Le reti di famiglie: una ricchezza per la società e per la Chiesa

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47a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani
La famiglia, speranza e futuro
per la società italiana
Torino, 12-15 settembre 2013
Le reti di famiglie: una ricchezza per la società e per la Chiesa
Relazione della Prof.ssa Elisabetta CARRÀ
Professoressa di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
Università Cattolica del Sacro Cuore
Sabato 14 settembre 2013
Sono molto contenta di essere stata invitata perché ho la possibilità di condividere con voi una
riflessione che ho sviluppato in questo ultimo anno, grazie ad un ambizioso progetto che il Centro
di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano sta realizzando con
Caritas Italiana in collaborazione con l’Ufficio nazionale della pastorale per la famiglia, che
s’intitola «Carità è famiglia» e che è finalizzato proprio a promuovere reti di famiglie.
Sono stata chiamata per parlare in particolare di associazionismo familiare. È un tema su cui sono
intervenuta ormai molte volte e di solito lo connetto al discorso più ampio sulle politiche di welfare,
sostenendo la tesi che attraverso un riconoscimento e una valorizzazione dell’associazionismo
familiare, è possibile arrivare a riconoscere pienamente la famiglia come soggetto sociale e questo
sta avvenendo in molte regioni italiane, dove – grazie proprio al ruolo incisivo dell’associazionismo
familiare – sono state attivate buone politiche familiari e la soggettività della famiglia ha fatto
grandi passi in avanti.
Oggi però vorrei dare un taglio leggermente diverso alla mia relazione, perché mi sono resa conto di
quanto sia importante che anche in ambito ecclesiastico si sviluppi un’attenzione vera per le reti
familiari e le loro potenzialità.
La mia modesta impressione è che – nonostante la famiglia sia per la Chiesa inequivocabilmente un
valore primario – nell’azione concreta verso le famiglie delle comunità locali, si possano fare
ancora di più per prendersi cura in modo adeguato delle famiglie e contrastare l’impoverimento e
l’indebolimento dei legami familiari, attraverso una seria promozione delle reti di famiglie.
Dal mio punto di vista, tutti i richiami che sono stati fatti anche in questa sede verso politiche di
sostegno della famiglia, potrebbero essere riletti in chiave pastorale. Non certo la questione fiscale,
ma il superamento della settorialità e della visione individualistica (ovvero di un modo di
intervenire che si focalizza sui singoli, anziché sulle famiglie), invece, sì. Quello che vorrei
mostrare col mio intervento è che non è sufficiente difendere la famiglia, ma è necessario agire per
rafforzare le relazioni familiari e per promuovere le reti tra le famiglie.
Per far capire l’urgenza di rivoluzionare il modo di lavorare con le famiglie, proverò a partire da
come è cambiata la famiglia, ma non dal punto di vista demografico, che è cosa più nota, bensì dal
punto vista dei meccanismi che oggi regolano il benessere delle famiglie, non inteso da punto di
vista economico o fiscale, ma come vita buona in generale.
Passerò poi a spiegare come la comunità sociale ed ecclesiale possono facilitare le famiglie in
questo compito.
E, da ultimo, spiegherò il ruolo fondamentale che in tutto questo hanno le reti tra famiglie e le
associazioni familiari.
Per spiegare il cambiamento della famiglia mi riferirò a due concezioni classiche della sociologia,
quelle di Parsons e Luhmann.
Talcott Parsons
(Per chi vuole saperne di più: “Famiglia e socializzazione” di Parsons e Bales, 1955)
Il nocciolo della concezione di Parsons è che la famiglia è un sottosistema sociale in cui c’è una
perfetta divisione e complementarietà tra ruoli paterno e materno e il comportamento di ciascuno
dentro la famiglia è in perfetta sintonia con ciò che è richiesto alle persone fuori dalla famiglia:
basta quindi che ciascuno si attenga alle regole e la famiglia in modo quasi automatico funziona.
Il padre lavora per procurare il necessario alla famiglia, la madre si occupa della casa e
dell’educazione dei figli, la scuola ha un compito educativo che è condiviso dai genitori; non ci
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sono problemi di conciliazione tra famiglia e lavoro, tra orari scolastici e orari lavorativi. I valori
culturali sono improntati alla solidarietà e non all’individualismo e questa solidarietà tiene insieme
la società come un organismo dove ciascuno ha un compito preciso. La famiglia non è che una
riproduzione in piccolo di questo modello: una cellula della società.
Ma poi, con la cosiddetta dopo-modernità, tutto è cambiato: la società è diventata complessa, tutte
le regole sono diventate più incerte, è venuta meno soprattutto la coesione tra i valori e tra gli ambiti
sociali.
Conciliare tutto, tenere insieme tutto è diventato un compito molto difficile, perché ogni ambito
sociale fa per sé, ha regole proprie che anziché facilitare la vita in famiglia, la rendono sempre più
complessa.
Il mondo diventa sempre più frammentato e quindi l’idea della famiglia come «cellula della
società» non esiste più, perché non c’è più la società come organismo, ma come caos e quindi la
famiglia rischia diventare un «caos domestico».
E qui arriva Luhmann a dirci che significato ha la famiglia oggi.
(Per chi vuole saperne di più: N. Luhmann, Il sistema sociale famiglia, in La ricerca sociale, 1989,
n. 39, pp. 235-352).
Luhmann osserva che, in questo coacervo di sottosistemi autoreferenziali, ciascuno con regole
proprie, incuranti della reciproca compatibilità, all’individuo si chiede di essere molto
flessibile e di non porsi troppi problemi di coerenza; gli chiedono di non curarsi troppo o di non
curarsi affatto della conciliabilità delle regole con i valori «umani» che prima facevano da bussola
(es. se la domenica una volta era un valore indiscutibile, oggi per tutti coloro che lavorano nei
negozi aperti non può più esserlo, ma neppure per quelli che passano le domeniche nei centri
commerciali sempre aperti).
Così la famiglia diventa per Luhmann un sistema paradossale, in quanto «modello di una società
che non deve esistere»: essa infatti costringe gli individui a interrogarsi sulla liceità di certe pretese
e a cercare di rendere organico, di conciliare ciò che è inconciliabile.
Detto con altre parole: mentre nella famiglia, gli individui esistono come persone, nella società
esterna sono solo considerati come numeri dentro organizzazioni. E per questo motivo, nella società
di Luhmann, considerare gli individui come persone è addirittura pericoloso o quanto meno
paradossale per la società, per la quale è molto più vantaggioso riferirsi a dei numeri, cioè a
individui di cui ignorano l’intreccio di problematiche e aspettative, che si vede solo si guarda al
soggetto nella sua totalità, alla persona. Famiglie e società sono in antitesi.
Quali sono allora le conseguenze per il benessere della famiglia di una simile concezione?
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Se nella famiglia parsonsiana il benessere nasceva in modo quasi automatico, con il concorso di
tutte la parti sociali, nel sistema sociale luhmanniano non c’è più integrazione automatica tra le
aspettative dei componenti della famiglia e quindi costruire un equilibrio diventa un compito molto
gravoso, oltretutto minacciato dal dilagante individualismo che porta ciascuno dei componenti della
famiglia a mettere il proprio benessere davanti a quello della famiglia.
Trovare la strada per una vita buona non è più un compito semplice e, le famiglie non ce la
possono fare, se non sono aiutate dall’esterno a vedersi come un’unità e non come una sommatoria
di individui che tirano ognuno dalla propria parte.
Vengo al secondo punto del mio intervento.
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Come avete avuto modo di sentire più volte in questi giorni, il nostro welfare, senza politiche
familiari adeguate, anziché cercare di attenuare gli effetti della complessità, spinge le famiglie alla
frammentazione, grazie a un orientamento settoriale a un’endemica mancanza di coordinamento e
integrazione tra i diversi interventi di politica sociale: gli interventi sono prevalentemente rivolti a
individui, senza vedere le relazioni familiari nei quali sono inseriti. Ciò si ripercuote sulla famiglia
che è costretta a fare i salti mortali, per comporre un puzzle di pezzi che non si incastrano. Si parla
infatti di famiglia come «valvola di compensazione» o come «ammortizzatore sociale», proprio
perché deve rimediare alla mancanza di integrazione degli interventi, che lasciano scoperti molti
fronti e a ciò deve rimediare la famiglia, ridistribuendo risorse e compiti al proprio interno,
correggendo ad esempio gli effetti deleteri della «disequità generazionale».
Se invece le politiche sociali vedono, dietro gli individui, le relazioni familiari e superano la
settorialità verso un’integrazione degli interventi, allora la famiglia è facilitata a trovare un
equilibrio soddisfacente.
Ma anche la comunità ecclesiale è ancora molto legata alla vecchia visione della famiglia
parsonsiana e spesso continua a preoccuparsi solo degli individui e frammenta i suoi interventi in
tanti rivoli: i percorsi dell’iniziazione cristiana per i bambini, la pastorale giovanile, i percorsi per i
fidanzati, tutti a compartimenti stagni.
La pastorale familiare è così in alcuni casi un contenitore vuoto.
Se fino a poco tempo fa facevo questo discorso con riferimento solo alle politiche familiari, oggi mi
rendo sempre più conto che nella chiesa, accanto a una strenua e indispensabile difesa della
famiglia, manca molto spesso una reale capacità di fare della famiglie il soggetto centrale della
progettazione e l’elemento trainante di tutta la pastorale.
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Lascio quest’ultima frase un po’ in sospeso, perché devo occuparmi dell’ultima parte della mia
relazione che ho lasciato alla fine, considerandola però la parte essenziale.
Dunque, l’associazionismo familiare. Soggetto fondamentale del welfare plurale e risorsa essenziale
per le nostre comunità.
Parto dalla definizione classica che contiene tutto quel che serve per capire cosa sono le
associazioni familiari.
È una definizione che si applica a tutte le forme di legami tra le famiglie, dai gruppi parrocchiali di
famiglie alle associazioni formalizzate e grandi come l’AFI e il Forum delle associazioni familiari,
purché queste reti abbiamo alcuni requisiti specifici, che sono: essere gruppi fatti da famiglie e non
da individui, che non si incontrano casualmente, ma con una finalità che riguarda il loro proprio
benessere, ossia si incontrano per trarre dalla loro reciproca relazione e dal loro reciproco supporto
risorse per stare meglio come famiglie.
Sono questi i beni relazionali: una vita migliore che nasce dall’essere in relazione con altre famiglie.
Da queste esperienze derivano dei vantaggi notevoli per le famiglie che ne fanno parte e per le
comunità a cui appartengono.
I vantaggi sono essenzialmente…
Il primo vantaggio è quello che le associazioni familiari sono capaci di mostrare che le famiglie non
sanno generare solo quando procreano, ma quando si attivano per generare bene comune.
Quando si aprono all’esterno e si attivano per rispondere ai propri bisogni, unendosi ad altre
famiglie.
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Un altro vantaggio è mostrare che il benessere non può essere garantito solo per via istituzionale,
dallo stato, ma nasce dalla collaborazione attiva della società civile.
È questo è tanto più vero in tempo di crisi, quando lo Stato, il pubblico, si trova senza risorse e
allora scopre il mondo dell’associazionismo, dove trova una grande capacità di rispondere ai
bisogni in modo molto economico. Un volta però che la vitalità dell’associazionismo viene allo
scoperto, diventa anche chiaro che la sua modalità di agire è molto più efficace di qualsiasi
intervento pubblico standardizzato, perché basa la sua azione sullo stile familiare che è
personalizzato, flessibile, prossimo alle persone. Si tratta di un apporto alla produzione del bene
comune che non può essere sostituito e quindi non è semplicemente un «tappabuchi» in mancanza
di servizi pubblici: è qualcosa che ha un valore in sé, insostituibile.
Legato al precedente vantaggio, c’è il fatto che le associazioni familiari contrastano
l’individualismo, diffondendo uno stile d’azione basato sulla solidarietà reciproca. È questo il loro
specifico: non si tratta solo di gratuità, che è il codice di tutte le organizzazioni del terzo settore, ma
di una gratuità che esige la reciprocazione. Infatti, in famiglia ciascuno s’impegna gratuitamente,
ma tutti hanno una propria responsabilità nel promuovere il bene della famiglia.
È una gratuità che attiva i soggetti.
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Quindi, le famiglie che entrano in una rete di famiglie si rigenerano e diventano protagoniste della
vita sociale.
E la loro forza diventa una sorta di autodifesa. La famiglia non ha bisogno di essere difesa come un
bene in estinzione se diventa protagonista della vita sociale: si difende da sola.
Per concludere, torno al punto che avevo lasciato in sospeso, quando ho detto che si potrebbe fare di
più in ambito ecclesiale per promuovere la soggettività della famiglia, non attribuendo solo alla
società la responsabilità di supportare la famiglia.
Con questo, non intendo che deve impegnare i sacerdoti e i religiosi ad andare casa per casa a
visitare le famiglie, se le famiglie non vengono da sole in chiesa.
Voglio dire che là dove è sicura di intercettare famiglie (ad esempio col catechismo, con la
formazione pre-battesimo, con i percorsi di preparazione al matrimonio) deve immaginare ciascuna
di queste occasioni come una grandissima opportunità per trattenere le famiglie e può trattenerle
solo se crea legami tra di loro.
Questo capita, ad esempio, se un insieme di genitori dei bambini che si preparano a ricevere
l’eucarestia si trasforma in un gruppo di genitori che si incontrano per palare dei propri figli e di
come affrontare il compito educativo; oppure, e con questo chiudo, se un insieme di fidanzati che si
recano riluttanti e scettici in parrocchia per partecipare ai corsi di preparazione al matrimonio si
trasforma in una rete di famiglie giovani che parlano delle difficoltà a vivere in coppia.
Aiutare le famiglie significa creare fra loro legami:
le famiglie si aiutano da sole, se si mettono insieme.
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