Mente e coscienza nel naturalismo biologico di John Searle Oggi

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PAMELA DE PATTO
Mente e coscienza
nel naturalismo biologico di John Searle
Oggi viviamo in una delle fasi ‘calde’ del dibattito fra filosofia e scienza, i
cui confini dell’una e dell’altra si fanno più magmatici se non addirittura
fluidi. Scienze biologiche, neuroscienze, scienze cognitive e psicologia evoluzionistica hanno avviato un vasto programma di ricerca mirante a far saltare la demarcazione netta tra uomo e regno del vivente, natura e tecnica,
neuroni ed etica, sferrando un colpo quasi mortale alla venerata distinzione
tra scienze della natura e scienze dello spirito. Ma le premesse teoretiche
degli attuali mutamenti, delle trasformazioni recenti nel campo delle scienze della vita e della filosofia della biologia sono rintracciabili già in autori di
punta del cosiddetto “post-pragmatismo” o del “naturalismo”. In particolare, Searle ha costituito un importante anello di congiunzione fra alcune posizioni dominanti della psicologia sperimentale e del pragmatismo americano della prima metà del Novecento, e le ricerche condotte nell’ultimo
quarantennio nel campo delle scienze cognitive, delle neuro-scienze e della biologia evoluzionistica1.
John Searle è nato a Denver (Colorado) nel 1932, e occupa un ruolo di
primo piano nella comunità filosofica internazionale. Formatosi ad Oxford,
alla scuola dei “filosofi del linguaggio ordinario” come John Austin e Peter
Strawson, dove ha insegnato dal 1956 al 1959, Searle è uno dei maggiori
filosofi americani contemporanei. Dalla fine degli anni cinquanta è professore di filosofia del linguaggio e di filosofia della mente all’università di
Berkeley in California. Le sue indagini filosofiche spaziano dalla filosofia
del linguaggio alla filosofia della mente, all’intelligenza artificiale e alla
realtà sociale. In particolare, le ricerche dedicate, da oltre un trentennio,
al rapporto mente-cervello e alle scienze cognitive hanno dato vita ad una
prospettiva biologico-naturalistica che ha finito col rappresentare una sorta
di ‘spartiacque’ tra la tradizione fenomenologico-trascendentale e quella
logico-analitica, da una parte, e la tradizione pragmatista, post-pragmatista
e biologico-naturalistica, dall’altra.
1 A. ALCARO, Psiche e cervello, in L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea,
a cura di M. Alcaro, Mimesis, Milano 2009, pp. 89-90.
Bollettino Filosofico 26 (2010): 154-168
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673911
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Il Searle che qui si intende prendere in considerazione non è quello risalente ai primi studi sulla filosofia linguistica di John Austin e alla polemica con Jacques Derrida (1977), ma quello della produzione filosofica
poste-riore, che si è distinta con studi di grande rilievo, come Intentionality.
An Es-say in the Philosophy of Mind (1983); The Rediscovery of the Mind (1992);
The Mystery of Consciousness (1997)2.
Ripercorriamo alcune tappe del naturalismo biologico di Searle, proponendo tre tronconi, che ci permetteranno di cogliere lo spessore epistemologico e ontologico di questo filosofo. Intitoliamo il primo L’intenzionalità
in Searle e Husserl; il secondo Searle-Damasio: il problema del rapporto mente-corpo
e mente-cervello; il terzo Searle e l’etologia cognitiva di Denton e Griffin.
1. L’intenzionalità in Searle e Husserl
Secondo Searle, la nozione di “intenzionalità” è un fenomeno mentale
cruciale, in base al quale vanno impostati i problemi che riguardano la percezione, il desiderio, l’azione, la causalità. Già nella teoria degli atti linguistici al concetto di “intenzione” spettava un ruolo fondamentale, dato che la
descrizione di un atto linguistico si riferisce essenzialmente alle intenzioni
del parlante. Parlare un linguaggio è di per sè una forma di intenzionalità,
un comportamento determinato da regole3. In Intentionality Searle, spostandosi verso la filosofia della mente, elabora una teoria generale dei fenomeni mentali che fa riferimento alla tradizione fenomenologica di Brentano
e Husserl, ma in una prospettiva realista che prende le distanze sia dallo
psicologismo di Brentano che dal trascendentalismo di Husserl. Con Brentano, Searle afferma il carattere fondamentale e irriducibile dell’intenzione,
“la direzione verso uno oggetto da parte della mente”, con Husserl condivide l’idea che sia un processo mentale che può essere considerato sinonimo di “evento di coscienza”. L’intenzionalità è una proprietà di base della
mente che non può essere ricondotta a elementi e nozioni più semplici, ma
va considerata come un elemento ‘primitivo’. L’indagine di Searle si al2 J. SEARLE, Intentionality. An Essay in the Philosophy of Mind (1983), trad. it. Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, Milano 1985; Minds, Brains and
Science (1984), tr. it. Menti, cervelli e programmi. Un dibattito sull’intelligenza artificiale, a cura
di G. Tonfoni, CLUP-CLUED, Milano 1988; The Rediscovery of the Mind (1992); tr. it. La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1994; The Mystery of Consciousness (1997), tr.
it. Il mistero della coscienza, Raffaello Cortina, Milano 1998.
3 J. SEARLE, Mente, linguaggio, società. La filosofia del mondo reale, Raffaello Cortina,
Milano 2000, pp. 143-170.
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lontana tuttavia dalla tradizione fenomenologica perchè non accede alle intenzioni tramite l’indagine logico-trascendentale della coscienza, bensì attraverso l’analisi del comportamento umano verbale, cioè degli enunciati e
degli “atti linguistici”, e di quello non verbale, legata alle azioni pratiche.
Searle vuole comprendere le implicazioni dell’intenzionalità non solo a
livello psicologico e mentale, come voleva la fenomenologia, ma anche a
livello linguistico e comportamentale, cioè pragmatico, neurologico e biologico. Gli oggetti che per Brentano erano oggetti psichici e per Husserl atti della coscienza, per Searle sono oggetti del mondo, della realtà fenomenica4: l’intenzione è diretta verso un oggetto fisico che esiste realmente e
non è solo contenuto nella nostra mente. Searle considera i fenomeni mentali come biologicamente fondati, causati da operazioni del cervello e realizzati nelle strutture del cervello. La prima considerazione che emerge è
che la mente non è un’arena chiusa in se stessa, ma il suo ruolo primario è
quello di metterci in relazione con l’ambiente e specialmente con i nostri
simili. Questi stati soggettivi includono credenze e desideri, intenzioni e
percezioni, sentimenti ed emozioni. Spiegare il mistero dell’intenzionalità,
secondo Searle, significa supporre che quest’ultima debba essere analizzata
in termini di relazioni causali, poiché essa esprime una relazione di tipo
causale tra il soggetto e il mondo5. Secondo questa concezione, l’intenzionalità non è nulla di misterioso. Le relazioni intenzionali intercorrono
tra le parti interne dell’agente e il mondo esterno. Attraverso l’analisi dell’intenzionalità o degli stati intenzionali, Searle intende affermare la consistenza ontologica della soggettività dell’esperienza umana, una soggettività di
prima persona che costituisce l’elemento essenziale per l’affermazione della
realtà del mondo attraverso gli stessi stati intenzionali. Brentano affermava
l’idea che la coscienza sia sempre intenzionata, cioè che sia diretta ad un
oggetto, che abbia un contenuto, definendo l’intenzionalità come la caratteristica principale dei fenomeni psichici (o mentali), tramite cui essi possono
essere distinti dai fenomeni fisici. Ogni fenomeno mentale, ogni atto psicologico ha un contenuto, è diretto verso qualcosa (l’oggetto intenzionale), così
come ogni credere, desiderare ecc. ha un oggetto.
Secondo Brentano, dunque, l’intenzionalità è la reale e oggettiva differenza specifica tra fenomeni psichici e fisici: l’oggetto intenzionale è sempre immanente all’atto psichico6. Husserl riprende il concetto di intenzioIvi, pp. 89-108.
J. SEARLE, Dell’intenzionalità, cit.
6 F. BRENTANO, La classificazione delle attività psichiche, Carabba, Lanciano 2009.
4
5
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nalità da Brentano, ma ritiene che non tutti i fenomeni psichici abbiano un
significato intenzionale. L’intenzionalità è piuttosto la forma apriorica dell’essenza fenomenologica della coscienza, la tipica e invariante struttura del
vissuto. Nel vissuto stesso vi sono delle componenti immanenti, evidenti e
immediate, ma non intenzionali, componenti che rappresentano i dati iletici, cioè le impressioni sensibili che fungono da materia all’intenzionalità
ma che non sono a loro volta intenzionali. Husserl tenta in altri termini di
considerare l’intenzionalità senza restare ‘impigliato’ nei pregiudizi dello
psicologismo naturalistico del suo tempo. Laddove Brentano continuava a
ritenere valido il dualismo, la causalità psico-fisica7, Husserl riteneva che
nel processo percettivo, ad es. nel vedere, io “intenziono” implicitamente
tutti gli aspetti che non mi sono dati sotto forma di presentificazioni intuitive. «La percezione ha dunque per la coscienza, un orizzonte che inerisce
sempre al suo oggetto»8 (l’orizzonte che essa intenziona sempre implicitamente). Nella percezione una cosa è qui per me nella semplice certezza
d’essere della presenza immediata e presenta se stessa come molteplice9.
«La cosa singola della percezione ha un senso soltanto entro un orizzonte
aperto di percezioni possibili, in quanto ciò ch’è ovviamente percepito ‘rimanda’ a rappresentazioni percettive che gli ineriscono concordemente, la
cosa ha ancora una volta un orizzonte: di fronte ad un ‘orizzonte interno’
c’è un ‘orizzonte esterno’, perché la cosa è in un campo di cose; e ciò rimanda al mondo nel suo complesso, al mondo della percezione»10. La cosa
stessa, essendo ciò che è continuamente in movimento, è l’unità della molteplicità aperta ed infinita delle mutevoli esperienze proprie ed altrui e delle cose dell’esperienza. Gli oggetti di questa esperienza sono un orizzonte
in cui è possibile incontrarsi11. La teoria della conoscenza come intuizione
rinvia al concetto chiave della fenomenologia, ch’è l’intenzionalità. Dire
che la coscienza è essenzialmente intenzionale significa affermare che essa
rinvia a qualcosa di diverso da sé, che essa è sempre diretta verso un contenuto. Per Husserl un’indagine ha senso solo se ha una base intenzionale,
e l’analisi intenzionale inizia con la fenomenologia. La genesi trascendentale è la determinazione del senso unitario di un oggetto da parte di un io
puro, che non è nel mondo, ma è il fondamento della sfera dell’intenzionalità. La costituzione trascendentale è «analisi degli atti o operazioni che
7 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di E.
Paci, Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 253-254.
8 Ivi, p.185.
9 Ivi, p. 188.
10 Ivi, pp. 189-190.
11 Ivi, pp. 191-192.
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la coscienza compie in direzione degli oggetti»12. Non tutti gli stati di coscienza sono diretti verso qualcosa, né hanno un contenuto intenzionale.
Esistono infatti, per Husserl, due tipi di stati di coscienza: gli stati di coscienza intenzionali e gli stati di coscienza che potremo definire iletici. I
primi riguardano il contenuto intenzionale, o formale, dell’atto; i secondi
riguardano il contenuto sensoriale. Nel primo caso ciò che si intende mettere a fuoco è l’aspetto costitutivo, attivo della coscienza. Nel secondo caso, è l’aspetto recettivo della coscienza che si vuole precisare. Il contenuto
intenzionale fornisce all’atto la sua direzionalità; il contenuto iletico la sua
determinatezza. Il primo caratterizza la mente cognitiva; il secondo la coscienza fenomenica o qualitativa. Secondo Husserl, dunque, l’intenzionalità non esaurisce la nozione di coscienza, non costituendone carattere definitorio. Secondo Searle, invece, l’intenzionalità ha sempre un suo contenuto ed è diretta verso qualcosa. In questo senso l’intenzionalità mette in
luce la relazione esistente tra mente e mondo, l’articolazione in qualità e
contenuto dello stato mentale e la concezione dell’oggetto come identità
oggettuale invariante (nozione, questa, elaborata da Searle in risposta alle
obiezioni dei teorici del riferimento diretto). A suo avviso, la mente, generata da processi di carattere biologico, svolge le proprie funzioni nel
quadro del mondo naturale, ponendo in relazione organismo e ambiente
attraverso stati mentali come la percezione e l’azione, le credenze e i desideri. Per svolgere questa funzione, gli stati mentali devono pertanto essere
diretti verso qualcosa, cioè verso un oggetto diverso da loro stessi. In questo modo, l’intenzionalità del mentale oltrepassa l’immanenza del dato di
esperienza, dirigendosi su termini ad essa trascendenti e costituendoli come oggetti. Ogni stato intenzionale consiste in una rappresentazione, cioè
in un contenuto intenzionale (corrispondente alla nozione di materia teorizzata da Husserl) e psicologico (corrispondente alla nozione husserliana di
qualità). In questo quadro, Searle rielabora la sua teoria del riferimento,
sottolineando come l’uso referenziale dei termini singolari sia diretto all’identità invariante dei referenti, concepiti indipendentemente dai contenuti mediante cui li identifichiamo (riformulazione, questa, della nozione
husserliana di identità oggettuale).
2. Searle-Damasio: il problema del rapporto mente-corpo e mente-cervello
Ne L’Errore di Cartesio Damasio prende le distanze dal dualismo carte12
Ivi, p. 45.
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siano, intendendo con esso la netta separazione tra la mente e il corpo13.
Egli propone una visione unitaria dell’individuo inteso come unione di ragione, emotività, e sentimento. L’errore cartesiano sta nell’aver proposto
un modello di mente totalmente separato dalla natura della mente14. La
mente è per Cartesio un ente non biologico. Damasio ritiene invece che i
sentimenti influenzino in forte misura la ragione, e che i sistemi cerebrali
richiesti dai sentimenti siano fusi in quelli necessari alla ragione. La ragione
e le facoltà cognitive superiori dipendono dunque da specifici sistemi cerebrali, e accade che alcuni di questi elaborino sentimenti ed emozioni. In
questo senso si può postulare l’esistenza di un collegamento, in termini
anatomico-funzionali, dalla ragione ai sentimenti al corpo. L’intento di Damasio è quello di recuperare un’idea di razionalità che comprenda anche i
sentimenti e le emozioni. L’errore fatale di Cartesio sta nel non aver colto
questo: «la mente non è un ente lontano e separato dal corpo anzi essa non
può esistere e manifestarsi senza il corpo». Damasio muove la sua tesi dall’analisi dei casi clinici e dalla valutazione sperimentale dei fatti neurologici, dalla quale emerge «l’essenzialità del valore cognitivo delle emozioni
e del sentimento», ovvero l’importanza della funzionalità emotiva e dei
suoi strettissimi intrecci con l’agire razionale.
In Emozione e coscienza, Damasio espone la sua teoria della coscienza che
parte dall’affermazione dell’esistenza di un proto-sé, cioè di una forma di soggettività originaria appartenente sia agli esseri biologici più semplici che a
quelli più complessi e consapevoli di sè15. Tale prospettiva ci permette di recuperare una parte importante della riflessione filosofica di Searle. Damasio
ovviamente non è il primo a porsi il problema del rapporto mente-corpo,
mente-cervello, né è il primo autore a rivendicare una centralità della dimensione corporea nella spiegazione dei fenomeni cognitivi dell’animale
umano. Ma senza dubbio il suo contributo si colloca in un momento decisivo
del dibattito fra filosofia e neuroscienze. Come si è detto, Searle occupa gran
parte della sua attività scientifica all’analisi degli stati intenzionali, in una prospettiva naturalistica o filosofico-biologica. Il suo naturalismo biologico gli
permette di eludere i limiti del materialismo da una parte, e, dall’altra, il
dualismo di stampo cartesiano. Di fronte al problema del come sia possibile
che un fenomeno che si manifesta a livello soggettivo produca degli effetti
13 A.R. DAMASIO, L’errore fatale di Cartesio, in E. CARLI (a cura di), Cervelli che parlano.
Il dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp.
23-42. Dello stesso autore cf. L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995 pp. 23-33.
14 Ivi, pp. 242-243.
15 A.R. DAMASIO, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000, pp. 189-197.
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osservabili nel mondo fisico, Searle ritiene che esso possa essere superato se
si assume che tutti i nostri stati coscienti non siano altro che caratteristiche di
livello superiore prodotte dai processi nervosi che hanno luogo nelle diverse
aree cerebrali16. In tal senso, non esistono due distinti domini fenomenici,
bensì modi diversi di presentarsi di uno stesso fenomeno. Su questo, Searle
scrive in proposito: «Il fatto che i poteri causali della coscienza e quelli della
sua base neuronale siano esattamente gli stessi, mostra che non stiamo parlando di due cose diverse, la coscienza e processi neuronali». I poteri causali
della coscienza sono esattamente gli stessi del sostrato neuronale. Non si
tratta di due entità diverse, ma dello stesso sistema a livelli diversi17. Il rapporto tra mente e cervello consiste in una corrispondenza tra processi nervosi cerebrali ed esperienze soggettive, dove il presentarsi degli uni o delle
altre sarebbe soltanto questione di una differente prospettiva osservazionale
adottata. Scrive Searle: «I processi di livello inferiore del cervello causano il
mio stato cosciente presente, ma questo stato non è un’entità separata dal
mio cervello; esso è semplicemente una caratteristica del mio cervello al
tempo presente. Questa analisi – che i processi del cervello causano la coscienza, ma che la coscienza è essa stessa una caratteristica del cervello – ci
fornisce una soluzione al tradizionale problema mente-corpo, una soluzione
che evita sia il dualismo sia il materialismo, almeno nel senso in cui questi
vengono tradizionalmente concepiti»18. Fin qui la tesi di Searle non sembra
differenziarsi significativamente dalle teorie dell’identità classiche, prospettate da autori come David M. Armstrong, Ullin Place e John Smart, per le
quali tutte le proprietà della mente sono riducibili alle proprietà del cervello19. Tuttavia, questi ultimi si muovono su uno sfondo decisamente fisicalista, mentre Searle rifiuta il materialismo e ogni concezione che tenda ad
assimilare la mente a un calcolatore. Si mostra piuttosto disponibile ad accogliere almeno in parte le critiche anti-riduzionistiche sollevate in particolare da Thomas Nagel, Franck Jackson e Saul Kripke20. Tale orientamento
tenta una conciliazione tra le istanze del mondo vissuto a livello soggettivo
e quelle della ordinaria visione scientifica che vede nella coscienza null’al16 J. SEARLE, La riscoperta della mente, cit., p. 30; ID., Libertà e neurobiologia. Riflessioni sul
libero arbitrio, il linguaggio e il potere politico, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 7, 32, 43.
17 J. SEARLE, La mente, cit., p. 115.
18 J. SEARLE, Il mistero della coscienza, cit., p. 5; ID., La riscoperta della mente, cit., p. 17.
19 D.M. ARMSTRONG, “La natura della mente”, in Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza, a cura di A. De Palma e G. Pareti, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 46-62; U.T. PLACE, “Is Consciouness a Brain Process?”, British Journal of Philosophy, 47 (1956), pp. 44-50; J. SMART, “Sensations and Brain Processes”, Philosophical Review, 68 (1959), pp. 141-156.
20 J. SEARLE, La riscoperta della mente, cit., pp. 132-133.
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tro che un prodotto dei processi cerebrali. Pur tenendo ferma la tesi che le
esperienze coscienti sono causate interamente dall’attività del cervello, e
pur ammettendo che esse non rappresentano qualcosa che va al di là dei fenomeni neurobiologici21, egli pretende di far valere il principio della non
riducibilità ontologica della coscienza al piano della realtà fisica. I fenomeni
coscienti si manifestano esclusivamente nella dimensione soggettiva degli
individui e la coscienza non può essere rilevata per mezzo degli ordinari
metodi oggettivi utilizzati dalla scienza. La sua conclusione è che «la coscienza ha un’ontologia in prima persona o soggettiva e quindi non può essere
ridotta a nessuna cosa che presenti un’ontologia in terza persona o oggettiva. [...] i cervelli biologici presentano una notevole capacità di produrre
esperienze, e queste esperienze esistono soltanto quando vengono provate
da agenti animali o umani»22. La soluzione di Searle al problema mentecorpo consiste dunque nell’aver aggiunto a una concezione fisicalista della
coscienza l’irriducibilità ontologica della coscienza al mondo fisico. Da un lato abbiamo una nuova teoria dell’identità, per la quale la coscienza non è
altro che l’attività del cervello considerata a un livello più elevato; dall’altro abbiamo un assunto ulteriore, per il quale la coscienza non è riducibile
ai processi cerebrali. Essa è il risultato dell’attività nervosa del cervello,
che non è nulla di più rispetto a tale processo, anzi è lo stesso processo visto da una prospettiva superiore. Apparentemente potrebbe sembrare contraddittorio dire che la coscienza è la stessa cosa dei fenomeni cerebrali e
che le differenze rilevate dipendano dal livello in cui si pone l’osservatore,
perché tali differenze possono essere considerate non oggettive, cioè appartenenti alla realtà degli stessi fenomeni. Se la mente e il funzionamento
del cervello rappresentano soltanto modalità diverse di presentarsi di uno
stesso fenomeno, a seconda dell’angolo visuale da cui ci si pone, dette modalità dipendono strettamente dall’osservatore e vanno pertanto considerate soggettive. Da ciò potrebbe conseguire che l’affermazione di una coscienza «ontologicamente irriducibile» all’attività cerebrale diventi priva di fondamento. Searle tenta di aggirare il problema con l’idea che la coscienza sia
una caratteristica del cervello. In La riscoperta della mente egli riassume il suo
naturalismo biologico in quattro tesi:
1) Gli stati coscienti soggettivi «prima persona» sono fenomeni reali del
mondo reale. Non possiamo pervenire ad una riduzione eliminativa della
coscienza, perché tale riduzione (di «terza persona») lascerebbe fuori, e insoluta, l’ontologia del soggetto.
21
22
J. SEARLE, La mente, cit., p. 103.
J. SEARLE, Il mistero della coscienza, cit., p. 176. ID., La riscoperta della mente, cit., p. 132.
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2) Gli stati coscienti sono causati interamente dai processi neuro-biologici cerebrali di livello inferiore. Essi sono perciò causalmente riducibili
ai processi neurobiologici. Non hanno vita autonoma. Ma in termini causali
non sono qualcosa che va al di là dei processi neurobiologici.
3) Gli stati coscienti sono realizzati nel cervello quali caratteristiche del
sistema cerebrale, e dunque esistono a un livello più alto di quello dei neuroni e delle sinapsi. I singoli neuroni non sono coscienti: sono coscienti, invece, specifiche parti del sistema cerebrale costituito dai neuroni.
4) Gli stati coscienti, essendo caratteristiche reali del mondo reale, hanno efficacia causale23.
Le tesi di Searle sulle relazioni mente-cervello si rifanno ad una forma
di riduzionismo causale, poiché affermano che le proprietà della mente sono
causate da processi neurobiologici: si tratta di stabilire se ciò implichi una riduzione ontologica. In generale, la storia della scienza insegna che le riduzioni
causali, se funzionano, tendono a condurre a riduzioni ontologiche: portano, infatti ad una ridefinizione del fenomeno, che da allora in poi potrà essere identificato con le proprie cause. In tutti questi casi, «la riduzione causale di un fenomeno conduce a una riduzione ontologica»24. Quella che
propone Searle è un’altra forma di riduzionismo, che contempli la irriducibilità del soggetto cosciente capace di stati intenzionali aventi una efficacia
causale. Per evitare che la sua tesi venga fraintesa con una forma larvata di
dualismo, Searle cita l’esempio della teoria computazionale, che equipara
l’intelligenza umana all’intelligenza artificiale. Secondo Searle, le macchine
dell’intelligenza artificiale sono in grado di manipolare sintatticamente simboli, ma non sono in grado di interpretarli cioè di comprenderne il significato, o di attribuirgliene uno25. Solo il cervello è capace di intenzionalità e di coscienza. In questo senso la via d’uscita del problema mente-cervello è il naturalismo biologico, inteso come il tentativo di recuperare quel campo dell’esperienza cognitiva umana che tanto il dualismo d’ispirazione cartesiana
quanto il materialismo meccanicistico, il comportamentismo tradizionale o
le teorie computazionali sembrano incapaci di prendere nella giusta prospettiva. Searle invita a non considerare il fisico e il mentale come due categorie ontologicamente inconciliabili.
23 J.R. SEARLE, La riscoperta della mente, cit., p. 116. Cf. ID., La mente, cit., pp. 97-120,
e Il mistero della coscienza, cit., pp. 1-14.
24 J.R. SEARLE, La riscoperta della mente, cit., p. 130.
25 Questo argomento è supportato da un celebre esperimento mentale, quello della
«stanza cinese», descritto per la prima volta in “Minds, Brains and Programs”, Behavioural
and Brain Sciences, 3 (1980), pp. 417-424; tr. it. “Menti, cervelli e programmi”, in L'io della
mente, a cura di D. Hofstadter e D. Dennett, Adelphi, Milano 1985, pp. 341-360.
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3. Searle e l’etologia cognitiva di Denton e Griffin
Il campo dell’etologia cognitiva comprende una serie di studi, compiuti
nell’ultimo ventennio da parte di fisiologi e neurologi come Donald Griffin, Jean-Pierre Changeux, Gerald Edelman, Antonio Damasio, Jaak Panksepp, Marc Hauser e Derek Denton sulla interazione uomo-animale e sulle
analogie esistenti fra i comportamenti cognitivi di alcune specie viventi e
quelli dell’animale umano nei primi mesi di vita. L’etologia cognitiva mostra in altri termini come vi sia una dipendenza determinante non solo dalle
ricerche compiute in campo neurologico, ma anche da quelle compiute
sullo sviluppo dell’uomo durante l’infanzia. La tesi che il pensiero animale
sia limitato o inesistente perché agli animali manca la parola, trova il suo
limite nel fatto che essa non può valere per tutto il campo dell’esperienza
cognitiva, sia animale che umana, e non solo sulla linea ontogenetica (che
mette in relazione, per l’appunto, le ricerche sul comportamento animale
e quelle dello sviluppo dell’uomo durante l’infanzia), ma anche in quella
fase dello sviluppo umano che coincide con l’età adulta. C’è tutta una ‘biologia naturalistica’, prodottasi nell’ultimo ventennio, che si lega idealmente alle ricerche di John Searle sul rapporto mente-coscienza e mentecervello. Tali studi hanno consentito di approfondire quella dimensione
biologica della vita animale costituente il presupposto indispensabile per
l’analisi dei fenomeni cognitivi ed emotivo-percettivi dell’animale umano.
Secondo questi studi, gli animali non sono privi di un certo livello di coscienza e di sensibilità, e molti di loro hanno al contrario la capacità di sviluppare sentimenti e ‘abiti’ cognitivi molto simili ad alcuni comportamenti
degli animali umani. La loro versatilità, l’adattamento a circostanze mutevoli, le forme, per quanto primitive, di comportamento emotivo e relazionale, dotato di un’efficacia dal punto di vista della conservazione della vita
propria e di quella della propria specie, attestano, in definitiva, l’esistenza
di una forma primitiva di intelligenza. L’uomo non è l’unico essere intelligente sulla terra, ogni soggetto vivente si esprime nel suo particolare modo
d’essere, nella sua organizzazione biologica, nel suo comportamento percettivo, emotivo e cognitivo. La questione della coscienza animale si pone
sia come domanda ontologica (gli animali hanno una coscienza?), sia come
problema epistemologico (come facciamo a sapere che gli animali hanno
una coscienza?).
Per rispondere a queste domande, prendo in riferimento il testo di Derek Denton, Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza, e quello di Do-
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nald Griffin, Menti animali26. In entrambi questi studi emerge l’intento di
affermare l’esistenza di una forma rudimentale di «coscienza primaria» e di
«pensiero versatile» negli animali, ipotesi confortata da un numero non
esiguo di prove sperimentali. Secondo Griffin, «bisogna abbandonare l’idea
che gli animali non pensano: semplicemente lo fanno diversamente da noi».
I pensieri degli animali possono essere diversi dai nostri, ma non per questo sono insignificanti. E la coscienza di sé non può essere un’esclusiva degli esseri umani: un animale percettivamente cosciente non può non essere
consapevole delle proprie azioni. Per Griffin è possibile una coscienza in
tutti gli animali che esibiscono un comportamento versatile o che comunica secondo modalità tali da suggerire la possibile espressione di pensieri o
sensazioni. Noi stessi siamo coscientemente consapevoli solo di una piccola
frazione di quanto avviene nel nostro cervello, e non vi è motivo per supporre che le altre specie siano privi di una forma di consapevolezza di sé. I
pensieri e i sentimenti degli animali non umani sono presumibilmente molto più semplici, e riguardano questioni di importanza immediata per gli
animali stessi, il che deve farci riflettere circa la facilità ad analizzare la loro
sfera cognitiva in base a generi di riflessione che sono importanti per le
questioni umane. Per questa ragione, Griffin dirige la sua attenzione sui
comportamenti comunicativi. «La comunicazione è spesso un processo a
due sensi, un ripetuto scambio di segnali con cui due o più animali possono
forse valutare i reciproci sentimenti e pensieri oltre che la probabilità dei
vari comportamenti possibili»27. La comunicazione animale può costituire
un’utile e importante fonte di evidenze oggettive circa forme cognitivoaffettive accessibili all’indagine scientifica. Battiti delle palpebre, rossori,
sussulti di sorpresa o gemiti di dolore servono a comunicare ai propri simili,
nell’uomo, lo stato di irritazione degli occhi, l’imbarazzo, la sorpresa o il
dolore, ma non sono segni intenzionali usati per qualche scopo consapevole.
Griffin chiama questa interpretazione della comunicazione animale «GOP»28
(Grans of Pain, cioè gemiti di dolore). Una concezione affine è che le minacce non siano segnali che l’animale vuole o intende attaccare ma informazioni di anticipazione che inducono una risposta appropriata da parte
dell’animale minacciato. I segnali comunicativi di molti animali sociali
spesso dipendono dalla presenza di altri animali e sovente sono modificati
D. DENTON, Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza, Bollati Boringhieri, Torino 2009; D.R. GRIFFIN, Menti animali, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
27 Ivi, p. 204.
28 Ivi, p. 206.
26
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in risposta a segnali ricevuti da altri. Il punto fondamentale qui è che un’interpretazione appropriata e ragionevole dei segnali di comunicazione scambiati dagli animali può fornire un’evidenza significativa anche se non conclusiva circa i loro pensieri e sentimenti. Un esempio chiaro di comunicazione animale naturale, indicativo di un pensiero cosciente, ci viene dagli
studi di richiami d’allarme e di altre vocalizzazioni dei cercopitechi verdi.
Scimmie le cui dimensioni sono all’incirca quelle di un piccolo cane, vivono in Africa sia in foreste che in spazi aperti dove possono essere osservate
più facilmente. Trascorrono la maggior parte della loro vita in gruppi stabili formati per lo più da parenti stretti, che si riconoscono individualmente
fra loro. Quando vedono dei predatori pericolosi emettono almeno tre tipi
di richiami d’allarme, descritti originariamente da Struhsaker (1967).
Un altro esempio tipico di comunicazione animale è quello che avviene
tra alcune specie di pappagalli. Essi imitano il linguaggio umano, infatti, riproducendo una grande varietà di suoni e di parole. Dopo diversi esperimenti fatti da molti scienziati è ragionevole dire che essi possono imparare
sia a comprendere che a comunicare varie proprietà semplici di oggetti familiari (colore, forma, materia), oltre che le relazioni basilari come l’uguaglianza o la diversità29. Ma il più importante esempio di comunicazione versatile riscontrabile in una specie animale non umana è, secondo Griffin, quello della cosiddetta «danza delle api». Questo tipo di comportamento differisce in modo cosi sorprendente da tutti gli altri tipi di comunicazione animale
che per i behavioristi inclusivi è stato difficile integrarlo nella loro comprensione generale del comportamento animale. Apicoltori e studiosi del comportamento avevano notato da secoli che a volte le api operaie si spostano
sulla superficie del favo eseguendo movimenti frenetici che vengono definite
“danze”. Queste raccoglitrici di polline eseguivano quelle che vengono dette
in tedesco Schwazeltanzen, tradotte come danze scodinzolanti o danze
dell’addome. In una danza scodinzolante l’ape si muove rapidamente in linea
retta facendo oscillare l’addome lateralmente al ritmo di circa tredici o quattordici movimenti al secondo; alla fine della corsa poi ritorna indietro seguendo un percorso circolare, e ripercorre nuovamente la linea retta. Ogni
percorso rettilineo viene cosi seguito da ritorni circolari in senso orario e antiorario al punto di partenza di una nuova corsa scodinzolante30. Le danze
dell’addome comunicano tre tipi di informazioni fondamentali per le api: 1)
la direzione della fonte di cibo, espressa rispetto alla posizione del sole; 2) la
29
30
Ivi, p. 229.
Ivi, p. 236.
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distanza di tale fonte, correlata con la durata e forse con la lunghezza della
corsa scodinzolante; e 3) il grado di desiderabilità di ciò per cui l’ape sta danzando, correlato con il vigore delle danze. Difficile è stato determinare la natura dettagliata della comunicazione riguardante la distanza. Il numero dell’oscillazione dell’addome è in rapporto con la distanza a cui dovrà volare
l’ape. Dunque è ovvio che le danze scodinzolanti servano a trasmettere informazioni alle altre api. Secondo Griffin «per poter capire le capacità mentali degli animali spiccano tre motivi fondamentali, collegati tra di loro, che
sono particolarmente significativi e che possono essere definiti filosofico, etico e scientifico»31.
D’altro canto, Denton perviene ad una teoria secondo la quale, «la coscienza primaria deriva dalle emozioni primordiali»32. Esempi tipici di queste ultime sono il bisogno d’aria, la sete, la fame, l’appetito per i sali minerali come il sodio, le sensazioni provocate da variazioni di temperatura
corporea interna e cutanea, l’eccitazione sessuale, e il dolore. L’impellente
voglia di dormire dopo una lunga deprivazione del sonno costituisce un altro esempio paragonabile ai precedenti, di invasione della coscienza da parte di un’emozione primordiale, una condizione nella quale praticamente
nulla è in grado di contrastare un desiderio che soppianta tutto il resto.
Questa teoria rappresenta un’alternativa a quella di Edelman, secondo cui
la coscienza primaria nasce dalla capacità del cervello di creare una “scena”
grazie ai recettori a distanza. Qui, invece, viene postulato che sotto il profilo dell’evoluzione «l’origine della coscienza sia derivata dalle emozioni
primordiali indotte da recettori chimici, situati all’interno del corpo e in
alcuni casi in superficie, che hanno generato una sensazione impellente accompagnata da un’intenzione compulsiva adeguata, segnalando l’esistenza
di una minaccia immediata per l’organismo»33.
Pertanto la definizione di «emozione primordiale», un aggettivo che J.P. Changeux ha suggerito a Denton di preferire a «primitivo», è una forma
di eccitamento accompagnato da un’intenzione compulsiva, che è apparsa
durante l’evoluzione in quanto particolarmente adatta alla sopravvivenza di
un organismo. Questa definizione implica un elemento genetico essenziale:
c’è una sensazione violenta congiunta a un’imperativa coercizione all’azione. Ciò sottintende che le emozioni primordiali si presentano laddove è in
Ivi, p. 301.
D. DENTON, Le emozioni primordiali, cit., p. 154.
33 D. DENTON, Le emozioni primordiali, cit., p. 275. Cf. G.M. EDELMAN, Sulla materia
della mente, Adelphi, Milano 1999.
31
32
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gioco la sopravvivenza immediata. E si tratta di un processo cosciente. Nel
considerare le emozioni, è evidente che esiste una vasta gerarchia fra i diversi generi, dalle emozioni primordiali che accompagnano gli istinti dei sistemi vegetativi fino all’estremo opposto, gli istinti emotivi determinati da
un giudizio estetico e dalla contemplazione dell’oggetto. Un esempio di
questi ultimi può essere dato dall’ammirazione della grandiosità di una scena unita all’apprezzamento intellettuale del suo significato. In contrasto
con Edelman, Denton afferma che le sensazioni e i sentimenti considerati
parte dello stato cosciente e come processi che si associano alle nozioni di
qualia nella misura in cui si riferiscono al sé, non sono tuttavia emozioni,
perché le emozioni hanno forti componenti cognitive che mescolano i sentimenti alla volontà e ai giudizi in una maniera straordinariamente complessa. Le emozioni possono essere considerate gli stati o i processi mentali
più complessi, poiché si fondono con tutti gli altri processi. In queste affermazioni l’autore ingloba anche l’intenzione nella categoria di emozione.
Egli cerca di distinguere le sensazioni e i sentimenti con cui si combinano,
e in questo senso risulta vicino alla posizione di Denton. Per Denton esiste
una gerarchia o gradualità tra le sensazioni: quelle che sono state definite
«emozioni primordiali», sono per lo più attivate da enterocettori, e per
questa ragione sono «primarie» ma indicano un fenomeno cosciente più
complesso, comprendente un’intenzione il cui valore di sopravvivenza è
molto elevato. Questa distinzione è tuttavia relativa. Fra le emozioni primordiali e quelle attivate dai recettori a distanza, come l’odio, la rabbia, la
paura, l’amore e cosi via, Denton stabilisce una classificazione, chiamando
queste ultime «secondarie», poiché sono più complesse sotto il profilo dei
meccanismi di attivazione, in quanto implicano spesso una percezione situazionale. In questo senso le emozioni estetiche si potrebbero considerare
all’apice della piramide.
Sullo sfondo di questo discorso, è ineluttabile ritrovare alcuni elementi
teorici della “biologia naturalistica” di Searle: seppure quest’ultimo si sia occupato esclusivamente della coscienza umana, molti dei suoi argomenti potrebbero essere validi, a parere dello stesso Griffin, anche in campo animale,
e per questo motivo Searle, pur non essendo un etologo, può essere considerato in sintonia con queste ricerche. Il rapporto con l’etologia cognitiva, e in
particolar modo con quella parte dell’etologia che ha indagato negli ultimi
decenni la sfera del comportamento animale trova una particolare giunzione
con Searle per due ordini di ragioni: 1) la prima è che gli studi di Denton e
Griffin confermano una tesi fondamentale del naturalismo biologico di Searle,
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e cioè che il campo dell’esperienza cognitiva umana sia molto più vasto di
quanto un approccio dualistico o logico-trascendentale possa comprendere:
ciò che Searle chiama «soggettività ontologica» di prima persona, confermante l’esistenza di un legame causale mente-cervello molto più complesso
di quanto si fosse immaginato. E quando Searle definisce la coscienza come
una proprietà biologica del cervello degli animali umani, determinata da processi neurobiologici, allo stesso modo della fotosintesi, della digestione o
della mitosi, non fa altro che supporre implicitamente l’esistenza di proprietà analoghe in altre specie viventi; 2) la seconda ragione è che l’etologia cognitiva rivela l’esistenza di uno stretto legame non solo con le ricerche compiute nel campo neurologico, ma anche con quelle compiute sullo sviluppo
infantile. La tesi che il pensiero animale sia limitato o inesistente perché agli
animali manca la parola trova il suo limite nel fatto che essa non può valere
per tutto il campo dell’esperienza cognitiva umana, non solo sulla linea ontogenetica (che mette in relazione le ricerche sul comportamento animale e
quelle dello sviluppo dell’uomo durante l’in-fanzia), ma anche in quella fase
dello sviluppo umano che coincide con l’età adulta. Gli animali hanno una
sfera emotiva e una soggettività, per quanto semplice; sebbene privi della facoltà linguistico-verbale, essi sono in grado di realizzare anche forme complesse di comunicazione.
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