doczz Entrare Registrazione Esplorare × Italianica.doc - Romanica.doc download Reclamo Commenti Transcript Italianica.doc - Romanica.doc Numer 2 (3)/2011 Italianica.doc część1: Literaturoznawstwo Redakcja numeru: Małgorzata Karczewska Edyta Bocian Recenzja naukowa prof. dr hab. Mirosław Loba Skład i publikacja on-line Maja Koszarska Romanica.doc Poznań 2011 1 www.romdoc.amu.edu.pl Spis treści Wstęp str.3 Łukasz Jan Berezowski Se Mussolini fosse... le visioni alternative del potere fascista dopo il 1945 nella letteratura ucronica italiana del XXI secolo: alcune considerazioni allostoriche str.5 Agnieszka Domaradzka Le sfumature del nuovo noir italiano Dal giallo al nero str.11 Karol Karp Il teatro italiano del grottesco: verso un indirizzo originale? str.21 Agnieszka Liszka Difficoltà di traduzione e ricezione del discorso politico-sociale di Pier Paolo Pasolini in Polonia prima e dopo il 1989 str.31 Paulina Malicka «Topi d’avorio, sciacalli al guinzaglio e bulldog di legno».Il dono nella poesia di Eugenio Montale str.40 Marta Mędrzak-Conway Una filosofia umanizzata: Italo Svevo e le teorie freudiane str.51 Ewa Nicewicz Il caso Baricco. Lo scrittore e il panorama della super-offerta attuale str.59 Gianluca Olcese Le maschere della Baìo di Sampeyre str.66 Alicja Raczyńska Gli influssi ovidiani nella descrizione delle sofferenze amorose nell’Elegia di Madonna Fiammetta di Giovanni Boccaccio str.92 Emilia Sypniewska Svevo, Tozzi, Alvaro e la condizione dell’antieroe novecentesco str.99 Małgorzata Trzeciak Il «Sistema di Belle Arti» di Giacomo Leopardi str.105 2 www.romdoc.amu.edu.pl Wstęp Niniejszy zbiór artykułów zawiera referaty wygłoszone podczas III Krajowej Konferencji Młodych Italianistów „Intorno alla lingua e letteratura italiana: teoria e pratica”, która odbyła się w dniach 24-25 listopada 2009 roku w Poznaniu. Konferencja została zorganizowana z inicjatywy Zakładu Italianistyki Instytutu Filologii Romańskiej UAM. Konferencja ta kontynuuje tradycję zapoczątkowaną w 2006 roku przez Katedrę Italianistyki Uniwersytetu Warszawskiego, a podjętą w 2007 roku przez Zakład Italianistyki Instytutu Filologii Romańskiej Uniwersytetu Jagiellońskiego. To trzecie zatem spotkanie młodych italianistów dało nam kolejną sposobność wymiany naukowych doświadczeń oraz refleksji, a także możliwość zacieśnienia więzi przyjacielskich, a dla niektórych, nowych uczestników, okazję poznania starszych stażem kolegów i koleżanek, co w dalszej przyszłości przyczyni się z pewnością do przedsięwzięcia wspólnych inicjatyw naukowych. W spotkaniu uczestniczyło 23 młodych naukowców, którzy wygłosili referaty w zakresie literaturoznawstwa i językoznawstwa. Konferencja nie miała z góry narzuconej tematyki. Po pierwsze chodziło o zachęcenie do udziału w spotkaniu jak najliczniejszej grupy młodych italianistów. Po drugie niezawężanie horyzontów tematycznych umożliwiło każdemu z uczestników zaprezentowanie aktualnie prowadzonych badań, w większości związanych z problematyką przygotowywanej dysertacji doktorskiej. Jednocześnie, chciałybyśmy serdecznie podziękować recenzentom, Pani Profesor Ingebordze Beszterdzie oraz Panu Profesorowi Mirosławowi Lobie, za czas poświęcony na zrecenzowanie artykułów. La presente raccolta di articoli contiene gli interventi presentati nel corso dei lavori durante il III Incontro dei Giovani Italianisti „Intorno alla lingua e letteratura italiana: teoria e pratica” svoltosi a Poznań, il 24-25 novembre 2009. La conferenza è stata organizzata per iniziativa dell’Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Poznań. La conferenza mantiene la tradizione iniziata nel 2006 dalla Cattedra di Italianistica dell’Università di Varsavia, ripresa successivamente dall’Istituto di Filologia Romanza dell’Università Jagellonica nel 2007. Questo ormai terzo incontro dei giovani italianisti ci ha dato un’altra opportunità per uno scambio di idee ed esperienze nel campo della ricerca, ma anche la possibilità di rafforzare i legami d’amicizia e per alcuni, nuovi partecipanti, l’occasione di conoscere le colleghe e i colleghi con più esperienza, il che in futuro contribuirà sicuramente ad intraprendere iniziative scientifiche congiunte. 3 www.romdoc.amu.edu.pl All’incontro hanno partecipato 23 giovani ricercatori, i quali hanno presentato i contributi nell’ambito della letteratura e linguistica, per i quali abbiamo preferito non imporre nessun tema specifico. Tale decisione è stata dettata da due considerazioni. Prima di tutto, si trattava di incoraggiare la partecipazione del maggior numero possibile di giovani italianisti. In secondo luogo, il mancato restringimento tematico ha consentito a ciascun partecipante di presentare la ricerca in corso di svolgimento, nella maggior parte legata alla tematica della tesi di dottorato in stesura. Inoltre, vorremmo ringraziare di cuore la Professoressa Ingeborga Beszterda e il Professor Mirosław Loba per il tempo dedicato alla preparazione delle recensioni. 4 www.romdoc.amu.edu.pl Łukasz Jan Berezowski Università di Varsavia Se Mussolini fosse... le visioni alternative del potere fascista dopo il 1945 nella letteratura ucronica italiana del XXI secolo: alcune considerazioni allostoriche. L'avversario strategico è il fascismo... il fascismo che c'è in tutti noi, nelle nostre teste e nel nostro comportamento di tutti i giorni, il fascismo che ci fa amare il potere e desiderare proprio ciò che ci opprime e ci sfrutta. Michael Foucault Il 25 luglio 1943 in Italia cadde il regime fascista. Con l’arresto e la morte del Duce, a seguito della conclusione della seconda guerra mondiale e dell’espulsione dei Savoia fu fondata la Repubblica. Così terminò il Ventennio senz’altro più tragico nella storia dell’Italia contemporanea, i cui ricordi lasciarono segnati sia i testimoni oculari superstiti di quell’epoca sia le generazioni successive degli italiani che ne sarebbero venuti a conoscenza tramite le fonti storiche e le relazioni dei loro avi. Visto il tempo decorso che rende possibile l’interpretazione di quei fatti, si pongono in essere vari interrogativi non solo sul perché di quegli accadimenti, sulla giustezza o fondatezza delle decisioni prese dalle camice nere e altri revisionismi basati su circostanze e documenti finora ignorati o rimossi, ma anche su come sarebbe stata l’Italia (e il mondo) se la storia fosse andata per un verso diverso, e il fascismo si fosse tramandato ai nostri giorni. La risposta a questa e altre domande del genere giunge in alcune recenti opere di carattere ucronico, opere che sono oggetto del presente articolo. Il concetto di ucronia (proveniente dal greco: ou-chronos – “il tempo che non esiste”, formato per analogia a ou-topos – “il luogo che non esiste”) è stato teorizzato per la prima volta dal filosofo possibilista francese Charles Renouvier che nella seconda metà dell’Ottocento pubblicò due saggi sull’argomento: Uchronie, tableau historique apocryphe des révolutions de l'Empire romain et de la formation d'une fédération européenne del 1857 sull’immagine apocrifa della storia della rivoluzione dell’Impero Romano e della formazione della federazione europea e Uchronie (L'Utopie dans l'histoire). Esquisse historique apocryphe du développement de la civilisation européenne tel qu'il n'a pas été, tel qu'il aurait pu être nel 1876 sullo sviluppo della civiltà europea come non fu ma come sarebbe potuto 5 www.romdoc.amu.edu.pl essere. A questo proposito, va aggiunta la metateoria degli universi paralleli formulata un secolo dopo dal fisico quantistico statunitense Hugh Everett al quale si ispirò un suo connazionale, scrittore Philip K. Dick che nel romanzo La svastica sul sole (The Man in the high castle, 1962) profetizzava la vincita della seconda guerra mondiale1 da parte dei paesi dell’Asse (la Germania e il Giappone) che in seguito avrebbero colonizzato gli Stati Uniti. Da allora in poi l’ucronia e il relativo tipo di scrittura formano un sottofilone della narrativa fantascientifica, denominata a seconda della tradizione letteraria fantastoria, storia contrafattuale oppure allostoria (quest’ultima nozione proposta da Umberto Eco). La storia vera e propria dell’ucronia in Italia inizia nei primi anni trenta del Novecento quando fu pubblicato il romanzo (allora appartenente alla categoria di fantapolitica) Lo zar non è morto. Quell’opera, scritta dal gruppo dei Dieci capeggiato da Filippo Tommaso Marinetti, presentò uno scenario alternativo in cui si immaginava come sarebbe stato il mondo se l’imperatore russo Nicola II non fosse stato ucciso dai bolscevichi e si ritrovasse all’improvviso in Cina, dove tramasse un piano ingegnoso per riconquistare il potere perduto. Nel periodo a noi più recente, cioè negli anni settanta del Novecento uscirono i due romanzi allostorici di Guido Morselli Contro-passato prossimo (1974) e Roma senza papa (1975): nel primo l’autore proponeva una visione retrospettiva della prima guerra mondiale vinta dai paesi centrali, invece nell’altro immaginava il futuro dello Stato Pontificio alla fine del Novecento che sotto il papa irlandese Giovanni XXIV diventava un centro della piena libertà di costumi (abolendo tra l’altro il celibato dei preti). Finalmente, nell’anno 2000 viene pubblicata l’antologia Fantafascismo! Storie dell’Italia ucronica curata da Gianfranco de Turris e composta da racconti i cui autori immaginano la sorte del pianeta sotto il regime mussoliniano (o post-mussoliniano) tuttora esistente. Questo volume, la cui elaborazione doveva superare numerose difficoltà nel corso degli anni, oltre a dare avvio a una nuova corrente con un nome tutto suo2 tratto dal titolo dell’omonimo libro (fantafascismo), ispira autori successivi che nell’ultimo decennio hanno confermato la popolarità del fenomeno. Tra i più importanti sono i romanzi: la trilogia Occidente di Mario Farneti, Nero italiano di Giampietro Stocco e L’inattesa piega degli eventi di Enrico Brizzi, a fianco di alcune opere secondarie incluse nei volumi collettivi di de Turris. 1 Lo scenario alternativo della seconda guerra mondiale vinta dai paesi dell’Asse è stato anche ripreso da uno scrittore britannico Robert Harris nel romanzo Vaterland (1992) e nel suo successivo adattamento filmico (1994). 2 Tuttavia, Gianfranco de Turris sostiene di aver inventato il termine ormai nei primi anni ottanta del Novecento in risposta al racconto di Vittorio Catani Il pianeta dell’entropia pubblicato nel 1978 su Robot, autodefinito come opera di fantacomunismo. 6 www.romdoc.amu.edu.pl Le differenze di posizione riguardo all’andamento della storia che riscontriamo tra gli autori in oggetto iniziano negli anni quaranta del Novecento. Nelle opere di Farneti e di Stocco l’Italia sceglie la strada della neutralità e non aderisce alla seconda guerra mondiale aspettando la fine del conflitto per conquistare l’Europa e il mondo. Secondo la visione di Brizzi, invece, Mussolini rompe l’alleanza con Hitler e grazie a tale mossa l’Italia esce trionfante dalla grande guerra, mentre nello scenario di Ramperti, il Duce schieratosi a fianco degli altri paesi dell’Asse vince la guerra e con l’impiego dell’atomica colonizza tutti i continenti. In quasi tutte queste progettazioni l’Italia diventa un paese che gode un certo prestigio internazionale e prosperità economica, allargando il suo territorio che si estende dall’estremo Est fino all’Ovest. Quello che rende diverse le loro visioni è l’organizzazione dello stesso stato fascista. Un giornalista statunitense John T. Flynn all’epoca diceva: «la dittatura è il prodotto del fascismo, poiché il fascismo non può essere gestito se non da un dittatore». D’accordo con questa tesi, la maggior parte delle opere in questione presentano l’Italia come un regime autoritario governato dal Duce (con passivo beneplacito degli eredi della Casa Savoia). Solo dal romanzo di Brizzi scompare la monarchia e il paese assume il nome de «la Repubblica d’Italia» diventando un conglomerato delle nazioni associate. Cade anche il ruolo sociale della Chiesa Cattolica, siccome la nuova costituzione introduce il carattere laico e littorio dello stato. La prima crisi che ciascuno di questi organismi statali immaginari deve prima o poi affrontare è il problema della successione del potere dopo la morte di Mussolini (avvenuta, nella maggior parte delle opere, attorno agli anni settanta del Novecento). Se nel caso degli scrittori Stocco e Bologna il governo del paese spetta ai personaggi veramente esistiti come Galeazzo Ciano, l’ex ministro degli esteri dell’Italia fascista o Pietro Badoglio, il capo del governo provvisorio dopo l’arresto del Duce, altri scrittori decidono di riporre le sorti del popolo italiano nelle mani degli uomini fittizi come, per esempio, Romano Tebaldi protagonista principale dell’intera trilogia Occidente, inventato da Mario Farneti, e salito al potere in seguito all’estinzione di triumvirato. In alcuni casi come in quello del romanzo di Brizzi, la scomparsa di Mussolini provoca una lotta fratricida tra i gerarchi fascisti e porta alla guerra civile. Un altro punto nevralgico è la politica estera. Siccome l’Italia fantafascista non ha rinunciato mai alle sue aspirazioni imperialistiche ed extraterritoriali, era prevedibile che queste provocassero dei conflitti militari con altri paesi come nell’Occidente di Farneti dove Mussolini decide di dichiarare la terza guerra mondiale e conquistare l’intero pianeta (inclusa, 7 www.romdoc.amu.edu.pl perfino, l’Unione Sovietica, il cui capo Iosif Vissarionovič Džugašvili viene catturato dalle Forze Armate dell’Impero). Il piano dell’espansione prevedeva anche la colonizzazione dell’Africa, un sogno fallito in realtà, ma realizzato nel romanzo di Brizzi. Tuttavia, non erano sempre gli italiani ad invadere le altre nazioni. Come ha dimostrato Farneti nello stesso Occidente a volte bisogna assumere una posizione di difesa per respingere l’attacco degli estremisti arabi o diverse forze nemiche dell’Oriente. Nella politica interna invece gli stati fantafascisti devono affrontare numerosi problemi sociali di ogni tipo come la disoccupazione, gli scioperi degli operai, le epidemie delle malattie contagiose ecc. Non mancano poi degli opponenti politici (soprattutto di sinistra) che, formando una forte resistenza, preparano un colpo di stato o qualche piano complottistico per abbattere il governo. Un aspetto non meno interessante è rappresentato dal fatto che molti di questi organismi statali, pur essendo di fantasia, portano dei riferimenti e legami con la realtà fattuale odierna: vi appaiono dei personaggi autentici (per esempio Yasser Arafat, il presidente della Federazione Araba) e gli eventi storici posteriori veramente accaduti come la contestazione studentesca del ‘68, il terrorismo islamico o la crisi economica globale. Per quanto concerne la vita quotidiana della società, molti paesi fantafascisti illustrati dagli autori, dominano in campo commerciale e industriale, sviluppano le tecnologie moderne, gli scienziati e gli studiosi italiani vengono riconosciuti e apprezzati nel mondo, fiorisce la cultura d’elitè, mentre il calcio diventa una disciplina sportiva di particolare importanza dopo che la squadra azzurra vince i mondiali del 1982 (nella visione di Pierfrancesco Prosperi). Anche nelle colonie si organizza la Serie Africa, la lega che raduna il meglio del calcio eritreo, etiope e somalo sotto l’egida della Federcalcio di Roma. Gli autori della maggior parte delle opere in oggetto hanno ideato per le superpotenze fantafasciste una lunga sopravvivenza, stimata in migliaia di millenni, a volte infinita. Ciò nonostante, alcune di queste superpotenze, una volta sottoposte ad una prova più dura, sprofondano in autodistruzione e guerra totale contro i nemici. La storia conclusiva del regime profetizzata da Errico Passaro nel Tempus fugit assume una dimensione esoterica: l’autore vede la Terra alla vigilia della caduta della Luna, con il suo ultimo Duce che trovatosi all’orlo della catastrofe ormai scontata, medita sui destini dell’umanità e dell’ideologia che la sorregge. Quasi tutti gli autori citati tentano di dimostrare l’Italia fantafascista come uno stato potente, ben sviluppato, militarizzato, dotato di una forte rappresentanza politica e ampie ambizioni imperialistiche. Alcuni, però, indicano un suo graduale allontanamento dal modello totalitario sensu stricto tramite l’astensione dalla politica del terrore talmente crudele 8 www.romdoc.amu.edu.pl (specialmente su sfondo razziale) e il consenso alla presenza dell’opposizione legale (come nel romanzo di Stocco) a favore dell’introduzione del sistema autoritario che consente una certa autonomia in alcune sfere della vita pubblica (per esempio, al mercato libero della stampa nelle colonie africane del romanzo di Brizzi). Non adempie, quindi, l’ideologia di fantafascismo tutti e cinque i criteri del sistema totalitario modello formulati da Carl Friedrich e Zbigniew Brzeziński nel libro Totalitarian Dictatorship and Autocracy (1956: 52-53), ovvero: 1. concentrazione del potere in capo ad un’oligarchia inamovibile e politicamente irresponsabile, 2. imposizione di un’ideologia ufficiale, 3. presenza di un partito unico di massa, 4. controllo delle forze operanti nello Stato (polizia) ed uso del terrore, 5. completo controllo della comunicazione e dell’informazione. Nel contempo, si compie una naturale autolegittimizzazione del potere avvenuta in corso della successione dopo la scomparsa del Duce (ovvero tramite un passaggio dalla legittimità carismatica a quella tradizionale o, nel caso di Brizzi, legale-razionale riferendosi alla tipologia del potere di Max Weber). D’altro canto l’immagine del paese fantafascista proposta dagli autori qui citati diviene un’emanazione vera e propria del mito del grande Impero Romano. Il filone della romanità è ubiquo in tutte le opere in questione, siccome l’ideologia del fascismo stesso è fondata sul misticismo e simbolismo della Roma antica (per esempio il saluto romano). Non va dimenticato anche l’altro motivo nazionale ripreso dagli scrittori, cioè quello del colonialismo africano che stava al cuore dei governanti dopo l’unità d’Italia, ma che rimase un progetto fallito. In conclusione, si proverà a rispondere alla domanda posta più frequentemente da studiosi, critici e lettori: quali sono le finalità della scrittura speculativa? Quali possibili profitti derivano da un simile tipo di scrittura? Secondo Hayden White la storiografia è un altro genere letterario, la storia viene raccontata secondo le modalità narrative, mentre la realtà creata nel corso della riflessione è un torrente degli eventi che la gente descrive e si spiega da sola. Così, egli cancella il confine tra la storia e la letteratura, accomunate di fatto dalla medesima categoria di mezzi di espressione linguistica, mezzi retorici, ecc. Le ucronie presentate di sopra potrebbero svolgere l’obiettivo non limitato solamente alla produzione delle storie immaginarie, ma anche quello di provocare – mediante l’uso del contesto notoriamente fittizio fornito dalla convenzione allostorica – una riflessione addirittura storica, quella riflessione sul recente passato dell’Italia e quella resa dei conti che secondo molti storici non avvengono. Come sostiene già menzionato de Turris: 9 www.romdoc.amu.edu.pl Il risultato [delle opere di ucronia] è un tentativo d’immaginare come il fascismo, se non avesse fatto/fosse sopravvissuto/ avesse vinto la guerra, si sarebbe evoluto o involuto; quali scelte avrebbe effettuato, che direzioni avrebbe preso una volta morto/sostituito/non essendoci Mussolini, dipanatasi la politica internazionale, sviluppatasi la “società dei consumi”, imperversata la tecnologia, americanizzatosi il mondo. Come avrebbe affrontato la crisi della morale, il problema del sesso, la questione della rappresentanza democratica, il dissenso intellettuale, la fronda dei giovani, il conflitto con la monarchia, l’evolversi dei mass media, l’assedio delle grandi potenze “democratiche”, la guerriglia nelle colonie. A quali valori avrebbe ricorso, a che appigli ideali si sarebbe aggrappato, che periodi critici avrebbe vissuto, come ne sarebbe uscito, che soluzioni pratiche avrebbe adottato?3 Gli scrittori di fantafascismo forniscono alcune risposte alle domande poste, anche grazie alla maggiore libertà di cui godono, rispetto agli storici, libertà che gli permette di assumere atteggiamenti diversi, poiché l’ucronia supera i limiti della cosiddetta “correttezza politica”, produce un numero infinito di scenari possibili della storia, a volte rendendo un volto più umano a quello che si percepisce occulto, crudele oppure demonizzando quello che è solito, comune. Però, anche questa licentia poetica non li protegge dalle accuse di falso storico, di interpretazioni arbitrarie dei fatti storici o di revisionismo storico, e a volte di criptofascismo. Ne è un esempio Gianfranco de Turris che da anni affronta ostacoli editoriali nella pubblicazione delle sue antologie, o Mario Farneti a cui le autorità locali hanno negato il permesso di organizzare delle mostre dei suoi fumetti ucronici Albi di Occidente. A tale punto, immediatamente sorge la questione ben diversa: dov’è il confine tra la libertà dell’opinione e dell’espressione artistica? È probabilmente l’unica domanda a cui la letteratura ucronica di oggi non sappia rispondere... Bibliografia I. Volumi Brizzi, Enrico (2008). L’inattesa piega degli eventi, Milano: Baldini Castoldi Dalai. de Felice, Renzo (2005). Interpretazioni del fascismo, Roma: Laterza. de Turris, Gianfranco (2000) [a cura di]. Fantafasicsmo! Storie dell’Italia ucronica, Roma: Settimo Sigillo. de Turris, Gianfranco (2005) [a cura di]. Se l’Italia. Manuale di storia alternativa da Romolo a Berlusconi, Firenze: Vallecchi. Farneti, Mario (2001). Occidente, Milano: TEA/Nord. Farneti, Mario (2002). Attacco all’Occidente, Milano: TEA/Nord. Farneti, Mario (2004). Nuovo Impero Occidente, Milano: TEA/Nord. Friedrich, Carl / Brzeziński Zbigniew (1956). Totalitarian Dictatorship and Autocracy, New York: Harvard University Press. Ricoeur, Paul. Temps et Récit, Paris: Le Seuil, 1983-1985, White, Hayden (1973). Metahistory: The Historical Imagination in NineteenthCentury Europe. Baltimore: Johns Hopkins UP. II. Articoli Bucci, Stefano. Se Mussolini si fosse impadronito dell’Asia, Corriere della Sera, 18.04.2001 Evangelisti, Valerio. Italy: Fascist sci-fi, Monde diplomatique, ottobre 2001 Folena, Umberto. 1972, il duce regna a Mosca, Avvenire, 27.04.2001 3 G. de Turris, Fantafascismo!, p. 10 10 www.romdoc.amu.edu.pl Valzania, Sergio. ITALIA. Così poteva cambiare la storia, Il Giornale, 21.04.2001 11 www.romdoc.amu.edu.pl Agnieszka Domaradzka Università Adam Mickiewicz di Poznań Le sfumature del nuovo noir italiano Dal giallo al nero Uno dei tratti distintivi della narrativa contemporanea è la mancanza di confini precisi tra un genere letterario e l’altro. Il problema nasce dal fatto che tantissimi autori non volendo limitare la loro produzione artistica ad una forma particolare, si situano in una terra di nessuno, componendo opere fra vari generi e attingendo ai più diversi stili e linguaggi. La questione riguarda innanzitutto la nuova letteratura noir che sfugge ancora più di prima ai tentativi di formulare una delimitazione definitiva. La narrativa nera suscita dunque molte polemiche, i critici non concordano neanche sul fatto se essa costituisca un genere a parte o appartenga soltanto come sottogenere all’ampia categoria del giallo. Capita addirittura che il termine venga utilizzato non di rado come sinonimo di “romanzo poliziesco”. Insomma, per capire quali sono i problemi che coinvolgono la letteratura nera occorre prima stabilire quali attributi possieda il noir. Il termine noir evidentemente proviene dalla lingua francese: venne usato per la prima volta nel 1946 da Nino Frank che lo riferì ad alcuni film americani di tipo hard–boiled, importanti in quegli anni in Francia1. Così il concetto noir si trova all’incrocio di questi due poli: arrivò in Italia attraverso il francese, ma risente dell’indelebile atmosfera metropolitana delle opere hard–boiled dell’America di allora. Da quel momento il nome viene adoperato per descrivere la parte particolarmente inquietante e stravagante del mondo “giallo”: sia letterario sia cinematografico, perché il noir può riguardare entrambi i campi artistici. Come nell’immaginario collettivo, il colore nero rievocato dal termine noir fa pensare all’opacità, induce l’inquietudine e l’insicurezza. La narrativa di genere quindi provoca timore nel pubblico, focalizzando l’attenzione sulle zone d’ombra della società. Per questo serve spesso a denunciare i problemi sociali che gli altri generi non riescono o non possono mostrare. Loriano Macchiavelli, un autore contemporaneo, sostiene che il genere noir è come un “virus nel corpo sano della letteratura, autorizzato a parlare male della società in cui si sviluppava”2. Comunque la narrativa nera non solo presenta l’uomo nell’ottica ampia della società, ma permette di osservare da vicino l’uomo come individuo. Analizza la natura umana 1 G. Cesareo, Sulle tracce di un filo nero, in: AA. VV., I colori del nero, a cura di: M. Fabbri, E. Resegotti, Ubulibri, Milano, 1989, p. 15. 2 Wu Ming, New Italian Epic, Einaudi, Torino, 2009, p. 20. 12 www.romdoc.amu.edu.pl esaminando i protagonisti nelle situazioni estreme. Il noir non descrive i personaggi nettamente distinti tra i buoni e i cattivi, dimostra piuttosto che nel mondo tetro il confine tra il bene e il male non è facilmente delineabile. Il clima noir quindi rompe la sensazione dell’ordine delle cose che possiede il lettore, le storie non possono essere né consolatorie né rilassanti. Anzi, assomigliano piuttosto a ragnatele che imprigionano il lettore e dalle quali è impossibile liberarsi. Il termine noir comunque può essere inteso in due maniere: può indicare soltanto l’atmosfera particolarmente angosciante e in questo caso appare come un’onda in diversi generi letterari, emergendo anche soltanto nelle singole scene, non necessariamente in tutta l’opera. Comunque il nero può segnare pure l’intero genere letterario o cinematografico che si basa sull’oscurità. A partire dagli anni Novanta del Novecento il termine noir ha cominciato a volgersi sempre di più verso questo suo secondo significato. È divenuta una corrente in voga, alla quale si dedicano scrittori diversi che ne hanno amplificato pure la concezione. Il nuovo noir italiano crea delle atmosfere soffocanti in maniera particolarmente crudele, i noiristi narrano dunque “l’orrore estremo”3 descrivendo minuziosamente i delitti. Offre al lettore la realtà deviata e patologica piena di serial killer, alienati e psicopatici e presenta le città italiane innanzitutto dalla prospettiva dei bassifondi, che grondano di costante pericolo. Il nuovo noir dunque ha lo stesso scopo che la letteratura nera di una volta – ci trascina dentro un mondo privo di ogni speranza e di ogni sicurezza, ma lo fa in modo particolarmente atroce e spietato. Le particolarità del nuovo noir Italiano La nuova letteratura nera è il risultato dell’evoluzione del giallo e il suo graduale passaggio al noir. Come ammette Luca Crovi: “I tanto celebrati e fortunati anni Novanta del “giallo italiano” non sono dunque stati che la punta di un iceberg costruitosi nel tempo, grazie a forte nevicate e glaciazioni”4. La sezione editoriale dedicata al noir o mystery è cresciuta notevolmente nell’ultimo decennio, fino al punto in cui si parla di “caso letterario a cavallo dei due secoli”5: le case editrici fondano numerose collane di genere (Vertigo, Stile libero noir di Einaudi; Black di Marsilio; Neonoir di Minotauro; Il nero italiano di Theoria) o addirittura nascono case editrici che si occupano solamente della narrativa nera (Meridiano Zero). Anche Internet è stracolmo di siti dedicati esclusivamente al noir, sia di riviste on line (Milano nera, Napoli noir), sia di pagine degli autori stessi (Alda Teodorani, Carlo Lucarelli) o addirittura di 3 D. Brolli, copertina, in: AA. VV., Gioventù cannibale, a cura di: D. Brolli, Einaudi, Torino, 2006. L. Crovi, Tutti i colori del giallo, Marsilio, Venezia, 2002, p. 17. 5 M. Testa, op. cit. , p. 132. 4 13 www.romdoc.amu.edu.pl siti che lanciano dei concorsi per promuovere il genere e pubblicano sul web i testi vincitori (Roma noir). Prima di tutto però bisogna rispondere alla domanda: che cosa distingue il noir odierno dal poliziesco? Le opinioni in proposito sono diverse. Secondo alcuni critici, tra l’altro Alberto Casadei6, l’elemento che distingue la letteratura nera dal giallo è la mancanza del fattore logico nell’inchiesta. L’indagine si svolge a scatti che conducono alla conclusione o lasciano la trama in sospeso, comunque ci vuole almeno un minimo di elemento giuridico per poter utilizzare la denominazione noir. Tra gli autori che condividono questo atteggiamento ci sono Carlo Lucarelli, Sandrone Dazieri, Andrea G. Pinketts e Loriano Macchiavelli. Infatti, Sarti Antonio, il protagonista creato dall’ultimo autore è il buon esempio del personaggio nero: Sarti Antonio, sergente, avrà tanti difetti, sarà pieno di fissazioni, e di malanni, sarà un povero coso fin che si vuole, ma in fatto di memoria bisogna lasciarlo stare. Vede ed è come se fotografasse, ascolta ed è come se registrasse. Il difficile comincia quando si tratta di mettere insieme, secondo un criterio logico, le fotografie e le registrazioni. Ma se fosse in gamba anche in questo non sarebbe un sergente: sarebbe un mostro!7 Invece per altri critici come Elisabetta Mondello o Fabbio Giovannini, l’elemento fondamentale del noir è il crimine, non più l’indagine, anzi, capita spesso che essa sia ridotta o assente e tutta la trama si concentri intorno al reato stesso. Per questo sparisce il detective come figura centrale e il suo posto è occupato da altri due protagonisti: il criminale e la vittima. La letteratura noir spesso presenta il male dal cosiddetto “punto di vista di Caino”8 ossia al centro dell’azione mette l’assassino, con il quale il lettore, controvoglia, è costretto ad immedesimarsi e partecipare al delitto. Questa prospettiva viene introdotta nel racconto di Niccolò Ammaniti intitolato Rispetto (raccolta Fango) in cui il narratore collettivo è costituito da un gruppo di giovani ragazzi che incontrano tre ragazze in discoteca che in seguito portano sulla spiaggia, stuprano e uccidono. Noi vediamo la situazione attraverso gli occhi dei malviventi, la storia viene raccontata con le loro parole. Il lettore è forzato ad entrare nei panni degli stupratori e assassini e non c’è proprio nessun elemento che ci possa permettere di prendere le distanze da tutte le atrocità. Ci sono tuttavia anche storie in cui la situazione viene presentata da una prospettiva addirittura opposta: dal punto di vista della vittima, di cui soffriamo tutti i dolori. Esemplare 6 A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 96 – 102. L. Macchiavelli, Ombre sotto i portici, Einaudi, Torino, 2003, p. 20. 8 E. Mondello, Il Neonoir. Autori, editori, temi di un genere metropolitano, romanoir.it/pdf/Mondello_Il Neonoir.pdf, 2005, p. 4. 7 14 www.romdoc.amu.edu.pl per questo approccio è il racconto Tutto il resto è boia di Sandrone Dazieri (raccolta Anime nere). Un giornalista riceve certe importanti notizie dal suo informatore che riguardano i servizi segreti. Quando indaga, essi lo catturano e l’Ufficiale e il Boia lo torturano per scoprire il nome del suo informatore. I tormenti causano la massima sofferenza: pian piano gli tagliano le mani, le gambe, gli estraggono tutti i denti e lo privano di un occhio. Nella scena finale, al momento in cui il Boia sta per ucciderlo, sappiamo che l’informatore è stato proprio il carnefice. Come si è già detto le storie nere nell’ultimo Novecento diventano sempre più spietate e violente. Sembra che all’accanimento del noir contribuisca il modello cinematografico costituito da pellicole come Pulp fiction di Quentin Tarantino o Natural Born Killers di Olivier Stone, i film straboccanti in maniera particolare dell’insensata aggressione. Nelle opere nere così come nei modelli cinematografici il crimine viene commesso con la massima ferocia e descritto in ogni minimo dettaglio. Nel racconto Sed efficiente malum di Giulio Leone (raccolta Anime Nere), l’avvocato descrive l’assassinio effettuato dal suo cliente: Così loro si sono fatti prendere dal panico. Hanno tentato di soffocarla con la sua vestina. Ma quanto è difficile soffocare una che proprio non vuole morire, che morde le mani che la stringono, che sputa da tutte le parti. Che per paura ti fa pure la pipì addosso. Poi le hanno sfondato il cranio con una pietra9. Il recente successo delle opere noir ha provocato larga produzione dei libri del genere, ma bisogna sottolineare il fatto che provoca tante ambiguità e polemiche della critica: sono in gran parte libri che oltrepassano varie tradizioni e stili. Gli scrittori delle storie nere hanno allargato le possibili realizzazioni del noir, mescolandolo con il giallo classico, il romanzo d’avventura, l’horror, il thriller o la fantascienza. Questa contaminazione dei generi ha una principale ragione ed occorre cercarla nella tendenza generale della letteratura della fine del XX e dell’inizio del XXI sec. La narrativa noir contemporanea trova diverse denominazioni e spiegazioni. Filippo La Porta in Sul banco dei cattivi propone Nuovo Giallo Italiano, invece secondo Wu Ming il nuovo noir c’entra nella categoria della Nuova narrazione epica italiana (New Italian Epic). Wu Ming spiega il termine dichiarando che esso riguarda tutte le opere nate tra l’anno 1993 e l’anno 2005. NIE10 sono le opere letterarie, di ampio ventaglio tematico e narrativo, che si esprimono attraverso il giallo, il noir, il fantastico e l’horror, e che sono ispirate da problematiche ed eventi rilevanti per la realtà contemporanea. Inoltre secondo Wu Ming - la 9 G. Leoni, Sed efficiente malum, in: AA. VV., Anime nere, a cura di: A. D. Altieri, Mondadori, Milano, 2007, p. 194. 10 New Italian Epic. Si utilizza anche la sigla NEI: Nuova Epica Italiana 15 www.romdoc.amu.edu.pl Nuova Epica Italiana è caratterizzata da una presa di posizione di fronte ai problemi descritti e l’assunzione della responsabilità, che nel caso del nuovo noir è la continuazione della sua funzione tradizionale: la denuncia della crisi e l’attrazione dell’attenzione ai problemi sociali. Anche Fabio Giovannini, critico e autore di genere, elenca quattro elementi indispensabili per il nuovo noir (che costituisce il programma del suo gruppo letterario Neonoir). Come primo punto enumera la figura dell’assassino che occupa la posizione centrale nella narrazione. Di seguito parla della struttura dei testi ovvero il voler mescolare diversi generi tra i quali noir, giallo, spy story, l’horror e cyber usando il criterio multimediale, inserendoci cinema, televisione e fumetto. Il terzo principio secondo Giovannini è la collocazione delle storie tra cronaca nera e immaginario, in quanto la realtà costituisca il punto di partenza e la fantasia, l’elemento che serve a oltrepassarla. L’ultima condizione è il privilegio delle situazioni estreme che rifiutano ogni perbenismo. Molti critici letterari tra le caratteristiche indispensabili del nuovo noir nominano il continuo mescolamento dei generi che porta alla nascita dei cosiddetti “oggetti narrativi nonidentificati”11. Le opere oltrepassano tutte le linee e divisioni, persino quella primaria fra prosa e poesia. Sono i cosiddetti crossover, ossia i libri che trasgrediscono i generi, che contengono anche gli elementi fuori letterari, tra l’altro frammenti caratteristici del cinema, della televisione o di Internet. Gli scrittori ricorrono pure alla transmedialità proseguendo la produzione narrativa in forme non necessariamente letterarie: escono dai limiti del romanzo e fanno continuo uso di Internet, dedicandosi a diversi siti, blog, twitter, mash-up, fumetti o disegni. Lo testimonia il personaggio creato da Andrea G. Pinketts, Lazzaro Santandrea, alter ego dell’autore, che è spesso ospite di diversi episodi delle storie a fumetti Lazarus Ledd, Mister No o Martin Mystère. Il tratto distintivo di molti fra questi libri è l’atteggiamento sperimentale nei confronti dello stile e del linguaggio. Gli scrittori utilizzano una lingua che spesso sembra parlata, in confidenza con ogni slang e dialetto, con il turbamento continuo dei registri e stili della lingua. Andrea G. Pinketts nell’Assenza dell’assenzio mescola uno stile elevato con uno basso citando il celebre inizio della Commedia dantesca in un contesto triviale in cui il pube femminile viene paragonato alla “selva oscura”. I noiristi non evitano né volgarità né 11 Il nome si basa sull’espressione inglese “Unidentified Narrative Object”, che abbreviato dà forma UNO, analogo a UFO. 16 www.romdoc.amu.edu.pl forestierismi, creando una lingua vivace e liberata da ogni limite, una specie di “neoespressionismo”12. Un’altra caratteristica comune alla maggior parte delle opere noir è l’ambientazione urbana della trama, per questo Elisabetta Mondello tra varie denominazioni del genere utilizza giustamente anche quella di “genere metropolitano”13. Le storie si svolgono quasi esclusivamente nelle grandi città d’Italia, inoltre di solito determinati autori scelgono sempre gli stessi posti: Carlo Lucarelli e Loriano Macchiavelli sono legati alla città di Bologna, Sandrone Dazieri colloca le sue opere a Milano e Alda Teodorani sceglie solitamente Roma. Le metropoli noir sono “il regno di Caino”14, risentono dell’atmosfera delle città ritrattate dagli scrittori hard–boiled o di Giorgio Scerbanenco: l’azione abitualmente ha luogo nei margini della società turbati da prostituzione, droga, crimine e mafia. Le storie si svolgono nella realtà contemporanea, per questo si menzionano spesso gli avvenimenti o problemi importanti nel mondo odierno. Così le vicende dell’11 settembre costituiscono l’evento di sfondo per Karma del Gorilla di Sandrone Dazieri, la mafia appare in Neve sporca di Giancarlo De Cataldo (Crimini Italiani) e il tema centrale di Tufanaltorba di Danilo Arona (Anime Nere) è il terrorismo. Come si è detto all’interno del nuovo noir troviamo varie tendenze che si sviluppano intorno a diverse scuole o gruppi letterari che spesso si trattano a vicenda con una certa dose di litigiosità. Così intorno a Andrea G. Pinketts nel 1993 si forma la cosiddetta Scuola dei Duri. Accanto all’autore più celebre le hanno dato vita Carlo Oliva e Sandrone Dazieri insieme ai cofondatori Sandro Ossola, Andrea Cappi, Raoul Montanari. Il gruppo si costituisce nella città della Milano post Tangentopoli, nella realtà nuova che gli scrittori vogliono ritrarre. Il nome di Scuola dei Duri indica l’atteggiamento che bisogna avere: occorre “tener duro”, avere perseveranza senza arrendersi di fronte alle difficoltà, anche in campo letterario. Nella fondazione della scuola, a Pinketts interessava l’idea di costruire “una birreria letteraria”, alternativa ai vecchi caffè letterari, un posto più vivace di quello tradizionale, in cui ci si potrebbe occupare del mistero, in tutti i sensi. Andrea G. Pinketts si è ispirato a Giorgio Scerbanenco, che nella sua prosa ha descritto la città degli anni Sessanta attraverso i crimini volendo svolgere lo stesso compito. Per questo scopo ha lanciato un concorso per un racconto che narrasse di un delitto nella città di Milano. I testi scelti si trovano nell’antologia che costituisce contemporaneamente il manifesto della scuola: risale al 12 AA. VV., Sguardo sulla lingua e la letteratura italiana all’inizio del terzo millennio, a cura di Sabina Gola, Michel Bastianensen, Franco Cesati Editore, Firenze, 2004, p. 45. 13 E. Mondello, op. cit., p. 1. 14 M. Fabbri, E. Resegotti, Ombre amare, in: AA. VV., I Colori del nero, op. cit., p. 9. 17 www.romdoc.amu.edu.pl 1995 ed è intitolata Crimine Milano giallo-nera. Raccolta di inediti della Scuola dei Duri. Dopo dieci anni di iniziativa il fondatore ha deciso di mettere fine al movimento, essendo convinto che ogni generazione ogni decina di anni trova un proprio linguaggio per parlare dei problemi della società contemporanea, di cui i delitti sono uno specchio. La successiva città in cui si sviluppa la corrente nera in Italia è Bologna, in cui opera il cosiddetto Gruppo 13 radunato intorno a Loriano Macchiavelli. Esso si forma nell’estate 1990 per iniziativa dello scrittore insieme a Carlo Lucarelli e a Danila Comastri Montanari, che desideravano creare un momento d’incontro fra scrittori e illustratori giallo-neri operanti nel territorio emiliano– romagnolo. Il team iniziale era costituito da dodici persone, tra cui dieci scrittori e due disegnatori. I letterati appartenenti al Gruppo 13 sono, a parte i fondatori: Pino Cacucci, Nicola Ciccoli, Massimo Carloni, Marcello Fois, Lorenzo Marzaduri, Gianni Materazzo e Sandro Toni. Poi si sono aggiunti anche Eraldo Baldini, Mario Coloretti e Giampiero Rigosi. La loro prima antologia di racconti viene pubblicata nel 1991, si tratta dei Delitti del Gruppo 13, seguita dalla raccolta del 1995 Giallo, nero, mistero. Altri due movimenti letterari suscitano molte polemiche a seconda della comprensione del termine noir. Se riduciamo l’etichetta solo alle storie in cui l’indagine è l’elemento indispensabile, soltanto due scuole citate sopra rientrano nella categoria. Se invece, come pensano gli altri, è piuttosto il dominio della violenza la componente distintiva del noir, bisognerebbe menzionare altri due fenomeni importanti in Italia. Il primo dei due gruppi nasce a Roma nell’estate del 1994 e si chiama Neonoir. Il termine è stato preso in prestito da Maitland McDonagh che lo ha inventato per designare lo stile delle pellicole di Dario Argento, il maestro del gruppo letterario. Lo formano diversi registi, scrittori e critici e la loro azione prende l’invio con una serie di incontri con Dario Argento che si trasforma in un programma radiofonico di Radio Città Aperta Appuntamenti in Nero e uno spettacolo teatrale Il vampiro di Londra. Tra i suoi esponenti si trovano Antonio Tentori e Fabio Giovannini, curatori e portavoce, inoltre vi appartengono Pino Blastone, Sabrina Delizia, Paolo De Pasquali, Nicola Lombardi, Marco Minicangeli, Aldo Musci, Claudio Pellegrini e Alda Teodorani. Gli autori si definiscono «un movimento-non movimento», comunque compongono insieme i testi radiofonici, teatrali e narrativi nelle introduzioni delle quali espongono dichiarazioni programmatiche e critiche. Hanno pubblicato varie antologie quali: Neonoir, 16 storie e un sogno pubblicato nel 1994, Neonoir. Deliziosi raccontini con il morto dello stesso anno, Giorni Violenti. Racconti e visioni neonoir proveniente dal 1995, Cuore di pulp. Antologia di racconti italiani pubblicato nel 1997 e le raccolte dell’inizio del 18 www.romdoc.amu.edu.pl XXI sec.: Bambini Assassini (2000), Grande macello. Racconti di horror estremo (2001), L’orrore della guerra. Racconti estremi di autori italiani (2003). I Giovani cannibali vengono di solito inclusi nel pulp, però visto che uno dei loro tratti distintivi è infatti la violenza, alcuni critici accanto ai movimenti menzionati prima, tra gli esponenti del noir elencano anche questo gruppo. Irrompono alla scena letteraria nel 1996 con «la prima antologia italiana dell’orrore estremo»15 intitolata Gioventù cannibale, volume a cura di Daniele Brolli che dà spazio a tali autori come Niccolò Ammaniti, Aldo Nove, Luisa Brancaccio, Alda Teodorani, Daniele Luttazzi, Andrea G. Pinketts, Massimiliano Governi, Matteo Curtoni, Matteo Galiazzo, Stefano Massaron e Paolo Caredda. Il tratto distintivo dei Giovani cannibali che li differisce da altri gruppi della nuova letteratura nera è la comicità con la quale descrivono la bestialità (il fattore rifiutato intensamente dal gruppo Neonoir). Marino Sinibaldi il loro atteggiamento descrive come «civettare con l’orrore»16, perché le atrocità descrivono con onnipresente allegria per mezzo della quale si crea un distacco tra il racconto e il lettore che in questa maniera lo salva e protegge dalle crudeltà a cui assiste. Il nuovo noir italiano in tutte le sue sfumature è dunque il genere letterario che continua la strada del giallo, che comunica con i lettori odierni presentando il mondo contemporaneo e servendosi delle nuove possibilità narrative ed extraletterarie. È dunque una corrente che si distingue sia dal punto di vista tematico sia da quello formale. La nuova letteratura nera descrive in ogni atroce particolare la vita ai margini della società e le oscurità dell’anima umana con una chiave assai sperimentale abolendo i confini tra diversi generi, stili e registri e abbattendo qualsiasi barriera. Per la sua contaminazione costante è senza dubbio un filone difficilmente definibile e ambiguo, ma il suo enorme successo dimostra l’efficacia della nuova maniera espressiva. Il nuovo noir testimonia come siamo noi oggi e come è la realtà che ci siamo creati, quindi rispecchia in pieno e in maniera terribilmente violenta la nostra epoca, così come l’hanno fatto nel corso del tempo le diverse varianti del giallo e nero. Bibliografia Opere narrative AA. VV. (2009). Alle signore piace il nero, [w:] Garlaschelli B., Vallorani N. (red.). Milano: Sperling & Kupfer. AA. VV. (2007). Anime nere, [w:] Altieri A.D. (red.). Milano: Mondadori. AA. VV. (2008). Anime nere reloaded, [w:] A. D. Altieri A.D. (red.). Milano: Mondadori. AA. VV. (2005). 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In tale ambito vedono la luce le opere teatrali che appartengono alla poetica del grottesco; esso insieme alle pièce futuriste e al teatro monumentale ottocentesco dominano il terreno del teatro italiano del primo Novecento. Ma quali autori occorre annoverare parlando del teatro italiano del grottesco? L’elenco comprenderebbe i massimi esponenti della drammaturgia italiana quali: Luigi Chiarelli (18801947), Enrico Cavacchioli (1885-1954), Luigi Antonelli (18771942) e Pier Maria Rosso di San Secondo (1887-1956). Che cosa unisce esattamente questi drammaturghi? Tra i legami che si possono ritrovare bisogna accennare l’uso delle strutture tematiche che tendono a dimostrare la realtà espressa nella dimensione magica e surreale attraverso cui si mette in evidenza l’assurdità delle azioni umane. Nelle opere teatrali si nota anche la visualizzazione dello stato dei personaggi; essi sono condannati a vivere con <<la maschera>> ben accollata al loro volto, con <<la maschera>> che nasconde i vizi umani. Essa consente spesso al lettore o allo spettatore di capire e decifrare le loro vere intenzioni. Ma come definire il vero grottesco nel teatro italiano del periodo fra le due guerre? 1.Il termine <<grottesco>> Secondo il Dizionario del teatro di P. Pavis (1998) grottesco è un “aggettivo derivato dal sostantivo grotta, riferito alle pitture scoperte nel Rinascimento in monumenti sepolti, raffiguranti motivi fantasiosi: animali aventi forme vegetali, chimere e figure umane”(Pavis 1998: 195). Da ciò si può concludere che il grottesco intende legare il lato realistico cioè : gli esseri umani, gli animali a quello fantastico compreso nell’ampiezza di questa nozione. La fusione dunque di un elemento reale con un elemento irreale deve provocare un effetto 21 www.romdoc.amu.edu.pl comico o semplicemente bizzarro, un effetto di deformazione molto visibile nelle opere chiarelliane ossia sansecondiane. Ambedue gli scrittori, sia Chiarelli che Pier Maria Rosso di San Secondo, vengono classificati come grotteschi nonostante che le loro idee e le loro pièce siano differenti. Questo fatto non significa che fra loro non emergono i punti di convergenza. Luigi Chiarelli segna l’inizio del grottesco mentre Rosso appartiene alla sua fase finale che riassume e allarga i concetti degli autori precedenti. Il teatro di Rosso mira ad un certo punto e deforma i concetti dei suoi predecessori. In questo caso occorre evocare le caratteristiche principali del teatro borghese che ritrovano il loro pieno rovesciamento proprio nelle pièce di Pier Maria Rosso di San Secondo. Anche le opere di Chiarelli, di Antonelli o di Cavacchioli cercano di rovinare la poetica del dramma borghese, ma solo Rosso riesce a farlo in modo quasi rivoluzionario. Per poter percepire bene quest’evoluzione ci si deve riferire ai lavori teatrali più significativi degli scrittori sopramenzionati. 2. Il manifesto del grottesco La prima pièce di Luigi Chiarelli che viene intitolata La maschera e il volto, costituisce un vero fibre del teatro grottesco1. L’opera fu messa in scena per la prima volta nel 1916 cioè nell’anno considerato come il vero inizio della creazione teatrale grottesca. Questa pièce fu accolta calorosamente dal pubblico italiano e il suo valore fu apprezzato da numerosi critici. Ma l’affermazione non vuol dire che nessuno prima non aveva scritto un’opera simile a quella grottesca. Ben diversamente, nel 1914 a Milano la compagnia BorelliPiperno rappresentò La campana d’argento di Cavacchioli, un’opera con numerosi elementi grotteschi. L’opera non piacque al pubblico e fu fischiata forse visto che gli attori non furono tanto adatti a rappresentare un dramma grottesco (Livio 1989: 181). Chiarelli nel suo manifesto <<del grottesco>> La maschera e il volto evoca la medesima problematica in cui si iscrive l’opposizione bilaterale basata sul rapporto fra la maschera e il volto. Si vede il continuo paradosso fra quello che è vero e naturale nella personalità umana e quello che è falso, e che deve perciò essere nascosto sotto la maschera. I protagonisti principali del manifesto chiarelliano portano una maschera grazie a cui vogliono sopravvivere; una maschera che permette loro di mostrarsi come desiderano esser visti d’altrui. Prendiamo in considerazione il protagonista principale della pièce – il conte Paolo Grazia il quale afferma a più riprese che, se sua moglie lo tradisce, egli l’uccide immediatamente. Poi, dopo aver scoperto il tradimento della donna del suo cuore, il tradimento della bella Savina, non è in 1 Altre pièce di Chiarelli che s’inseriscono pienamente nell’ambito del grottesco sono: La scala di seta (1917), Chimere (1920), La morte degli amanti (1921) o Fuochi d’artificio (1923). 22 www.romdoc.amu.edu.pl grado di assassinarla e per nascondere le sue vere intenzioni e idee, è costretto a farla disparire. In effetti, la moglie parte e il marito confessa a tutti di l’aver uccisa ma attraverso la buona difesa dell’avvocato Luciano Spina, del resto amico di Paolo e amante di Savina, non viene punito. Quando egli ritorna a casa per poter finalmente calmarsi, si informa che nel lago fu trovato un cadavere della donna in cui riconosce sua moglie. Il giorno dei presunti funerali di Savina, ella viene in quanto fantasma a casa del marito che è sbalordito, ma finalmente non può più celare l’amore che prova per l’infedele. L’inganno del conte viene scoperto e la coppia infine si decide ad andare all’estero. In questa pièce si possono individuare due tipi di personaggi: gli uni che portano le maschere e gli altri che tendono a smascherare (Bronowski 2000: 67). La maschera invisibile viene appiccicata alla faccia di Paolo Grazia; in essa si riflette l’immagine della società con le convenzioni sociali che costringono il protagonista ad immergersi nel mondo della falsità. Non sembra giusto incolpare solo la società. È importante il carattere volontario della scelta fatta dal conte. Essa gli impone l’atteggiamento ben definito verso l’infedeltà eventuale della moglie. Il disagio può risultare dai problemi della psiche del protagonista perché “la maschera diventa sinonimo della sua coscienza” (Bronowski 2000: 69). Il personaggio stesso viene ridotto a una sorta di fantoccio. Il suo stato d’animo oscilla fra due alternative che riguardano il continuare a vivere sottomettendosi al potere eminente della maschera o l’iniziare una vita nuova ma priva di falsità: Savina: Ebbene, Paolo, hai deciso qualche cosa? Paolo: Deciso?!...C’è poco da decidere; bisogna scappare, e subito...Scappare, capisci, come due furfanti qualunque!...E non c’è da porre tempo in mezzo; prima di sera bisogna essere via di qua, lontano, perché quel signore, quel rappresentante della legge, si precipiterà immediatamente a rivelare ogni cosa!...Bisogna fare presto, presto!...In galera?...Non l’avranno questo gusto!...Ah, no!...Io non voglio più rendere conto a nessuno della mia vita, alla società, agli amici, alla legge, niente, basta [...]. (Chiarelli 1991: 183) Paolo desidera finalmente liberarsi dalla maschera e vuole partire per dimenticare e trovarsi lontano dalle convenzioni sociali che lo limitano e non gli permettono di godere della felicità coniugale. La maschera possiede la connotazione totalmente negativa; essa appare come ostacolo che impedisce una relazione riuscita. Ma se il protagonista avesse tolto dal viso questo simbolo della falsità, avrebbe cambiato la sua vita? Egli sarebbe potuto esistere al di là delle convenzioni? Comunque, attraverso la fuga si può provare a vivere diversamente. La maschera e il volto è imperniata principalmente sulle vicende di tre protagonisti : marito, moglie, amante. Vediamo dunque un tipico triangolo borghese che comunque acquisisce la propria dimensione e può esser definito come opposto alle regole del teatro 23 www.romdoc.amu.edu.pl borghese. Abbiamo qua la tipica costruzione trittica dell’affare amoroso in cui però <<la maschera>> diventa un vero svolgimento del dramma. La maschera deforma la storia dandone un’altra immagine. Le scelte del “cornuto magnifico” non sono dettate dall’invidia. Egli non divampa d’ira a causa della gelosia. Sono le sfumature della maschera ad imporre il suo atteggiamento verso la moglie infedele. Il carattere del triangolo ed i principi che stimolano le persone coinvolte sembrano dunque deformati rispetto a quello borghese. Di più, la storia di Paolo e Savina, il loro futuro, le loro vicende a venire non sono presentate. La storia sembra infinita. Non si sa se il protagonista sia in grado di togliersi la maschera dalla faccia e ritrovare la felicità. 3. Il teatro di Cavacchioli ed Antonelli Fra i drammaturghi grotteschi occorre anche ricordare Enrico Cavacchioli che nelle sue opere cruciali quali: La campana d’argento (1914), L’uccello del paradiso (1919), Quella che t’assomiglia (1919), Pinocchio innamorato (1922) o Pierrot impiegato del lotto (1925) usa le tematiche e tecniche inerenti al grottesco. Nei suoi drammi si possono dunque individuare molte strutture grottesche. Vediamo una gamma dei protagonisti viventi nel mondo che oscilla fra l’illusione e la realtà, i protagonisti che pur apparendo veri e reali rappresentano piuttosto i fantocci che esistono sotto il predominio della maschera. La decisione di portare la maschera è spesso dettata dai sentimenti come nel caso di Pierrot – protagonista dell’opera intitolata Pierrot impiegato del lotto, che a causa dell’amore per una donna si decide ad accostarsi ad una maschera. Il microcosmo rappresentato nei drammi di Cavacchioli è pieno di storie d’amore che ne costituiscono spesso l’asse principale. Le sue storie d’amore subiscono le influenze delle strutture del vecchio dramma ottocentesco (Livio 1989). Da queste risultano le risa, molti eventi tipicamente comici che permettono di considerare il grottesco come mescolanza di poetiche (Pavis 1998: 196). Nelle opere grottesche si possono notare elementi delle poetiche differenti quali : ”il comico graffiante” (Pavis 1998: 196) che spesso “paralizza la ricezione dello spettatore, che non può né ridere né piangere impunemente” (Pavis 1998: 196), il tragico che fa piangere, il burlesco e la farsa. Un altro autore appartenente al gruppo dei drammaturghi grotteschi che bisogna elencare si chiama Luigi Antonelli. Attraverso i suoi drammi l’autore cerca di rovinare le vecchie strutture del teatro ottocentesco poggiandosi sul tentativo di rendere un fatto impersonale, sulla volontà di rendere l’azione credibile, sulla tendenza all’oggettività. Antonelli sembra opporsi a tutte queste caratteristiche servendosi di ironia, di deformazione, di paradossi. Egli mostra un universo del malinteso, dell’ambiguità, un universo della tragicità 24 www.romdoc.amu.edu.pl e nello stesso tempo della comicità del destino umano. Le più famose opere antonelliane sono: Il gioco della morte (1909), L’uomo che incontrò se stesso (1918), C’è qualcuno al cancello2 (1920), L’isola delle scimmie (1922), La bottega dei sogni (1927), L’uomo che vendette la propria testa (1933). Il tutto rappresenta la stessa linea del grottesco. Tuttavia vale la pena di analizzare una pièce esemplare in modo più dettagliato. L’opera intitolata C’è qualcuno al cancello, oltre alle tipiche strutture grottesche, essa contiene un concetto che la rende specifica. Questa singolarità consiste nell’usare la tecnica del teatro nel teatro, tanto cara e spesso praticata da Luigi Pirandello3 che si iscrive parzialmente anche nella corrente grottesca. Gigi Livio, un grande critico teatrale afferma che: I personaggi di Pirandello hanno iniziato la loro lotta contro il teatro borghese che è anche, ineluttabilmente, sentimentalistico e psicologico e che si esprime in un determinato linguaggio che è quello che va dal dannunzianesimo – con tanto di versione benello-berriniana - , alle traduzioni rotonde dal francese, al nicodemismo più o meno pochadistico : la critica [...], i capocomici, gli attori e il pubblico, ciascuno per ciò che li riguarda, se ne sono accorti (Livio 1989: 189). La pièce teatrale di Antonelli è poggiata sulla tecnica del teatro nel teatro. C’è qualcuno al cancello è un atto unico la cui azione si svolge in un teatro dove gli attori provano a recitare un tipico dramma borghese. I personaggi principali si chiamano: moglie, marito, amante – un triangolo quasi inseparabile. Il luogo e la dimensione temporale delle vicende non sorprendono. L’azione avviene in un : “salone di un castello. A sinistra una porta. In fondo la comune che dà in una veranda, ai piedi di una selva. È circa la mezzanotte. Nessuno è in scena all’aprirsi del velario. Dopo un poco entra il marito dalla comune”(Antonelli 1991: 170). Si assiste dunque ad una situazione proveniente dalla pièce del tutto borghese ma ambientata sulla scena di un teatro. Lo spettatore ha la possibilità di partecipare allo spettacolo che tocca gli aspetti importantissimi per il buon funzionamento dello stesso teatro e dello stesso spettacolo. È possibile grazie all’uso della sopramenzionata tecnica del teatro nel teatro. Tra i protagonisti principali si possono elencare non solo i membri del triangolo borghese ma anche le persone che semplicemente lavorano nel teatro, quali : il suggeritore o il direttore che stimolando gli attori svolge parzialmente la funzione del capocomico. 2 Nel 1925 il titolo dell’opera fu mutato in Il dramma, la commedia e la farsa. Le opere pirandelliane sono considerate spesso come capolavori dove si trova la piena realizzazione del pensiero grottesco e nei quali si nota la lotta contro il modo ottocentesco di fare teatro. Fra esse occorre soprattutto annoverare: Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell’onestà (1917) o Il giuoco delle parti (1918). 3 25 www.romdoc.amu.edu.pl L’asse principale della vicenda è poggiata sull’affare amoroso. Nelle mani del marito cade per caso una lettera scritta da sua moglie ad un altro uomo. Il servo che la porta è costretto a dargliela e il marito scopre il tradimento. Essendo furioso, decide di preparare un tranello per denunciare l’infedele. Ecco un brano del discorso del marito e del servo: Il marito: Tu hai una lettera in tasca. Il servo: (china il capo. Un pausa) Il marito: Dammela Il servo: Sì, signore Il marito: Quel signore... a cui è diretta la lettera, vi sta aspettando in qualche posto, immagino...Dove, precisamente? Il servo: Nella selva, all’ingresso della lupa. Il marito: Benissimo. Badate che tra mezz’ora voi sentirete, forse, un colpo d’arma da fuoco venire dalla selva. Se la signora vi manderà a vedere, voi vi affretterete a rassicurarla con un pretesto. Qualsiasi altro ordine che vi venga dato dalla signora non dovrà da voi essere eseguito. Fingerete però di eseguirlo. Il servo: Sì, signore. (Antonelli 1991: 171) Il servo consente di aiutare il suo padrone. Parlando con la signora segue ciecamente le sue indicazioni ben precise. La moglie sente un colpo d’arma da fuoco proveniente dal bosco ed è inquietante. Sembra aver paura che al suo amante sia avvenuto qualcosa di male. Manda il servo a dormire. Essendo piena di timore e nello stesso tempo piena di speranza si avvicina alla finestra per incontrare il destinatario della sua lettera. Ammira un po’ la notte ma all’improvviso nota la figura di suo marito. Non sa nascondere di esser sorpresa e ansiosa. Il marito si accorge dello stato d’animo della moglie. Comincia a dialogare con lei. La loro conversazione non è solita. La donna si rende conto che suo marito avrebbe potuto scoprire la verità. Non avendo una via d’uscita si decide a porgli delle domande. Infine, il marito cornuto confessa con calma forse provvisoria che seppe che lei l’aveva tradito: Il marito: (fissandola) Che cosa vuoi dire? La moglie: (enigmatica) Mah! Che cosa sai tu di me? Il marito: (sempre fissandola lungamente) Che cosa so? La moglie: Già! Il marito: (con terribile calma) So che hai un amante [...] La moglie: È una menzogna! una menzogna! Il marito: La prova... la prova... Io l’ho la prova! (Antonelli 1991: 174) La moglie temendo l’ira del marito non vuole dire la verità. Ad ogni costo desidera nascondere la sua colpa. Tuttavia non riesce a farlo. Che cosa la costringe però, a rischiare la sua perdita? Quando decide di denunciare se stessa? E perché? La risposta si trova nel frammento che segue: La moglie: Qual è questa prova? Io ti sfido a darmela! 26 www.romdoc.amu.edu.pl Il marito: Tu mi sfidi? Ebbene, vorresti miglior prova di questa? Io ho ammazzato dinanzi, con un colpo di fucile, il tuo amante all’ingresso della lupa. La moglie: (con un grido straziante) Assassino! Il marito: (freddo) Ecco. Ora nega, se puoi. La moglie: (stringendosi la faccia tra le mani) Assassino! Assassino! Ho udito il colpo... Il marito: Ah sì, L’hai udito? La moglie: (dopo una pausa, fissandolo con uno sguardo in cui si leggono tutte le disperazioni) Ebbene, sì! Assassino, era il mio amante! Era! Era! (Antonelli 1991: 174) Dopo che la moglie si informa della presunta morte dell’amante, non può più nascondere la verità e confessa al marito il suo tradimento. Probabilmente si sente più colpevole di quanto lo pensasse e questo la spinge a svelare il suo segreto. Sembra che il marito abbia fatto il canovaccio di tutta questa situazione e il comportamento della moglie è solo una tappa della trappola che egli preparò all’inizio. In seguito il marito rivela che non ammazzò l’amante della moglie. Perché glielo dice? Perché desidera sapere di che carattere fu l’amore che sua moglie provava per Francesco. Vedendo le sue reazioni con amarezza afferma che fu un sentimento forte. Quando la moglie scopre che il suo amante non fu ucciso non riesce a nascondere la sua gioia. Sono molto interessanti le parole del marito che riassumono non solo il carattere dell’affare amoroso descritto lassù ma anche sottolineano la comicità e l’uso ironico delle tecniche e delle strutture del dramma borghese: Il marito: (sarcastico) Peccato! S’io fossi stato più prudente avrei avuto il piacere di vederlo capitare qua dentro, per puro caso... Ah! Ah! poverino! La sua ansietà in questo momento deve essere enorme. Egli ha veduto le nostre due ombre agitarsi e immaginerà forse qualche brutto scherzo. In ogni caso, ecco per lui un’avventura romantica andata a male! Un castello, un vero castello, una selva e una signora che si annoia... E la luna sopra tutto ciò! Una luna inverosimile e coreografica... (Antonelli 1991: 174) Il marito sembra avere una sorta di compassione per il suo rivale. Secondo lui, la situazione nella quale si trovò Francesco è difficile, e per questo motivo non lo uccise. Il marito è in grado di valorizzare le sfumature di quello che successe agli amanti. Qui il comico tocca lo spirituale. Il pathos viene assimilato al thanatos. Tale mescolanza può provocare solo la nascita del grottesco (Pavis 1998: 196). Emerge dunque un evento tirato dal tipico dramma borghese giudicato ironico anzi dalle persone coinvolte. In tutta l’opera si percepisce facilmente la mescolanza di diverse poetiche. I vecchi schemi teatrali sono derisi in modo particolare attraverso l’uso dell’ironia e l’introduzione della tecnica del teatro nel teatro la quale rende possibile l’intervento indiretto dell’autore del testo. Egli può esprimere il suo parere attraverso la voce di un personaggio o mettere i suoi pensieri nei discorsi della maggior parte dei protagonisti. 27 www.romdoc.amu.edu.pl 4. Verso il culmine del grottesco Il teatro italiano del grottesco è un fenomeno letterario coi confini ben determinati. Analizzandolo si può arrivare all’esistenza di un certo filo conduttore, all’esistenza del suo evolversi temporale. Il grottesco sembra maturare col tempo e dar vita alle nuove soluzioni. Come il culmine del grottesco vengono considerate le opere di Pier Maria Rosso di San Secondo fra cui occorre elencare soprattutto Marionette che passione (1918), La bella addormentata (1919), L’ospite desiderato (1921), La scala (1925), o Tra vestiti che ballano (1927). I personaggi sansecondiani vivono nelle realtà delle quali si stufano, nelle realtà che spesse volte non possono sopportare e cercano una via d’uscita che davvero non esiste. Possono solo dunque esser destinati a un’infinita sconfitta nel campo esistenziale. Si assiste a un tipo di debolezza umana che fa pensare alle opere degli esistenzialisti francesi come ad esempio Jean Paul Sartre (1905-1980), autore del capolavoro intitolato La nausea (1938). Le personalità dei protagonisti sansecondiani sono deboli. L’interno non è tanto importante quanto l’esterno perché l’esterno traduce l’interno. Si percepisce dunque una sorta di dipendenza reciproca. I personaggi tipici delle opere di Pier Maria Rosso di San Secondo si vedono per esempio nella pièce Marionette che passione. Essi non hanno nomi. Si chiamano il Signore a Lutto, il Signore in grigio, la Signora dalla volpe azzurra. I loro sentimenti e i loro problemi si esteriorizzano attraverso l’apparenza. Tutti soffrono, nessuno può godere della gioia. Nella maggior parte dei casi è l’amore a costituirne la causa diretta. Essi in vano cercano di ritrovare un rimedio per i loro dolori. Ecco le parole del Signore in Grigio che aspira alla felicità: C’innamoreremo perdutamente tutti e tre di noi stessi. Non ci lasceremo più. Ancora per qualche tempo avremo da superare tristezze e sconforti, poi la vita del nostro terzetto ci darà vita : ci verrà una gran voglia di godere. Goderemo a più non posso. Viaggeremo, andremo all’estero, in Europa, poi in America, poi forse in Australia ... (Rosso di San Secondo 1991: 188) I dialoghi dei protagonisti sono spesso irragionevoli. Le loro conversazioni non si adeguano alle situazioni in cui essi si trovano. In quest’opera sansecondiana si percepisce dunque la mancanza della comunicazione. I protagonisti agiscono e si comportano come marionette che hanno un ruolo ben determinato da recitare. Benché stiano spesso negli spazi piuttosto piccoli o semplicemente chiusi non sono in grado di arrivare alla reciproca comprensione. Creano l’impressione del marasmo eterno, dell’eterno caos mentale e spirituale. Rosso di San Secondo in Marionette che passione riuscì dunque a ampliare i confini del grottesco e nello stesso tempo rovesciò in definitiva i canoni del dramma borghese. Ma esattamente mediante quali procedimenti lo fece? Franca Angelini, una studiosa 28 www.romdoc.amu.edu.pl della storia del teatro italiano ne individua quattro. (Angelini 1976: 105) Anzitutto menziona la riduzione dei personaggi alle marionette che non hanno né nomi né veri caratteri, sono solamente dotati di una sorta di riferimenti sia visuali sia esistenziali. Poi Angelini elenca l’uso delle singolari intelaiature spaziali permeate di luoghi chiusi cioè il salottino di un modesto appartamento o la sala del telegrafo che danno anche l’impressione degli incontri apparentemente casuali. In continuazione la studiosa individua la presenza del tipico triangolo borghese tuttavia “mal assortito” su cui viene basata l’azione della pièce. Infine Angelini sottolinea il peso della morte volontaria del Signore in grigio che viene identificato coll’autore dell’opera. Il suo suicidio provoca il proseguire delle connotazioni negative nella relazione autore – dramma. Marionette, che passione di Pier Maria Rosso di San Secondo sembra essere un vero culmine del teatro italiano del grottesco. La pièce, insieme ai procedimenti usati prima da altri scrittori grotteschi, propone le proprie soluzioni le quali contribuiscono al rovesciamento totale degli schemi borghesi. 5. Conclusioni Analizzando le sfumature del teatro italiano del grottesco si percepisce facilmente la presenza di una certa evoluzione dei modi di strutturare le pièce. I lavori dei primi autori grotteschi, dei precursori del movimento hanno proprio il ruolo trainante nello sviluppo di questo teatro. Ma è giusto considerare le attività artistiche di Chiarelli, Antonelli, Cavacchioli, Pier Maria Rosso di San Secondo come una scuola o un movimento? Giovanni Antonucci, giornalista e storico del teatro, propone di scorgerle come “una fortunata definizione.” (Antonucci 1988) Chiamarle una scuola o un movimento sarebbe forse troppo visto le differenze sia stilistiche che tematiche che emergono nell’analisi minuziosa delle loro opere principali. L’esistenza di un tipo di filo conduttore caratteristico del grottesco finisce quando appaiono i testi di Pier Maria Rosso di San Secondo o di Pirandello nei quali il grottesco ritrova la sua pienezza ed anzi il superamento dei suoi concetti basilari. Le pièce pirandelliane benché siano vicinissime alle intelaiature grottesche vengono raramente analizzate dal punto di vista delle pièce di Luigi Chiarelli o Enrico Cavacchioli. Comunque, Mario Verdone crede che Pirandello debba esser ritenuto il maggiore rappresentante del teatro italiano del grottesco (Verdone 1981) perché rovescia i vecchi schemi borghesi in modo definitivo. In Pirandello e in Pier Maria Rosso di San Secondo sparisce il linguaggio classico o convenzionale e il suo spazio viene sostituito dalle enunciazioni vive, portatrici dei temi esistenziali. Comunque, bisogna anche sottolineare le differenze che si manifestano nel loro stile drammatico. Rosso si 29 www.romdoc.amu.edu.pl concentra sull’importanza degli aspetti espressivi. Vengono apprezzati le grida, i gesti o i silenzi che hanno spesso il proprio ruolo. I personaggi sansecondiani soffrono a causa dei dolori metafisici. Le loro decisioni sono dettate dalla passione che li divora. I personaggi pirandelliani invece sembrano essere delle vittime di una certa crisi dei valori etici o sociali che sono storicamente determinati. Per lo più, il teatro pirandelliano si può definire soprattutto come logico – discorsivo. (Orsini 2001: 96-104) Quali meccanismi vengono dunque usati dai precursori del grottesco che intendono rovesciare il teatro borghese ma non riescono a farlo in modo definitivo? Senza dubbio loro cercano di mescolare le poetiche e avendo per lo scopo la volontà di stupire il lettore creano una sorta di confusione. Questa tecnica è assimilabile ai mezzi estetici praticati dagli autori barocchi come ad esempio Federico della Valle (1560-1628) che nelle sue pièce teatrali tendeva spesso a mescolare il tragico e il comico. Il teatro italiano del grottesco desidera proporre delle novità ma esse insomma si possono definire come scarse. Per quale motivo dunque il grottesco non rovescia totalmente il borghese? Perché volendo provocare una vera rivoluzione utilizzò degli attrezzi inadatti. A dire la verità, i grotteschi lottando contro il teatro borghese si servirono dei mezzi borghesi. Le loro pièce sono imperniate sul vecchio triangolo borghese: marito-moglieamante e sulle vicende amorose, di più il linguaggio dei protagonisti può esser nominato classicheggiante. Le novità relative ai concetti strutturali consistono nell’uso rarissimo della tecnica del teatro nel teatro la quale fiorirà poi nelle opere pirandelliane. Ma bisogna soprattutto mettere in evidenza il ruolo decisivo della maschera e la sua dominanza nella realtà scenica piena di falsità, piena di rimorsi, oscillante fra due mondi privi di verosimiglianza, due mondi ambigui che spesso lasciano la storia infinita. Bibliografia 1. Angelini, Franca (1976). Il teatro del Novecento da Pirandello a Fo. RomaBari: Laterza. 2. Antonelli, Luigi (1991). C’è qualcuno al cancello, [w:] Gibellini P. , Oliva G. , Tesio G. (red.), Lo spazio letterario antologia della letteratura italiana 4. Brescia: La scuola. 3. Antonucci, Giovanni (1988). Storia del teatro italiano del Novecento, [w:] Gibellini P. , Oliva G. , Tesio G. (red.), Lo spazio letterario antologia della letteratura italiana 4. Brescia: La scuola. 4. Bronowski, Cezary (2000). La maschera e la marionetta nel teatro italiano negli anni 1918-1930. Toruń: Wyd. Uniwersytetu Mikołaja Kopernika. 5. Livio, Gigi (1989). La scena italiana. Milano: Mursia. 6. Orsini, François (2001). Pirandello e l’Europa. Cosenza: Luigi Pellegrini Editore. 7. Pavis, Patrice (1998). Dizionario del teatro. Bologna: Zanichelli. 8. Rosso di San Secondo, Pier Maria (1991). Marionette che passione, [w:] Gibellini P. , Oliva G. , Tesio G. (red.), Lo spazio letterario antologia della letteratura italiana 4. Brescia: La scuola. 9. Verdone, Mario (1991). Teatro grottesco, [w:] Gibellini P. , Oliva G. , Tesio G. (red.), Lo spazio letterario antologia della letteratura italiana 4. Brescia: La scuola. 30 www.romdoc.amu.edu.pl Agnieszka Liszka Università Jagiellonica di Cracovia Difficoltà di traduzione e ricezione del discorso politico-sociale di Pier Paolo Pasolini in Polonia prima e dopo il 1989 1. Da una cultura all'altra Nel campo della traduzione, quella letteraria costituisce una categoria molto particolare, soprattutto perché il traduttore deve tenere conto simultaneamente di più elementi rilevanti per rendere nella lingua di destinazione i concetti contenuti nell'opera originale. Non sempre è possibile conservare nel testo tradotto tutti questi elementi e il lavoro del traduttore consiste anche nel saper a volte rinunciare a qualcosa, scegliendo nello stesso tempo elementi la cui importanza per il significato generale del testo è invece essenziale. Il problema della traduzione, e soprattutto della traduzione letteraria, è allora la ricerca dell'equivalenza dei due testi. La difficoltà nel raggiungere questa equivalenza risulta da più fattori, non solo quelli puramente linguistici ma anche sociologici e culturali. Come sostiene Umberto Eco nel suo libro Dire quasi la stessa cosa (...) una traduzione non riguarda solo un passaggio tra due lingue, ma tra due culture1, o due enciclopedie. Un traduttore deve non solo tenere conto di regole strettamente linguistiche, ma anche di elementi culturali, nel senso più ampio del termine. (Eco 2003: 162) Tradurre significa allora anche trasmettere diversi significati da una cultura all'altra. E visto che le culture spesso dimostrano molte differenze tra di loro, il traduttore ha due possibili strategie diverse. In effetti, deve decidere se, come dice sempre Eco: (...) una traduzione deve condurre il lettore a comprendere l'universo linguistico e culturale del testo di origine, o deve trasformare il testo originale per renderlo accettabile al lettore della lingua e della cultura di destinazione? (Eco 2003: 171) Naturalmente la situazione ideale sarebbe se le due cose fossero possibili da raggiungere simultaneamente, il che è relativamente più facile, se le due culture sono vicine e dimostrano molte similitudini: di conseguenza, più lontane sono le culture, più difficile sarà raggiungere questi due scopi contemporaneamente. 2. Tradurre Pasolini 1 Evidenziamento AL. 31 www.romdoc.amu.edu.pl In particolare nel caso di Pier Paolo Pasolini sembrerebbe che la vicinanza culturale tra l'Italia e la Polonia, il fatto che entrambi paesi appartengono alla cerchia della civiltà europea occidentale, nonché il periodo in cui ha vissuto il poeta, da cui ci dividono appena alcuni decenni, dovessero rendere relativamente facile la traduzione delle sue opere in polacco. In effetti, anche se prendiamo in considerazione la scarsa conoscenza della letteratura italiana in Polonia, sembra strano che uno scrittore così importante e prolifico come Pier Paolo Pasolini rimanga quasi completamente non tradotto in polacco e perciò sconosciuto almeno fino a pochi anni fa. Durante gli anni alcuni frammenti della vasta opera dell'autore (si tratta prevalentemente della poesia) sono stati tradotti in polacco e pubblicati in diverse riviste letterarie, soprattutto in più numeri del mensile “Literatura na świecie”. Prima degli anni novanta sono apparse allora alcune poesie, saggi e un frammento di una delle sue opere teatrali, Affabulazione (Pasolini 1985 – in Polonia messo in scena due volte: nel 1984 a Varsavia2 e nel 1985 a Cracovia3). Sicuramente il fatto che le opere del poeta erano sempre impegnate politicamente, ha già dall’inizio determinato in qualche modo la loro ricezione in Polonia. Anche se legato alla sinistra, Pasolini non era un comunista ortodosso, anzi, la sua critica diretta verso partiti comunisti e la società laica lo rendeva un personaggio scomodo anche per le autorità della Repubblica Popolare Polacca. In effetti, finora in Polonia Pier Paolo Pasolini è conosciuto soprattutto come un regista ed in più come un regista scandalizzante, mentre quasi ignota rimane la sua opera di scrittore, poeta e drammaturgo. I suoi film naturalmente non venivano mai programmati nei grandi cinema ma sicuramente erano guardati, apprezzati e largamente commentati non solo negli anni in cui sono stati realizzati4, ma anche dopo, nei decenni successivi alla tragica morte del regista avvenuta nel 19755. 3. Riscoprire Pasolini Ultimamente invece occasionali visioni dei film di Pasolini, soprattutto durante dei festival o rassegne cinematografiche (ad esempio “Era Nowe Horyzonty” nel 2002, ma anche rassegne nel 2004 a Łódź e nel 2006 a Cracovia6), vengono accompagnate da diverse iniziative culturali il cui scopo è quello di avvicinare allo spettatore polacco il personaggio di Pasolini e tutta la sua opera. Tra eventi importanti legati a Pasolini, prima di tutto vanno 2 Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/11190,szczegoly.html. Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/9381,szczegoly.html. 4 Cfr. ad es. Kornatowska 1966, 1969 e Kossak 1968, 1972. 5 Cfr. ad es. Kornatowska 1975, Kossak 1976, Ugniewska 1983, Modrzejewska 1986 e Czapliński 1992. 6 Cfr. Kino Pod Baranami: http://www.kinopodbaranami.pl/wydarzenie.php?evnt_id=242 3 32 www.romdoc.amu.edu.pl menzionate le pubblicazioni di intere opere pasoliniane: un volume di poesie tradotte da Jarosław Mikołajewski, intitolato Bluźnierstwo (Bestemmia) nonché due volumi di opere teatrali tradotte da Ewa Bal, Orgia. Chlew (Orgia. Il porcile) e Pilades. Calderon (Pilade. Calderón). In più la stessa traduttrice scrive anche un libro dedicato principalmente all'opera di Pasolini e al suo impatto sullo sviluppo della drammaturgia italiana degli ultimi anni (Bal 2007). L'ultima traduzione importante pubblicata in Polonia è un frammento della sceneggiatura del film su San Paolo, tradotto da Zygmunt Borawski e pubblicato in un numero della rivista “Krytyka Polityczna” (Pasolini 2007). Nel 2005 e 2006 vengono anche presentati due spettacoli basati sull'opera e sulla biografia di Pasolini, Pasolini – modlitwa na zlecenie (Pasolini – preghiera su commissione) a Varsavia7 e Wygnani (Esiliati) a Łódź8. Altre iniziative particolarmente importanti sono le Giornate di Pasolini organizzate a Cracovia nel 2007 da Teatr Stary che hanno accompagnato la pubblicazione della menzionata traduzione di Pilades e Calderon9. Infine bisogna menzionare un convegno dedicato a Pasolini svoltosi a Varsavia nel 2009 e organizzato dal teatro Teatr Rozmaitości in occasione della prima dello spettacolo di Grzegorz Jarzyna T.E.O.R.E.M.A.T. basato principalmente sull'omonimo romanzo ma anche su altri testi del drammaturgo italiano, tra cui soprattutto frammenti delle interviste ed incontri con l'autore10. Lo spettacolo di Jarzyna non solo è stato apprezzato da spettatori e critici11 ma ha anche provocato una discussione sull'attualità dell'opera di Pasolini oggi12. Interessante anche che neanche un anno dopo la realizzazione di Jarzyna, Teorema di Pasolini ha ispirato un altro spettacolo, questa volta a Opole, intitolato Wszystko jutro, czyli lalki wybawione13 (Tutto domani ovvero bambole salvate). 4. Differenze culturali e difficoltà Da questa breve presentazione della ricezione dell'opera pasoliniana risulta chiaro che la parte della sua opera più comunemente e più velocemente recepita in Polonia è stata la sua opera cinematografica (nella quale il significato viene trasmesso soprattutto tramite mezzi 7 Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/38798,szczegoly.html. Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/40192,szczegoly.html. 9 Cfr. Stary Teatr w Krakowie: http://www.stary.pl/files/11679258920OPIS%20ca%B3o%B6ci.29.12.2006.pdf. 10 Cfr. TR Warszawa: http://www.trwarszawa.pl/przeglad-filmow-piera-paolopasoliniego-i-konferencja-pasolinipoeta-wolnosci. 11 Cfr. ad esempio Drewniak 2009, Michalak 2009, Reksnis 2009. 12 Mi rivolgo qui soprattutto alle recensioni ed articoli pubblicati in diversi giornali e riviste dopo la prima dello spettacolo, tra cui lo scambio di opinioni avvenuto sulle pagine del mensile “Krytyka Polityczna” tra Igor Stokfiszewski e Kinga Dunin e dedicato principalmente al ruolo del discorso politico nello spettacolo di Jarzyna. Cfr. Dunin 2009, Stokfiszewski 2009. 13 Cfr. Polski Wortal Teatralny: http://www.eteatr.pl/pl/realizacje/44395,szczegoly.html. 8 33 www.romdoc.amu.edu.pl audiovisivi non solo linguistici), mentre negli ultimi anni si può osservare in Polonia un maggiore interesse soprattutto verso la sua opera teatrale. Sembra infatti che la principale e nello stesso tempo la più grande difficoltà che deve essere affrontata da un traduttore che voglia rendere i testi di Pasolini in polacco, sono ancora alcuni termini italiani che a stento trovano il loro corrispettivo nella nostra lingua. Visto proprio che il tema politico e il discorso sociale ed economico costituiscono elementi rilevanti nei testi dello scrittore, con una simile frequenza appaiono anche alcune nozioni che – anche nel caso in cui il loro corrispettivo polacco si trovi subito – nel nostro idioma non trasmettono più né gli stessi concetti né le stesse idee. Vediamo ad esempio un concetto fortemente presente nei testi del regista di Salò cioè comunismo che in polacco viene tradotto ovviamente come komunizm. La parola comunismo, se paragonata al suo corrispettivo polacco, crea delle difficoltà enormi: anche la definizione che troviamo in vari dizionari di lingua, rispettivamente italiani e polacchi, può differire leggermente. Ad esempio la versione on-line del dizionario Sabatini-Coletti sul sito del “Corriere della Sera” riporta questa definizione della parola comunismo: „Teoria e prassi economicopolitiche, che prevedono l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la gestione collettiva dei beni e della loro distribuzione.”14 Un dizionario polacco invece, precisamente quello di PWN, sempre versione on-line, oltre a una definizione molto simile a quella italiana aggiunge anche un secondo significato, secondo il quale comunismo equivale a “ustrój totalitarny realizowany w ZSRR, narzucony krajom Europy Środkowej i Wschodniej po II wojnie światowej, oparty na monopolu władzy skupionej w rękach jednej partii.”15 Il significato delle parole non è circoscritto a queste limitate denotazioni che attribuisce loro il dizionario. Sia nella realtà linguistica polacca che in quella italiana il significato del comunismo viene decisamente allargato dalle loro rispettive connotazioni che nelle due culture sono ugualmente forti ma estremamente opposte. Questa differenza la possiamo osservare facilmente, anche esaminando come viene spiegata la parola comunismo in due versioni linguistiche di Wikipedia, l'italiana e la polacca: redatta dagli utenti e perciò non sempre freddamente oggettiva. Anche se due versioni sono paragonabili per quanto riguarda la definizione, in quella italiana comunismo viene trattato soprattutto come “un insieme di idee”16 mentre quella polacca lo definisce come “un sistema ideologico radicale”17. Quando la 14 Corriere dizionari: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/index. html. PWN Słownik języka polskiego on-line: http://sjp.pwn.pl/ (“sistema totalitario realizzato nell'Unione Sovietica, imposto ai paesi dell'Europa centrale ed orientale dopo la Seconda guerra mondiale, basato sul monopolio del potere concentrato nelle mani di un partito.” Trad. AL). 16 Cfr. Comunismo, in: Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Comunismo. 15 34 www.romdoc.amu.edu.pl versione italiana sottolinea l'esistenza di diverse varietà del comunismo, menzionando anche la corrente cristiana e ricorda anche il carattere antifascista del comunismo, la versione polacca si concentra piuttosto sulle vittime dei regimi comunisti. Non ci dovrebbe stupire che tali incongruenze esistono tra diverse versioni di Wikipedia, dove spesso possiamo incontrare perfino avvertenze riguardanti la mancanza di fonti sufficienti o dell’oggettività. Quello che può sembrare invece più importante e più grave è che le differenze, anche se meno evidenti, si possono trovare anche nelle definizioni dei dizionari pubblicati da case editrici rinomate che indubbiamente dedicano molta attenzione alla professionalità, alla accuratezza ed all’oggettività delle loro pubblicazioni. In effetti, possiamo costatare che in Polonia comunismo è sempre associato a “un regime totalitario”, i simboli comunisti vengono trattati dal codice penale polacco alla stregua dei simboli nazisti o fascisti e il loro uso è punito dal codice penale18. In Italia falce e martello o bandiera rossa non solo sono comunemente usati come simbolo di diversi movimenti di sinistra oppure organizzazioni sindacali, ma perfino costituiscono il simbolo ufficiale di un partito19. Nonostante queste differenze, non troviamo altra parola per rendere in polacco il comunismo italiano e così per il lettore polacco il significato del discorso pasoliniano in maniera automatica slitta leggermente ma inevitabilmente verso una sfumatura negativa e diversa da quella dell'originale. L'importanza del movimento comunista in Italia, il ruolo cruciale degli intellettuali come Antonio Gramsci nello sviluppo della cultura italiana, nonché la posizione cruciale del Partito Comunista Italiano nella realtà politica del secondo dopoguerra fanno sì che comunismo diventa se non una corrente dominante nella cultura, almeno una delle più importanti, con il ruolo rilevante del PCI come uno dei principali partiti d'opposizione del sistema politico italiano della Prima Repubblica. Mentre in Polonia quasi 45 anni del regime sovietico, il fatto che comunismo funzionava durante quegli anni come l’unica possibile ideologia, ufficialmente adottata e imposta alla società, hanno inevitabilmente provocato grande risentimento non solo nei confronti della ideologia comunista propriamente detta ma in generale di tutto quello che è in qualche modo legato al concetto di sinistra nella scena politica. 17 Cfr. Komunizm, in: Wikipedia: http://pl.wikipedia.org/wiki/Komunizm. Kodeks karny, art. 256, § 2, citato da Internetowy System Aktów Prawnych: http://isap.sejm.gov.pl/index 19 Quello della Rifondazione comunista. Rifondazione.it: http://home.rifondazione.it/xisttest/content/view/25/432/ 18 35 www.romdoc.amu.edu.pl Una simile difficoltà creano altre espressioni usate spesso da Pasolini. In una poesia dal volume Religione del mio tempo intitolata Alla mia nazione tradotta da Jarosław Mikołajewski troviamo anche le seguenti parole: Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti tra case coloniali scrostate ormai come chiese. (Pasolini 1999: 76) Mikołajewski traduce “piccoli borghesi” con la parola “mieszczanie” anche se letteralmente dovrebbe essere “drobnomieszczanie” che però avrebbe una sfumatura diversa, forse troppo legata al linguaggio tipico dei tempi del regime comunista nel nostro paese. Ma poi “mieszczanie” rende veramente il concetto di “piccolo borghese” così come esso si presenta nella cultura italiana? È piuttosto discutibile. Se allora il lettore polacco incontra in un testo di Pasolini parole come: proletariato, classe, imperialismo, capitalismo, facilmente associa il testo al discorso propagandistico dei tempi del socialismo reale sovietico. Il fatto che il discorso non solo marxista, ma pure marxiano veniva usato dalle autorità del “vecchio sistema” ha fatto sì che in Polonia questo tipo di discorso venga subito recepito come totalitario. Sicuramente anche il fatto che la sinistra parlamentare in Polonia ha le sue radici nel regime crollato nel 1989, ha delle conseguenze importanti per il tipo di associazioni che provoca in Polonia ad esempio la parola sinistra e altre nozioni che vi si associano. 5. Nuova realtà, nuove idee Sembra però che con gli ultimi cambiamenti sociali ed economici avvenuti in Polonia dopo il 1989 e soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso e dopo la nostra adesione all'Unione Europea cominci a formarsi anche in Polonia quel tipo di società capitalistica e consumistica che esisteva già negli anni Sessanta nel mondo occidentale. Di conseguenza nascono anche tutti i problemi della società di consumi che Pasolini osservava alcuni decenni fa in Italia: consumismo, omologazione, conformismo ecc. Si cominciano a formare altresì gruppi di sinistra critici rispetto alla realtà del capitalismo ma che rinunciano decisamente anche l'eredità del socialismo reale e dello stalinismo e si rifanno invece non solamente direttamente a Marx, che in Polonia viene sempre ancora associato al regime sovietico, ma piuttosto a certi nuovi personaggi del pensiero di sinistra, tra cui Alain Badiou, Giorgio Agamben o Slavoj Žižek. In questo contesto Pasolini appare di nuovo negli ultimi anni anche a teatro e precisamente al Teatr Rozmaitości di Varsavia. Si tratta dello spettacolo, già menzionato, preparato e 36 www.romdoc.amu.edu.pl diretto da Grzegorz Jarzyna, intitolato T.E.O.R.E.M.A.T. che si basa principalmente, ma non esclusivamente su un testo eponimo di Pasolini. Né il testo, né lo spettacolo si concentrano prevalentemente in apparenza sulla dimensione politica. In fondo però sia la versione di Pasolini, sia quella di Jarzyna sono in forte maniera impegnate politicamente al che accennano alcuni critici. Si vede così che negli ultimi anni le opere dello scrittore di Casarsa vengono recepiti in Polonia anche, e forse soprattutto, se contengono un discorso politico rilevante. In più oltre ai quattro drammi pubblicati a Cracovia, appare la traduzione dei frammenti di Appunti per un film su San Paolo, legata alla pubblicazione in polacco, dalla casa editrice di “Krytyka Polityczna” del libro di un filosofo francese di sinistra, ormai famoso e già menzionato sopra, Alain Badiou, intitolato appunto Saint Paul. La fondation de l'universalisme. Il personaggio di San Paolo, che ha ispirato fortemente Pasolini negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, negli ultimi anni viene spesso citato da alcuni studiosi e filosofi di sinistra. Bisogna dire che il testo di Pasolini viene pubblicato in “Krytyka Polityczna” proprio come un altro modo ancora di vedere “l'apostolo dei pagani” che, non rinunciando alla visione originale della Bibbia, propone una lettura del personaggio e del suo comportamento in chiave strettamente politica. San Paolo diventa per Pasolini soprattutto un uomo politico che combatte contro il sistema del potere, contro la società concentrata troppo sul consumismo e sul perbenismo borghese, contro l’esclusione dei più poveri ceti della società. Ma oltre a essere un ribelle, San Paolo è per lo scrittore anche un grande organizzatore che dedica tutta la sua vita dopo la conversione a creare, a formare un'organizzazione efficace che possa funzionare e realizzare il programma accettato da questo gruppo20. In effetti, il personaggio di San Paolo negli ultimi anni è diventato una specie di modello dell'eroe di sinistra. Inoltre nel discorso dei filosofi menzionati un ruolo sempre più importante viene assunto dalla religione e in generale dall'esperienza del sacro. In Polonia l’unione della cristianità e il pensiero di sinistra non sarà sicuramente facilmente accettata, né lo sarà l’idea di San Paolo come propagatore dell’universalismo ed organizzatore del movimento rivoluzionario.21 Sia la pubblicazione del libro di Badiou che della sceneggiatura di Pasolini dimostra però che è possibile almeno una discussione sui valori rappresentati rispettivamente dalla religione cristiana e dal nuovo pensiero di sinistra, fondamentali per la cultura occidentale. 20 21 Cfr. Pasolini 2001, p. 1089. Cfr. ad es. Szostkiewicz 2007. 37 www.romdoc.amu.edu.pl 6. Pasolini, critico della società polacca? La domanda che bisognerebbe porsi e a cui questo breve testo non può, visto soprattutto la mancanza di spazio, rispondere è la seguente: le differenze tra le due culture, che rendono la traduzione dei testi di Pasolini così difficile, cominceranno a ridursi? L’opera pasoliniana sarà più accessibile ai nuovi lettori polacchi di quanto era ancora qualche anno fa? I cambiamenti sociali avvenuti in Polonia negli ultimi anni avvicineranno veramente il discorso pasoliniano alla realtà polacca? Sarà più facile adesso tradurre Pasolini in polacco dicendo nella traduzione “quasi la stessa cosa” che viene detta nel testo originale? Sono le domande a cui adesso è ancora difficile rispondere, ci vorranno probabilmente ancora alcuni anni per poterne trovare la conferma o la negazione. Sicuramente è vero però che con il formarsi del sistema democratico in Polonia comincia a nascere nel paese anche un nuovo discorso della sinistra. Anche se la rottura con il vecchio modo di dividere la scena politica in sinistra (“postcomunisti, legati al regime della Repubblica Popolare) e destra (post-“Solidarność”) persiste ancora, questa netta distinzione comincia ad attenuarsi. La nuova realtà politica rende sempre più debole l’importanza delle differenze storiche, mettendo simultaneamente in rilievo le questioni che costituiscono proprio il centro dell’interesse sia della sinistra moderna, sia del discorso sociale pasoliniano. Le questioni come consumismo, uniformizzazione, marginalizzazione dei più deboli o “diversi” membri della società (disoccupati, immigrati ma anche ad esempio omosessuali o donne) diventano sempre più discusse anche in Polonia e questo forse significa che anche nel nostro paese si avverte il bisogno di tornare alla letteratura politicamente impegnata, così come la vedeva Pasolini. Questi cambiamenti forse promettono allora anche un interesse maggiore verso l'opera pasoliniana, la possibilità che la sua letteratura venga in Polonia capita meglio anche se sono passati alcuni decenni dalla sua pubblicazione in Italia. Paradossalmente, proprio adesso l’opera pasoliniana può mostrarsi sorprendentemente attuale. Bibliografia Bal, Ewa (2007). Cielesność w dramacie. Teatr Piera Paola Pasoliniego i jego możliwe kontynuacje. Kraków: Księgarnia Akademicka. Czapliński, Lesław (1992). Pasoliniego kino śmierci. Kraków: Graffiti. Drewniak, Łukasz (2009). T.E.O.R.E.M.A.T.” Piera Paola Pasoliniego. http://www.przekroj.pl/kultura_teatr_artykul,4114.html, 5.04.2010. Dunin, Kinga (2009). Jarzyna w kuwecie. http://www.krytykapolityczna.pl/Dunin/Jarzyna-w-kuwecie/menu-id68.html, 5.04.2010. Eco, Umberto (2003). Dire quasi la stessa cosa. Milano: Bompiani. Kornatowska, Maria (1966). Pasolini między marksizmem a ewangelią. “Kultura”, nr 35. Kornatowska, Maria (1969). 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Comunismo, in: Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Comunismo, 5.04.2010. 39 www.romdoc.amu.edu.pl Paulina Malicka Università Adam Mickiewicz di Poznań «Topi d’avorio, sciacalli al guinzaglio e bulldog di legno». Il dono nella poesia di Eugenio Montale. 1. Il perché del dono in Montale Topi d’avorio, sciacalli al guinzaglio, bulldog di legno. Sciarada? Rebus? Gioco di parole? Abracadabra? Ebbene, lungi da qualsiasi stregoneria, non possiamo non intravedere in questo susseguirsi di presenze animalesche ed oggettuali, che qui salgono all’onore del titolo, una qualche sorta di totemismo o di una formula magica le cui qualità, seppure altrove fortemente negate dal Montale stesso, ci introducono miracolosamente in una nuova dimensione, che a quanto pare non sia stata ancora percorsa dagli ermeneuti della poesia montaliana, – ovvero quella del dono. Prima di entrarci però, occorre fare una breve premessa che ci aiuterà a capire meglio la ragione del cimentarsi in un tale argomento. Il fatto di voler relegare l’universo poetico di Eugenio Montale nell’ambito della riflessione sul dono, il quale negli ultimi decenni si è impostato come uno dei temi principali dell’indagine filosoficoantropologica, non è del tutto casuale. A portarci fin qui è stato inizialmente un «Flatus vocis»1 (Grignani 1987: 11) - una voce, un nome suggerito o «soffiato»2 (Derrida 2002: 219), capace, come nel caso di Montale, di attivare un frammento del vissuto, sprigionare ricordi e flashback del passato per poi ri-donarli di nuovo alla memoria o fissare come in un fermoimmagine, un oggetto qualsiasi capace di salvare inaspettatamente l’esistenza di un altro/a. Un «Flatus vocis» che ha agito come un vero e proprio ordigno esplosivo dando la vita ad un progetto più ampio di cui protagonista diventa per eccellenza il dono. Si tratterà cioè, di una formula magica che con la sua carica semantica ed emotiva ha dato l’inizio ad una vera e propria gara nell’inseguire il moto del dono nelle liriche montaliane. Si pensi agli Xenia montaliani, 28 componimenti dedicati alla moglie scomparsa (Drusilla Tanzi, chiamata 1 Si pensi qui ad uno dei capitoli dei Prologhi ed epiloghi di Maria Antonietta Grignani, intitolato appunto Flatus vocis, in cui la studiosa analizza diversi codici onomastici nella poesia di Montale. Per Flatus vocis la Grignani intenderà nomi propri, nomi di diverse figure femminili che popolano le liriche montaliane, soprannomi, pseudonimi, personaggi ridotti a pura esistenza nominale, diversi toponimi, il nome di Dio (Grignani 1987). 2 Si pensi alla convinzione di Jacques Derrida che la parola di cui facciamo uso non è mai nostra, in quanto appartenuta precedentemente a qualcun altro. Si tratta sempre di una parola rubata, «sottratta» oppure «soffiata» – data, suggerita. 40 www.romdoc.amu.edu.pl Mosca) rifusi poi nel quarto libro del poeta intitolato Satura3. Il titolo rimanda al xenium latino che sta per dono, regalo mandato a casa di un amico che è stato nostro ospite, e come suggerisce il poeta stesso deve intendersi come tale, nel senso appunto di offerta e donoricordo. «Il piccolo insetto miope» (Drusilla era affetta da una forte miopia) chiamato Mosca, continua a vivere in quei ricordi grazie all’intromissione degli oggetti dell’uso quotidiano che ne hanno accompagnato l’esistenza: «l’infilascarpe, il cornetto di latta arruginito, gli ombrelli smarriti, antibiotici velenosi, le bende e i gessi, gli occhiali da tartaruga» (Montale 1984). Il fantasma femminile sopravvive allo scorrere del tempo in questi oggetti buffi e bizzarri, in questi piccoli talismani, solo apparentemente senza importanza, nei ricordi dei posti visitati insieme, i cui nomi vengono scrupolosamente riportati dal coniuge: «l’albergo Saint James a Parigi, il Grand-Hotel Danieli a Venezia, il bar dell’Avenida da Liberdade in Portogallo», nei nomi dei vari personaggi a lei più o meno cari: «Celia, Hedia, il dottor Cap, il chirurgo Mangàno», nei nomi dei vini da lei graditi: «Inferno, Paradiso, Madeira» (Montale 1984). Il dono degli Xenia quindi è da intendersi come offerta votiva alla moglie scomparsa, ma anche come oggetto o nome offerto al poeta dalla quotidianità coniugale che salva il ricordo di lei per poi non permetterle di rimanere debitrice nei confronti del marito. Così è scattata la scintilla. Il «Flatus vocis» ha scatenato tutta una serie di ragionamenti, seppure contorti, riconducibili però ad una ferma convinzione di poter leggere le liriche montaliane attraverso la figura del dono nel quale si rispecchiano quasi tutti i leitmotiv della poesia del ligure. Ed è da qui che il raggio d’azione del Nome inizierà ad ampliarsi riabbracciando altri «flatus vocis» ancora, dietro i quali si nasconderanno, come nel caso del nostro titolo che andiamo a decifrare, sia presenze animalesche ed oggettuali che quelle umane o quasi divine. 2. Il dono nell’antropologia (Malinowski, Mauss) A fare da filo d’Arianna nella presente ricerca dello xenion montaliano, è stata in primo luogo la lettura dei due pilastri dell’antropologia novecentesca: Bronisław Malinowski che negli Agronauti del Pacifico Occidentale descrive un fenomeno socioculturale chiamato kula consistente nello scambio simbolico di doni effettuato tra le popolazioni delle isole Trobriand dell’Oceano Pacifico, e Marcel Mauss, il quale con il suo celebre Saggio sul dono, ha dimostrato, in base all’osservazione antropologica delle società arcaiche, quanto le forme del dono in popolazioni del Pacifico e del Nord America fossero variabili. La tesi centrale che traspare da l’Essai sur le don, sta nell’affermazione che il dono si manifesta sempre come 3 Satura - dall’espressione lanx satura – ovvero piatto ricolmo di molti e vari cibi offerti come primizia agli dei. 41 www.romdoc.amu.edu.pl relazione tra gruppi e persone consistente in una triade radicata nella mente umana, basata su questi tre obblighi assoluti: quello di «dare», «ricevere» e «restituire» (Mauss 1965: 217). Ad ogni dono quindi deve corrispondere un contro-dono, ogni dono ricevuto vincola il ricevente obbligandolo alla reciprocità, allo scambio, che però non deve essere inteso come un’operazione economica, bensì come un ininterrotto circuito di doni il cui scopo, «è prima di tutto quello morale, quello di produrre un sentimento di amicizia tra le due persone interessate» (Mauss 1965: 183), quello di manifestare un rispetto reciproco. Lo scambio tra rappresentanti di collettività, clan, tribù o famiglie non consiste, secondo l’autore, esclusivamente in beni materiali, ricchezze, oggetti di valore (amuleti, talismani, maschere, ornamenti ecc.), ma «prima di tutto di cortesie, di banchetti, di riti, di prestazioni militari, di donne, di bambini, di danze, di feste» (Mauss 1965: 161). Così, osserva Mauss, attraverso il dono e nel dono si instaurano sodalizi ed alleanze, si creano legami indissolubili, basati sulla collaborazione e sulla reciprocità. La circolazione di doni e di contro-doni presuppone una comunicazione che non si limita ad una semplice transizione dell’oggetto mediatore tra due soggetti, perché «regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi» (Mauss 1965: 172). La cosa ricevuta quindi, non è un oggetto inerte, poiché anche se riposto nelle mani altrui, trattiene sempre qualcosa del donatore, del suo spirito. In questa ottica l’atto del donare corrisponde ad una specie di legame, ma non in modo assoluto. Il dono può essere anche causa di continue diffidenze, sfide e opposizioni ed assumere così una valenza negativa trasformandosi inaspettatamente in veleno. Questo carattere ambivalente del dono viene ricollegato alla duplicità semantica della parola «gift» che nelle lingue germaniche significa sia «dono» che «veleno» (Mauss 1965: 267), ma anche al nesso indissolubile nella lingua greca: «dôron» – «dôlos» (dono-inganno), oppure ancora alla polisemia del termine greco «dosis» che indica l’atto del donare, ma anche la dose di una sostanza mortale, al «pharmakon» inteso come «veleno» e «medicina» nello stesso tempo. Il dono quindi può essere considerato come un atto di generosità, come un obbligo morale o costrizione, come dimostrazione del proprio prestigio, della propria superiorità, ma anche come «ciò che bisogna dare, ciò che bisogna ricevere e ciò, che tuttavia, è pericoloso prendere» (Mauss 1965: 261). Offrire qualcosa in dono quindi è anche trarre in inganno (dôlos), tradire o addirittura, uccidere, o per dirla con Derrida: «donare la morte» (Derrida 2002: 43). 3. Il dono nella fenomenologia (Husserl, Heidegger) Un altro importante indizio nell’analisi del dono in Montale viene suggerito dalla fenomenologia classica di Edmund Husserl e dal tardo pensiero di Martin Heidegger. Si pensi 42 www.romdoc.amu.edu.pl alla categoria «es gibt» coniata dal concetto husserliano, la cui ambiguità semantica, come sostiene Heidegger, esige che si pensi «l’essere» soprattutto come «il dare», in quanto il termine tedesco («es gibt») significa in primo luogo si dà (geben=dare/donare) e in secondo luogo: «c’è». Un dato di estrema importanza quest’ultimo, visto che il concetto dell’essere heideggeriano nel quale «l’esserci» (Dasein) viene gettato, corrisponde all’immersione, dell’io poetico in un determinato contesto spazio-temporale (paesaggio ligure, il mare degli Ossi, la civiltà umanistica delle Occasioni, la guerra storica e cosmica de La bufera e altro, la realtà di consumo e la società di massa nella Satura, ecc.) impostogli a priori, senza che gli venga concessa una minima possibilità di poter decidere sull’accettazione o meno di ciò che gli viene offerto. La realtà nella quale l’io viene proiettato, come l’essere heideggeriano non solo è, ma si dà al poeta costringendolo non solo a riceverla ma anche a ricambiarla. In effetti, in Montale, ogni tentativo di un eventuale rifiuto della realtà circostante (si pensi al rapporto tormentato tra l’io e il mare negli Ossi di seppia), nei confronti della quale il poeta ha sempre provato un sentimento di «totale disarmonia» (Montale 1996: 1592), dovrà essere represso, soffocato e trasformato in forma di un’accettazione, voluta o meno, di ciò che viene offerto ed infine seguita da un ricambio falso o sincero di quello che si è ricevuto. Ci ritroviamo quindi all’interno della relazione triadica del rifiutare – ricevere – ricambiare, all’interno della quale la figura del dono costituisce una specie di saldatura tra questi tre imperativi che governano l’esistenza dell’io poetico nel mondo. Che fine però hanno fatto i nostri topi, sciacalli e quei simpatici molossoidi chiamati bulldog? Come mai, prima di tutto, sono stati chiamati in causa? Che affinità possono avere con la tematica del dono? Vediamo un po’. È interessante intravedere all’interno del nostro titolo la fusione di tre presenze animalesche, la cui identità può essere ridotta ad una semplice presenza oggettuale (souvenir, gadget, portafortuna). C’è di più però. Dietro queste apparizioni misteriose, si cela ancora qualcos’altro o qualcun altro. Torniamo quindi allo zoo poetico montaliano, che qui riduciamo alla presenza di soli tre esemplari, ma che in realtà è abitato da «circa centocinquanta animali, un terzo dei quali uccelli, pochi meno i mammiferi, ancor meno gli insetti, quindi i pesci, i rettili e finalmente gli anfibi» (Manacorda 1984: 118). 4. Un topo bianco d’avorio Il 25 settembre del 1928, Bobi Bazlen, un carissimo amico di Montale, nonché un famoso intellettuale triestino, gli invia una strana lettera con una foto dentro: «Gerti e Carlo: Bene. A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus». Al ché Montale non esita rispondergli: «Dora Markus????? 43 www.romdoc.amu.edu.pl Manda!!!!!» (Isella 1996: 53). Così, quasi per scommessa, dietro il «suggerimento-sfida» (Marcenaro 1999: 109, 110). di Bazlen e dietro l’occasione-spinta della fotografia scattata dalla comune amica Gerti Frankel Tolazzi, originaria della Carinzia, nascono i versi di una delle più celebri poesie di Montale. Ed è qui che incontriamo il nostro «topo d’avorio». La lirica è composta di due parti: la prima Dora Markus I è del ’28, la seconda Dora Markus II risale al 1939. È interessante sottolineare questo fatto, dato che il soggetto della fotografia e la sua esecutrice nella seconda parte vengono fusi in un’unica figura femminile: Dora continua a vivere nel corpo e nell’immagine di Gerti condividendo con lei lo stesso destino: quello di due ebree di fronte alle persecuzioni raziali che dilagano con il terrore. In questa sede però, vogliamo riportare soltanto la chiusa della prima parte del componimento che narra: «La tua irrequietudine mi fa pensare agli uccelli di passo che urtano ai fari nelle sere tempestose: è una tempesta anche la tua dolcezza, turbina e non appare e i suoi riposi sono anche più rari. Non so come stremata tu resisti in questo lago d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse ti salva un amuleto che tu tieni vicino alla matita delle labbra, al piumino, alla lima: un topo bianco d’avorio; e così esisti!» Montale traccia l’immagine di una donna esule dalla propria terra, ma anche dalla propria vita. Dora si ritrova a Porto Corsini, nei pressi di Ravenna e con una mano indica come lontana la Carinzia, la sua «patria vera» e la città già capitale dell’impero romano d’Occidente appare affondata in una «primavera inerte, senza memoria». Il discorso però è ben più complesso di una semplice nostalgia. Ciò che colpisce il poeta è l’irrequietezza interiore e l’enigmaticità del suo personaggio che realmente non conosce4, la cui esistenza può dipendere da un piccolo amuleto: «un topo bianco d’avorio», conservato accanto agli oggetti d’uso personale, alle cianfrusaglie ed ai belletti femminili necessari per il trucco: alla «matita delle labbra», al «piumino» della cipria ed alla «lima». Un piccolo e banale oggetto permette alla donna di rassegnarsi al destino e di proseguire la sua vita «in questo lago d’indifferenza» trattenendola al di là della morte. Con il suo irrompersi e con il suo darsi, quell’apparentemente insignificante portafortuna che abita la borsetta della donna, porta salvezza e misteriosamente ri-dona la vita alla propria padrona. Rientriamo forse nella logica «do ut des» (io do affinché tu dia) – visto che un mero «flatus vocis» realmente suggerito, 4 «Io Dora non l’ho mai conosciuta» (Montale 1996: 1512). 44 www.romdoc.amu.edu.pl offerto in dono al poeta riesca a produrre in lui l’immediato atto di riconoscenza che si trasforma in un dono-offerta proiettato verso l’altro: verso la donna che tra l’altro molto spesso porterà in Montale le vesti di una donataria che riceve la vita o la salvezza. Si pensi al gesto altruisco e al sacrificio etico degli Ossi di seppia («Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ Va, per te l’ho pregato; Ti dono anche l’avara mia speranza/l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi; Se un’ombra scorgete, non è/un’ombra – ma quella io sono/Potessi spiccarla da me,/offrirvela in dono; il dono che sognavo/non per me ma per tutti»). Questa proiezione oblativa di un augurio di salvezza sulla figura femminile che forse continuerà ad esistere grazie al «topo bianco d’avorio», oltre a costituire un perfetto esempio di dono disinteressato, rispecchia quello che Montale chiama «occasione-spinta», ovvero un’indicazione, un dato, un elemento realistico, un oggetto che attraverso il modo in cui viene descritto e il significato simbolico di cui si grava, fornisce al lettore il compito di intuire il messaggio poetico a modo suo. Ecco la spiegazione montaliana del procedimento riportata in extenso: «Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta. Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi» (Montale 1996: 1481). Una tecnica compositiva riconducibile al concetto del correlativo oggettivo di Thomas Stearns Eliot formulato nel saggio Hamlet and his problems del 1919: «Il solo modo di esprimere emozioni in forma d’arte è di scoprire un “correlativo oggettivo”; in altri termini una serie di oggetti, una situazione, una successione di eventi che saranno la formula di quella particolare emozione; tali che quando i fatti esterni, che devono terminare in esperienza sensibile, siano dati, venga immediatamente evocata l’emozione» (Eliot 1992: 397). Montale però, si dissocia categoricamente dalle posizioni eliotiane dicendo: «ero mosso dall’istinto non da una teoria (quella eliotiana del “correlativo obiettivo” non credo esistesse ancora, nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato nel “Criterion”)» (Montale 1996: 1482). Infatti, come osserva la critica (Giuliucci 2007), c’è una sottile differenza tra queste due prese di posizione. Mentre la regola di Eliot tende soprattutto a trasformare l’oggettività in soggettività attraverso una correlazione tra l’emozionalità ed una serie di oggetti concreti che potrebbero esprimerla, Montale distaccandosi da essa vuole passare sotto il silenzio il dato fisico da cui nascerà lo slancio verso il metafisico. Quel dato fisico, che con il suo essere si dà, corrisponde quindi «all’occasione, alla spinta» che, per poter generare un densitometro di emozioni in forma di una parola-oggetto, deve ricorrere al silenzio. Per Montale infine, far poesia è un continuo rispecchiarsi del vero su uno «schermo di immagini», un’ incessante 45 www.romdoc.amu.edu.pl proiezione della realtà abitata dall’infinità di oggetti di vario genere, così come appare nella sua presenza, un confi-dare al lettore, bensì inconsapevolmente, un frammento del proprio vissuto eliminandone ogni antefatto e sottacendone la ragione. Il nostro «topo» quindi diventa un dono, che oltre ad offrire la vita alla donna, emerge dalla realtà quotidiana, si presenta e si dà. Quello del poeta invece, diventa un tentativo di immergere il lettore in «medias res» che si sposa con un crescente sforzo di precisazione, concretezza e di significazione nei confronti della realtà circostante e del mondo nel quale – per dirla con Heidegger – l’uomo («l’Esserci») viene gettato, e dal quale l’io parlante riceve in dono un infinito repertorio di oggetti che rendono possibile il suo «essere-nelmondo», il suo «dare» in forma di parola scritta (Meynaud 1984). 5. Sciacalli al guinzaglio Il silenzio di quell’occasione che spinge il poeta a scrivere, ci porta a prendere sotto esame il secondo abitante dello zoo poetico montaliano: «sciacallo» o più esattamente «sciacalli» che diventano protagonisti del celebre mottetto La speranza di pure rivederti (Le occasioni; datata 1937) che, come preciserà il poeta, fanno parte di un remoto ricordo (occasione − apparizione) di un pomeriggio d’estate. Riportiamo la spiegazione montaliana: «Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici (...) Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagnuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti né bassotti né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: << Che cani sono questi?>>. E il vecchio, secco e orgoglioso: <<Non sono cani, sono sciacalli>>. (...) Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! Pensò Mirco. E da quel giorno non lesse nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine? Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte à surprise della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli ... E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo. Una sera Mirko si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’inica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe. (…) S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione (…) la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordo intimo e 5 lontano» (Montale 1980: 908,909). Il mottetto nato da questo “incontro” recitava: La speranza di pure rivederti m’abbandonava; e mi chiesi se questo che mi chiude ogni senso di te, schermo d’immagini, 5 Isella rivela altri retroscena di questo episodio:« Che poi si trattasse non di una specie strana di cagnuoli, ma di sciacalli veri e vivi, testimonia su ricordi personali modenese Aurelio Roncaglia che sa perfino citare nomi del padrone e del servitore» (Isella 1971: 90) . 46 www.romdoc.amu.edu.pl ha i segni della morte o dal passato è in esso, ma distorto e fatto labile, un tuo barbaglio: (a Modena, tra i portici, un servo gallonato trascinava due sciacalli al guinzaglio). Di nuovo dono – animale nella chiusa del componimento e di nuovo, come risulta dal 6 paratesto esplicativo fornito dal poeta, la figura di una donna ebrea dietro: Clizia . Il caso tipico di un referente extratestuale, di un antefatto «dato» e taciuto quello degli «sciacalli» che grazie al lavoro della memoria (contrariamente quindi da come accade in Derrida, il quale vuole che il dono venga dimenticato per liberarlo dall’obbligo dello scambio) spuntano, appaiono all’improvviso, quasi per epifania, come un «barbaglio» appunto, provocando nel lettore, come direbbe la Grignani, uno «shock di oggetto» (Grignani 2007: 122). Il poeta introduce le figure dei due cagnetti bizzarri e offre al lettore un dato concreto, che crede sufficiente, ma non svela del tutto i retroscena che si celano dietro la parola stessa «sciacallo», poiché colui che legge può restare nel dubbio, non può sapere tutto, anzi non deve. Il compito del lettore è quello, come sottolinea Ioli, di «addentrarsi tra i dati di un reale particolarissimo, e collegarlo con un altro piano, ossia con quella sua metafisica e a volte domestica universalità» (Ioli 2002: 230). «Addentrarsi» – ritrovarsi nell’essere che già c’è e che si dà, quindi prendere, accogliere e ricevere ciò che gli viene offerto, poiché secondo il fiducioso poeta, un lettore attento riuscirà a sentire anche quello che non è detto esplicitamente, ma dato, suggerito, sarà in grado di capire la parola «soffiata» o «rubata» (in quanto posseduta precedentemente da un altro) e trovarne un senso giusto. «Un» senso e non «il» senso, poiché, secondo Montale, un vero significato della poesia non esiste, esiste solo «un terremoto verbale con molti epicentri» (Montale 1976: 9). Dunque la taciuta «occasione» deve partire dal reale, da un dato concreto, dalla vita quotidiana, dai suoi oggetti e dal colloquio con i personaggi, poiché dalla «pura invenzione il poeta non riesce a ricavare nulla» (Montale 1980: 913). I due sciacalli, come il «topo d’avorio», diventano doppiamente dono sia in quanto elementi «dati», seppure sottaciuti, del presente, sia come ricordi che «ridonano» alla memoria del poeta l’immagine della donna amata, restituiscono, riattualizzano 6 Clizia (Irma Brandeis) – the «Only Begetter», «Visiting angel», «Beatrice montaliana», donna angelicata, la protagonista centrale e destinataria de Le occasioni e de La Bufera e altro, nonché l’amore più tormentato del poeta. Lo pseudonimo della donna risale a Clizia, figlia dell’Oceano, amante del Sole dal quale viene abbandonata ed in seguito trasformata in eliotropio o girasole (Ovidio, Metamorfosi, IV). (Cfr.Baldissone 1996: 53). 47 www.romdoc.amu.edu.pl ciò che è andato perduto, costituiscono una sorta di fissaggio di segni o indizi che rimandano alla sua presenza o ricordi che forse «donano» la morte e, contrariamente a come si era propensi a pensare, vogliono uccidere la rimembranza di lei per liberare il poeta da questa relazione tanto tormentata e sofferta. Il dono dell’ambiguità quindi: quello di un «balsamo» lenitivo che mantiene fresco il ricordo di lei e quello di un veleno che lo abolisce. Così, quello degli «sciacalli» diventa un vero e proprio «pharmakon» - che cura e uccide allo stesso tempo. Ci induce a pensarlo anche l’aspetto simbolico che si cela dietro la parola stessa «sciacallo», il quale viene ritenuto «un animale malefico, (...) di cattivo augurio, (...) il simbolo del dio egizio Anubis (...) destinato alla cura dei morti, (...) alla veglia sui riti funebri, (...) sul viaggio verso l’altro mondo» (Chevalier, Gheerbrant 1986: 340). Il dono dello «sciacallo» è da intendere quindi sia come resurrezione del ricordo, sia come il preannuncio della sua morte. 6. Bulldog di legno Il terzo e l’ultimo casus del dono è quello incorporato nella figura di un simpatico «bulldog di legno» che realmente ha abitato la casa di Montale e che diventa un simbolo di una commuovente lirica della terza raccolta La bufera e altro intitolata La ballata scritta in una clinica (datata 1945) e dedicata alla moglie malata – alla stessa Mosca degli Xenia. Anche qui ci limitiamo a riportare la parte finale del componimento. Hai messo sul comodino il bulldog di legno, la sveglia col fosforo sulle lancette che spande un tenue lucore sul tuo dormiveglia, il nulla che basta a chi vuole forzare la porta stretta; e fuori, rossa, s'inasta, si spiega sul bianco una croce. Con te anch'io m'affaccio alla voce che irrompe nell'alba, all'enorme presenza dei morti; e poi l'ululo del cane di legno è il mio, muto. Il contesto è quello di allerta: di una morte inevitabile della moglie, rinchiusa per una grave malattia «in un manichino di gesso», dietro una porta della camera ospedaliera (la croce rossa). Lo schema sempre quello di prima: animale, oggetto, donna. Anche qua, come nel 48 www.romdoc.amu.edu.pl caso del «topo bianco d’avorio», appare un talismano, un oggetto-emblema al quale viene affidato il compito di salvare, o comunque proteggere, l’uomo dal male. Il dolore psichico di Dora Markus, si fonde qua con il dolore fisico della malata, ma anche con il male storico della guerra – nel 1944, al ricovero della compagna in clinica, i tedeschi dichiarano a Firenze lo stato d’emergenza e fanno saltare tutti i ponti sull’Arno. La donna mette sul comodino della stanza ospedaliera una figurina di legno: un piccolo bulldog (uno degli abitanti della casa Montale), quasi per esorcizzare il destino, e una sveglia. Il cane veglia sul sonno della malata e sul tempo («lancette della sveglia») che le è rimasto ancora da vivere. Un altro amuleto quindi che, secondo una forma di feticismo montaliano per gli oggetti desueti ed inutili, rappresenta un vero e proprio totem. Alla presenza e al darsi del «cane di legno» dell’ultima strofa, si sovrappone un accostamento: «ululo» e «muto» che segna il passaggio dall’oggetto («cane di legno») ad uno stato d’animo: ad un grido di dolore soffocato. Il piccolo «bulldog» diventa quindi un correlativo oggettivo, un rimedio, un balsamo che lenisce il dolore della donna, un dono che deve scacciare il male per proteggerla. Lo stesso animaletto impietrito però, può rappresentare una specie di veleno, un simbolo di inerzia fisica e di impotenza di fronte al dolore della donna e di fronte all’imminente pericolo. Anche qui il dono agisce come «pharmakon» che da una parte salvaguarda la vita dell’uomo e dall’altra lo accompagna nel suo ultimo viaggio ululando alla morte come lo fanno gli sciacalli7. Sarebbe questo il dono in Montale: la realtà fenomenica delle cose imposta a priori nella quale l’io è immerso e che continua ad offrirgli un repertorio di indizi inscritti nel determinato oggetto, capaci di tradurre i stati d’animo del soggetto; un «ingorgo» di oggetti di ogni genere, solo in apparenza buffi o banali che popolano la quotidianità dell’uomo; oggetti quasi domati, addomesticati dal poeta per poi poter offrirli al lettore; sono «occasioni – spinte», segnali occulti, dietro i quali si celano dati emblematici concreti ma sottaciuti. Il dono in Montale è anche un gesto benefico ed altruistico in direzione dell’altro, il sacrificio della propria esistenza a favore dell’altro. Il dono è ancora l’essere che si dà sempre e comunque e che non può essere rifiutato. Il dono infine è anche quello malefico, è ciò che cura e uccide, ciò che bisogna accettare pur rischiando di diventarne vittima. I nostri tre simpatici animaletti sono soltanto pochi esempi di un’infinita collezione di doni all’interno dell’universo poetico di Eugenio Montale, che però sembrano rispecchiare perfettamente l’immagine del dono, dietro il quale si cela sempre un mistero: un oggetto bizzarro, un animale, una donna che, come sosteneva recentemente scomparso Claude-Lévi Strauss in riferimento alle tesi 7 Lo sciacallo «ulula alla morte, vaga intorno ai cimiteri e si nutre di cadaveri» (Chevalier, Gheerbrant 1986: 340) 49 www.romdoc.amu.edu.pl maussiane, assume un ruolo fondamentale nelle relazioni sociali e diventa simbolo di un valore inestimabile, un dono pregiato che lega e che dà vita. Bibliografia Chevalier, Jean; Gheerbrant, Alain (1986). Dizionario dei simboli. Milano: Rizzoli Libri. Derrida, Jacques (1971). La scrittura e la differenza. Torino: Einaudi Editore. Derrida, Jacques (2002). Donare la morte. Milano: Jaca Book. Eliot, Thomas Stearns (1992). Amleto e i suoi problemi, [w:] Opere. Milano: Bompiani. Grignani, Maria Antonietta (1987). Prologhi ed epiloghi. Ravenna: Longo Editore. Grignani, Maria Antonietta (2007). Lavori in corso. Modena: Mucchi Editore. Ioli, Giovanna (2002). Montale. Roma: Salerno Editrice. Isella, Dante (1971). Eugenio Montale. Le occasioni. Milano: Einaudi Editore. Manacorda, Giuliano (1984). Bestiario montaliano, [w:] La poesia di Eugenio Montale. Atti del Convegno Internazionale, Genova 25-28 novembre 1982 (s.118-130). Firenze: Le Monnier. Marcenaro, Giuseppe (1999). Eugenio Montale. Milano: Mondadori. Mauss, Marcel (1965). Saggio sul dono, [w:] Teoria generale della magia. Torino: Einaudi. Montale, Eugenio (1996). Il secondo mestiere. Arte, musica, società. Milano: Mondadori. Montale, Eugenio (1984). Eugenio Montale. Tutte le poesie. Milano: Mondadori. Montale, Eugenio (1980). Eugenio Montale. L'opera in versi. Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini. Torino: Einaudi. 50 www.romdoc.amu.edu.pl Marta Mędrzak-Conway Università di Varsavia Una filosofia umanizzata: Italo Svevo e le teorie freudiane Noi romanzieri usiamo baloccarci con grandi filosofie e non siamo certo atti a chiarirle: le falsifichiamo ma le umanizziamo Italo Svevo, Soggiorno londinese, 1926 Poeti e filosofi hanno scoperto l’inconscio prima di me; quel che ho scoperto io è il metodo scientifico che consente lo studio dell’inconscio Sigmund Freud, Discorso in occasione del suo settantesimo compleanno, 1926 È La coscienza di Zeno un romanzo psicoanalitico o non lo è: questo è il problema. Era Svevo ispirato alla scienza freudiana o no? Questo non è un problema meno complesso. Che ruolo svolse, se lo mai svolse, la psicanalisi nell’opera di Italo Svevo? È un dilemma amletico con cui ci lasciò quello scrittore-enigma triestino. Prima dobbiamo capire quale era il percorso di Svevo che lo portò alla psicanalisi. Senza dubbi, in Italia Trieste era una città pioniera nell’adottare quella novità viennese. Ragioni per questo sono abbastanza ovvie. Trieste faceva parte dell’Impero Asburgico, dunque il flusso delle nuove mode e tendenze era facile e inevitabile. È anche vero, però, che proprio Trieste era la città più propensa, accanto a Vienna stessa, ad accogliere le nuove teorie di psicologia. A Trieste, come ci evidenzia Giorgio Voghera – un testimone di quei giorni – la psicanalisi più che corrente è stata un ciclone (Voghera 1985: 3). La città sveviana, infatti, era un luogo molto particolare sia dal punto geopolitico che quello culturale. Più che una città italiana era una città mitteleuropea. Voghera osserva che un certo spirito, che si potrebbe definire kafkiano, pervade la letteratura triestina (Voghera 1985: 116). Infatti, anche nelle opere sveviane si può trovare alcune affinità con le opere di Kafka. Si deve, però, dire che tale fatto non è dovuto solo al carattere unico della Trieste e della Praga di allora, ma anche alla formazione di questi scrittori, ossia la discendenza familiare: ambedue provenivano dalla borghesia ebrea in cui governava lo schema, descritto da Elio Gioanola: padri che usavano la penna solo per fare dei conti, si ritrovano con dei figli che sanno usare solo la penna, e per scrivere sogni (Pavanello 2009: 122-123). Come a Praga o Vienna, anche a Trieste la comunità ebraica era molto numerosa e potente. Ed erano proprio i 51 www.romdoc.amu.edu.pl cittadini triestini di origine ebraica a diventare dei sostenitori appassionati della nuova scienza. Non a caso, come risulta. Analizzando gli scritti di Freud si trova le indicazioni che invitano a credere che il viennese considerasse, controvoglia, la psicanalisi una “scienza” ebrea. 1 Per gli ebrei la psicanalisi, a parte di essere una risposta agli orrori e alle traume della grande guerra, costitueva una via di evasione – un’evasione dal vivere fin dall’infanzia [...] tra due verità, quella della famiglia e quella dell’ambiente cristiano circostante (Voghera 1975: 4-5). Infatti, quelli che contribuirono alla psicanalisi in modo fondamentale erano principalmente (benché si possa elencare illustre eccezioni) di origine ebrea: basti nominare, a parte di Sigmund Freud, Wilhelm Stekel o Alfred Adler.2 Il fatto di tale categorizzazione – dopo provata dalla rottura di Jung con il suo maestro – potrebbe essere legata alla arnoldiana divisione fra Hebrews e Hellenes: un mondo ebreo (giudaico) e greco (cristiano). Andrew Heinze scrive che quello che distingue “la psicologia ebrea” dalle altre psicologie (ad esempio quella cristiana), è il fatto che i teoristi come Freud sottolineavano il contento emozionale della vita familiare. La vita familiare, come osserva Heinze, era il tema che rifletteva un intenso egocentrismo della comunità ebrea in Europa, causato dall’ostracismo sociale (Heinze 2004: 65). Inoltre, dovremmo ricordare come importante era nell’opera di Svevo, ma anche quella di Kafka, la relazione con il padre – “il complesso paterno” nella realtà matriarcale. Non è sorprendente, dunque, che Ettore Schmitz incontrò e si interessò a questa novità. Specialmente che era sempre affascinato dalla questione della salute3: i personaggi di Svevo soffrono un po’ di tutto: diatesi urica, tuberculosi, bronchiti croniche, “espulsioni” dalle guance, nefrite, osserva Alberto Cavaglion (Cavaglion 2008 : 25). I suoi tempi diedero 1 La questione rimane controversa. Soprattutto, il fatto che Freud voleva che la psicanalisi fosse accolta come una scienza provoca discussione. Il rapporto di Freud con il giudaismo, espresso principalmente nel suo Mose e il monoteismo, non è meno complicato. Ciò nonostante, è un fatto irrefutabile che Freud, con rammarico, la considerasse “ebrea”. L’analisi di questo argomento ci presenta Yosef Hayim Yerushalmi nel suo libro Freud’s Moses: Judaism Terminable and Interminable (New Haven, Yale University Press, 1993). Scrive l’autore: In order to be accepted as science, psychoanalysis must not only be universal; it must be perceived as such. To put it crudely, Freud needed a goy, and not just any goy but one of genuine intellectual stature and influence, e lo trovò nella persona del giovane Carl Jung. Yerushalmi, per provare la tesi in questione quota le parole di Freud stesso: Certainly there are great differences between the Jewish and the Aryan spirit. We can observe that every day. Hence there would be here and there differences in outlook on life and art. But there should not be such a thing as Aryan or Jewish science. Results in science must be identical, though the presentation of them may vary. If these differences mirror themselves in the apprehension of objective relationships in science there must be something wrong; commenta l’autore: These proved to be prescient words. Twenty years later, as we shall see, the “something wrong” errupted fully into the open, alludendo al ‘divorzio’ tra Freud e Jung che non fece altro che legittimizzare la preoccupazione di Freud (Yerushalmi: 41). 2 È vero anche che Freud stesso escluse altri gruppi dalla sua terapia: sosteneva che la psicanalisi non fosse adatta agli Irlandesi, ed i cattolici in generale (il caso di James Joyce, di cui parlerò più tardi, sembra confermare questa opinione). 3 Non solo ossessivamente si occupa dell’opposizione salute-malattia, provando a capire i loro limiti e significati, e introduce nelle opere le figure dei medici che sempre svolgono qualche ruolo simbolico, ma anche lui stesso è molto interessato a provare varie terapie, viaggiando nei diversi centri di cura, tra cui addirittura Davos, dove si trova il kurhaus di culto descritto nella Montagna incantata di Thomas Mann. 52 www.romdoc.amu.edu.pl a Svevo tante opportunità di sviluppare quel suo interesse: fine dell’Ottocento era l’epoca di sperimentazioni non solo in medicina ma soprattutto nel campo di psicologia e neurologia – tra autori di queste spiccano i nomi come Jean-Martin Charcot, Charles Baudouin.4 A proposito delle teorie freudiane il triestino ammise nel Profilo autobiografico che per vario tempo lo Svevo lesse libri di psicanalisi. Sottolineò, però, nello tempo stesso – provando la sua attitudine del tutto ambigua verso la psicanalisi – che dapprima la affrontò solo per giudicare delle possibilità di una cura che veniva offerta ad un suo congiunto. Si trattava del fratello di Livia, Bruno Veneziani che fu mandato dalla famiglia a Vienna, da Freud stesso, per essere curato dall’omosessualità. Quando la cura fallì, Svevo scrisse in una lettera a Valerio Jahier: Grande uomo quel nostro Freud, ma più per i romanzieri che gli ammalati. Un mio congiunto uscì dalla cura durata per varii anni addirittura distrutto. Il proprio scetticismo verso la scienza freudiana venne da Svevo espressa anche durante la conferenza dedicata all’opera di James Joyce durante la quale negava qualsiasi influenza di psicanalisi subita dall’irlandese, che alla psicanalisi preferiva una confessione: il modo in cui insisteva su quel fatto può suggerire la voglia di negare anche l’influsso subito da se stesso. Anna Maria Accerboni Pavanello spiega la ripugnanza che è del tutto paradossale verso la psicanalisi non solo di Svevo, ma anche di altri scrittori mitteleuropei, come Kafka o Musil, in modo seguente: essi intravedono nell’illusione che attribuiscono alla psicanalisi di poter guarire nell’individuo i traumi derivanti dall’assimilazione sociale e dalla transizione storica, uno strumento funzionale in fondo a quella Società borghese dei “padri, da cui hanno preso le distanze (Pavanello 2008: 127). Come vediamo, la discendenza di Ettore Schmitz si rivela essenziale per lo sviluppo artistico di Italo Svevo. Fondamentali per la conoscenza delle teorie freudiane da parte di Svevo erano gli incontri con vari psicanalisti, soprattutto Edoardo Weiss, uno psicanalista triestino, e Wilhelm Stekel, un viennese dal circolo freudiano, che lo scrittore incontrò a Bad Ischl nel 1911 (Pavanello 2008: 89), e con cui sviluppò una conoscenza abbastanza intima. 5 Entrambi erano le figure significanti nella storia della terapia freudiana. Weiss era il medico che introdusse la psicanalisi in Italia, Stekel, invece, quello che si staccò dalla psicoanalisi ortodossa – e dal circolo freudiano – fornendo a Svevo una nuova prospettiva. Ambedue i medici costituevano 4 Anche Trieste si può vantare del circolo di tanti medici; a Trieste esisteva addirittura un ospedale psichiatrico. A proposito di Stekel Fulvio Anzellotti scrive: I discorsi di Stekel affascivano Ettore, che gli manda una cartolina, appena tornato a Murano. Forse così Olga viene a sapere che c’è un medico che ha inventato un sistema che si chiama psicanalisi e che questo sistema è la medicina per curare la diversità. (Anzellotti 1985: 144) 5 53 www.romdoc.amu.edu.pl per Schmitz una fonte fondamentale delle idee freudiane, che nello tempo stesso lo aiutarono a sviluppare una visione propria della psicanalisi. L’atteggiamento di Svevo verso la psicanalisi era, come abbiamo già accennato, molto ambivalente. Le sue opinioni su di essa erano sempre contraddittorie. Nel Profilo autobiografico scrive che Il secondo avvenimento letterario [accanto all’incontro con Joyce] e che allo Svevo parve allora scientifico fu l’incontro con le opere del Freud. È interessante osservare come nello stesso tempo egli ammette che le teorie freudiane avevano influenza su di lui e diminuisce il loro valore: allora gli parve scientifico. Dall’altra parte, come ci informa Livia Veneziani, durante la guerra, nel 1918, per compiacere un suo nipote medico che, ammalato, abitava da lui, si mise in sua compagnia a tradurre l’opera del Freud sul sogno (Veneziani 1958: 84). Svevo ci lascia sempre nell’incertezza: dice che Lessi dei libri del Freud nel 1908 ma subito aggiunge: se non sbaglio. E anche se informa di aver letto qualche cosa del Freud con fatica e piena antipatia ammette, come se si sottoponesse ad una verità triste: Ma la psicanalisi non mi abbandonò più. Di quello non ci sono, però, dubbi. È, dunque, La coscienza di Zeno un romanzo psicoanalitico o non lo è? Il fatto è che l’autore stesso portò il suo romanzo a Edoardo Weiss chiedendolo di recensire l’opera. Weiss, prima pieno di entusiasmo, restituirò il libro all’autore dicendo che non poteva parlare del [suo] libro perché con la psicanalisi non aveva nulla a che vedere – riporta Svevo nel Soggiorno londinese. Weiss si sentì offeso, ma probabilmente anche angosciato, pensando che il dottor S. fosse proprio lui. 6 Le ragioni del rifiuto possono essere anche altre. Come osserva Anna Maria Accerboni Pavanello, solo opere insignificanti dal punto di visto artistico, possono essere rese completamente trasparenti, come è il caso del romanzo di Jensen, sotto la lente dell’indagine psicoanalitica (Pavanello 2008 : 128-9).7 Difatti, al contrario di quello che disse Edoardo Weiss, ci sono le voci che proclamano La coscienza di Zeno il primo romanzo psicoanalitico in Italia e anzi, come dichiara Aaron Esman nel suo saggio dal 2001, Svevo è l’autore del primo romanzo psicanalitico in tutta la letteratura mondiale (Esman 2001). Anche se queste voci vengono ancora contrapposte dalle opinioni di alcuni, come Giovanni Palmieri il quale vede nel romanzo l’influsso dell’autosuggestione di Charles Baudouin (Palmieri 1994: 52), una vera, come vogliono i primi, o una presunta, come preferiscono gli altri, introduzione alla letteratura italiana/mondiale della psicanalisi è un merito inestimabile dello scrittore triestino. Innegabile 6 Le origini del dottor S. sono anche una questione controversa e non risolta. Pavanello parla del romanzo di Wilhelm Jensen Gradiva del 1903 su cui Sigmund Freud scrisse nel 1907 un saggio Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen. 7 54 www.romdoc.amu.edu.pl è anche il fatto che quel merito gli guadagnò il titolo del padre del romanzo italiano moderno, il quale appare sotto la voce Italo Svevo nell’ Encyclopedia of Literary Modernism. Freud è certo presente in Svevo. La domanda è: fino a che punto e per quale motivo? È interessante notare come già il titolo del terzo romanzo sveviano appare elusivo. Philip Nicholas Furbank vede in esso uno scherzo che l’autore fa a Freud. La parola “coscienza” ha due significati: in inglese sarà conscience e consciousness, 8 ossia “consapevolezza”. Il romanzo è un continuo gioco tra queste due parole (Furbank 1966: 180). Il titolo potrebbe essere interpretato anche in modo diverso: come l’opposto dell’inconscio – alla fine è il protagonista che fa una specie di autoanalisi, un concetto impossibile da realizzare secondo Freud. Non è difficile notare anche un ampio ventaglio di casi come se fossero presi direttamente dalla Psicopatologia della vita quotidiana: repertorio molto ricco dei lapsus, tra cui lo sbaglio di Guido quando spiegava ad Ada che ebbero bisogno di uno stenografo: -Avete assunto in ufficio una nuova impiegata? -Sí! – disse Guido [...] – Avevamo bisogno di uno stenografo! oppure il famoso scambio dei funerali. Svevo si rivelò un lettore attento di Freud anche creando le risposte somatiche della psiche di Zeno e i suoi sogni. Benché il triestino non faccia l’uso della ‘scoperta’ di William James, ovvero del flusso di coscienza, usufruisce con successo il libero fluire dei ricordi, molto sintomatico anche esso. Mentre lo stream of consciousness scopre i pensieri, il flusso della memoria ci dice di più. Il modo in cui si ricorda, la scelta degli avvenimenti che si ricorda, e finalmente quello che cancella, le menzogne che Zeno dice appassionamente, appropriamente interpretate, ci rivelano verità molto più complesse sull’individuo. Nondimeno, come giustamente osserva Mario Lavagetto nella sua raccolta dei saggi su Svevo, la situazione dell’analisi viene sottomessa a derisione e deformazione. Lo psicanalista, il dottor S., non osserva nessuna delle regole della terapia freudiana, fra cui quella più importante della massima discrezione. Tutta la strategia dell’analisi [...] passa attraverso la lente ostile e malgraduata del sospetto (Lavagetto 1975: 57). È un caso tipico di una “psicanalisi selvaggia”, su cui Sigmund Freud scrive nel 1910: [...] non basta che un medico conosca alcune scoperte della psicanalisi; egli deve impadronirsi della tecnica se vuole che il suo procedimento medico sia guidato dalla concezione psicanalitica (Freud 2009: 1618). La 8 Ovviamente Freud scriveva in tedesco (in cui le parole per questi concetti sono pure diversi: rispettivamente saranno Gewissen e Bewusstsein) ; il riferimento agli equivalenti inglesi che fa il “gioco” addirittura più forte non è infondato: dobbiamo ricordare che Svevo poteva parlare dei concetti di conscience e consciousness con Joyce – ossia in inglese – perchè questi erano fondamentali per la nuova letteratura. 55 www.romdoc.amu.edu.pl vendetta che svolge S. potrebbe addirittura essere, secondo Anna Maria Accerboni Pavanello, letta nella chiave del controtransfert: la risposta prodotta nell’inconscio dell’analista dalle manifestazioni di transfert del paziente, che l’analista non è ancora riuscito a padroneggiare o a elaborare (Pavanello 2008: 119). Svevo doveva conoscere dunque la psicanalisi con un’estrema profondità per poter giocare con tanta disinvoltura con il processo terapeutico e con le relazioni reciproche tra il paziente e l’analista, che a volte portano il peso del complesso edipico. Curiosamente, le tracce della psicanalisi si possono intravedere pure nelle opere sveviane precedenti. Non si tratta solo dell’elaborazione attenta della psiche dei protagonisti, e dell’introduzione delle tecniche narrative dirette a manifestarla, ma anche delle relazioni tra i protagonisti di Una vita o Senilità che si potrebbe inserire nella cornice del romanzo familiare (Familienroman) freudiano (Moloney 1994: 36). Anche l’ironia, in Svevo, è onnipresente. Eppure essa, con l’umorismo in generale, è molto freudiana (ma anche molto ebraica): Scherzando, si può dire di tutto, anche la verità, disse Freud.9 E come osserva un grande svevista Brian Moloney: Svevo è raramente così serio come quando scherza (Moloney 1998: 26). È degno di notare che psicanalisi e umorismo sono strettamente connessi anche nell’ambito della cultura moderna: basti pensare all’opera – sia cinematografica che letteraria – di Woody Allen. Come interpretare questo “freudianismo” pre-freudiano di Svevo? In una delle sue deliberazioni su Freud lo scrittore triestino disse: quale scrittore potrebbe rinunziare di pensar almeno la psicanalisi?. Infatti, la psicanalisi era per Svevo lo strumento letterario, uno strumento a cui era diretto durante tutto il suo intinerario letterario. Le teorie freudiane potevano essere soltanto la conferma di quello che Ettore Schimtz aveva intuito già molto prima. Dice Girogio Voghera: Credo comunque che sia difficile stabilire con certezza se l’influenza di Freud su Svevo sia passata in parte per il tramite di Weiss o no; o se magari ciò che c’è di ‘freudiano’ in Svevo non derivi affatto da Freud, bensì dallo spontaneo maturarsi in Svevo stesso gli elementi analoghi a quelli che spinsero Freud a giungere a certe sue concezioni (Voghera 1985: 17). Forse è un’intuizione della formazione ebrea nella tradizione mitteleuropea? Ha ragione Lionel Trilling, nel suo saggio Freud and Literature, dicendo che teorie freudiane erano una direzione del pensiero, un prodotto dello Zeitgeist di questo tempo, anticipato dalle grandi rivoluzioni filosofiche di Schopenhauer e Nietzsche (Trilling 1940: 34-35), di cui Ettore 9 Freud sviluppa il tema dell’umorismo in sua relazione con il subconscio nel 1905 in Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, dove presenta la teoria su diversi tipi dell’umorismo. 56 www.romdoc.amu.edu.pl Schmitz era un grande ammiratore – il fatto che è molto rivelatorio. Qui si dovrebbe osservare che Nietzsche, ammirando il vitalismo della religione giudaica, disse che la psicologia europea aveva bisogno di un po’ del giudaismo: egli accusava la filosofia greca di essere troppo orientata sulla mente e per questo la cultura cristiana sviluppò una falsa percezione del comportamento umano (Heinze 2004: 66). Infatti, si può identificare alcuni predecessori di Freud, a parte dei due filosofi tedeschi, che potevano influenzare lo scrittore triestino. Tra loro si piazza soprattutto Charles Baudouin con la seconda scuola di Nancy di cui novità sta nel consentire anche al malato di intervenire su se stesso (Nay 2008: 83). Il ruolo molto importante nello sviluppo intellettuale dello scrittore triestino svolse anche Jean-Martin Charcot, di cui Svevo scrisse: Io pubblicai Senilita’ nel 1898 e Freud non esisteva o in quanto esisteva si chiamava Charcot - tale dichiarazione sembra suggerire che le teorie freudiane fossero secondarie o forse insignificanti. Con Charcot si apre uno spiraglio all’irrazionalità, ovvero guardare a una disciplina che conosce, in questi anni, molti seguaci, lo spiritsmo (Nay 2008: 72).10 Ettore Schmitz fa anche tutto per diminuire il ruolo della psicanalisi nella sua opera, addirittura parlando di James Joyce e dicendo che egli: ignorava del tutto la psicanalisi. Sorprende la determinazione con cui lo annuncia, spiegando che l’irlandese aveva troppo scarsa conoscenza del tedesco per leggere Freud, che però non è vero.11 Alcuni critici, con cui sono d’accordo, vedono in tale atteggiamento la voglia di negare qualsiasi influsso della psicanalisi nella propria opera (Debenedetti 1987: 588). Mario Lavagetto suggerisce che la fretta con cui Svevo si mette al sicuro può apparire [...] come un’ulteriore prova di resistenza (Lavagetto 1975: 43). Era Svevo nello stato di negazione? Tutto quello “rumore” per la psicanalisi si potrebbe inquadrare nel concetto, capito in modo ampio, di Harold Bloom dell’ansia dell’influenza, o... nella psicanalisi stessa. Molto rumore, tornando ai termini shakespeariani, non è, però, per nulla. Comunque sia, la presenza di psicanalisi e il modo in cui viene presentata nelle opere sveviane testimonia la eccezionale intelligenza dello scrittore triestino in rapporto alla delega da lui fatta alla scrittura che anticipa la tesi della terapeucità del raccontare (Pavanello 2008: 129). Concludendo, si deve dire che l’influsso di Freud su Svevo era forse più grande che lo scrittore fosse pronto ad amettere. I fatti indicano una profonda conoscenza delle teorie freudiane e le prove di diminuire il ruolo del viennese da parte di Svevo falliscono. Nondimeno, come Svevo stesso osserva, un rapporto fra filosofo e artista è come matrimonio 10 11 a questo proposito è interessante osservare che ne La coscienza di Zeno viene descritta una serata spiritistica. È stato provato che James Joyce teneva una copia del opera di Freud nella sua libreria triestina. 57 www.romdoc.amu.edu.pl legale perché [...] come il marito e la moglie producono dei bellissimi figliuoli (Nay 2008: 46). Nella psicanalisi Svevo trova la propria intuizione verbalizzata, un modo per scomporre l’uomo moderno, per decostruirlo, servendosi del linguaggio di sintomi, di prostrazioni, di cronico inadeguarsi alla realtà quotidiana (Lavagetto 1975: 191). Svevo riduce la coscienza umana a un disordine, incertezza, inettitudine, una vera malattia che rispecchia il caos del mondo moderno, e la incarna in Zeno che invero è tale “bellissimo figliuolo” di un filosofo e di un artista. Svevo scopre tutto questo da solo ma Freud gli suggerisce il metodo. Freud offre la teoria, Svevo la mette in pratica. Il risultato non è, però, come vorrebbe la premessa. La pratica deforma la teoria. Ma la rende più umana. Bibliografia Anzellotti F. (1986). Il segreto di Svevo. Pordenone: Edizioni Studio Tesi. Bloom, Harold (2002). Lęk przed wpływem: teoria poezji. Przekł. A. BielikRobson, M. Szuster. Kraków: Universitas. Cavaglion, Alberto (2008). “Non guariscono però mai”. L’avversione di Svevo per i medici: scienza e letteratura, [w:] Cepach, R. [red.], Guarire dalla cura. Italo Svevo e i medici. Trieste: Comune di Trieste. Debenedetti, Giacomo (1987). Il romanzo del’ 900. Milano: Garzanti. Esman, Aaron (2001). Italo Svevo and the First Psychoanalytic Novel. International Journal of Psycho-Analysis. http://pep.gvpi.net/document.php?id=ijp.082.1225a&type=hitlist&num=18&query=z one1%3Dparagraphs%26zo ne2%3Dparagraphs%26journal%3Dijp%26volume%3D82 Freud, Sigmund (1910). La psicanalisi “selvaggia”, [w:] Freud, S. (2009). Opere 1886-1921. Roma: Norton Compton. Furbank, Philip Nicholas (1966). Italo Svevo: the Man and the Writer. London: Sacker & Warburg. Gioanola, Elio (1979). Un killer dolcissimo: indagine psicanalitica sull'opera di Italo Svevo. [cyt. w:] Accerboni Pavanello, A.M., La sfida di Italo Svevo alla psicanalisi: guarire dalla cura, pp. 121-123. Heinze, Andrew R. (2004). Jews and the American Soul. Princeton: Princton University Press. 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Svevo, Italo (1995). Faccio meglio di restare nell’ombra. Milano: Lupetti. Trilling, Lionel (1940). Freud and Literature. [w.] The Liberal Imagination: Essays on Literature and Society. (1951). London: Martin Sacker & Warburg. Veneziani,Livia (1958). Vita di mio marito. Trieste: Edizioni dello Zibaldone. Yerushalmi, Hayim Yosef (1991). Freud’s Moses. Judaism Terminable and Interminable. New Haven: Yale University Press. 58 www.romdoc.amu.edu.pl Ewa Nicewicz Università di Varsavia/ Università degli Studi di Padova Il caso Baricco. Lo scrittore e il panorama della super-offerta attuale 1. Perché Alessandro Baricco? Nel panorama culturale dell’Italia contemporanea Alessandro Baricco occupa senz’altro un posto di primo piano, nonostante la sua opera e le sue attività continuino a suscitare reazioni assai contrastanti. Ma, indipendentemente dal giudizio di valore, la figura dello scrittore torinese è un ottimo esempio per illustrare l’attuale situazione letteraria. Le sue numerose iniziative avviate nel campo della cultura, discutibili ma non insignificanti, non sono lontane da quelle intraprese da altri autori odierni (ad es. Sandro Veronesi, Carlo Lucarelli, Dario Voltolini, Tiziano Scarpa). Alcuni anni fa Margherita Ganeri ha parlato di un “caso Eco”: a mio avviso, non sarebbe azzardato parlare, oggi, di un “caso Baricco” (sia per la sua produzione letteraria, sia per la sua posizione come intellettuale), intendendo cioè questo autore come esemplare di un fenomeno più ampio. Lo conferma in qualche modo anche Alberto Casadei nel suo Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo (2007), riferendosi però anzitutto alla poetica del torinese. A dire dello studioso, dopo il postmodernismo ‘echiano’, di stampo ‘citatorioallusivo’ ovvero ‘ludico-parodico’ che inizia con la pubblicazione de Il nome della rosa (1980), dalla metà degli anni Novanta, nella letteratura comincia a prevalere il ‘modelloBaricco’ che pur essendo per molti aspetti debitore di quello precedente «punta assai meno sull’ironia citatoria e intellettualistica e assai più sulla rimodulazione dei sentimenti attraverso codici diversi» (Casadei 2007: 29). Formatosi negli anni Ottanta, Baricco è, secondo Casadei, un romanziere che dimostra notevole abilità a cogliere gli elementi adatti a garantirsi un pubblico costante in quello che lo studioso chiama il «panorama della super-offerta attuale». Ma l’attività dello scrittore (ricordiamo che Baricco esordisce come romanziere nel 1991 con Castelli di rabbia) risulterà ancora più interessante se consideriamo il fatto che essa coincide con la dichiarata crisi della critica letteraria e con il cambiamento del mercato editoriale, cioè con un periodo di passaggio e trasformazione culturale che ha luogo all’inizio degli anni Novanta. 59 www.romdoc.amu.edu.pl 2. La svolta degli anni Novanta Della crisi della critica in Italia si comincia a parlare a partire degli anni Novanta quando esce il libro di Cesare Segre Notizie dalla crisi (1993) – nel momento, cioè, che coincide con il tramonto dello strutturalismo, con il trionfo dell’ermeneutica e con l’affermazione della centralità del lettore1. Il rapporto tra critici e scrittori assume spesso la forma di un ostinato conflitto generazionale, una guerra dichiarata, in cui i maestri vengono accusati di un atteggiamento antimoderno e ostile ad ogni manifestazione della cultura di massa. A loro volta i cosiddetti ‘giovani narratori’ sono incolpati di ridurre la letteratura a puro gioco intertestuale, a «intrattenimento, decorazione del vuoto» (La Porta 2006: 74). In questo contesto è di nuovo esemplare il ‘caso Baricco’: la polemica del 2006, nata sulle pagine de «La Repubblica» con Giulio Ferroni si è svolta proprio su questi temi2. Tuttavia il campo critico non è l’unico a subire trasformazioni e, per completare lo scenario delle vicende, occorre soffermarsi anche su quello che succede nel mercato editoriale. Indubbiamente proprio in quel periodo cambia il paradigma culturale dell’intera società: dall’impegno pubblico e dalla solidarietà si passa all’edonismo e all’individualismo. Cresce il numero di lettori ma acquistano spazio soprattutto la letteratura ‘evasiva’ e ‘consolatoria’, non quella saggistica. A differenza della critica, col passar degli anni l’editoria continua ad espandersi prima nel settore televisivo e poi in quello digitale, acquistando così mezzi per influenzare l’intera vita culturale, sociale ed economica. Vale forse la pena di sottolineare che con l’arrivo degli anni Novanta il libro occupa una posizione sempre più marginale nell’industria del tempo libero, soppiantato dalla televisione e poi da Internet. Gli scrittori che vogliono pubblicare devono farsi notare e conoscere al pubblico promettendo così agli editori un immediato successo di mercato, in poche parole devono proporsi come star mediatiche. In tal modo lo scrittore-intellettuale umanista e il critico della cultura lasciano il posto allo scrittore-intrattenitore. Ed è allora che gli scrittori cominciano ad autopromuoversi sfruttando vari canali mediatici3. Baricco, ad esempio, idea e conduce due fortunate trasmissioni per Rai Tre: L’amore è un dardo (1993) e Pickwick, del leggere e dello scrivere 1 Cfr. R. Ceserani (1999). Introduzione a Guida allo studio della letteratura. Roma-Bari: Laterza, str. VIIXXXV. 2 Cfr. A. Baricco (2006). Cari critici, ho diritto a una vera stroncatura, [w:] «La Repubblica», 1.03.2006, str. 1; G. Ferroni (2006). Caro Baricco, io la recensisco ma lei non mi legge, [w:] «La Repubblica», 2.03.2006, str. 46; C. Taglietti (2006). Baricco: «Imparo poco dalle stroncature», [w:] «Corriere della Sera», 9.09.2006, str. 37. 3 Cfr. E. Zinato (2005), Senza mestiere, fuori testo: la critica dalla crisi alla responsabilità, [w:] «Moderna», VII, 2005, str. 23-42. 60 www.romdoc.amu.edu.pl (1994). Accanto a lui, in quel periodo inaugurano in televisione una stagione di spettacoli in cui si presentano anche Aldo Busi, Sandro Veronesi o Vittorio Sgarbi. 3. Nella dorata giungla delle lettere Per mettere a fuoco gli aspetti sociologici della questione, si può utilizzare il contributo del sociologo Pierre Bourdieu, ideatore del concetto di ‘campo sociale’4 («uno spazio in cui agiscono delle forze che provocano effetti di campo, in cui si osservano cioè dei comportamenti sociali volti al mantenimento o alla sovversione degli equilibri di dominio esistenti», Baldini 2007: 9) e della nozione di habitus («espressione dell’inconscio sociale che ci abita e agisce nella nostra prassi quotidiana», Baldini 2007: 13). Secondo lo studioso francese la società in cui viviamo, seppure non sempre in modo palese, condiziona il nostro essere ed incide sui modi con i quali vediamo il mondo, vi agiamo e reagiamo. Di conseguenza chiunque scriva, abbia rapporti con case editrici o intraprenda altre attività quali il teatro o il cinema, sta conducendo una lotta per decidere chi abbia il diritto di definirsi scrittore, che cosa sia l’autentica letteratura, la poesia, il canone, ecc. In queste circostanze il ruolo dell’habitus sta nell’orientare le azioni dello scrittore per conquistare l’affermazione sociale. Non a caso proprio Baricco definirà il rapporto che lega lo scrittore ed i critici come «una specie di duello che va vissuto a schiena diritta da tutti e due» (Telese 2009). In questa prospettiva, aggiungiamo, molto favorevole agli scrittori, tante delle iniziative da loro intraprese, trovano spiegazione proprio nella teoria di Bourdieu secondo la quale gli intellettuali sono guidati da rapporti di continua concorrenza e agiscono l’uno contro l’altro per garantirsi una posizione dominante. Sulla loro produzione influisce anche il mercato letterario, da cui dipende la loro esistenza e che li “costringe” a diventare produttori di merce. La conflittualità e l’ambiguità costituiscono quindi due caratteristiche fondamentali del campo – certi comportamenti e certe prese di posizioni degli scrittori vengono determinate dallo stato del conflitto letterario, diventano il suo risultato. 4. «Artista a 360 gradi» Considerati questi tre fattori di ordine critico, editoriale e sociologico, sarà più facile comprendere la varietà degli interessi che vedono oggi protagonisti molti autori italiani. Più che mai, infatti, la figura dello scrittore si pone come poliedrica e il suo profilo biografico e la sua carriera sfuggono, non di rado, ad una descrizione univoca. 4 Cfr. P. Bourdieu (1978). Campo del potere e campo intellettuale. Cosenza: Edizioni Lerici. 61 www.romdoc.amu.edu.pl Definito «artista a 360 gradi» (Rush 2005), «l’uomo che ha abbattutto le barriere architettoniche fra il cinema e la letteratura» (Telese 2009), Baricco sembra adempiere pienamente a questi postulati. Scrittore, giornalista, critico musicale, presentatore radiofonico, ideatore e conduttore dei programmi televisivi, fondatore d’una scuola di scrittura, insegnante, traduttore, editore, sceneggiatore e infine regista, egli esercita un forte influsso sul pubblico (sulla società in generale) ed è in grado di cambiare l’attuale orizzonte culturale, non solo grazie alla parola scritta, ma soprattutto tramite le altre sue attività culturali, come i programmi televisivi, le letture in pubblico, l’insegnamento. Nel corso di tutti i dibattiti che lo coinvolgono e di tutte le polemiche di cui è stato protagonista (soprattutto quella del 2006), non è mai stato abbastanza sottolineato il fatto che non è solo uno scrittore, ma che ormai (essendo editore, direttore della scuola di scrittura, regista, ecc.) fa parte anch’egli del grande meccanismo culturale nei confronti del quale ogni tanto gli capita di rivolgere qualche critica. La sua posizione di vantaggio deriva senz’altro dalla conoscenza della società di massa e dei suoi gusti e dal fatto di aver scoperto che non bastava più la semplice saldatura fra autore, libro e pubblico: oggi la letteratura fa fatica ad aprirsi la strada senza essere aiutata da altri canali mediatici che garantiscono un successo quasi immediato. Baricco riesce a fare di questo sapere un tesoro e a trarne i vantaggi. A suo favore giocano anche i tempi e la debole posizione degli intellettuali: è questa, implicitamente, un’accusa forte, ma che trova conferma nel fatto che egli occupa posti che erano vuoti, colonizza spazi culturali o scolastici senza essere ostacolato o essersi schierato con nessuno. Sin dall’inizio Baricco dimostra una straordinaria capacità di occupare nicchie culturali esistenti – lo confermano soprattutto i suoi fortunati programmi televisivi: L’amore è un dardo, Pickwick, nonché la fondazione della scuola di scrittura. Sia la prima trasmissione, dedicata alla lirica, sia la seconda, incentrata sul tema della scrittura e sull’idea del libro come salvezza, partono dal presupposto che vale la pena di spiegare la cultura che ci circonda e che fa parte della nostra vita quotidiana, poiché non sempre capiamo ciò che ascoltiamo/leggiamo e che per abitudine ripetiamo. Lo scopo è quello di far vedere ai telespettatori che la musica e la letteratura non devono per forza significare noia e fatica, bensì divertimento e passione. Baricco darà una spiegazione molto personale dell’ascolto o della lettura, da una parte entrando nell’opera, dall’altra ponendosi dalla parte del pubblico, presentandosi come uno spettatore/un lettore qualsiasi che fa fatica a cimentarsi con alcuni argomenti. Non solo parlerà con franchezza delle difficoltà con cui deve misurarsi leggendo o ascoltando, ma spesso si farà portavoce del pubblico “medio”, costringendo gli ospiti invitati a rispondere alle domande “scomode” (ad es. perché vale la pena di perdere il 62 www.romdoc.amu.edu.pl tempo per leggere la poesia?). Saprà, cioè, come sedurre il pubblico e conquistare la sua fiducia. Lo scrittore non nasconde che sono stati proprio quei due programmi a procurargli una certa fama, a dargli la soddisfazione per il lavoro effettuato, a consolarlo nei momenti difficili delle stroncature: «Grandissima fatica, un’ansia divorante, però essere riconosciuto dal casellante dell’autostrada che ti chiede un consiglio sul libro da comprare è un’esperienza che per un po’ placa e gratifica» (Pasti 1994). La conoscenza del mercato culturale nonché un intuito perspicace hanno contribuito anche al successo della sua iniziativa didattica. Infatti, Baricco è stato il primo in Italia a capire le potenzialità delle scuole di scrittura, luoghi che sarebbero potuti essere alternativi a quello che proponeva all’epoca l’istruzione letteraria offerta dalle istituzioni. L’idea fondamentale era che «l’insegnamento dovesse essere emozione. E l’apprendimento anche». (Baricco & Tarasco & Vacis 2003). Così, senza un’ombra di concorrenza e senza ostacoli, è nata la Scuola Holden, di anno in anno occupando spazi sempre più larghi, fino a monopolizzare in un certo senso questo campo. L’eccezionalità dell’istituto sta nel porsi l’obiettivo di insegnare a raccontare il mondo, non solo attraverso le forme tradizionali di narrativa, il romanzo e il racconto, bensì usando le forme di espressioni nuove, tra cui il film o il teatro, e anche la pubblicità o il sito web. A parte organizzare i master biennali e i corsi on line, di diversa durata e modalità di partecipazione, la scuola è attiva sia all’interno delle proprie strutture (con corsi per insegnanti, ragazzi e bambini), che fuori di esse (è presente e partecipa a tanti eventi, come festival di letteratura, fiere di libro, organizzando workshop, concorsi e incontri con scrittori), mentre un sistema studiato in ogni dettaglio dà luogo e favorisce tante sinergie. Ciò che qui pare essere particolarmente importante è che Baricco è riuscito a creare un organismo che oggi è autonomo, vive la sua vita su vari livelli, spesso indipendentemente dal loro fondatore. Molte iniziative sono il frutto dei suoi allievi ed è spesso a questi che vengono affidati nuovi compiti5. Emblematico per il nostro discorso sarà anche l’abbandono avvenuto nel 2005 della casa editrice Rizzoli e la conseguente entrata dello scrittore torinese nell’universo della Fandango, nata come casa di produzione cinematografica e oggetto di numerose trasformazioni, nell’arco di quasi vent’anni colonizzando e accumulando in un progetto unico quasi tutti gli spazi culturali: dal cinema, editoria, discografia, radio, televisione a Internet. L’accesso allo spazio ‘fandanghiano’ ha aperto a Baricco non poche porte. L’allargamento del team della Fandango è diventato anche una fonte di possibili sinergie che sarebbero potuti 5 A questo proposito andrebbero menzionati almeno: Evelina Santangelo, Marinella Contenti, Ilario Meandri, Lea Maria Iandiorio. 63 www.romdoc.amu.edu.pl nascere tra casa editrice e casa cinematografica. Sta di fatto che l’entrata dell’autore torinese nel mondo creato da Domenico Procacci, gli ha permesso di realizzare i suoi film: Seta (2007), di cui è stato autore della sceneggiatura e della sua prima vera e propria pellicola, Lezione 21 (2008); numerosi sono anche gli esempi di collaborazione con la scuola Holden. Per completare il panorama abbozzato vale forse la pena soffermarsi ancora sulle impressionanti capacità imprenditoriali di Baricco. Esemplare per il nostro discorso sarà qui l’uscita del suo ultimo romanzo Emmaus (2009). L’arrivo del libro viene annunciato alcuni mesi prima, in modo alquanto enigmatico, sulle pagine de «La Repubblica»: «Il nuovo romanzo di Alessandro Baricco si chiamerà Emmaus e uscirà in autunno per Feltrinelli. [...] la data esatta di uscita è il 4 novembre 2009». Infatti, al lettore incuriosito viene svelato soltanto il titolo e la data di pubblicazione. Qualche settimana prima del giorno atteso, l’editore rivela un altro indizio, cioè una frase-chiave: «Abbiamo tutti sedici, diciassette anni – ma senza saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato». Come si può prevedere, oltre a far nascere varie ipotesi sulla trama, questo rebus non fa altro che suscitare innumerevoli polemiche e stuzzicare l’appetito dei fan dello scrittore torinese: di fatto, in alcune librerie on line il tanto aspettato volume sarà esaurito ancora prima della magica data del 4 novembre. Anche questa volta, inoltre, alla pubblicazione seguono le apparizioni sui media (ad esempio in Che tempo che fa), il reading-incontro col pubblico e una piccola performance promozionale6. Così, dopo la lettura spettacolarizzata nel trentino Parco di Paneveggio nel 2005 e la lezione al Festival di Mantova del 2008, giungeremo alla distribuzione romana nella Feltrinelli di Largo Argentina, fissata per la notte tra il 3 e il 4 novembre. La lunga attesa dei lettori viene infine appagata con l’apparizione dello stesso scrittore: a firmare le copie di Emmaus sarà Baricco in persona, accompagnato dalla moglie e da Gabriele Vacis. L’autore torinese è riuscito, come sempre, a incuriosire il pubblico e ad attirare la sua attenzione. Tra scandalo e ammirazione, anche l’ultimo romanzo, similmente ai testi precedenti, per lungo tempo si troverà in testa alle classifiche di vendita7. 6 Cfr. Dell’avvenimento ci vengono date due scherzose descrizioni, firmate da Paolo Bianchi e Giordano Tedoldi: P. Bianchi (2009). La strega Baricco vien di notte. Come Harry Potter, [w:] «il Giornale.it», 31.10.2009; G. Tedoldi (2009). San Baricco appare ai fedeli di Emmaus, [w:] «Liberonews.it», 5.11.2009. 7 Cfr. almeno: Le top five, [w:] «La Repubblica», 14.11.2009, str. 14; Top ten i libri più venduti, [w:] «La Repubblica», 05.12.2009, str. 50. 64 www.romdoc.amu.edu.pl 5. Al posto della conclusione Cercando di tirare le somme, si potrebbe azzardare l’ipotesi che oggi sembrano del tutto finiti i tempi in cui lo scrittore si occupava esclusivamente della scrittura e cambiava l’orizzonte culturale solo grazie alla parola scritta. D’altronde, anche altre figure del campo culturale, cioè quella del critico e del lettore hanno subito un’evoluzione. Particolarmente interessante pare ad esempio il recente fenomeno del lettore che, nei blog, si trasforma in critico, nonché quello del critico che diventa volentieri scrittore. Il passaggio dalla saggistica alla narrativa costituisce infatti una delle caratteristiche della produzione letteraria degli ultimi tempi. L’argomento, vasto e interessante, riguarda molti protagonisti della vita culturale del Paese, come Romano Luperini, Alberto Casadei o Marco Santagata, Alberto Asor Rosa, e molti altri e potrebbe essere studiato anche come momento privilegiato per una verifica dell’odierna situazione della critica e della letteratura. Bibliografia Baldini, Anna (2007). Pierre Bourdieu e la sociologia della letteratura, [w:] «Allegoria», n. 55, a. XIX, gennaio-giugno 2007, str. 9-25. Baricco, Alessandro (2006). Cari critici, ho diritto a una vera stroncatura, [w:] «La Repubblica», 1.03.2006, str. 1. Baricco, Alessandro, Tarasco, Roberto, Vacis, Gabriele (2003). Balene e sogni. Leggere e ascoltare. L’esperienza di Totem. Torino: Einaudi. Bianchi, Paolo (2009). La strega Baricco vien di notte. Come Harry Potter, [w:] «il Giornale.it», 31.10.2009. Bourdieu, Pierre (1978). Campo del potere e campo intellettuale. Cosenza: Edizioni Lerici. Casadei, Alberto (2007). Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo. Bologna: Il Mulino. Ceserani, Remo (1999). Introduzione a Guida allo studio della letteratura. Roma-Bari: Laterza, str. VII-XXXV. Ferroni, Giulio (2006). Caro Baricco, io la recensisco ma lei non mi legge, [w:] «La Repubblica», 2.03.2006, str. 46. Ganeri, Margherita (1991). Il “caso” Eco. Palermo: Palumbo. La Porta, Filippo, Leonelli, Giuseppe (2007). Dizionario della critica militante. Letteratura e mondo contemporaneo. Milano: Bompiani. Le top five, [w:] «La Repubblica», 14.11.2009, str. 14. Pasti, Daniela (1994). Le passioni di Pickwick. Intervista ad Alessandro Baricco, [w:] «La Repubblica», 27.07.1994, str. 27. Rush, Kay (2005). Intervista ad Alessandro Baricco, Tele 5 Ĕspana. Segre, Cesare (1993). Notizie dalla crisi. Dova va la critica letteraria?. Torino: Einaudi. Taglietti, Cristina (2006). Baricco: «Imparo poco dalle stroncature», [w:] «Corriere della Sera», 9.09.2006, str. 37. Tedoldi, Giordano (2009). San Baricco appare ai fedeli di Emmaus, [w:] «Libero-news.it», 5.11.2009. Telese, Luca (2009). Faccia a Faccia con Alessandro Baricco – l’intervista registrata il 7 gennaio 2009 per Rai Tre. Top ten i libri più venduti, [w:] «La Repubblica», 05.12.2009, str. 50. Zinato, Emanuele (2005). Senza mestiere, fuori testo: la critica dalla crisi alla responsabilità, [w:] «Moderna», VII, 2005, str. 23-42. 65 www.romdoc.amu.edu.pl Gianluca Olcese Università di Wrocław Le maschere della Baìo di Sampeyre 1. Introduzione La Baìo è un’antica tradizione che si svolge ogni cinque anni a Sampeyre, nelle Alpi Occidentali in provincia di Cuneo; viene vissuta dalla popolazione come una commemorazione mascherata della cacciata dei Saraceni dal Piemonte, ma i suoi precedenti si possono rintracciare nelle «abbadie dei folli», associazioni giovanili sorte in epoca medievale allo scopo di «folleggiare». Il periodo della celebrazione va dall’Epifania – quando viene proclamata dagli Alum (gli organizzatori della festa) – al Giovedì Grasso, all’interno del quale si svolge durante tre giorni un corteo itinerante per il paese, cui prendono parte i componenti della comunità di sesso maschile. Nel territorio che circonda le Alpi Occidentali, si ritrovano analoghe maschere, ad es. in Val d’Aosta, durante la «Coumba Freida» o, sempre in Val Varaita, nella «Beò» di Bellino. Altri paralleli con questi gruppi mascherati, si possono tracciare con le Männerbund, analizzate da Dumézil nella sua opera Mythes et dieux des Germains, nonché con i Benandanti friulani di cui si è occupato Carlo Ginzburg in Storia notturna, fino agli studi incentrati sui riti stagionali balcanici e slavi condotti da Mircea Eliade, tra cui quello ancora oggi presente in Romania nella società dei căluşari, analizzato dettagliatamente in Occultismo, stregoneria e mode culturali. Ogni gruppo mascherato presenta peculiarità proprie, inoltre il corteo mostra determinate differenze nelle quattro frazioni di Sampeyre: Piasso (il centro), Calchesio, Rore e Villar. E’ importante notare che, in base alla documentazione raccolta da De Angelis (I documenti della Bahìo conservati nell’archivio comunale di Sampeyre) inerente la Baìo, che ne indica la presenza almeno dal sec. XVII, si può desumere che a un certo punto lo svolgimento della manifestazione si sia cristallizzato e i costumi di foggia militare abbiano smesso di essere adattati ai tempi correnti. L’ordine del corteo è il seguente, con alcuni particolari comuni: Cantinìe e Arlequin, sono presenti in ogni corteo, e non hanno un posto fisso; il Giudice è presente solo a Villar, ma non partecipa al corteo, appare solo durante il processo che ha luogo l’ultimo giorno di manifestazione. 66 www.romdoc.amu.edu.pl Piasso (centro): Cavalìe, Serazine, Segnourine, Tambourìn, Sapeur, Grec, Escarlinìe, Segnouri, Espous, Sounadur, Alum, Uzouart, Moru e Turc, Lou Viei e la Vieio. Calchesio: Tambourn Majour, Cavalìe, Serazine, Segnourine, Tambourìn, Sapeur, Grec, Escarlinìe, Espous, Sounadur, Alum, Uzouart, Lou Viei e la Vieio. Rore: Serazine, Segnourine, Tambourìn, Sapeur, Grec, Escarlinìe, Segnouri, Espous, Sounadur, Alum, Uzouart, Lou Viei e la Vieio. Villar: Tambourn Majour, Serazine, La Timbalo, Tambourìn, Sapeur, Escarlinìe, Segnouri, Espous, Sounadur, Alum, Uzouart, Granatìe, Lou Viei e la Vieio. 2. Descrizione delle maschere Cavalìe: presenti solo nelle Baìo di Sampeyre e Calchesio. Sono i soldati a cavallo. A Sampeyre sono in quattro e indossano un costume nero con una fascia trasversale ricamata e un elmo da dragone napoleonico; questa uniforme ricalca apertamente l’uniforme del Cavaliere dell’esercito di Savoia di fine XIX secolo. La copia, sulle maniche della giacca mostra un ornamento rosso a zig-zag che si ritrova in molti altri costumi, nelle antiche cerimonie pagane per l’avvento della primavera simboleggiava l’acqua e la pioggia, a scopo apotropaico. La bardatura del cavallo è prevalentemente rossa con una croce sopra il muso. A Calchesio i Cavalìe sono due. Il verde, colore prevalente della divisa, è anche il colore di San Defendente, patrono del paese. Indossano un elmo uncinato di foggia romana e reggono in mano un’alabarda, sul petto una fascia trasversale colorata. I cavalli sono bardati di verde con anteriormente una croce rossa in campo giallo, attorno al collo delle borchie da cui pendono piccoli campanelli, una coccarda ricamata è posta tra le orecchie. Tambourn Majour: apre la sfilata a Calchesio e Villar. È il solo personaggio a Calchesio ad essere singolo. È vestito di nero con la giacca a code, e i pantaloni hanno una banda rossa: è un abito elegante. Entrambi i Tambourn tengono in mano una lunga asta che muovono ritmicamente; a Calchesio in cima ad essa si trovano delle coccarde, mentre a Villar delle stelle da cui scendono moltissimi nastri colorati. A Calchesio indossa una banda trasversale colorata sulla giacca e una fascia di seta orizzontale intorno alla vita, con al centro una coccarda dalla quale pendono dei bindel che arrivano all’altezza del ginocchio. Sulla testa porta un cappello a cilindro nero con molti nastri attorno e la scritta “Liberté”. A Villar il tipo di abbigliamento ha maggiori analogie con una divisa militare: porta le spalline dorate sulla giacca con due bande trasversali incrociate; il copricapo è un colbacco 67 www.romdoc.amu.edu.pl nero con un pennacchio rosso alla sommità e con uno specchietto al centro circondato da nastri. Serazine: rappresentano le bambine che, sventolando i loro fazzoletti bianchi, avvisavano la gente del posto degli spostamenti dei Saraceni. Sono i bambini più piccoli a recitare questa parte: indossano un abito rosso con ricami di altri colori – bianco a Villar – legato in vita con un bindel che termina con una gonna lunga fino ai piedi; sulle spalle hanno una mantellina variopinta e sulla testa una cuffia colorata; agitano dei grandi fazzoletti bianchi per tutta la durata del corteo. Segnourine: interpretate sempre da bambini, ma più grandi rispetto alle Serazine, questo personaggio non c’è a Villar. L’abito è bianco di foggia ottocentesca con la gonna lunga fino ai piedi; è ornato con pizzi e nastri che formano il motivo a zigzag; in testa portano un cappello decorato a tesa larga e in mano sventolano un grosso ventaglio. La Timbalo: è il suonatore di grancassa e si trova esclusivamente a Villar. Ha un completo nero con una fascia rossa sui pantaloni; dalla camicia bianca spunta un papillon nero; porta una fascia trasversale ricamata come anche la fascia che regge la grancassa; il copricapo è un cappello a bombetta circondato da un bindel e una piccola coccarda; la grancassa è ornata di fiocchi colorati. Tambourìn: hanno il compito di aprire la giornata facendo rumore per le strade della propria frazione del paese per chiamare i partecipanti alla sfilata e attirare l’attenzione degli abitanti; durante il corteo scandiscono la marcia con il costante rullo di tamburi. Sono impersonati da bambini, più numerosi a Sampeyre dove vi sono anche due adulti che li precedono e danno il ritmo di battuta. A Sampeyre, Calchesio e Villar indossano un’uniforme militare nera con le spalline frangiate e un cappello ornato con nastri e con un pennacchio che a Villar è di coda di ghiro o di pelo di animale; sulla giacca è presente il motivo a zig-zag; trasversalmente e alla vita c’è una fascia colorata, ricamata con fiori con una coccarda; a Calchesio e Villar portano un corto grembiule bianco sul davanti; il tamburo è decorato con nastri e coccarde. A Rore il tricolore è predominante nel costume: usano pantaloni di stoffa verdi e rossi, e bianca è la camicia con decorazioni a zig-zag sugli uni e sull’altra; il tamburo è lateralmente decorato con il tricolore, così come la fascia trasversale sulla camicia. Sapeur: hanno una barba folta e non sempre finta, come nell’immaginario collettivo gli uomini che lavorano nei boschi. Rappresentano i guastatori dell’esercito popolare, che hanno la funzione di liberare la strada dai tronchi che impediscono il cammino: nella visione 68 www.romdoc.amu.edu.pl storica della festa sono gli impedimenti che i Saraceni lasciavano dietro il loro passaggio per rallentare il cammino degli inseguitori. La divisa è nera con pantaloni neri, ma a Sampeyre sono bianchi, e un grembiule bianco con dei nastri colorati cuciti ai lati; anche sul loro costume si trovano i ricami a zigzag, che a Villar si incrociano per formare un motivo romboidale; indossano una fascia trasversale colorata e una attorno alla vita, con una coccarda da cui pendono altri bindel; in testa hanno un colbacco con visiera sul davanti decorato con fiocchi e bindel, che nelle Baìo di Calchesio e Villar hanno uno specchietto al centro con lo scopo propiziatorio di scacciare gli spiriti maligni. L’ascia è decorata con dei fiocchi alla sommità della parte metallica e dei nastri colorati ad avvolgere il manico; la lama è colorata di rosso, su di essa è dipinta una S bianca come l’iniziale di Sapeur. I tronchi di legno erano gli stessi che le antiche Abbadie dei folli usavano per sbarrare il cammino delle coppie di sposi novelli per esigere il pagamento della gaggio: una sorta di tassa per i festeggiamenti; febbraio era anche il mese dei fidanzamenti e dei matrimoni, perché è il mese che precede la primavera e anticamente i lavori dei campi in questo periodo erano più leggeri: ancora presto per la semina e alla fine dei compiti invernali. Grec: il costume dei Grec ricorda quello della mesnie Hellequin, con la camicia bianca e il berretto che pende, che si ritrova nelle descrizioni e nelle raffigurazioni dei gruppi di anime dei morti di epoca medievale. Nella Baìo sono ex-prigionieri dei Saraceni liberati dalla popolazione, perciò si uniscono ai festeggiamenti per le strade; non sono rappresentati nel paese di Villar. Indossano pantaloni alla zuava di diversi colori, le calze pesanti sopra ai pantaloni, anch’esse variopinte, sono di lana e arrivano fin sotto al ginocchio; la camicia è bianca ornata con nastri con cui si ritrova il ricamo a zig-zag; portano al collo un nastro rosso e una fascia legata intorno alla vita; sulla camicia dei Grec di Rore è applicato un cuore rosso di panno da cui scendono bindel colorati; portano un cappello floscio che pende lateralmente con un lungo pezzo di stoffa a cui sono attaccati dei nastri colorati e delle coccarde; fumano in continuazione da una lunga pipa. Escarlinìe: il nome è traducibile con “scampanellatori”; rappresentano i componenti dell’esercito popolare che scacciarono i Saraceni con la loro mazza. “Scarlin” nel dialetto locale significa “campanello”, infatti le loro armi sono ornate di rumorosi campanelli, per cui sono costantemente tenute in movimento per produrre il massimo del rumore. Più probabilmente avevano la funzione di allontanare gli spiriti maligni dell’anno passato o dell’inverno e quindi propiziare l’arrivo della rinascita e della primavera: a Rore da sopra la 69 www.romdoc.amu.edu.pl mazza spunta un cespo d’edera, le cui foglie sono verdi anche d’inverno; negli altri paesi la mazza è ricoperta da nastri e coccarde. Indossano un’uniforme militare nera (tranne a Rore); l’uniforme ha le spalline frangiate rosse e dei ricami a zig-zag sulle maniche; sulla giacca portano una fascia trasversale. A Rore il vestito è nero con delle fasce rosse sugli orli, una decorazione a zig-zag rossa sui pantaloni e sulle maniche che si incrocia all’altezza delle spalle con una coccarda rossa; sul petto portano una fascia trasversale ricamata. Il berretto è da bersagliere a tesa larga, a Calchesio e Villar in cima si trova una coccarda con delle piume che scendono, a Sampeyre è ornato con vari bindel a scendere e delle coccarde in cima, mentre a Rore è un basco interamente coperto di nastri piegati e coccarde. Segnouri: sono i ricchi signori; a Calchesio non sono rappresentati. Sono tutti uomini, tranne a Sampeyre dove si trova anche la figura della Segnouro, che indossa un abito nero ottocentesco con uno scialle di lana sulle spalle e in mano tiene un ventaglio e un ombrello parasole. Il Segnour indossa una giacca con le code, ha i pantaloni neri con banda bianca; porta sulla giacca una fascia trasversale e una in vita, e una coccarda all’occhiello; il cappello è una bombetta adornata con un bindel attorno, nella mano guantata di bianco regge un bastone da passeggio decorato con dei nastri arrotolati. A Villar il cappello è sormontato da un pennacchio blu e rosso, con una S di colore bianco da un lato. Espous: gli sposi, sono più numerosi a Sampeyre. L’Espous indossa un abito nero elegante con le code e un “risolo”: la pettorina bianca tradizionale della valle, adornata con un nastro rosso a zig-zag; sulla giacca due fasce colorate, una trasversale e l’altra attorno alla vita; all’occhiello una coccarda colorata da cui pendono i bindel; in testa porta un cappello a cilindro con un nastro nella parte bassa, a Sampeyre e Calchesio indossa una bombetta. L’Espouzo indossa una lunga gonna di panno nero e un grande grembiule di colore viola, rosso o azzurro, fermato in vita da un nastro; sulla maglia nera porta uno scialle di seta ricamato a fiori con lunghe frange; sul petto sono appuntate una croce e un cuore dorati di piccole dimensioni; in testa indossa il “bandò”: una cuffia di pizzo bianco tessuta al “tombolo”. Sounadur: sempre vicini agli sposi, suonano ininterrottamente le musiche tradizionali delle valli; possono anche non essere del luogo, in questo caso sono pagati. I loro strumenti sono: il violino, la fisarmonica e il clarinetto; indossano un completo nero i cui pantaloni sono ornati da una banda rossa; portano una fascia colorata con una coccarda messa di traverso o a circondare la vita, oppure le indossano entrambe; il cappello a bombetta ha alla base un nastro e una coccarda. 70 www.romdoc.amu.edu.pl Alum: sono i componenti dello “stato maggiore”: quelli che sono responsabili dell’organizzazione e della buona riuscita dei festeggiamenti. Alum nella parlata locale significa “lampada”: il copricapo che portano è lo stesso dell’alta uniforme dei carabinieri, popolarmente chiamata “lucerna”, ma indossato al modo degli ufficiali dell’esercito napoleonico. Sono in numero di otto per ogni Baìo: due per ogni ruolo. Rappresentano i capi delle milizie popolari; nello specifico i ruoli sono: Tenent o Soutportobandiero, Capitani o Portobandiero, Abà, Segretari, Tezourìe. L’abbigliamento è pressoché analogo per ogni ruolo: a Sampeyre, Calchesio e Rore gli Alum indossano un abito nero bordato di rosso, con la differenza che a Rore la decorazione sui pantaloni, sui polsini e trasversalmente dietro la schiena è a zig-zag; a Villar l’abito nero è invece bordato di bianco con delle decorazioni a cerchio sui polsini; a Sampeyre e Calchesio portano una fascia decorata di nastri intorno alla vita, a Rore e Villar invece è indossata trasversalmente sul petto; portano una spada sul fianco. La feluca ha un pennacchio blu e rosso in cima, è decorata con nastri disposti a formare dei fiori, tranne a Rore dove i nastri sono disposti concentricamente a semicerchio; i copricapi sono contraddistinti su un lato da lettere diverse. Sono presenti alcuni aspetti peculiari per i diversi gradi dello “stato maggiore”: Tenent o Sout-portobandiero: è il grado più basso dello “stato maggiore”. Portano sulla feluca la lettera “T” per i Tenent tranne nella Baìo di Rore, dove c’è una “S” di Soutportobandiero. Capitani o Portobandiero: è il grado a cui sono promossi dopo cinque anni i Tenent; il loro compito è di portare la bandiera della Baìo, ed essendoci solo una bandiera devono passarsela l’uno con l’altro varie volte durante il corteo; la feluca presenta la lettera “P”. A Sampeyre e Calchesio hanno due fiocchi rossi sul bavero e a Rore una coccarda sul petto; la fascia ricamata è messa orizzontale sopra la giacca intorno alla vita e presenta una coccarda, mentre a Rore, è sotto la giacca con un fiocco rosso; portano un bastone da passeggio decorato i Portobandiero di Sampeyre, Calchesio e Villar. La bandiera è diversa in ogni paese: a Sampeyre ha sfondo bianco con una grande croce di colore azzurro pallido, al centro è ricamata un’aquila dorata con due teste che ha in mezzo un cerchio con le chiavi di San Pietro, come il nome del paese; aquile anche ai due angoli opposti, e agli altri angoli le lettere iniziali di Sampeyre “S” e “P”; a Calchesio la bandiera è semplice, ha fondo giallo con una croce azzurra; quella di Rore è molto colorata: al centro c’è una croce bianca che arriva sino ai bordi e divide dei riquadri alternati blu e rossi; 71 www.romdoc.amu.edu.pl quella di Villar è una croce azzurra in campo bianco; l’asta della bandiera è decorata coi bindel. Abà: i comandanti in capo; il nome sta per “abate” e rimanda alle Abbadie dei folli di epoca medievale. Sono di pari grado tranne che a Sampeyre, che ospita sulla propria piazza le altre Baìo, per cui uno dei due è di grado superiore detto Abà Majour, che porta sulla feluca la lettera “M”. Gli altri hanno invece la lettera “A”. Il loro compito è quello di dirigere la Baìo, sancirne l’inizio, stabilire i percorsi, ma anche pagare i festeggiamenti di tasca propria: si dice che nell’Ottocento dovessero vendere una mucca per una buona riuscita dell’evento. Il costume di Sampeyre e Calchesio ha bordature bianche con due piccole rose rosse ricamate sul bavero della giacca; la camicia è bianca con la “risolo”e in vita portano una grande fascia ricamata e una coccarda da cui pendono i bindel; a Villar il bavero della giacca è ornato con una coccarda da cui scendono i bindel, decorazioni dorate ai polsini ed anche per le bande e le fasce; a Rore il vestito nero è orlato di bianco, i pantaloni terminano poco sotto il ginocchio dove è sistemato un fiocco bianco e si congiungono con delle calze bianche di lana pesante; la giacca con le code ha una coccarda con dei nastri sulla sinistra; sul petto una coccarda da cui scendono dei nastri, e due larghe fasce ricamate, una trasversale e l’altra intorno alla vita da cui scende una frangia colorata. Tutti gli Abà indossano guanti bianchi, portano la spada nella fodera da un lato e in mano un bastone decorato con dei nastri. Sulla feluca spicca la lettera “A” oppure “M” per l’Abà majour di Sampeyre. Segretari: dopo altri cinque anni si arriva all’ultima carica della carriera di Alum: quella di Segretari o di Tezourìe; questo personaggio non si trova a Villar, dove la funzione del Segretario la svolge uno dei due Tezourìe. Il Segretari porta con sé il libro dove sono custoditi gli atti della Baìo con l’incarico di annotare gli avvenimenti principali. Il costume è orlato di bianco con una coccarda appuntata sul petto; per Sampeyre e Calchesio, si trovano due piccole rose bianche di stoffa sul bavero e un’altra coccarda appuntata alla fascia intorno alla vita; l’abito è orlato con il nastro giallo per Rore; sulla feluca, portano la lettera “S”. Tezourìe: hanno il compito di custodire il tesoro della Baìo. La sera del Giovedì Grasso saranno processati e condannati per tutte le colpe di cui si sono macchiati gli abitanti del rispettivo paese. A Sampeyre e Calchesio e Rore l’abito è il medesimo abito dei rispettivi Segretari, a Villar sono in due, col vestito orlato di bianco: uno porta la borsa del denaro, l’altro, con il compito di segretario, il libro della Baìo; la feluca porta la lettera “T”, durante il processo sarà 72 www.romdoc.amu.edu.pl sostituita da un copricapo bianco, come una calza rovesciata, che ricorda le maschere dei morti. Il giorno del processo tenteranno di fuggire varie volte, ma saranno sempre ricatturati, ed infine faranno testamento davanti alla giuria. Uzouart: il nome fa pensare agli ussari dell’esercito, sono armati di fucile e rappresentano le guardie del corpo degli Alum; hanno anche la funzione di recuperare i Tezourìe quando cercano di scappare, nelle osterie principalmente, dove però vige una sorta di diritto di asilo, ed hanno un momento per prendere qualcosa da bere. Sono gli unici personaggi appartenenti alla comunità che vengono non solo pagati, ma anche vestiti, per svolgere il loro compito dall’Alum che hanno l’incarico di proteggere. A Sampeyre e Calchesio indossano un vestito nero elegante, e le maniche decorate con un doppio motivo a zig-zag che forma dei rombi; portano una fascia con tre nastri attorno alla vita e due coccarde una su di essa e l’altra all’occhiello; a Villar la giacca ha gli orli bianchi e sulle maniche e sui pantaloni il motivo a zig-zag di colore rosso e infine due fasce: una trasversale e l’altra attorno alla vita, terminante con una coccarda, un’altra coccarda è sulla giacca; a Rore indossano una divisa floreale di stoffe di colori diversi, i pantaloni sono larghi e di colori diversi; portano una specie di mitra vescovile completamente ricoperta di bindel e coccarde, i cui nastri scendono lunghi e numerosi posteriormente; sul davanti c’è uno specchietto. Granatìe: è presente solo a Villar; la sua funzione è quella di condurre i Tezourìe davanti al giudice e di eseguire la condanna a morte, per cui sono armati di fucile (caricato a salve). Indossano una giacca nera con le spalline d’argento e dei pantaloni bianchi, entrambi decorati da un nastro di colore rosso messo a zig-zag, sulla giacca portano due fasce colorate che partono dalle spalle e si incrociano, fissate sui fianchi con una coccarda; in testa portano un kepì ricoperto di nastri disposti a forma di fiore, sul davanti la lettera “G”, scritta con delle perline, ha intorno un nastro arricciato, e una piuma in alto sulla fronte. Moru e Turc: si trovano solo nella Baìo di Sampeyre. Entrambi rappresentano i Saraceni: i Moru sono i prigionieri dei Saraceni liberati dalla popolazione locale, mentre i Turc sarebbero i Saraceni fatti prigionieri; indossano abiti di foggia simile: il principale elemento che li contraddistingue è il colore del viso: nero per i Moru e chiaro per i Turc. I Moru avanzano per primi, hanno la faccia annerita e portano degli enormi orecchini dorati ad anello; indossano abiti larghi, casacca e pantaloni bianchi, sulle spalle un grande scialle molto colorato e in testa un fez rosso con una mezzaluna dorata da cui scende un 73 www.romdoc.amu.edu.pl fiocco; cavalcano degli asini. I Turc hanno un abbigliamento simile: pantaloni azzurri e scarpe con la punta ricurva e con uno scialle di colore principalmente nero; fumano costantemente la pipa e sono legati tra loro alle caviglie; indossano un fez molto simile ai Moru con una mezzaluna e una stella. Cantinìe: portano costantemente da bere del vino da grossi fiaschi a chiunque nel corteo lo desideri. A Calchesio e Villar indossano pantaloni e camicia bianchi con il motivo a zig-zag che si incrocia formando dei rombi: la decorazione è fatta con un nastro rosso sui pantaloni ed è presente a zig-zag anche sulle maniche; il cappello è a cono con dei nastri che scendono anche sulle spalle; una fascia ricamata coi nastri è posta alla vita a Calchesio, mentre a Villar la portano messa trasversale sul petto fermata con una coccarda. A Sampeyre hanno pantaloni bianchi e camicia rossa con nastri a zig-zag e pois rossi e una fascia di nastri orizzontale con una coccarda; il cappello a cono è pressoché identico a quello di Calchesio. A Rore hanno pantaloni e casacca bianchi decorati con un motivo a zig-zag e pois blu, che si trova anche sulle maniche; una fascia ricamata è posta trasversalmente sulla casacca e anche un cordone con una borraccia; indossano un cappello a cilindro ricoperto di nastri a formare delle coccarde. Arlequin: si occupano di tenere a distanza il pubblico, che spesso si dimostra troppo invadente. Il costume degli Arlequin non segue regole precise: basta che sia il più consunto possibile; in alcuni casi indossa una gonna sopra i pantaloni, sulla giacca colorata ci sono pezzi di toppe di pelo di animale e al collo, come fosse una sciarpa, un serpente di gomma; in mano brandisce una coda di animale o uno scoiattolo imbalsamato, oppure una trappola per topi: si dice che una volta usasse un vero e proprio topo morto o un serpente, che sicuramente sortiva l’effetto desiderato; il cappello può essere a cono, e su di esso sono presenti dei gusci vuoti di lumaca; il viso è a volte annerito con un pezzo di carbone. Il Giudice: è un personaggio dall’aspetto funesto che appare a Villar solo l’ultima sera della Baìo: ha il compito di elencare tutte le malefatte dei due Tezourìe e di condannarli a morte. È impersonato da un altro componente della Baìo e indossa un abito con un lungo mantello nero, un cappello a cilindro decorato con dei nastri bianchi e ha una lunga barba nera che copre il viso. Lou Viei e la Vieio: lou Viei simboleggia l’anno vecchio, mentre la Vieio è la morte che genera: questi due personaggi rappresentano la fine del vecchio anno e la generazione del nuovo; non a caso si trovano a chiudere il corteo. Durante la manifestazione la Vieio approfitta dei momenti di tranquillità per raccontare storielle salaci, come è dimostrato magnificamente dal discorso che pronuncia in difesa dei Tezourìe di Villar, e riportare il 74 www.romdoc.amu.edu.pl significato della festa all’energia fecondatrice del basso materiale corporeo, come sostenuto da Bachtin ne “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”. Lou Viei ha una lunga barba bianca e una sveglia o un orologio fermo sul petto; porta un paio di finti occhiali di legno; indossa dei pantaloni marroni ampi e fermati sotto il ginocchio da pesanti calzettoni di lana bianchi o rossi legati con un fiocco, ai piedi porta gli escufun: calzari tipici di drap (tessuto che si ottiene con la lavorazione manuale della lana al telaio) con la suola chiodata; porta una grande giacca con le code e un panciotto scuro; a tracolla tiene una borsa o una bisaccia, in genere tessuta con una stoffa di misto lana tradizionale delle valli, che una volta si produceva artigianalmente; porta una feluca con decorazioni rozze e la lettera “V”; imbraccia un fucile antico in spalla; fuma la pipa e si regge su un bastone contorto. La Vieio indossa una gunelo: una gonna di drap, e un fudil, il grembiule; la camicia è bianca o rossa con il colletto bianco ricamato e sulle spalle porta uno scialle, la testa è coperta con una cuffia bianca di pizzo tessuta al tombolo; in mano regge un bastone contorto e una conocchia; legata a tracolla tiene una culla di legno in cui riposa un bambolotto. 3. Conclusioni La Baìo conserva molti dei tratti caratteristici delle antiche ritualità pagane legate al ciclo di morte e rinascita che caratterizza le stagioni, arricchendosi della vitalità della cultura popolare, con un intento propiziatorio. Oggi, piuttosto, lo scopo è quello di riportare le giovani generazioni nelle zone di montagna che per troppi sono state private della loro forza e iniziativa, per ridare al paesaggio montano il plusvalore della propria identità, da tempo smarrita, fornendo a chi sceglie di ripopolare queste valli, il senso di appartenenza ad un mondo antico e orgoglioso. Una nuova possibilità di vita dopo che la città ha sputato fuori tutte le eccedenze umane, sotto forma di operai e di ogni genere di manovalanza per i lavori deterioranti che in un primo tempo hanno fatto marciare l’economia delle grandi imprese urbane. Bibliografia De Angelis, A. (1987). I documenti della Bahìo conservati nell’archivio comunale di Sampeyre (1698-1962). Sampeyre (CN): Solestrelh. Eliade, M. (1984). Occultismo, stregoneria e mode culturali: Saggi di religioni comparate. Firenze: Sansoni. Gallo Pecca, L. (1987). Le maschere, il carnevale e le feste per l’avvento della primavera in Piemonte e nella Valle d’Aosta. Cavallermaggiore (CN): Gribaudo. Ginzburg, C. (1989). Storia notturna: una decifrazione del sabba. Torino: Einaudi. Olcese, G. (2010). “Le tradizioni come identità: la Baìo di Sampeyre”, [w:] Studia Romanica Posnaniensia, vol. XXXVII/1 (pp. 69-84). Poznań: Adam Mickiewicz University Press. – (2009). “Il cerchio del carnevale”, [w:] Studia Romanica Posnaniensia, vol. XXXVI (pp. 227-241). Poznań: Adam Mickiewicz University Press. 75 www.romdoc.amu.edu.pl Pennino, M.T., De Angelis, A. & Ottonelli, S. (1997). Baìo, Baìo. Cuneo: Ousitanio Vivo. Porporato, D. (2007). Feste e musei. Torino: Omega. Prando, E. (2006). Baìo: l’antico carnevale del Piemonte occitano. Mondovì (CN): Araba Fenice. Toschi, P (1976). Le origini del teatro italiano. Torino: Boringhieri. 76 www.romdoc.amu.edu.pl Appendice: Fotografie Arlequin di Sampeyre. Arlequin di Calchesio. 77 www.romdoc.amu.edu.pl Cantinìe di Villar e Uzouart (a fianco). Cantinìe di Sampeyre. 78 www.romdoc.amu.edu.pl Moru. Turc con una Serazine. Turc. A destra impersonato da Fabrizio Dovo (direttore del museo contadino di Sampeyre). 79 www.romdoc.amu.edu.pl Moru. Arlequin di Sampeyre. Escarlinìe, Serazine, Segnourine, Sapeur e Cantinìe di Calchesio. 80 www.romdoc.amu.edu.pl Espous. Coppie di Espous durante i balli. 81 www.romdoc.amu.edu.pl Arlequin di Villar. Arlequin, Serazine. Arlequin, Moru, Turc e la Vieio di Sampeyre . Arlequin, Sapeur di Calchesio. Serazine di Villar. 82 www.romdoc.amu.edu.pl Grec di Sampeyre. Grec. 83 www.romdoc.amu.edu.pl Sapeur. La Timbalo. Sounadur. 84 www.romdoc.amu.edu.pl Cavalìe di Calchesio seguiti da un Cavalìe di Sampeyre. Cavalìe di Sampeyre. 85 www.romdoc.amu.edu.pl Cavalìe di Sampeyre. Riproduzione dell’uniforme usata nel reparto dei Carabinieri a cavallo dell’esercito Italiano del 1885. Cavalìe di Sampeyre. Riproduzione dell’uniforme da cavaliere dell'esercito di Savoia (1860-63). 86 www.romdoc.amu.edu.pl Fredo Valla (sceneggiatore e studioso due Uzouart. di tradizioni occitane), mascherato da Uzouart. Portobandiero e Uzouart di Villar. 87 www.romdoc.amu.edu.pl Portobandiero di Sampeyre. Alum. 88 www.romdoc.amu.edu.pl Inizia il processo a Villar. Il Giudice tra due Uzouart. I due Tezourìe di Villar sotto processo. 89 www.romdoc.amu.edu.pl La Vieio è il difensore dei Tezourìe. La accompagna Lou Viei. Il Giudice legge la sentenza. La condanna a morte dei Tezourìe è stata eseguita. I morti vengono trasportati sulla siviero e curati con una buona bevuta. 90 www.romdoc.amu.edu.pl La Resurrezione. Lou Viei rappresenta l’anno vecchio. Chiude il corteo con La Vieio. Lei con il bambino in braccio è la morte che genera 91 www.romdoc.amu.edu.pl Alicja Raczyńska Università Jagiellonica di Cracovia Gli influssi ovidiani nella descrizione delle sofferenze amorose nell’Elegia di Madonna Fiammetta di Giovanni Boccaccio L’Elegia di Madonna Fiammetta fu scritta fra il 1343 e il 1344, quando Boccaccio già si trovava a Firenze (Tateo 1998: 69), lontano dalla sua amata Fiammetta (dietro questo nome si celava Maria d’Aquino, la figlia illegittima del re di Napoli, Roberto d’Angiò). Gli studiosi che hanno svolto le ricerche sull’Elegia di Madonna Fiammetta hanno notato un grande influsso delle opere ovidiane, quali Heroides e Ars amatoria. La struttura dell’operetta di Boccaccio è ispirata alle Heroides di Ovidio, una raccolta di lettere scritte da mitiche eroine ai loro amanti ( Curti 2002: 248; Doglio 2005: 99-100; Hauvette 1914: 151-154; Tateo 1998: 70-71; Żaboklicki 1980: 110). L’Elegia di Madonna Fiammetta è un romanzo in forma di una lettera, indirizzata al pubblico femminile, nella quale vengono raccontati i dolori di una donna innamorata. Tenendo conto delle opinioni dei critici sarebbe interessante esaminare in modo più dettagliato come Boccaccio, seguendo il grande praeceptor amoris, descrive le sofferenze amorose della sua protagonista: la nostalgia dell’amato, l’inquietudine, la voglia di morire, la perdita delle forze fisiche e della bellezza. I secoli XII e XIII, chiamati Aetas Ovidiana, furono il periodo della grande popolarità di Ovidio in Francia. Le Metamorfosi costituivano la fonte di conoscenza dei miti antichi, mentre gli echi dell’Ars Amatoria, tradotta e diffusa da un grande romanziere di quel tempo, Chrétien de Troyers, si potevano rintracciare nella concezione dell’amour courtois (UrbanGodziek 2005: 36). Le Heroides, invece, fornivano un modello di elegia. Proprio a causa di questa raccolta i francesi a lungo percepivano elegia come una sorta di lettera d’amore. Perfino gli esponenti del Rinascimento francese, come Clement Marot, Joachim Du Bellay e Pierre de Ronsard scrissero delle elegie in forma di lettere. Ovidio ebbe un grande influsso sulla letteratura narrativa francese. Fu proprio lui ad ispirare i cantari Piramus e Tisbé, Philomena, e Narcisus, nonché i grandi romanzi sui temi mitologici, quali Roman de Troi, Roman de Thèbes e Roman d’Éneas (Faral 1913: 4-157) e il romanzo arturiano. La letteratura francese sfruttò gli insegnamenti del praeceptor amoris che rappresentava in modo molto efficace la natura dell’amore. Erich Auerbach (Auerbach 2006: 190-190, 191), seguendo Edmon Faral, analizza un brano del Roman d’Éneas, nel quale Lavinia, guardando Enea dalla 92 www.romdoc.amu.edu.pl torre, si sente presa dall’amore. La fonte d’ispirazione per questa scena fu la storia della giovane principessa Scilla che si innamorò di Minosse, un grande nemico di suo padre (Met. VIII). L’autore del Roman d’Éneas, descrivendo Lavinia, non segue più lo stile alto delle Metamorfosi, ma sfrutta la topica attinta dalle elegie ovidiane: la freccia dell’Amore che colpisce la protagonista e provoca sudore, brividi, svenimenti, accuse rivolte a sé stessa, lamenti e notti insonni. Boccaccio trascorse la sua jeunesse dorée (Padoan 1964: 89) nel Regno di Napoli, a quel tempo governato dalla dinastia degli Angiò, dove la letteratura francese era molto popolare. Il Certaldese ebbe la possibilità di leggere le opere dei classici antichi, fra le quali anche le opere di Ovidio. Boccaccio deve a questo poeta la conoscenza della psiche femminile e del carattere di una donna innamorata. Il più giovane dei poeti elegiaci latini percepiva le donne come creature particolarmente delicate e sensibli, incapaci di lottare contro le frecce di Amore. Nel libro terzo dell’Ars Amatoria scrive: Femina nec flammas nec saevos discutit arcus; parcius haec video tela nocere viris [La donna non sa respingere le fiamme e le treccie tremende: armi che- a quanto vedo- sono per l’uomo meno micidiali] (Ovidio, 2003: 122, III, 29-30, traduzione di E. Pianezzola) La debolezza delle donne nei confronti del potere di Amore viene messa in evidenza particolarmente nella lettera di Ero a Leandro dalle Heroides. Ero scrive al suo amato che l’uomo e la donna vengono bruciati dallo stesso fuoco, ma le loro forze sono impari. Gli uomini possono liberarsi dalle sofferenze amorose occupandosi della caccia, delle discussioni al foro e degli esercizi in palestra. Le donne, in quanto troppo deboli e delicate per fare tutte queste cose, chiuse nelle loro stanze, non possono trovare un rimedio efficace al loro amore. Boccaccio nella prefazione al Decamerone fa una parafrasi di questo brano. Decide di dedicare il suo capolavoro a queste povere creature, troppo fragili per poter opporsi alle frecce di Amore. Fiammetta è una di loro. Anche lei passa i giorni in solitudine, chiusa nella sua camera. La sua mente è perturbata da tristi pensieri. Non sa smettere di pensare al suo amato. Le Heroides contengono in gran parte lettere di donne abbandonate dai loro amanti, come Arianna, Didone, Medea, Ipsifile, Oinone e Fillide. Ovidio rappresentò in modo molto efficace il loro stato d’animo. Ipsifile e Fillide furono abbandonate dai loro amanti che gli avevano promesso di tornare presto. Le donne li aspettano con impazienza. Le loro menti sono travolte da passioni contrastate. Fillide, la figlia del re traco Sitone, che secondo Henri Hauvette assomiglia più a Fiammetta (Hauvette 1914: 156), soffre a causa della separazione da Demofonte, figlio di Teseo e Fedra. Il giovane si fermò in Tracia quando tornava dalla 93 www.romdoc.amu.edu.pl guerra troiana. La principessa si innamorò di lui a prima vista. Damofonte ricambiò il suo amore e i due divennero fidanzati. Purtroppo, il giovane poco prima delle nozze decise di andare ad Atene per rivendicare il trono dopo la morte del padre. Fillide conta i giorni che sono passati dal momento della partenza dell’amato. Teme che gli sia successo qualcosa di grave e vede con gli occhi dell’immaginazione la sua nave affondata. La sua mente è travolta da passioni contrastate. Da un lato arde d’amore per Demofonte, ma dall’altro comincia ad odiarlo. Si sente ingannata e respinta. Rimprovera il principe ateniense di non aver apprezzato il suo grande amore. Non potendo più vivere in una sofferenza così grande, decide di suicidarsi. Fiammetta, invece, non si suicida, ma desidera la morte e chiede alle divinità di ucciderla: O sommo Giove, contro a me giustamente adirato, tuona e con tostissima mano in me tutte le saette distendi: o sacra Giunone, le cui santissime leggi io sceleratissima giovane ho corrotte, vendicati: o caspie rupi, lacerate il tristo corpo: o rapidi uccelli, o cavalli crudelissimi dividatori dell’innocente Ippolito, me nocente giovane squartate […] (Boccaccio, s. d. : 138) Ipsifile, la principessa di Lemmo, divenne la moglie di Giasone. Il marito la abbandonò per andare a cercare il velo d’oro. Ipsifile viene a sapere che Giasone sposò un’altra donna. La stessa sorte tocca a Medea e Oinone. Tutte e due ricordano nelle loro lettere quei dolci momenti passati insieme, ma allo stesso tempo si pentono di aver conosciuto quegli uomini e di averli amati. Medea maledice il giorno in cui Giasone arrivò in Colchide per prendere il velo d’oro. Si pente di essere stata incantata dai bei capelli d’oro e dall’eloquenza di Giasone. Quest’uomo è stato la causa di tutte le sue sofferenze, nonché dei suoi crimini. Proprio per lui Medea uccise suo fratello e lo fece a pezzi1. Fiammetta, come la principessa di Colchide, si pente di aver conosciuto Panfilo e maledice Venere che le ordinò di ricambiare l’amore del fiorentino: Maledetto sia il giorno che io da prima ti vidi, e l’ora, ed il punto nel quale tu mi piacesti! Maledetta sia quella Dea che apparitami, me, fortemente resistente ad amar te, rivolse con le sue parole dal giusto intendimento! (Boccaccio, s. d.: 134) Sia Medea che Oinone si sentono umiliate e tradite. Medea, la figlia del re, una donna dotata di una grande saggezza e di poteri magici, ricorda a Giasone che lui deve tutti i suoi successi proprio a lei: senza il suo aiuto non sarebbe riuscito a conquistare il velo d’oro ed a riacquistare il trono. Non può capire perché riceve un compenso simile per tutti i sacrifici che fece per quest’uomo. Anche Fiammetta menziona che per Panfilo respinse altri suoi ammiratori e tradì il suo caro marito. Oinone, la bella naiada che divenne la moglie di Paris quando questo era ancora un pastore al monte di Ida, non può accettare che il marito l’abbia 1 Medea uccise il fratello per poter fuggire senza ostacoli con Giasone. Il re di Colchide, costretto a raccogliere le membra del figlio, non riuscì a raggiungere gli Argonauti. 94 www.romdoc.amu.edu.pl lasciato per Elena. Nella sua lettera chiede a Paride se non era degna del suo amore. Lei merita di essere la nuora di Priamo ed Ecuba, di abitare nel castello reale e di condividere il letto con Paride. Inoltre, dichiara che il suo amore verso il principe troiano è più forte di quello di Elena. Fiammetta, come la ninfa dalle Heroides, chiede a Panfilo se non era abbastanza bella, nobile e ricca per soddisfare le sue esigenze: Deh! non era, o pessimo giovane, la mia forma conforme a’ tuoi disii, e la mia nobilità non era alla tua convenevole? Certo molto più. Le ricchezze mie furonti mai negate, o da me tolte alle tue? Certo no. Fu mai amato, od in atto od in fatto, od in sembiante da me altro giovane che tu? E questo ancora, che non confesserai se ‘l nuovo amore non t’ha tolto dal vero. Dunque qual fallo mio, qual giusta cagione a te, qual bellezza maggiore o più fervente amore mi t’ha tolto, e datoti ad altrui? (Boccaccio, s. d.: 135-136) Occorre anche mettere in evidenza delle affinità tra Fiammetta e Didone, un’altra protagonista delle Heroides ovidiane. L’infelice regina di Cartagine scrive la lettera ad Enea poco prima del suo suicidio. Didone, oltre a esprimere il suo dolore causato dalla partenza di Enea, si vergogna di non essere rimasta fedele alla memoria del marito defunto, Sicheo. Nonostante ciò, sottolinea che se Enea non l’avesse abbandonata, non si sarebbe pentita di niente. Fiammetta sa che il marito, che la ama e che vuole consolarla non è degno “di queste ingiurie”, ma possiamo essere sicuri che se Panfilo non l’avesse tradita, lei non avrebbe i rimorsi di coscienza per l’adulterio. Boccaccio nell’Elegia di Madonna Fiammetta si rivela anche un buon discepolo di Ovidio per quanto riguarda lo studio dell’amore. Probabilmente ricordava bene il libro III dell’Ars amatoria, nel quale il poeta latino scrisse che il pallore è il colore più adatto per gli innamorati: Palleat omnis amans, hic est color aptus amanti, hoc decet, hoc nulli non valuisse putent. [Ma sia pallido ogni innamorato: questo è il colorito adatto, questo gli sta bene, questo nessuno può pensare che non abbia effetto.] (Ovidio, 2003: 60, I, 729-730, traduzione di E. Pianezzola). Inoltre, poteva anche trovare una fonte d’ispirazione nel brano della lettera di Canace dalle Heroides, nel quale l’amore viene descritto come un sentimento che provoca pallore, magrezza, perdita dell’appetito, notti che sembrano durare un anno e sospiri: Fugerat ore color, macies audduxerat artus, Summebant minimos ora coacta cibos; Nec somni faciles, et nox erat annua nobis, Et gemitum nullo laesa dolore dabam. (Ovide 1991: 66, v. 79-82) [Il colore era fuggito dalla mia faccia, la magrezza aveva ridotto le mie braccia, mangiavo sempre di meno; non era facile dormire, la notte sembrava durare un anno. Anche se non provavo nessun dolore, emettevo gemiti]2 Anche le Metamorfosi sono ricche di descrizioni di innamorati distrutti da questo sentimento. La nimfa Clizia, respinta da Elio (Met. IV, v. 260-272), cade in uno stato di depressione. Non 2 La traduzione dell’autrice dell’articolo. 95 www.romdoc.amu.edu.pl vuole conoscere le altre nimfe, impazzisce per amore, smette di mangiare. Narciso (Met. III, 339-510) si innamora del proprio volto riflesso nell’acqua della fonte Ramnusia. A causa della disperazione provocata da un amore impossibile il giovane perde la sua fresca pelle e dimagrisce. In uno degli attacchi di furore si lacera il torace con le unghie. Fra gli altri amanti infelici vanno citati Biblide (Met. IX, 453-665), Mirra (Met. X, 298-502) e Ifide (Met. XIV, 699-764). Le due fanciulle, Biblide e Mirra, vengono colpite da un amore incestuoso. La prima si innamora del proprio fratello gemello, Cauno. Col passare del tempo si rende conto che quello che sente per Cauno non è soltanto l’amore di sorella. Sentiva una grande gelosia ogni volta che il fratello si trovava in compagnia di una ragazza più bella di lei. Sogna di abbracciare il fratello. Quando decide di confessare il suo amore, viene respinta, impallidisce e sente un brivido freddo in tutte le parti del corpo. Non potendo conquistare l’oggetto dei propri desideri, impazzisce dal dolore. Si lacera la veste e confessa alla gente il suo amore peccaminoso. Alla fine si scioglie nelle proprie lacrime e si trasforma in un torrente d’acqua. Mirra, a sua volta, ama con amore sensuale il proprio padre, Cinira. Come Biblide, si vergogna dei suoi sentimenti e non sapendo trovare un rimedio efficace, decide di impiccarsi. Ifide, invece, un giovanotto proveniente da una povera famiglia, ama una bella e superba nobildonna, Anassareta, che non lo vuole nemmeno conoscere. Ifide fa del suo meglio per intenerire il cuore dell’amata: decora la porta della sua casa con corone di fiori bagnate dalle proprie lacrime oppure passa le notti giacendo davanti alla sua casa. Infine, non potendo più vivere in sofferenza, si impicca. L’amore di Fiammetta viene rappresentato secondo il modello ovidiano. Guardiamo il processo dell’innamoramento (Libro primo): la protagonista non sa staccare gli occhi da Panfilo. La nascita dell’amore nel cuore della giovane donna provoca la pallidezza e il rossore, la sensazione di freddo e il sudore: Il quale, nel sùbito avvenimento di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me pallid e quasi tutta freddissima lasciò; ma non fu lunga la dimoranza, ché il contrario sopravvenne, e lui, non solamente fatto fervent seniti, anzi le forze tornate nelli luoghi loro, seco uno calore arrecarono, il quale, cacciata la pallidezza, me rossissima e calda rendè come fuoco, e quello mirando onde ciò procedeva, sospirava. (Boccaccio, s. d.: 29) Fiammetta in questo momento assomiglia a Lavinia dal Roman d’Éneas che, colpita dalla freccia di Cupido, impallidisce e arrossisce, si gela e suda. La separazione da Panfilo distrugge Fiammetta, togliendole tutte le forze vitali. La donna smette di mangiare, passa notti insonni a causa di “misere lacrime”, “impetuosi sospiri” e “tempestosi pensieri”. Per le sofferenze amorose “la vaga bellezza” del viso di Fiammetta fugge, i suoi occhi, “simili a due mattutine stelle”, sono intorniati di purpureo cerchio e i bei capelli d’oro “si scernono nella sua fronte”. La gente che guarda Fiammetta cerca di 96 www.romdoc.amu.edu.pl indovinare per quale motivo quella bellissima giovane diventa così magra, “iscolorita” e triste. Alcuni capiscono il perché di questi cambiamenti nell’aspetto fisico della donna: La pallidezza di questa giovane dà signal d’innamorato cuore. E quale infermità mai alcuno assottiglia, siccome fa troppo fervente Amore? Veramente ella ama, e se così è, crudele è colui che a lei è di si fatta noja cagione, per la quale essa così s’assottigli. (Boccaccio, s. d.: 107) Fiammetta subisce l’amore come gli eroi e le eroine dalle opere di Ovidio che vengono citati da lei stessa come gli esempi degli amanti infelici. Fiammetta, tuttavia, paragonando il suo dolore a quello dei personaggi mitologici, si ritiene più sfortunata di loro. Si potrebbe dare ragione a Krzysztof Żaboklicki (Żaboklicki 1980: 119) secondo cui la protagonista boccacciana, si sente più nobile e migliore di Mirra, Biblide, Giocasta, Fillide ed altri eroi ovidiani. In conclusione di tutto, occorre sottolineare che la storia dell’amore di Boccaccio e Maria d’Aquino non fu libera da tempeste. Il futuro autore del Decameron venne a sapere che la sua amata l’aveva tradito durante il suo soggiorno a Baia, una località balneare vicino a Napoli, famosa a partire dai tempi antichi come luogo di delizie, ma anche di lussuria (Chłędowski 1959: 98-99, Raczyńska 2009: 259). L’amante ferito scrisse un sonetto (Perir possa il tuo nome, Baia…) nel quale condannò quel maledetto posto augurandogli che le sue spiagge diventassero i boschi selvaggi e le acque il veleno. La triste sorte di Fiammetta, abbandonata e tradita dall’amato, descritta nell’Elegia di Madonna Fiammetta, sarebbe quindi una punizione per il dolore che la donna recò a Boccaccio. Possiamo chiederci se quest’opera sia davvero una specie di vendetta nei confronti dell’amante infedele, ma una cosa è sicura: Boccaccio, ispirandosi a Ovidio, un grande maestro nell’arte di amare, scrisse il primo romanzo psicologico e delineò un bel ritratto di una donna appassionata, piena di emozioni, la seconda donna viva e vera apparsa sull’orizzonte letterario dei tempi moderni, dopo Francesca da Rimini, protagonista indimenticata del Canto V dell’Inferno di Dante. Bibliografia Fonti 1. Boccaccio, Giovanni, ( s. d.). La Fiammetta. Strasburgo: Bibliotheca Romanica, Biblioteca Italiana. 2. Ovidio (2003). L’arte di amare, trad. it. di E. Pianezzola. Milano: Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore. 3. Ovide (1991). Les Heroïdes. Paris: Les Belles Lettres. Bibliografia critica 1. Auerbach, Erich (2007). Język literacki i jego odbiorcy w póżnym antyku łacińskim i w średniowieczu, trad. pol. di R. Urbański. Kraków: Homini. 2. Chłędowski, Kazimierz (1959). Historie neapolitańskie. Warszawa: Państwowy Instytut Wydawniczy. 3. Curti, Elisa (2002). “L’Elegia di Madonna Fiammetta e gli Asolani di Pietro Bembo”, [w:] Studi sul Boccaccio, vol. XXX, p. 247-287. 4. Doglio, Maria Luisa (2005). “Il libro, “lo ‘ntelletto e la mano”: Fiammetta o la donna che scrive”, [w:] Studi sul Boccaccio, vol. XXXIII, p. 97-115. 5. Faral, Edmond (1913). Recherches sur les sources latines des contes et romans courtois du moyen age. Paris: Libraire Ancienne Honoré Champion. 6. Hauvette, Henri (1914). Boccace. Étude biographique et littéraire. Paris: Libraire Armand Colin. 97 www.romdoc.amu.edu.pl 7. Padoan, Giorgio (1964). “Mondo aristocratico e comunale nel Boccaccio”, [w]: Studi sul Boccaccio, diretti da V. Branca, t. 2. Firenze: Sansoni Editore, p. 81-216. 8. Raczyńska, Alicja (2009). „Obraz Bajów w zbiorze Hendecasyllabi seu Baiae Giovanniego Pontana”, [w:] Nowy Filomata, n. 4, p. 253-260. 9. Tateo, Francesco (1998). Boccaccio. Bari: Edizioni Laterza. 10. Urban-Godziek, Grażyna (2005). Elegia renesansowa. Przemiany gatunku w Polsce i w Europie. Kraków: Universitas. 11. Żaboklicki, Krzysztof (1980). Giovanni Boccaccio. Warszawa: Wiedza Powszechna. 98 www.romdoc.amu.edu.pl Emilia Sypniewska Università Niccolò Copernico di Toruń Svevo, Tozzi, Alvaro e la condizione dell’antieroe novecentesco Nel Novecento l’aspetto del romanzo cambia completamente. Cambia anche il modo di rappresentare il mondo e il posto dell’uomo in esso. Un individuo si sente alienato. Il mondo esterno gli pare completamente estraneo e pericoloso. La civiltà tradizionale è stata sostituita con la nuova civiltà delle macchine. La città meccanica, in cui è facile perdersi, un organismo pieno di pericoli imprevedibili, opprimente e devastante, diventa lo sfondo delle avventure (o meglio sventure) dei personaggi. In questo nuovo universo il lettore incontra un nuovo protagonista che deve affrontarsi non solo con il proprio destino, ma soprattutto con la nuova realtà che lo minaccia e opprime. Non c’è da stupirsi che il protagonista del romanzo moderno è un uomo vinto, imprigionato in una situazione senza uscita, in un carcere sconfinato chiamato “la vita”. Così diventa un inetto, un antieroe, un uomo senza qualità che non sa muoversi in questo mondo a lui ostile. Rimane chiuso nella sua diversità, sentendosi separato dall’universo e da tutti gli altri esseri viventi. È uno di loro ma in qualche modo unico e diverso: lo separa soprattutto la coscienza della propria condizione e il dissenso verso l’assurdità della vita. In genere il romanzo moderno subisce molti cambiamenti rispetto al romanzo classico. Lo scopo del romanzo classico era quello di insegnare e divertire. Invece il romanzo nuovo non insegna più nulla. Ci mette davanti agli occhi un personaggio fallito e la sua condizione di un vinto. Spesso osserviamo la sua lotta senza prospettive, persa già dall’inizio. Oppure il tentativo di intraprendere questa lotta, di cui in realtà non è capace. Questo protagonista può avere sembianze di un impiegato frustrato e spersonalizzato, come Josef K., personaggio kafkiano, che messo in confronto con la realtà assurda ed estranea non vede nessuna ragione per vivere. La figura dell’inetto, questo grande eroe novecentesco, diventa protagonista non solo delle opere in prosa, ma anche delle opere teatrali o della poesia. “Spesso male di vivere ho incontrato” dice uno dei più grandi poeti del Novecento, Eugenio Montale1, esprimendo lo stato d’angoscia che tormenta l’anima dell’uomo moderno. Anche i Crepuscolari si sentono 1 Montale Eugenio, Opera in versi edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Giulio Einaudi editore, Torino 1980, p. 33 99 www.romdoc.amu.edu.pl imprigionati in una situazione di malinconia, indifferenza verso ogni forma di azione, noia che li avvicina più alla volontà della morte che della vita. Un altro tipo degli inetti, non adatti alla vita, rappresenta un tipico personaggio pirandelliano Mattia Pascal. Lui cerca di abbandonare i vincoli, lasciare una vita insoddisfacente e per riuscirci si costruisce un’altra identità. Ma quel tentativo invano è solo un segno di una malattia, soprattutto spirituale, che sembra coincidere con una crisi ideologica profonda. Lo scontro con la vita, perso sempre dal personaggio pirandelliano, diventa l’unico modo per affermare il proprio valore, la propria identità, di cui “eroe” ha bisogno per uscire vincitore dal labirinto della vita, il che gli viene sempre negato. Questa identità “negata” è un segno di riconoscimento non solo di Pirandello, ma di un altro dei grandi, Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz), uno scrittore triestino che sembra essere tormentato dalle contraddizioni più profonde. Si sente allo stesso tempo “italo” cioè “italiano” e “svevo” cioè “tedesco”. Nei tre grandi romanzi sveviani (“Una vita”, “Senilità”, “La coscienza di Zeno”) i protagonisti sono degli inetti che non riescono a confrontarsi con gli altri (il padre, il rivale in amore, il suocero), non sono in grado nemmeno di costruire delle relazioni sentimentali mature. Il personaggio sveviano è una vittima non solo dello scontro con il mondo esterno, ma anche dell’autoinganno personale. Non volendo affrontare la dura realtà cerca di costruire le illusioni che comunque portano ad una fine tragica e fin dall’inizio inevitabile. “La coscienza di Zeno” viene definito il primo romanzo introspettivo e psicologico nella letteratura italiana. Il protagonista Zeno Cosini presenta al lettore le proprie vicende. Nel romanzo viene abbandonato lo schema di un narratore onniscente, estraneo alla vicenda. Zeno, un inetto, si trova in una situazione del disagio universale: la sua incapacità d’azione si rivela soprattutto quando esso deve confrontarsi con gli altri o con la vita. Il destino gli sembra spietato, invece la vita da lui presentata è solo opprimente, ma anche grottesca. Zeno stesso proclama di essere un antieroe, descrive con franchezza i suoi fallimenti, che talvolta al lettore possono apparire comici (come la famosa “ultima sigaretta” e i tentativi di smettere con il vizio del fumo). Il romanzo non è una testimonianza delle gesta eroiche, ma un compito intrapreso dal protagonista, invogliato dal suo psicanalista, a scopo terapeutico. Appunto la psicanalisi freudiana diventa un segno dei tempi nuovi, dell’inizio del Novecento. Il nuovo personaggio si trova di fronte al mondo nuovo e per capirlo ha bisogno di mezzi nuovi. Questo particolare diario ci mette davanti agli occhi non solo un personaggio di un vinto, ma anche un uomo realista che si mette in discussione con sé stesso e con il mondo che lo circonda. Zeno critica non solo gli altri, ma anche le proprie azioni e sentendosi sempre al 100 www.romdoc.amu.edu.pl disagio vede il mondo da un’altra prospettiva, assai diversa da quella che rappresentiamo noi, ossia tutti quelli che accettano il mondo così come è. Lui però non cerca di ingannare sé stesso con delle speranze illusorie. È un inetto e se ne rende perfettamente conto. Questa consapevolezza rimane l’unica arma contro il caos del mondo e il caos che possiamo trovare nella nostra mente. È impossibile cambiare questa condizione tragica dell’uomo. Ma dobbiamo esserne consapevoli e saper deridere il mondo e noi stessi. E Zeno lo fa con un’amara autoironia. Nonostante ciò, lui rimarrà un fallito, le cui imprese o solo i tentativi di esse risultano di essere dei continui fallimenti. È un fumatore che si illude di poter smettere il vizio del fumo. È un uomo incapace di prendere una decisione, di fare una scelta: uno spettatore del mondo chiuso nella propria condizione nevrotica. È perfino incapace di scegliere tra la moglie e altre donne: perso nel mondo inizia a tradirla ma non sembra di essere in grado di costruire una relazione stabile con una di esse. È sempre in cerca di qualcosa, del senso della vita, ma non lo trova e la sua esistenza passa tra questa ricerca del tutto invana e le azioni ridicole che esso intanto intraprende. Comunque, è lui il tipo di personaggio che probabilmente riuscirà a perdurare fino alla fine, ossia fino all’esplosione da lui profetizzata nella chiusura del romanzo: «Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie»2. Queste ultime parole del romanzo incorporano le paure dell’uomo moderno: la nostra civiltà tende ad un certo sviluppo, che però potrebbe essere fermato da una catastrofe3, come guerra, epidemia oppure un’esplosione causata da una bomba atomica (di cui tutti noi abbiamo paura dal 1945). Un altro personaggio sveviano incapace di vivere è Alfonso Nitti, protagonista di “Una vita” (cioè romanzo il cui primo titolo era appunto “Un inetto”). Alfonso è una persona giovane e colta, ma con poche risorse economiche. Per questo deve trasferirsi in città per lavorare presso la banca Maller4. Il lavoro si rivela duro e Alfonso sente la grande nostalgia della campagna e del suo paese amato. Durante le sue visite a casa Maller nasce però un’ambigua amicizia con la figlia del principale, Annetta. Tutto finisce quando ritorna in città dopo una lunga assenza e scopre il fidanzamento della ragazza con un altro. Alfonso cerca di instaurare il suo rapporto con Annetta e le chiede un ultimo incontro. Invece della ragazza lui 2 Svevo Italo, Romanzi e “Continuazioni”, Mondadori, Milano 2004, p. 1084 Svevo si serve qui delle teorie di Darwin e di Thomas R. Malthus, trovando però un equilibrio “tra una concezione del mondo di stampo positivistico e l’adesione alle correnti irrazionalistiche e spiritualistiche novecentesche, per il tramite di un biologismo vitalistico tutto particolare” (Maxia Sandro, Lettura di Italo Svevo, Liviana, Padova 1965, p. 97) 4 Lo stesso Svevo lavorava come impiegato in banca. 3 101 www.romdoc.amu.edu.pl incontra suo fratello fin dall’inizio ostile verso la sua relazione con Annetta. Trovandosi di fronte ad una sfida a duello Alfonso sceglie il suicidio. Alfonso è un uomo che entrando nel mondo cittadino viene accolto con freddezza. Ne risulta il suo comportamento introverso. Di nuovo ci troviamo di fronte ad un romanzo psicologico, in cui però non manca un’analisi sociale. Il lettore vede lo scontro tra due mondi e un protagonista che cerca di farsi spazio in un mondo a lui estraneo, quello dell’alta borghesia capitalista. È un’impresa impossibile e il nostro protagonista ne esce sconfitto. La sua relazione con la figlia del banchiere non ha futuro. Nei suoi tentativi Alfonso incontra solo il disprezzo e la solitudine in cui deve vivere la sua tragica fine. Qui possiamo chiamare in causa un altro personaggio, questa volta verghiano, cioè Mastro Don Gesualdo. Anch’esso subisce la sconfitta cercando di entrare in una classe sociale più alta. Alfonso è un inetto, un altro antieroe incapace di ogni azione che si trova in uno stato di dubbio e incertezza. Da una parte vorrebbe affermare il proprio valore. Si sente perfino superiore nei confronti del mondo esterno. Dall’altra parte non fa niente, se non i progetti dello studio e del lavoro di composizione di varie opere filosofiche e letterarie. Perciò Alfonso non cambia mai e non cambierà neanche la sua vita. Perfino il gesto finale, la sua ultima scelta del suicidio, viene eseguito come se fosse un dovere, svolto in modo meccanico come i suoi impegni nel lavoro. Benché questro gesto possa assomigliare ad una scelta dall’eroe vero e proprio non è in grado di cambiare niente. Alfonso non potrà mai prendere le sembianze del superuomo dannunziano, rimarrà chiuso nella propria inettitudine che lo rende del tutto marginale. Anche Trieste sembra una città grigia, la cui funzione è mettere in evidenza lo stato del protagonista. Il comportamento simile, connesso fortemente con concetto della nevrosi contemporanea, esprimono i personaggi rappresentati nelle opere di Federigo Tozzi. La sua adesione al canone naturalista, che cerca di descrivere la corrosione dell’ambiente rusticano e piccolo-borghese, è espressa nel suo romanzo Con gli occhi chiusi. La vicenda rappresentata fortemente autobiografica e viene presentata con pieno naturalismo e lucidità crudele, perfino flaubertiana. I personaggi agiscono come se fossero influenzati sia dall’animalità verista5 che dalla nevrosi. Anche in quest’opera la psicologia diventa una chiave per capire i motivi che guidano il comportamento dei personaggi (i momenti onirici ne sono un esempio). 5 A proposito di un nido con cinque passerotti: “li voleva far crescere, ma invece le venne voglia di ucciderli, eccitata dal suo terrore” (di Ghìsola) (Tozzi Federigo, Con gli occhi chiusi, Mondadori, Milano 1994, p. 14) 102 www.romdoc.amu.edu.pl Il protagonista del romanzo, Pietro Rosi, esprime pienamente la crisi novecentesca dell’individuo. Lui, che da bambino è represso dal padre dispotico, inizia presto a vivere con la sensazione del fallimento. Pietro fallisce negli studi, negli affari, nell’amore. Non sa costruire relazioni durevoli. Non prova niente dopo la morte di sua madre, non sa comunicare con il padre. Tutti questi problemi vengono accompagnati dalla rinuncia alla vita.6 Intanto tende ad una totale dimenticanza, all’annulamento di sé stesso non sapendo comportarsi di fronte agli altri o di fronte alla tragedia familiare.7 È un altro protagonista che si rende conto della propria condizione, di essere diverso, distaccato dagli altri, ma nello stesso tempo capace di ferirli, non solo con l’uso delle parole (fa del male alla ragazza di cui si era innamorato). È di nuovo la città ad evidenziare la debolezza e la solitudine, il senso d’isolamento del protagonista che pare di essersi perso in mezzo alla gente.8 Le figure degli inetti compaiono anche in altre opere di Tozzi, per es. nei racconti “Il podere” o “Bestie” e nel romanzo “Ricordi di un impiegato”. Il protagonista de “Il podere”, Remigio Selmi, è la vittima dell’ossessione per la “roba”9 che lo riduce alla condizione dell’inetto, ossia dell’antieore novecentesco. Invece “Ricordi di un impiegato” è un romanzo in forma di diario, in cui il protagonista ventenne Lorenzo Gradi descrive la sua miseria e desolazione quotidiana, rivelando la propria inettitudine, la nevrosi sottolineata dall’analisi non solo dei fatti sociali, ma soprattutto degli eventi interiori.10 Invece “Bestie” è una raccolta di brani in cui viene riportato l’aspetto animalesco della nostra natura. Il mondo è crudele, è dominato dal terrore. E perciò uomo, impotente davanti alla propria condizione, diviene una bestia. Questa “trasformazione” può essere paragonata alle “Metamorfosi” di Kafka in cui uomo è ridotto ad un animale: Gregor diviene scarafaggio, ma lo accetta come una conseguenza del proprio “peccato” ritenendo quasi naturale questa punizione. L’assurdità della situazione a causa della narrazione realistica pare di essere una delle categorie della realtà. 6 „Anche gli sembrava strano di esistere; perciò ebbe paura di sé stesso e cercò di dimenticarsi, fissando lungamente le palme delle mani finché riuscì a non scorgerle più” (Tozzi Federigo, Con gli occhi chiusi, Mondadori, Milano 1994, p. 53) 7 “Rebecca disse: - Povera mamma, voleva tanto bene a te! A lui gliene importava poco, anzi s’ebbe a male di queste parole; e si allontanò per distrarsi, vergognandosi.” (Tozzi Federigo, Con gli occhi chiusi, Mondadori, Milano 1994, p. 61) 8 „Strade che dirigono in tutti i sensi, si rasentano tra sé, s’allontanano, si ritrovano due o tre volte, si fermano; come se non sapessero dove andare; con le piazze piccole e rapide, affondate, senza spazio, perché tutti i palzzi antichi stanno addosso a loro.” (Tozzi Federigo, Con gli occhi chiusi, Mondadori, Milano 1994p. 58) 9 In Verga, al contrario, il protagonista ne diventa un portatore. 10 Dall’incipit del romanzo: „Alla fine, sono messo tra l’uscio e il muro da mio padre; che, mostrandomi la sfilata dei fratelli e delle sorelle, mi convince di concorrere alle Ferrovie dello Stato. Un’occhiata, tra umida e dispettosa, a mia madre incinta e ancora giovane, mi fa chinare la testa e piangere.” (Tozzi Federigo, Ricordi di un impiegato, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1994, p. 3-4) 103 www.romdoc.amu.edu.pl Un altro scrittore che si mette da parte degli inetti è Corrado Alvaro che in uno dei suoi romanzi “Gente in Aspromonte” tramite le immagini della vita calabrese, rappresentata nella chiave verista, descrive la vita dei contadini e pastori che da parte loro cercano di ribellarsi alla propria sorte. Come in Svevo e Tozzi si cerca di scoprire la mentalità dei personaggi, non manca l’analisi psicologica delle motivazioni che spingono il protagonista ad agire. È messo in rilievo sia aspetto etico che sociale: le immagini del mondo arcaico calabrese si scontrano con le avventure/sventure dei protagonisti che – anch’essi – si sentono imprigionati nel mondo strutturato secondo certe regole opprimenti ed ingiuste che ostacolano la loro felicità, ossia il tentativo di raggiungerla. Risulta chiaro che l’uomo contemporaneo è un antieroe, incapace di affrontare la realtà e nello stesso tempo consapevole del proprio fallimento. I protagonisti di tutti i romanzi sopraindicati sono dei vinti, delle vittime delle strutture sociali e di una loro “malattia”. Sebbene intraprendano varie iniziative, esse si rivelano tutte senza esito. L’agire dei protagonisti si colloca tra l’animalità verista e la nevrosi contemporanea. Nelle opere di questi tre autori (e molti altri) può essere ritrovata una certa interazione tra spunti regionali (Svevo – la Trieste sotto l’influsso dell’Impero Austro-ungarico, Tozzi – il mondo chiuso di Siena, Alvaro – il microcosmo del Sud) e significati universali. Si possono osservare le differenze linguistiche e concettuali tra Nord, Centro e Sud dopo l’unificazione dell’Italia e tra le visioni particolari della realtà, le quali però ruotano intorno all’inettitudine dell’individuo e la sconfitta umana (del tutto ineliminabili) che sono delle prime attestazioni del nuovo mito novecentesco della crisi dell’individuo e delle categorie della realtà. Bibliografia 1. Alvaro, Corrado (1942). Gente in Aspromonte. Milano: S. A. FRATELLI TREVES EDITORI. 2. Baiocco, Carlo (1984). Analisi del personaggio sveviano in relazione alle immagini di lotta e malattia. Roma: Cisu. 3. Kłosek, Wiesława (2003). Il concetto del “male di vivere” nella narrativa di Italo Svevo. Katowice: PARA. 4. Lavagetto, Mario (1986). L'impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo. Torino: Einaudi. 5. Maxia, Sandro (1965). Lettura di Italo Svevo. Padova: Liviana. 6. Montale, Eugenio (1980). Opera in versi edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini,. Torino: Giulio Einaudi editore. 7. Puto, Małgorzata (2006). La mimesi nelle novelle di Federigo Tozzi. Katowice: PARA. 8. Svevo, Italo (2004). Tutte le opere, volume 1: Romanzi e «continuazioni», Palmieri N. e Vittorini F. (red.), introduzione di Mario Lavagetto, «Meridiani»: Mondadori,. 9. Tozzi, Federigo (1994). Con gli occhi chiusi. Milano: Mondadori. 10. Tozzi, Federigo (1994). Ricordi di un impiegato, Pordenone: Edizioni Studio Tesi. 104 www.romdoc.amu.edu.pl Małgorzata Trzeciak Università di Varsavia Il «Sistema di Belle Arti» di Giacomo Leopardi Nelle prime pagine dello Zibaldone Giacomo Leopardi inizia a costruire il suo «Sistema di Belle Arti», racchiudendo in esso delle osservazioni di tipo estetico, il cui scopo principale è la classificazione dei generi letterari in base alla nobiltà degli oggetti imitati.1 Tuttavia, il pensiero estetico sviluppato nelle pagine del suo diario intellettuale oltrepassa i limiti di un rigido sistema fedele alla moda settecentesca, e tende verso una spiegazione filosofica dei «rapporti» tra le diverse discipline, avvicinandosi all’estetica romantica.2 Vale la pena di mettere in luce tale approccio all’arte perché, nei tempi moderni, in cui tutto cambia, non è più possibile parlare dei sistemi tradizionalmente intesi, ma piuttosto di un’estetica molteplice e provvisoria che ammette il cambiamento e giustifica la pluralità delle forme e delle interpretazioni artistiche 1. Perché un «Sistema di Belle Arti»? La maggiore difficoltà che si incontra ricostruendo il «Sistema di Belle Arti» e altre idee estetiche di Leopardi è l’impossibilità di catalogare questi pensieri in uno schema rigido. Il tentativo di «ricostruzione» esige quindi un’analisi attenta alle caratteristiche della scrittura leopardiana, una scrittura che ha delle interne articolazioni, tutt’altro che sistematiche, le quali, tuttavia, non vanno oltre un certo piano prestabilito. Infatti, è molto curiosa la ragione per cui Leopardi ha intitolato questi primi pensieri estetici dello Zibaldone «Sistema di Belle Arti» perché se è un sistema, sicuramente ha una struttura molto particolare. Esso occupa soltanto due pagine dello Zibaldone e sembra piuttosto un punto di partenza per una lunga riflessione sulle questioni estetiche che non finiscono con la semplice gerarchizzazione dei generi letterari, abbozzata su queste prime pagine del «diario». Nello Zibaldone non appare 1 «Diversi rami della imitazione che formano i diversi oggetti delle belle arti e i diversi generi p.e. di poesia, i quali tanto più son degni e nobili quanto più degni ec. sono gli oggetti, onde un genere che abbia per oggetto il deforme, sarà un genere poco stimabile e da non mettersi p.e. coll'epopea, benché anch'esso sia un genere di poesia destando la maraviglia e quindi il diletto col mezzo dell'imitazione»; Leopardi, Zib:7. Per approfondimenti sul Sistema di Belle Arti vedi anche la recente pubblicazione di A. Camiciottoli, 2010: 65-70 2 Paolo D’Angelo analizzando il pensiero estetico italiano del periodo romantico descrive con le parole sequenti questo passaggio leopardiano dalle concezioni classicizzanti alle concezioni romantiche «Ancora diverso, in Italia , è il caso di Giacomo Leopardi (1798 – 1837), che è schierato ufficialmente su posizioni classiche (Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, scritto nel 1818), ma che nelle riflessioni annotate nello Zibaldone (1817-1832), si venne sempre più evolvendo in una direzione che lo porta, del tutto autonomamente, su posizioni per certi versi affini a quelle del grande romanticismo europeo.» D’Angelo 1997: 27-28 105 www.romdoc.amu.edu.pl mai il termine «estetica», introdotto da Alexander Baumgarten nel 1750 (Aesthetica), invece, ricorre spesso il termine «Belle Arti» che deriva, com’è noto, dagli scritti dei teorici francesi della prima metà del Settecento, divulgati in Italia innanzitutto da Giuseppe Parini, nelle sue Lezioni di Belle Lettere tenute presso l’Accademia di Brera (Camiciottoli 2010: 69). Il titolo «Sistema di Belle Arti» ricorda l’opera di Charles Batteux Les Beaux arts réduits à un seul principe [1747] in cui venne delineato il primo moderno sistema delle arti.3 Tuttavia, nel caso del «Sistema» leopardiano non si tratta di una classificazione di tutte le belle arti, ma in particolare dell’arte «sua», ovvero della letteratura. Il ruolo della poesia era di maggiore importanza per il giovane poeta, non sorprende quindi che da esso Leopardi inizi il suo discorso. Le sue riflessioni estetiche si distinguono da quelle degli studiosi di estetica dei suoi tempi, che di solito affrontavano il problema dal punto di vista dello spettatore, del lettore, dell’ascoltatore, piuttosto che da quello dell’artista che le produce (Kristeller 1977: 35). Anche le caratteristiche del pensiero filosofico leopardiano, che mira a trovare dei «rapporti fra le cose», influirono sull’estetica leopardiana, che, con il passar del tempo, da un classico «Sistema di Belle Arti» si trasformò in un discorso più «libero». 2. Un sistema incorporato nell’esistenza Forse bisogna cercare le radici dell’insolita struttura del «Sistema di Belle Arti» nelle considerazioni leopardiane riguardanti il sistema come modo di conoscenza. La questione del «sistema» appare sulle pagine dello Zibaldone quando Leopardi deve affrontare il problema dell’organizzazione del pensiero (Argullol 1989: 119). Soprattutto nei primi anni del lavoro sullo Zibaldone insiste sulla necessità di costruire un sistema e propone, in un’annotazione del 17 aprile 1821, una sua definizione: «il sistema, cioè la connessione e dipendenza delle idee, de’ pensieri, delle riflessioni, delle opinioni (...) » (Leopardi Zibaldone: 119). Il poeta è convinto che «le cose hanno un sistema» o sono «ordinate» secondo un sistema. Ricordiamo il passo in cui scrive che «A quello che ho detto altrove della ragionevolezza, anzi necessità di un sistema a chiunque pensi, e consideri le cose; si può aggiungere che infatti poi le cose hanno un certo sistema, sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un piano.» (Leopardi Zibaldone: 1090). La necessità di creare un proprio sistema nasce dalla convinzione che «le 3 Come nota Paul Oskar Kristeller, molti elementi di questo sistema erano arrivati da autori precedenti (p. e. J.-B. Dubos che ha divulgato l’idea che la poesia facesse parte delle beux-arts in Rèflextions critiques sur la pöesie et sur la peinture [1719]) Charles Batteux però fu il primo a scrivere un trattato dedicato interamente al problema del sistema moderno in cui il principio comune a tutte le arti è “l’imitazione della bella natura”. Cfr. Kristeller 1977: 20-22; Cfr. anche Tatarkiewicz,1975:31; Anche Leopardi ripete questo schema nella formulazione del suo Sistema di Belle Arti: «Fine - il diletto; secondario alle volte, l'utile. Oggetto o mezzo di ottenere il fine – l’imitazione della natura, non del bello necessariamente». Leopardi, Zib.:6. 106 www.romdoc.amu.edu.pl cose hanno un certo sistema», quindi ci vuole un sistema che in qualche modo «dipenda» dalle cose, un sistema che si basi su un’attenta analisi delle «cose in sé» e i loro «rapporti». Da questo approccio basato sul «vedere i rapporti fra le cose» nasce un «sistema» che «consiste nell’esclusione di tutti i sistemi» e che – scrive Leopardi - «fa quasi il carattere del nostro secolo». Forse Leopardi ormai era convinto che nessun sistema è adatto per comprendere l’età moderna nella quale la realtà presenta un’infinità di minutissime sfaccettature che non si possono accomodare in una forma rigida. Negli scritti leopardiani si delinea un sistema, oggi potremmo dire moderno, che integra vari elementi o frammenti della realtà appunto perché non è ordinato secondo uno schema formato prima della considerazione dei «rapporti» fra gli elementi di cui si compone. Insistendo sulla necessità di trovare dei «rapporti» e delle corrispondenze, piuttosto che una costruzione rigida, Leopardi si proponeva di scorgere la realtà nella sua complessità. È interessante che, formulando il «suo» sistema, sia partito dall’analisi della natura e : «l’idea del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di relazioni, di rapporti, è idea reale, ed ha il suo fondamento, e il suo soggetto nella sostanza, e in ciò ch’esiste. Così che gli speculatori della natura, e delle cose, se vogliono arrivare al vero, bisogna che trovino sistemi, giacché le cose e la natura sono infatti sistemate, e ordinate armonicamente» (Leopardi Zibaldone: 1090). Per Leopardi, sistema è quindi in certo senso «naturale», incorporato nell’esistenza; l’idea del sistema è «l’idea reale», fondata su ciò che esiste. Questa visione del sistema incorporato nell’esistenza è vicina alle teorie recenti che vedono l’uomo stesso come un sistema.4 Il concetto che l’uomo sia un sistema relativamente isolato e costituito di vari sotto-sistemi gli offre la possibilità di realizzare le proprie attività indipendentemente dal mondo esteriore e gli conferisce la «libertà d’azione» (Ingarden 1972). Anche in Leopardi c’è questa libertà. Possiamo quindi riconoscere che la teoria dei sistemi, nata dalla necessità di integrare varie discipline e oltrepassare i loro confini per poter analizzare il mondo nella sua complessità, trova in Leopardi un significativo precursore. Nella teoria dei sistemi la realtà si presenta costituita di vari sistemi che, appartenendo ad essa, mantengono tuttavia la loro identità e una certa autonomia. Grazie a tale approccio si distinguono dalla realtà dei frammenti che, pur essendo diversi, rimangono in relazione ad altri. Così si offre la possibilità di usufruire delle conoscenze provenienti dai vari campi del sapere per descrivere la realtà tenendo conto delle limitate possibilità conoscitive dell’uomo (Ostrowicki 1997). Quando Giacomo Leopardi insiste sulla necessità di trovare «rapporti fra 4 Secondo Roman Ingarden la concezione dell`uomo come un sistema relativamente isolato che si compone di vari sotto-sistemi consente un’attività indipendente dal mondo esteriore, cfr. Ingarden 1972:147. 107 www.romdoc.amu.edu.pl le cose», lo scopo di una tale ricerca non è una semplice «descrizione» della realtà, ma quello di capire relazioni e i modi di esistere fra le cose. Lo stesso approccio è riconoscibile nel caso del «Sistema di Belle Arti». Anche se inizialmente Leopardi parte dalla descrizione e gerarchizzazione delle arti, il discorso diventa più complesso quando egli affronta le questioni estetiche, quali il ruolo dell’artista e dell’opera d`arte, le modalità dell’espressione artistica, il valore dei diffetti nelle belle arti, il bello, il piacere estetico e la ricezione dell’opera d’arte ecc. Il fatto che Leopardi mostri un certo disprezzo verso i sistemi tradizionali è un segno di maggiore libertà nell’organizzazione del pensiero: «si condanna, e con gran ragione, l’amor de sistemi, siccome dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si conosce, e più intimamente se ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano le opere dei pensatori» (Leopardi Zibaldone: 946). Chi vuole scorgere la realtà moderna attraverso un sistema diventa in certo senso il prigioniero del proprio pensiero, perchè non vede i rapporti tra le cose ma si sforza di accomodare i particolari al sistema formato prima della considerazione di essi. Mentre dovrebbe accadere il contrario, ovvero, che il sistema derivi dai particolari. Altrimenti succede che «si considerano i particolari in quell’aspetto solo che favorisce il sistema», in altre parole: «le cose servono al sistema, e non il sistema alle cose». L’unica soluzione è un naturale e innato processo di «perenne confronto» dei grandi temi che, come in un caleidoscopio, prendono una forma diversa a seconda dell’ottica e del tempo in cui vengono affrontati. 3. La crisi del principio imitativo Nel caso del pensiero estetico, uno di questi grandi temi è indubbiamente l’imitazione. Il primo pensiero estetico nello Zibaldone è infatti: «Non il Bello ma il Vero, o sia l’imitazione della natura qualunque si è l’oggetto delle Belle Arti», e più avanti Leopardi aggiunge: «La perfezione di un’opera di Belle Arti non si misura dal più bello ma dalla più perfetta imitazione della natura» (Leopardi Zibaldone: 3). Invece, nelle ultime pagine dello Zibaldone, il recanatese sembra aver raggiunto una posizione completamente opposta e con ciò smentire i due criteri citati sopra: « Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca [...] Così il poeta non è imitatore se non di se stesso. Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo quella propriamente non è più poesia» (Leopardi Zibaldone: 4373). Sembra dunque che Leopardi parta da una concezione dell’arte intesa come imitazione della natura per poi approdare a una concezione dell’arte come espressione, affine a quella proposta dalla teoria estetica del Romanticismo europeo. 108 www.romdoc.amu.edu.pl Ovviamente, non è una trasformazione radicale, in diversi passi dello Zibaldone Leopardi riflette sul principio d’imitazione, però dall’inizio lo considera l’«oggetto e mezzo» per ottenere il fine delle belle arti che il poeta identifica con «il diletto». Quell’ultimo appunto sembra di essere un tratto unificatore delle arti. Infatti, Leopardi presto aggiunge che la musica si distacca dal principio imitativo («Le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura, e così l’uditore») (Leopardi Zibaldone: 79-80). Il «Sistema di Belle Arti» delle prime pagine dello Zibaldone, fondato sul principio d’imitazione, riguarda i generi letterari. Ma poco dopo la sua stesura, nel «diario» appare ancora un altro tentativo di classificazione dei generi letterari in cui la lirica prende il posto primario: «La lirica si può chiamare la cima e il colmo della poesia, la quale è la sommità del discorso umano» (Leopardi Zibaldone: 245) e probabilmente questa distinzione porterà Leopardi, a distanza di poche settimane, ad escludere anche la lirica dal «dominio» dell’imitazione a pagina 260 dello Zibaldone del 4 ottobre 1820: «quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l'anima, veduto nell'imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio (come p.e. nella lirica che non è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva» (Leopardi Zibaldone: 260). Il pensiero che l’imitazione «ravviva» viene approfondito il 26 gennaio 1822 quando Leopardi si chiede «Che vuol dire che l’uomo ama tanto l’imitazione e l’espressione ec. delle passioni? E più delle più vive? E più l’imitazione la più viva ed efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, ec. per bella ch’ella sia, se non esprime passione, se non ha per soggetto veruna passione (…) è sempre posposta a quelle che l’esprimono (…).» (Leopardi Zibaldone: 2362). La risposta è che «non è dunque la sola verità dell’imitazione, né la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L’uomo odia l’inattività, e di questa vuol esser liberato dalle belle arti.» Qui ancora Leopardi non differenzia l’imitazione dall’espressione, ma in un altro passo dello Zibaldone del 6 dicembre 1823 nettamente descrive questa differenza spiegando che l’imitazione «dei propri affetti, sentimenti» non è l’imitazione ma l’espressione.5 4. La forza dell’espressione artistica 5 «(…) il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso quello che imita, sicché la vera imitazione non sia propriamente imitazione, facendosi d’appresso se medesimo, ma espressione. Giacché l’espressione de’ propri affetti o pensieri o sentimenti o immaginazioni ec. comunque fatta, io non la chiamo imitazione, ma espressione.» Leopardi Zib.:3942. 109 www.romdoc.amu.edu.pl Da una parte è quindi vero che inizialmente «dalla definizione leopardiana di mimesis emerge l’adesione ai principi della retorica classica e il debito contratto con Orazio, con Quintiliano, e soprattutto con Aristotele e la sua Poetica» (Camiciottoli 2010: 66) i richiami alle loro opere nel testo sono molti e da esse Leopardi parte nelle sue riflessioni, ma, d’altra parte, vi è anche una grande attenzione verso le caratteristiche dell’età moderna e i cambiamenti che essa porta, i quali influiscono sulla formulazione del pensiero estetico, come vediamo sull’esempio del principio d’imitazione, che viene rivestito di una funzione precisa nei tempi moderni: liberare l’uomo dall’«inattività». Questa volontà di affrontare i problemi estetici attraverso la specificità dei tempi moderni è visibile per esempio nell’Indice al mio Zibaldone. Accanto alla voce «Poesia» Leopardi scrive: «Poesia e Filosofia. Loro rapporti scambievoli. Le più disprezzate discipline oggi: non così anticamente.» (Leopardi Indice del mio Zibaldone: 1256) Questo disprezzo di cui parla Leopardi è un atteggiamento moderno. Nei tempi moderni è cambiato lo status sia del poeta sia del filosofo. Per Leopardi il mondo moderno è talmente istruito e disincantato che «tutt`altro potrà essere contemporaneo a questo secolo fuorchè la poesia (....) poiché esser contemporaneo a questo secolo, è , o inchiude essenzialmente, non esser poeta, non esser poesia. Ed ei non si può essere insieme e non essere.» (Leopardi Zibaldone: 2946). Il giorno dopo aggiunge ancora un’altra frase: «non è conveniente a filosofi e ad un secolo filosofo il richieder cosa impossibile di natura sua, e contraddittoria in se stessa e nei suoi propri termini.» Leopardi aggiunge questo pensiero perché è ormai convinto che sarà impossibile per noi rinunciare alla ragione, anche se «la ragione è dannosa». È dannosa non perché non è un mezzo abbastanza efficace per conoscere la verità, anzi, la ragione è un ente molto potente per arrivare alla «verità» degli oggetti che studia, ma il problema è che il modo in cui lavora rivela la nullità delle cose: «gli oggetti e lo spazio le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende e quanto meglio e più finemente vede. Cosi ch’ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch’ella sia grossa e corta, ma perchè gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più n’abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione. (benché gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu’altra cosa, eccetto solamente ch’alla ragione).» (Leopardi Zibaldone: 2943) L’uomo, essendo l’unico tra gli esseri in grado di ragionare e scoprire le verità del mondo, è condizionato dall’«amor proprio», che lo condanna alla perenne ricerca della propria felicità. Così tutte le cose «in sé» non sono effettivamente «cose da nulla» ma sono «nulla» per la felicità dell’uomo, nel senso che lo deludono. Deludono l’uomo perché anche ragionando egli desidera innanzitutto la propria felicità. Nel secolo dominato dalla ragione 110 www.romdoc.amu.edu.pl l’uomo moderno non accetterà il proprio destino perchè è impossibile richiedergli di andare contro il suo modo di scorgere la realtà ed accettare tante contraddizioni che sono in natura. In primo luogo è difficile accettare che la nostra esistenza è in contraddizione con se stessa, ovvero che il nostro essere è unito all’infelicità, perciò, come propone Leopardi, «è meglio assoluto ai viventi il non essere che essere». A tali conclusioni Leopardi giunge nel 1826, quindi a distanza di nove anni dall’abbozzo del «Sistema di Belle Arti». Tuttavia, Leopardi anche nel 1817 aveva un concetto negativo della realtà. Nella lettera a Pietro Giordani del 30 maggio 1817 Leopardi scrive: «Certamente le arti hanno da dilettare, ma chi può negare che il piangere il palpitare l’inorridire alla lettura di un poeta non sia dilettoso? Anzi chi non sa che è dilettosissimo? Perché il diletto nasce appunto dalla maraviglia di vedere così bene imitata la natura che ci paia vivo e presente quello che è o nulla o morto o lontano. Ond’è che il bello il quale veduto nella natura, vale a dire nella realtà, non ci diletta più che tanto, veduto in poesia o in pittura, vale a dire in immagine, ci reca piacere infinito.» (Leopardi Lettere: 1031) Quindi il diletto nelle arti nasce dalla «maraviglia di vedere così bene imitata la natura che ci paia vivo e presente» quello che nella realtà è «nulla», e invece ciò che nella realtà non ci diletta, rappresentato nelle opere d’arte, «ci reca piacere infinito». In un altro passo dello Zibaldone Leopardi scriverà che le opere d’arte anche quando rappresentano la nullità delle cose «danno vita» o, come abbiamo già visto: «aprono il cuore e ravvivano». Tramite rappresentazione artistica la realtà negativa si trasforma in qualcosa di positivo e così crea una possibilità per l’uomo disingannato6, perché non è il vero che l’uomo vuole ma la sua imitazione (Pierracci-Harwell 1992:82). Infatti, anche le opere d’arte dimostrano la nullità delle cose perchè è ovvio che un artista imita la natura quale ella è, quindi le cose così come sono, le cose che preservano le loro proprietà naturali, però nel mondo reale esse ci rendono infelici perché cerchiamo di conoscerle con la ragione che ci delude, invece l’arte le situa in un’altra «realtà» che è libera, perché sottratta dai principi della ragione. Giacomo Leopardi, dopo aver delineato all’inizio dello Zibaldone un abbozzo del «Sistema di Belle Arti», non ritornò più all’idea di costruire un rigido sistema delle arti, forse perché, analizzando attentamente i «rapporti fra le cose», aveva notato che tutte le distinzioni e suddivisioni sono arbitrarie e soggette al mutamento. Concentrò quindi la sua attenzione sui grandi temi estetici, come principio d’imitazione e prendendo sempre in considerazione le 6 Sergio Givone in Storia del nulla scrive che «secondo Leopardi è il disincantamento portato a fondo a costruire l’ultima e l’unica chance di quella che altrove aveva chiamato «ultrafilosofia» (…) - citando Leopardi «Bisogna però convenire che l’uomo moderno, così tosto com`è pienamente disingannato, non solo può meglio comandare all’immaginazione che al sentimento, il che avviene in ogni caso, ma anche è meglio atto a immaginare che a sentire [Zib, 1449]», cfr. Givone 1995:152-153. 111 www.romdoc.amu.edu.pl caratteristiche dell’età moderna, provò a situare il poeta e la sua opera nel mondo «disincantato». Queste riflessioni portarono Leopardi a scrivere nel 1826 che il genere drammatico «è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un’ispirazione, ma un’invenzione, figlio della civiltà, non della natura». La «legittima figlia» della natura è la lirica mentre l’epica «è sua vera nepote» (Leopardi Zibaldone: 4236). Bibliografia Argullol, Rafael (1989). “Leopardi pensatore tragico”, [w:] Ferrucci C. (red.), Leopardi e il pensiero moderno. Milano: Feltrinelli. Camiciottoli, Alessandro (2010). L`Antico romantico. Leopardi e il «sistema del bello». Firenze: Società Editrice Fiorentina. D’Angelo, Paolo (1997). L`estetica del Romanticismo. Bologna: Il Mulino. Givone, Sergio (1995). Storia del nulla. Bari: Laterza. Ingarden, Roman (1972). Książeczka o człowieku. Kraków: Wydawnictwo Literackie. Kristeller, Paul Oskar (1977). Il sistema moderno delle arti. Paolo Bagni (red.). Firenze: Uniedit. Leopardi, Giacomo (1969). Zibaldone di pensieri , Indice del mio Zibaldone, Lettere [w:] Walter Binni e Enrico Ghidetti (red.), Tutte le opere. Firenze: Sansoni. Ostrowicki, Michał (1997). Dzieło sztuki jako system. Warszawa: PWN. Pierracci-Harwell, Margherita (1992). “Leopardi: pittura e poesia”, [w:] Speciale E. (red.), Giacomo Leopardi estetica e poesia. Ravenna: Longo Editore. Tararkiewicz, Władysław (1975). Dzieje sześciu pojęć. Warszawa: PWN. 112 www.romdoc.amu.edu.pl Redaktorzy numeru: Małgorzata Karczewska Edyta Bocian Recenzja naukowa: prof. dr hab. Mirosław Loba Skład i publikacja on-line: Maja Koszarska Numer zawiera teksty zredagowane po III Krajowej Konferencji Młodych Italianistów Intorno alla lingua e letteratura italiana: teoria e pratica, która odbyła się w dniach 24-25 listopada 2009 roku w Poznaniu. Konferencja została zorganizowana z inicjatywy Zakładu Italianistyki Instytutu Filologii Romańskiej UAM Romanica.doc Czasopismo on-line doktorantów Instytutu Filologii Romańskiej UAM strona: http://www.romdoc.amu.edu.pl e-mail: [email protected] Numer 2 (3)/2011 opublikowany on-line w marcu 2011 113 www.romdoc.amu.edu.pl Documenti analoghi PRIMA PARTE - Centro Studi Portorecanatesi Dettagli Ugo Riccarelli nato a Cirié, in provincia di Torino, figlio di genitori di Dettagli testo di approfondimento distribuito in cartellina Dettagli Leggi l`articolo Dettagli Qui potete leggere l`articolo intero pubblicato sul numero 4 2009 di Dettagli Componenti del Comitato scientifico, del Comitato organizzatore e Dettagli Mahjong chem: dei numeri di ossidazioni Diversi Dettagli Istituti di lingua araba Dettagli Übersicht Partnerunis Dettagli IL PESSIMISMO DI LEOPARDI Leopardi svolse per tutta la vita un Dettagli 2017 © doczz.it Riguardo a noi | DMCA | Abuso