il novecento - Conservatorio Rovigo

Ministero Istruzione Università e Ricerca Scientifica Alta Formazione Artistica e Musicale
Conservatorio Statale di Musica - “Francesco Venezze” Rovigo
Accademia dei Concordi
Rovigo
LA DOMENICA AI CONCORDI
MUSICA E PITTURA
11 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 2012 XVII EDIZIONE
IL NOVECENTO
ACCADEMIA DEI CONCORDI ROVIGO
SALA OLIVA
La rassegna Musica e Pittura, promossa anche quest’anno dal Conservatorio “F. Venezze”, dall’Accademia dei
Concordi e dalla Fondazione Banca del Monte di Rovigo è nata, come è noto, dalla volontà di questi Enti di
operare sinergicamente per realizzare azioni condivise, capaci tendenzialmente di valorizzare e divulgare la cultura, avendo preferibilmente come riferimento le risorse culturali e umane del territorio.
Pur nella loro diversità e specificità gli Enti promotori della rassegna, vanto della comunità rodigina, convergono
da anni nell’operare per favorire l’arricchimento culturale dei cittadini nell’ottica di rafforzare la consapevolezza
del valore identitario del territorio.
La tradizionale proposta di coniugare musica e pittura, giunta alla XVII edizione, quest’anno intende far conoscere le opere d’arte del ‘900 della collezione concordiana mai esposte prima insieme.
Alle opere pittoriche viene collegata l’offerta di pregevoli esecuzioni di musiche del ‘900 da parte dei professionisti del nostro conservatorio.
Il ciclo Musica e Pittura 2012 prosegue, dunque, la costante ricerca di contenuti e di valori del territorio, grazie
alla capacità di innovazione degli Enti promotori Fondazione Banca del Monte di Rovigo, Conservatorio
“F.Venezze” e Accademia dei Concordi che continuano a presentare qualificati programmi culturali per i nostri
concittadini.
Presidente
Ilario Bellinazzi
Conservatorio “F. Venezze”
Presidente
Adriano Buoso
Fondazione Banca del Monte di Rovigo
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Presidente
Luigi Costato
Accademia dei Concordi
PROGRAMMA GENERALE
LA MUSICA
“… perché accada la cosa giusta,
si deve evitare di farla.”
DOMENICA 11 NOVEMBRE - ore 11.00
À la recherche du son perdu - I colori dell’oboe nella musica francese del Novecento storico
Opere di: Osvaldo Forno, Giampaolo Berto, Gabbris Ferrari e Marco Lazzaro
A una distanza temporale di quasi tredici anni dagli ultimi giochi pirotecnici che hanno fatto da sfondo ai
festeggiamenti per salutare l’inizio del nuovo millennio, guardiamo al Novecento con un minor coinvolgimento emotivo dovuto a una messa a fuoco della pupilla sempre più oggettivante. Per uno strano fenomeno
psicologico, l’arco temporale tende poi a tradursi anche in termini di percezione spaziale; ecco, allora, che
l’allontanamento continuo da un punto focale ci offre via via una visuale panoramica più ampia anche se
meno dettagliata. Gli echi delle musiche del secolo scorso si dileguano per lasciare il posto alle rivitalizzate
esecuzioni da parte degli interpreti di oggi e di sempre, grazie ai quali possiamo ascoltare e apprezzare le
opere del passato. Nel XX secolo si cristallizza quel processo di soggettivazione stilistica, avviato nell’Ottocento, secondo cui ogni compositore è alla ricerca, non solo di una propria cifra stilistica da sviluppare
nel corso della sua esistenza, ma addirittura tende a conferire ad ogni singola opera tratti stilistici originali.
Come è facile immaginare, questo atteggiamento è sfociato in una variegata molteplicità di stili come mai
prima nella storia della musica in Occidente. Se fino al secondo conflitto mondiale è ancora possibile rintracciare un leitmotiv dai tratti nazionali, dopo il 1950 la frantumazione e prolificazione delle poetiche di
ciascun autore scoraggia ogni tentativo di cogliere un’unità stilistica quale guida sicura per navigare nel
mondo interiore del compositore, reso manifesto dai suoni delle sue creazioni musicali. Con riferimento a
quest’ultima considerazione, la scelta delle musiche che ascolteremo durante questi quattro incontri dedicati
al rapporto sinestetico tra musica e pittura, rientra nel filone della letteratura musicale nota anche come
“Novecento storico” che contrassegna la prima metà del secolo scorso. Prima di concludere questa breve
parentesi introduttiva al ciclo di concerti presentati qui di seguito, mi piace riportare il frammento di una
conversazione, avutasi nel 1896, durante una passeggiata di Mahler (uno dei padri della musica del Novecento) in compagnia di Brahms (uno dei massimi esponenti del tardo Ottocento), sulle rive del fiume Traun
nei dintorni di Ischl. Mahler, additando il corso d’acqua esclamò: “Guardi, Maestro, guardi!, là scorre l’ultima
onda!”. Brahms, allora, replicò: “Ciò che dice è giusto, ma forse occorre anche vedere se l’onda si getta in
mare o in una palude”. L’incontro tra il “vecchio” e il “nuovo” si ripresenta perennemente nel corso dei
secoli e con dinamiche costanti nelle quali, a colui che guarda al passato con nostalgia, si contrappone colui
che ripone tutte le sue speranze nel futuro. Se si tratta del mare o di una palude dipende solo dal punto di
osservazione: se volgiamo lo sguardo al passato l’orizzonte si restringe sfocandosi, eccoci allora immersi in
una palude; ma se puntiamo l’attenzione al futuro la prospettiva non ha fine, così come illimitato è l’orizzonte
quando ci troviamo in mare aperto. Il Novecento ci pone di fronte a questa scelta: dove vogliamo far scorrere l’ultima onda?
Vincenzo Soravia
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Camille Saint-Saëns, Pierre Max Dubois, Gian Francesco Malipiero, Eugène Bozza, Francis Poulenc
Oboe: Alessandro Rauli - Pianoforte: Giuseppe Fagnocchi
Opere di: Giuseppe Goltara e Casimiro Jodi
DOMENICA 18 NOVEMBRE - ore 11.00
Colori europei nel Novecento storico
Claude Debussy, Jacques Ibert, Ferenc Farkas, Nino Rota
Quintetto Ethos: flauto Paola Bassi, oboe Antonella Spremulli, clarinetto Elisa Marastoni,
corno Dario Cavinato, fagotto Chiara Turolla
Opere di: Angelo Prudenziato e Ervardo Fioravanti
DOMENICA 25 NOVEMBRE - ore 11.00
Italia e Mitteleuropa - Immagini “en blanc et noir” del Novecento
Ferruccio Busoni, Alfredo Casella, Paul Hindemith
Duo pianistico a quattro mani: Martino Fedini - Matteo Franco
Opere di: Tomaso Foster, Ugo Boccato e Elvio Mainardi
DOMENICA 2 DICEMBRE - ore 11.00
Tradizione popolare ed espressioni colte nella musica del Novecento storico nell’Est europeo
Zoltán Kodály, Bela Bartók, Leoš Janáček, Bohuslav Martinů
Violoncello: Luca Paccagnella - Pianoforte: Giuseppe Fagnocchi
La crescente affermazione in ambito francese degli strumenti a fiato dalla fine dell’Ottocento a tutto il corso del
Novecento è stata resa possibile grazie alle continue ricerche che compositori e strumentisti hanno quotidianamente
esercitato nelle aule di studio dei conservatori, in particolare nel celebre Conservatoire National Supérieur de Musique
de Paris, all’interno del quale vengono ancora oggi annualmente commissionate, vere preziose gemme, le composizioni
prescritte per il superamento degli esami finali da parte degli studenti. Ecco spiegato come la letteratura per i fiati si
sia arricchita in maniera sistematica, e tuttora si arricchisca, di nuovi lavori, indiscussi frutti di artigianato abile e
sempre all’avanguardia parallelamente all’evoluzione degli strumenti, attento quindi alle loro nuove gamme di potenzialità sonore e virtuosistiche incastonate sovente in strutture architettoniche dalle tecniche compositive anch’esse
sperimentali, ma a volte persino in veri e propri “gioielli” destinati a permanere nel patrimonio concertistico dei
singoli strumenti.A base di tutta questa grande tradizione ultrasecolare va individuato il grande sentimento nazionalista
che, a partire dall’indomani della bruciante sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870, si espresse anche in
musica attraverso la costituzione della Societé National de Musique promossa, tra gli altri, da Camille Saint-Saëns nel
1871 e della successiva Société de musique de chambre pour Instruments à Vent (1879), entrambe in chiara contrapposizione allo stile tedesco reclamando il grande ruolo storico dell’antica musica francese e quello degli strumenti a
fiato nei confronti degli archi. Lo stesso Saint-Saëns dedicherà varie composizioni ai fiati, le ultime delle quali – un
trittico di sonate rispettivamente per oboe, clarinetto e fagotto, sempre accompagnati dal pianoforte – proprio nei
mesi antecedenti la sua scomparsa. Raffinata vena melodica, evocazioni pastorali e gusto per l’improvvisazione ma
anche il brillante virtuosismo nel finale, si inseriscono in movimenti dalla fattura piuttosto semplice ed arcaica con
un accompagnamento del pianoforte che richiama, nei suoi tersi disegni, la lezione degli antichi clavicembalisti. Altro
tratto caratteristico della musica francese del Novecento è la “miniatura”, ossia la composizione concepita come
un’unica impressione sonora, colta in un solo istante, così come avviene di fronte ad un’opera di arte figurativa dove
la visione d’insieme precede l’eventuale osservazione analitica da parte del fruitore del testo.Tre esempi di tal genere
sono offerti dal brevissimo Passepied di Dubois, un vero e proprio “solo” dell’oboe, con tanto di cadenza prima della
brevissima ripresa finale, appena sostenuto da un leggero e garbato accompagnamento ritmico ed armonico del pianoforte, e da due scene pastorali evocanti l’antico mondo classico delle Bucoliche di Virgilio e delle Metamorfosi di
Ovidio in cui l’oboe diviene simbolo di un mondo agreste che con il progredire della civitas è stato poco alla volta
soppiantato dai valori di quest’ultima: Impromptu pastoral (pubblicato dall’editore parigino Leduc) di Malipiero, autore
sì veneto e lo sappiamo bene, ma con un denso periodo di permanenza nella straordinaria Parigi degli anni Dieci, e
Fantaisie Pastoral di Bozza, dal duplice carattere di improvvisazione prima e di danza poi.Chiude il programma la Sonata
di Poulenc, anch’essa – come per l’analogo lavoro di Saint-Saëns – facente parte di un ridotto corpus di lavori per
uno strumento a fiato e pianoforte interrotto dalla improvvisa morte del compositore. Il carattere elegiaco, specialmente nei movimenti estremi – mentre il vivace Scherzo centrale si riveste nella sezione mediana di una riconoscibilissima citazione tratta dalla Sonata per flauto e pianoforte di Sergei Prokofiev alla cui memoria il lavoro è dedicato,
sembra divenire così una sorta di testamento spirituale dell’autore fino al perdersi del suono alle soglie del silenzio,
in una dimensione metafisica tanto cara all’intima religiosità del compositore francese.
a cura di Giuseppe Fagnocchi
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DOMENICA 11 NOVEMBRE
À la recherche du son perdu
I colori dell’oboe nella musica francese del Novecento storico
CAMILLE SAINT-SAËNS (1835 – 1921)
Sonata op. 166
Andantino
Ad libitum – Allegretto – Ad libitum
Molto allegro
PIERRE MAX DUBOIS (1930 – 1995)
Passepied
GIAN FRANCESCO MALIPIERO (1882 – 1973)
Impromptu pastoral
EUGÈNE BOZZA (1905 – 1991)
Fantasia pastorale
FRANCIS POULENC (1899 – 1963)
Sonata
Élégie
Scherzo
Déploration
Oboe: Alessandro Rauli - Pianoforte: Giuseppe Fagnocchi
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Fu proprio Claude Debussy, il primo autore oggi in programma, a dare solennemente inizio al ruolo degli strumenti
a fiato quali protagonisti indiscussi nel primo Novecento musicale europeo attraverso, soprattutto, il celebre “solo”
del flauto nel Prélude à l’après-midi d’un faune risalente al 1894. Significativa è anche la “nuova immagine” che i fiati assumeranno dal Prélude in avanti: il flauto venne ad esempio “spostato” in maniera prevalente sul suo registro più
basso (mentre Stravinsky opererà, con il fagotto del Sacre du printemps, al contrario straniandolo all’acuto) e non su
quello brillante ed argentino dei virtuosistici “passi” ottocenteschi, e soprattutto lo lascerà simbolicamente già nella
prima nota (senza alcun accompagnamento orchestrale) sul “do#”, un suono dal colore “particolare” in quanto povero di armonici, quindi non pieno e rotondo, ma precario ed instabile, interrogativo della crisi della società, dei
sistemi di pensiero e delle coscienze che avrebbe di lì a poco portato all’esplosione del primo conflitto mondiale.La
Petite Suite non è un brano originale per quintetto di fiati, trattandosi infatti di un lavoro per pianoforte a quattro
mani, ma val giusto la pena di ricordare come da un lato il musicista francese lavorasse al pianoforte non più nella visione tradizionale dello strumento a tastiera, bensì invitando l’interprete a ricercare continue e cangianti sfumature
di colore idiomatiche di archi, fiati e naturalmente anche delle varie percussioni dell’orchestra, e come dall’altro tale
modus operandi implicasse il naturale “passaggio” e ampliamento di uno spartito per pianoforte ad una partitura da
camera se non addirittura orchestrale. Il nuovo linguaggio timbrico, al quale si affiancano nuove e più ampie visioni
delle gamme armoniche, melodiche e ritmiche, se da un lato si lancia verso il futuro della storia musicale del ventesimo
secolo dall’altro non rinnega assolutamente il passato. Prova ne è il fatto che l’intero programma odierno è impostato
su brani che richiamano – implicitamente se non anche esplicitamente – l’antica suite di danze barocca di derivazione
francese. A François Couperin, ma anche al pittore Watteau, si ispirarono sovente sia lo stesso Debussy sia Jacques
Ibert, il quale – pur in un periodo posteriore a quello del capostipite Claude ed oramai già improntato a schemi neoclassici (o neobarocchi) richiamanti la lectio di un altro grande caposcuola, Igor Stravinsky – dedicò allo sviluppo
degli strumenti a fiato buona parte della sua vena ed abilità compositiva, come documentano anche le tre miniature
per quintetto quali le Trois pièces brèves.Il quintetto a fiati – nella sua formazione “classica” oggi presentata – godette
già in età beethoveniana di un breve periodo di splendore grazie alle numerose opere del tedesco Franz Danzi e soprattutto del boemo Antonin Reicha: tale eredità fu colta da vari compositori del Novecento storico dando alla formazione sia il compito di affermare, grazie al nitore delle linee di cinque strumenti timbricamente ben diversi tra
loro, le complesse trame polifoniche della dodecafonia nell’op. 26 di Schönberg, sia quello di rivolgersi ad espressioni
“non colte” come avviene in Hindemith, nel cui quintetto traspaiono con evidenza riferimenti obbligati al jazz e al cabaret, e nel compositore ungherese Ferenc Farkas con i suoi binomi tra forme antiche nelle quali prendono posto
melodie ed armonie di chiaro sapore modale tipico dell’est europeo.Infine un breve lavoro di Nino Rota, ideale traitd’union tra musica italiana (nella distesa cantabilità che scorre istintivamente nella vena di questo maestro e, naturalmente, anche di questo brano), rigore polifonico europeo e architettura strutturale propria della Ouverture alla francese
(lento-veloce-lento) nel cui andamento tripartito si consuma questa “piccola offerta musicale” dedicata ad Alfredo
Casella, compositore che da un lato ricevette una solida formazione francese, mentre dall’altro guardò – così come
lo stesso Debussy – a Johann Sebastian Bach con grande devozione filiale, e proprio a questo sommo Maestro di
tutta la storia musicale europea ha sicuramente pensato, come tradisce il titolo del brano, lo stesso Nino Rota.
a cura di Giuseppe Fagnocchi
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DOMENICA 18 NOVEMBRE
Colori europei nel Novecento storico
CLAUDE DEBUSSY (1862 - 1918)
Petite Suite
En bateau
Cortège
Menuet
Ballet
JACQUES IBERT (1890 - 1962)
Trois pièces brèves
Allegro
Andante
Assai lento – Allegro scherzando
FERENC FARKAS (1905 - 2000)
Sérénade
Allegro
Andante espressivo
Saltarello
Antiche danze ungheresi
Intrada
Lento
Danza delle scapole
Chorea
Saltarello
NINO ROTA (1911 - 1979)
Petite offrande musicale
Quintetto Ethos
flauto Paola Bassi - oboe Antonella Spremulli - clarinetto Elisa Marastoni
corno Dario Cavinato - fagotto Chiara Turolla
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A sintetico commento del programma del concerto ricorre il titolo di una celebre, commossa ed allucinata composizione di “guerra” per due pianoforti, En blanc et noir (1915) di Claude Debussy, che richiama con immediatezza i
colori (bianco e nero, appunto) dei tasti del pianoforte, ma racchiude anche altri significati quale ad esempio il certamen
tra i due strumenti e le varie parti ad essi affidate (nel secondo pezzo si “affrontano” un celebre corale luterano da
un lato e le note della Marsigliese dall’altro) che nella guerra allora in corso diviene crudele e mortale lotta tra i
popoli, ma anche le infinite gamme di sfumature che si collocano tra questi due estremi di colore, ancora una volta
quindi la straordinaria tavolozza di ricerca dinamica, timbrica, di attacco e di successivo sostegno dei suoni, che al
pianista viene offerta in maniera sempre più raffinata ed ampia e dalla quale egli deve saper trarre sempre più molteplici
ed efficaci effetti.Tale riferimento al lavoro di Debussy ben si spiega scorrendo rapidamente i pezzi proposti: se si
esclude infatti il brano di apertura i successivi tre lavori risentono della tempesta d’acciaio della prima guerra mondiale
durante la quale, è altresì interessante annotare, Ferruccio Busoni – di cui ascolteremo in apertura le due melodie (o
danze) finlandesi op. 27 – si ritirò in Svizzera combattuto tra le “sue” due nazioni in conflitto, l’Italia e la Germania.
Protagonista di una vita senza requie, nato in Italia ma ben presto in viaggio per tutta la mitteleuropa da Vienna a
Lipsia e poi – dopo Mosca e gli USA – prevalentemente a Berlino ma non senza ulteriori importanti ritorni in Italia,
Busoni trascorse gli ultimissimi anni Ottanta del diciannovesimo secolo ad Helsinki dove fu chiamato quale docente
di pianoforte ed è in quel frangente che scrisse la sua op. 27 nella quale il severo contrappunto bachiano e un tardo
romanticismo teutonico ancora presente si innestano al folklore finnico.Procedimenti politonali e poliritmici, per
giungere infine in Pagine di guerra a veri e propri feroci e rumoristici cluster con i quali contrastano desolanti momenti
di vuoto sonoro, immagini dell’orrore della morte violenta, accompagnano i due lavori di Casella da poco tornato in
Italia dopo la straordinaria esperienza parigina (nel corso della quale eseguì anche En blanc et noir in duo con lo
stesso Debussy), ma subito amareggiato non solo per le sorti dei milioni di giovani in guerra, ma anche per l’ambiente
musicale “deplorevolmente provinciale e arretrato”, come lui stesso commenta, con la conseguenza inevitabile che
“ogni mio lavoro veniva immancabilmente sabotato”. Veri e propri quadri sonori richiamanti le provocazioni tipiche
dei vari linguaggi artistici del Futurismo Pupazzetti troveranno una loro successiva collocazione (strumentati per nove
strumenti) proprio in uno spettacolo di pupazzi “futuristi”, mentre i violenti bombardamenti sensoriali di Pagine di
guerra sono a giusta ragione definiti dal compositore stesso quali “film musicali” coerentemente alla visione cinematica
dell’arte figurativa tipica, ancora una volta, del Futurismo. Ai tre film “girati” sul fronte occidentale e a quello sul fronte
russo Casella ne aggiungerà successivamente – in seguito all’entrata in guerra dell’Italia – un quinto dal titolo Nell’Adriatico. Corazzate italiane in crociera.Fil rouge tra il tardo romanticismo di Busoni e il dramma della prima guerra
mondiale è dato dagli otto Walzer op. 6 di Paul Hindemith i quali, nel loro corso, si “spostano” dalle descrizioni delle
“drei wunderschöne Mädchen im Schwarzwald” evocanti il soggiorno del compositore nella Foresta Nera nel corso
dell’estate 1914 e dalle evidenti citazioni dalle analoghe raccolte di danze di Brahms e di Reger alle deformazioni ritmiche che drammaticamente prendono piede nelle pagine finali unitamente alla cupa e inquietante chiusura (l’apertura
era stata nella tonalità di si maggiore) sull’accordo di si minore.
a cura di Giuseppe Fagnocchi
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DOMENICA 25 NOVEMBRE
Italia e Mitteleuropa
Immagini “en blanc et noir” del Novecento
FERRUCCIO BUSONI (1866 – 1924)
Zwei Finnländische Volkweisen op. 27 (1889)
ALFREDO CASELLA (1883 – 1947)
Pupazzetti (1916)
Marcetta
Berceuse
Serenata
Notturnino
Polka
Pagine di guerra (1915)
Nel Belgio. Sfilata di artiglieria pesante tedesca
In Francia. Davanti alle rovine della Cattedrale
di Reims
In Russia. Carica di cavalleria cosacca
In Alsazia. Croci di legno
PAUL HINDEMITH (1895 – 1963)
Acht Walzer op. 6 (1915)
Duo pianistico a quattro mani
Martino Fedini - Matteo Franco
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La conclusione dell’itinerario attraverso il Novecento musicale europeo c.d. “storico” si snoda nei paesi dell’est ove
le ampie aperture alla musica c.d. colta dell’occidente sono sempre avvenute mediante il felice connubio delle auliche
forme con i ricchi contenuti delle tradizioni popolari, caratterizzate musicalmente dalla prevalenza di ritmi piuttosto
complessi e di melodie strutturate sopra svariate armonie di stampo modale, sapientemente ed efficacemente “organizzate” nelle ampie campiture di sonate e sequenze di variazioni. A tali tradizioni delle loro terre d’origine hanno
prestato una attenzione ed una passione del tutto particolari proprio i primi due compositori in programma, Bartók
e Kodály, impegnati sia nella “ricerca sul campo” delle tracce della musica popolare e quindi maestri anche della moderna etnomusicologia, sia nell’applicazione nei loro testi non dei reali motivi popolari, ma del loro “respiro” e “colore”
spirituale, astratto dalla contingenza, senza dubbio ben più efficace a sostenere composizioni di ampio respiro quali
le strutture “colte” richiedono, garantendo comunque con estrema chiarezza le immagini e le suggestioni acustiche
del loro mondo nativo. Sia la Sonata op. 4 di Kodály, sia la Rapsodia di Bartók, rispecchiano uno schema piuttosto
simile: entrambe sono articolate in due movimenti, il primo lento e a “fantasia”, con intenti prevalentemente meditativi
nonostante i diversi caratteri dei rispettivi temi, il secondo invece più veloce e decisamente coinvolgente sotto il
profilo dell’incalzare ritmico, ed in entrambe la conclusione è data dal ritorno della citazione del tema iniziale del
primo movimento, come in una sorta di danza circolare nella quale il soggetto è destinato a tornare su stesso, in un
ideale, continuo ed eterno, ritorno alla certezza della “casa paterna” da cui il “viaggio” ha preso le mosse; un ritorno
dal carattere ben diverso, di intima espressività e alle soglie del silenzio nell’op. 4, esuberante invece nella Rapsodia la
cui versione originaria è per violino e che di questo strumento conserva per tutto il corso l’idiomatica brillantezza
anche nell’arrangiamento per violoncello opera dello stesso Bartók.Anche il moravo Janáček fu attento studioso e
amante del folklore, della cultura e della storia non solo del suo paese ma, più in generale, di tutto il mondo slavo e
russo: fonte di ispirazione di Pohádka è il poema epico Skazka o tsare Berendyeye opera dello scrittore russo Andreyevich Shukovsky operante nella prima metà del diciannovesimo secolo. Sottotitolato significativamente Storia del re
Berendyey, del principe Ivan, suo figlio, degli intrighi di Kaščei l’immortale, e della saggezza della principessa Marja, figlia di
Kaščei, il lavoro di Janáček sviluppa, in un cupo pessimismo di fondo, i temi della lotta tra le forze del bene e del male,
il dolore e l’amore, l’inganno e soprattutto la paura della perdita di un figlio, e a questo riguardo si affaccia nel brano
anche la vicenda autobiografica del compositore al quale era morta la figlia Olga. L’ascolto di Pohádka crea di conseguenza suggestioni spesso sospese nel vuoto del dubbio, dell’incertezza e della desolazione, in una sorta di ossessiva
e allucinante ripetitività, cullanti ma anche tragiche ninna-nanne, alternate a squarci di ottimismo dati da sezioni che
richiamano l’esterno paesaggio del mondo orientale espresso dai suoi popolari ritmi di danze e dalle sue semplici
ma suggestive melodie di festa popolana, proprio per questo dotate di genuina e schietta felicità. Il programma si
conclude con un brillante lavoro di Martinů, compositore ceco, nel quale i motivi e i ricordi della terra d’origine si
incontrano con un eclettico e molteplice bagaglio di esperienze, dal neoclassicismo stravinskiano alle ricerche di
avanguardia parigina, fino a giungere alla componente jazzistica. Il rigore della forma, pur se intrisa di variegati contenuti,
domina sempre nelle composizioni di Martinů e lo sguardo al passato ammicca, nel nostro caso, con ironia sottile,
alla bravura virtuosistica del grande violoncellista Gregor Piatigorsky del quale offre un ritratto attraverso il “piacere”
di alcune rivisitazioni sopra un tema di Gioacchino Rossini.
a cura di Giuseppe Fagnocchi
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DOMENICA 2 DICEMBRE
Tradizione popolare ed espressioni colte
nella musica del Novecento storico nell’Est europeo
ZOLTÁN KODÁLY (1882 – 1967)
Sonata op. 4 (1910)
Fantasia
Allegro con spirito
BELA BARTÓK (1881 – 1945)
Rapsodia (1929)
Moderato
Allegretto moderato
LEOŠ JANÁČEK (1854 – 1928)
Pohádka (Un racconto) (1910)
Con moto
Con moto
Allegro
Presto
BOHUSLAV MARTINŮ (1890 – 1959)
Variazioni sopra un Tema di Rossini (1949)
Violoncello: Luca Paccagnella - Pianoforte: Giuseppe Fagnocchi
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GIUSEPPE GOLTARA
LA PITTURA
Considerata, fin dagli inizi e a giusta ragione, una piccola miniera di sorprese e capolavori, anche nei casi in
cui la qualità delle opere non è altissima e rimanda semmai a rigurgiti del manierismo e del barocco, la pinacoteca dell’Accademia dei Concordi è tra le più importanti del Veneto e ha attirato l’attenzione dei maggiori studiosi. Ma, fra le sue raccolte, l’Ottocento e soprattutto il Novecento appaiono penalizzati, sia per
la presenza rarefatta di opere importanti, sia per la casualità che ha presieduto alle acquisizioni.
Eppure, non mancano le meraviglie e gli improvvisi sbalordimenti, che coniugano la raffinatezza con l’alta
ispirazione. Si potrebbe parlare, almeno per il Novecento, di una collezione di nicchia, limitata nel numero
e nella qualità, certo, ma non certo priva di organicità. Non è, infatti, difficile individuare una piccola storia,
colta nel suo farsi e perfino nelle sue velleità, dell’arte del Novecento, dal realismo provinciale all’informale,
sovente con risultati di ottimo livello.
Proprio per darne conto, sia pure con i limiti di un contesto che punta soprattutto al rapporto fra i diversi
tipi di espressione artistica, abbiamo ritenuto opportuno orientare intorno al Novecento la rassegna Musica
e Pittura, che, in diciassette anni di vita, ha ormai raggiunto una sua maturità. Si tratta, dunque, della opportunità di informare e soprattutto mostrare. Raramente le opere del secolo scorso sono state presentate
al pubblico, se non secondo l’articolazione delle mostre personali.
Sono passati più di trent’anni da quando Antonio Romagnolo, che era allora l’illuminato e appassionato direttore della Pinacoteca dei Concordi, con la rassegna «Nati sotto Fetonte» (di cui resta fortunatamente
il bel catalogo, irrinunciabile punto di riferimento) aveva fissato i termini e i percorsi di una storia dell’arte
nel Polesine del Novecento, riuscendo a raccogliere ben cinquantacinque artisti, «dai maestri storici ai giovani che ancora frequentano le accademie di belle arti», senza timore di far «coesistere generi molto diversi
e ricerche contrastanti». A questa iniziativa, aveva fatto importante riscontro una serie di piccole e preziose
mostre personali di grandi artisti italiani contemporanei, curata sempre e puntualmente da Antonio Romagnolo in collaborazione con l’importante gallerista ed editore mantovano Maurizio Corraini. Si trattò, allora,
di un autentico svecchiamento della cultura artistica locale, ma anche di un ponte sicuro che metteva in
comunicazione la provincia polesana con la grande arte internazionale. Purtroppo, in entrambi i casi, non ci
fu un seguito.
A tutto questo si riallaccia, con la necessaria modestia, l’odierno percorso, minimale, ahimè, attraverso l’arte
del Polesine del Novecento, con il riscontro del presente catalogo, che ripropone in appendice anche le
opere di quei grandi maestri italiani che testimoniano la citata serie di mostre.
Le scelte non sono casuali, ma prevedono ulteriori rassegne, così da dare visibilità a quegli artisti polesani
che hanno operato fuori dai vincoli della provincia e di mercati che oggi si rivelano ben miseri.
Sergio Garbato
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GIUSEPPE GOLTARA
GIUSEPPE GOLTARA
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CASIMIRO JODI
CASIMIRO JODI
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CASIMIRO JODI
ANGELO PRUDENZIATO
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ANGELO PRUDENZIATO
ANGELO PRUDENZIATO
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ERVARDO FIORAVANTI
ERVARDO FIORAVANTI
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UGO BOCCATO
TOMASO FOSTER
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UGO BOCCATO
ELVIO MAINARDI
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OSVALDO FORNO
MARCO LAZZARATO
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GABBRIS FERRARI
GABBRIS FERRARI
L’opera “Lasciare Venezia” è di proprietà della Fondazione Banca del Monte di Rovigo
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GIUSEPPE GOLTARA
Di umili condizioni, nato ad Arquà Polesine nel 1870, Giuseppe Goltara aveva seguito dapprima il corso di decorazione nella Scuola di disegno industriale applicata ai mestieri che Riccardo Cessi aveva aperto a Polesella,
volgendosi anche allo studio del paesaggio. Se a dargli sostentamento era la «pratica restaurativo-muraria», a
dargli qualche prestigio, soprattutto in ambito locale e, in seguito, anche altrove accanto al bolognese Achille
Casanova, era l’attività di decoratore con inclinazioni al liberty, di cui resta compiuta traccia nella realizzazione
della cappella funebre di monsignor Giacomo Sichirollo nel cimitero di Arquà. Come pittore, Goltara rivela
una predilezione per il paesaggio. Il suo lascito consiste in una ventina o poco più di quadri a olio, in cui prevale
il gusto per ambienti che gli sono famigliari, tinte chiare ma al tempo stesso un po’ fosche, venate sempre da
un timbro nostalgico e da sommessi sentimenti. Proprio in questi paesaggi, che non si discostano più di tanto
dal linguaggio del tempo, l’artista riesce a trovare una cifra personale, che consiste soprattutto in una luce epifanica e in una completa sintonia con i soggetti e, in questo, è innegabile un rapporto con Segantini così come
con il divisionismo, ma anche con certi repiri dell’impressionismo e perfino con l’eredità dei preraffaelliti. Vale,
comunque e sempre, la spontaneità e la rispondenza poetica. Non va, infine, dimenticata la condivisione delle
istanze sociali che si precisavano a cavallo dei due secoli, come testimoniano l’adesione al programma della
Società Operaia e le simpatie per il socialismo. Troppo breve l’esistenza di Giuseppe Goltara, che morì prematuramente nel 1914, perché tante premesse e tanto talento trovassero il necessario sviluppo. Significativo il
fatto che al suo funerale fosse presente lo scultore rodigino Virgilio Milani.
partecipa alla XIX Biennale di Venezia. A Rovigo si trasferisce nel 1937 come preside del liceo scientifico Paleocapa. Attivissimo come pittore e come organizzatore di manifestazioni artistiche, Jodi racconta soprattutto
la città, nella quale si trova a suo agio, con scorci e paesaggi di una straordinaria freeschezza, ma anche atmosfere
e interni di grande suggestione. Nel 1948, l’anno della morte, aveva presentato una veduta di Rovigo (Mercato
sotto le torri) alla XXIV Biennale di Venezia.
ANGELO PRUDENZIATO
Il vero esordio di Angelo Prudenziato, nato a Borsea nel 1907, è un autoritratto del 1929, quando già aveva
concluso i corsi all’Accademia di Venezia con Guidi, in cui il giovane artista appare già proiettato nella pittura
dei grandi maestri del Novecento, a testimonianza di una autonomia che si sarebbe diramata poi in mille altre
direzioni, secondo le inclinazioni di un eclettismo estetico e tecnico che ha dell’incredibile. Una volta terminata
un’opera e attraversata una fase, Prudenziato era subito preso da nuovi soggetti e affascinato da altri stimoli,
in un affastellarsi di progetti e di esperimenti, accostamenti e approssimazioni. Per lui, l’identità della pittura si
trovava necessariamente nel molteplice. Eccolo, così, farsi futurista e con risultati strepitosi (quel Semaforo che
è ormai un classico!), astratto, informale, figurativo e perfino pompier, smaniando come Proteo in mille e diverse
forme, nelle quali finiva per non sentirsi mai realizzato.Tutto, insomma, diventava sperimentazione, tentativo, ricerca. E le tracce di questo percorso accidentato sono spesso di altissimo livello espressivo, bagliori accecati,
come molti lavori del periodo informale o della ricerca materica e tutta, o quasi, l’opera grafica. Solo la morte,
nel 1980, riuscì a interrompere quel flusso ininterrotto di pittura e arte.
CASIMIRO JODI
Se c’è un artista che ha cantato con felicità Rovigo, restituendoci freschi e quotidiani paesaggi urbani, quello è
Casimiro Jodi, che polesano non era, dato che era nato a Modena nel 1886. A Rovigo, Jodi sarebbe approdato
solamente nel 1937, già cinquantenne e artista maturo, e qui sarebbe morto appena una decina di anni dopo
nel 1948.
La storia di Jodi artista è contrassegnata da una continua evoluzione e dalla acquisizione di uno stile personale
e compiuto, quella dell’uomo è invece un susseguirsi di spostamenti e trasferimenti nella sua carriera di insegnante, da Modena ad Asola di Mantova, da Brescia a Lovere di Bergamo e poi ancora Brescia, Piacenza e
infine a Rovigo. Aveva esordito giovanissimo come disegnatore satirico, per poi frequentare dal 1901 al 1908
il Regio Istituto di Belle Arti di Modena, dal 1901 al 1908, per poi passare , come vincitore del concorso Luigi
Poletti, all’Accademia di S. Luca a Roma, dove fu allievo di Aristide Sartorio. Lo ritroviamo a Modena nel 1913,
ma dal 1915 al 1919, come ufficiale di fanteria, è a Verona, dove si sposa e frequenta artisti come Felice Casorati
e Guido Trentini. Ritornato a Modena, terrà la sua prima e importante mostra personale con una settantatina
di dipinti. Nel 1927 vince il primo premio alla Biennale nazionale del paesaggio di Bologna e sette anni dopo
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ERVARDO FIORAVANTI
Nato a Calto nel 1913, Ervardo Fioravanti aveva presto mostrato predisposizione per il disegno e la pittura,
così aveva frequentato il vicino Istituto d’Arte di Castelmassa e poi l’Istituto di Belle Arti per la decorazione e
l’illustrazione di Urbino, dove si era diplomato. La guerra lo aveva portato in Croazia e poi a Pantelleria, dove
era stato catturato dagli Alleati e spedito in un campo di prigionia a Hereford nel Texas, dove aveva incontrato
altri artisti, scrittori e intellettuali. Al suo ritorno, dopo avere insegnato per due anni a Urbino, si era insediato
a Ferrara, dove sarebbe diventato direttore dell’Istituto d’Arte Dosso Dossi. L’inverno del 1996, dopo una
lunga malattia, se l’era portato via.
Personalità versatile, pittore, giornalista e scrittore, fondatore di riviste e sodale dei maggiori intellettuali del
suo tempo, Fioravanti del Polesine sapeva tutto, in una lunga e curiosa filastrocca di nomi e cognomi, luoghi e
locali. Fin dall’adolescenza, aveva disegnato e dipinto quei paesaggi unici al mondo. Ma nei suoi quadri, c’era soprattutto la gente, c’erano quei personaggi rinserrati in scuri tabarri, con il cappello calcato in testa, che si por35
tavano addosso l’odore acre del fumo e il sentore della nebbia. E i ciclisti che arrancavano sugli argini come
ombre remote contro il biancore in cui sfumava la notte. Ma c’erano anche le piazze di paese e i crocchi di
donne con scialli e sottane sformate all’angolo di una strada, i vecchi consunti seduti per terra con la schiena
appoggiata a un muro o a un albero. E gli interni di osterie, con i tavoli ingombri di bicchieri, le carte da gioco
squadernate tra le dita, il fumo denso dei mezzi sigari. Al Polesine aveva dedicato quadri e disegni e incisioni.
Dai primi e già compiuti ritratti di paesani del 1932-33 agli scorci e agli schizzi di Rovigo e di altre località che
il Polesine Fascista e Resto del Carlino gli avevano pubblicato tra il 1938 e il 1940, per poi continuamente soffermarsi sui paesaggi e sulle figure di una terra che restava familiare e vissuta nel profondo, fino al ciclo delle
«Favole Polesane» del 1970 e a tutta una serie di quadri eseguiti sul limitare degli anni Ottanta.
sura: quattro anni di carcere, subito amnistiati. Tra il 1919 e il 1920 soggiorna a Milano, legato a Frissa, Cantù e
Amigoni. Poi il ritorno definitivo ad Adria, dove nel frattempo aveva messo su una famiglia numerosa. Antifascista,
aderì al Comitato di Liberazione Nazionale, ma nel 1944 venne arrestato e rinchiuso in campo di concentramento in Polonia. Dal dopoguerra fino agli ultimi anni di vita continuò a dipingere e ad esporre (l’ultima mostra
è del 1980). La morte lo colse ad Adria nel 1982. Settant’anni e più di pittura, dunque, affrontando tutti i generi,
estraneo alle mode e attento piuttosto alla voce della propria ispirazione, pronto sempre a rimettersi in gioco,
ma altrettanto decisamente ad abbandonare le strade che non lo portavano da nessuna parte. Luce e colore,
piuttosto che la forma e i volumi, pittura assoluta innanzi tutto, che ben si coglie nei ritratti e nei moltissimi
paesaggi.
TOMASO FOSTER
ELVIO MAINARDI
Poco si sa, a conti fatti, di Tomaso Foster, come se l’artista adriese fosse da sempre immerso alla sua leggenda.
Artista unico e anche, se si vuole, discontinuo, ma innegabilmente di grande livello. Avrebbe potuto segnare il
momento di passaggio dalla pittura polesana del primo Novecento alla temperie degli anni Cinquanta, come
dire da Riccardo Cessi e da Camillo Tumiatti a Boccato. Ma Foster era davvero un caso isolato, lontano da
scuole e cronologie e attento piuttosto a un intimo rapporto con il paesaggio, come se fosse la prima volta
che il delta del Po venisse rappresentato e interpretato. Ecco le dense macchie di vegetazione, gli stagni verdastri
e il limitare paludoso delle valli da pesca, con le anitre selvatiche in volo e il cacciatore in agguato. L’importante
era l’immediatezza e dunque la rapidità dell’esecuzione, l’occhio era quello del cacciatore e del pescatore. Da
qui una straordinaria forza espressiva, ma anche una profonda poesia della natura.
Non era un naïf e c’era semmai molta e segreta sapienza nel suo modo di dipingere. Aveva il gusto dell’amicizia
e dell’insegnamento, proprio per questo, negli anni Cinquanta, aveva fondato ad Adria con altri artisti e sodali
un gruppo che prendeva il suo nome e poi ancora il “Circolo Artistico Adriese” e il concorso nazionale di
pittura extemporanea “Via Ruzzina”. Paradossalmente la morte lo aveva colto, negli anni Sessanta, a Luino, lontano da Adria, dove però è sepolto.
Nato ad Adria nel 1934 e cresciuto all’ombra di una vecchia idrovora, che oggi è uno dei segni elementari del
paesaggio, Elvio Mainardi ha coltivato una vocazione precoce, che si è definita progressivamente con gli studi
a Bologna con Ilario Rossi e Corrado Corazza. E sono uomini e donne della sua terra, la fatica e il lavoro e la
miseria che si affacciano nelle opere che lo avvicinano al neorealismo degli anni bolognesi. E sono anni di
intensa attività, nel corso dei quali l’artista cerca e trova il suo stile, partecipando a concorsi nazionali e internazionali ed esponendo nelle maggiori città italiane e, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, all’estero
e più particolarmente negli Stati Uniti (importante l’antologica all’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles nel
1996). Il trasferimento sotto i cieli purissimi della Valtellina, e più precisamente a Bormio, coincide non soltanto
con una nuova vita, più libera e a contatto con la natura, ma anche con una nuova fase della sua pittura, che
ormai si gioca sulla luce e sulla memoria, in una sovrapposizione di immagini e sensazioni che convivono diventando ombre trasparenti e tracce cromatiche. È la luce, insomma, a farla da padrona attraverso le forme
che si compenetrano trascolorando e si moltiplicano in riquadri e griglie e lontananze, una pittura che sa attingere in maniera personale a una tradizione antica, non dimentica delle luci dei fiumi e delle nebbie, ma anche
dei vetri romani e dei vasi greci che respirano nel grande museo di Adria.
UGO BOCCATO
OSVALDO FORNO
Figlio di un calzolaio, Ugo Boccato era nato a Adria nel 1890 e aveva ottenuto una licenza con primo premio
in disegno decorativo alla Scuola d’arte applicata. Nel 1909 lo troviamo a Venezia con Milesi, Parmi e Cobianco.
È artista anche nello spirito ribelle e nella vocazione per l’anarchia. Tre anni dopo partecipa alla spedizione in
Libia, dove viene ferito. Poi è la volta della Grande Guerra, nel corso della quale viene deferito alla corte
marziale per avere pesantemente criticato le gerarchie militari e il governo in alcune lettere sottoposte a cen-
Nato a Rovigo nel 1939, Osvaldo Raffaele Forno si è diplomato all’Istituto d’Arte di Castelmassa e dal 1971
ha insegnato all’Istituto d’Arte Dosso Dossi di Ferrara. La parabola artistica di Forno è il risultato di un processo
creativo che, nel tempo, non si è mai discostato da una coerentissima ricerca sulle forme e sul movimento
della luce. Una continua sperimentazione linguistica, che partendo dalle avanguardie storiche è giunta a liberarsi
di ogni orpello, per costituirsi come momento autonomo in uno spazio che sta tra il silenzio e lo sguardo.
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Forno è attratto dal movimento profondo e silenzioso che sollecita ogni cosa, tanto da avventurarsi alla ricerca
di quello che c’era all’origine, prima della forma, perché forse a quei barlumi si finirà per ritornare. Si tratta di
visioni che aspettano di sciogliersi in altre parvenze e trovare nuova vita. C’è, insomma, l’attesa di una forma,
che finalmente permetta ai prototipi di cominciare a vivere e respirare in un mondo in cui è ammesso solo ciò
che assomiglia a qualcosa. È, appunto, in questa attesa che la pittura si decanta ed è poi nel trapasso da una
forma all’altra che si precisano nuove istanze cromatiche e la ricerca di una luce capace di dare senso a qualsiasi
immagine. L’equilibrio si ottiene quando le forme si sintetizzano in moduli semplici e ripetitivi e tutti i colori
dormono in un’attesa senza luce.
cerca piuttosto nella disposizione di segni e figure geometriche di ritrovare una sorta di perfezione, quasi un
mondo chiuso e concluso in sé, con rimandi sottili al Rinascimento. A quelle immagini, quasi rispondendo a un
progetto che si evoluto e perfezionato nel tempo, rispondono oggi dei «pensieri musivi», che sono saggi e
sperimentazioni, che coinvolgono non solo la forma, ma l’uso e la rispondenza dei materiali, i rapporti cromatici
e un piacere fisico nello stabilire la finitezza dell’opera. Pensare secondo i modi del mosaico, significa aggirarsi
intorno al figurativo, senza compromettersi e senza rifuggire. Una sorta di zona neutra, in cui i colori (e la
qualità dei materiali), come nell’astratto, la fanno da padroni, secondo un rigoroso ordine compositivo, che
però finisce inevitabilmente per rifarsi a una forma geometrica, che a sua volta riconduce a simboli e significati
profondi, che non vengono svelati, ma lasciati agire sottilmente.
GIANPAOLO BERTO
GABBRIS FERRARI
Gian Paolo Berto è nato a Adria nel 1940 e ha iniziato a dipingere come autodidatta in giovanissima età, a soli
sedici anni ha tenuto la sua prima mostra nella Piccola galleria del Polesine a Rovigo. In quella occasione, Tono
Zancanaro e Carlo Levi apprezzano le opere del giovane artista. E poco più tardi sarà proprio Levi, riferimento
imprescindibile e costante, ad accogliere Berto nel suo studio romano stabilendo con lui un rapporto profondo
durato tutta la vita. Zancanaro, dal canto suo, introdurrà il giovane nel mondo della grafica, sollecitandolo a una
«poetica di intrecci, contaminazioni, velature, segni che rimandano da un archetipo all’altro e da un’intuizione
all’altra, in un processo di conoscenza». Titolare della cattedra di incisione e decano dei docenti all’Accademia
di Belle Arti di Roma e artista di fama internazionale, Berto è un vero e proprio vulcano, pronto a sconvolgere
abitudini e tempi organizzati, con gli estri e le piroette di uno che non si contenta della ingombra solitudine di
un atelier, ma in ogni momento della sua giornata, tra acciacchi veri o solamente paventati, chiacchiere di pittura
e filosofia, telefonate chilometriche a notte alta, entusiasmi e malinconie, slanci e ripensamenti, esercita una maieutica che è anche arte di una memoria infallibile con il vezzo dell’imprecisione. E tutto questo, va da sé, lo si
ritrova in una selva variegatissima di opere lungimiranti e straordinariamente composite, in cui la memoria e il
genius loci (continuo e inevitabile il rimando alle acque del Polesine e ai canali di Venezia) svaporano nel sogno.
Sogno vacillante di una società più giusta e sogno di amori perduti e impossibili, ma anche sogno che si apre
a un vero e proprio andirivieni di maestri, da Tono Zancanaro e Carlo Levi a Guttuso e Picasso e De Chirico,
che, a saper guardare oltre le immagini, è un nume tutelare.
Il rodigino Gabbris Ferrari era diventato pittore, quando era ancora poco più di un ragazzo. Da Angelo Prudenziato aveva, forse, appreso che la pittura è anche qualcosa che ha a che fare con tutto ciò che è fisico e
tangibile, che le forme sono le cose e che tutto bisogna toccare e sperimentare. Ma presto aveva imparato
che la pittura è anche esorcismo, capacità di esprimere che va oltre il tangibile, appunto, intuizione e avvicinamento progressivo, memoria incompiuta che continua nel tempo. E c’erano state le stagioni e i passaggi di una
storia personale, che aveva trovato felice, ma provvisoria, risoluzione sui palcoscenici dei teatri, dove la pittura
era percepibile dappertutto, ma viveva solamente in funzione di una rappresentazione. La pittura era anche
diventata, sotto le mentite spoglie del disegno, appunto di viaggio, riflessione e confessione, sfogo, indizio di
altri percorsi e perfino divinazione. Il pittore Gabbris (ri)nasce proprio quando il viaggio sembra approdare in
un porto definitivo, che invece, come era capitato a Ulisse e ad altri ancora, è invece un luogo da cui partire
nuovamente, con un itinerario mai casuale e sconosciuto, ma neppure noto, perché deciso e individuato di
momento in momento. È forse per questo che Gabbris Ferrari, dopo vent’anni di lontananza, ha dipinto e realizzato in pochi mesi, in uno stato di euforia e di turbamento, una settantina di opere, molte di grande formato
e di felicità espressiva, in cui gioia e dolore si mescolano e si mascherano in colori luminosi e chiari, in forme
sempre più inafferrabili, con presenze misteriose, ma anche rivelatrici.
MARCO LAZZARATO
Il badiese Marco Lazzarato, docente di plastica ornamentale all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, è anche
filosofico e delicatissimo artista da molto tempo affermato in campo nazionale e internazionale. Dapprima delicatezza e perfetta adesione alla tecnica dell’acquerello e gusto di un disegno che, dietro l’apparenza decorativa,
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Le schede sono a cura di Sergio Garbato
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MARIO SIRONI
TESORI DEL NOVECENTO
NELLA PINACOTECA
DELL’ACCADEMIA DEI CONCORDI
BRUNO MUNARI
LUIGI VERONESI
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ACHILLE PERILLI
LUCIO DEL PEZZO
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TOTI SCIALOJA
TOTI SCIALOJA
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ENRICO CASTELLANI
ENRICO CASTELLANI
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GIUSEPPE SANTOMASO
GIULIO TURCATO
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CARLA ACCARDI
GIOSETTA FIORONI
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CONCETTO POZZATI
ALBERTO BIASI
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LEONE MINNASSIAN
LEONE MINNASSIAN
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INDICE
Presentazione
pag.
3
Programma generale
pag.
4
La Musica
pag.
5
La Pittura
pag.
15
Tesori nel Novecento
nella Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi
pag.
41
Pubblicazione a cura di:
SERGIO GARBATO
Progetto grafico a cura di: BARBARA MIGLIORNI
Impaginazione&Stampa:
TIPOGRAFIA ARTESTAMPA (RO)
Le immagini fotografiche sono dell’Accademia dei Concordi
tranne quelle alle pagg. 46, 47, 48, 49, 50 ,51, 52, 54, 55 che sono di Paolo Ferrari.
L’opera in prima di copertina è il Violino di GIANPAOLO BERTO
L’opera in quarta di copertina è il Studio sul violoncello di GABBRIS FERRARI
Fondazione Banca del Monte di Rovigo
P.zza Vittorio Emanuele II, 48 - Rovigo
Tel. 0425 422905
Conservatorio Statale di Musica «F. Venezze»
Corso del Popolo, 241 - Rovigo
Tel. 0425 22273
Accademia dei Concordi
P.zza Vittorio Emanuele II, 14 - Rovigo
Tel. 0425 27991
Finito di stampare nel mese di Novembre 2012
n. copie 500