La contrapposizione fra mondanità e immortalità dentro la

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La contrapposizione fra mondanità e immortalità
dentro la dimensione “terrestre”
della musica mahleriana
Antonio Ferrarese
1 Per cominciare: tentativo di chiarire i controversi rapporti
fra l’opera mahleriana e la dimensione dell’“utopia”
Il fatto (dagli avversari non rilevato, ma oscuramente subodorato, con sospetto) di
voler portare musicalmente «a realizzazione» l’aspirazione utopica (e voler quindi smentire l’utopia intesa come constatazione del «non-luogo», del non darsi in
nessun luogo) è ciò che rendeva così caparbiamente inviso Mahler a certi critici
contemporanei, normalmente propensi a ostentare disgusto per le «ingenuità» diatoniche delle prime opere, tecnicamente «arretrate» rispetto al «livello» del tempo:
così Adorno, nel saggio del 1960, illustra le «circostanze» dell’odio malcelato e
dell’imbarazzo snobisticamente sprezzante con cui venne accolto lo stile mahleriano, là dove odio e imbarazzo significano risentimento per il carattere affermativo,
creatore, non rassegnato dell’opera compositiva, che rifiuta la funzione fittizia di
abbellimento di una realtà irriconciliata e ingiusta, e osa porsi come il sorgere di
un’alba trasfigurata. Tutto questo urtava la «sensibilità» positiva e segretamente
nichilistica di quei critici, che dall’arte pretendono realistica serietà e «livello tecnico» nel senso di accettazione della sfera estetica come risorsa già predefinita e
socialmente ben delimitata, e non mirano certo all’«affermazione» quanto piuttosto al «non deve essere», alla negazione nemmeno dichiaratamente ma celatamente
e inconsciamente mefistofelica1 .
1
Questa l’argomentazione di Adorno, che trae spunto dall’incipit della prima sinfonia mahleriana, estendendo il discorso alla musica in genere: «Tutta la musica promette col suo primo suono
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Molto si potrebbe dire o replicare, già partendo da questo spunto iniziale del discorso, sul carattere più o meno latamente “utopico” dell’arte mahleriana. Sul fatto
per esempio che la stessa, nelle sue prime espressioni, raramente si avventura in
regioni alchemiche dove lo stemperarsi delle antitesi finisce per far comparire ogni
sorta di parentele e compresenze, suggerendo indirettamente una visione in cui ciò
che subentra evidenzia proprio ciò a cui subentra (un tratto “utopico”, questo, attribuibile più a Wagner che a Mahler): almeno in quanto in un primo tempo non
incline all’“alchimia” che salva dalle antitesi, l’arte mahleriana pare più incamminata sulla via del disincanto che non su quella dell’utopia2 . Se poi volessimo
spostare l’attenzione sulla purezza del suono intesa come fonte di benigno stupore, di appagamento sorto dal suono medesimo, dal “singolo” suono, sarebbe facile
in tal caso attribuire, per esempio, all’incipit della quarta sinfonia beethoveniana la
particolare facoltà di schiudere all’analisi questa esperienza “utopica”3 ; assai diverqualcosa di diverso, promette di fendere un velo: e le sinfonie di Mahler vorrebbero finalmente
riuscirci, vorrebbero letteralmente rendere visibile questa riuscita, vorrebbero raggiungere musicalmente la fanfara teatrale della scena del carcere del Fidelio, imitare quel la che nella Settima sinfonia
di Beethoven introduce la cesura nello Scherzo, quattro battute prima del trio. È come un adolescente che alle cinque del mattino venga svegliato da un suono sferzante e prepotente: non potrà mai
dimenticare di attenderne il ritorno chi lo avvertì in un attimo nel dormiveglia. Il pensiero metafisico
appare, di fronte a questa corposità, esangue e sprovveduto come un’estetica che voglia sapere se
in quella forma l’attimo è compiuto o solo suggerito, mentre per lui quella frattura interiore è sostanziale ed esso si ribella all’apparenza dell’opera compiuta. Per questo oggi Mahler è odiato. È
un odio che si mimetizza da onestà verso la retorica, verso la pretesa dell’opera d’arte d’incarnare
qualcosa che è rimasto allo stato delle intenzioni senza realizzarsi. Ma dietro a quell’onestà sta in
agguato il rancore verso ciò stesso che si vuole realizzare. ‘Non deve essere’: questo motto su cui si
dispera la musica di Mahler viene malignamente sancito in comandamento. L’insistenza di chi pretende che nella musica non ci sia nulla più di quanto vi esiste di fatto, cela la irrigidita rassegnazione
e il compromesso di un ascoltatore che si dispensa dal lavoro e dalla fatica di intendere il concetto
musicale come un ente in divenire e come un momento di superamento di se stesso. Già ai tempi
del Group des six un antiromanticismo spiritualmente volubile si era vilmente alleato con la sfera
dell’amusement esteriore. Mahler aizza all’ira chi è complice del mondo così com’è ricordando ciò
che costoro devono scacciare fuori da se stessi. Animata dall’insoddisfazione del mondo, la sua arte
non ne segue le leggi, e su questo il mondo intona il suo trionfo» (Th.W. Adorno, Wagner – Mahler,
tr. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino 1978, p. 141). Resta però evidente che Adorno, nella fattispecie, trae ispirazione dal concetto di utopia, il quale assume qui una vaghezza di contorni che ne cela
le aporie fondamentali. Nella sua versione blochiana (che Adorno mutuò fin dall’inizio e nonostante
la notevole distanza fra gli assunti adorniani e blochiani nel campo della prassi politica conservò
sempre come fondamentale punto di riferimento), l’utopia sconta un “difetto” non trascurabile, come preciseremo più avanti: essa, non appena sia in grado di precisare quei troppo vaghi contorni,
finisce spesso col risolversi – specie in Bloch – come una sorta di costruzione autoreferenziale, in cui
l’esito è praticamente già deciso in partenza, e che mal si concilia con il carattere aperto e latamente
“sperimentale”, o meglio “sperimentatore”, dell’opera mahleriana.
2 Com’è noto, per il Cacciari della Krisis (1975), Mahler è l’artista del disincanto, essenzialmente
perché concepirebbe il comporre quale libera produzione di forme che non alludono a nulla di diverso o ulteriore, ad alcun significato riposto, ma giungono a “esprimere” semplicemente mostrandosi.
In Mahler si avrebbe dunque «non la sintesi, non la possibilità o l’utopia del linguaggio onnicomprensivo, ma la decisione fondamentale e perciò l’immagine della crisi», dell’aut-aut, dell’entweder-oder
(come al contrario, notiamo noi, avverrebbe in Wagner). Cfr. M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi
del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1977, p. 114.
3 In svariatissimi luoghi della sua vasta opera, Ernst Bloch evoca Beethoven, e in particolare (co-
2
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so invece si presenta, il segno della realizzazione, nell’incipit della prima sinfonia
mahleriana, incipit la cui struttura è pur indubbiamente e coscientemente pensata
come affine a quella svolta nella quarta beethoveniana: vogliamo sostenere, in altre parole, che mentre il procedimento beethoveniano si fonda sulla circostanza che
l’andamento delle parti tende a valorizzare il singolo suono, tanto che la formazione dei temi par quasi un pretesto indugiante rivolto a tale scopo, il giovane Mahler
della prima sinfonia appare invece intento a un procedere compositivo che si potrebbe identificare quasi come l’esatto inverso; dentro l’inaugurale scorcio della
prima sinfonia (pur anche letteralmente così affine alla beethoveniana in si bemolle maggiore) troviamo piuttosto che l’indugiare tanto prolungato sul singolo suono
(il re unisonicamente mantenuto da legni e archi lungo un numero “indefinito”
di battute) si configura semmai come appoggio ed evidenziazione prospettica dei
successivi passaggi di quarte discendenti dei legni, contrappuntati “narrativamente” dall’irrompere lontano della fanfara, dal disseminarsi delle cadenze pronunciate
dai corni, dallo strisciare progressivo del tema svolto nei registri bassi, dal fiorire
ripetuto della “onomatopea” la-si-fa diesis-si-la, dall’espressivo cristallizzarsi del
passaggio alternato di quinta vuota e di sesta vuota minore, e poi ancora di quinta
vuota, e infine l’accennare sempre più insistito all’intervallo di quarta la-re, che introduce ormai all’articolato e lunghissimo tema («Ging heut’ morgen übers Feld /
Tau noch auf die Gräser hing. . . »)4 : entro un simile contesto non parrebbe dunque sia preso in considerazione quel “fenomeno” che spesso ci è presentato come
utopico per eccellenza dai frettolosi dottrinari dell’utopia, vale a dire il suono supremamente appagante, che delinea con la pregnanza più accentuata il trascolorare
dal mancare all’appagamento (a torto, del resto, si almanacca di un Beethoven che
in certi passi del Fidelio avrebbe attinto a un simile criterio, dato che nello stesso
Beethoven si tende piuttosto a considerare possibilmente ogni singolo suono come
portatore di un rischiaramento particolare).
Qualcuno potrebbe però controbatterci, a questo punto, quanto più articolate e
complesse siano le ambizioni operanti nel concetto di utopia, e come non siano per
nulla riducibili, musicalmente parlando, né al “suono supremamente appagante”
né allo sprigionarsi “wagneriano” di affinità che possiedono la forza di eludere le
antitesi, ma sappiano spingersi piuttosto fino a poter spiegare l’intera arte della
musica con lo spirito stesso dell’utopia.
In siffatto e più ampio contesto – finirà col rilevare chi è puntigliosamente fedele all’enfasi del dettato utopico – anche allo stile mahleriano, così eminentemente
me paradigmatici) quei celebri squilli di tromba che nel Fidelio annunciano l’entrata del governatore
e la liberazione dei prigionieri, volendo rintracciarvi una specie di compendio dell’idea di realizzazione utopica. Vedi soprattutto E. Bloch, Spirito dell’utopia, tr. it. di V. Bartolino e F. Coppellotti,
La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 70 sgg. e passim.
4 Molti cultori sapranno bene che, nella prima sinfonia, il tema principale del primo movimento è
la trasposizione orchestrale del secondo dei Lieder eines fahrenden Gesellen (solitamente “tradotti”
come Canti di un giramondo), Lied che appunto inizia con le parole «Ging heut’ morgen übers Feld, /
Tau noch auf die Gräser hing. . . » [«Me ne andavo stamane per i prati, / Dall’erba ancora pendevano
gocce di rugiada. . . »]. Per un’analisi dettagliata della prima sinfonia, cfr. U. Duse, Gustav Mahler,
Einaudi, Torino 1973, pp. 162 sgg.
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narrativo, anzi proprio in forza di questa sua complessa narratività, calzerebbe gran
bene l’incedere d’un percorso utopico che potremmo così meglio caratterizzare come “itinerario utopico”. Il carattere narrativo, proprio come tale, implicherebbe
dunque anch’esso la possibilità di essere concepito come qualcosa di concernente l’utopia, in quanto il dispiegarsi narrativamente articolato degli eventi musicali
(non importa se sovente imperniati espressivamente in un crinale di abbandono e di
perdizione) dà corpo complessivamente a una epifania dove se non altro i rapporti
tra le cose depongono l’apparenza di un’ovvia manipolabilità e godibilità, trattandosi piuttosto di un tipo di narrazione che si distacca ampiamente dalla tecnica
data e disponibile nonché dal conseguente concetto di “livello” (tecnico), rimanendo semmai fedele all’ambizione propria della musica stessa, che è quella di creare
un mondo a sé, di prospettare – a livello di tensione spirituale – ciò che ancora non
appare, o magari ciò che ancora non esiste.
In altre parole (così almeno vorrebbero i patiti utopisti), questa utopica prospettiva non sussiste certo come vago wishful thinking ma seguirebbe anzi una logica
che alle cose stesse si dimostra interna, e ne promuove le ragioni più intime in
quanto dispiega in un itinerario sinfonico articolato non solo il trascolorare dalla
vicinanza cieca e nociva dell’attimo oscuro all’apertura dell’attimo distanziato e
semiappagato, ma finanche la sua ulteriore mescolanza ineliminabile con le oscure complicazioni del destino avversante, le quali ovviamente non sono riducibili
a semplice pretesto (che “volga le cose al meglio”), in quanto semmai trattengono nella semplice possibilità del canto residuo il prolungato sguardo di addio
dell’attimo utopico nella sua “eternità”.
Ci sia consentito però rivendicare la validità delle analisi e delle obiezioni che
seguono, specie nel caso in cui la posta in gioco fosse quella che assume (o respinge) l’utopia come prospettiva regolativa e costitutiva del giudizio estetico, capace
di determinarne la perspicuità. Pare anzi evidente – qualora insistessimo in questa
prospettiva – la necessità di tratteggiare e criticare con precisione lo specifico evocato dal termine utopia, e anche, con uguale precisione, le pretese di verità in esso
contenute.
Il punto cui dover tributare in questo momento tutte le attenzioni possibili è
dunque, a tale proposito, il seguente. Se l’utopia si presenta come orizzonte di
trasfigurazione rispetto agli uomini, alla natura, alla materia, alle cose in generale
(o all’essere), tale orizzonte – secondo chi sostiene questa prospettiva – non costituirà certo un totalmente altro rispetto ai sunnominati “oggetti” con cui entra in un
rapporto di tensione: al contrario, l’orizzonte stesso nasce dal processo di distanziamento che muove proprio dal nucleo più intimo delle cose, dove l’eccessiva e
nociva vicinanza dell’attimo vissuto a se stesso impone l’esodo verso uno straniamento che nel contempo si configura come interruzione della sofferenza ossessiva
propria dell’oscurità dell’attimo vissuto, come distensione, messa in prospettiva,
ma soprattutto anticipazione del nunc stans, dell’appagamento, dell’adempimento
(Erfüllung). In effetti, sebbene non si possa negare che all’interno del processo
operi una inconfondibile volontà di “essere-altrimenti” da come si è, tanto che da
questa sembra che tutto provenga, nondimeno tale voler essere altrimenti è in rap4
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porto di intima fedeltà col fatto che il passaggio dall’oscurità dell’attimo vissuto al
parziale distanziamento della distensione, o meglio all’anticipazione dell’adempimento/appagamento, è un passaggio dalle caratteristiche squisitamente chiaroscurali, una sorta di trascolorare: non perciò un semplice convertirsi dall’unilaterale
inquietudine in uno stato di ben rigida quiete (che subito ricadrebbe, anzi già è ricaduta, proprio per sua stessa natura, nella nocività di una vicinanza assoluta che
ripropone l’accecamento smanioso), bensì un trascolorare risolutivo simile a quello
che ha luogo in musica, dove ogni subentrare non annulla ma conserva il momento precedente, dove anzi la sintesi finale sembra voler – almeno “fittiziamente”
– far vivere come perfectum ciò che la musica ha prodotto, come accade nel finale della Nona o dell’Ottava, o ancor meglio della Terza. L’importante, a ogni
modo, è ribadire il carattere chiaroscurale, trascolorante, che anima il processo
di adeguamento verso il nunc stans, che anima lo stesso realizzarsi dell’appagamento/adempimento, dove il nunc stans rappresenta il termine trascendente di un
trascolorare più alto, che fonda i processi consimili e tuttavia non costituisce alcun
tipo di “totalmente altro” rispetto a essi o in generale alle cose.
Se “l’utopia” si risolvesse in quanto abbiamo appena specificato, la sua prospettiva ermeneutica potrebbe forse risultare feconda per dischiudere alcuni aspetti
della poetica mahleriana. Possiamo anzi rintracciare un passo – incastonato fra le
altre sezioni, nel primo movimento della settima sinfonia – dove indubbiamente si
configura qualcosa di simile a quanto detto finora a proposito del carattere chiaroscurale. È quel passo in cui tutti i temi, funebri o militarescamente ossessivi,
che avevano aperto il Symphonie-Satz in un crescendo incalzante d’intensività che
trascorre dalla funebre sostenutezza fino ai ritmi spossanti attraversati da squilli
di asprigne trombette militari, – sembrano darsi convegno per così dire “al rallentatore”, in un contesto sospeso, non eccentrico ma per così dire “naturalmente”,
non “forzatamente” trasposto verso il cielo, certo anche solo lievemente sbalzante rispetto al “sentiero di marcia” su cui si procedeva, e tuttavia indubbiamente
plasmato da un trascolorare viola-azzurro interno, che non lo rende dissimile dai
moti che ricongiungono alla trascendenza di un certo ambiguo e ancora lancinante nunc stans, anche se appunto quest’ultimo pare minato dall’ironia di un intimo
“invano”, che potrebbe ricordare anche il paradiso infernale in cui «die schönen
Trompeten blasen»5 .
Il punto veramente dolente subentra però quando ci si accorge che l’utopia
intesa secondo le coordinate blochiane di fatto viola continuamente quella “chiaroscuralità” che solo surrettiziamente si era attribuita, e la costringe sotto schemi
di pensiero che sono già decisi, precostituiti, appiattiti su di una sterile preconcetta apologia della speranza, che prosciuga la ricchezza del carattere “incostruibile”
5 Cfr. la partitura della VII Sinfonia, ed. Eulenburg, London-Mainz-New York-Tokyo-Zürich,
a cura di H.F. Redlich, primo movimento (Langsam-Adagio), a partire dai numeri 32 sgg. (pp. 5975). «Wo die schönen Trompeten blasen» («là dove suonano le trombe soavi») è un verso da un
numero del ciclo di Lieder intitolato Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), verso
in cui si allude al “luogo” ove il soldato potrà incontrare l’amata, cioè sotto terra, ove si stende la sua
casa di erba verde.
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(vale a dire inesauribile, sempre suscettibile di significati trascendenti) che sarebbe
derivato invece da una chiaroscuralità debitamente non “ipotecata”6 .
Bloch si esime dall’indagare, poi, su di una questione particolarmente imprescindibile: se cioè la trasfigurazione che attraversa le cose nel percorso dall’attimo
oscuro al nunc stans presenti un carattere tale da essere fedele alla loro natura, oppure non significhi stravolgimento delle medesime. Forse proprio questo mancato
interrogarsi, nonché l’aprioristica apologia della speranza, possono aver portato,
da parte di Bloch, a quell’incredibile appaesamento politico il cui scandalo ancora
perdura, e attende dagli interpreti un’adeguata comprensione7 .
Ritengo inoltre che sottesa a questo mancato interrogarsi stia la presunzione,
tutta “interpretante”, di poter stabilire in anticipo l’esito del percorso dall’oscuro al
nunc stans, e di fatto vincolarlo a indiscriminate forme di prassi.
La riserva maggiore – tuttavia – va fatta risalire alla questione che segue: l’atteggiamento di chi, come Bloch, vorrebbe accingersi a scoprire le cose oltre la
loro disponibilità mortale, dovrebbe riferirvisi come ad “apparenze” necessarie,
saldamente ancorate alla necessità dell’essere, alla necessità «che non trema», per
dirla con Severino e Parmenide; postulare invece – come fa Bloch – gli enti come
trasfigurati dalla dimensione della possibilità (con esplicito e tematico riferimento
ad Aristotele8 ) –, significa consegnarli all’eventualità del non essere, esporli all’oscillazione fra nulla ed essere9 , ma soprattutto esporli a un tipo di prassi che non
coglie il giusto significato della loro trasfigurabilità, e anziché centrarsi realmente
sul destino immanente alla cosa (per cui la stessa speranza interverrebbe soltanto al fine di anticipare un’identità che è pienezza appagante e quindi trascende la
stessa trascendenza della speranza), finisce per stravolgerne la natura obbedendo
a un genere convenzionale di volontarismo, che grava come un peso passivo sull’articolazione dell’intenzionalità della speranza, divenendo sterile apologia della
speranza stessa10 .
Possiamo ben mettere in rilievo, infine, che il gesto filosofico (che è anche
blochiano) del tener viva la considerazione sull’essere degli enti (quel gesto che
mette cioè in revoca, come vorrebbe fare anche Bloch, la «percezione» nichilistica
della morte intesa come totale annientamento), – tale gesto sarà tanto più «necessario» (conforme a necessità) quanto più ispirato alla ricerca dei legami profondi
di ciascun ente con tutto l’essere (Severino), legami che non sono affatto immediatamente evidenti allo sguardo di chi voglia sondarli essendo, come tutti del re6
Sulla nozione di incostruibilità in Bloch, potrei rimandare all’ultimo capitolo di A. Ferrarese,
Ermeneutica, tempo e modernità nell’opera di Jürgen Habermas, Università di Padova, Facoltà di
Lettere e Filosofia, a.a. 1991-92.
7 Su questo punto, cfr. V. Caysa, P. Caysa, K.D. Eichler, E. Uhl (a cura di), “Hoffnung kann
enttäuscht werden”. Ernst Bloch in Leipzig, Verlag Anton Hain, Frankfurt am Main 1992.
8 Cfr. il primo volume di E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Verlag Suhrkamp, Frankfurt
am Main 1985.
9 Cfr. per questa polemica antiaristotelica, E. Severino, Destino della necessità. Katà tò kreòn,
Adelphi, Milano 1980.
10 Su questo punto, cfr. S. Ganis, Utopia e Stato. Teologia e politica nel pensiero di Ernst Bloch,
Unipress, Padova 1996.
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sto, immerso nell’atmosfera spirituale del nichilismo: al contrario, l’atteggiamento
blochiano che attribuisce a un ultimum portatore d’identità la possibilità di chiarire
quanto “ribolle” nell’oscurità dell’attimo vissuto, – appare di fatto, nella sua realizzazione, nella sua concreta fenomenologia, così vincolato a una percezione ingenuamente sempre fidente della speranza intesa come anticipazione dell’identità,
che alla fine lo stesso Bloch tende a rinchiudersi, a imbozzolarsi dentro un universo praticamente inattaccabile e autosufficiente, anch’esso “libero” e ab-solutus, e
in quanto tale negatore di tutti i legami sussistenti fra gli enti, esattamente come
avviene per le altre ordinarie manifestazioni di ciò che Severino chiama sovente
«isolamento della terra dal destino dell’essere»11 .
Ci rendiamo conto, a questo punto, di quanto sia paradossale il cimentarsi nel
confrontare l’opera di un lirico del contrappunto, qual è Mahler, con atteggiamenti
che invece possiedono la premeditazione riflessivo-tematica che convenzionalmente viene sempre concessa a un filosofo. Ci sembra, comunque, che il vero filosofo
dovrebbe in ogni caso imitare l’artista, vale a dire dovrebbe arrivare a saper rinunciare a tale possibilità di premeditazione: cosa che non sempre riesce a Bloch.
Artista coerente, Mahler non si concede “premeditazioni”. L’intenzione di scuotere il «suo tempo vuoto, debole e scettico», di presentarsi «come un messo venuto
da lontano»12 è in realtà, ben più crucialmente, sempre accompagnata dalla decisa
e meditata negazione della morte, o del completo annientamento che nella morte
viene sofferto dalla convinzione fondamentale della nostra civiltà. Ci proponiamo tuttavia di dimostrare fra le altre cose, proprio in queste pagine, che la ricerca
mahleriana di un superamento della morte differisce in modo sostanziale da quella
che sarà l’ispirazione blochiano-utopica, ispirazione che lo stesso Adorno espressamente condivide e che per noi rimane viziata dalla “premeditazione” di cui sopra,
premeditazione da cui Mahler ci sembra invece esente. Tale ispirazione utopica
sembra rimandare a quella che Bloch definisce l’extraterritorialità dell’attimo rispetto alla morte; vale a dire: dato che l’attimo vissuto è gravido dell’ultimum,
del perfetto nunc stans, ed essendosi questo posto sinora nella storia solo come
non-ancora (qualcosa di ancora mai realizzato essendo tuttavia sempre operante
in modo immanente nell’attimo come anticipazione d’identità), ed essendo altresì
tale ultimum – nel suo compimento “finale” – uguale alla suprema pienezza dell’essere, la cui realtà non si può negare perché quotidianamente opera nello stesso
attimo vissuto –, ne deriverebbe che l’attimo goda di un duplice diritto di extraterritorialità nei confronto della morte: in primo luogo sfuggirebbe a essa in quanto
“non-ancora” sempre operante (che quindi non può mai diventare un “non-più”), in
secondo luogo sconfiggerebbe la morte in quanto si realizzerebbe come il perfetto
nunc stans “finale”13 .
11
Sul carattere avulso, assoluto e autosufficiente del pensiero blochiano, cfr. G.K. Lehmann, “Heimkehr ohne Ankunft, oder das hoffnungsfrohe Weltabenteur: Ernst Bloch”, in Aesthetik der Utopie.
Arthur Schopenhauer, Søren Kierkegaard, Georg Simmel, Max Weber, Ernst Bloch, Verlag Neske,
Stuttgart 1995, pp. 229-273.
12 E. Bloch, Spirito dell’utopia, cit., p. 81.
13 Cfr. su questi argomenti, R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Bibliopolis,
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C’è della “pre-meditazione” in tutto ciò, come già si è notato. Il che vuol dire:
secondo Bloch e in genere secondo “l’utopia”, l’esito dei processi reali è già deciso
in partenza, poiché ciò che conta per Bloch è il prevalere del principio speranza,
prescindendo da ogni eventuale smentita. Quella di Bloch – afferma il già citato
Günther K. Lehmann – è «una fede che non abbisogna, per essere confermata, né
della realtà né di avere in prospettiva una realizzazione delle proprie intenzioni. È
una fede che si nutre del principio. Sembra anzi talvolta che la fede blochiana nella
speranza sia tanto più inattaccabile quanto più insicuri e labili sono i suoi rapporti
con la realtà»14 .
Avremmo buon gioco, del resto, a rilevare fin d’ora quanto lontane siano da
questo tipo d’ispirazione utopica le creazioni mahleriane. Ognuna di esse rappresenta un caso a sé, l’esito di una è sempre smentito dalla creazione successiva,
mentre nessun percorso può considerarsi una “risoluzione” del precedente: ogni
volta la posta in gioco viene riaperta. Quel che più importa osservare, tuttavia,
in vista del nostro assunto, è come l’opera mahleriana sia bensì sotto ogni rispetto
percorsa dall’ansia di scalzare le posizioni che la morte con la sua banale “ovvietà”
detiene saldamente sul campo, però anche come tutto questo accada in modo nettamente diverso, seguendo un’ispirazione che è totalmente diversa da quella propria
dell’utopia. Mahler sembra muoversi semmai come chi abbia coscienza della necessità di uscire dal cono d’ombra proiettato dalla morte sulle convinzioni degli
uomini, e soprattutto intuisca precisamente la necessaria esistenza d’una via che
prospetti altrettanto necessariamente (per così dire, “rigorosamente”, non fideisticamente) l’eternità e l’immortalità delle “cose”, ma di fatto sia cosciente di essere
ancora lontanissimo dal poter individuare tale via15 . Egli tende allora – molto più
onestamente – a un drastico “restringimento” (quale viene chiarissimamente attuato, per esempio, nell’ultimo numero di Das Lied von der Erde, che sarà oggetto
d’analisi), a una radicale rinuncia che però porta con sé l’esigenza d’individuare
quella via, “mostra” con gesto perspicuo tale esigenza.
Nell’arco della produzione mahleriana tale rinuncia “inizia” tuttavia come distacco essenziale dalla “mondanità”, elemento quest’ultimo che irrompe abbondantemente nelle tre sinfonie “mediane” senza canto: quinta, sesta e settima. In particolare, mentre nella quinta e nella sesta il suddetto distacco sembra ancora di là da
venire, nell’ambito della settima esso invece ci sembra perfettamente “consumato”,
Napoli 1982, pp. 89 sgg.; cfr. anche il terzo volume di E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit.
14 Cfr. G.K. Lehmann, op. cit., p. 254 (tr. it. nostra).
15 A questo proposito, ci sembra superfluo precisare come non solo l’attività compositiva di Mahler fosse intensamente coinvolta in questo tipo di problemi (dal punto di vista sia religioso che
filosofico), ma costituisse anzi una sorta di mit Klang Philosophieren, di vero e proprio pensiero fatto di suoni, dove lo stesso problema dell’immortalità viene mediante i suoni fatto oggetto
di meditazione. Su questi temi, cfr. R. Schulz, “‘Ist das nicht auch Unsterblichkeit?’. Mahlers
philosophisch-geistiger Hintergrund”, in R. Ulm, Gustav Mahlers Symphonien. Entstehung, Deutung, Wirkung, Verlag Baerenreiter, Kassel 2002, pp. 262-268. Sulla religiosità nell’opera mahleriana, cfr. C. Floros, Gustav Mahler: Visionär und Despot. Porträt einer Persönlichkeit, Verlag Arche,
Hamburg-Zürich 1998, pp. 200-212.
8
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portato a compimento16 .
Cercheremo così, nel prossimo paragrafo, di analizzare anche in questa prospettiva il già descritto carattere “chiaroscurale” del primo tempo, Langsam-Adagio,
della settima. Dopo di che tematizzeremo, nel terzo paragrafo, direttamente l’intensa ricerca e l’intensa rinuncia realizzate appunto in der Abschied, l’ultimo numero
di Das Lied von der Erde.
2 Settima Sinfonia. Langsam-Adagio. Sehr feierlich. Sehr
breit. La ricerca di una fuoriuscita dalla mondanità e dalla
sua pretesa d’essere ab-soluta
Riprendiamo dunque la nostra analisi del primo movimento della Settima sinfonia.
Dopo che le asperità orchestrali s’erano estenuate secondo l’andamento ritmico della marcia ossessiva, quasi una rincorsa, mediante il ribadimento velocizzato
di quella cadenza che costituisce il secondo tema conduttore di tutto il movimento,
e mentre si ripeteva l’ennesimo richiamo abbreviato e semplificato del primo tema
(in cui il semplice arpeggio di triade eccedente discendente sostituisce, conservandone il ritmo, l’arpeggio originario discendente di terza maggiore e quinta diminuita) –, avviene che si plachi complessivamente all’improvviso quel motus perpetuus
ch’era stata l’orchestra fino al momento menzionato (numero 31, pp. 58-59). Nel
16
A proposito del distacco dalla mondanità (tema così ricorrente in Mahler), riteniamo opportuno
citare qui la traduzione, curata da Attilio Bertolucci, del testo del famoso Lied sulla poesia di Friedrich Rückert Ich bin der Welt abhanden gekommen, l’esempio più esplicito, “l’archetipo” stesso di
tale distacco: «Ormai non mi ha più il mondo, mi ha perduto, / quel mondo dove ho distrutto gran
tempo, / tanto a lungo di me nulla ha saputo, / che credere ben può ch’io mi sia spento! / E penso,
poi: nulla m’importa, in fondo, / se come morto esso mi fa bandire. / E non lo posso neppure smentire, /perché sono davvero morto al mondo. / Io sono morto al mondano frastuono, / sono in pace in
un luogo silenzioso! / Nell’alto del mio cielo vivo solo, / nel mio amore, nel mio canto io riposo»
(traduzione apparsa nella Broschüre dedicata alla settimana musicale in memoriam Gustav Mahler,
Toblach-Dobbiaco 18-24.7.1993, p. 67). Per un’analisi musicale del Lied, cfr. C. Floros, op. cit.,
pp. 117-120. Per quanto riguarda i rapporti di continuità o discontinuità fra la settima sinfonia e le
due precedenti, segnatamente la sesta, così si esprime Ugo Duse: «Chi è stato mandato sulla terra
per copiare la natura e ha preteso poi di soggettivare la musica sino a farla aderire al proprio corpo, al
proprio esitenziale problema, in un gesto che sa di rivolta biblica; costui deve riconoscere le vie dell’espiazione. E l’espiazione deve assumere i caratteri altrettanto irrazionali della colpa. La Settima
infatti non è una riconciliazione di Mahler col mondo del primigenio, col bosco sotto le stelle, coi
fruscii della notte; è il bagno nella proiezione popolaresca della natura, la preghiera per rientrare in
contatto diretto, immediato con essa. La Settima è un grande grido di dolore scaturito dalla necessaria
illusione di riconquistare la perduta innocenza attraverso il ludibrio della più profonda depravazione.
Chi ha potuto lasciarsi deviare dalle luminose costellazioni della semplicità apollinea, fatte d’intricate, complesse, difficili virtù, per battere le vie del proprio dolore, della propria ira, del proprio
sentimento assolutizzato [evidente allusione alla Sesta], deve ora andare fino in fondo senza infingimenti, senza veli, senza mendicare scuse» (U. Duse, op. cit., pp. 279-280). Pressoché nella stessa
direzione va l’interpretazione di G. Zaccaro, Gustav Mahler. Studio per un’interpretazione, Accademia, Milano 1978, pp. 114-121. Nella direzione sostanzialmente opposta (cioè nel rilevamento delle
affinità strutturali fra le tre sinfonie “di mezzo”) sembra invece andare H.F. Redlich, Gustav Mahler’s
Symphony VII, introduzione alla già citata partitura dell’edizione Eulenburg, pp. 3-12.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
numero di tre, le trombe in si bemolle sono protagoniste della “svolta” verso questo
placarsi (numero 32, pp. 59-60), procedendo alternandosi tra loro (col solo “contrappunto” dei primi violini) dapprima scandendo in fortissimo per l’ultima volta la
triade eccedente discendente propria del tema semplificato summenzionato, mantenendo poi il si bemolle in decrescendo lungo un’intera battuta, finché il piano
e il pianissimo caratterizzano (sempre sul si bemolle) le “residuali” riproposizioni della figurazione ritmica funebre con cui s’era aperta la sinfonia (la croma con
punto seguita dalle due biscrome), alternata in pianissimo da terzine di crome col
si bemolle ribattuto, mentre la seconda tromba in si bemolle ricolma di speranzosa
e sospesa “staticità” la stessa figurazione, variandola (si ha così un si bemolle quale
semiminima con doppio punto, seguita dalle due biscrome do-re, il tutto ripetuto –
p. 59).
In questo clima di singolare ma solo parziale tersificazione di linguaggio (una
calma increspata e gravida di attese) viene a riproporsi una variante della breve
cadenza che già costituiva il secondo tema del movimento (esposta da legni e archi prima in senso discendente poi ascendente in visionario pianissimo slentato –
pp. 60-61), da cui si diparte una sorta di articolato e disteso nuovo tema suonato
anch’esso dagli archi e dai legni (pp. 61-63, numero 33, a partire dall’indicazione
di tempo Subito Allegro – Ziemlich ruhig), che però l’udito insiste a non considerare come tema “fondativo” indipendente ma insiste piuttosto a considerare come
un’ambigua derivazione che contiene in sé la logica di entrambi i due precedenti
“temi di sonata”: esso guizza come un’ascendente cantilena cromatica entro l’umido e liquido paesaggio dell’orchestra, infangato ma pieno di umori, fino a esaurirsi
inabissandosi (p. 64, le battute immediatamente precedenti al numero 36). Veloci guizzi di terzine ascendenti rimettono ancora in gioco (sempre nel pianissimo)
l’inquieta motilità che connota tutto il tempo (p. 65), e la contestualizzano entro
questo lucus di tregua incerta ma veramente ispirata.
È appunto a partire da qui che a mano a mano si affacciano quegli episodi a
cui più propriamente il giudizio estetico può attribuire un movente chiaroscurale, vale a dire in cui può cogliere un trascolorare dove la difficoltà con cui vien
posta la domanda si presenta direttamente in prossimità d’una “riuscita”, sia pur
effimera: anche se la natura di tale riuscita – beninteso – pare troppo affezionata
all’ambiguità da cui deriva per poterne non fare un assoluto, e dunque rimanere
orbata di ogni esito. (Intendiamo cioè dire, in altre parole, con quest’ultima grave
riserva, che identificando in se stesso e soltanto in se stesso la fonte della trasfigurazione, il processo di trasformazione musicale tematica rischierebbe di concepirsi
come autopoiesi pura, e dunque come trasformazione avulsa dal destino e autoillusa, segnata dalla follia dell’impossibile, oltre che tentata, per malinteso spirito
di autosufficienza, di tralasciare ogni qualitativa differenziazione interna; non che
Mahler corra qui questo rischio: lo correrebbe però quella concezione estetica che
insistesse nel rimarcare questa assolutezza, come avviene secondo me in Bloch).
Ci ritroviamo così a sorprendere con uno sguardo possibilmente analitico una
delle sequenze più affascinanti e più scarsamente decifrabili di tutta l’opera mahleriana, né possiamo tralasciare di meravigliarci che così poco attragga la curiosità
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
della critica, la quale in questa sinfonia (già nel suo complesso rispetto alle altre
negletta) tende a evidenziare più che altro le due musiche notturne e lo scherzo17 .
Perché allora, ci si chiede, tanto poco risalta nei critici un simile crocevia tematico?
Forse che poco se ne apprezza il carattere insidiosamente indefinito, l’incertezza
dei significati, il suo essere latore d’un risolvimento trasfigurante che al tempo
stesso manifesta innegabilmente i tratti d’una precisa disillusione, del disincanto
rigorosamente disegnato?
All’asperità “interpretativa” corrisponde però una materia musicale relativamente semplice, un andamento facile ad analizzarsi. Dopo che le guizzanti veloci
terzine erano comparse a increspare nuovamente d’inquieta premura il paesaggio
“sospeso” ma gravido e umido di pioggia che prelude a una lontana segreta fioritura, e dopo che nuovamente due trombe in pianissimo (questa volta in fa: numero 37, p. 66) si erano alternate insistendo cautamente sull’arpeggio si bemolle-re
dell’ottava bassa-sol bemolle-si bemolle-sol bemolle-si bemolle-re dell’ottava alta,
e il clarinetto in la imitava suggestivamente “a rovescio” (cioè in senso ascendente)
l’andamento del primo tema –, la tavolozza orchestrale posa infine il suo delicato
pianissimo sui trasformati accordi cadenzali del secondo tema, formulato e armonizzato in maniera “corale” da fagotti, controfagotti, viole, violoncelli e contrabbassi (sempre p. 66, numero 38 – «sehr gehalten»). Dapprima questo breve inciso
tematico viene enunciato come una specie di cadenza (mi bemolle-re-do ribattuto),
che però non corrisponde (come ci si potrebbe aspettare) alla classica cadenza che
sfocerebbe nell’accordo perfetto di do minore partendo dal medesimo accordo in
terza posizione, ma parte appoggiandosi all’accordo perfetto di mi bemolle minore, passando per il quinto grado della stessa tonalità, per poi approdare all’accordo
“dissonante” formato da mi bemolle-sol bemolle-si bemolle-do naturale (in realtà,
si tratta dell’accordo di primo grado con in più la nota sopradominante: un accordo
“bruckneriano”, che ovviamente svolge funzioni ben diverse da quelle che svolgerebbe nello stesso Bruckner). Il moto cadenzale viene poi ripetuto in sol bemolle,
alla distanza di una terza minore, tuttavia con l’accordo finale vuoto, privato della
mediante. Avendo i flauti ribadito in fortissimo il si bemolle di sfondo (finora sempre tenuto dai violini secondi come un ostinato – p. 67), e avendo poi ripetuto per
quattro volte la configurazione ritmica selvaggia e aspra che corrisponde a re bemolle (croma con punto)-mi bemolle-fa (biscrome) in decrescendo fermandosi poi
in pianissimo sul re bemolle per un’intera battuta di quattro quarti (ibid.) –, la cadenza viene infine ripetuta in fa diesis ribadendo anche l’effetto delle quarte-quinte
vuote, con tre fagotti e corni in fa.
L’insistenza su queste semplici movenze cadenzali è l’elemento che poi permette il “fiorire” vero e proprio dell’episodio che stiamo analizzando. In effetti,
l’insistere pone la cadenza stessa in una luce di interrogatività, in un’aura di domanda (o quanto meno di attesa). Quest’ultima viene sottolineata ed enfatizzata dalle
17 Non così però avviene in W. Staehr, “VII. Symphonie in e-moll. Werkbetrachtung. ‘Nachtwandlers Traumlied”’, in R. Ulm, op. cit., pp. 204-211, segnatamente la p. 206, dedicata proprio alla
sequenza che stiamo considerando.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
figurazioni ritmiche del legni, mentre ciò che subentra è uno squarcio visionario (e
anche meditativo) d’intensità incommensurabile (p. 68, numeri 38-39).
Partendo dall’indicazione espressiva «sehr feierlich» (molto solenne, inizio del
numero 39), il corno in fa, debitamente armonizzato dai due corni gemelli (mentre
il tutto è raddoppiato dai tromboni usati in pianissimo con effetto solistico), traccia
una sommessa linea di risposta sulle note (ovviamente in pianissimo) fa diesis-sila diesis-sol diesis (tenuto lungamente)-fa diesis-mi diesis-mi naturale; la fragilissima e tacita tessitura si scioglie però inabissandosi in un “morendo” (attraverso il
mi naturale, nota sopramediante) con l’accordo di settima dominante della tonalità
fondamentale (si maggiore), lasciando lievemente vibrare nell’aria le sue tre note
principali, con un filo soltanto di voce nonostante la “stentoreità” degli strumenti usati: alle trombe in si bemolle il do diesis e il la diesis, ai tromboni (sempre
“costretti” al pianissimo) il mi naturale prolungato.
La risoluzione della domanda (domanda che con l’accordo di settima dominante viene riassunta e riposta) subentra subito, come un sipario che si apre. Non
si dà modulazione alcuna, ma soltanto il più semplice dei passaggi: quello che
procede dalla settima di dominante all’accordo perfetto di tonica (si maggiore), introdotto, proprio come attraverso l’alzarsi di un sipario, dal suggestivo glissando in
fortissimo delle arpe, mentre l’accordo di tonica viene fatto poi vibrare in pianissimo dalla “tavolozza”, cioè da tutta una pienezza di trilli e iridescenze orchestrali
(pp. 68-69). La magia particolare di questo sipario che si apre par contenuta nel
fatto che qui tutto accade nel più semplice, normale dei modi. Lo stacco fra la
domanda e la risposta non viene quasi percepito come tale, quanto piuttosto come
un logico trascolorare: tanto che diventa difficile sottrarsi all’impressione (falsa,
del resto) che una vera differenziazione non si dia. Beninteso: non che l’ascolto
sia portato a tralasciare la specificità di quanto accade; anzi, al contrario: il passo
in questione viene colto come un prolungarsi dell’incommensurabilità dell’attimo
supremamente riuscito, come il “centro” più affascinante del movimento o addirittura dell’intera sinfonia; solo che la materia (pur trasfigurata) profusa in quella
che potremmo definire “risposta” (vale a dire in quelle cinque pagine di musica che
comprendono e seguono il già citato lunghissimo accordo perfetto di si maggiore,
introdotto dalle arpe) compare in una condizione di stretta omogeneità rispetto a
quanto precede. La musica pesca sempre dallo stesso lago. Prima e dopo.
La meravigliosa metamorfosi, dunque, avviene tutta internamente al materiale tematico già noto fin qui nello svolgimento, spesso addirittura presente anche
all’interno delle sezioni da noi testé analizzate. La mancanza di modulazione, proprio nel punto in cui più intenso si fa l’evento, testimonia ulteriormente questo
fatto.
Così stando le cose, a caratterizzare il quadro espressivo non è dunque certo
un qualsivoglia impulso di fuga inteso come volontà d’essere altrimenti, o volontà di potenza come sfrenato esercizio dell’interpretazione che stacca le cose da se
stesse facendole diventare dei segni di qualcos’altro18 ; al contrario, ciò che assor18
Riferendoci a questa tematica, e contrapponendola all’ispirazione blochiana, che secondo noi
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
be l’ascolto è semplicemente un rallentamento, un allentamento della tensione, un
tentativo di precisazione attraverso l’apparire di aspetti o paesaggi trasfigurati all’interno di quel medesimo plesso di temi. D’altro canto, bisogna tener presente
che la costruzione di questo tempo di sinfonia non rende possibile l’irruzione di
momenti “eterogenei”, tali da far pensare all’atto dell’“incontrare” qualcosa che
sopraggiunge, in un clima di discontinuità simile a quello che troviamo soprattutto
nel primo tempo della terza sinfonia, o ancora (sia pur con intenti molto diversi) nel
“commiato” (der Abschied), o nel primo tempo della nona; la struttura sostanzialmente chiusa di questo movimento (non molto meno chiusa del suo “precedente”, il
minaccioso finale della sesta) rappresenta una sorta di controfigura negativa rispetto a quanto è stato detto sull’identità dei temi nella sezione considerata; la visione,
fatta di luttuoso e mobilitato disincanto, che caratterizza complessivamente il movimento, è senza dubbio frutto di una scelta rigorosa e a suo modo necessaria, che
Mahler compie nello sviluppare le aporie che attraversano le tre sinfonie “di mezzo” –, e tuttavia occorre anche dire che tale necessità è il risultato di una rinuncia
forzata, da cui vengono risucchiate “mondanamente” le pur corpose fondatissime
esigenze poste in generale nelle sinfonie legate al Corno magico del fanciullo, in
Urlicht, ma pur anche lo stesso mondo del Wunderhorn propriamente inteso, con
il suo memento circa il fatto che ogni abboccamento è sistematicamente mancato,
che nulla corrisponde a nulla, che anzi sovente (come accadeva già in Das klagende Lied) tutto ciò è il frutto di un delitto ben premeditato, e che quindi sarebbe
necessario ed equanime presentare il conto per tutto ciò, e ribadire il dissidio della
Röschen roth di Urlicht come qualcosa di consono alla necessità dell’essere19 . Sotto un certo riguardo (non si può disconoscerlo) l’atto di rinuncia rappresentato dalle
tre sinfonie senza canto “mediane” (quinta sesta e settima) appare legato anche alla
puntuale consapevolezza di un fallimento, di un’inadeguatezza nel tentativo di formulare qualcosa, di dare voce a un sufficientemente raffinato desiderio di immortalità, tale che possa risultare da una necessità intrinseca dell’evento artistico, colta
“a ragion veduta”: la musica della “vita celeste”, nella quarta sinfonia, decompone
non resta fedele alle cose ma le rende piuttosto altre da quello che sono, ci appoggiamo in particolare
al modo con cui viene trattata in E. Severino, La gloria. Hàssa ouk élpontai: risoluzione di “Destino
della necessità”, Adelphi, Milano 2001, pp. 496-497 e passim.
19 Dal testo del Lied dal titolo Urlicht, testo tratto dal Corno magico del fanciullo e inserito nella
II sinfonia come quarto movimento, emerge nel modo più chiaro quella concezione dell’immortalità
intesa come dono dovuto e “normale”, nonostante gli abissi di miseria fatti trasparire dal movimento
precedente, strutturato sulla falsariga della Predica di sant’Antonio da Padova ai pesci (Des Antonius
von Padua Fischpredigt). Per questo di Urlicht (Luce primigenia) citiamo per esteso la traduzione
di Ugo Duse (con qualche variante), seguita dal testo originale: «O rosellina rossa! / L’uomo giace
nella più grande miseria / Nel più grande dolore! / Potessi piuttosto essere in cielo! / Me ne andavo
per un’ampia strada / E allora venne un piccolo angelo / E non voleva farmi passare. / Ma no, io
non mi lascio mandare indietro! / Io vengo da Dio e a Dio voglio tornare! / Il buon Dio mi darà un
piccolo lume / Che splenderà per me / Fino all’eterna vita beata» [«O Röschen roth! / Der Mensch
liegt in grösster Not! / Der Mensch liegt in grösster Pein! / Je lieber möcht’ ich im Himmel sein. /
Da kam ich auf einen breiten Weg; / Da kam ein Engelein und wollt’ mich abweisen; Ach nein! Ich
liess mich nicht abweisen. / Ich bin von Gott und will wieder zu Gott! / Der liebe Gott wird mir ein
Lichtchen geben, / Wird leuchten mir bis in das ewig selig Leben!»] (U. Duse, op. cit., p. 338).
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
corrosivamente la propria realtà, in quanto fa scivolare sulla superficie della sua apparente soavità, inavvertibilmente, tutto il contrario di quanto potrebbe richiamare
una vita celeste, confermando l’ironico verdetto di chi ancora si sente sfiduciato
circa i propri tentativi, e rinunciando accusa se stesso, stemperandosi nella raffinata autoironia. E tuttavia tale rinuncia – così come viene “consumata” – finisce col
dimostrarsi tale da comportare che il suo orizzonte diventi intrascendibile proprio
fino a cancellare totalmente anche la sola possibilità di rapportarsi a qualcosa che
“dall’esterno” comunichi qualcosa che pur c’è, che pur sussiste. L’isolamento pare
a tal punto accentuato da risultare addirittura “irriflesso”, esattamente come se si
trattasse di un agire che non sa cogliersi come esperire vivente.
Certo, in più di un senso ci sarà lecito rilevare che – nonostante la fedeltà tematica che lo contraddistingue – lo squarcio qui analizzato non si configura come
pura e semplice trasfigurazione del materiale tematico già noto. Il cuore dell’episodio somiglia anzi a un dono che scaturisce da una fonte segreta. Ma il contesto
permane in una chiusura la cui doverosità è poco in grado di spiegare se stessa:
l’atto che pone l’isolamento esaurisce in questo porre tutte le proprie risorse.
Così necessariamente collocata, in un contesto pur così necessario, la sezione
testé analizzata s’immerge in una logica che la pone di fronte a un’alternativa:
o inavvertibilmente sapersi discostare dal carattere insufficientemente “pensato”
che connota il tipo di “chiusura” di cui qui si parla, o rassegnarsi a fungere da
contrafforto utopico all’inamovibile unilateralità di quella chiusura stessa. Occorre
altresì aggiungere che – sebbene Mahler si mantenga qui “plasticamente” fedele al
primo più solido esito dell’alternativa – non altrettanto si può invece attribuire alla
poetica complessiva della sinfonia, non foss’altro per il fatto che dei temi-chiave
del presente movimento vengono poi “ciclicamente” trasposti nel discutibilissimo
“carnevale” tripudiante del finale. Se l’utopicità dovesse prendere il sopravvento,
emergerebbe probabilmente una sorta di «traffico nocivo»20 , di alternarsi basato
sul cattivo infinito, fra l’inabissarsi e il sormontare dell’irruzione “salvifica”.
Senonché, a separare i lembi del sipario non sopravviene qui alcuna irruzione,
bensì – come s’è detto – il più semplice dei momenti. Questo primo tempo della
Settima evidentemente contiene un paradosso: in un contesto variamente votato
alla chiusura unilaterale nel senso su esposto (chiusura cui cercano di mantenersi
coerentemente fedeli la prima musica notturna, lo scherzo e il rondò), parrebbe
accadere che si manifesti una sorta di differente riuscita, la cui coerenza implica
una revoca indiretta del carattere sottinteso e scontato attribuito in questa sinfonia
all’intrascendibilità della chiusura stessa. È come se s’instaurasse una comple20
L’espressione «traffico nocivo» è blochiana, anche se qui viene da noi usata contro Bloch e il
suo pensiero utopico. Con tale espressione, Bloch alluderebbe alla follia provocata dal desiderio
troppo poco distanziato, troppo spasmodico, dell’attimo vissuto nel suo tentativo di uscire dalla
propria oscurità, per seguire le immagini, le visioni utopiche che gli si pongono dinanzi: tale carattere
spasmodico darebbe fallire i tentativi di uscire dall’oscurità, perché collocherebbe ancora gli oggetti
del desiderio a una distanza troppo ravvicinata, facendo fallire tutti i tentativi, e precipitando così
nella più pura follia. L’argomento è trattato con particolare attenzione in L. Boella, Ernst Bloch.
Trame della speranza, Jacka Book, Milano 1987.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
mentarietà tra la fonte segreta che ispira i passaggi da noi descritti, e la compatta
incalzante compiutezza del movimento: una complementarietà tale da proiettare
il movimento stesso verso un esito ancora non pregiudicato, che contiene in sé
l’evento in cui si compongono disincanto e nostalgia, e in cui nostalgia e disincanto giungono a coesistere formando un intreccio coerentemente disilluso ma non
esente da produttive tensioni interne: là dove, al contrario, le due musiche notturne,
unitamente allo scherzo, sembrano destinate a rimanere definitivamente prigioniere
d’una deriva continua e inoltrepassabile
L’avevamo già rilevato. L’apice, il momento più “appariscente” del nostro “interludio”, consiste in una semplice risoluzione verso l’accordo perfetto di tonica
(si maggiore), il subentrare del quale coinvolge in una sorta di “tutti” un ingente numero di parti e di strumenti, come se – unitamente all’indicazione di tempo
«sehr breit» – si dispiegassero i translucidi gravidi colori di un prospetto remoto
piovoso, con lunghissime note che formano un protratto accordo di si maggiore,
affidate in special modo ai legni e segnatamente al tremolo sulla dominante fa diesis, eseguito fin da subito dai flauti normali e dai piccoli flauti, mentre dal canto suo
tutto quell’iridescente tremolio di colori era sfociato dal misterioso e affascinantissimo glissando delle arpe nella battuta subito antecedente: le medesime insistono
poi anch’esse sull’arpeggio perfetto di tonica, e tacciono solo laddove si estende
a quasi tutto il complesso dei legni la superficie increspata di tremolii, prolungata
per un’intera nuova battuta, dove dall’humus della stessa increspatura fiorisce – in
forma di risoluzione – il tema che altrove già era apparso in forma vagamente interrogativa come quarto tema, che ora i primi violini e i piccoli flauto enunciano “all’unisono”, un tema composto da sei crome e una semiminima (fa diesis-re diesismi-fa diesis-sol diesis-la diesis-re diesis mediante “lungo” all’ottava alta) che nel
presente contesto suggerisce un andamento “cadenzale” (pp. 69-70). Mentre infatti
alla sua prima apparizione il tema si poneva come momento di riarticolazione, di
esplorazione, di ricerca di nuove possibilità, ora invece si presenta come suggello
a una fase dall’andamento cadenzale, che a livello tematico assume le sembianze
d’un compendio dell’intero movimento, e nello stesso tempo manifesta la pienezza
dell’episodio qui risolutivo. Quest’ultimo sfocia certamente nella ripresa dell’iniziale ritmo funebre di biscrome; tuttavia il rapporto ch’esso intrattiene con il resto
del movimento è ben lungi dall’essere paragonabile, per esempio, all’andamento che contraddistingue il secondo movimento della quinta, dove l’irruzione delle
fanfare rappresenta non molto più che un moto improvviso ben presto rientrato.
L’episodio in questione, al contrario, assorbe trasfigurandoli tutti i temi ricorrenti nel movimento, mentre forma all’interno del medesimo un’articolazione tutta
particolare, un’apertura che risulterebbe invece affatto impossibile, ad esempio,
dentro le implacabili spirali del movimento che chiude la sesta sinfonia. Nutrendosi dei temi consueti, e riuscendo a trasformare il loro carattere espressivo (che
dal passo ruvido indefinito del Wanderer muta nella visione dai tremolanti colori),
quest’articolazione del movimento riesce infine ad acquistare indipendenza come
parte integrante del movimento stesso, riesce a rispecchiare le altre parti e a farsi
da esse rispecchiare.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Sembrerebbe, alla fine, che l’artista “scelga” di rendere coerente un certo disincanto, essendo però fermamente consapevole che vero disincanto si dà solamente
quando non si rendono assoluti o inoltrepassabili gli esiti dello stesso: un vero disincanto lascia essere la logica la cui caratteristica è quella di trovarsi ben lontana
dal prenderlo alla lettera in modo inflessibile, perché tale disincanto sa bene come
la più grossolana illusione coincida proprio col negare la possibilità stessa dell’illudersi, ma soprattutto perché finisce col percepire come vera effettualità proprio
quello che il linguaggio del nichilismo comune considera come inesistente, come puro nulla. Quanto si affaccia dalle logge frastagliate (cupe ma “lucidamente”
piovose, multicolori) di questa musica, il cui modus apparendi è la riuscita (ma
sempre colma di rassegnazione apparentemente logica), rappresenta qualcosa di
assolutamente reale. Certo non può essere equiparato a una semplice illusione, ma
intrattiene piuttosto col mondo una fitta dialettica, e per qualche momento sa far
sentire la propria voce: almeno quanto basta per togliere alla mondanità quell’aura
di negativa assolutezza che sembrava poter conservare.
Diciamo dunque, a mo’ di chiarimento, che nelle tre sinfonie strumentali mediane Mahler corre persistentemente il rischio di assolutizzare in varia misura
una forma di disincanto suggerita da quello che Adorno chiama spesso «il corso
del mondo» («der Weltlauf»). Sia pure con un segno negativo, la mondanità viene
a suo modo resa un assoluto, e contemplata passivamente. Solo in alcune “congiunzioni” della settima sinfonia quest’assolutizzazione (sia pure negativa) della
mondanità viene in qualche modo elusa parzialmente: da una parte nella strana
dialettica che percorre il primo movimento, ma dall’altra anche dalla consumata
ironia che ispira il penultimo: l’Andante amoroso (ma evitiamo qui di entrare in
una considerazione che complicherebbe troppo il nostro discorso). A ogni modo,
si può ben dire che con la Settima il “muro della mondanità” comincia a presentare
delle gravi incrinature.
Possiamo dunque affermare che nell’ambito della settima sinfonia Mahler effettui un lavoro profondo si scavo in direzione d’un toglimento dell’assolutezza
che altrove a tratti caratterizzava la dimensione della mondanità. Successivamente,
l’andante amoroso rappresenta il momento in cui tale toglimento diviene assoluta
presa di distanza ironica, consumata ironia nei riguardi della mondanità stessa.
3 Der Abschied
Con l’ottava sinfonia, Mahler riprende con estrema determinazione quella ricerca
metafisica su Dio e l’immortalità che già conosciamo dalla seconda e terza sinfonia.
È noto però come la natura di quest’opera, pur in se stessa realizzata e a suo modo
“autosufficiente”, non consenta di considerare placato il pungolo di un messaggio
mortifero che è ben preponderante sia nell’universo mahleriano che nello Zeitgeist.
Perciò giustamente Quirino Principe la definisce «un’opera senza sbocchi». «L’accordo perfetto corona il grande disegno in cui Mahler, sincero ammiratore della
confessione sacramentale cattolica, si ‘confessa’, nel sogno di sussistere perenne16
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
mente, immune da ogni corruzione terrena, in un cielo metafisico. Il disegno è
bello e non finto, ma effimero»21 .
È come se ci si accorgesse che il male giace più in profondità, che la ragione per cui gli adempimenti della terza sinfonia sono destinati alla revoca non è
tanto individuabile nelle vicissitudini di un Weltlauf ove fanno spicco guerre, inganni, seduzioni, falsi trionfi: poiché sotteso a tutti quelli permane semmai un
ostacolo, un avversante che li rende tutti possibili. Per nominare tale avversante –
tuttavia – occorre distanziarsi per un istante (almeno apparentemente) dall’osmosi
doverosamente costante fra l’analisi musicale e l’interpretazione teoretica.
Si può dire che a un certo punto (dopo l’ottava) Mahler sperimenti lo spessore di quest’avversante, che noi (seguendo per un momento Emanuele Severino, e
all’apparenza allontanandoci per qualche istante dal dovere di aderenza letterale
all’opera di cui si parla) possiamo identificare come “la persuasione” (propria di
tutto l’evolversi della civiltà occidentale) che l’accadere della morte debba significare in generale l’annientamento di chi muore, il quale a sua volta viene persuaso
ed è persuaso di venire dal nulla.
Si deve qui, per adesso, partire dalla “ovvia” ma necessaria e precisa constatazione che anche la stessa intenzione “immortale” dell’artista rimane immersa
in questa sorta di persuasione mortale: come “noi tutti”, l’artista ha potuto soltanto concepire “intuitivamente” l’immortalità, anche se la sua intuizione a sua
volta richiedeva che la realtà dell’immortalità stessa venisse costruita muovendo
da un’intima necessaria esigenza dell’opera (non già da una fede, o tanto meno
da un wishful thinking); le apparenze della nientificazione – sovrastate ed esaltate da quella collettiva persuasione che in ultima analisi le fonda – sono troppo
schiaccianti per cedere a una tipo di smentita che per forza di cose si rivela impari
e inadeguata, marcata dalla propria “sprovvedutezza”; inoltre, probabilmente qui
ha luogo una circostanza particolarmente insidiosa: che cioè proprio l’arte (che
Proust, per esempio, in maniera surrettizia identifica tout court con la “salvezza”)
appunto per questa sua presunta salvificità costituisca in realtà un mezzo potente di separazione, di isolamento tipico del mortale, di approntamento di un terreno
sicuro dal destino; interviene però in Mahler un fenomeno che lo allontana da un’eventualità simile: ogni “stile” che inaugura nell’imboccare una nuova strada non
s’impone mai come un raggiungimento sicuro, ma è specificamente contraddistinto dalla insicurezza nella percezione di sé, così come il procedere diatonico che
caratterizza l’ottava sinfonia fa costantemente riferimento ai passaggi “cromatici”
che ne compiono il senso (ricordiamo la successione intervallare di sesta minore,
I-VI grado, e di quinta diminuita, V-II grado, che increspano quasi “cromaticamente” il diatonismo a cui danno slancio). Altro splendido esempio è il “diatonismo”
di Von der Schönheit nel Canto della terra, che viene così graziosamente incrinato
proprio all’incipit della linea melodica del contralto, che nella tonalità di sol maggiore attacca con un si bemolle anziché con un si naturale, evidenziando così la
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Q. Principe, Mahler. La musica tra Eros e Thanatos, Bompiani, Milano 2002, p. 789.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
grande fragilità e delicatezza di un simile diatonismo22 .
Mahler comunque si orienta verso un tipo di sensibilità che – lungi dal prestare
orecchio alla rumorosa tendenziosità che è propria del “carattere mortale”, potremmo dire della mondanità – proprio in virtù dell’incertezza e del delicato senso
dello svanire che caratterizzano gli stili mahleriani, individua – sia pure del tutto
imperfettamente – una logica possibile, intravede oscuramente una concatenazione, un proliferare di enti possibili e proprio perciò necessari, che – diciamo noi
– un legame fondamentale originario presuppone immortali, perché il dispiegarsi dell’essere implica anche “l’oltrepassamento” dell’oblio in cui cadono i viventi
scomparendo23 .
Certo, tutto questo è ben lungi dal comparire pienamente. Si rilevi tuttavia
quanto segue.
Prendendo in considerazione der Abschied (raggiungimento fra i più pieni e
peculiari, fra i più “sereni” e “sicuri” dal punto di vista compositivo), viene anche
troppo facile notare fino a qual misura tutti i componenti e gli sviluppi della trama
poetico-musicale siano intrinsecamente legati, “destinati”, pronti a convergere verso un’immensamente iterata cadenza discensionale. Verso un tramonto, insomma.
Ed è proprio agli esseri che tramontano che Mahler vorrebbe donare l’immortalità.
Così ad esempio accade – per la prima volta nella sua esplicita compiutezza,
sia pure per adesso solamente abbozzata – alla fine del numero 6 (battute 48-53,
pp. 116-117 dell’edizione citata), quando alla battuta n. 49 l’accordo “d’appoggio”
fa-la (bequadro)-mi bemolle-sol (accordo “sostenuto” dai fagotti) viene per così
dire “inserito”, a far risaltare armonicamente lo scivolare all’unisono ascensionale
ma soprattutto discendente di flauto e violini primi, impegnati strenuamente nell’ennesima incursione di semicrome che ascendono di una quinta diminuita, ridiscendono cromaticamente, saltano di nuovo verso l’alto d’una sesta maggiore per
poi di nuovo ridiscendere, – costituendo l’ormai ricorrente sviluppo della figurazione di sei biscrome o semicrome (in questo caso, re-do-si bequadro-do-fa-do,
nei registri alti), che sin dall’inizio costituisce la risposta al famoso “gruppetto”
iniziale di biscrome, che insieme col do basso ripetuto apre mestamente il “com22 Per Das Lied von der Erde facciamo riferimento alla riduzione per canto e pianoforte presente in
G. Mahler, Three Song Cycles in Vocal Score. Songs of a Wayfarer, Kindertotenlieder and “Das Lied
von der Erde”, Dover Publications, New York 1991, p. 91, battuta n. 6.
23 Toccando questo argomenti, ci riferiamo soprattutto agli ultimi due capitoli della già citata Gloria di Severino. Sarebbe tuttavia troppo difficile, data la complessità dell’opera, seguirne in questo
contesto puntualmente l’argomentazione. Basti qui dire che Severino parte dalla considerazione circa «l’oltrepassabilità» degli enti che sono subentrati nell’apparire (la cui visibilità è cioè intervenuta
in un certo punto nel tempo), per dimostrare che sarebbe contraddittorio supporre un non ritorno (sia
pure in forma che per semplificare chiamerei “trasfigurata”) di tali enti, perché in tal caso qualcosa
di oltrepassabile (qual è la loro stessa oltrepassabilità) diverrebbe una sorta di dimensione inoltrepassabile, il che secondo Severino non può essere. In questo modo, Severino arriverebbe – attraverso
una serie complicatissima di passaggi, non sempre perspicuamente espressi – a prospettare una specie di eternità degli enti, attribuendo caratteristiche “parmenidee” a ogni singolo ente. Non occorre
aggiungere che una simile “esposizione” (quella che ho fatto or ora) non è che una superficialissima
“infarinatura”. Una più stretta argomentazione ci porterebbe del resto troppo lontano.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
miato”: tutto ciò sfocia in una cadenza discendente che coinvolge dei delicati colori
orchestrali.
Anche tutto il precedente andamento delle figurazioni in semicrome e biscrome rievoca come un’unica irresistibile cadenza discendente, che alla battuta 26
(nel numero 3) – dopo un indugiare ritmicamente assai complicato – si realizza
terminando con due gruppi di biscrome discendenti verso il lungo la bemolle munito di corona, con l’indicazione “morendo”; in questo punto, però, solamente il
flauto è protagonista di questo episodio così “svanente”, salvo il do, tenuto sempre
lunghissimo dai bassi più profondi.
Se invece torniamo a considerare le battute 48-53, a impressionarci sarà proprio
la circostanza che lo svanire vien qui fatto proprio dal respiro stesso dell’orchestra:
una profonda orchestra di tipo cameristico. Il già citato accordo che la coinvolge,
fa-la-mi bemolle-sol, irrompe quando il flauto ha già quasi ribadito per l’ennesima
volta i gruppetti di note inaugurali, contrappuntato dai controfagotti che lo anticipano nel suo imminente discendere. Accade ordunque che un flauto infaticabilmente compulsato ribadisca l’ennesima “risposta” al gruppo inaugurale originario
delle quattro note brevi più una tenuta (le semicrome, o biscrome, do-re-do-si, più
la semiminima – lunga – do), ma questa volta (che non è del resto nemmeno la
prima) la sequenza della cosiddetta risposta è lievemente variata: non già re-dosi bequadro-do-sol-do-re, bensì re-do-si bequadro-do-fa-do-la naturale. L’accento
posto su quest’ultimo la naturale rappresenta (forse assieme con la quinta vuota dofa-do) ciò che consente all’orchestra di subentrare, impadronendosi della cadenza
discendente, e conferendo a essa uno spessore e un respiro profondi e pensosi, come il vento serotino che soffia fra gli abeti immersi nell’oscurità del crepuscolo.
Il menzionato accordo viene tenuto insistentemente per lo spazio di tre quarti (ancora nella battuta n. 49), mentre nei registri alti un flauto continua a formulare –
con salti verso l’acuto e ridiscese cromatiche – le sue quartine di semicrome. Alla
sua ultima quartina discendente (re-do-la bemolle-do), fa da riscontro lievemente
corrusco un accordo maggiore perfetto qual è la bemolle-do-mi bemolle, appunto
nell’ultimo quarto della battuta; ma non è che un’effimera oscillazione: subito nel
registro alto dall’ultima nota (do) dell’ultima quartina si sale – nella battuta 50 –
verso un fa che viene fatto durare quattro quarti; l’armonia vien fatta gravitare intorno alla tonalità, qui così “oscura”, di fa minore, mentre l’imminenza del serale
crepuscolo viene ancor più rafforzata dal discendente “strisciare” dei violoncelli,
che parte dal re naturale (che in questo registro occupa il primo quarto della battuta), per poi scendere al re bemolle tenuto per ben due quarti (un sincopato che rende
particolarmente il senso dello svanire), al do di un quarto che termina la battuta,
e seguire con l’intera battuta successiva (n. 51), dove il discendere per semitoni
è sfumato ritmicamente in una “immensa” terzina di note di due quarti ciascuna
(si-si bemolle-la naturale), mentre le voci residue dell’orchestra mantengono il fa e
il si bemolle con una regolare durata di quattro quarti: una singolare difficile combinazione di ritmi differenti, che allarga e sospende – rallentandolo – quel senso
dello svanire, mentre quando alle ultime battute (52-53) della “cadenza” i colori si
poseranno sull’accordo di fa minore, questo assumerà più le caratteristiche di una
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
domanda e di un’attesa piuttosto che quelle di stasi e riposo.
Qualunque ascoltatore, se non è del tutto distratto, si accorgerà ben presto come quella or ora descritta sia soltanto la prima (o forse la seconda, ricordando il
flauto-solo alla battuta 26: ma un vero e proprio computo è difficile) di una serie
di cadenze discendenti che ricorrono e si susseguono in modo lieve ma incalzante
lungo quasi tutto (in realtà tutto, con la sottile differenziazione rappresentata dalla
semplificazione finale) lo sviluppo del movimento. Non solo: si può dire, anzi, che
tutta la condotta dei registri superiori (specie quella del flauto) sia costellata di scivolamenti cromatici discendenti, dei quali le cadenze risultano essere più che altro
i provvisori “precipitati” finali. Il refrain che per la prima volta si espone con esplicita evidenza e completezza alla battuta 28, e che poi dalla sezione 41 e seguenti si
svilupperà in una straziante nenia funebre senza canto, affidata alla sola orchestra,
è una semplicissima cellula tematica in cui alla ripetizione di tre crome fa seguito
il movimento discendente per semitono con trillo sulla prima nota e pausa di un
sedicesimo dopo la seconda, dove quest’ultima figurazione viene ripetuta due volte (i clarinetti bassi ripetono un la bemolle di tre crome, poi trillo e sol semicroma
con pausa, e poi ancora trillo e sol semicroma con pausa): qui il moto discendente
viene presentato nel modo più semplice, così come semplice, anzi ulteriormente
semplificato (ma con intendimento quanto mai diverso) sarà il moto discendente
alla fine. Per completare il quadro, basti dire che il refrain discendente per semitono si era già presentato (in forma meno esplicita e molto più semplificata, fungendo
praticamente da controcanto) sin dalle primissime battute, e che intrecciandosi coi
gruppetti di biscrome o semicrome suonati da flauto e oboe aveva di fatto dato luogo – letteralmente – alla formazione stessa del movimento che stiamo esaminando
(per inciso, valga qui anche ricordare come verso la fine, circa in corrispondenza
del numero 53 e seguenti il famoso refrain nelle sue riconoscibili sembianze scompaia, più o meno gradualmente, per lasciar posto alla lunga risoluzione con la quale
si conclude il Canto della terra, in una regione ormai lontanissima dall’ingrata fortuna che regola il disciplinato caos mondano, e che ancora connota i numeri 51-52,
dove non casualmente il suddetto refrain ancora domina).
Ciò a cui assistiamo nei primi venti numeri del movimento, fino alle battute 148-150 (in corrispondenza delle parole «die Welt schläft ein», intonate nel consueto intervallo di terza minore ascendente) –, raccoglie in sé le diverse immagini
di una natura che dilegua e impallidendo si addormenta. Sarà proprio questa natura impallidita nel sonno del crepuscolo a costituire poi “l’inadeguato” ma irresistibile richiamo di una logica d’immortalità, apparentemente affidata soltanto al
ciclo eternamente ripetuto e sempre ricorrente del rifiorire terrestre (che nel primo
e nel quinto Lied appare invece decisamente come assurdo e privo di senso), in
realtà scaturita da una preoccupazione “metafisica”, dalla ricerca frustrata, eppure mantenuta sempre, della possibilità di attribuire un carattere immortale proprio
all’esistenza dileguante, caratterizzata dalla consapevolezza del proprio tramonto.
Riferendoci all’itinerario complessivo della poetica mahleriana, ciò sta a significare che in un certo senso Mahler non si sente appagato dai raggiungimenti –
ad esempio – dell’Ottava, non potendo restare saldo in una prospettiva che secondo
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
alcuni è in Mahler addirittura quasi priva di conseguenze, compiuta sì ma priva di
sbocchi. Diremo invece, con più circospezione, che lo spirito religioso connotante
l’opera mahleriana pone l’accento – sia nella terza sinfonia che nell’ottava – più
sul pathos del legame universale inteso come amore che sulla salda fede “bruckneriana” in un Dio che infonde un’incrollabile certezza: l’amore, il “legame” in
quanto tale, in questo contesto mantiene saldamente la funzione di soggetto, anche
se la presenza di Dio rimane anch’essa, sempre, come personificazione dell’amore
stesso, potentemente confusa con esso. Mahler ci aveva del resto abituati a considerare attentamente quel risvolto della religiosità che reca l’impronta dell’accusa,
dell’autorivendicazione d’innocenza, di pretesa d’esistenza, in un senso che ricorda
fra l’altro anche i salmi davidici; Urlicht, l’ormai famosissimo canto del Wunderhorn inserito nella seconda sinfonia, è l’esempio più chiaro, la rivelazione più
illuminante in proposito: avviene cioè qui che il più dimesso, il più evanescente, il
più creaturale rivendichi per sé un’immortalità, come cosa semplicemente dovuta.
In questo “luogo” però, nel Canto della terra, tutto avviene come se il Mahler
“metafisico” e intensamente religioso delle sinfonie “cantate” trovasse un preciso
termine di confronto e di rettifica nel Mahler appunto “terrestre” , quel Mahler che
aveva già solcato – nel Wunderhorn – i sentieri ove l’amaro disincanto e il sarcasmo
individuano l’andamento à rebours, il procedere a rovescio, il funzionamento assurdo, l’errore sistematico che formano il carattere del mondo, lo sviamento forse
necessario ma sempre increscioso d’una mondanità cui si attaglia fra l’altro anche
il rilievo goethiano che suona: «L’umanità reclama uomini superiori, ma poi non
riesce a sopportarne l’esistenza, e preferisce i mediocri»24 . Tale carattere insalubre
della mondanità si manifesta più marcatamente ancora, quando ci s’inoltri a considerare quelle condizioni umane ove al misconoscimento si accompagni anche il
restringimento, la coazione, la privazione; il sarcasmo allora invoca per sé – dalle
mura del carcere – una sorta di apoteosi: «die Gedanken sind frei» – «i pensieri
sono liberi», dice intonando un sarcastico vocalizzo sull’accordo maggiore perfetto25 punto cruciale, poi, è soprattutto questo: fedele alla pertinace assurdità d’un
24
Citato in Q. Principe, op. cit., p. 681. Quirino Principe imposta tutta la sua immensa monografia appunto sulla differenziazione, che in lui diventa contrapposizione, fra l’aspetto terrestre e quello
metafisico dell’arte mahleriana, stigmatizzando il fatto che Mahler abbia ritenuto di dover abbandonare quell’ispirazione tutta terrestre che era in Des Knaben Wunderhorn, e che solo parzialmente
viene ripresa in Das Lied von der Erde. «Mahler – dice Principe – si stacca rapidamente dal mondo
originario dei Lieder e si dedica con immane sforzo alla sinfonia per rappresentare una storia di cui
essere l’eroe. È questa, certo, la decisiva trasformazione del Mahler terrestre nel Mahler metafisico.
Ma dobbiamo ammirare di più il secondo? La grande scelta e la grande deviazione si compiono nel
momento cruciale di un grande gesto. Ciò che avviene è il rovescio della favola platonica. Fuori, alle
luce del sole, sono vive e visibili le figure della persistenza indifferenti alla storia, care al musicista
terrestre: il mondo del fahrender Geselle e del Wunderhorn. Mahler, attratto dalla caverna, proietta
quelle figure sulla grande parete di fondo. Appaiono altre figure, dai contorni smisurati: un costruito
mondo di eroi in marcia, montagne altissime, uno spazio sidereo. È una ricerca di grandezza che
non si dirige verso il cielo, ma verso un interno. Il musicista metafisico non sale ma sprofonda: non
nell’io, non nella psiche, debolezza da cui Mahler fu sempre immune, ma in un antro vastissimo la
cui apertura, da cui filtra la luce che proietta le immagini, si chiude lentamente» (ibid., pp. 839-840).
25 Alludiamo al Lied da Des Knaben Wunderhorn, intitolato Lied des Verfolgten im Turm (Canto
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
ordinamento fondato sulla schiavitù volontaria che gli uomini s’impongono vicendevolmente come legge, il mondo appare come un complicato intrecciarsi di false
abitudini, che tuttavia possiedono una singolare caratteristica: esse “per antonomasia” non tramontano, anzi pretendono di poter non tramontare mai; viene così
a cementarsi un complesso di potenze mondane irresistibili, una falsa eternità in
cui l’immortalità stessa viene disegnata sulla silhouette della morte stessa, sempre
ossequiata – quest’ultima – dallo zelo di coloro che omaggiano quella “tradizione”
intramontabile che Mahler chiamava Schlendrian.
Il “personaggio” che nell’ultimo Lied vaga per le montagne aspettando silenziosamente l’ora più propria, cercando pace per il cuore solitario limitando il proprio vagare ai soli luoghi più elettivi e familiari26 , descrive in primo luogo il manifestarsi delle creature della terra e della terra stessa nell’atto in cui questa e quelle
si apprestano a raggiungere la quiete, il sollievo del riposo profondo, quindi a declinare nel tramonto, e ad anticipare – in un certo qual senso – il destino che le
vede oltrepassabili.
È proprio a simili rivelazioni che la musica vuol attribuire l’eternità, non contraddetta ma semmai anzi suggerita e ispirata proprio dall’indole “cagionevole”,
non sicura del permanente appoggio mondano che introduce una falsa eternità,
delle cose che popolano l’amata terra, la «Heimat, die liebe Erde». Non alludo
semplicemente all’“ewig” che viene più volte iterato alla fine, bensì al fatto – forse unico ma comunque rarissimo nello stesso Mahler, nonché poco reperibile in
generale nella storia della musica precedente, unico a ogni modo nel contesto di
Das Lied von der Erde – che nell’ultima parte di Der Abschied avviene quel miracolo straordinario per cui la musica orchestrale trascolora tutta (ma naturalmente senza la benché minima soluzione di continuità) verso un materiale tematico
che era bensì presente anche in precedenza (specialmente nella linea del canto),
e tuttavia riesce in effetti diverso, completamente diverso, rispetto alla struttura
orchestrale tematica presente all’inizio. (Ci è già capitato, del resto, d’imbatterci
nell’ovvia constatazione che a partire dal numero 57 sia i gruppetti di semicromebiscrome, sia le vistose cadenze discendenti, sia il funebre refrain scompaiono del
tutto, per lasciar posto a una lunghissima “risoluzione”, la quale trasfigura e porta
a compimento ma nello stesso tempo apre l’accesso a una dimensione differente
rispetto al decorso precedente).
Non occorre del resto specificare che non si tratta certamente di una semplice
“coda”. La coincidenza fra unità stilistica e distinzione del materiale tematico ci
suggerisce piuttosto che quanto viene manifestato dall’inizio del movimento fino
all’accumularsi di tensione corrispondente e successivo alle parole «still ist mein
Herz, und harret seiner Stunde», seguite dalla famosa scala che partendo dal sol
sale al la bemolle per poi svilupparsi per gradi interi fino al lunghissimo mi naturale
del prigioniero nella torre), riprodotto e tradotto in Q. Principe, op. cit., pp. 926-929.
26 Tale personaggio rammenta un’esperienza ancestrale dello stesso Mahler bambino, quando il
padre lo abbandonò solo in mezzo al bosco dicendogli, con una specie di scherzo, di aspettarlo.
Il bambino non si mosse da quel luogo fino a quando moltissime ore dopo, il padre, preoccupato,
tornò per rintracciarlo (cfr. C. Floros, op. cit., pp. 41-43).
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
(mediante e punto di sospensione d’un’immensa cadenza in do maggiore) –, sia da
quanto segue sino alla fine a un tempo stesso conservato e trasfigurato.
L’andamento di tale trasformazione (parola che si rivela inadeguata in questo
caso, in quanto la materia musicale diviene differente senza quasi divenirlo effettivamente, al punto che subentra il bisogno di esplicitare “teoricamente” la trasformazione stessa) si presenta in realtà secondo una forma molto più complessa
rispetto a quanto siamo riusciti sin qui a descrivere. Cerchiamo dunque di seguire
passo passo le vicende di questo sviluppo, prese complessivamente, tornando alle
movenze iniziali di Der Abschied.
Abbiamo così un incipit espositivo, che oltre agli elementi generativi “fondamentali” rappresentati dalle cellule tematiche di cui sopra, dà luogo mediante
il canto all’epifania della sera che sale con le sue fresche ombre mentre dietro le
montagne il sole scompare; l’intervento del canto stesso trasforma poi, e trasfigura,
quella cellula tematica che si presentava nella forma di croma ribattuta discendente
di un semitono o di un tono verso la semicroma seguita da pausa, e così facendo
induce l’orchestra a svilupparla “proseguendola” in una berceuse dall’andamento
arioso e genialmente “semplice”, che per converso accompagna la luna oscillante
come barca d’argento. L’animo è attento infine alla brezza serale spirante fra gli
antichi abeti: una scena lievemente accennata, che anticipa e riassume le successive epifanie in cui le creature della terra scendono in un letargo che oscilla fra il
morire e il ri-costituirsi. Abbiamo del resto già dettagliatamente analizzato l’ampia
cadenza discendente che “corona” tale scena, quando l’orchestra, e in particolare i
violoncelli, subentrano ai recitativi del flauto con le battute 49-53.
Possiamo adesso individuare le “ricorrenze” che contraddistinguono questa
parte del movimento. Segnatamente, osserviamo dei “fenomeni” che si ripetono,
sia pur con vistose variazioni, per tre volte.
Una prima volta, in corrispondenza delle battute 54 e seguenti, subito dopo la
cadenza di cui sopra. All’arpa che con umile semplicità ma notevoli asperità di
tipo ritmico espone ripetutamente in successione l’intervallo do-la di terza minore,
risponde alla battuta 56 l’oboe, col “solito” gruppetto di biscrome però appoggiato sul fa e dal “modo” indefinito, cui subentrano – sempre da parte dell’oboe –
variazioni che ancora non si erano udite prima, dal carattere mesto ma incerto,
estremamente fluido e terso, comodo e “disteso” («sehr mässig» – «molto moderato», p. 117). L’intrecciarsi fra l’arpa e l’oboe prosegue fino alle battute 69-70
(p. 118), quando all’oboe subentrano in successione canto e flauto, permanendo
però sempre il “cullare” dell’arpa sulla terza minore in forma di “ostinato”. Questa
variazione dolcemente oscillante nonché ritmicamente accidentata si ripresenterà
poi per una seconda volta (battute 97-110), per una terza in forma semplificata (battuta 137 sgg.), e infine – però più avanti nello sviluppo del movimento – per una
quarta volta (vedi numeri 55-56); le prime tre riprese sono comunque fra loro “contigue”, estremamente ravvicinate: una segue l’altra, sia pure nel modo singolare
che specificheremo.
Ciò che però più interessa rilevare sarà piuttosto come tali “variazioni” (essenzialmente germinate dal gruppetto di note introduttivo-inaugurale di tutto il mo23
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
vimento) diano luogo nella linea del canto all’espressione di una melodia d’una
confidenziale nitidezza, che nella “prima esposizione” (battute 69-75) ricalca con
le parole l’apparire del ruscello che rumoreggia mormorando avvolto nell’oscurità; la stessa melodia, con qualche minima variante, si ripeterà alle battute 101 e
seguenti, con le parole «die Erde atmet voll von Ruh und Schlaf» («respira la terra
riposando e dormendo»); in forma diversa, non letteralmente riconoscibile, semplificata, ristretta, quasi una risposta a distanza o una sorta di “coda” impropria,
alle battute 138-143, dove alle parole «die Vögel hocken still in ihren Zweigen»
corrisponde una semplice scala prima ascendente poi discendente. Come ancor più
degno di considerazione s’impone poi quanto segue: che cioè ognuna di queste tre
espressioni del canto (sempre accompagnate e precedute dagli ostinati dell’arpa e
dai recitativi dei legni) fa subentrare poi una sorta di arioso breve riaccendersi della
vitalità terrestre, ben presto rientrato dopo l’esplodere e il repentino ma indugiante
consumarsi delle cadenze che concludono i rispettivi episodi (vedi, in proposito, le
battute 80-94, poi ancora le battute 111-133, cui è in parte applicabile quanto detto,
e infine le battute 138-148, in forma abbreviata). Nel primo episodio, ad esempio,
l’immagine dei fiori che impallidiscono «im Dämmerschein» – «nell’imbrunire»,
è subito seguita dall’irruzione d’una pienezza orchestrale, con un mosso arioso e
“luminoso” accordo di quarte sovrapposte (la-re-sol), introdotto in forte-sforzato
da un ampio arpeggio in forma di appoggiatura (battuta n. 80); tale squarcio di rabbrividente vitalità prosegue in un formidabile slancio degli archi, che partendo dal
la situato una sesta sopra il do centrale, e appoggiandosi all’intervallo ascendente
di quarta la-re, attraverso il mi sale al sol traducendo melodicamente la dinamica
armonia dell’accordo per quarte, per poi scendere in scala fino al si bemolle, ma
saltando subito sino al la più alto evidenziando ancora l’intervallo di quarta discendente la-mi, poi ancora l’intervallo di quarta sol-re, seguito ancora da la-mi, che dà
slancio alla scala ascendente in terzine di semiminime (battute 84-85), mentre le
zone profonde dell’orchestra insistono anch’esse nel rimarcare il fascino sospeso
delle quarte; tutto ciò reca alla musica un moto ascensionale, uno slancio vitale che
– partendo coi violini alla battuta 86 dall’evidenziazione della terzina di semiminime re-do-si seguita dal la lungo ancora più evidenziato e tenuto anch’esso come
in sospeso – la fa inoltrare con salti notevoli di settima minore verso un’ancor più
dinamica sospensione che sfocia in una cadenza che concentra in sé – mediante
il fitto contrappunto dei corni nella parte profonda dell’orchestra – una specie di
variazione continua in brevissimo spazio (battute 91-92, p. 119): una meravigliosa
complessità polifonica, la cui sospensione viene drammaticamente risolta da una
sorta di profondo glissando ascendente coronato dal doloroso accordo di settima
maggiore (do-mi bemolle-sol-si, alla battuta 94), ridiscendendo infine (battute 9599) alla semplicità della cellula intervallare ribadita dall’arpa (il sempre ricorrente
intervallo di terza minore la-do-la, con cui già s’inizia il “secondo episodio”).
Voler sviluppare anche per gli altri episodi in questione un’analisi simile a
quella toccata al primo ci porterebbe troppo lontano. Quanto avviene in quelli che
abbiamo definito “episodi” ci pare comunque riassumibile, nella sua essenzialità,
tentando di cogliere la funzione degli stessi all’interno dell’economia complessiva
24
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
di Der Abschied.
Non ci pare azzardato, a questo proposito, sostenere che in tali episodi si affaccino per la prima volta – in una forma tempestosa e “contrappuntata” dalle cadenze
inabissantesi – gli elementi espressivi che di lì a poco si troveranno situati nel contesto più definito e preciso in cui la “voce narrante”, il canto, diviene la voce di chi
ha già maturato esplicitamente la decisione del distacco dal mondo, di chi ha eletto
«die liebe Erde» come dimora eterna di tutti gli esseri che tramontano.
Può sembrare naturalmente che tutto questo voglia esprimere nel modo più secco e unilaterale una Todessehnsucht dal carattere “wagneriano” (più però secondo
la “lettera” dello stesso Wagner che secondo lo spirito riposto che lo connota). Conoscendo tuttavia la complessità del percorso mahleriano, i pur difficili ma reali
rapporti sussistenti fra il Mahler terrestre e quello metafisico, l’assidua continua
preoccupazione con cui Mahler riflette anche a livello creaturale sulla dimensione
dell’immortalità, ma soprattutto considerando il fatto che proprio la struttura tematica del movimento in questione rimarca l’alterità totale dell’amata terra rispetto
alla mondanità e nello stesso tempo esalta la vita delle creature che tramontano,
– considerando tutto questo diverrà d’altronde possibile ipotizzare che dietro la
fatica profusa nell’articolare la partitura qui esaminata vi sia anche il tentativo –
certo “debole”, per forza di cose, nonché gravato da un forte spirito di rinuncia e
disincanto, e infine “ipotecato” dal fatto che almeno apparentemente ben poche sono le sue conseguenze nelle “residue” opere future – di attribuire a tale totalmente
altro una specie particolare d’immortalità: un’immortalità diversa da quella tradizionalmente intesa (legata com’è quest’ultima all’immagine, peraltro segretamente
mondana, di una potenza irresistibile e inattaccabile), un’immortalità propria delle
cose che tramontano.
Dopo i tre suddetti episodi e la “cadenza” rapidissimamente digradante in
glissando che chiude l’ultimo di questi (battute 144-146, p. 122), dopo le parole «die Welt schläft ein» intonate sul consueto intervallo minore di terza re-fa,
re-fa (battute 146-148), e la corona che le conclude, il fagotto partendo dal re
“centrale” accenna il “recitativo” in semicrome altrove tante volte formulato soprattutto da flauto e oboe (mi-re-do diesis-re-sol diesis “basso”-fa “alto”-mi-mi
bemolle. . . ), completando il tutto in un ennesimo discendere quasi tutto per semitoni e sfociando nel profondissimo accordo lungo la-do dei corni (battute 150-151,
p. 123); questo “moto residuo” finisce brevemente in un estenuarsi della musica
stessa (battute 154-156), dove il clarinetto basso ripete il gruppetto inaugurale di
quattro biscrome più croma e semiminima (mi-fa-mi-re-mi lungo).
Ciò che però più conta rilevare, a questo punto, è che sulla linea del canto, alle
battute 157 sgg., si realizza una vera e propria “ripresa” di quanto lo Sprechgesang
aveva formulato all’inizio, alle battute 19 sgg., quando come voce narrante indicava il tramonto del sole dietro i monti. Qui però la linea melodica – pur presentando
la stessa forma di prima, con minime ma sensibili varianti – gravita intorno a la
minore anziché a do minore come in precedenza, e parte appoggiandosi sulla dominante mi anziché sulla dominante sol. All’ombra dei “suoi” abeti spira fresca la
brezza, il personaggio della voce narrante siede e attende per l’ultimo addio “l’ami25
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co”. Mentre però nella prima esposizione, dopo il fraseggio che abbiamo descritto
come quasi uguale in questa ripresa, appare la berceuse evocante l’immagine della
luna come barca d’argento (e appare come trasfigurazione del noto refrain), ora dopo il quasi medesimo fraseggio la musica subisce invece l’ennesimo esaurimento
in “morendo”, mentre subito antecedente la battuta n. 165 si ha pure l’indicazione della doppia linea verticale divisoria: indizio esteriore che la musica presenta
evidentemente un decisivo punto di svolta (numero 23, p. 124, con indicazione di
tempo «fliessend»).
Si ha così certamente – pur evitando per estremo paradosso qualunque soluzione di continuità – un vero e proprio (paradossale) nuovo inizio, nonché una
chiarissima differenziazione tematica.
Il condursi piano e semplice degli arpeggi, dopo il punto di “svolta” (battute 165 sgg.), e la nitida delicata evidenziazione delle due semplici note re-do da
parte di arpa e mandolino, introducono quasi subito un tema molto lungo e articolato (battute 166-189), che tuttavia inizia con una semplice successione di note,
coincidente con la scala pentatonica di stile orientale, sostanzialmente ridotta quasi
a sole quattro note – re-fa-sol-la-(do), con una realizzazione ritmica molto complessa e fortemente sincopata (battute 166-171), con un’iterazione insistita per ben
quattro volte: la prima di tre sole note (re-fa-sol), la seconda di quattro (re-fa-solla), la terza con cinque e un ritmo di crome assai più ristretto (re-fa-sol-la-do), la
quarta infine congiungendosi col re alto tenuto lunghissimo, mediante della tonalità di si bemolle maggiore, con la cadenza re (lunghissimo)-do-do-si bemolle, che
articola e dà slancio al tema complessivamente preso (lo stesso passaggio cadenzale, trasportato nella tonalità di do maggiore, sarà quello che corrisponde alle parole
risolutive «die liebe Erde, allüberall. . . », inaugurali della parte finale).
Possiamo ben rilevare, comunque, che la linea melodica ampia e distesa, liricamente dispiegata nel suo articolatissimo diatonismo, la melodia colma di gratitudine che introdurrà l’epilogo del Canto della terra (numero 57-58, p. 141), è già
tutta presente qui, esposta più volte nella sequenza di battute 171-255 della sezione
di cui stiamo parlando. Essa subentra quando il distacco dal mondo è già stato
consumato e sta per ricevere la sua suprema giustificazione. Più in particolare, va
ricordato che là dove il narrante protagonista rappresenta il proprio vagare qui e là
sempre dentro la cerchia dei luoghi più familiari, proprio in quel punto la linea del
canto ricalca la già ricordata scala pentatonica: «Ich wandle, auf und nieder. . . »,
cui corrisponde re-fa-sol, re-fa-sol-la (battute 235-241, p. 127). L’effetto provocato
dalla delicata e discreta irruzione di tali elementi è duplice: da una parte, l’analisi
pare dover individuare in essa un momento di differenziazione rispetto ai “materiali” sonori iniziali; dall’altra, non solo si può affermare che tale irruzione non
comporta assolutamente alcuna soluzione di continuità sebbene soltanto un’articolazione in cui si compie il “miracolo” di una differenziazione riposta e quasi
segreta, ma si può anche sostenere che quanto emerge da tale “silenziosa” irruzione costituisca una chiave che attraversa nella sua totalità Das Lied von der Erde.
L’illustrazione più palese di ciò la troviamo nella presenza della scala pentatonica, la quale com’è noto individua con tale sua impronta tutta l’opera: nel primo
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
numero essa si evidenzia soprattutto in forma parziale (quattro note “reali”) ma
drasticamente rovesciata, decisamente discendente, oppure anche ascendente ma
sempre caratterizzata da una drasticità “maschile”, con cui si evoca l’ineliminabile
miseria della vita terrestre.
Il successivo ritrarsi tutto “femminile” dell’espressione musicale diminuisce la
drasticità del dolore, confinando il personaggio in uno spazio all’apparenza volutamente angusto27 . Tale attenuazione/restringimento permette tuttavia – almeno per
un fugace momento – di considerare la terra e i suoi abitanti in una nuova luce, che
si presenta – sia pure inadeguatamente, ai limiti dell’esaurimento sperimentale, ai
limiti della più scettica negazione – come luce d’eternità.
Dopo di che, come già abbiamo notato, anche quest’“effimera eternità” nuovamente scompare, risuonando in realtà, come dice giustamente Principe, una sola
volta. Le opere successive riapriranno di nuovo totalmente la posta in gioco. Non
ci sembra per niente assurdo, comunque, continuare a indagare su quella ricerca
dell’immortalità che ci sembra caratterizzi – oltre il Mahler metafisico – anche il
Mahler terrestre.
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Sulla polarità fra maschile e femminile nel Canto della terra, e in genere sulla complessa architettura dell’opera, cfr. R. Schulz, Symphonie für eine Tenor- und eine Alt-Stimme und Orchester “Das Lied von der Erde”. Werkbetrachtung: “Ichwerk” und Visionen, in R. Ulm, op. cit.,
pp. 250-257.
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