente lo studio dell’inconscio
Sigmund Freud, Discorso in occasione del suo settantesimo compleanno, 1926
È La coscienza di Zeno un romanzo psicoanalitico o non lo è: questo è il
problema.
Era Svevo ispirato alla scienza freudiana o no? Questo non è un problema meno
complesso.
Che ruolo svolse, se lo mai svolse, la psicanalisi nell’opera di Italo Svevo?
È un dilemma
amletico con cui ci lasciò quello scrittore-enigma triestino.
Prima dobbiamo capire quale era il percorso di Svevo che lo portò alla
psicanalisi.
Senza dubbi, in Italia Trieste era una città pioniera nell’adottare quella
novità viennese.
Ragioni per questo sono abbastanza ovvie. Trieste faceva parte dell’Impero
Asburgico,
dunque il flusso delle nuove mode e tendenze era facile e inevitabile. È
anche vero, però, che
proprio Trieste era la città più propensa, accanto a Vienna stessa, ad
accogliere le nuove teorie
di psicologia. A Trieste, come ci evidenzia Giorgio Voghera – un testimone di
quei giorni – la
psicanalisi più che corrente è stata un ciclone (Voghera 1985: 3). La città
sveviana, infatti,
era un luogo molto particolare sia dal punto geopolitico che quello
culturale. Più che una città
italiana era una città mitteleuropea. Voghera osserva che un certo spirito,
che si potrebbe
definire kafkiano, pervade la letteratura triestina (Voghera 1985: 116).
Infatti, anche nelle opere sveviane si può trovare alcune affinità con le
opere di Kafka.
Si deve, però, dire che tale fatto non è dovuto solo al carattere unico della
Trieste e della
Praga di allora, ma anche alla formazione di questi scrittori, ossia la
discendenza familiare:
ambedue provenivano dalla borghesia ebrea in cui governava lo schema,
descritto da Elio
Gioanola: padri che usavano la penna solo per fare dei conti, si ritrovano
con dei figli che
sanno usare solo la penna, e per scrivere sogni (Pavanello 2009: 122-123).
Come a Praga o
Vienna, anche a Trieste la comunità ebraica era molto numerosa e potente. Ed
erano proprio i
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cittadini triestini di origine ebraica a diventare dei sostenitori
appassionati della nuova
scienza. Non a caso, come risulta. Analizzando gli scritti di Freud si trova
le indicazioni che
invitano a credere che il viennese considerasse, controvoglia, la psicanalisi
una “scienza”
ebrea. 1 Per gli ebrei la psicanalisi, a parte di essere una risposta agli
orrori e alle traume della
grande guerra, costitueva una via di evasione – un’evasione dal vivere fin
dall’infanzia [...]
tra due verità, quella della famiglia e quella dell’ambiente cristiano
circostante (Voghera
1975: 4-5). Infatti, quelli che contribuirono alla psicanalisi in modo
fondamentale erano
principalmente (benché si possa elencare illustre eccezioni) di origine
ebrea: basti nominare, a
parte di Sigmund Freud, Wilhelm Stekel o Alfred Adler.2 Il fatto di tale
categorizzazione –
dopo provata dalla rottura di Jung con il suo maestro – potrebbe essere
legata alla arnoldiana
divisione fra Hebrews e Hellenes: un mondo ebreo (giudaico) e greco
(cristiano). Andrew
Heinze scrive che quello che distingue “la psicologia ebrea” dalle altre
psicologie (ad esempio
quella cristiana), è il fatto che i teoristi come Freud sottolineavano il
contento emozionale
della vita familiare. La vita familiare, come osserva Heinze, era il tema che
rifletteva un
intenso egocentrismo della comunità ebrea in Europa, causato dall’ostracismo
sociale (Heinze
2004: 65). Inoltre, dovremmo ricordare come importante era nell’opera di
Svevo, ma anche
quella di Kafka, la relazione con il padre – “il complesso paterno” nella
realtà matriarcale.
Non è sorprendente, dunque, che Ettore Schmitz incontrò e si interessò a
questa
novità. Specialmente che era sempre affascinato dalla questione della
salute3: i personaggi di
Svevo soffrono un po’ di tutto: diatesi urica, tuberculosi, bronchiti
croniche, “espulsioni”
dalle guance, nefrite, osserva Alberto Cavaglion (Cavaglion 2008 : 25). I
suoi tempi diedero
1
La questione rimane controversa. Soprattutto, il fatto che Freud voleva che
la psicanalisi fosse accolta come
una scienza provoca discussione. Il rapporto di Freud con il giudaismo,
espresso principalmente nel suo Mose e
il monoteismo, non è meno complicato. Ciò nonostante, è un fatto irrefutabile
che Freud, con rammarico, la
considerasse “ebrea”. L’analisi di questo argomento ci presenta Yosef Hayim
Yerushalmi nel suo libro Freud’s
Moses: Judaism Terminable and Interminable (New Haven, Yale University Press,
1993). Scrive l’autore: In
order to be accepted as science, psychoanalysis must not only be universal;
it must be perceived as such. To put
it crudely, Freud needed a goy, and not just any goy but one of genuine
intellectual stature and influence, e lo
trovò nella persona del giovane Carl Jung. Yerushalmi, per provare la tesi in
questione quota le parole di Freud
stesso: Certainly there are great differences between the Jewish and the
Aryan spirit. We can observe that every
day. Hence there would be here and there differences in outlook on life and
art. But there should not be such a
thing as Aryan or Jewish science. Results in science must be identical,
though the presentation of them may vary.
If these differences mirror themselves in the apprehension of objective
relationships in science there must be
something wrong; commenta l’autore: These proved to be prescient words.
Twenty years later, as we shall see,
the “something wrong” errupted fully into the open, alludendo al ‘divorzio’
tra Freud e Jung che non fece altro
che legittimizzare la preoccupazione di Freud (Yerushalmi: 41).
2
È vero anche che Freud stesso escluse altri gruppi dalla sua terapia:
sosteneva che la psicanalisi non fosse
adatta agli Irlandesi, ed i cattolici in generale (il caso di James Joyce, di
cui parlerò più tardi, sembra confermare
questa opinione).
3
Non solo ossessivamente si occupa dell’opposizione salute-malattia, provando
a capire i loro limiti e significati,
e introduce nelle opere le figure dei medici che sempre svolgono qualche
ruolo simbolico, ma anche lui stesso è
molto interessato a provare varie terapie, viaggiando nei diversi centri di
cura, tra cui addirittura Davos, dove si
trova il kurhaus di culto descritto nella Montagna incantata di Thomas Mann.
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a Svevo tante opportunità di sviluppare quel suo interesse: fine
dell’Ottocento era l’epoca di
sperimentazioni non solo in medicina ma soprattutto nel campo di psicologia e
neurologia –
tra autori di queste spiccano i nomi come Jean-Martin Charcot, Charles
Baudouin.4 A
proposito delle teorie freudiane il triestino ammise nel Profilo
autobiografico che per vario
tempo lo Svevo lesse libri di psicanalisi. Sottolineò, però, nello tempo
stesso – provando la
sua attitudine del tutto ambigua verso la psicanalisi – che dapprima la
affrontò solo per
giudicare delle possibilità di una cura che veniva offerta ad un suo
congiunto. Si trattava del
fratello di Livia, Bruno Veneziani che fu mandato dalla famiglia a Vienna, da
Freud stesso,
per essere curato dall’omosessualità. Quando la cura fallì, Svevo scrisse in
una lettera a
Valerio Jahier: Grande uomo quel nostro Freud, ma più per i romanzieri che
gli ammalati.
Un mio congiunto uscì dalla cura durata per varii anni addirittura distrutto.
Il proprio
scetticismo verso la scienza freudiana venne da Svevo espressa anche durante
la conferenza
dedicata all’opera di James Joyce durante la quale negava qualsiasi influenza
di psicanalisi
subita dall’irlandese, che alla psicanalisi preferiva una confessione: il
modo in cui insisteva su
quel fatto può suggerire la voglia di negare anche l’influsso subito da se
stesso. Anna Maria
Accerboni Pavanello spiega la ripugnanza che è del tutto paradossale verso la
psicanalisi non
solo di Svevo, ma anche di altri scrittori mitteleuropei, come Kafka o Musil,
in modo
seguente:
essi intravedono nell’illusione che attribuiscono alla psicanalisi di poter
guarire nell’individuo i traumi
derivanti dall’assimilazione sociale e dalla transizione storica, uno
strumento funzionale in fondo a quella
Società borghese dei “padri, da cui hanno preso le distanze (Pavanello 2008:
127).
Come vediamo, la discendenza di Ettore Schmitz si rivela essenziale per lo
sviluppo artistico
di Italo Svevo.
Fondamentali per la conoscenza delle teorie freudiane da parte di Svevo erano
gli
incontri con vari psicanalisti, soprattutto Edoardo Weiss, uno psicanalista
triestino, e Wilhelm
Stekel, un viennese dal circolo freudiano, che lo scrittore incontrò a Bad
Ischl nel 1911
(Pavanello 2008: 89), e con cui sviluppò una conoscenza abbastanza intima. 5
Entrambi erano
le figure significanti nella storia della terapia freudiana. Weiss era il
medico che introdusse la
psicanalisi in Italia, Stekel, invece, quello che si staccò dalla
psicoanalisi ortodossa – e dal
circolo freudiano – fornendo a Svevo una nuova prospettiva. Ambedue i medici
costituevano
4
Anche Trieste si può vantare del circolo di tanti medici; a Trieste esisteva
addirittura un ospedale psichiatrico.
A proposito di Stekel Fulvio Anzellotti scrive: I discorsi di Stekel
affascivano Ettore, che gli manda una
cartolina, appena tornato a Murano. Forse così Olga viene a sapere che c’è un
medico che ha inventato un
sistema che si chiama psicanalisi e che questo sistema è la medicina per
curare la diversità. (Anzellotti 1985:
144)
5
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per Schmitz una fonte fondamentale delle idee freudiane, che nello tempo
stesso lo aiutarono
a sviluppare una visione propria della psicanalisi.
L’atteggiamento di Svevo verso la psicanalisi era, come abbiamo già
accennato, molto
ambivalente. Le sue opinioni su di essa erano sempre contraddittorie. Nel
Profilo
autobiografico scrive che Il secondo avvenimento letterario [accanto
all’incontro con Joyce] e
che allo Svevo parve allora scientifico fu l’incontro con le opere del Freud.
È interessante
osservare come nello stesso tempo egli ammette che le teorie freudiane
avevano influenza su
di lui e diminuisce il loro valore: allora gli parve scientifico. Dall’altra
parte, come ci informa
Livia Veneziani, durante la guerra, nel 1918, per compiacere un suo nipote
medico che,
ammalato, abitava da lui, si mise in sua compagnia a tradurre l’opera del
Freud sul sogno
(Veneziani 1958: 84). Svevo ci lascia sempre nell’incertezza: dice che Lessi
dei libri del
Freud nel 1908 ma subito aggiunge: se non sbaglio. E anche se informa di aver
letto qualche
cosa del Freud con fatica e piena antipatia ammette, come se si sottoponesse
ad una verità
triste: Ma la psicanalisi non mi abbandonò più. Di quello non ci sono, però,
dubbi.
È, dunque, La coscienza di Zeno un romanzo psicoanalitico o non lo è?
Il fatto è che l’autore stesso portò il suo romanzo a Edoardo Weiss
chiedendolo di
recensire l’opera. Weiss, prima pieno di entusiasmo, restituirò il libro
all’autore dicendo che
non poteva parlare del [suo] libro perché con la psicanalisi non aveva nulla
a che vedere –
riporta Svevo nel Soggiorno londinese. Weiss si sentì offeso, ma
probabilmente anche
angosciato, pensando che il dottor S. fosse proprio lui. 6 Le ragioni del
rifiuto possono essere
anche altre. Come osserva Anna Maria Accerboni Pavanello, solo opere
insignificanti dal
punto di visto artistico, possono essere rese completamente trasparenti, come
è il caso del
romanzo di Jensen, sotto la lente dell’indagine psicoanalitica (Pavanello
2008 : 128-9).7
Difatti, al contrario di quello che disse Edoardo Weiss, ci sono le voci che
proclamano
La coscienza di Zeno il primo romanzo psicoanalitico in Italia e anzi, come
dichiara Aaron
Esman nel suo saggio dal 2001, Svevo è l’autore del primo romanzo
psicanalitico in tutta la
letteratura mondiale (Esman 2001). Anche se queste voci vengono ancora
contrapposte dalle
opinioni di alcuni, come Giovanni Palmieri il quale vede nel romanzo
l’influsso
dell’autosuggestione di Charles Baudouin (Palmieri 1994: 52), una vera, come
vogliono i
primi, o una presunta, come preferiscono gli altri, introduzione alla
letteratura
italiana/mondiale della psicanalisi è un merito inestimabile dello scrittore
triestino. Innegabile
6
Le origini del dottor S. sono anche una questione controversa e non risolta.
Pavanello parla del romanzo di Wilhelm Jensen Gradiva del 1903 su cui Sigmund
Freud scrisse nel 1907 un
saggio Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen.
7
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è anche il fatto che quel merito gli guadagnò il titolo del padre del romanzo
italiano moderno,
il quale appare sotto la voce Italo Svevo nell’ Encyclopedia of Literary
Modernism.
Freud è certo presente in Svevo. La domanda è: fino a che punto e per quale
motivo?
È interessante notare come già il titolo del terzo romanzo sveviano appare
elusivo.
Philip Nicholas Furbank vede in esso uno scherzo che l’autore fa a Freud. La
parola
“coscienza”
ha due significati: in inglese sarà conscience e consciousness, 8 ossia
“consapevolezza”. Il romanzo è un continuo gioco tra queste due parole
(Furbank 1966: 180).
Il titolo potrebbe essere interpretato anche in modo diverso: come l’opposto
dell’inconscio –
alla fine è il protagonista che fa una specie di autoanalisi, un concetto
impossibile da
realizzare secondo Freud. Non è difficile notare anche un ampio ventaglio di
casi come se
fossero presi direttamente dalla Psicopatologia della vita quotidiana:
repertorio molto ricco
dei lapsus, tra cui lo sbaglio di Guido quando spiegava ad Ada che ebbero
bisogno di uno
stenografo:
-Avete assunto in ufficio una nuova impiegata?
-Sí! – disse Guido [...] – Avevamo bisogno di uno stenografo!
oppure il famoso scambio dei funerali. Svevo si rivelò un lettore attento di
Freud anche
creando le risposte somatiche della psiche di Zeno e i suoi sogni. Benché il
triestino non
faccia l’uso della ‘scoperta’ di William James, ovvero del flusso di
coscienza, usufruisce con
successo il libero fluire dei ricordi, molto sintomatico anche esso. Mentre
lo stream of
consciousness scopre i pensieri, il flusso della memoria ci dice di più. Il
modo in cui si
ricorda, la scelta degli avvenimenti che si ricorda, e finalmente quello che
cancella, le
menzogne che Zeno dice appassionamente, appropriamente interpretate, ci
rivelano verità
molto più complesse sull’individuo.
Nondimeno, come giustamente osserva Mario Lavagetto nella sua raccolta dei
saggi su
Svevo, la situazione dell’analisi viene sottomessa a derisione e
deformazione. Lo psicanalista,
il dottor S., non osserva nessuna delle regole della terapia freudiana, fra
cui quella più
importante della massima discrezione. Tutta la strategia dell’analisi [...]
passa attraverso la
lente ostile e malgraduata del sospetto (Lavagetto 1975: 57).
È un caso tipico di una
“psicanalisi selvaggia”, su cui Sigmund Freud scrive nel 1910: [...] non
basta che un medico
conosca alcune scoperte della psicanalisi; egli deve impadronirsi della
tecnica se vuole che il
suo procedimento medico sia guidato dalla concezione psicanalitica (Freud
2009: 1618). La
8
Ovviamente Freud scriveva in tedesco (in cui le parole per questi concetti
sono pure diversi: rispettivamente
saranno Gewissen e Bewusstsein) ; il riferimento agli equivalenti inglesi che
fa il “gioco” addirittura più forte
non è infondato: dobbiamo ricordare che Svevo poteva parlare dei concetti di
conscience e consciousness con
Joyce – ossia in inglese – perchè questi erano fondamentali per la nuova
letteratura.
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vendetta che svolge S. potrebbe addirittura essere, secondo Anna Maria
Accerboni Pavanello,
letta nella chiave del controtransfert: la risposta prodotta nell’inconscio
dell’analista dalle
manifestazioni di transfert del paziente, che l’analista non è ancora
riuscito a padroneggiare
o a elaborare (Pavanello 2008: 119). Svevo doveva conoscere dunque la
psicanalisi con
un’estrema profondità per poter giocare con tanta disinvoltura con il
processo terapeutico e
con le relazioni reciproche tra il paziente e l’analista, che a volte portano
il peso del
complesso edipico.
Curiosamente, le tracce della psicanalisi si possono intravedere pure nelle
opere
sveviane precedenti. Non si tratta solo dell’elaborazione attenta della
psiche dei protagonisti,
e dell’introduzione delle tecniche narrative dirette a manifestarla, ma anche
delle relazioni tra
i protagonisti di Una vita o Senilità che si potrebbe inserire nella cornice
del romanzo
familiare (Familienroman) freudiano (Moloney 1994: 36). Anche l’ironia, in
Svevo, è
onnipresente. Eppure essa, con l’umorismo in generale, è molto freudiana (ma
anche molto
ebraica): Scherzando, si può dire di tutto, anche la verità, disse Freud.9 E
come osserva un
grande svevista Brian Moloney: Svevo è raramente così serio come quando
scherza (Moloney
1998: 26). È degno di notare che psicanalisi e umorismo sono strettamente
connessi anche
nell’ambito della cultura moderna: basti pensare all’opera – sia
cinematografica che letteraria
– di Woody Allen.
Come interpretare questo “freudianismo” pre-freudiano di Svevo?
In una delle sue deliberazioni su Freud lo scrittore triestino disse: quale
scrittore
potrebbe rinunziare di pensar almeno la psicanalisi?. Infatti, la psicanalisi
era per Svevo lo
strumento letterario, uno strumento a cui era diretto durante tutto il suo
intinerario letterario.
Le teorie freudiane potevano essere soltanto la conferma di quello che Ettore
Schimtz aveva
intuito già molto prima. Dice Girogio Voghera:
Credo comunque che sia difficile stabilire con certezza se l’influenza di
Freud su Svevo sia passata in parte per il
tramite di Weiss o no; o se magari ciò che c’è di ‘freudiano’ in Svevo non
derivi affatto da Freud, bensì dallo
spontaneo maturarsi in Svevo stesso gli elementi analoghi a quelli che
spinsero Freud a giungere a certe sue
concezioni (Voghera 1985: 17).
Forse è un’intuizione della formazione ebrea nella tradizione mitteleuropea?
Ha ragione
Lionel Trilling, nel suo saggio Freud and Literature, dicendo che teorie
freudiane erano una
direzione del pensiero, un prodotto dello Zeitgeist di questo tempo,
anticipato dalle grandi
rivoluzioni filosofiche di Schopenhauer e Nietzsche (Trilling 1940: 34-35),
di cui Ettore
9
Freud sviluppa il tema dell’umorismo in sua relazione con il subconscio nel
1905 in Der Witz und seine
Beziehung zum Unbewussten, dove presenta la teoria su diversi tipi
dell’umorismo.
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Schmitz era un grande ammiratore – il fatto che è molto rivelatorio. Qui si
dovrebbe osservare
che Nietzsche, ammirando il vitalismo della religione giudaica, disse che la
psicologia
europea aveva bisogno di un po’ del giudaismo: egli accusava la filosofia
greca di essere
troppo orientata sulla mente e per questo la cultura cristiana sviluppò una
falsa percezione del
comportamento umano (Heinze 2004: 66).
Infatti, si può identificare alcuni predecessori di Freud, a parte dei due
filosofi
tedeschi, che potevano influenzare lo scrittore triestino. Tra loro si piazza
soprattutto Charles
Baudouin con la seconda scuola di Nancy di cui novità sta nel consentire
anche al malato di
intervenire su se stesso (Nay 2008: 83). Il ruolo molto importante nello
sviluppo intellettuale
dello scrittore triestino svolse anche Jean-Martin Charcot, di cui Svevo
scrisse: Io pubblicai
Senilita’ nel 1898 e Freud non esisteva o in quanto esisteva si chiamava
Charcot - tale
dichiarazione sembra suggerire che le teorie freudiane fossero secondarie o
forse
insignificanti. Con Charcot si apre uno spiraglio all’irrazionalità, ovvero
guardare a una
disciplina che conosce, in questi anni, molti seguaci, lo spiritsmo (Nay
2008: 72).10 Ettore
Schmitz fa anche tutto per diminuire il ruolo della psicanalisi nella sua
opera, addirittura
parlando di James Joyce e dicendo che egli: ignorava del tutto la
psicanalisi. Sorprende la
determinazione con cui lo annuncia, spiegando che l’irlandese aveva troppo
scarsa
conoscenza del tedesco per leggere Freud, che però non è vero.11 Alcuni
critici, con cui sono
d’accordo, vedono in tale atteggiamento la voglia di negare qualsiasi
influsso della psicanalisi
nella propria opera (Debenedetti 1987: 588). Mario Lavagetto suggerisce che
la fretta con cui
Svevo si mette al sicuro può apparire [...] come un’ulteriore prova di
resistenza (Lavagetto
1975: 43). Era Svevo nello stato di negazione? Tutto quello “rumore” per la
psicanalisi si
potrebbe inquadrare nel concetto, capito in modo ampio, di Harold Bloom
dell’ansia
dell’influenza, o... nella psicanalisi stessa. Molto rumore, tornando ai
termini shakespeariani,
non è, però, per nulla. Comunque sia, la presenza di psicanalisi e il modo in
cui viene
presentata nelle opere sveviane testimonia la eccezionale intelligenza dello
scrittore triestino
in rapporto alla delega da lui fatta alla scrittura che anticipa la tesi
della terapeucità del
raccontare (Pavanello 2008: 129).
Concludendo, si deve dire che l’influsso di Freud su Svevo era forse più
grande che lo
scrittore fosse pronto ad amettere. I fatti indicano una profonda conoscenza
delle teorie
freudiane e le prove di diminuire il ruolo del viennese da parte di Svevo
falliscono.
Nondimeno, come Svevo stesso osserva, un rapporto fra filosofo e artista è
come matrimonio
10
11
a questo proposito è interessante osservare che ne La coscienza di Zeno viene
descritta una serata spiritistica.
È stato provato che James Joyce teneva una copia del opera di Freud nella sua
libreria triestina.
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legale perché [...] come il marito e la moglie producono dei bellissimi
figliuoli (Nay 2008:
46). Nella psicanalisi Svevo trova la propria intuizione verbalizzata, un
modo per scomporre
l’uomo moderno, per decostruirlo, servendosi del linguaggio di sintomi, di
prostrazioni, di
cronico inadeguarsi alla realtà quotidiana (Lavagetto 1975: 191). Svevo
riduce la coscienza
umana a un disordine, incertezza, inettitudine, una vera malattia che
rispecchia il caos del
mondo moderno, e la incarna in Zeno che invero è tale “bellissimo figliuolo”
di un filosofo e
di un artista. Svevo scopre tutto questo da solo ma Freud gli suggerisce il
metodo. Freud offre
la teoria, Svevo la mette in pratica. Il risultato non è, però, come vorrebbe
la premessa. La
pratica deforma la teoria. Ma la rende più umana.
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Ewa Nicewicz
Università di Varsavia/ Università degli Studi di Padova
Il caso Baricco. Lo scrittore e il panorama della super-offerta
attuale
1. Perché Alessandro Baricco?
Nel panorama culturale dell’Italia contemporanea Alessandro Baricco occupa
senz’altro un posto di primo piano, nonostante la sua opera e le sue attività
continuino a
suscitare reazioni assai contrastanti. Ma, indipendentemente dal giudizio di
valore, la figura
dello scrittore torinese è un ottimo esempio per illustrare l’attuale
situazione letteraria. Le sue
numerose iniziative avviate nel campo della cultura, discutibili ma non
insignificanti, non
sono lontane da quelle intraprese da altri autori odierni (ad es. Sandro
Veronesi, Carlo
Lucarelli, Dario Voltolini, Tiziano Scarpa). Alcuni anni fa Margherita Ganeri
ha parlato di un
“caso Eco”: a mio avviso, non sarebbe azzardato parlare, oggi, di un “caso
Baricco” (sia per la
sua produzione letteraria, sia per la sua posizione come intellettuale),
intendendo cioè questo
autore come esemplare di un fenomeno più ampio.
Lo conferma in qualche modo anche Alberto Casadei nel suo Stile e tradizione
nel
romanzo italiano contemporaneo (2007), riferendosi però anzitutto alla
poetica del torinese. A
dire dello studioso, dopo il postmodernismo ‘echiano’, di stampo ‘citatorioallusivo’ ovvero
‘ludico-parodico’ che inizia con la pubblicazione de Il nome della rosa
(1980), dalla metà
degli anni Novanta, nella letteratura comincia a prevalere il ‘modelloBaricco’ che pur
essendo per molti aspetti debitore di quello precedente «punta assai meno
sull’ironia citatoria
e intellettualistica e assai più sulla rimodulazione dei sentimenti
attraverso codici diversi»
(Casadei 2007: 29). Formatosi negli anni Ottanta, Baricco è, secondo Casadei,
un romanziere
che dimostra notevole abilità a cogliere gli elementi adatti a garantirsi un
pubblico costante in
quello che lo studioso chiama il «panorama della super-offerta attuale».
Ma l’attività dello scrittore (ricordiamo che Baricco esordisce come
romanziere nel
1991 con Castelli di rabbia) risulterà ancora più interessante se
consideriamo il fatto che essa
coincide con la dichiarata crisi della critica letteraria e con il
cambiamento del mercato
editoriale, cioè con un periodo di passaggio e trasformazione culturale che
ha luogo all’inizio
degli anni Novanta.
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2. La svolta degli anni Novanta
Della crisi della critica in Italia si comincia a parlare a partire degli
anni Novanta
quando esce il libro di Cesare Segre Notizie dalla crisi (1993) – nel
momento, cioè, che
coincide con il tramonto dello strutturalismo, con il trionfo
dell’ermeneutica e con
l’affermazione della centralità del lettore1. Il rapporto tra critici e
scrittori assume spesso la
forma di un ostinato conflitto generazionale, una guerra dichiarata, in cui i
maestri vengono
accusati di un atteggiamento antimoderno e ostile ad ogni manifestazione
della cultura di
massa. A loro volta i cosiddetti ‘giovani narratori’ sono incolpati di
ridurre la letteratura a
puro gioco intertestuale, a «intrattenimento, decorazione del vuoto» (La
Porta 2006: 74). In
questo contesto è di nuovo esemplare il ‘caso Baricco’: la polemica del 2006,
nata sulle
pagine de «La Repubblica» con Giulio Ferroni si è svolta proprio su questi
temi2.
Tuttavia il campo critico non è l’unico a subire trasformazioni e, per
completare lo
scenario delle vicende, occorre soffermarsi anche su quello che succede nel
mercato
editoriale. Indubbiamente proprio in quel periodo cambia il paradigma
culturale dell’intera
società: dall’impegno pubblico e dalla solidarietà si passa all’edonismo e
all’individualismo.
Cresce il numero di lettori ma acquistano spazio soprattutto la letteratura
‘evasiva’ e
‘consolatoria’, non quella saggistica. A differenza della critica, col passar
degli anni l’editoria
continua ad espandersi prima nel settore televisivo e poi in quello digitale,
acquistando così
mezzi per influenzare l’intera vita culturale, sociale ed economica. Vale
forse la pena di
sottolineare che con l’arrivo degli anni Novanta il libro occupa una
posizione sempre più
marginale nell’industria del tempo libero, soppiantato dalla televisione e
poi da Internet. Gli
scrittori che vogliono pubblicare devono farsi notare e conoscere al pubblico
promettendo
così agli editori un immediato successo di mercato, in poche parole devono
proporsi come
star mediatiche.
In tal modo lo scrittore-intellettuale umanista e il critico della cultura
lasciano il posto
allo scrittore-intrattenitore. Ed è allora che gli scrittori cominciano ad
autopromuoversi
sfruttando vari canali mediatici3. Baricco, ad esempio, idea e conduce due
fortunate
trasmissioni per Rai Tre: L’amore è un dardo (1993) e Pickwick, del leggere e
dello scrivere
1
Cfr. R. Ceserani (1999). Introduzione a Guida allo studio della letteratura.
Roma-Bari: Laterza, str. VIIXXXV.
2
Cfr. A. Baricco (2006). Cari critici, ho diritto a una vera stroncatura, [w:]
«La Repubblica», 1.03.2006, str. 1;
G. Ferroni (2006). Caro Baricco, io la recensisco ma lei non mi legge, [w:]
«La Repubblica», 2.03.2006, str. 46;
C. Taglietti (2006). Baricco: «Imparo poco dalle stroncature», [w:] «Corriere
della Sera», 9.09.2006, str. 37.
3
Cfr. E. Zinato (2005), Senza mestiere, fuori testo: la critica dalla crisi
alla responsabilità, [w:] «Moderna»,
VII, 2005, str. 23-42.
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(1994). Accanto a lui, in quel periodo inaugurano in televisione una stagione
di spettacoli in
cui si presentano anche Aldo Busi, Sandro Veronesi o Vittorio Sgarbi.
3. Nella dorata giungla delle lettere
Per mettere a fuoco gli aspetti sociologici della questione, si può
utilizzare il
contributo del sociologo Pierre Bourdieu, ideatore del concetto di ‘campo
sociale’4 («uno
spazio in cui agiscono delle forze che provocano effetti di campo, in cui si
osservano cioè dei
comportamenti sociali volti al mantenimento o alla sovversione degli
equilibri di dominio
esistenti», Baldini 2007: 9) e della nozione di habitus («espressione
dell’inconscio sociale che
ci abita e agisce nella nostra prassi quotidiana», Baldini 2007: 13). Secondo
lo studioso
francese la società in cui viviamo, seppure non sempre in modo palese,
condiziona il nostro
essere ed incide sui modi con i quali vediamo il mondo, vi agiamo e reagiamo.
Di
conseguenza chiunque scriva, abbia rapporti con case editrici o intraprenda
altre attività quali
il teatro o il cinema, sta conducendo una lotta per decidere chi abbia il
diritto di definirsi
scrittore, che cosa sia l’autentica letteratura, la poesia, il canone, ecc.
In queste circostanze il
ruolo dell’habitus sta nell’orientare le azioni dello scrittore per
conquistare l’affermazione
sociale. Non a caso proprio Baricco definirà il rapporto che lega lo
scrittore ed i critici come
«una specie di duello che va vissuto a schiena diritta da tutti e due»
(Telese 2009).
In questa prospettiva, aggiungiamo, molto favorevole agli scrittori, tante
delle
iniziative da loro intraprese, trovano spiegazione proprio nella teoria di
Bourdieu secondo la
quale gli intellettuali sono guidati da rapporti di continua concorrenza e
agiscono l’uno contro
l’altro per garantirsi una posizione dominante. Sulla loro produzione
influisce anche il
mercato letterario, da cui dipende la loro esistenza e che li “costringe” a
diventare produttori
di merce. La conflittualità e l’ambiguità costituiscono quindi due
caratteristiche fondamentali
del campo – certi comportamenti e certe prese di posizioni degli scrittori
vengono determinate
dallo stato del conflitto letterario, diventano il suo risultato.
4. «Artista a 360 gradi»
Considerati questi tre fattori di ordine critico, editoriale e sociologico,
sarà più facile
comprendere la varietà degli interessi che vedono oggi protagonisti molti
autori italiani. Più
che mai, infatti, la figura dello scrittore si pone come poliedrica e il suo
profilo biografico e la
sua carriera sfuggono, non di rado, ad una descrizione univoca.
4
Cfr. P. Bourdieu (1978). Campo del potere e campo intellettuale. Cosenza:
Edizioni Lerici.
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Definito «artista a 360 gradi» (Rush 2005), «l’uomo che ha abbattutto le
barriere
architettoniche fra il cinema e la letteratura» (Telese 2009), Baricco sembra
adempiere
pienamente a questi postulati. Scrittore, giornalista, critico musicale,
presentatore radiofonico,
ideatore e conduttore dei programmi televisivi, fondatore d’una scuola di
scrittura, insegnante,
traduttore, editore, sceneggiatore e infine regista, egli esercita un forte
influsso sul pubblico
(sulla società in generale) ed è in grado di cambiare l’attuale orizzonte
culturale, non solo
grazie alla parola scritta, ma soprattutto tramite le altre sue attività
culturali, come i
programmi televisivi, le letture in pubblico, l’insegnamento. Nel corso di
tutti i dibattiti che lo
coinvolgono e di tutte le polemiche di cui è stato protagonista (soprattutto
quella del 2006),
non è mai stato abbastanza sottolineato il fatto che non è solo uno
scrittore, ma che ormai
(essendo editore, direttore della scuola di scrittura, regista, ecc.) fa
parte anch’egli del grande
meccanismo culturale nei confronti del quale ogni tanto gli capita di
rivolgere qualche critica.
La sua posizione di vantaggio deriva senz’altro dalla conoscenza della
società di
massa e dei suoi gusti e dal fatto di aver scoperto che non bastava più la
semplice saldatura fra
autore, libro e pubblico: oggi la letteratura fa fatica ad aprirsi la strada
senza essere aiutata da
altri canali mediatici che garantiscono un successo quasi immediato. Baricco
riesce a fare di
questo sapere un tesoro e a trarne i vantaggi. A suo favore giocano anche i
tempi e la debole
posizione degli intellettuali: è questa, implicitamente, un’accusa forte, ma
che trova conferma
nel fatto che egli occupa posti che erano vuoti, colonizza spazi culturali o
scolastici senza
essere ostacolato o essersi schierato con nessuno. Sin dall’inizio Baricco
dimostra una
straordinaria capacità di occupare nicchie culturali esistenti – lo
confermano soprattutto i suoi
fortunati programmi televisivi: L’amore è un dardo, Pickwick, nonché la
fondazione della
scuola di scrittura.
Sia la prima trasmissione, dedicata alla lirica, sia la seconda, incentrata
sul tema della
scrittura e sull’idea del libro come salvezza, partono dal presupposto che
vale la pena di
spiegare la cultura che ci circonda e che fa parte della nostra vita
quotidiana, poiché non
sempre capiamo ciò che ascoltiamo/leggiamo e che per abitudine ripetiamo. Lo
scopo è quello
di far vedere ai telespettatori che la musica e la letteratura non devono per
forza significare
noia e fatica, bensì divertimento e passione. Baricco darà una spiegazione
molto personale
dell’ascolto o della lettura, da una parte entrando nell’opera, dall’altra
ponendosi dalla parte
del pubblico, presentandosi come uno spettatore/un lettore qualsiasi che fa
fatica a cimentarsi
con alcuni argomenti. Non solo parlerà con franchezza delle difficoltà con
cui deve misurarsi
leggendo o ascoltando, ma spesso si farà portavoce del pubblico “medio”,
costringendo gli
ospiti invitati a rispondere alle domande “scomode” (ad es. perché vale la
pena di perdere il
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tempo per leggere la poesia?). Saprà, cioè, come sedurre il pubblico e
conquistare la sua
fiducia. Lo scrittore non nasconde che sono stati proprio quei due programmi
a procurargli
una certa fama, a dargli la soddisfazione per il lavoro effettuato, a
consolarlo nei momenti
difficili delle stroncature: «Grandissima fatica, un’ansia divorante, però
essere riconosciuto
dal casellante dell’autostrada che ti chiede un consiglio sul libro da
comprare è un’esperienza
che per un po’ placa e gratifica» (Pasti 1994).
La conoscenza del mercato culturale nonché un intuito perspicace hanno
contribuito
anche al successo della sua iniziativa didattica. Infatti, Baricco è stato il
primo in Italia a
capire le potenzialità delle scuole di scrittura, luoghi che sarebbero potuti
essere alternativi a
quello che proponeva all’epoca l’istruzione letteraria offerta dalle
istituzioni. L’idea
fondamentale era che «l’insegnamento dovesse essere emozione. E
l’apprendimento anche».
(Baricco & Tarasco & Vacis 2003). Così, senza un’ombra di concorrenza e senza
ostacoli, è
nata la Scuola Holden, di anno in anno occupando spazi sempre più larghi,
fino a
monopolizzare in un certo senso questo campo. L’eccezionalità dell’istituto
sta nel porsi
l’obiettivo di insegnare a raccontare il mondo, non solo attraverso le forme
tradizionali di
narrativa, il romanzo e il racconto, bensì usando le forme di espressioni
nuove, tra cui il film o
il teatro, e anche la pubblicità o il sito web. A parte organizzare i master
biennali e i corsi on
line, di diversa durata e modalità di partecipazione, la scuola è attiva sia
all’interno delle
proprie strutture (con corsi per insegnanti, ragazzi e bambini), che fuori di
esse (è presente e
partecipa a tanti eventi, come festival di letteratura, fiere di libro,
organizzando workshop,
concorsi e incontri con scrittori), mentre un sistema studiato in ogni
dettaglio dà luogo e
favorisce tante sinergie. Ciò che qui pare essere particolarmente importante
è che Baricco è
riuscito a creare un organismo che oggi è autonomo, vive la sua vita su vari
livelli, spesso
indipendentemente dal loro fondatore. Molte iniziative sono il frutto dei
suoi allievi ed è
spesso a questi che vengono affidati nuovi compiti5.
Emblematico per il nostro discorso sarà anche l’abbandono avvenuto nel 2005
della
casa editrice Rizzoli e la conseguente entrata dello scrittore torinese
nell’universo della
Fandango, nata come casa di produzione cinematografica e oggetto di numerose
trasformazioni, nell’arco di quasi vent’anni colonizzando e accumulando in un
progetto unico
quasi tutti gli spazi culturali: dal cinema, editoria, discografia, radio,
televisione a Internet.
L’accesso allo spazio ‘fandanghiano’ ha aperto a Baricco non poche porte.
L’allargamento del
team della Fandango è diventato anche una fonte di possibili sinergie che
sarebbero potuti
5
A questo proposito andrebbero menzionati almeno: Evelina Santangelo,
Marinella Contenti, Ilario Meandri,
Lea Maria Iandiorio.
63
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nascere tra casa editrice e casa cinematografica. Sta di fatto che l’entrata
dell’autore torinese
nel mondo creato da Domenico Procacci, gli ha permesso di realizzare i suoi
film: Seta
(2007), di cui è stato autore della sceneggiatura e della sua prima vera e
propria pellicola,
Lezione 21 (2008); numerosi sono anche gli esempi di collaborazione con la
scuola Holden.
Per completare il panorama abbozzato vale forse la pena soffermarsi ancora
sulle
impressionanti capacità imprenditoriali di Baricco. Esemplare per il nostro
discorso sarà qui
l’uscita del suo ultimo romanzo Emmaus (2009).
L’arrivo del libro viene annunciato alcuni mesi prima, in modo alquanto
enigmatico,
sulle pagine de «La Repubblica»: «Il nuovo romanzo di Alessandro Baricco si
chiamerà
Emmaus e uscirà in autunno per Feltrinelli. [...] la data esatta di uscita è
il 4 novembre 2009».
Infatti, al lettore incuriosito viene svelato soltanto il titolo e la data di
pubblicazione. Qualche
settimana prima del giorno atteso, l’editore rivela un altro indizio, cioè
una frase-chiave:
«Abbiamo tutti sedici, diciassette anni – ma senza saperlo veramente, è
l’unica età che
possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato». Come si può prevedere,
oltre a far
nascere varie ipotesi sulla trama, questo rebus non fa altro che suscitare
innumerevoli
polemiche e stuzzicare l’appetito dei fan dello scrittore torinese: di fatto,
in alcune librerie on
line il tanto aspettato volume sarà esaurito ancora prima della magica data
del 4 novembre.
Anche questa volta, inoltre, alla pubblicazione seguono le apparizioni sui
media (ad
esempio in Che tempo che fa), il reading-incontro col pubblico e una piccola
performance
promozionale6. Così, dopo la lettura spettacolarizzata nel trentino Parco di
Paneveggio nel
2005 e la lezione al Festival di Mantova del 2008, giungeremo alla
distribuzione romana nella
Feltrinelli di Largo Argentina, fissata per la notte tra il 3 e il 4
novembre. La lunga attesa dei
lettori viene infine appagata con l’apparizione dello stesso scrittore: a
firmare le copie di
Emmaus sarà Baricco in persona, accompagnato dalla moglie e da Gabriele
Vacis. L’autore
torinese è riuscito, come sempre, a incuriosire il pubblico e ad attirare la
sua attenzione. Tra
scandalo e ammirazione, anche l’ultimo romanzo, similmente ai testi
precedenti, per lungo
tempo si troverà in testa alle classifiche di vendita7.
6
Cfr. Dell’avvenimento ci vengono date due scherzose descrizioni, firmate da
Paolo Bianchi e
Giordano Tedoldi: P. Bianchi (2009). La strega Baricco vien di notte. Come
Harry Potter, [w:] «il
Giornale.it», 31.10.2009; G. Tedoldi (2009). San Baricco appare ai fedeli di
Emmaus, [w:] «Liberonews.it», 5.11.2009.
7
Cfr. almeno: Le top five, [w:] «La Repubblica», 14.11.2009, str. 14; Top ten
i libri più venduti, [w:] «La
Repubblica», 05.12.2009, str. 50.
64
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5. Al posto della conclusione
Cercando di tirare le somme, si potrebbe azzardare l’ipotesi che oggi
sembrano del
tutto finiti i tempi in cui lo scrittore si occupava esclusivamente della
scrittura e cambiava
l’orizzonte culturale solo grazie alla parola scritta. D’altronde, anche
altre figure del campo
culturale, cioè quella del critico e del lettore hanno subito un’evoluzione.
Particolarmente
interessante pare ad esempio il recente fenomeno del lettore che, nei blog,
si trasforma in
critico, nonché quello del critico che diventa volentieri scrittore. Il
passaggio dalla saggistica
alla narrativa costituisce infatti una delle caratteristiche della produzione
letteraria degli ultimi
tempi. L’argomento, vasto e interessante, riguarda molti protagonisti della
vita culturale del
Paese, come Romano Luperini, Alberto Casadei o Marco Santagata, Alberto Asor
Rosa, e
molti altri e potrebbe essere studiato anche come momento privilegiato per
una verifica
dell’odierna situazione della critica e della letteratura.
Bibliografia
Baldini, Anna (2007). Pierre Bourdieu e la sociologia della letteratura, [w:]
«Allegoria», n. 55, a. XIX,
gennaio-giugno 2007, str. 9-25.
Baricco, Alessandro (2006). Cari critici, ho diritto a una vera stroncatura,
[w:] «La Repubblica», 1.03.2006, str.
1.
Baricco, Alessandro, Tarasco, Roberto, Vacis, Gabriele (2003). Balene e
sogni. Leggere e ascoltare.
L’esperienza di Totem. Torino: Einaudi.
Bianchi, Paolo (2009). La strega Baricco vien di notte. Come Harry Potter,
[w:] «il Giornale.it», 31.10.2009.
Bourdieu, Pierre (1978). Campo del potere e campo intellettuale. Cosenza:
Edizioni Lerici.
Casadei, Alberto (2007). Stile e tradizione nel romanzo italiano
contemporaneo. Bologna: Il Mulino.
Ceserani, Remo (1999). Introduzione a Guida allo studio della letteratura.
Roma-Bari: Laterza, str. VII-XXXV.
Ferroni, Giulio (2006). Caro Baricco, io la recensisco ma lei non mi legge,
[w:] «La Repubblica», 2.03.2006, str.
46.
Ganeri, Margherita (1991). Il “caso” Eco. Palermo: Palumbo.
La Porta, Filippo, Leonelli, Giuseppe (2007). Dizionario della critica
militante. Letteratura e mondo
contemporaneo. Milano: Bompiani.
Le top five, [w:] «La Repubblica», 14.11.2009, str. 14.
Pasti, Daniela (1994). Le passioni di Pickwick. Intervista ad Alessandro
Baricco, [w:] «La Repubblica»,
27.07.1994, str. 27.
Rush, Kay (2005). Intervista ad Alessandro Baricco, Tele 5 Ĕspana.
Segre, Cesare (1993). Notizie dalla crisi. Dova va la critica letteraria?.
Torino: Einaudi.
Taglietti, Cristina (2006). Baricco: «Imparo poco dalle stroncature», [w:]
«Corriere della Sera», 9.09.2006, str.
37.
Tedoldi, Giordano (2009). San Baricco appare ai fedeli di Emmaus, [w:]
«Libero-news.it», 5.11.2009.
Telese, Luca (2009). Faccia a Faccia con Alessandro Baricco – l’intervista
registrata il 7 gennaio 2009 per Rai
Tre.
Top ten i libri più venduti, [w:] «La Repubblica», 05.12.2009, str. 50.
Zinato, Emanuele (2005). Senza mestiere, fuori testo: la critica dalla crisi
alla responsabilità, [w:] «Moderna»,
VII, 2005, str. 23-42.
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Gianluca Olcese
Università di Wrocław
Le maschere della Baìo di Sampeyre
1. Introduzione
La Baìo è un’antica tradizione che si svolge ogni cinque anni a Sampeyre,
nelle Alpi
Occidentali in provincia di Cuneo; viene vissuta dalla popolazione come una
commemorazione mascherata della cacciata dei Saraceni dal Piemonte, ma i suoi
precedenti si
possono rintracciare nelle «abbadie dei folli», associazioni giovanili sorte
in epoca medievale
allo scopo di «folleggiare».
Il periodo della celebrazione va dall’Epifania – quando viene proclamata
dagli Alum
(gli organizzatori della festa) – al Giovedì Grasso, all’interno del quale si
svolge durante tre
giorni un corteo itinerante per il paese, cui prendono parte i componenti
della comunità di
sesso maschile. Nel territorio che circonda le Alpi Occidentali, si ritrovano
analoghe
maschere, ad es. in Val d’Aosta, durante la «Coumba Freida» o, sempre in Val
Varaita, nella
«Beò» di Bellino. Altri paralleli con questi gruppi mascherati, si possono
tracciare con le
Männerbund, analizzate da Dumézil nella sua opera Mythes et dieux des
Germains, nonché
con i Benandanti friulani di cui si è occupato Carlo Ginzburg in Storia
notturna, fino agli
studi incentrati sui riti stagionali balcanici e slavi condotti da Mircea
Eliade, tra cui quello
ancora oggi presente in Romania nella società dei căluşari, analizzato
dettagliatamente in
Occultismo, stregoneria e mode culturali.
Ogni gruppo mascherato presenta peculiarità proprie, inoltre il corteo mostra
determinate differenze nelle quattro frazioni di Sampeyre: Piasso (il
centro), Calchesio, Rore
e Villar. E’ importante notare che, in base alla documentazione raccolta da
De Angelis (I
documenti della Bahìo conservati nell’archivio comunale di Sampeyre) inerente
la Baìo, che
ne indica la presenza almeno dal sec. XVII, si può desumere che a un certo
punto lo
svolgimento della manifestazione si sia cristallizzato e i costumi di foggia
militare abbiano
smesso di essere adattati ai tempi correnti.
L’ordine del corteo è il seguente, con alcuni particolari comuni: Cantinìe e
Arlequin, sono
presenti in ogni corteo, e non hanno un posto fisso; il Giudice è presente
solo a Villar, ma non
partecipa al corteo, appare solo durante il processo che ha luogo l’ultimo
giorno di
manifestazione.
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
Piasso (centro): Cavalìe, Serazine, Segnourine, Tambourìn, Sapeur, Grec,
Escarlinìe,
Segnouri, Espous, Sounadur, Alum, Uzouart, Moru e Turc, Lou Viei e la Vieio.

Calchesio: Tambourn Majour, Cavalìe, Serazine, Segnourine, Tambourìn, Sapeur,
Grec, Escarlinìe, Espous, Sounadur, Alum, Uzouart, Lou Viei e la Vieio.

Rore: Serazine, Segnourine, Tambourìn, Sapeur, Grec, Escarlinìe, Segnouri,
Espous,
Sounadur, Alum, Uzouart, Lou Viei e la Vieio.

Villar: Tambourn Majour, Serazine, La Timbalo, Tambourìn, Sapeur, Escarlinìe,
Segnouri, Espous, Sounadur, Alum, Uzouart, Granatìe, Lou Viei e la Vieio.
2. Descrizione delle maschere
Cavalìe: presenti solo nelle Baìo di Sampeyre e Calchesio. Sono i soldati a
cavallo.
A Sampeyre sono in quattro e indossano un costume nero con una fascia
trasversale
ricamata e un elmo da dragone napoleonico; questa uniforme ricalca
apertamente l’uniforme
del Cavaliere dell’esercito di Savoia di fine XIX secolo. La copia, sulle
maniche della giacca
mostra un ornamento rosso a zig-zag che si ritrova in molti altri costumi,
nelle antiche
cerimonie pagane per l’avvento della primavera simboleggiava l’acqua e la
pioggia, a scopo
apotropaico. La bardatura del cavallo è prevalentemente rossa con una croce
sopra il muso.
A Calchesio i Cavalìe sono due. Il verde, colore prevalente della divisa, è
anche il
colore di San Defendente, patrono del paese. Indossano un elmo uncinato di
foggia romana e
reggono in mano un’alabarda, sul petto una fascia trasversale colorata. I
cavalli sono bardati
di verde con anteriormente una croce rossa in campo giallo, attorno al collo
delle borchie da
cui pendono piccoli campanelli, una coccarda ricamata è posta tra le
orecchie.
Tambourn Majour: apre la sfilata a Calchesio e Villar. È il solo personaggio
a
Calchesio ad essere singolo. È vestito di nero con la giacca a code, e i
pantaloni hanno una
banda rossa: è un abito elegante. Entrambi i Tambourn tengono in mano una
lunga asta che
muovono ritmicamente; a Calchesio in cima ad essa si trovano delle coccarde,
mentre a Villar
delle stelle da cui scendono moltissimi nastri colorati.
A Calchesio indossa una banda trasversale colorata sulla giacca e una fascia
di seta
orizzontale intorno alla vita, con al centro una coccarda dalla quale pendono
dei bindel che
arrivano all’altezza del ginocchio. Sulla testa porta un cappello a cilindro
nero con molti nastri
attorno e la scritta “Liberté”.
A Villar il tipo di abbigliamento ha maggiori analogie con una divisa
militare: porta le
spalline dorate sulla giacca con due bande trasversali incrociate; il
copricapo è un colbacco
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nero con un pennacchio rosso alla sommità e con uno specchietto al centro
circondato da
nastri.
Serazine: rappresentano le bambine che, sventolando i loro fazzoletti
bianchi,
avvisavano la gente del posto degli spostamenti dei Saraceni. Sono i bambini
più piccoli a
recitare questa parte: indossano un abito rosso con ricami di altri colori –
bianco a Villar –
legato in vita con un bindel che termina con una gonna lunga fino ai piedi;
sulle spalle hanno
una mantellina variopinta e sulla testa una cuffia colorata; agitano dei
grandi fazzoletti bianchi
per tutta la durata del corteo.
Segnourine: interpretate sempre da bambini, ma più grandi rispetto alle
Serazine,
questo personaggio non c’è a Villar. L’abito è bianco di foggia ottocentesca
con la gonna
lunga fino ai piedi; è ornato con pizzi e nastri che formano il motivo a zigzag; in testa
portano un cappello decorato a tesa larga e in mano sventolano un grosso
ventaglio.
La Timbalo: è il suonatore di grancassa e si trova esclusivamente a Villar.
Ha un
completo nero con una fascia rossa sui pantaloni; dalla camicia bianca spunta
un papillon
nero; porta una fascia trasversale ricamata come anche la fascia che regge la
grancassa; il
copricapo è un cappello a bombetta circondato da un bindel e una piccola
coccarda; la
grancassa è ornata di fiocchi colorati.
Tambourìn: hanno il compito di aprire la giornata facendo rumore per le
strade della
propria frazione del paese per chiamare i partecipanti alla sfilata e
attirare l’attenzione degli
abitanti; durante il corteo scandiscono la marcia con il costante rullo di
tamburi. Sono
impersonati da bambini, più numerosi a Sampeyre dove vi sono anche due adulti
che li
precedono e danno il ritmo di battuta.
A Sampeyre, Calchesio e Villar indossano un’uniforme militare nera con le
spalline
frangiate e un cappello ornato con nastri e con un pennacchio che a Villar è
di coda di ghiro o
di pelo di animale; sulla giacca è presente il motivo a zig-zag;
trasversalmente e alla vita c’è
una fascia colorata, ricamata con fiori con una coccarda; a Calchesio e
Villar portano un corto
grembiule bianco sul davanti; il tamburo è decorato con nastri e coccarde.
A Rore il tricolore è predominante nel costume: usano pantaloni di stoffa
verdi e rossi,
e bianca è la camicia con decorazioni a zig-zag sugli uni e sull’altra; il
tamburo è lateralmente
decorato con il tricolore, così come la fascia trasversale sulla camicia.
Sapeur: hanno una barba folta e non sempre finta, come nell’immaginario
collettivo
gli uomini che lavorano nei boschi. Rappresentano i guastatori dell’esercito
popolare, che
hanno la funzione di liberare la strada dai tronchi che impediscono il
cammino: nella visione
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storica della festa sono gli impedimenti che i Saraceni lasciavano dietro il
loro passaggio per
rallentare il cammino degli inseguitori.
La divisa è nera con pantaloni neri, ma a Sampeyre sono bianchi, e un
grembiule
bianco con dei nastri colorati cuciti ai lati; anche sul loro costume si
trovano i ricami a zigzag, che a Villar si incrociano per formare un motivo
romboidale; indossano una fascia
trasversale colorata e una attorno alla vita, con una coccarda da cui pendono
altri bindel; in
testa hanno un colbacco con visiera sul davanti decorato con fiocchi e
bindel, che nelle Baìo
di Calchesio e Villar hanno uno specchietto al centro con lo scopo
propiziatorio di scacciare
gli spiriti maligni. L’ascia è decorata con dei fiocchi alla sommità della
parte metallica e dei
nastri colorati ad avvolgere il manico; la lama è colorata di rosso, su di
essa è dipinta una S
bianca come l’iniziale di Sapeur.
I tronchi di legno erano gli stessi che le antiche Abbadie dei folli usavano
per sbarrare
il cammino delle coppie di sposi novelli per esigere il pagamento della
gaggio: una sorta di
tassa per i festeggiamenti; febbraio era anche il mese dei fidanzamenti e dei
matrimoni,
perché è il mese che precede la primavera e anticamente i lavori dei campi in
questo periodo
erano più leggeri: ancora presto per la semina e alla fine dei compiti
invernali.
Grec: il costume dei Grec ricorda quello della mesnie Hellequin, con la
camicia
bianca e il berretto che pende, che si ritrova nelle descrizioni e nelle
raffigurazioni dei gruppi
di anime dei morti di epoca medievale. Nella Baìo sono ex-prigionieri dei
Saraceni liberati
dalla popolazione, perciò si uniscono ai festeggiamenti per le strade; non
sono rappresentati
nel paese di Villar.
Indossano pantaloni alla zuava di diversi colori, le calze pesanti sopra ai
pantaloni,
anch’esse variopinte, sono di lana e arrivano fin sotto al ginocchio; la
camicia è bianca ornata
con nastri con cui si ritrova il ricamo a zig-zag; portano al collo un nastro
rosso e una fascia
legata intorno alla vita; sulla camicia dei Grec di Rore è applicato un cuore
rosso di panno da
cui scendono bindel colorati; portano un cappello floscio che pende
lateralmente con un lungo
pezzo di stoffa a cui sono attaccati dei nastri colorati e delle coccarde;
fumano in
continuazione da una lunga pipa.
Escarlinìe: il nome è traducibile con “scampanellatori”; rappresentano i
componenti
dell’esercito popolare che scacciarono i Saraceni con la loro mazza.
“Scarlin” nel dialetto
locale significa “campanello”, infatti le loro armi sono ornate di rumorosi
campanelli, per cui
sono costantemente tenute in movimento per produrre il massimo del rumore.
Più
probabilmente avevano la funzione di allontanare gli spiriti maligni
dell’anno passato o
dell’inverno e quindi propiziare l’arrivo della rinascita e della primavera:
a Rore da sopra la
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mazza spunta un cespo d’edera, le cui foglie sono verdi anche d’inverno;
negli altri paesi la
mazza è ricoperta da nastri e coccarde.
Indossano un’uniforme militare nera (tranne a Rore); l’uniforme ha le
spalline
frangiate rosse e dei ricami a zig-zag sulle maniche; sulla giacca portano
una fascia
trasversale. A Rore il vestito è nero con delle fasce rosse sugli orli, una
decorazione a zig-zag
rossa sui pantaloni e sulle maniche che si incrocia all’altezza delle spalle
con una coccarda
rossa; sul petto portano una fascia trasversale ricamata. Il berretto è da
bersagliere a tesa larga,
a Calchesio e Villar in cima si trova una coccarda con delle piume che
scendono, a Sampeyre
è ornato con vari bindel a scendere e delle coccarde in cima, mentre a Rore è
un basco
interamente coperto di nastri piegati e coccarde.
Segnouri: sono i ricchi signori; a Calchesio non sono rappresentati. Sono
tutti uomini,
tranne a Sampeyre dove si trova anche la figura della Segnouro, che indossa
un abito nero
ottocentesco con uno scialle di lana sulle spalle e in mano tiene un
ventaglio e un ombrello
parasole. Il Segnour indossa una giacca con le code, ha i pantaloni neri con
banda bianca;
porta sulla giacca una fascia trasversale e una in vita, e una coccarda
all’occhiello; il cappello
è una bombetta adornata con un bindel attorno, nella mano guantata di bianco
regge un
bastone da passeggio decorato con dei nastri arrotolati. A Villar il cappello
è sormontato da
un pennacchio blu e rosso, con una S di colore bianco da un lato.
Espous: gli sposi, sono più numerosi a Sampeyre. L’Espous indossa un abito
nero
elegante con le code e un “risolo”: la pettorina bianca tradizionale della
valle, adornata con un
nastro rosso a zig-zag; sulla giacca due fasce colorate, una trasversale e
l’altra attorno alla
vita; all’occhiello una coccarda colorata da cui pendono i bindel; in testa
porta un cappello a
cilindro con un nastro nella parte bassa, a Sampeyre e Calchesio indossa una
bombetta.
L’Espouzo indossa una lunga gonna di panno nero e un grande grembiule di
colore
viola, rosso o azzurro, fermato in vita da un nastro; sulla maglia nera porta
uno scialle di seta
ricamato a fiori con lunghe frange; sul petto sono appuntate una croce e un
cuore dorati di
piccole dimensioni; in testa indossa il “bandò”: una cuffia di pizzo bianco
tessuta al
“tombolo”.
Sounadur: sempre vicini agli sposi, suonano ininterrottamente le musiche
tradizionali
delle valli; possono anche non essere del luogo, in questo caso sono pagati.
I loro strumenti
sono: il violino, la fisarmonica e il clarinetto; indossano un completo nero
i cui pantaloni sono
ornati da una banda rossa; portano una fascia colorata con una coccarda messa
di traverso o a
circondare la vita, oppure le indossano entrambe; il cappello a bombetta ha
alla base un nastro
e una coccarda.
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Alum: sono i componenti dello “stato maggiore”: quelli che sono responsabili
dell’organizzazione e della buona riuscita dei festeggiamenti. Alum nella
parlata locale
significa “lampada”: il copricapo che portano è lo stesso dell’alta uniforme
dei carabinieri,
popolarmente chiamata “lucerna”, ma indossato al modo degli ufficiali
dell’esercito
napoleonico. Sono in numero di otto per ogni Baìo: due per ogni ruolo.
Rappresentano i capi
delle milizie popolari; nello specifico i ruoli sono: Tenent o Soutportobandiero, Capitani o
Portobandiero, Abà, Segretari, Tezourìe.
L’abbigliamento è pressoché analogo per ogni ruolo: a Sampeyre, Calchesio e
Rore gli
Alum indossano un abito nero bordato di rosso, con la differenza che a Rore
la decorazione sui
pantaloni, sui polsini e trasversalmente dietro la schiena è a zig-zag; a
Villar l’abito nero è
invece bordato di bianco con delle decorazioni a cerchio sui polsini; a
Sampeyre e Calchesio
portano una fascia decorata di nastri intorno alla vita, a Rore e Villar
invece è indossata
trasversalmente sul petto; portano una spada sul fianco.
La feluca ha un pennacchio blu e rosso in cima, è decorata con nastri
disposti a
formare dei fiori, tranne a Rore dove i nastri sono disposti concentricamente
a semicerchio; i
copricapi sono contraddistinti su un lato da lettere diverse.
Sono presenti alcuni aspetti peculiari per i diversi gradi dello “stato
maggiore”:
Tenent o Sout-portobandiero: è il grado più basso dello “stato maggiore”.
Portano
sulla feluca la lettera “T” per i Tenent tranne nella Baìo di Rore, dove c’è
una “S” di Soutportobandiero.
Capitani o Portobandiero: è il grado a cui sono promossi dopo cinque anni i
Tenent;
il loro compito è di portare la bandiera della Baìo, ed essendoci solo una
bandiera devono
passarsela l’uno con l’altro varie volte durante il corteo; la feluca
presenta la lettera “P”. A
Sampeyre e Calchesio hanno due fiocchi rossi sul bavero e a Rore una coccarda
sul petto; la
fascia ricamata è messa orizzontale sopra la giacca intorno alla vita e
presenta una coccarda,
mentre a Rore, è sotto la giacca con un fiocco rosso; portano un bastone da
passeggio
decorato i Portobandiero di Sampeyre, Calchesio e Villar.
La bandiera è diversa in ogni paese: a Sampeyre ha sfondo bianco con una
grande
croce di colore azzurro pallido, al centro è ricamata un’aquila dorata con
due teste che ha in
mezzo un cerchio con le chiavi di San Pietro, come il nome del paese; aquile
anche ai due
angoli opposti, e agli altri angoli le lettere iniziali di Sampeyre “S” e
“P”; a Calchesio la
bandiera è semplice, ha fondo giallo con una croce azzurra; quella di Rore è
molto colorata: al
centro c’è una croce bianca che arriva sino ai bordi e divide dei riquadri
alternati blu e rossi;
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quella di Villar è una croce azzurra in campo bianco; l’asta della bandiera è
decorata coi
bindel.
Abà: i comandanti in capo; il nome sta per “abate” e rimanda alle Abbadie dei
folli di
epoca medievale. Sono di pari grado tranne che a Sampeyre, che ospita sulla
propria piazza le
altre Baìo, per cui uno dei due è di grado superiore detto Abà Majour, che
porta sulla feluca la
lettera “M”. Gli altri hanno invece la lettera “A”. Il loro compito è quello
di dirigere la Baìo,
sancirne l’inizio, stabilire i percorsi, ma anche pagare i festeggiamenti di
tasca propria: si dice
che nell’Ottocento dovessero vendere una mucca per una buona riuscita
dell’evento.
Il costume di Sampeyre e Calchesio ha bordature bianche con due piccole rose
rosse
ricamate sul bavero della giacca; la camicia è bianca con la “risolo”e in
vita portano una
grande fascia ricamata e una coccarda da cui pendono i bindel; a Villar il
bavero della giacca
è ornato con una coccarda da cui scendono i bindel, decorazioni dorate ai
polsini ed anche per
le bande e le fasce; a Rore il vestito nero è orlato di bianco, i pantaloni
terminano poco sotto il
ginocchio dove è sistemato un fiocco bianco e si congiungono con delle calze
bianche di lana
pesante; la giacca con le code ha una coccarda con dei nastri sulla sinistra;
sul petto una
coccarda da cui scendono dei nastri, e due larghe fasce ricamate, una
trasversale e l’altra
intorno alla vita da cui scende una frangia colorata. Tutti gli Abà indossano
guanti bianchi,
portano la spada nella fodera da un lato e in mano un bastone decorato con
dei nastri. Sulla
feluca spicca la lettera “A” oppure “M” per l’Abà majour di Sampeyre.
Segretari: dopo altri cinque anni si arriva all’ultima carica della carriera
di Alum:
quella di Segretari o di Tezourìe; questo personaggio non si trova a Villar,
dove la funzione
del Segretario la svolge uno dei due Tezourìe. Il Segretari porta con sé il
libro dove sono
custoditi gli atti della Baìo con l’incarico di annotare gli avvenimenti
principali.
Il costume è orlato di bianco con una coccarda appuntata sul petto; per
Sampeyre e
Calchesio, si trovano due piccole rose bianche di stoffa sul bavero e
un’altra coccarda
appuntata alla fascia intorno alla vita; l’abito è orlato con il nastro
giallo per Rore; sulla
feluca, portano la lettera “S”.
Tezourìe: hanno il compito di custodire il tesoro della Baìo. La sera del
Giovedì
Grasso saranno processati e condannati per tutte le colpe di cui si sono
macchiati gli abitanti
del rispettivo paese.
A Sampeyre e Calchesio e Rore l’abito è il medesimo abito dei rispettivi
Segretari, a
Villar sono in due, col vestito orlato di bianco: uno porta la borsa del
denaro, l’altro, con il
compito di segretario, il libro della Baìo; la feluca porta la lettera “T”,
durante il processo sarà
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sostituita da un copricapo bianco, come una calza rovesciata, che ricorda le
maschere dei
morti.
Il giorno del processo tenteranno di fuggire varie volte, ma saranno sempre
ricatturati,
ed infine faranno testamento davanti alla giuria.
Uzouart: il nome fa pensare agli ussari dell’esercito, sono armati di fucile
e
rappresentano le guardie del corpo degli Alum; hanno anche la funzione di
recuperare i
Tezourìe quando cercano di scappare, nelle osterie principalmente, dove però
vige una sorta di
diritto di asilo, ed hanno un momento per prendere qualcosa da bere. Sono gli
unici
personaggi appartenenti alla comunità che vengono non solo pagati, ma anche
vestiti, per
svolgere il loro compito dall’Alum che hanno l’incarico di proteggere.
A Sampeyre e Calchesio indossano un vestito nero elegante, e le maniche
decorate con
un doppio motivo a zig-zag che forma dei rombi; portano una fascia con tre
nastri attorno alla
vita e due coccarde una su di essa e l’altra all’occhiello; a Villar la
giacca ha gli orli bianchi e
sulle maniche e sui pantaloni il motivo a zig-zag di colore rosso e infine
due fasce: una
trasversale e l’altra attorno alla vita, terminante con una coccarda,
un’altra coccarda è sulla
giacca; a Rore indossano una divisa floreale di stoffe di colori diversi, i
pantaloni sono larghi
e di colori diversi; portano una specie di mitra vescovile completamente
ricoperta di bindel e
coccarde, i cui nastri scendono lunghi e numerosi posteriormente; sul davanti
c’è uno
specchietto.
Granatìe: è presente solo a Villar; la sua funzione è quella di condurre i
Tezourìe
davanti al giudice e di eseguire la condanna a morte, per cui sono armati di
fucile (caricato a
salve).
Indossano una giacca nera con le spalline d’argento e dei pantaloni bianchi,
entrambi
decorati da un nastro di colore rosso messo a zig-zag, sulla giacca portano
due fasce colorate
che partono dalle spalle e si incrociano, fissate sui fianchi con una
coccarda; in testa portano
un kepì ricoperto di nastri disposti a forma di fiore, sul davanti la lettera
“G”, scritta con delle
perline, ha intorno un nastro arricciato, e una piuma in alto sulla fronte.
Moru e Turc: si trovano solo nella Baìo di Sampeyre. Entrambi rappresentano i
Saraceni: i Moru sono i prigionieri dei Saraceni liberati dalla popolazione
locale, mentre i
Turc sarebbero i Saraceni fatti prigionieri; indossano abiti di foggia
simile: il principale
elemento che li contraddistingue è il colore del viso: nero per i Moru e
chiaro per i Turc.
I Moru avanzano per primi, hanno la faccia annerita e portano degli enormi
orecchini
dorati ad anello; indossano abiti larghi, casacca e pantaloni bianchi, sulle
spalle un grande
scialle molto colorato e in testa un fez rosso con una mezzaluna dorata da
cui scende un
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fiocco; cavalcano degli asini. I Turc hanno un abbigliamento simile:
pantaloni azzurri e scarpe
con la punta ricurva e con uno scialle di colore principalmente nero; fumano
costantemente la
pipa e sono legati tra loro alle caviglie; indossano un fez molto simile ai
Moru con una
mezzaluna e una stella.
Cantinìe: portano costantemente da bere del vino da grossi fiaschi a chiunque
nel
corteo lo desideri. A Calchesio e Villar indossano pantaloni e camicia
bianchi con il motivo a
zig-zag che si incrocia formando dei rombi: la decorazione è fatta con un
nastro rosso sui
pantaloni ed è presente a zig-zag anche sulle maniche; il cappello è a cono
con dei nastri che
scendono anche sulle spalle; una fascia ricamata coi nastri è posta alla vita
a Calchesio,
mentre a Villar la portano messa trasversale sul petto fermata con una
coccarda. A Sampeyre
hanno pantaloni bianchi e camicia rossa con nastri a zig-zag e pois rossi e
una fascia di nastri
orizzontale con una coccarda; il cappello a cono è pressoché identico a
quello di Calchesio. A
Rore hanno pantaloni e casacca bianchi decorati con un motivo a zig-zag e
pois blu, che si
trova anche sulle maniche; una fascia ricamata è posta trasversalmente sulla
casacca e anche
un cordone con una borraccia; indossano un cappello a cilindro ricoperto di
nastri a formare
delle coccarde.
Arlequin: si occupano di tenere a distanza il pubblico, che spesso si
dimostra troppo
invadente. Il costume degli Arlequin non segue regole precise: basta che sia
il più consunto
possibile; in alcuni casi indossa una gonna sopra i pantaloni, sulla giacca
colorata ci sono
pezzi di toppe di pelo di animale e al collo, come fosse una sciarpa, un
serpente di gomma; in
mano brandisce una coda di animale o uno scoiattolo imbalsamato, oppure una
trappola per
topi: si dice che una volta usasse un vero e proprio topo morto o un
serpente, che sicuramente
sortiva l’effetto desiderato; il cappello può essere a cono, e su di esso
sono presenti dei gusci
vuoti di lumaca; il viso è a volte annerito con un pezzo di carbone.
Il Giudice: è un personaggio dall’aspetto funesto che appare a Villar solo
l’ultima sera
della Baìo: ha il compito di elencare tutte le malefatte dei due Tezourìe e
di condannarli a
morte. È impersonato da un altro componente della Baìo e indossa un abito con
un lungo
mantello nero, un cappello a cilindro decorato con dei nastri bianchi e ha
una lunga barba nera
che copre il viso.
Lou Viei e la Vieio: lou Viei simboleggia l’anno vecchio, mentre la Vieio è
la morte
che genera: questi due personaggi rappresentano la fine del vecchio anno e la
generazione del
nuovo; non a caso si trovano a chiudere il corteo. Durante la manifestazione
la Vieio
approfitta dei momenti di tranquillità per raccontare storielle salaci, come
è dimostrato
magnificamente dal discorso che pronuncia in difesa dei Tezourìe di Villar, e
riportare il
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significato della festa all’energia fecondatrice del basso materiale
corporeo, come sostenuto
da Bachtin ne “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”.
Lou Viei ha una lunga barba bianca e una sveglia o un orologio fermo sul
petto; porta
un paio di finti occhiali di legno; indossa dei pantaloni marroni ampi e
fermati sotto il
ginocchio da pesanti calzettoni di lana bianchi o rossi legati con un fiocco,
ai piedi porta gli
escufun: calzari tipici di drap (tessuto che si ottiene con la lavorazione
manuale della lana al
telaio) con la suola chiodata; porta una grande giacca con le code e un
panciotto scuro; a
tracolla tiene una borsa o una bisaccia, in genere tessuta con una stoffa di
misto lana
tradizionale delle valli, che una volta si produceva artigianalmente; porta
una feluca con
decorazioni rozze e la lettera “V”; imbraccia un fucile antico in spalla;
fuma la pipa e si regge
su un bastone contorto.
La Vieio indossa una gunelo: una gonna di drap, e un fudil, il grembiule; la
camicia è
bianca o rossa con il colletto bianco ricamato e sulle spalle porta uno
scialle, la testa è coperta
con una cuffia bianca di pizzo tessuta al tombolo; in mano regge un bastone
contorto e una
conocchia; legata a tracolla tiene una culla di legno in cui riposa un
bambolotto.
3. Conclusioni
La Baìo conserva molti dei tratti caratteristici delle antiche ritualità
pagane legate al
ciclo di morte e rinascita che caratterizza le stagioni, arricchendosi della
vitalità della cultura
popolare, con un intento propiziatorio. Oggi, piuttosto, lo scopo è quello di
riportare le
giovani generazioni nelle zone di montagna che per troppi sono state private
della loro forza e
iniziativa, per ridare al paesaggio montano il plusvalore della propria
identità, da tempo
smarrita, fornendo a chi sceglie di ripopolare queste valli, il senso di
appartenenza ad un
mondo antico e orgoglioso. Una nuova possibilità di vita dopo che la città ha
sputato fuori
tutte le eccedenze umane, sotto forma di operai e di ogni genere di
manovalanza per i lavori
deterioranti che in un primo tempo hanno fatto marciare l’economia delle
grandi imprese
urbane.
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Appendice: Fotografie
Arlequin di Sampeyre.
Arlequin di Calchesio.
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Cantinìe di Villar e
Uzouart (a fianco).
Cantinìe di Sampeyre.
78
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Moru.
Turc con una Serazine.
Turc. A destra impersonato da Fabrizio Dovo (direttore del museo contadino di
Sampeyre).
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Moru.
Arlequin di Sampeyre.
Escarlinìe, Serazine, Segnourine, Sapeur e Cantinìe di Calchesio.
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Espous.
Coppie di Espous durante i balli.
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Arlequin di Villar.
Arlequin, Serazine.
Arlequin,
Moru,
Turc e la
Vieio di
Sampeyre
.
Arlequin, Sapeur di Calchesio.
Serazine di Villar.
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Grec di Sampeyre.
Grec.
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Sapeur.
La Timbalo.
Sounadur.
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Cavalìe di Calchesio seguiti da un Cavalìe di Sampeyre.
Cavalìe di Sampeyre.
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Cavalìe di Sampeyre.
Riproduzione dell’uniforme usata nel reparto dei Carabinieri a cavallo
dell’esercito Italiano
del 1885.
Cavalìe di Sampeyre.
Riproduzione dell’uniforme da cavaliere dell'esercito di Savoia (1860-63).
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Fredo Valla (sceneggiatore e studioso
due Uzouart.
di tradizioni occitane), mascherato da
Uzouart.
Portobandiero e Uzouart di Villar.
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Portobandiero di Sampeyre.
Alum.
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Inizia il processo a Villar. Il Giudice tra due Uzouart.
I due Tezourìe di Villar sotto processo.
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La Vieio è il difensore dei
Tezourìe.
La accompagna Lou Viei.
Il Giudice legge la sentenza.
La condanna a morte dei Tezourìe è stata eseguita.
I morti vengono trasportati sulla
siviero e curati con una buona
bevuta.
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La Resurrezione.
Lou Viei rappresenta l’anno vecchio. Chiude il corteo con
La Vieio. Lei con il bambino in braccio è la morte che genera
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Alicja Raczyńska
Università Jagiellonica di Cracovia
Gli influssi ovidiani nella descrizione delle sofferenze amorose nell’Elegia
di
Madonna Fiammetta di Giovanni Boccaccio
L’Elegia di Madonna Fiammetta fu scritta fra il 1343 e il 1344, quando
Boccaccio già
si trovava a Firenze (Tateo 1998: 69), lontano dalla sua amata Fiammetta
(dietro questo nome
si celava Maria d’Aquino, la figlia illegittima del re di Napoli, Roberto
d’Angiò). Gli studiosi
che hanno svolto le ricerche sull’Elegia di Madonna Fiammetta hanno notato un
grande
influsso delle opere ovidiane, quali Heroides e Ars amatoria. La struttura
dell’operetta di
Boccaccio è ispirata alle Heroides di Ovidio, una raccolta di lettere scritte
da mitiche eroine ai
loro amanti ( Curti 2002: 248; Doglio 2005: 99-100; Hauvette 1914: 151-154;
Tateo 1998:
70-71; Żaboklicki 1980: 110). L’Elegia di Madonna Fiammetta è un romanzo in
forma di una
lettera, indirizzata al pubblico femminile, nella quale vengono raccontati i
dolori di una donna
innamorata. Tenendo conto delle opinioni dei critici sarebbe interessante
esaminare in modo
più dettagliato come Boccaccio, seguendo il grande praeceptor amoris,
descrive le sofferenze
amorose della sua protagonista: la nostalgia dell’amato, l’inquietudine, la
voglia di morire, la
perdita delle forze fisiche e della bellezza.
I secoli XII e XIII, chiamati Aetas Ovidiana, furono il periodo della grande
popolarità
di Ovidio in Francia. Le Metamorfosi costituivano la fonte di conoscenza dei
miti antichi,
mentre gli echi dell’Ars Amatoria, tradotta e diffusa da un grande romanziere
di quel tempo,
Chrétien de Troyers, si potevano rintracciare nella concezione dell’amour
courtois (UrbanGodziek 2005: 36). Le Heroides, invece, fornivano un modello
di elegia. Proprio a causa di
questa raccolta i francesi a lungo percepivano elegia come una sorta di
lettera d’amore.
Perfino gli esponenti del Rinascimento francese, come Clement Marot, Joachim
Du Bellay e
Pierre de Ronsard scrissero delle elegie in forma di lettere. Ovidio ebbe un
grande influsso
sulla letteratura narrativa francese. Fu proprio lui ad ispirare i cantari
Piramus e Tisbé,
Philomena, e Narcisus, nonché i grandi romanzi sui temi mitologici, quali
Roman de Troi,
Roman de Thèbes e Roman d’Éneas (Faral 1913: 4-157) e il romanzo arturiano.
La letteratura
francese sfruttò gli insegnamenti del praeceptor amoris che rappresentava in
modo molto
efficace la natura dell’amore. Erich Auerbach (Auerbach 2006: 190-190, 191),
seguendo
Edmon Faral, analizza un brano del Roman d’Éneas, nel quale Lavinia,
guardando Enea dalla
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torre, si sente presa dall’amore. La fonte d’ispirazione per questa scena fu
la storia della
giovane principessa Scilla che si innamorò di Minosse, un grande nemico di
suo padre (Met.
VIII). L’autore del Roman d’Éneas, descrivendo Lavinia, non segue più lo
stile alto delle
Metamorfosi, ma sfrutta la topica attinta dalle elegie ovidiane: la freccia
dell’Amore che
colpisce la protagonista e provoca sudore, brividi, svenimenti, accuse
rivolte a sé stessa,
lamenti e notti insonni. Boccaccio trascorse la sua jeunesse dorée (Padoan
1964: 89) nel
Regno di Napoli, a quel tempo governato dalla dinastia degli Angiò, dove la
letteratura
francese era molto popolare. Il Certaldese ebbe la possibilità di leggere le
opere dei classici
antichi, fra le quali anche le opere di Ovidio. Boccaccio deve a questo poeta
la conoscenza
della psiche femminile e del carattere di una donna innamorata. Il più
giovane dei poeti
elegiaci latini percepiva le donne come creature particolarmente delicate e
sensibli, incapaci
di lottare contro le frecce di Amore. Nel libro terzo dell’Ars Amatoria
scrive:
Femina nec flammas nec saevos discutit arcus;
parcius haec video tela nocere viris
[La donna non sa respingere le fiamme e le treccie tremende:
armi che- a quanto vedo- sono per l’uomo meno micidiali] (Ovidio, 2003: 122,
III, 29-30, traduzione di
E. Pianezzola)
La debolezza delle donne nei confronti del potere di Amore viene messa in
evidenza
particolarmente nella lettera di Ero a Leandro dalle Heroides. Ero scrive al
suo amato che
l’uomo e la donna vengono bruciati dallo stesso fuoco, ma le loro forze sono
impari. Gli
uomini possono liberarsi dalle sofferenze amorose occupandosi della caccia,
delle discussioni
al foro e degli esercizi in palestra. Le donne, in quanto troppo deboli e
delicate per fare tutte
queste cose, chiuse nelle loro stanze, non possono trovare un rimedio
efficace al loro amore.
Boccaccio nella prefazione al Decamerone fa una parafrasi di questo brano.
Decide di
dedicare il suo capolavoro a queste povere creature, troppo fragili per poter
opporsi alle
frecce di Amore. Fiammetta è una di loro. Anche lei passa i giorni in
solitudine, chiusa nella
sua camera. La sua mente è perturbata da tristi pensieri. Non sa smettere di
pensare al suo
amato.
Le Heroides contengono in gran parte lettere di donne abbandonate dai loro
amanti,
come Arianna, Didone, Medea, Ipsifile, Oinone e Fillide. Ovidio rappresentò
in modo molto
efficace il loro stato d’animo. Ipsifile e Fillide furono abbandonate dai
loro amanti che gli
avevano promesso di tornare presto. Le donne li aspettano con impazienza. Le
loro menti
sono travolte da passioni contrastate. Fillide, la figlia del re traco
Sitone, che secondo Henri
Hauvette assomiglia più a Fiammetta (Hauvette 1914: 156), soffre a causa
della separazione
da Demofonte, figlio di Teseo e Fedra. Il giovane si fermò in Tracia quando
tornava dalla
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guerra troiana. La principessa si innamorò di lui a prima vista. Damofonte
ricambiò il suo
amore e i due divennero fidanzati. Purtroppo, il giovane poco prima delle
nozze decise di
andare ad Atene per rivendicare il trono dopo la morte del padre. Fillide
conta i giorni che
sono passati dal momento della partenza dell’amato. Teme che gli sia successo
qualcosa di
grave e vede con gli occhi dell’immaginazione la sua nave affondata. La sua
mente è travolta
da passioni contrastate. Da un lato arde d’amore per Demofonte, ma dall’altro
comincia ad
odiarlo. Si sente ingannata e respinta. Rimprovera il principe ateniense di
non aver apprezzato
il suo grande amore. Non potendo più vivere in una sofferenza così grande,
decide di
suicidarsi. Fiammetta, invece, non si suicida, ma desidera la morte e chiede
alle divinità di
ucciderla:
O sommo Giove, contro a me giustamente adirato, tuona e con tostissima mano
in me tutte le saette
distendi: o sacra Giunone, le cui santissime leggi io sceleratissima giovane
ho corrotte, vendicati: o caspie
rupi, lacerate il tristo corpo: o rapidi uccelli, o cavalli crudelissimi
dividatori dell’innocente Ippolito, me
nocente giovane squartate […] (Boccaccio, s. d. : 138)
Ipsifile, la principessa di Lemmo, divenne la moglie di Giasone. Il marito la
abbandonò per
andare a cercare il velo d’oro. Ipsifile viene a sapere che Giasone sposò
un’altra donna. La
stessa sorte tocca a Medea e Oinone. Tutte e due ricordano nelle loro lettere
quei dolci
momenti passati insieme, ma allo stesso tempo si pentono di aver conosciuto
quegli uomini e
di averli amati. Medea maledice il giorno in cui Giasone arrivò in Colchide
per prendere il
velo d’oro. Si pente di essere stata incantata dai bei capelli d’oro e
dall’eloquenza di Giasone.
Quest’uomo è stato la causa di tutte le sue sofferenze, nonché dei suoi
crimini. Proprio per lui
Medea uccise suo fratello e lo fece a pezzi1. Fiammetta, come la principessa
di Colchide, si
pente di aver conosciuto Panfilo e maledice Venere che le ordinò di
ricambiare l’amore del
fiorentino:
Maledetto sia il giorno che io da prima ti vidi, e l’ora, ed il punto nel
quale tu mi piacesti! Maledetta sia
quella Dea che apparitami, me, fortemente resistente ad amar te, rivolse con
le sue parole dal giusto
intendimento! (Boccaccio, s. d.: 134)
Sia Medea che Oinone si sentono umiliate e tradite. Medea, la figlia del re,
una donna dotata
di una grande saggezza e di poteri magici, ricorda a Giasone che lui deve
tutti i suoi successi
proprio a lei: senza il suo aiuto non sarebbe riuscito a conquistare il velo
d’oro ed a
riacquistare il trono. Non può capire perché riceve un compenso simile per
tutti i sacrifici che
fece per quest’uomo. Anche Fiammetta menziona che per Panfilo respinse altri
suoi
ammiratori e tradì il suo caro marito. Oinone, la bella naiada che divenne la
moglie di Paris
quando questo era ancora un pastore al monte di Ida, non può accettare che il
marito l’abbia
1
Medea uccise il fratello per poter fuggire senza ostacoli con Giasone. Il re
di Colchide, costretto a raccogliere
le membra del figlio, non riuscì a raggiungere gli Argonauti.
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lasciato per Elena. Nella sua lettera chiede a Paride se non era degna del
suo amore. Lei
merita di essere la nuora di Priamo ed Ecuba, di abitare nel castello reale e
di condividere il
letto con Paride. Inoltre, dichiara che il suo amore verso il principe
troiano è più forte di
quello di Elena. Fiammetta, come la ninfa dalle Heroides, chiede a Panfilo se
non era
abbastanza bella, nobile e ricca per soddisfare le sue esigenze:
Deh! non era, o pessimo giovane, la mia forma conforme a’ tuoi disii, e la
mia nobilità non era alla tua
convenevole? Certo molto più. Le ricchezze mie furonti mai negate, o da me
tolte alle tue? Certo no. Fu
mai amato, od in atto od in fatto, od in sembiante da me altro giovane che
tu? E questo ancora, che non
confesserai se ‘l nuovo amore non t’ha tolto dal vero. Dunque qual fallo mio,
qual giusta cagione a te,
qual bellezza maggiore o più fervente amore mi t’ha tolto, e datoti ad
altrui? (Boccaccio, s. d.: 135-136)
Occorre anche mettere in evidenza delle affinità tra Fiammetta e Didone,
un’altra protagonista
delle Heroides ovidiane. L’infelice regina di Cartagine scrive la lettera ad
Enea poco prima
del suo suicidio. Didone, oltre a esprimere il suo dolore causato dalla
partenza di Enea, si
vergogna di non essere rimasta fedele alla memoria del marito defunto,
Sicheo. Nonostante
ciò, sottolinea che se Enea non l’avesse abbandonata, non si sarebbe pentita
di niente.
Fiammetta sa che il marito, che la ama e che vuole consolarla non è degno “di
queste
ingiurie”, ma possiamo essere sicuri che se Panfilo non l’avesse tradita, lei
non avrebbe i
rimorsi di coscienza per l’adulterio.
Boccaccio nell’Elegia di Madonna Fiammetta si rivela anche un buon discepolo
di
Ovidio per quanto riguarda lo studio dell’amore. Probabilmente ricordava bene
il libro III
dell’Ars amatoria, nel quale il poeta latino scrisse che il pallore è il
colore più adatto per gli
innamorati:
Palleat omnis amans, hic est color aptus amanti,
hoc decet, hoc nulli non valuisse putent.
[Ma sia pallido ogni innamorato: questo è il colorito adatto,
questo gli sta bene, questo nessuno può pensare che non abbia effetto.]
(Ovidio, 2003: 60, I, 729-730,
traduzione di E. Pianezzola).
Inoltre, poteva anche trovare una fonte d’ispirazione nel brano della lettera
di Canace dalle
Heroides, nel quale l’amore viene descritto come un sentimento che provoca
pallore,
magrezza, perdita dell’appetito, notti che sembrano durare un anno e sospiri:
Fugerat ore color, macies audduxerat artus,
Summebant minimos ora coacta cibos;
Nec somni faciles, et nox erat annua nobis,
Et gemitum nullo laesa dolore dabam. (Ovide 1991: 66, v. 79-82)
[Il colore era fuggito dalla mia faccia, la magrezza aveva ridotto le mie
braccia, mangiavo sempre di
meno; non era facile dormire, la notte sembrava durare un anno. Anche se non
provavo nessun dolore,
emettevo gemiti]2
Anche le Metamorfosi sono ricche di descrizioni di innamorati distrutti da
questo sentimento.
La nimfa Clizia, respinta da Elio (Met. IV, v. 260-272), cade in uno stato di
depressione. Non
2
La traduzione dell’autrice dell’articolo.
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vuole conoscere le altre nimfe, impazzisce per amore, smette di mangiare.
Narciso (Met. III,
339-510) si innamora del proprio volto riflesso nell’acqua della fonte
Ramnusia. A causa
della disperazione provocata da un amore impossibile il giovane perde la sua
fresca pelle e
dimagrisce. In uno degli attacchi di furore si lacera il torace con le
unghie. Fra gli altri amanti
infelici vanno citati Biblide (Met. IX, 453-665), Mirra (Met. X, 298-502) e
Ifide (Met. XIV,
699-764). Le due fanciulle, Biblide e Mirra, vengono colpite da un amore
incestuoso. La
prima si innamora del proprio fratello gemello, Cauno. Col passare del tempo
si rende conto
che quello che sente per Cauno non è soltanto l’amore di sorella. Sentiva una
grande gelosia
ogni volta che il fratello si trovava in compagnia di una ragazza più bella
di lei. Sogna di
abbracciare il fratello. Quando decide di confessare il suo amore, viene
respinta, impallidisce
e sente un brivido freddo in tutte le parti del corpo. Non potendo
conquistare l’oggetto dei
propri desideri, impazzisce dal dolore. Si lacera la veste e confessa alla
gente il suo amore
peccaminoso. Alla fine si scioglie nelle proprie lacrime e si trasforma in un
torrente d’acqua.
Mirra, a sua volta, ama con amore sensuale il proprio padre, Cinira. Come
Biblide, si
vergogna dei suoi sentimenti e non sapendo trovare un rimedio efficace,
decide di impiccarsi.
Ifide, invece, un giovanotto proveniente da una povera famiglia, ama una
bella e superba
nobildonna, Anassareta, che non lo vuole nemmeno conoscere. Ifide fa del suo
meglio per
intenerire il cuore dell’amata: decora la porta della sua casa con corone di
fiori bagnate dalle
proprie lacrime oppure passa le notti giacendo davanti alla sua casa. Infine,
non potendo più
vivere in sofferenza, si impicca. L’amore di Fiammetta viene rappresentato
secondo il
modello ovidiano. Guardiamo il processo dell’innamoramento (Libro primo): la
protagonista
non sa staccare gli occhi da Panfilo. La nascita dell’amore nel cuore della
giovane donna
provoca la pallidezza e il rossore, la sensazione di freddo e il sudore:
Il quale, nel sùbito avvenimento di quella temendo, rivocate a sé le forze
esteriori, me pallid e quasi tutta
freddissima lasciò; ma non fu lunga la dimoranza, ché il contrario
sopravvenne, e lui, non solamente fatto
fervent seniti, anzi le forze tornate nelli luoghi loro, seco uno calore
arrecarono, il quale, cacciata la
pallidezza, me rossissima e calda rendè come fuoco, e quello mirando onde ciò
procedeva, sospirava.
(Boccaccio, s. d.: 29)
Fiammetta in questo momento assomiglia a Lavinia dal Roman d’Éneas che,
colpita dalla
freccia di Cupido, impallidisce e arrossisce, si gela e suda.
La separazione da Panfilo distrugge Fiammetta, togliendole tutte le forze
vitali. La donna
smette di mangiare, passa notti insonni a causa di “misere lacrime”,
“impetuosi sospiri” e
“tempestosi pensieri”. Per le sofferenze amorose “la vaga bellezza” del viso
di Fiammetta
fugge, i suoi occhi, “simili a due mattutine stelle”, sono intorniati di
purpureo cerchio e i bei
capelli d’oro “si scernono nella sua fronte”. La gente che guarda Fiammetta
cerca di
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indovinare per quale motivo quella bellissima giovane diventa così magra,
“iscolorita” e
triste. Alcuni capiscono il perché di questi cambiamenti nell’aspetto fisico
della donna:
La pallidezza di questa giovane dà signal d’innamorato cuore. E quale
infermità mai alcuno assottiglia,
siccome fa troppo fervente Amore? Veramente ella ama, e se così è, crudele è
colui che a lei è di si fatta
noja cagione, per la quale essa così s’assottigli. (Boccaccio, s. d.: 107)
Fiammetta subisce l’amore come gli eroi e le eroine dalle opere di Ovidio che
vengono
citati da lei stessa come gli esempi degli amanti infelici. Fiammetta,
tuttavia, paragonando il
suo dolore a quello dei personaggi mitologici, si ritiene più sfortunata di
loro. Si potrebbe dare
ragione a Krzysztof Żaboklicki (Żaboklicki 1980: 119) secondo cui la
protagonista
boccacciana, si sente più nobile e migliore di Mirra, Biblide, Giocasta,
Fillide ed altri eroi
ovidiani.
In conclusione di tutto, occorre sottolineare che la storia dell’amore di
Boccaccio e
Maria d’Aquino non fu libera da tempeste. Il futuro autore del Decameron
venne a sapere che
la sua amata l’aveva tradito durante il suo soggiorno a Baia, una località
balneare vicino a
Napoli, famosa a partire dai tempi antichi come luogo di delizie, ma anche di
lussuria
(Chłędowski 1959: 98-99, Raczyńska 2009: 259). L’amante ferito scrisse un
sonetto (Perir
possa il tuo nome, Baia…) nel quale condannò quel maledetto posto
augurandogli che le sue
spiagge diventassero i boschi selvaggi e le acque il veleno. La triste sorte
di Fiammetta,
abbandonata e tradita dall’amato, descritta nell’Elegia di Madonna Fiammetta,
sarebbe quindi
una punizione per il dolore che la donna recò a Boccaccio. Possiamo chiederci
se quest’opera
sia davvero una specie di vendetta nei confronti dell’amante infedele, ma una
cosa è sicura:
Boccaccio, ispirandosi a Ovidio, un grande maestro nell’arte di amare,
scrisse il primo
romanzo psicologico e delineò un bel ritratto di una donna appassionata,
piena di emozioni, la
seconda donna viva e vera apparsa sull’orizzonte letterario dei tempi
moderni, dopo Francesca
da Rimini, protagonista indimenticata del Canto V dell’Inferno di Dante.
Bibliografia
Fonti
1. Boccaccio, Giovanni, ( s. d.). La Fiammetta. Strasburgo: Bibliotheca
Romanica, Biblioteca Italiana.
2. Ovidio (2003). L’arte di amare, trad. it. di E. Pianezzola. Milano:
Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo
Mondadori Editore.
3. Ovide (1991). Les Heroïdes. Paris: Les Belles Lettres.
Bibliografia critica
1. Auerbach, Erich (2007). Język literacki i jego odbiorcy w póżnym antyku
łacińskim i w średniowieczu,
trad. pol. di R. Urbański. Kraków: Homini.
2. Chłędowski, Kazimierz (1959). Historie neapolitańskie. Warszawa: Państwowy
Instytut Wydawniczy.
3. Curti, Elisa (2002). “L’Elegia di Madonna Fiammetta e gli Asolani di
Pietro Bembo”, [w:] Studi sul
Boccaccio, vol. XXX, p. 247-287.
4. Doglio, Maria Luisa (2005). “Il libro, “lo ‘ntelletto e la mano”:
Fiammetta o la donna che scrive”, [w:]
Studi sul Boccaccio, vol. XXXIII, p. 97-115.
5. Faral, Edmond (1913). Recherches sur les sources latines des contes et
romans courtois du moyen age.
Paris: Libraire Ancienne Honoré Champion.
6. Hauvette, Henri (1914). Boccace. Étude biographique et littéraire. Paris:
Libraire Armand Colin.
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7. Padoan, Giorgio (1964). “Mondo aristocratico e comunale nel Boccaccio”,
[w]: Studi sul Boccaccio,
diretti da V. Branca, t. 2. Firenze: Sansoni Editore, p. 81-216.
8. Raczyńska, Alicja (2009). „Obraz Bajów w zbiorze Hendecasyllabi seu Baiae
Giovanniego Pontana”,
[w:] Nowy Filomata, n. 4, p. 253-260.
9. Tateo, Francesco (1998). Boccaccio. Bari: Edizioni Laterza.
10. Urban-Godziek, Grażyna (2005). Elegia renesansowa. Przemiany gatunku w
Polsce i w Europie.
Kraków: Universitas.
11. Żaboklicki, Krzysztof (1980). Giovanni Boccaccio. Warszawa: Wiedza
Powszechna.
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Emilia Sypniewska
Università Niccolò Copernico di Toruń
Svevo, Tozzi, Alvaro e la condizione dell’antieroe novecentesco
Nel Novecento l’aspetto del romanzo cambia completamente. Cambia anche il
modo
di rappresentare il mondo e il posto dell’uomo in esso. Un individuo si sente
alienato. Il
mondo esterno gli pare completamente estraneo e pericoloso. La civiltà
tradizionale è stata
sostituita con la nuova civiltà delle macchine. La città meccanica, in cui è
facile perdersi, un
organismo pieno di pericoli imprevedibili, opprimente e devastante, diventa
lo sfondo delle
avventure (o meglio sventure) dei personaggi. In questo nuovo universo il
lettore incontra un
nuovo protagonista che deve affrontarsi non solo con il proprio destino, ma
soprattutto con la
nuova realtà che lo minaccia e opprime. Non c’è da stupirsi che il
protagonista del romanzo
moderno è un uomo vinto, imprigionato in una situazione senza uscita, in un
carcere
sconfinato chiamato “la vita”. Così diventa un inetto, un antieroe, un uomo
senza qualità che
non sa muoversi in questo mondo a lui ostile. Rimane chiuso nella sua
diversità, sentendosi
separato dall’universo e da tutti gli altri esseri viventi. È uno di loro ma
in qualche modo
unico e diverso: lo separa soprattutto la coscienza della propria condizione
e il dissenso verso
l’assurdità della vita.
In genere il romanzo moderno subisce molti cambiamenti rispetto al romanzo
classico.
Lo scopo del romanzo classico era quello di insegnare e divertire. Invece il
romanzo nuovo
non insegna più nulla. Ci mette davanti agli occhi un personaggio fallito e
la sua condizione di
un vinto. Spesso osserviamo la sua lotta senza prospettive, persa già
dall’inizio. Oppure il
tentativo di intraprendere questa lotta, di cui in realtà non è capace.
Questo protagonista può
avere sembianze di un impiegato frustrato e spersonalizzato, come Josef K.,
personaggio
kafkiano, che messo in confronto con la realtà assurda ed estranea non vede
nessuna ragione
per vivere.
La figura dell’inetto, questo grande eroe novecentesco, diventa protagonista
non solo
delle opere in prosa, ma anche delle opere teatrali o della poesia. “Spesso
male di vivere ho
incontrato” dice uno dei più grandi poeti del Novecento, Eugenio Montale1,
esprimendo lo
stato d’angoscia che tormenta l’anima dell’uomo moderno. Anche i Crepuscolari
si sentono
1
Montale Eugenio, Opera in versi edizione critica a cura di Rosanna Bettarini
e Gianfranco Contini, Giulio
Einaudi editore, Torino 1980, p. 33
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imprigionati in una situazione di malinconia, indifferenza verso ogni forma
di azione, noia
che li avvicina più alla volontà della morte che della vita.
Un altro tipo degli inetti, non adatti alla vita, rappresenta un tipico
personaggio
pirandelliano Mattia Pascal. Lui cerca di abbandonare i vincoli, lasciare una
vita
insoddisfacente e per riuscirci si costruisce un’altra identità. Ma quel
tentativo invano è solo
un segno di una malattia, soprattutto spirituale, che sembra coincidere con
una crisi ideologica
profonda. Lo scontro con la vita, perso sempre dal personaggio pirandelliano,
diventa l’unico
modo per affermare il proprio valore, la propria identità, di cui “eroe” ha
bisogno per uscire
vincitore dal labirinto della vita, il che gli viene sempre negato.
Questa identità “negata” è un segno di riconoscimento non solo di Pirandello,
ma di un
altro dei grandi, Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz), uno scrittore
triestino che
sembra essere tormentato dalle contraddizioni più profonde. Si sente allo
stesso tempo “italo”
cioè “italiano” e “svevo” cioè “tedesco”. Nei tre grandi romanzi sveviani
(“Una vita”,
“Senilità”, “La coscienza di Zeno”) i protagonisti sono degli inetti che non
riescono a
confrontarsi con gli altri (il padre, il rivale in amore, il suocero), non
sono in grado nemmeno
di costruire delle relazioni sentimentali mature. Il personaggio sveviano è
una vittima non
solo dello scontro con il mondo esterno, ma anche dell’autoinganno personale.
Non volendo
affrontare la dura realtà cerca di costruire le illusioni che comunque
portano ad una fine
tragica e fin dall’inizio inevitabile.
“La coscienza di Zeno” viene definito il primo romanzo introspettivo e
psicologico
nella letteratura italiana. Il protagonista Zeno Cosini presenta al lettore
le proprie vicende. Nel
romanzo viene abbandonato lo schema di un narratore onniscente, estraneo alla
vicenda.
Zeno, un inetto, si trova in una situazione del disagio universale: la sua
incapacità d’azione si
rivela soprattutto quando esso deve confrontarsi con gli altri o con la vita.
Il destino gli
sembra spietato, invece la vita da lui presentata è solo opprimente, ma anche
grottesca. Zeno
stesso proclama di essere un antieroe, descrive con franchezza i suoi
fallimenti, che talvolta al
lettore possono apparire comici (come la famosa “ultima sigaretta” e i
tentativi di smettere
con il vizio del fumo). Il romanzo non è una testimonianza delle gesta
eroiche, ma un compito
intrapreso dal protagonista, invogliato dal suo psicanalista, a scopo
terapeutico. Appunto la
psicanalisi freudiana diventa un segno dei tempi nuovi, dell’inizio del
Novecento. Il nuovo
personaggio si trova di fronte al mondo nuovo e per capirlo ha bisogno di
mezzi nuovi.
Questo particolare diario ci mette davanti agli occhi non solo un personaggio
di un
vinto, ma anche un uomo realista che si mette in discussione con sé stesso e
con il mondo che
lo circonda. Zeno critica non solo gli altri, ma anche le proprie azioni e
sentendosi sempre al
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disagio vede il mondo da un’altra prospettiva, assai diversa da quella che
rappresentiamo noi,
ossia tutti quelli che accettano il mondo così come è. Lui però non cerca di
ingannare sé
stesso con delle speranze illusorie. È un inetto e se ne rende perfettamente
conto. Questa
consapevolezza rimane l’unica arma contro il caos del mondo e il caos che
possiamo trovare
nella nostra mente. È impossibile cambiare questa condizione tragica
dell’uomo. Ma
dobbiamo esserne consapevoli e saper deridere il mondo e noi stessi. E Zeno
lo fa con
un’amara autoironia.
Nonostante ciò, lui rimarrà un fallito, le cui imprese o solo i tentativi di
esse risultano
di essere dei continui fallimenti. È un fumatore che si illude di poter
smettere il vizio del
fumo. È un uomo incapace di prendere una decisione, di fare una scelta: uno
spettatore del
mondo chiuso nella propria condizione nevrotica. È perfino incapace di
scegliere tra la moglie
e altre donne: perso nel mondo inizia a tradirla ma non sembra di essere in
grado di costruire
una relazione stabile con una di esse. È sempre in cerca di qualcosa, del
senso della vita, ma
non lo trova e la sua esistenza passa tra questa ricerca del tutto invana e
le azioni ridicole che
esso intanto intraprende.
Comunque, è lui il tipo di personaggio che probabilmente riuscirà a perdurare
fino alla
fine, ossia fino all’esplosione da lui profetizzata nella chiusura del
romanzo: «Ci sarà
un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di
nebulosa errerà nei
cieli priva di parassiti e di malattie»2. Queste ultime parole del romanzo
incorporano le paure
dell’uomo moderno: la nostra civiltà tende ad un certo sviluppo, che però
potrebbe essere
fermato da una catastrofe3, come guerra, epidemia oppure un’esplosione
causata da una
bomba atomica (di cui tutti noi abbiamo paura dal 1945).
Un altro personaggio sveviano incapace di vivere è Alfonso Nitti,
protagonista di
“Una vita” (cioè romanzo il cui primo titolo era appunto “Un inetto”).
Alfonso è una persona
giovane e colta, ma con poche risorse economiche. Per questo deve trasferirsi
in città per
lavorare presso la banca Maller4. Il lavoro si rivela duro e Alfonso sente la
grande nostalgia
della campagna e del suo paese amato. Durante le sue visite a casa Maller
nasce però
un’ambigua amicizia con la figlia del principale, Annetta. Tutto finisce
quando ritorna in città
dopo una lunga assenza e scopre il fidanzamento della ragazza con un altro.
Alfonso cerca di
instaurare il suo rapporto con Annetta e le chiede un ultimo incontro. Invece
della ragazza lui
2
Svevo Italo, Romanzi e “Continuazioni”, Mondadori, Milano 2004, p. 1084
Svevo si serve qui delle teorie di Darwin e di Thomas R. Malthus, trovando
però un equilibrio “tra una
concezione del mondo di stampo positivistico e l’adesione alle correnti
irrazionalistiche e spiritualistiche
novecentesche, per il tramite di un biologismo vitalistico tutto particolare”
(Maxia Sandro, Lettura di Italo
Svevo, Liviana, Padova 1965, p. 97)
4
Lo stesso Svevo lavorava come impiegato in banca.
3
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incontra suo fratello fin dall’inizio ostile verso la sua relazione con
Annetta. Trovandosi di
fronte ad una sfida a duello Alfonso sceglie il suicidio.
Alfonso è un uomo che entrando nel mondo cittadino viene accolto con
freddezza. Ne
risulta il suo comportamento introverso. Di nuovo ci troviamo di fronte ad un
romanzo
psicologico, in cui però non manca un’analisi sociale. Il lettore vede lo
scontro tra due mondi
e un protagonista che cerca di farsi spazio in un mondo a lui estraneo,
quello dell’alta
borghesia capitalista. È un’impresa impossibile e il nostro protagonista ne
esce sconfitto. La
sua relazione con la figlia del banchiere non ha futuro. Nei suoi tentativi
Alfonso incontra
solo il disprezzo e la solitudine in cui deve vivere la sua tragica fine. Qui
possiamo chiamare
in causa un altro personaggio, questa volta verghiano, cioè Mastro Don
Gesualdo. Anch’esso
subisce la sconfitta cercando di entrare in una classe sociale più alta.
Alfonso è un inetto, un altro antieroe incapace di ogni azione che si trova
in uno stato
di dubbio e incertezza. Da una parte vorrebbe affermare il proprio valore. Si
sente perfino
superiore nei confronti del mondo esterno. Dall’altra parte non fa niente, se
non i progetti
dello studio e del lavoro di composizione di varie opere filosofiche e
letterarie. Perciò Alfonso
non cambia mai e non cambierà neanche la sua vita. Perfino il gesto finale,
la sua ultima
scelta del suicidio, viene eseguito come se fosse un dovere, svolto in modo
meccanico come i
suoi impegni nel lavoro. Benché questro gesto possa assomigliare ad una
scelta dall’eroe vero
e proprio non è in grado di cambiare niente. Alfonso non potrà mai prendere
le sembianze del
superuomo dannunziano, rimarrà chiuso nella propria inettitudine che lo rende
del tutto
marginale. Anche Trieste sembra una città grigia, la cui funzione è mettere
in evidenza lo
stato del protagonista.
Il comportamento simile, connesso fortemente con concetto della nevrosi
contemporanea, esprimono i personaggi rappresentati nelle opere di Federigo
Tozzi. La sua
adesione al canone naturalista, che cerca di descrivere la corrosione
dell’ambiente rusticano e
piccolo-borghese, è espressa nel suo romanzo Con gli occhi chiusi. La vicenda
rappresentata
fortemente autobiografica e viene presentata con pieno naturalismo e lucidità
crudele, perfino
flaubertiana. I personaggi agiscono come se fossero influenzati sia
dall’animalità verista5 che
dalla nevrosi. Anche in quest’opera la psicologia diventa una chiave per
capire i motivi che
guidano il comportamento dei personaggi (i momenti onirici ne sono un
esempio).
5
A proposito di un nido con cinque passerotti: “li voleva far crescere, ma
invece le venne voglia di
ucciderli, eccitata dal suo terrore” (di Ghìsola) (Tozzi Federigo, Con gli
occhi chiusi, Mondadori, Milano
1994, p. 14)
102
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Il protagonista del romanzo, Pietro Rosi, esprime pienamente la crisi
novecentesca
dell’individuo. Lui, che da bambino è represso dal padre dispotico, inizia
presto a vivere con
la sensazione del fallimento. Pietro fallisce negli studi, negli affari,
nell’amore. Non sa
costruire relazioni durevoli. Non prova niente dopo la morte di sua madre,
non sa comunicare
con il padre. Tutti questi problemi vengono accompagnati dalla rinuncia alla
vita.6
Intanto tende ad una totale dimenticanza, all’annulamento di sé stesso non
sapendo
comportarsi di fronte agli altri o di fronte alla tragedia familiare.7 È un
altro protagonista che
si rende conto della propria condizione, di essere diverso, distaccato dagli
altri, ma nello
stesso tempo capace di ferirli, non solo con l’uso delle parole (fa del male
alla ragazza di cui
si era innamorato). È di nuovo la città ad evidenziare la debolezza e la
solitudine, il senso
d’isolamento del protagonista che pare di essersi perso in mezzo alla gente.8
Le figure degli inetti compaiono anche in altre opere di Tozzi, per es. nei
racconti “Il
podere” o “Bestie” e nel romanzo “Ricordi di un impiegato”. Il protagonista
de “Il podere”,
Remigio Selmi, è la vittima dell’ossessione per la “roba”9 che lo riduce alla
condizione
dell’inetto, ossia dell’antieore novecentesco. Invece “Ricordi di un
impiegato” è un romanzo
in forma di diario, in cui il protagonista ventenne Lorenzo Gradi descrive la
sua miseria e
desolazione quotidiana, rivelando la propria inettitudine, la nevrosi
sottolineata dall’analisi
non solo dei fatti sociali, ma soprattutto degli eventi interiori.10
Invece “Bestie” è una raccolta di brani in cui viene riportato l’aspetto
animalesco della
nostra natura. Il mondo è crudele, è dominato dal terrore. E perciò uomo,
impotente davanti
alla propria condizione, diviene una bestia. Questa “trasformazione” può
essere paragonata
alle “Metamorfosi” di Kafka in cui uomo è ridotto ad un animale: Gregor
diviene scarafaggio,
ma lo accetta come una conseguenza del proprio “peccato” ritenendo quasi
naturale questa
punizione. L’assurdità della situazione a causa della narrazione realistica
pare di essere una
delle categorie della realtà.
6
„Anche gli sembrava strano di esistere; perciò ebbe paura di sé stesso e
cercò di dimenticarsi, fissando
lungamente le palme delle mani finché riuscì a non scorgerle più” (Tozzi
Federigo, Con gli occhi chiusi,
Mondadori, Milano 1994, p. 53)
7
“Rebecca disse: - Povera mamma, voleva tanto bene a te! A lui gliene
importava poco, anzi s’ebbe a male di
queste parole; e si allontanò per distrarsi, vergognandosi.” (Tozzi Federigo,
Con gli occhi chiusi, Mondadori,
Milano 1994, p. 61)
8
„Strade che dirigono in tutti i sensi, si rasentano tra sé, s’allontanano, si
ritrovano due o tre volte, si fermano;
come se non sapessero dove andare; con le piazze piccole e rapide, affondate,
senza spazio, perché tutti i palzzi
antichi stanno addosso a loro.” (Tozzi Federigo, Con gli occhi chiusi,
Mondadori, Milano 1994p. 58)
9
In Verga, al contrario, il protagonista ne diventa un portatore.
10
Dall’incipit del romanzo: „Alla fine, sono messo tra l’uscio e il muro da mio
padre; che, mostrandomi
la sfilata dei fratelli e delle sorelle, mi convince di concorrere alle
Ferrovie dello Stato. Un’occhiata, tra
umida e dispettosa, a mia madre incinta e ancora giovane, mi fa chinare la
testa e piangere.” (Tozzi
Federigo, Ricordi di un impiegato, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1994, p.
3-4)
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Un altro scrittore che si mette da parte degli inetti è Corrado Alvaro che in
uno dei
suoi romanzi “Gente in Aspromonte” tramite le immagini della vita calabrese,
rappresentata
nella chiave verista, descrive la vita dei contadini e pastori che da parte
loro cercano di
ribellarsi alla propria sorte. Come in Svevo e Tozzi si cerca di scoprire la
mentalità dei
personaggi, non manca l’analisi psicologica delle motivazioni che spingono il
protagonista ad
agire. È messo in rilievo sia aspetto etico che sociale: le immagini del
mondo arcaico
calabrese si scontrano con le avventure/sventure dei protagonisti che –
anch’essi – si sentono
imprigionati nel mondo strutturato secondo certe regole opprimenti ed
ingiuste che ostacolano
la loro felicità, ossia il tentativo di raggiungerla.
Risulta chiaro che l’uomo contemporaneo è un antieroe, incapace di affrontare
la realtà
e nello stesso tempo consapevole del proprio fallimento. I protagonisti di
tutti i romanzi
sopraindicati sono dei vinti, delle vittime delle strutture sociali e di una
loro “malattia”.
Sebbene intraprendano varie iniziative, esse si rivelano tutte senza esito.
L’agire dei
protagonisti si colloca tra l’animalità verista e la nevrosi contemporanea.
Nelle opere di questi
tre autori (e molti altri) può essere ritrovata una certa interazione tra
spunti regionali (Svevo –
la Trieste sotto l’influsso dell’Impero Austro-ungarico, Tozzi – il mondo
chiuso di Siena,
Alvaro – il microcosmo del Sud) e significati universali. Si possono
osservare le differenze
linguistiche e concettuali tra Nord, Centro e Sud dopo l’unificazione
dell’Italia e tra le visioni
particolari della realtà, le quali però ruotano intorno all’inettitudine
dell’individuo e la
sconfitta umana (del tutto ineliminabili) che sono delle prime attestazioni
del nuovo mito
novecentesco della crisi dell’individuo e delle categorie della realtà.
Bibliografia
1. Alvaro, Corrado (1942). Gente in Aspromonte. Milano: S. A. FRATELLI TREVES
EDITORI.
2. Baiocco, Carlo (1984). Analisi del personaggio sveviano in relazione alle
immagini di lotta e malattia.
Roma: Cisu.
3. Kłosek, Wiesława (2003). Il concetto del “male di vivere” nella narrativa
di Italo Svevo. Katowice: PARA.
4. Lavagetto, Mario (1986). L'impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo.
Torino: Einaudi.
5. Maxia, Sandro (1965). Lettura di Italo Svevo. Padova: Liviana.
6. Montale, Eugenio (1980). Opera in versi edizione critica a cura di Rosanna
Bettarini e Gianfranco Contini,.
Torino: Giulio Einaudi editore.
7. Puto, Małgorzata (2006). La mimesi nelle novelle di Federigo Tozzi.
Katowice: PARA.
8. Svevo, Italo (2004). Tutte le opere, volume 1: Romanzi e «continuazioni»,
Palmieri N. e Vittorini F. (red.),
introduzione di Mario Lavagetto, «Meridiani»: Mondadori,.
9. Tozzi, Federigo (1994). Con gli occhi chiusi. Milano: Mondadori.
10. Tozzi, Federigo (1994). Ricordi di un impiegato, Pordenone: Edizioni
Studio Tesi.
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Małgorzata Trzeciak
Università di Varsavia
Il «Sistema di Belle Arti» di Giacomo Leopardi
Nelle prime pagine dello Zibaldone Giacomo Leopardi inizia a costruire il suo
«Sistema di Belle Arti», racchiudendo in esso delle osservazioni di tipo
estetico, il cui scopo
principale è la classificazione dei generi letterari in base alla nobiltà
degli oggetti imitati.1
Tuttavia, il pensiero estetico sviluppato nelle pagine del suo diario
intellettuale oltrepassa i
limiti di un rigido sistema fedele alla moda settecentesca, e tende verso una
spiegazione
filosofica dei «rapporti» tra le diverse discipline, avvicinandosi
all’estetica romantica.2 Vale
la pena di mettere in luce tale approccio all’arte perché, nei tempi moderni,
in cui tutto
cambia, non è più possibile parlare dei sistemi tradizionalmente intesi, ma
piuttosto di
un’estetica molteplice e provvisoria che ammette il cambiamento e giustifica
la pluralità delle
forme e delle interpretazioni artistiche
1. Perché un «Sistema di Belle Arti»?
La maggiore difficoltà che si incontra ricostruendo il «Sistema di Belle
Arti» e altre
idee estetiche di Leopardi è l’impossibilità di catalogare questi pensieri in
uno schema rigido.
Il tentativo di «ricostruzione» esige quindi un’analisi attenta alle
caratteristiche della scrittura
leopardiana, una scrittura che ha delle interne articolazioni, tutt’altro che
sistematiche, le
quali, tuttavia, non vanno oltre un certo piano prestabilito. Infatti, è
molto curiosa la ragione
per cui Leopardi ha intitolato questi primi pensieri estetici dello Zibaldone
«Sistema di Belle
Arti» perché se è un sistema, sicuramente ha una struttura molto particolare.
Esso occupa
soltanto due pagine dello Zibaldone e sembra piuttosto un punto di partenza
per una lunga
riflessione sulle questioni estetiche che non finiscono con la semplice
gerarchizzazione dei
generi letterari, abbozzata su queste prime pagine del «diario». Nello
Zibaldone non appare
1
«Diversi rami della imitazione che formano i diversi oggetti delle belle arti
e i diversi generi p.e. di poesia, i
quali tanto più son degni e nobili quanto più degni ec. sono gli oggetti,
onde un genere che abbia per oggetto il
deforme, sarà un genere poco stimabile e da non mettersi p.e. coll'epopea,
benché anch'esso sia un genere di
poesia destando la maraviglia e quindi il diletto col mezzo dell'imitazione»;
Leopardi, Zib:7. Per
approfondimenti sul Sistema di Belle Arti vedi anche la recente pubblicazione
di A. Camiciottoli, 2010: 65-70
2
Paolo D’Angelo analizzando il pensiero estetico italiano del periodo
romantico descrive con le parole sequenti
questo passaggio leopardiano dalle concezioni classicizzanti alle concezioni
romantiche «Ancora diverso, in
Italia , è il caso di Giacomo Leopardi (1798 – 1837), che è schierato
ufficialmente su posizioni classiche
(Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, scritto nel 1818), ma
che nelle riflessioni annotate nello
Zibaldone (1817-1832), si venne sempre più evolvendo in una direzione che lo
porta, del tutto autonomamente,
su posizioni per certi versi affini a quelle del grande romanticismo
europeo.» D’Angelo 1997: 27-28
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mai il termine «estetica», introdotto da Alexander Baumgarten nel 1750
(Aesthetica), invece,
ricorre spesso il termine «Belle Arti» che deriva, com’è noto, dagli scritti
dei teorici francesi
della prima metà del Settecento, divulgati in Italia innanzitutto da Giuseppe
Parini, nelle sue
Lezioni di Belle Lettere tenute presso l’Accademia di Brera (Camiciottoli
2010: 69). Il titolo
«Sistema di Belle Arti» ricorda l’opera di Charles Batteux Les Beaux arts
réduits à un seul
principe [1747] in cui venne delineato il primo moderno sistema delle arti.3
Tuttavia, nel caso
del «Sistema» leopardiano non si tratta di una classificazione di tutte le
belle arti, ma in
particolare dell’arte «sua», ovvero della letteratura. Il ruolo della poesia
era di maggiore
importanza per il giovane poeta, non sorprende quindi che da esso Leopardi
inizi il suo
discorso. Le sue riflessioni estetiche si distinguono da quelle degli
studiosi di estetica dei suoi
tempi, che di solito affrontavano il problema dal punto di vista dello
spettatore, del lettore,
dell’ascoltatore, piuttosto che da quello dell’artista che le produce
(Kristeller 1977: 35).
Anche le caratteristiche del pensiero filosofico leopardiano, che mira a
trovare dei «rapporti
fra le cose», influirono sull’estetica leopardiana, che, con il passar del
tempo, da un classico
«Sistema di Belle Arti» si trasformò in un discorso più «libero».
2. Un sistema incorporato nell’esistenza
Forse bisogna cercare le radici dell’insolita struttura del «Sistema di Belle
Arti» nelle
considerazioni leopardiane riguardanti il sistema come modo di conoscenza. La
questione del
«sistema» appare sulle pagine dello Zibaldone quando Leopardi deve affrontare
il problema
dell’organizzazione del pensiero (Argullol 1989: 119). Soprattutto nei primi
anni del lavoro
sullo Zibaldone insiste sulla necessità di costruire un sistema e propone, in
un’annotazione del
17 aprile 1821, una sua definizione: «il sistema, cioè la connessione e
dipendenza delle idee,
de’ pensieri, delle riflessioni, delle opinioni (...) » (Leopardi Zibaldone:
119). Il poeta è
convinto che «le cose hanno un sistema» o sono «ordinate» secondo un sistema.
Ricordiamo
il passo in cui scrive che «A quello che ho detto altrove della
ragionevolezza, anzi necessità di
un sistema a chiunque pensi, e consideri le cose; si può aggiungere che
infatti poi le cose
hanno un certo sistema, sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un
piano.» (Leopardi
Zibaldone: 1090). La necessità di creare un proprio sistema nasce dalla
convinzione che «le
3
Come nota Paul Oskar Kristeller, molti elementi di questo sistema erano
arrivati da autori precedenti (p. e. J.-B.
Dubos che ha divulgato l’idea che la poesia facesse parte delle beux-arts in
Rèflextions critiques sur la pöesie et
sur la peinture [1719]) Charles Batteux però fu il primo a scrivere un
trattato dedicato interamente al problema
del sistema moderno in cui il principio comune a tutte le arti è
“l’imitazione della bella natura”. Cfr. Kristeller
1977: 20-22; Cfr. anche Tatarkiewicz,1975:31; Anche Leopardi ripete questo
schema nella formulazione del suo
Sistema di Belle Arti: «Fine - il diletto; secondario alle volte, l'utile. Oggetto o mezzo di ottenere il fine –
l’imitazione della natura, non del bello necessariamente». Leopardi, Zib.:6.
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cose hanno un certo sistema», quindi ci vuole un sistema che in qualche modo
«dipenda»
dalle cose, un sistema che si basi su un’attenta analisi delle «cose in sé» e
i loro «rapporti».
Da questo approccio basato sul «vedere i rapporti fra le cose» nasce un
«sistema» che
«consiste nell’esclusione di tutti i sistemi» e che – scrive Leopardi - «fa
quasi il carattere del
nostro secolo». Forse Leopardi ormai era convinto che nessun sistema è adatto
per
comprendere l’età moderna nella quale la realtà presenta un’infinità di
minutissime
sfaccettature che non si possono accomodare in una forma rigida.
Negli scritti leopardiani si delinea un sistema, oggi potremmo dire moderno,
che
integra vari elementi o frammenti della realtà appunto perché non è ordinato
secondo uno
schema formato prima della considerazione dei «rapporti» fra gli elementi di
cui si compone.
Insistendo sulla necessità di trovare dei «rapporti» e delle corrispondenze,
piuttosto che una
costruzione rigida, Leopardi si proponeva di scorgere la realtà nella sua
complessità. È
interessante che, formulando il «suo» sistema, sia partito dall’analisi della
natura e : «l’idea
del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di
relazioni, di rapporti, è
idea reale, ed ha il suo fondamento, e il suo soggetto nella sostanza, e in
ciò ch’esiste. Così
che gli speculatori della natura, e delle cose, se vogliono arrivare al vero,
bisogna che trovino
sistemi, giacché le cose e la natura sono infatti sistemate, e ordinate
armonicamente»
(Leopardi Zibaldone: 1090). Per Leopardi, sistema è quindi in certo senso
«naturale»,
incorporato nell’esistenza; l’idea del sistema è «l’idea reale», fondata su
ciò che esiste. Questa
visione del sistema incorporato nell’esistenza è vicina alle teorie recenti
che vedono l’uomo
stesso come un sistema.4 Il concetto che l’uomo sia un sistema relativamente
isolato e
costituito di vari sotto-sistemi gli offre la possibilità di realizzare le
proprie attività
indipendentemente dal mondo esteriore e gli conferisce la «libertà d’azione»
(Ingarden 1972).
Anche in Leopardi c’è questa libertà. Possiamo quindi riconoscere che la
teoria dei sistemi,
nata dalla necessità di integrare varie discipline e oltrepassare i loro
confini per poter
analizzare il mondo nella sua complessità, trova in Leopardi un significativo
precursore.
Nella teoria dei sistemi la realtà si presenta costituita di vari sistemi
che, appartenendo
ad essa, mantengono tuttavia la loro identità e una certa autonomia. Grazie a
tale approccio si
distinguono dalla realtà dei frammenti che, pur essendo diversi, rimangono in
relazione ad
altri. Così si offre la possibilità di usufruire delle conoscenze provenienti
dai vari campi del
sapere per descrivere la realtà tenendo conto delle limitate possibilità
conoscitive dell’uomo
(Ostrowicki 1997). Quando Giacomo Leopardi insiste sulla necessità di trovare
«rapporti fra
4
Secondo Roman Ingarden la concezione dell`uomo come un sistema relativamente
isolato che si compone di
vari sotto-sistemi consente un’attività indipendente dal mondo esteriore,
cfr. Ingarden 1972:147.
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le cose», lo scopo di una tale ricerca non è una semplice «descrizione» della
realtà, ma quello
di capire relazioni e i modi di esistere fra le cose. Lo stesso approccio è
riconoscibile nel caso
del «Sistema di Belle Arti». Anche se inizialmente Leopardi parte dalla
descrizione e
gerarchizzazione delle arti, il discorso diventa più complesso quando egli
affronta le questioni
estetiche, quali il ruolo dell’artista e dell’opera d`arte, le modalità
dell’espressione artistica, il
valore dei diffetti nelle belle arti, il bello, il piacere estetico e la
ricezione dell’opera d’arte
ecc.
Il fatto che Leopardi mostri un certo disprezzo verso i sistemi tradizionali
è un segno
di maggiore libertà nell’organizzazione del pensiero: «si condanna, e con
gran ragione, l’amor
de sistemi, siccome dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si
conosce, e più
intimamente se ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano le
opere dei
pensatori» (Leopardi Zibaldone: 946). Chi vuole scorgere la realtà moderna
attraverso un
sistema diventa in certo senso il prigioniero del proprio pensiero, perchè
non vede i rapporti
tra le cose ma si sforza di accomodare i particolari al sistema formato prima
della
considerazione di essi. Mentre dovrebbe accadere il contrario, ovvero, che il
sistema derivi
dai particolari. Altrimenti succede che «si considerano i particolari in
quell’aspetto solo che
favorisce il sistema», in altre parole: «le cose servono al sistema, e non il
sistema alle cose».
L’unica soluzione è un naturale e innato processo di «perenne confronto» dei
grandi temi che,
come in un caleidoscopio, prendono una forma diversa a seconda dell’ottica e
del tempo in
cui vengono affrontati.
3. La crisi del principio imitativo
Nel caso del pensiero estetico, uno di questi grandi temi è indubbiamente
l’imitazione.
Il primo pensiero estetico nello Zibaldone è infatti: «Non il Bello ma il
Vero, o sia
l’imitazione della natura qualunque si è l’oggetto delle Belle Arti», e più
avanti Leopardi
aggiunge: «La perfezione di un’opera di Belle Arti non si misura dal più
bello ma dalla più
perfetta imitazione della natura» (Leopardi Zibaldone: 3). Invece, nelle
ultime pagine dello
Zibaldone, il recanatese sembra aver raggiunto una posizione completamente
opposta e con
ciò smentire i due criteri citati sopra: « Il poeta non imita la natura: ben
è vero che la natura
parla dentro di lui e per la sua bocca [...] Così il poeta non è imitatore se
non di se stesso.
Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo quella
propriamente non è più
poesia» (Leopardi Zibaldone: 4373). Sembra dunque che Leopardi parta da una
concezione
dell’arte intesa come imitazione della natura per poi approdare a una
concezione dell’arte
come espressione, affine a quella proposta dalla teoria estetica del
Romanticismo europeo.
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Ovviamente, non è una trasformazione radicale, in diversi passi dello
Zibaldone Leopardi
riflette sul principio d’imitazione, però dall’inizio lo considera l’«oggetto
e mezzo» per
ottenere il fine delle belle arti che il poeta identifica con «il diletto».
Quell’ultimo appunto
sembra di essere un tratto unificatore delle arti. Infatti, Leopardi presto
aggiunge che la
musica si distacca dal principio imitativo («Le altre arti imitano ed
esprimono la natura da cui
si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso
sentimento in
persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura, e così l’uditore»)
(Leopardi Zibaldone:
79-80). Il «Sistema di Belle Arti» delle prime pagine dello Zibaldone,
fondato sul principio
d’imitazione, riguarda i generi letterari. Ma poco dopo la sua stesura, nel
«diario» appare
ancora un altro tentativo di classificazione dei generi letterari in cui la
lirica prende il posto
primario: «La lirica si può chiamare la cima e il colmo della poesia, la
quale è la sommità del
discorso umano» (Leopardi Zibaldone: 245) e probabilmente questa distinzione
porterà
Leopardi, a distanza di poche settimane, ad escludere anche la lirica dal
«dominio»
dell’imitazione a pagina 260 dello Zibaldone del 4 ottobre 1820: «quello che
veduto nella
realtà delle cose, accora e uccide l'anima, veduto nell'imitazione o in
qualunque altro modo
nelle opere di genio (come p.e. nella lirica che non è propriamente
imitazione), apre il cuore e
ravviva» (Leopardi Zibaldone: 260). Il pensiero che l’imitazione «ravviva»
viene
approfondito il 26 gennaio 1822 quando Leopardi si chiede «Che vuol dire che
l’uomo ama
tanto l’imitazione e l’espressione ec. delle passioni? E più delle più vive?
E più l’imitazione la
più viva ed efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, ec. per bella
ch’ella sia, se non
esprime passione, se non ha per soggetto veruna passione (…) è sempre
posposta a quelle che
l’esprimono (…).» (Leopardi Zibaldone: 2362). La risposta è che «non è dunque
la sola verità
dell’imitazione, né la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che l’uomo
desidera, ma la forza,
l’energia che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente.
L’uomo odia l’inattività, e
di questa vuol esser liberato dalle belle arti.» Qui ancora Leopardi non
differenzia
l’imitazione dall’espressione, ma in un altro passo dello Zibaldone del 6
dicembre 1823
nettamente descrive questa differenza spiegando che l’imitazione «dei propri
affetti,
sentimenti» non è l’imitazione ma l’espressione.5
4. La forza dell’espressione artistica
5
«(…) il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso
quello che imita, sicché la vera
imitazione non sia propriamente imitazione, facendosi d’appresso se medesimo,
ma espressione. Giacché
l’espressione de’ propri affetti o pensieri o sentimenti o immaginazioni ec.
comunque fatta, io non la chiamo
imitazione, ma espressione.» Leopardi Zib.:3942.
109
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Da una parte è quindi vero che inizialmente «dalla definizione leopardiana di
mimesis
emerge l’adesione ai principi della retorica classica e il debito contratto
con Orazio, con
Quintiliano, e soprattutto con Aristotele e la sua Poetica» (Camiciottoli
2010: 66)
i
richiami alle loro opere nel testo sono molti e da esse Leopardi parte nelle
sue riflessioni, ma,
d’altra parte, vi è anche una grande attenzione verso le caratteristiche
dell’età moderna e i
cambiamenti che essa porta, i quali influiscono sulla formulazione del
pensiero estetico, come
vediamo sull’esempio del principio d’imitazione, che viene rivestito di una
funzione precisa
nei tempi moderni: liberare l’uomo dall’«inattività». Questa volontà di
affrontare i problemi
estetici attraverso la specificità dei tempi moderni è visibile per esempio
nell’Indice al mio
Zibaldone. Accanto alla voce «Poesia» Leopardi scrive: «Poesia e Filosofia.
Loro rapporti
scambievoli. Le più disprezzate discipline oggi: non così anticamente.»
(Leopardi Indice del
mio Zibaldone: 1256) Questo disprezzo di cui parla Leopardi è un
atteggiamento moderno.
Nei tempi moderni è cambiato lo status sia del poeta sia del filosofo. Per
Leopardi il mondo
moderno è talmente istruito e disincantato che «tutt`altro potrà essere
contemporaneo a
questo secolo fuorchè la poesia (....) poiché esser contemporaneo a questo
secolo, è , o
inchiude essenzialmente, non esser poeta, non esser poesia. Ed ei non si può
essere insieme e
non essere.» (Leopardi Zibaldone: 2946). Il giorno dopo aggiunge ancora
un’altra frase: «non
è conveniente a filosofi e ad un secolo filosofo il richieder cosa
impossibile di natura sua, e
contraddittoria in se stessa e nei suoi propri termini.» Leopardi aggiunge
questo pensiero
perché è ormai convinto che sarà impossibile per noi rinunciare alla ragione,
anche se «la
ragione è dannosa». È dannosa non perché non è un mezzo abbastanza efficace
per conoscere
la verità, anzi, la ragione è un ente molto potente per arrivare alla
«verità» degli oggetti che
studia, ma il problema è che il modo in cui lavora rivela la nullità delle
cose: «gli oggetti e lo
spazio le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende e quanto
meglio e più
finemente vede. Cosi ch’ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non
perch’ella sia grossa e
corta, ma perchè gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più
n’abbraccia, e più
minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non
nella ragione. (benché
gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu’altra cosa, eccetto solamente
ch’alla ragione).»
(Leopardi Zibaldone: 2943)
L’uomo, essendo l’unico tra gli esseri in grado di ragionare e scoprire le
verità del
mondo, è condizionato dall’«amor proprio», che lo condanna alla perenne
ricerca della
propria felicità. Così tutte le cose «in sé» non sono effettivamente «cose da
nulla» ma sono
«nulla» per la felicità dell’uomo, nel senso che lo deludono. Deludono l’uomo
perché anche
ragionando egli desidera innanzitutto la propria felicità. Nel secolo
dominato dalla ragione
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l’uomo moderno non accetterà il proprio destino perchè è impossibile
richiedergli di andare
contro il suo modo di scorgere la realtà ed accettare tante contraddizioni
che sono in natura. In
primo luogo è difficile accettare che la nostra esistenza è in contraddizione
con se stessa,
ovvero che il nostro essere è unito all’infelicità, perciò, come propone
Leopardi, «è meglio
assoluto ai viventi il non essere che essere». A tali conclusioni Leopardi
giunge nel 1826,
quindi a distanza di nove anni dall’abbozzo del «Sistema di Belle Arti».
Tuttavia, Leopardi
anche nel 1817 aveva un concetto negativo della realtà. Nella lettera a
Pietro Giordani del 30
maggio 1817 Leopardi scrive: «Certamente le arti hanno da dilettare, ma chi
può negare che il
piangere il palpitare l’inorridire alla lettura di un poeta non sia
dilettoso? Anzi chi non sa che
è dilettosissimo? Perché il diletto nasce appunto dalla maraviglia di vedere
così bene imitata
la natura che ci paia vivo e presente quello che è o nulla o morto o lontano.
Ond’è che il bello
il quale veduto nella natura, vale a dire nella realtà, non ci diletta più
che tanto, veduto in
poesia o in pittura, vale a dire in immagine, ci reca piacere infinito.»
(Leopardi Lettere: 1031)
Quindi il diletto nelle arti nasce dalla «maraviglia di vedere così bene
imitata la natura che ci
paia vivo e presente» quello che nella realtà è «nulla», e invece ciò che
nella realtà non ci
diletta, rappresentato nelle opere d’arte, «ci reca piacere infinito». In un
altro passo dello
Zibaldone Leopardi scriverà che le opere d’arte anche quando rappresentano la
nullità delle
cose «danno vita» o, come abbiamo già visto: «aprono il cuore e ravvivano».
Tramite
rappresentazione artistica la realtà negativa si trasforma in qualcosa di
positivo e così crea una
possibilità per l’uomo disingannato6, perché non è il vero che l’uomo vuole
ma la sua
imitazione (Pierracci-Harwell 1992:82). Infatti, anche le opere d’arte
dimostrano la nullità
delle cose perchè è ovvio che un artista imita la natura quale ella è, quindi
le cose così come
sono, le cose che preservano le loro proprietà naturali, però nel mondo reale
esse ci rendono
infelici perché cerchiamo di conoscerle con la ragione che ci delude, invece
l’arte le situa in
un’altra «realtà» che è libera, perché sottratta dai principi della ragione.
Giacomo Leopardi, dopo aver delineato all’inizio dello Zibaldone un abbozzo
del
«Sistema di Belle Arti», non ritornò più all’idea di costruire un rigido
sistema delle arti, forse
perché, analizzando attentamente i «rapporti fra le cose», aveva notato che
tutte le distinzioni
e suddivisioni sono arbitrarie e soggette al mutamento. Concentrò quindi la
sua attenzione sui
grandi temi estetici, come principio d’imitazione e prendendo sempre in
considerazione le
6
Sergio Givone in Storia del nulla scrive che «secondo Leopardi è il
disincantamento portato a fondo a costruire
l’ultima e l’unica chance di quella che altrove aveva chiamato
«ultrafilosofia» (…) - citando Leopardi «Bisogna però convenire che l’uomo
moderno, così tosto com`è pienamente disingannato, non solo può meglio
comandare all’immaginazione che al sentimento, il che avviene in ogni caso,
ma anche è meglio atto a
immaginare che a sentire [Zib, 1449]», cfr. Givone 1995:152-153.
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caratteristiche dell’età moderna, provò a situare il poeta e la sua opera nel
mondo
«disincantato». Queste riflessioni portarono Leopardi a scrivere nel 1826 che
il genere
drammatico «è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è
un’ispirazione, ma
un’invenzione, figlio della civiltà, non della natura». La «legittima figlia»
della natura è la
lirica mentre l’epica «è sua vera nepote» (Leopardi Zibaldone: 4236).
Bibliografia
Argullol, Rafael (1989). “Leopardi pensatore tragico”, [w:] Ferrucci C.
(red.), Leopardi e il pensiero moderno.
Milano: Feltrinelli.
Camiciottoli, Alessandro (2010). L`Antico romantico. Leopardi e il «sistema
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Fiorentina.
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Givone, Sergio (1995). Storia del nulla. Bari: Laterza.
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Literackie.
Kristeller, Paul Oskar (1977). Il sistema moderno delle arti. Paolo Bagni
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Speciale E. (red.), Giacomo Leopardi
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Tararkiewicz, Władysław (1975). Dzieje sześciu pojęć. Warszawa: PWN.
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Redaktorzy numeru:
Małgorzata Karczewska
Edyta Bocian
Recenzja naukowa:
prof. dr hab. Mirosław Loba
Skład i publikacja on-line:
Maja Koszarska
Numer zawiera teksty zredagowane po
III Krajowej Konferencji Młodych Italianistów
Intorno alla lingua e letteratura italiana: teoria e pratica,
która odbyła się w dniach 24-25 listopada 2009 roku w Poznaniu.
Konferencja została zorganizowana z inicjatywy
Zakładu Italianistyki Instytutu Filologii Romańskiej UAM
Romanica.doc
Czasopismo on-line doktorantów Instytutu Filologii Romańskiej UAM
strona: http://www.romdoc.amu.edu.pl
e-mail: [email protected]
Numer 2 (3)/2011
opublikowany on-line w marcu 2011
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