JOHN R. SEARLE, Mind, Language and Society (M. Malatesta)

Metalogicon (2003) XVI, 2
maestri, anzi soprattutto da cc.dd. grandi maestri. Grandi … nel ripetere
madornali bestialità!
Testi alla mano, si ricava che il mito di un Agostino platonico o
neoplatonico ha fatto il suo tempo.
Michele Malatesta
JOHN R. SEARLE
Mind, Language and Society
[Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale]
Milano, Raffaello Cortina Editore, 200, 189 pp.
“Ho parlato [...] delle pressioni esercitate sulla intelligenza
dalla affettività e dalle potenze oscure che assillano la volontà, e
che impediscono anche a dei veri filosofi di essere grandi
filosofi. Vorrei aggiungere che vi è un caso particolarmente
tipico, quello in cui un ego reso tanto più dominatore quanto più
è impigliato in complessi inconsci cerca di compensare le sue
frustrazioni attraverso e nel sistema di concetti che elabora”.
J. MARITAIN
In sei densi capitoli l’A. affronta una problematica a largo raggio che,
già rilevante dal punto di vista scientifico, lo è ancora di più da quello
strettamente filosofico.
L’analisi searleana parte dalla crisi culturale (teoria della relatività,
paradosso della classe delle classi, irrazionalismo psicoanalitico, toremi di Kurt
Gödel, meccanica quantistica, epistemologia kuhniana e feyerabendiana) che
ha caratterizzato il secolo scorso, per chiarire il senso della crisi stessa e
ridimensionare le interpretazioni catastrofiche che se ne vogliono dedurre.
Inoltre il filosofo americano scorge nell’autoinganno e nella volontà di potenza
le fonti effettive degli errori filosofici.Qui le considerazioni di Searle si
incontrano e fanno da complemento a quelle di Maritain sopra riportate. (Cfr.
«Approches sans entraves» scritti di filosofa cristiana, II, Roma, 1978, p. 18
Searle chiama “posizioni predefinite” le visioni che assumiamo in modo
acritico come: c’è un mondo reale che esiste indipendentemente da noi; noi
abbiamo un accesso percettivo a questo mondo; le parole del nostro linguaggio
come coniglio e albero si riferiscono a oggetti reali del mondo; i nostri
enunciati sono normalmente veri o falsi; la causazione è una relazione reale tra
gli oggetti e gli eventi del mondo. Siffatte posizioni predefinite fanno parte di
quello che il filosofo statunitense chiama Sfondo del nostro pensiero e del
nostro linguaggio. Buona parte della storia della filosofia consiste in una serie
di attacchi alle posizioni predefinite: si pensi, tanto per fare qualche nome, a
Berkeley e a Hume.
Gli argomenti più comuni contro il realismo sono il prospettivismo
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(mancanza di visione diretta della realtà ma contatto con essa attraverso proprie
assunzioni e preconcetti), la relatività concettuale, l’epistemologia di Kuhn e
quella ad essa connessa, derivante dalla sottodeterminazione della teoria
rispetto all’evidenza. Il Searle sottopone ad acute critiche siffatte dottrine.
Piace riportare quella relativa all’ultima posizione: «Il passaggio dalla teoria
geocentrica a quella eliocentrica non mostra che non vi sia una realtà che esiste
indipendentemente; al contrario l’intero dibattito ci risulta intelligibile sulla
base dell’assunzione che c’è una tale realtà». (p. 28). L’A. chiama realismo
esterno la sua posizione: essa non è una teoria bensì la struttura all’interno
della quale è possibile elaborare teorie.
La caratteristica primaria ed essenziale della mente è la coscienza. L’A.
intende per coscienza «quegli stati di sensibilità o consapevolezza che iniziano
normalmente quando ci svegliamo al mattino da un sonno senza sogni e che
continuano per tutta la giornata finché non ci addormentiamo nuovamente». (p.
44). Gli stati coscienti sono interni, qualitativi e soggettivi. Il fatto che la
coscienza abbia un modo di esistenza soggettivo non impedisce di avere una
scienza oggettiva della coscienza. Quanto ai rapporti mente-corpo ci sono due
soluzioni fondamentali: il dualismo – si pensi a Cartesio – ed il materialismo
nelle sue varie versioni (comportamentismo, fisicalismo, funzionalismo,
intelligenza artificiale forte). Searle rifiuta entrambe le soluzioni. Per il filosofo
americano «la coscienza è un fenomeno biologico come qualsiasi altro». (p.
56). L’A. avanza però delle riserve: «Sebbene la coscienza sia un fenomeno
biologico come ogni altro, la sua ontologia soggettiva, in prima persona, ci
rende impossibile ridurla a fenomeni oggettivi, in terza persona, come facciamo
invece per i fenomeni in terza persona come la digestione e la solidità». (p. 62).
Intimamente connessa alla coscienza è l’intenzionalità, cioè «quella
caratteristica della mente per mezzo della quale gli stati mentali sono diretti a,
si riferiscono a, appartengono a, rimandano a, mirano a stati di cose del
mondo». (p. 70). «Non tutti gli stati coscienti sono intenzionali e non tutti gli
stati intenzionali sono coscienti». (Ibid.).
La prima e più importante caratteristica della coscienza è la soggettività
ontologica. La seconda è la sua unità: sebbene ci sia una distinzione tra pensare
e sentire, le due attività hanno luogo nello stesso tempo e nello stesso campo di
coscienza. La terza, quella più essenziale ai fini della sopravvivenza, consiste
nel darci accesso al mondo esterno. La quarta nel fatto che tutti i nostri stati
coscienti si presentano sempre con un particolare stato d’animo o umore. La
quinta nel fatto che gli stati coscienti sono sempre strutturati (si pensi alla
Gestalttheorie). La sesta caratteristica della coscienza consiste nel fatto che
essa si presenta con diversi gradi di attenzione. La settima è caratterizzata dal
fatto che i suoi stati si presentano con il senso della loro collocazione (ad. es.
siamo consapevoli di che periodo dell’anno è, in quale paese ci troviamo etc.).
L’ottava caratteristica delle esperienze coscienti è che esse si presentano a noi
in gradi mutevoli di familiarità. La nona è che siffatte esperienze si riferiscono
a qualcosa che va oltre i esse. La decima consiste nel fatto che gli stati
coscienti sono sempre piacevoli o spiacevoli. È chiaro intravedere in
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quest’ultima caratteristica – mi piace sottolinearlo – quanto già la vecchia
psicologia aveva osservato a proposito dell’intima connessione e della sinergia
tra attività rappresentativa e attività affettiva.
Gli stati mentali genuini funzionano causalmente sia quando sono
coscienti sia quando sono inconsci. La tesi di fondo che l’A. intende provare è
quella di «mostrare come diversi fenomeni che costituiscono veri e propri
rompicapo, questioni che riguardano la mente, il linguaggio e la società,
possano rivelarsi come facenti parte del mondo naturale, allo stesso modo dei
pianeti, degli atomi o della digestione». (p. 93). Le forme di intenzionalità
biologicamente più primitive sono la fame e la sete: la sensazione cosciente
della fame e della sete porta l’animale a mangiare ed a bere.
Segue una carrellata sulla distinzione tra contenuto e tipo di stato
intenzionale. Credenze, percezioni e memorie hanno una direzione di
adattamento mente-a-mondo, desideri e intenzioni hanno una direzione di
adattamento mondo-a-mente. La causazione intenzionale è assolutamente
cruciale «per comprendere le differenze tra le scienze naturali e quelle sociali».
(p. 112). Seguono della acute considerazioni che rivelano un intelletto critico
non comune: «Quando spiego il mio comportamento esprimendo le credenze e
i desideri che mi spingono ad agire, normalmente non implico che non potrei
fare diversamente: Normalmente, quando ragiono in termini di desideri e
credenze riguardo a ciò che dovrei fare, si crea un divario (gap) tra le cause
della mia decisione nella forma di credenze e desideri, e la decisione reale; e
c’è un altro divario tra la decisione e la realizzazione dell’azione. La ragione di
questi divari è che le cause intenzionalistiche del comportamento non sono
sufficienti a determinare il comportamento stesso […]. Il nome solitamente
dato a questo divario o lacuna è quello di “libero arbitrio”. E la questione di
come possa esserci il libero arbitrio rimane un problema irrisolto in filosofia,
dato che non esistono corrispondenti divari nel cervello». (p. 113). Il corsivo
alla fine del periodo è mio.
Gli ultimi due capitoli sono dedicati rispettivamente (a) alla struttura
dell’universo sociale – l’A. mostra con dovizie di particolari come la mente
umana possa creare una realtà sociale oggettiva: si pensi alla concezione,
all’uso e alla circolazione del danaro – e (b) al funzionamento del linguaggio –
argomento che, accanto a quello dell’intenzionalità, costituisce sempre la parte
più importante ed impegnativa dei lavori di Searle. Ho avuto l’impressione che
l’A. riassuma qui quanto ha detto più dettagliatamente e con maggior rigore in
altri lavori, come Speech Acts (1969). L’A. conclude così: «Così, il mio scopo
– a proposito, non condiviso dalla maggioranza dei filosofi contemporanei – è
stato quello di tentare di compiere dei progressi verso il conseguimento di una
adeguata teoria generale». (p. 170). Chiude il lavoro una postfazione di Eddy
Carli su Il realismo “ingenuo” di John R. Searle (pp. 171-180).
Searle non la finisce mai di sbalordire. Basterebbe da solo a confutare
l’asserzione hegeliana che ciò che si è svolto in America non è che l’eco
(Widerhall) del vecchio mondo. Chiude il lavoro una postfazione di Eddy Carli
su Il realismo “ingenuo” di John R. Searle (pp. 171-180).
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Si è evidenziato sopra, a varie riprese, l’acume di alcune osservazioni
nonché il coraggio dell’A. nell’abbracciare certe posizioni, come ad es. quella
del c.d. ‘realismo ingenuo’, che i cc.dd. dotti attaccano ma della quale non
possono fare a meno, costituendo essa lo sfondo delle loro stesse posizioni
speculative. Gli elogi sopra fatti al filosofo statunitense non mi vietano però dal
rivolgergli una critica. Il filosofo non me ne avrà perché so che la verità gli sta
a cuore quanto sta a cuore a me.
Il Searle non si rende conto che la sua non è una terza posizione ma
rientra nella seconda trattandosi di un materialismo sia pure raffinatissimo.
Infatti delle due l’una: o la coscienza si risolve nelle sole componenti
biologiche senza residui, ma allora è privo di senso il discorso del filosofo sul
gap tra le cause della decisione e la decisione reale, come quello sul gap tra la
decisione e la realizzazione dell’azione; oppure, si asserisce che non esistono
nel cervello divari corrispondenti ai sopraddetti gap, allora è giocoforza, a fil
di logica, rigettare la riduzione della coscienza alla pura sfera biologica senza
residui.
Michele Malatesta
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