Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • pp. 197-266 Vol. 43 • N. 172 Ottobre-Dicembre 2013 Immunologia Pediatrica (a cura di Luigi D. Notarangelo) Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione Oncologia Pediatrica (a cura di Andrea Biondi) I tumori dei bambini e adolescenti in Italia Children with cancer in Europe: challenges and perspectives Il trapianto emopoietico e le terapie cellulari nella cura delle neoplasie ematologiche del bambino: da uno sguardo al passato alla proiezione futura FRONTIERE (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani) Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare Focus Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale In RICORDO Di Lucia Piceni Sereni Pacini Editore Medicina Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA Aut. Trib. di Milano n. 130 del 17/03/1971 - Stampa a tariffa ridotta - tassa pagata - Aut. 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Vol. 43 • N. 172 Ottobre-Dicembre 2013 INDICE numero 172 Ottobre-Dicembre 2013 Immunologia Pediatrica (a cura di Luigi D. Notarangelo) Presentazione Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo Emilia Cirillo, Vera Gallo, Giuliana Giardino, Claudio Pignata................................................................................................................ 199 Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive Chiara Azzari, Roberta Cupone, Elisa Giocaliere, Clementina Canessa, Francesca Lippi, Giancarlo la Marca...................................... 208 Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione Alessandro Plebani, Vassilios Lougaris, Annarosa Soresina, Raffaele Badolato................................................................................... 215 Oncologia Pediatrica (a cura di Andrea Biondi) Presentazione I tumori dei bambini e adolescenti in Italia Andrea Pession, Roberto Rondelli......................................................................................................................................................... 226 Children with cancer in Europe: challenges and perspectives Kathy Pritchard-Jones.......................................................................................................................................................................... 233 Il trapianto emopoietico e le terapie cellulari nella cura delle neoplasie ematologiche del bambino: da uno sguardo al passato alla proiezione futura Pietro Merli, Giuseppe Palumbo, Stefania Gaspari, Franco Locatelli.................................................................................................... 238 Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani) Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare Carmine Settembre, Alessandro Fraldi, Diego L. Medina, Andrea Ballabio........................................................................................... 246 FOCUS Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale Ennio Del Giudice, Angela Francesca Crisanti...................................................................................................................................... 258 In ricordo di Lucia Piceni Sereni Andrea Biondi ...................................................................................................................................................................................... 266 Immunologia pediatrica Le immunodeficienze primitive (IDP) rappresentano un gruppo eterogeneo di malattie, per lo più monogeniche, caratterizzate da difetti di sviluppo e/o funzione del sistema immunitario. Nonostante la loro rarità, le IDP hanno svolto un ruolo di fondamentale importanza nella storia recente della Medicina. In particolare, la prima applicazione con successo del trapianto di midollo osseo nell’uomo fu realizzata nel 1968 in un bambino affetto da immunodeficienza combinata grave (SCID) X-recessiva. Nel 1990, Michael Blaese e coll. effettuarono il primo tentativo di terapia genica in una bambina affetta da SCID da deficit di adenosina deaminasi (ADA). A distanza di alcuni decenni, lo studio delle IDP continua a fornire importanti spunti di sviluppo per il progredire dei metodi di diagnosi e cura e per una migliore comprensione della fisiopatologia dell’organismo umano. In questo numero, tre articoli di revisione illustrano alcuni di questi recenti sviluppi. Nell’articolo “Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo”, Pignata e collaboratori sfatano il dogma secondo cui elemento caratteristico e imprescindibile delle IDP debba essere necessariamente rappresentato da infezioni gravi, non selettive, per lo più a localizzazione multipla. Al contrario, nel corso degli ultimi 15 anni è stato chiaramente stabilito che difetti genetici a carico del sistema immunitario possono comportare una predisposizione selettiva nei confronti di singoli patogeni. L’articolo di Cirillo et al. si sofferma in particolare sulla suscettibilità mendeliana alle infezioni da micobatteri e sulla candidiasi mucocutanea cronica, ma altri esempi noti di difetti immunitari “selettivi” comprendono la suscettibilità ad infezioni da piogeni e l’encefalite erpetica. È interessante osservare come in alcuni casi il progresso nelle tecniche di analisi genetica, oggi spesso basate su sequenziamento delle intere regioni esoniche o dell’intero genoma, ha portato a “riscoprire” difetti che la Medicina accademica aveva ormai dimenticato. La candidiasi mucocutanea cronica ne è un valido esempio: riconosciuta come entità nosologica negli anni ’70-’80, era poi “scomparsa” dalla lista ufficiale delle IDP formulata dall’apposito Comitato della International Union of Immunological Societies, salvo poi “ricomparire”, una volta identificati difetti a carico di vari geni necessari per lo sviluppo dei linfociti TH17, principale elemento cellulare di difesa contro la candida. Nello stesso articolo, Cirillo et al. forniscono altri esempi “non ortodossi” di IDP, in particolare caratterizati da disreattività immunitaria, come nelle forme leaky dei difetti dei geni RAG o nelle sindromi con iper-IgE. Questa nuova visione, certo più complessa, ma anche più interessante, delle IDP, impone che il medico abbia un atteggiamento meno conservatore nell’approccio diagnostico alle IDP. Per rimanere invece nel capitolo delle forme tipiche di IDP, e in particolare di quelle a presentazione più precoce e a prognosi più grave (le SCID), un’autentica rivoluzione è stata rappresentata dall’avvento di tecniche di screening neonatale. Tale argomento viene sviluppato nell’articolo di Azzari e coll. Partendo da studi in pazienti con AIDS, Douek et al. avevano dimostrato che è possibile quantificare la produzione di nuovi linfociti T nel timo, misurando nelle cellule del sangue periferico i livelli di T cell receptor excision circles (TRECs), un sottoprodotto del riarrangiamento genico del T cell receptor (TCR). Si tratta di frammenti di DNA che vengono generati durante il riarrangiamento del locus del TCRa. Tali frammenti vengono circolarizzati e persistono nei linfociti TCRab+ che vengono rilasciati dal timo, ma vengono poi progressivamente diluiti durante i processi replicativi degli stessi linfociti T in periferia. Indipendentemente dalla natura del difetto genetico, tutte le forme tipiche di SCID sono caratterizzate da un grave difetto di produzione dei linfociti T. Misurando mediante PCR quantitativa (qPCR) i livelli di TREC presenti nei campioni di sangue raccolti alla nascita su cartoncini di Guthrie, è possibile stabilire se il neonato ha una produzione valida di linfociti T (TREC nei limiti della norma) o se al contrario vi è un grave difetto di produzione dei linfociti T (TREC indosabili o gravemente ridotti). Quest’ultima condizione è fortemente sospetta for SCID e deve indurre ad accertamenti di secondo livello (conta linfocitaria, citofluorimetria a flusso, test funzionali) volti ad accertare in modo definitivo la presenza di una SCID. Lo screening neonatale per la SCID basato sulla determinazione dei livelli di TREC alla nascita è attualmente utilizzato in 17 Stati negli USA e oltre 3 milioni di bambini sono stati già sottoposti a screening. Più di 50 casi di SCID sono stati correttamente identificati in epoca pre-sintomatica, permettendo l’immediato ricorso a misure preventive e risolutive. L’importanza della diagnosi precoce delle SCID è sottolineata dall’osservazione che questa condizione, altrimenti inevitabilmente fatale, può essere trattata con successo col trapianto di cellule staminali ematopoietiche (e in alcune forme anche con terapia genica o con terapia enzimatica sostitutiva). Dati prodotti dalla dott.ssa Buckley alla Duke University e recentemente confermati su una ampia casistica del registro nord-americano del Primary Immune Deficiency Treatment Consortium dimostrano che se il trapianto di midollo osseo viene effettuato in bambini con SCID di età inferiore a 3,5 mesi di vita, la percentuale di sopravvivenza è superiore al 90%. Se questi dati dimostrano l’utilità del test di screening basato sui TREC, va tuttavia sottolineato che il test presenta alcuni lati problematici. In particolare, si tratta di un test che identifica non solo le SCID, ma in generale tutte le condizioni di grave linfopenia T, compresi quindi alcuni casi di Sindrome di George, altre sindromi malformative con coinvolgimento timico (CHARGE, Sindrome di Jacobsen, 197 L.D. Notarangelo ecc), condizioni con perdita di linfociti T nel terzo spazio (chilotorace, grave ascite). Inoltre, valori ridotti di TREC sono stati osservati nei nati prematuri. Tutto ciò pone importante problemi di diagnosi differenziale. Al contempo, forme leaky di SCID possono non essere diagnosticate correttamente dal test di determinazione dei livelli di TREC. Ciò vale in particolare per alcune varianti a esordio tardivo del deficit di ADA. Azzari e la Marca hanno realizzato un test alternativo per la diagnosi neonatale di deficit di ADA basato sulla spettrometria di massa, dimostrandone la superiorità rispetto al test basato sui TREC nel riconoscere queste forme leaky di SCID da deficit di ADA. Con la crescente diffusione della spettrometria di massa nello screening neonatale delle malattie metaboliche, è lecito attendersi ulteriori sviluppi anche nella diagnosi di altre forme di immunodeficienza congenita. Infine, diversi gruppi stanno lavorando alla realizzazione di uno screening neonatale dell’agammaglobulinemia congenita, attraverso la misurazione mediante qPCR dei livelli di KRECs (kappa receptor excision circles), un sottoprodotto del riarrangiamento genico al locus kappa delle catene leggere immunoglobuliniche, che testimonia la presenza di un’efficace linfopoiesi B (difettiva invece nei pazienti con agammaglobulinemia congenita). La combinazione TREC-KREC potrebbe infine permettere il riconoscimento più fine di varianti SCID a fenotipo T- B- rispetto a varianti T- B+, in opposizione a condizioni di difetto isolato dei linfociti B (TREC normali, KREC assenti). L’utilità in termini di costi e vantaggi sanitari e sociali di tecniche di screening neonatale che comprendano non solo i TRECs, ma anche i KRECs è tuttavia ancora da dimostrare. Infine, nel terzo articolo di questo numero, Plebani e coll. presentano un’esaustiva rassegna delle indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi di azione delle immunoglobuline. Nel corso degli anni, vi è stata un’importante evoluzione nelle tecniche di preparazione dei preparati di immunoglobuliniche per uso terapeutico. Con le tecniche più moderne di preparazione, è stato possibile produrre preparati molto più sicuri, ovviando in tal modo a gravi infezioni (come diversi casi di epatite C) verificatisi all’inizio degli anni ’80 in pazienti trattati con immunoglobuline per via endovenosa (IVIG). Nel corso degli ultimi quindici anni, importanti variazioni di mercato hanno imposto un ripensamento sulle indicazioni d’uso delle immunoglobuline. In particolare, a fronte di un numero di donatori di plasma che, seppure in crescita, non è variato considerevolmente, è cresciuto enormemente il numero di potenziali pazienti: basti pensare all’ingresso nel mercato di nuovi paesi consumatori di immunoglobuline, come Cina e India. Particolarmente puntuale è quindi la discussione, affrontata da Plebani e coll., su indicazioni consolidate e impiego off-label delle immunoglobuline. La stessa modalità di somministrazione è stata oggetto di rivisitazione. Oltre a formulazioni per uso endovenoso, si è affermato l’impiego per via sottocutanea, che offre al paziente una maggiore convenienza nel decidere quando effettuare la terapia e soprattutto la possibilità di effettuarla a domicilio. Importanti differenze organizzative e nelle procedure di rimborso delle spese sanitarie da paese a paese rappresentano peraltro ancora oggi il fattore che maggiormente incide sulla ripartizione del mercato interno tra somministrazione per via endovenosa e somministrazione per via sottocutanea. Infine, Plebani e coll. discutono i più recenti sviluppi sui meccanismi d’azione (accertati e presunti) delle immunoglobuline, con riferimento in particolare agli studi di Ravetch sugli effetti immunomodulanti della regione F(ab)2 e sull’interazione del frammento Fc delle immunoglobuline con diversi recettori. Più recentemente, l’attenzione dei ricercatori si è soffermata sulla glicosilazione del frammento Fc, che sembra svolgere un ruolo importante nel determinare gli effetti immunomodulanti dei preparati immunoglobulinici stessi. Si tratta di studi ancora in fase iniziale, ma che potrebbero offrire importanti sviluppi, potenzialmente in grado di modificare in modo radicale la procedure di preparazione e modificazione delle immunoglobuline per uso terapeutico. L’immunologia pediatrica è quindi in continua evoluzione. I tre argomenti trattati in questo numero ne sono un’autorevole dimostrazione. Luigi D. Notarangelo Division of Immunology, Boston Children’s Hospital Harvard Stem Cell Institute, Boston, MA (USA) 198 Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 199-207 immunologia pediatrica Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo Emilia Cirillo, Vera Gallo, Giuliana Giardino, Claudio Pignata Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università “Federico II”, Napoli Riassunto Nel settore delle immunodeficienze primitive (IDP) vi è stata negli ultimi decenni una rapida evoluzione, che ha portato ad un considerevole ampliamento delle conoscenze, e di conseguenza alla ridefinizione nosografica delle diverse forme. È stata da sempre sottolineata l’importanza di definire in maniera puntuale i campanelli di allarme e i segni di presentazione delle diverse forme in modo da coglierne precocemente l’esordio. Dal punto di vista clinico, le alterazioni del sistema immunitario sono state storicamente associate ad una aumentata suscettibilità a contrarre infezioni gravi, non selettive, frequentemente a localizzazione multipla e sostenute da germi opportunistici o non comuni. Inoltre, le immunodeficienze più gravi sono state considerate in passato ad esordio precoce nei primi due anni di vita, con sintomi tipici quali arresto di crescita, diarrea intrattabile, infezioni severe ricorrenti e resistenti al trattamento, ascessi di organo e cutanei ricorrenti, a seconda delle forme. Attualmente, accanto a forme tipiche in cui l’immunodeficienza cellulare, umorale o combinata si presenta clinicamente con un quadro classicamente indicativo di una risposta immune deficitaria, sono stati descritti casi clinici atipici, in cui i segni di presentazione sono meno suggestivi di un immunodeficit di base. In questo articolo di revisione affrontiamo il problema della diagnosi differenziale di alcune di queste forme di recente identificazione, partendo da quattro campanelli d’allarme o segni clinici chiave con lo scopo di allertare non solo lo specialista immunologo, ma anche e soprattutto il pediatra, che ha il non facile compito di sospettare precocemente un numero sempre maggiore di malattie complesse. Summary The field of primary immunodeficiencies (PID) has been characterized in the last decades by a rapid evolution that has led to a considerable expansion of knowledge, and, subsequently, to a nosografic re-classification of the different forms. The importance of defining in a timely manner the alarm signals and signs of presentation of the different forms has always been pointed out for an early diagnosis. From a clinical standpoint, the alterations of the immune system have been typically associated with an increased susceptibility of patients with PID to severe, non-selective, infections, frequently affecting multiple tissues and supported by uncommon and opportunistic germs. In addition, in the past, PID have been stereotyped as severe disorders, characterized by an early onset in the first two years of life, with typical symptoms such as failure to thrive, intractable diarrhea, recurrent and severe infections resistant to treatment, multiple organ and cutaneous abscesses. Moreover, the recovery from whichever infection was considered sufficient to rule out a PID. For a long time, it was assumed that a defective immune system, not able to respond to non-self antigens, was necessarily not able to respond to self-antigens as well. Therefore, it was thought that autoimmunity could not occur in patients with primary immunodeficiencies. These “dogmas” have been confuted, with the recent identification of novel forms of PIDs, characterized by peculiar clinical phenotypes. Along with typical forms of cellular, humoral or combined immunodeficiencies presenting with a range of clinical signs indicative of defective immune responses, several cases have been reported which are characterized by atypical clinical signs, that are less suggestive of an underlying immunodeficiency. In this review, we approach the differential diagnosis of novel PIDs based on four presenting signs, and discuss novel and recently identified underlying genetic defects, with the aim to alert not only the immunologist but also the pediatrician for an early recognition of such complex disorders. Parole chiave: Immunodeficienze primitive, granuloma epitelioide, immunodeficienza grave combinata, Iper IgE, anomalie ectodermiche con immunodeficienza, candidiasi cronica Key words: Primary immunodeficiencies, epitelioid granuloma, severe combined immunodeficiency, Hyper IgE, ectodermal dysplasia with immunodeficiency, chronic candidiasis Introduzione Le immunodeficienze primitive (IDP) rappresentano un settore della Pediatria in cui vi è stata una sorprendente evoluzione delle conoscenze nelle ultime due decadi. In particolare, è stato identificato un considerevole numero di nuove forme, ben definite sia dal punto di vista del quadro clinico che dell’alterazione genetica e del meccanismo molecolare sotteso. In conseguenza di tale progresso di conoscenze, in poco più di venti anni il numero delle IDP è passato da poco più di dieci malattie note negli anni ’80 alle oltre 250 nosograficamente distinte ad oggi descritte (Al-Herz et al., 2011; Parvaneh et al., 2013). Tale incremento di conoscenza è stato favorito dalla maggiore attenzione clinica e dall’applicazione alle problematiche cliniche delle avanzate tecnologie di genetica ed immunologia molecolare. Non sorprende, quindi, che gli scenari clinici di presentazione ed i campanelli di allarme che possono aiutare a riconoscere tali patologie siano oggi alquanto diversi rispetto a quanto noto in passato. È opportuno, pertanto, che si inizi ad approcciare il tema delle novità nel contesto delle IDP affrontandolo per problemi, piuttosto che nel modo sistematico, come di consueto. Obiettivo della revisione In questa review ci si soffermerà sulle immunodeficienze che si presentano con: • Granuloma epitelioide • Valori molto elevati di IgE • Alterazioni degli annessi cutanei • Candidiasi persistente che vengono quindi considerati importanti segnali di sospetto Metodologia della ricerca bibliografica effettuata I dati presentati nella review sono stati selezionati tramite una ricerca condotta sulla la banca bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca Pubmed con le seguenti parole chiave: primary 199 E. Cirillo et al. immunodeficencies, granuloma and immunodeficiencies, SCID, hyper IgE syndrome, ectodermal dysplasia with immunodeficiency, Nude-SCID, mucocutaneous candidiasis. Sono state selezionate le pubblicazioni relative agli ultimi 5 anni ristrette alla fascia “all child (birth-18 years)”. Immunodeficienze primitive associate a lesioni granulomatose Il granuloma come segno di immunodeficienza Il granuloma epitelioide è una lesione che, generalmente, indica uno stato infiammatorio cronico. Istologicamente è costituito da cellule epitelioidi, macrofagi, linfociti, plasmacellule e fibroblasti, con un’organizzazione nodulare tipica degli elementi infiammatori. Esso rappresenta spesso la risposta specifica dell’organismo a un agente estraneo (granulomi da corpo estraneo o non immunogeno) o ad un processo infettivo specifico: batterico, virale o parassitario (granuloma infettivi o immunologico o da ipersensibilità). È noto da tempo che una lesione granulomatosa possa essere caratteristica peculiare di alcune IDP, quali la Malattia Granulomatosa Cronica, l’Immunodeficienza Comune Variabile e la Sindrome di Chediak-Higashi. Tuttavia negli ultimi anni l’osservazione che in un numero sempre crescente di IDP si osservano lesioni granulomatose ha indotto i clinici a considerare il granuloma un segno di inadeguata risposta immunitaria a un persistente agente infettivo e, pertanto, una spia di immunodeficienza. Alcune forme di IDP, quali la Suscettibilità mendeliana alle malattie da micobatteri (MSMD) ed alcune varianti di SCID, suggeriscono che il granuloma debba sempre far sospettare una condizione di immunodeficienza. Suscettibilità mendeliana alle micobatteriosi La MSMD è una sindrome rara caratterizzata da una predisposizione a sviluppare infezioni gravi sostenute da specie di micobatteri scarsamente virulente, quali i micobatteri ambientali non tubercolari (MOTT) e il bacillo di Calmette-Guèrin (BCG). I pazienti affetti presentano anche una maggiore vulnerabilità alle infezioni da Mycobacterium tuberculosis e da specie di Salmonella non tifoidee (Bustamante et al., 2011), mentre superano normalmente le altre comuni infezioni. L’epoca di esordio della malattia è generalmente in età infantile (nella maggior parte dei casi nei primi 3 anni) ma si può manifestare anche in età adulta. Lo spettro di presentazione è variabile, da infezioni locali ricorrenti da MOTT fino ad infezioni disseminate e letali da BCG. La gravità del fenotipo clinico dipende anche dal genotipo. La MSMD è legata a disordini dell’asse IL-12-INF-γ. La risposta dell’ospite ai micobatteri inizia, infatti, con la fagocitosi del micobatterio da parte dei macrofagi, che iniziano a secernere IL-12. La produzione di tale citochina è promossa anche dall’attivazione della via del CD40-CD40L. L’IL-12 induce il reclutamento e l’attivazione di linfociti T CD4+ e CD8+ nel sito di infezione, dove, riconoscendo gli antigeni micobatterici presentati dai macrofagi, producono alcune citochine, in particolare IFN-γ e TNF-α. A sua volta l’IFN-γ si lega al recettore presente sugli stessi fagociti, amplificandone le funzioni anti-micobatteriche e aumentando la produzione di IL-12 (Bustamante et al., 2008; Saunders et al., 2007). Attualmente, sono state descritte alterazioni genetiche e, in particolare, mutazioni germinali a trasmissione autosomica a carico di 6 geni (IFNGR1, IFNGR2, STAT1, IL12B, IL12RB1, IRF8), coinvolti nel pathway di signaling di IFNγ, IL12 ed IL23, citochine coinvolte specificamente nella difesa 200 dai micobatteri. In particolare, le mutazioni che riguardano IFNGR1, IFNGR2 e STAT1 sono responsabili dell’alterazione della risposta cellulare all’IFN-γ, mentre quelle a carico di IL12RB1 e IL12B alterano direttamente il funzionamento di tale citochina. Accanto a queste forme a trasmissione autosomica, sono state descritte due forme a trasmissione recessiva legata al cromosoma X, associate a mutazioni dei geni NEMO e CYBB. Tali geni sono da tempo noti quali causa di altre due immunodeficienze primitive, Displasia Ectodermica Anidrotica con immunodeficienza (EDAID) e Malattia Granulomatosa Cronica X-linked (CGD) (Bustamante et al., 2011). A differenza di queste ultime due immunodeficienze, le mutazioni di NEMO che determinano aumentata suscettibilità alle micobatteriosi interferiscono solo con la produzione da parte dei mononucleati di IL-12, CD40indotta, mentre le mutazioni di CYBB (che codifica per la proteina gp91phox), coinvolgono selettivamente il burst respiratorio all’interno dei macrofagi e non dei neutrofili. Tali mutazioni possono quindi causare MSMD, alterando selettivamente un singolo pathway di signaling (CD40-IL-12, NEMO) o esclusivamente i macrofagi, nel caso della mutazione di CYBB. Recentemente è stata descritta una nuova causa genetica di MSMD: la mutazione in omozigosi del gene ISG15, che codifica per la proteina ISG15, una molecola ubiquitin-like la cui sintesi è indotta dagli IFN-α e β, citochine importanti nella difesa contro i virus. Il quadro clinico associato a tale mutazione è caratterizzato da un esordio precoce delle infezioni micobatteriche, scarsamente responsive alla terapia antimicrobica, ma non da aumentata frequenza di infezioni virali., Infatti la ridotta secrezione di ISG15 da parte dei granulociti neutrofili dopo stimolazione micobatterica, determina una ridotta produzione di INF-γ prevalentemente nelle cellule natural killer, con conseguente aumentata suscettibilità alle micobatteriosi. Questo dimostra che il gene ISG15 ha un suo ruolo chiave nella risposta ai micobatteri ed è invece ridondante, non rilevante nelle difese antivirali (Bogunovic et al., 2012). L’identificazione di questi disordini genetici ha importanti implicazioni soprattutto terapeutiche. Infatti, l’identificazione precoce di questi pazienti potrebbe contribuire ad orientare la scelta della migliore opzione terapeutica possibile, tra profilassi antibiotica a lungo termine, somministrazione di IFN-γ o trapianto di midollo osseo. Nuove varianti di SCID I geni RAG 1 e RAG2 condificano per proteine essenziali per promuovere il processo di ricombinazione delle catene V(D)J del TCR e del recettore per l’antigene delle immunoglobuline. Conseguentemente, mutazioni dei geni RAG nell’uomo erano state associate ad una variante di SCID con fenotipo T-B-NK+, ma anche a forme “atipiche” con presenza di una quota residua di linfociti T autologhi oligoclonali, come nel caso della Sindrome di Omenn e di altre varianti atipiche di “leaky” SCID. Le mutazioni genetiche che determinano un’attività enzimatica residua nulla di RAG 1 e 2 sono responsabili della forma classica, mentre mutazioni ipomorfiche con attività enzimatica residua sono alla base delle restanti forme (Tab. I). Tra queste, la forma descritta più di recente è la forma associata a lesioni granulomatose. Si differenzia dalle altre SCID, per l’età di insorgenza più avanzata, (dopo il terzo anno di vita) e la bassa incidenza di infezioni pericolose quoad vitam. Anche l’immunofenotipo che la caratterizza tale forma è peculiare (T+B+NK+), con un numero di linfociti B e T ridotto ma non completamente assente. Altre caratteristiche immunologiche riscontrate nei pazienti affetti sono l’eosinofilia con livelli di IgE non elevati, livelli di immunoglobuline nella norma e risposta anticorpale presente; sporadicamente è stato riscontrato deficit selettivo di IgA. Tale forma di SCID si caratterizza per il peculiare Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo Tabella I. Caratteristiche cliniche, genetiche e immunofenotipiche delle differenti forme di SCID associate a mutazioni dei geni RAG 1 e RAG2. Disordine SCID classica Genotipo Mutazioni con attività enzimatica residua <1% Immunofenotipo Caratteristiche cliniche T-B- NK+ Infezioni severe polmonari e intestinali batteriche, virali e fungine, assenti linfonodi, tonsille e adenoidi T+B- NK+ GVHD T+ B- NK+ Eritrodermia, alopecia acquisita, linfoadenomegalia e epato-splenomegalia Sindrome di Ommen incompleta T+ B-/+ NK+ Diarrea protratta, eritrodermia/rash cutaneo e epatomegalia SCID con espansione di cellule Tγδ T+ B-/+ NK+ Infezioni virali severe, ulcere genitali e orali, citopenia autoimmune e linfoproliferazione EBV correlata SCID con lesioni granulomatose T+ B+ NK+ Infiammazione granulomatosa della cute e altri tessuti, riduzione conta linfocitaria, autoimmunità SCID classica con trasfusione maternofetale Sindrome di Ommen classica Mutazioni con attivita enzimatica residua >1% sviluppo di granulomi epitelioidi, non caseosi in differenti organi e tessuti, quali la cute, i polmoni, la lingua, linfonodi e milza (Schuetz et al., 2008). Il meccanismo immunopatogenetico alla base della formazione di tali lesioni resta a tutt’oggi sconosciuto. È possibile che rappresentino il tentativo del sistema immunitario difettivo di arginare microrganismi patogeni a bassa virulenza, che non riesce altrimenti a eliminare. È inoltre possibile che altre mutazioni in geni diversi da RAG, geni modificatori, possano essere implicati nella formazione di tali granulomi. L’identificazione di forme ad insorgenza tardiva con fenotipi più lievi modifica radicalmente il paradigma delle SCID, da sempre considerate malattie molto gravi e letali, se non trattate entro il primo anno di vita. Pertanto, il sospetto di tale diagnosi va posto in quei pazienti che si presentano con lesioni granulomatose, non altrimenti spiegabili indipendentemente dall’età di esordio. Va ricordato, tuttavia, che alcuni casi con fenotipo sovrapponibile possono essere dovuti a engraftment materno, ovvero alla presenza di linfociti T materni che per via transplacentare raggiungono il circolo fetale (Al-Muhsen, 2010). Nei neonati sani i linfociti materni vengono rapidamente eliminati dai linfociti T immunocompetenti del ricevente, ma nei bambini immunodeficienti possono persistere a lungo per l’assenza di risposta T. Clinicamente l’engraftment materno va sospettato nei casi caratterizzati dalla presenza di segni clinici e laboratoristici tipici della graft-versus-host disease, che interessa prevalentemente la cute, l’intestino e il fegato. Recentemente, sono stati descritti due casi in cui l’engraftment materno ha causato rigetto del trapianto allogenico e citopenia autoimmune (Palmer et al., 2007), ma in alcuni casi può essere asintomatico. L’identificazione dei linfociti T di origine materna può essere effettuata con diverse tecniche, tra cui la tipizzazione HLA ad alta risoluzione, l’ibridazione fluorescente in situ ed RFLP (restriction fragment length polymorphism), utilizzando marcatori molecolari che riconoscono regioni variabile del DNA presenti esclusivamente nella madre. Immunodeficienze primitive con elevati valori di IgE Livelli elevati di IgE sono spesso riscontrati in IDP con eczema e infezioni ricorrenti, quali la Sindrome di Omenn, da mutazioni ipomorfiche in geni RAG1, RAG2, ARTEMIS, ADA e RMRP; la Sindrome di Wiskott-Aldrich da mutazioni del gene WAS; la Sindrome IPEX (immunodisregolazione, poliendocrinopatia, enteropatia, X-Linked) causata da mutazione del gene FOXP3 e la Sindrome di Comel-Ne- therton da difetto di SPINK5 (Tab. II). Ciascuno di questi disordini presenta caratteristiche peculiari che li contraddistinguono dalle forme più note come le sindromi da Iper IgE (HIES) (Tab. III). Tali disordini sono caratterizzati globalmente da livelli molto elevati di IgE (> 2000 UI/L), eczema grave, suscettibilità a contrarre infezioni da Stafilococco aureo o miceti, polmoniti ricorrenti con tendenza a neoformazione di pneumatocele (Yong et al., 2012) e possono essere ereditati in maniera autosomica dominante (AD) o autosomica recessiva (AR). Talora sono stati descritti casi sporadici. Non sempre è agevole differenziarle dalle forme gravi di dermatite atopica, in cui si possono riscontrare valori molto elevati di IgE sieriche, e talvolta infezioni virali o batteriche, anche perché il fenotipo clinico spesso diviene evidente nella sua complessità solo nel corso degli anni, e ciò può determinare ritardo nella diagnosi, soprattutto per i pazienti in età pediatrica o che presentano forme più attenuate di malattia. Studi recenti hanno dimostrato che mutazioni ipomorfiche nel gene STAT3 sono responsabili della forma AD (Holland et al., 2007), caratterizzata dalla classica triade sintomatologica rappresentata da ascessi cutanei “freddi” ricorrenti da stafilococco, infezioni ricorrenti delle vie aree, aumentata concentrazione delle IgE sieriche. Tale triade è presente nel 75% di tutti i casi di HIES AD e nell’85% dei casi nei bambini di età superiore agli 8 anni. In molti casi il rash neonatale è il primo segno della malattia. Nel bambino con difetto di STAT3, oltre allo Stafilococco aureo, spesso meticillino-resistente, seppur con minor frequenza è possibile ritrovare infezioni da Haemophilus influenzae e da Streptococcus pneumoniae. Le infezioni broncopolmonari inoltre rappresentano fattore predisponente alla colonizzazione da agenti opportunisti quali Pseudomonas aeruginosa ed Aspergillus fumigatus, con il rischio di sviluppare aspergillosi invasiva e aspergillomi. Circa l’80% di tali soggetti sono affetti da candidiasi mucocutanea cronica; inoltre sono state descritte anche forme fungine extrapolmonari dovute ad infezione da Cryptococcus e Histoplasma (Vinh et al., 2010). La suscettibilità alle infezioni nei pazienti affetti da HIES è dovuta ad alterazioni della funzione delle cellule Th17 per difetto della trasduzione del segnale mediato da diverse citochine, in particolare IL-6 e IL-22 (Milner et al., 2008). Nel 2004, Renner e collaboratori hanno descritto una forma di sindrome con iper-IgE ad ereditarietà AR, con caratteristiche comuni alla forma classica, ma con un differente profilo di suscettibilità alle infezioni, spesso con complicanze neurologiche, elevata predisposizione ad autoimmunità e disordini proliferativi. 201 E. Cirillo et al. Tabella II. Immunodeficienze primitive con aumentati livelli di IgE e manifestazioni cutanee: vecchi e nuovi fenotipi. Disordine Ereditarietà Gene Caratteristiche immunologiche Fenotipo clinico Sindrome di Omenn AR Mutazioni ipomorfiche in geni RAG1/2, ARTEMIS, ADA e RMRP, IL/Ra, DNA ligasi IV, γc, geni non noti Aumento IgE, riduzione delle Ig sieriche, linfociti T presenti ma con ridotta eterogeneità, linfociti B normali o ridotti Sindrome di Wiskott-Aldrich XL WAS Aumento IgA e IgE, difetto di Microtrombocitopenia, eczema, risposta linfocitaria, ridotta disordini autoimmuni, eczema, risposta antigeni polisaccaridici infezioni virali e batteriche #301000 Sindrome di Wiskott-Aldrich 2 AR WIPF1 Riduzione linfociti B e linfociti T CD8, riduzione dell’attività NK Eczema, trombocitopenia, infezioni ricorrenti #614493 Sindrome di Comel-Netherton AR SPINK5 Aumento IgE, ridotti livelli di IgA, riduzione di linfociti B switched e non switched Ittiosi, capelli bamboo, atopia, suscettibilità infezioni batteriche e virali, difetto di crescita #256500 IPEX XL FOXP3 Difetto e/o alterata funzione di cellule T regolatorie CD4+ CD25+ FOXP3+ livelli di IgA e IgE normali/elevati Enteropatia autoimmune, diabete mellito ad esordio precoce, eczema, disordini autoimmuni #304790 Sindrome di Olmsted AR TRPV3 IgE e IgA elevate, riduzione IgG3, ipereosinofilia Cheratodermia palmo-plantare, alopecia, onicodistrofia, infezioni, cutanee ricorrenti batteriche e fungine, carcinoma a cellule squamose #614594 Eritrodermia, eosinofilia, adenopatia, epatosplenomegalia Numero OMIM #603554 Tabella III. Caratteristiche cliniche e immunologiche delle Sindromi da Iper IgE (HIES). Disordine Gene HIES AD STAT3 Riduzione linfociti Th17; ridotta risposta anticorpale specifica; riduzione linfociti B memory switched e non switched Dismorfismi faciali, eczema, osteoporosi e fratture, anomalie dentarie, iperestensibilità legamentosa, infezioni batteriche da Staphylococcus aureus (ascessi polmonari e cutanei, pneumatoceli), candidiasi #147060 HIES AR TYK2 Difetto di signaling indotto da citochine Suscettibilità a batteri intracellulari (micobatteri, salmonella), funghi e virus #611521 Riduzione linfociti T e B e cellule NK, aumento IgE, riduzione IgM Atopia severa, ipereosinofilia, infezioni ricorrenti, infezioni cutanee severe virali e batteriche, predisposizione al cancro #243700 DOCK8 Caratteristiche immunologiche Nell’ambito di tale variante, che differisce dalla forma classica sia per modalità di trasmissione genetica sia per caratteristiche cliniche, un primo difetto genetico venne identificato nel 2006, con il riconoscimento di mutazioni del gene TYK2 (Minegishi et al., 2006). In particolare, il paziente affetto da questa variante presentava alterazioni dei sistemi di trasduzione del segnale mediato dall’IFN a, IL-6, IL-10, IL-12 e IL23, con conseguente malfunzionamento dei meccanismi di immunità innata ed adattiva. Il difetto di TYK2 rimane comunque una forma molto rara, le cui caratteristiche cliniche sono peraltro controverse, come dimostrato dalla descrizione di un secondo caso, con presentazione clinica assai diversa, caratterizzata da infezione disseminata da BCG, zoster ricorrente e neurobrucellosi, in assenza di livelli elevati di IgE (Kilic et al., 2012). D’altra parte, molti casi di sindrome con iper-IgE a trasmissione autosomico-recessiva 202 Fenotipo clinico Numero OMIM sono stati ascritti ad alterazioni del gene DOCK8, che codifica per una proteina coinvolta nella regolazione dello citoscheletro (Zhang et al., 2009). I pazienti con difetto di DOCK8 soffrono di infezioni virali gravi, che colpiscono soprattutto la cute (HPV, verruche) e che sono ad elevato rischio di degenerazione maligna. Inoltre, fa parte della sindrome una grave suscettibilità a manifestazioni allergiche, con associati livelli elevati di IgE. Recentemente è stato descritto un paziente affetto da sindrome di Olmsted da difetto del gene TRPV3, caratterizzato da lesioni ipercheratosiche periorifiziali e cheratodermia palmo-plantare associato ad un particolare fenotipo immunologico con elevati valori di IgE, ipereosinofilia ricorrente, frequenti infezioni cutanee da batteri e funghi, in particolare da Candida albicans, aumento di IgA, con IgG3 tendenzialmente ridotte. Il quadro suggerisce un ruolo primario del Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo gene, espresso in cheratinociti e cellule di Langherans cutanee, nella risposta immune (Danso-Abeam et al., 2013). Immunodeficienze associate ad alterazioni cutanee Anche specifiche anomalie a carico della cute e degli annessi cutanei, quali secchezza cutanea e fragilità dei capelli, anomalie ungueali e anomalie della dentizione, possono rappresentare un campanello d’allarme di immunodeficienza. Le principali sindromi associate ad anomalie di cute ed annessi cutanei sono la displasia ectodermica anidrotica con immunodeficit, la Sindrome Nude/SCID, la Sindrome autoimmune poliendocrina di tipo 1 (APS1 o APECED – autoimmune polyendocrinopathy-candidiasis-ectodermal dystrophy), la Sindrome di Chediak-Higashi. La displasia ectodermica (ED) comprende un vasto e complesso gruppo di patologie (Priolo et al., 2000) caratterizzate da un difetto di sviluppo di due o più strutture originate dall’ectoderma (OMIM_34500). Attualmente, sono note oltre 190 forme di ED, con un’incidenza stimata intorno a 7 casi ogni 10000 nati vivi. Possono presentarsi sia come forme sporadiche sia come malattie ereditate secondo le diverse modalità di trasmissione mendeliana, AD, AR, X-linked dominante o recessiva (Tab. IV). Sono caratterizzate da anomalie di capelli, unghie e ghiandole sudoripare ed in alcuni casi possono essere associate ad alterazioni in altri organi e sistemi e a ritardo mentale (Itin et al., 2004; Priolo et al., 2000). L’epidermide è secca, sottile ed ipopigmentata con ipercheratosi ed eczemi. Possono essere presenti note dismorfiche, quali fronte pronunciata, labbra spesse, gonfie e sporgenti. I capelli sono generalmente biondi, con frequenti ipotricosi e segni di alopecia totale o parziale. Anomalie ungueali possono includere distrofia, ipertrofia e difetti di cheratinizzazione. Vi può essere oligodontia, anodontia o denti di forma conica. L’ipoplasia delle ghiandole sudoripare può determinare intolleranza al calore e ipertermia. L’assenza di ghiandole mucose nel tratto respiratorio e gastrointestinale può causare infezioni frequenti (Kupietzky et al., 1995). La displasia ectodermica anidrotica rappresenta la forma più comune (Itin et al., 2004; Kupietzky et al., 1995) con frequenza nella popolazione di 1:100.000. Tale sindrome può essere trasmessa come tratto recessivo legato al cromosoma X (Kupietzky et al., 1995), autosomico dominante ed autosomico recessivo (Priolo et al., 2000) ed è causata da mutazioni in una delle molecole coinvolte nel pathway dell’ectodisplasina (EDA, OMIM_224900). Mutazioni a carico di molecole coinvolte nel pathway dell’NF-kB e in particolare a carico del gene NEMO (NF-KB Essential Modulator), sono responsabili di forme di displasia ectodermica con immunodeficienza (Fig. 1), anche se alcune mutazioni di NEMO sono responsabili di immunodeficienze diverse come la Sindrome da Iper-IgM tipo 6. La Displasia Ectodermica Ipoidrotica con Immunodeficit (HED-ID) è un’immunodeficienza ben codificata, nella quale le anomalie della cute, degli annessi cutanei e dei denti, tipiche delle displasie ipoidrotiche, si associano ad una compromissione del sistema immunitario cellulare ed umorale con aumentata suscettibilità alle infezioni. Le mutazioni di NEMO sono responsabili di un’alterazione del segnale indotto dai TLR, che si manifesta con la mancata produzione di IL-6 in risposta alla stimolazione cellulare con agonisti dei TRL in vitro e con un’aumentata suscettibilità ad infezioni invasive da batteri piogeni in vivo. I valori di IgG, in particolare di IgG2, sono ridotti, occasionalmente anche quelli di IgA, IgM ed IgE. È spesso presente anche un’iper-IgD. Il difetto della produzione di anticorpi contro antigeni specifici è una caratteristica peculiare dell’XL-HED-ID. I pazienti mantengono bassi titoli di anticorpi antipneumococcici e presentano trascurabili livelli di isoemoagglutine. Anche la produzione di anticorpi contro antigeni proteici valutata come risposta alla vaccinazione con tossoide tetanico e difterico è in genere bassa. L’età media alla diagnosi è di 4 mesi. I pazienti affetti da HED-ID sviluppano sin dai primi mesi di vita episodi ricorrenti di polmoniti, sepsi, ascessi cutanei e dei tessuti profondi, infezioni intestinali, encefaliti, meningiti, sinusiti e osteomieliti. Le infezioni sono sostenute prevalentemente da batteri piogeni come Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae ed Haemophilus influenzae. Sono possibili anche infezioni da micobatteri non tubercolari, soprattutto Mycobacterium avium intracellulare, che si manifestano con celluliti, linfoadeniti, osteomieliti, polmoniti e forme disseminate. Meno frequenti sono le infezioni virali che però possono essere molto severe (encefaliti da virus dell’herpes simplex, gravi gastroenteriti da adenovirus, sepsi da citomegalovirus). Infezioni da germi opportunistici (polmoniti da Pneumocystis jirovecii e candidosi orali) si verificano nel 10% dei pazienti. Patologie autoimmunitarie e infiammatorie sono descritte nel 25% dei pazienti, come la malattia infiammatoria intestinale, anemie emolitiche autoimmuni e artriti croniche. La manifestazione più frequente è una colite infiammatoria, detta NEMO colitis, che in genere si presenta precocemente nell’infanzia con diarrea intrattabile e distrofia. La prognosi è infausta. Le infezioni ricorrenti conducono a frequenti ospedalizzazioni e allo sviluppo di complicanze gravi. In particolare, le Tabella IV. Displasie Ectodermiche Ipoidrotiche. Disordine Displasia ectodermica Ipoidrotica 1 (XHED) Localizzazione cromosomica Gene Trasmissione Numero OMIM Xq12-q13.1 EDA XL-R #305100 Displasia ectodermica Ipoidrotica 10A, Hair/Nail Type (ECTD10A) 2q11-q13 EDAR AD #129490 Displasia ectodermica Ipoidrotica 10B, Hair/Tooth Type (ECTD10B) 2q11-q13 EDAR AR #224900 Displasia ectodermica Ipoidrotica 11A, Hair/Tooth Type (ECTD11A) 1q42.2-q43 EDARADD AD #614940 Displasia ectodermica Ipoidrotica 11B, Hair/Tooth Type (ECTD11B) 1q42.2-q43 EDARADD AR #614941 Displasia ectodermica Ipoidrotica, con Immunodeficienza (HED-ID) Xq28 NEMO XL-R #300291 Displasia ectodermica Ipoidrotica con Immunodeficienza, Osteopetrosi e Linfedema (OL-EDA-ID) Xq28 NEMO XL-R #300301 Displasia ectodermica Anidrotica, con difetto T cellulare 14q13 NFKBIA AD #612132 203 E. Cirillo et al. Figura 1. Pathway dell’ectodisplasina (EDA). Il clivaggio di EDA dà origine ad una forma secreta in grado di interagire con il suo recettore. Il signaling prende origine dall’interazione sulla superficie delle cellule ectodermiche tra l’EDA e il suo recettore EDAR. Il legame EDA-EDAR provoca un riarrangiamento dei domini citosplasmatici C-terminali del recettore, che recluta l’adattatore EDAR-associated death domain protein (EDARADD) ed altri elementi di trasduzione intracellulari, come TRAF6, TAB2 e TAK1. Questi a loro volta reclutano ed attivano l’NF-kB Essential Modulator (NEMO) che, insieme alle chinasi di Ikβ 1 e 2 (IKK1 e IKK2), forma un complesso che fosforila l’IkBα, inviandolo alla ubiquitinizzazione e, quindi, alla degrazione proteasomica. L’NF-kB, privo così del suo inibitore, può migrare nel nucleo, dove stimola la trascrizione di geni bersaglio, come Shh, BMP, LTβ e madcam1, importanti per la morfogenesi di cute e annessi cutanei. infezioni dell’apparato respiratorio possono determinare l’insorgenza di bronchiectasie e malattia polmonare cronica. La patologia infettiva ed infiammatoria intestinale può portare diarrea intrattabile e grave deficit della crescita corporea. La mortalità infantile è del 50%. La sindrome Nude/SCID umana è una grave immunodeficienza combinata con predominante compromissione delle cellule T, caratterizzata da alopecia congenita, estesa a ciglia e sopracciglia e distrofia ungueale ereditata come disordine autosomico recessivo (Pignata et al., 1996). Tale sindrome è causata da mutazioni nel gene FOXN1 situato sul cromosoma 17, che anche nell’uomo codifica per il fattore di trascrizione winged-helix espresso selettivamente nelle cellule epiteliali della pelle e del timo, dove regola l’equilibrio tra crescita e differenziazione (Fig. 2). Dal punto di vista immunologico, i pazienti mostrano un difetto T selettivo testimoniato dall’assenza di risposta proliferativa associata ad un grave blocco nel differenziamento delle cellule T. In particolare, il fenotipo immunologico è caratterizzato da una drastica riduzione delle cellule CD3+, CD4+, CD8+ e dall’assenza di cellule naive CD4+CD45RA+. È interessante notare che in tutti i pazienti descritti i linfociti B ed NK sono in numero normale. FOXN1 nell’uomo svolge un ruolo cruciale negli stadi precoci dell’ontogenesi T cellulare prenatale. Tuttavia, l’identificazione di un limitato numero di cellule CD8+ suggerisce un’origine extratimica di tali cellule ed implica l’esistenza di un meccanismo di linfopoiesi FOXN1-indipendente. Studi su modelli animali documentano l’esistenza di cellule T in grado di differenziare in siti extratimici, quali fegato e intestino. L’importanza di FOXN1 nello sviluppo di 204 cute ed annessi è suggerita dall’evidenza in soggetti eterozigoti di alterazioni riscontrate a livello dei peli e delle unghie (Auricchio et al., 2005). La più frequente alterazione fenotipica delle unghie è la Figura 2. Geni che regolano e che sono regolati da FOXN1. L’espressione di FOXN1 è regolata dal segnale mediato dalle proteine wingless (Wnt), sonic hedgehog (Shh) e bone morphogenetic protein (BMP). I geni regolati da FOXN1 includono i ligandi di Notch, Delta like ligand- (DLL-)1 e DLL-4, le chemochine CCL25 e CXCL12 ed il fibroblast growth factor receptor (FGFR). Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo Figura 3. Caratteristiche cutanee del fenotipo umano Nude/SCID. A Alopecia. Pattern di distrofia ungueale: B leuconichia, C coilonichia e D distrofia canaliforme. coilonichia (“unghia a cucchiaio”), caratterizzata da una superficie concava e dalle estremità del letto ungueale rialzate, associate ad un notevole assottigliamento del letto ungueale stesso. Alterazioni meno frequenti, sono la distrofia canaliforme e la scanalatura trasversa delle unghie (Beau line). L’alterazione fenotipica più specifica è la leuconichia, caratterizzata da un assetto tipicamente arciforme somigliante ad una mezza luna che coinvolge la parte prossimale del letto ungueale (Auricchio et al., 2005) (Fig. 3). poraneamente un altro gruppo (Van de Veerdonk et al., 2011) ha evidenziato una terza anomalia genetica, trasmessa come carattere AD, a carico del gene STAT1, la cui manifestazione clinica più caratteristica è appunto la CMC. Differentemente dalla forma AR associata ad aumentata suscettibilità alle micobatteriosi e alle infezioni virali, questa mutazione ha un effetto gain of function della proteina. Tale effetto si traduce in un’aumentata attivazione di STAT1 a livello nucleare con conseguente shift della risposta immunitaria verso la produzione di citochine Th17-inibenti (Liu et al., 2011). Tali evidenze sottolineano ulteriormente l’importanza della IL-17 nella difesa contro Candida albicans. Inoltre, sono state recentemente identificate mutazioni in omozigosi nei geni codificanti per le molecole DECTIN1 o C-type lectin associated 7 member A (CLEC7A) e caspase recruitment domain-containing protein 9 (CARD9) che sottendono un fenotipo clinico sovrapponibile alle precedenti forme essendo associate a una maggiore suscettibilità alla CMC in bambini altrimenti sani (Ferwerda et al., 2009; LeibundGut-Landmann et al., 2007). DECTIN1 è una proteina localizzata sulla superficie cellulare di macrofagi, cellule dendritiche e neutrofili dove, tramite la formazione della cosiddetta sinapsi fagocitica in seguito al contatto con il micete, è coinvolta nel riconoscimento della Candida (Goodridge et al., 2011). La stimolazione di DECTIN1 determina l’attivazione di un pathway di signaling intracellulare nel quale è coinvolta la proteina CARD9, con sintesi di una serie di chemochine e citochine (TNF-α, IL-2, IL-6,IL-10) induttrici della risposta immunitaria antifungina Th17 (LeibundGut-Landmann et al., 2007) (Fig. 4). La CMC oltre che isolata, può manifestarsi nel contesto di altre immunodeficienze ben definite sia dal punto di vista clinico che genetico e del La candidiasi persistente Dal punto di vista clinico, le alterazioni del sistema immunitario sono state da sempre associate ad aumentata suscettibilità dei pazienti affetti da IDP a contrarre infezioni gravi, non selettive, frequentemente a localizzazione multipla e talvolta sostenute da germi opportunistici o non comuni. Tra queste un ruolo di primo piano è stato rappresentato dalle infezioni da miceti e, tra questi, da Candida. In particolare, Candida albicans, un micete commensale facente parte della normale flora del nostro organismo, rappresenta il microrganismo opportunista più frequentemente responsabile nei soggetti con IDP sia di infezioni ricorrenti e persistenti a carico di cute e mucose, la cosiddetta candidiasi mucocutanea persistente (CMC), che di infezioni sistemiche invasive spesso fatali. Pertanto la CMC, una volta escluse le più frequenti condizioni sottese all’aumentata suscettibilità alla candida (diabete mellito, trattamenti antibiotici prolungati e immunodepressione secondaria atrattamenti chemioterapici e steroidei, infezione da HIV) deve essere considerata un importante campanello di allarme di immunodeficienza. Negli ultimi tempi, la CMC è stata oggetto di notevole interesse scientifico, che ha portato alla identificazione di numerose e distinte alterazioni molecolari associate. In particolare un ruolo patogeneticamente rilevante sembra rivestito dell’alterazione della risposta immunitaria mediata dai linfociti Th17 e dalle interleuchine 17 e 22 da essi prodotte, cruciali nella difesa mucocutanea contro le diverse specie di Candida. Nel 2011 Puel e collaboratori hanno identificato due difetti genetici responsabili di CMC isolata, in assenza di altre infezioni o manifestazioni autoimmuni, il deficit di IL-17F a trasmissione autosomica dominante e il deficit della catena a del recettore per l’IL-17 (IL17RA), a trasmissione autosomico-recessiva (Puel et al., 2011). Contem- Figura 4. Pathways di signaling coinvolti nel riconoscimento di Candida albicans e nello sviluppo dei linfociti Th17. Il legame della Candida ai recettori DECTIN1 e DECTIN2 presenti sulla superficie cellulare delle cellule dendritiche attiva una cascata intracellulare che coinvolge alcune proteine, tra cui le proteine Syk, CARD9, BCL10, MALT1, come illustrato in figura. Tali proteine formano un complesso che determina l’attivazione dei fattori di trascrizione, tra cui NF-kB, che svolge un ruolo principale nella induzione della sintesi di citochine (IL-6, IL-2, TNFa, IL-10, Il-23) coinvolte nella differenziazione dei linfociti T naive in linfociti Th17. Il differenziamento cellulare richiede l’attivazione del fattore di trascrizione STAT3, che induce l’espressione di RORγT e RORα. I linfociti Th17 esplicano la loro funzione attraverso la produzione di IL-17F, IL-17A e IL-23. 205 E. Cirillo et al. Tabella V. Immunodeficienze primitive associate a candidiasi mucocutanea cronica. Disordine SCID Ereditarietà Difetto genetico Quadro clinico AD, AR, X-LINKED IL2RG, X-linked; JAK3, AR; IL7Rα, AR; CD3δ,AR; CD3ε, AR; RAG1, AR; RAG2,AR; ARTEMIS, AR; CD45,AR Infezioni batteriche, virali, fungine severe e ricorrenti, arresto di crescita, dermatite eczematosa APECED AR AIRE CMC, ipoparatiroidismo, morbo di Addison, autoimmunità multipla Alti livelli di IgE, polmoniti ricorrenti con pneumatoceli, alterazioni scheletriche, note dismorfiche AD-HIES AD STAT3 Deficit di DOCK8 AR DOCK8 Deficit di TYK2 AR TYK2 Deficit di IL-12 e 1L-13 AR IL12B; IL12RB1; IL13 Suscettibilità alle infezioni da micobatteri e Salmonella AD,AR Deficit di IL-17F e IL-17RA IL17F,AD; IL17RA,AR CMC Deficit di DECTIN1 AR DECTIN1 CMC Deficit di CARD9 AR CARD9 CMC GOF di STAT1 AD STAT1 CMC CMC: candidiasi mucocutanea cronica; GOF: gain of function meccanismo molecolare sotteso (Tab. V). L’associazione della CMC con poliendocrinopatia autoimmune, alopecia e distrofia ectodermica è suggestiva della sindrome APECED, caratterizzata da mutazioni a carico del gene AIRE. In questa rara sindrome a trasmissione AR, la CMC fa parte della classica triade di esordio insieme con l’ipoparatiroidismo e l’insufficienza corticosurrenalica. Studi recenti hanno evidenziato nel siero dei pazienti affetti autoanticorpi diretti contro le IL-17A e IL-17F, principali citochine coinvolte nel differenziamento dei linfociti Th17 (Kisand et al., 2010). La conseguente alterazione della risposta immune Th17-mediata può giustificare la CMC nella sindrome APECED. Inoltre non va dimenticato che mutazioni a carico del gene STAT3 sottendono la sindrome da Iper IgE, immunodeficienza in cui la CMC si associa ad alti livelli di IgE (>2000 U/L), polmoniti ricorrenti complicate da pneumatoceli, ascessi, anomalie scheletriche e note dismorfiche. Infine, proprio in considerazione della cruciale funzione dei linfociti Th-17 a livello della cute e delle mucose, anche i pazienti affetti da immunodeficienze caratterizzate da un’importante compromissione del compartimento T cellulare, come ad es. SCID e Sindrome da delezione della regione q11 del cromosoma 22 (del22q11) tendono a presentare una maggiore frequenza di candidiasi orale e mucosale (Conti et al., 2010). È fondamentale, quindi, considerare e tenere sempre alto il sospetto anche per le forme classiche di immunodeficienza. Conclusioni Grazie all’identificazione di nuovi fenotipi e all’utilizzo di tecniche di diagnostica molecolare d’avanguardia, il campo delle immunodeficienze ha subito una notevole e rapida evoluzione. Basti pensare che dall’ultima e recente classificazione dell’Unione Internazionale delle Società di Immunologia (IUIS), pubblicata alla fine dell’anno 2011, sono state descritte in letteratura altre 19 immunodeficienze di cui è stata identificato il gene causativo (Parvaneh et al., 2013). L’identificazione di fenotipi nuovi, caratterizzati da infezioni selettive in bambini altrimenti sani, esordio tardivo, autoimmunità, lesioni granulomatose, ha notevolmente ampliato il range dei segni clinici di presentazione e radicalmente modificato il paradigma di immunodeficienza primitiva. è necessario quindi valorizzare il fenotipo clinico per elaborare algoritmi diagnostici accessibili anche ai non specialisti del settore, per favorire diagnosi precoce e trattamento appropriato. Box di orientamento Cosa sapevamo prima Le immunodeficienze primitive sono disordini immunologici severi ad esordio precoce spesso fatali nel primi anni di vita. Infezioni ricorrenti a decorso severo, sostenute da germi rari e scarsamente responsive al trattamento antibiotico sono la caratteristica clinica principale dei pazienti affetti da IDP. Un sistema immunitario difettivo non è in grado di riconoscere antigeni “Self”, determinando quadri di autoimmunità Cosa sappiamo adesso I quadri di presentazione delle IDP si sono ampiamente diversificati, includendo molte forme ad esordio tardivo e con fenotipo clinico “mild”. Infezioni ricorrenti e persistenti da germi comuni, es. Candida spp, e sostenute selettivamente da un singolo agente possono rappresentare una spia di immunodeficienza. L’identificazione di nuovi difetti genetici per le IDP note e di nuovi fenotipi clinici di IDP ha ampliato il numero dei campanelli di allarme Per la pratica clinica Bisogna porre grande attenzione ai quadri clinici caratterizzati da infezioni singole persistenti o ricorrenti sostenute dallo stesso patogeno, lesioni granulomatose, alterazioni cutanee e manifestazioni autoimmuni multiple, non altrimenti spiegabili. I bambini che presentano i campanelli d’allarme discussi in questa revisione, richiedono una valutazione immunologica, sia a livello funzionale che molecolare nel fondato sospetto di immunodeficienza 206 Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo Bibliografia Al-Herz W, Bousfiha A, Casanova JL et al. Primary immunodeficiency diseases: an update on the classification from the international union of immunological societies expert committee for primary immunodeficiency. Front Immunol 2011; E-pub. ** Ultima e aggiornata classificazione delle diverse forme di IDP. 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E-mail: [email protected] 207 Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 208-214 immunologia pediatrica Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive Chiara Azzari 1,2, Roberta Cupone 1,2, Elisa Giocaliere 3,4, Clementina Canessa 1,2, Francesca Lippi1,2, Giancarlo la Marca 3,4 Divisione di Immunologia e Allergia, Ospedale pediatrico universitario Anna Meyer, Firenze Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze 3 Laboratorio di Screening neonatale, Biochimica e Farmacologia, Unità e laboratorio di Neurologia pediatrica, Dipartimento di Neuroscienze, Ospedale pediatrico universitario Anna Meyer, Firenze 4 Dipartimento di Neuroscienze, Psicologia, Farmacologia e Salute del Bambino, Università di Firenze 1 2 Riassunto Gli screening neonatali sono procedure diagnostiche che hanno come scopo quello di evidenziare patologie in fase presintomatica, con notevoli vantaggi sia per il paziente (in termini di salute), che per la società (in termini di risparmi di risorse). In molti paesi viene effettuato screening neonatale per numerosi errori congeniti del metabolismo (ECM); in alcuni di essi, con l’impiego della spettrometria di massa (MS), si può ottenere la diagnosi di oltre 40 ECM fra difetti della beta-ossidazione degli acidi grassi, amminoacidopatie, acidurie organiche e difetti del ciclo dell’urea. Nel 2010 il Secretary’s Advisory Committee for Heritable Disorders in Newborns and Children (ACHDNC) ha raccomandato l’estensione dello screening neonatale anche alle immunodeficienze severe combinate (SCID). È noto, infatti, che il bambino con immunodeficienza congenita nasce sano, ma va rapidamente incontro a gravi infezioni che possono portare a danni permanenti o addirittura alla morte. Una diagnosi precoce ottenuta mediante screening neonatale consente di ottenere il massimo risultato terapeutico. Summary Neonatal screenings are diagnostic procedures made to identify pre-symptomatic diseases. Such procedures lead to benefits in terms of both health for the patient and resources for society. Several countries have adopted neonatal screenings for many congenital metabolic diseases (CMD), often using tandem mass spectrometry (MS). This allows the diagnosis of over 40 different CMD such as defects of fatty acid beta-oxidation, amino acids and urea cicle disorders. In 2010 the Secretary’s Advisory Committee for Heritable Disorders in Newborns and Children (ACHDNC) recommended to extend the use of neonatal screenings to detect Severe Combined Immunodeficiencies (SCID). It’s a known fact that immunodeficient babies are born healthy and later suffer severe infections which can lead to permanent damages or even death. Early diagnosis through newborn screening would allow to perform the most effective treatment. Parole chiave: immunodeficienze severe combinate, screening neonatale, TRECs; KRECs; Spettrometria di massa Key words: severe combined immunodeficiency, neonatal screening, TRECs; KRECs, tandem mass spettrometry Metodologia della ricerca bibliografica Perché lo screening? La ricerca degli articoli rilevanti lo Screening Neonatale delle Immunodeficienze Severe Combinate è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca Pubmed e come parole chiave: “Neonatal Screening, SCID, Tandem mass, TREC, KREC, RT-PCR”. Non tutte le patologie possono essere sottoposte a screening neonatale. Perché ciò possa avvenire e sia vantaggioso per la comunità e per il paziente è infatti necessario che la patologia suddetta abbia un elevato tasso di morbilità e mortalità e un’incidenza notevole nella popolazione, che venga individuato un marcatore altamente specifico per la patologia stessa e che sia disponibile una terapia in grado di modificarne il decorso clinico dopo aver effettuato la diagnosi precoce. Le SCID, pur essendo comunemente considerate patologie rare, in realtà rispondono a questi requisiti. Diversi studi in letteratura hanno, infatti, dimostrato come il trattamento precoce delle SCID possa favorevolmente modificarne l’andamento altrimenti fatale: un trapianto di midollo osseo o di cellule staminali, effettuati nel corso dei primi 3,5 mesi di vita del paziente con SCID, ossia prima che possa sviluppare infezioni gravi, garantisce un tasso di sopravvivenza intorno al 95%. Di contro, per quei pazienti sottoposti a trapianto più tardivamente, il tasso di sopravvivenza scende al 60-70% (Buckley, 2004; Gaspar et al., 2004; Puck, 2007). In merito all’incidenza Le immunodeficienze severe combinate (SCID) Le SCID sono condizioni cliniche ereditarie che si manifestano con un grave deficit del sistema immunitario, ad esordio nella maggior parte dei casi precoce nei primi mesi dopo la nascita e decorso invariabilmente fatale, se non trattate, solitamente entro i primi due anni di vita. I neonati affetti da SCID sono perfettamente sani alla nascita, ma precocemente si ammalano di gravi infezioni a causa del difetto numerico o funzionale dei linfociti T e/o B. È prioritario, dunque, riconoscere le SCID prima che esse si manifestino con gravi o fatali episodi infettivi, in modo da poter intervenire tempestivamente. 208 Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive nella popolazione, va precisato che le SCID sono patologie la cui reale frequenza è probabilmente sottostimata a seguito della mancanza di un metodo diagnostico valido che ne permettesse, negli anni passati, l’identificazione. Non è inverosimile che un numero imprecisato di piccoli pazienti deceduti precocemente a seguito di infezioni gravi fosse affetto da SCID non diagnosticata. Un calcolo approssimativo dell’incidenza cumulativa di SCID nella popolazione si aggira intorno ad 1 caso su 66.000 nuovi nati (Backer et al., 2009). Si rende necessaria, pertanto, una metodica di screening dal basso costo e che possa indagare la presenza di diverse patologie causa di immunodeficienza severa utilizzando un unico test. I primi tentativi di screening Uno dei primi metodi proposti nel tentativo di identificare precocemente un’immunodeficienza in tutti i nuovi nati era rappresentato dall’esecuzione di un emocromo. Sebbene si tratti di un esame dal costo contenuto e che non richiede una specifica formazione del personale, esso non si è dimostrato sufficientemente sensibile e specifico nell’identificazione delle SCID. In molte SCID non è presente alla nascita la linfopenia che sarebbe individuabile con l’emocromo e, di contro, la presenza di una linfopenia non è necessariamente sinonimo di SCID. Uno studio effettuato da Lipstein et al. ha tentato di individuare il cut-off del valore di globuli bianchi (GB) che potesse garantire una sufficiente sensibilità e specificità del test: considerando un cut-off di 2800 GB/mm3, l’emocromo avrebbe una sensibilità dell’86% e una specificità del 94% nell’individuare una SCID; alzando il cut-off a 5000 GB/mm3 la sensibilità salirebbe al 100%, con una specificità di appena il 56% e, dunque, un alto numero di falsi positivi (Lipstein et al., 2010). Inoltre, effettuare un prelievo venoso in tutti i nuovi nati rappresenterebbe una procedura non routinaria. Un ulteriore tentativo di screening delle SCID, anch’esso di difficile attuazione, è dato dal dosaggio di IL-7 su spot neonatale (DBS), dal momento che tale citochina è normalmente elevata nei pazienti con basso numero di linfociti T. La metodica necessita però di ulteriore conferma con altri test più specifici e, pertanto, raggiungerebbe costi troppo elevati. T cell receptor excision circles (TREC) Negli USA è stato messo a punto e validato un metodo basato su una tecnica di amplificazione genica capace di effettuare un dosaggio quantitativo dei T-cell receptor excision circles (TREC), piccoli frammenti di DNA normalmente prodotti da cellule T nel timo durante la differenziazione del T cell receptor (Chan et al., 2005; Hazenberg et al., 2001). Durante questa maturazione, tutto il DNA relativo ai loci V, D e J non utilizzato, viene fisiologicamente espulso. Questo fenomeno, che viene definito ricombinazione, dà luogo alla formazione, nelle cellule T, di un prodotto finito, che è il TCR (con i suoi segmenti VDJ), e ad una grande quantità di DNA “avanzato” che resta nella cellula. I frammenti di DNA che vengono generati durante la maturazione dei linfociti T e la formazione del recettore specifico TCR, si aggregano a costituire strutture circolari definite TREC (Fig. 1). I TREC non si moltiplicano durante la divisione cellulare cosicché un dosaggio quantitativo di questi elementi dà un’idea quantitativa sul numero delle cellule T che sono andate incontro a maturazione; è utile quindi per individuare la presenza di recenti emigranti timici, cioè di cellule appena “uscite” dal timo. Un quantitativo normale di TREC è presente solo quando il processo di ricombinazione avviene normalmente, mentre quando la ricombinazione non avviene cor- Figura 1. Rappresentazione schematica della produzione dei TREC durante la ricombinazione VDJ. Il recettore VDJ del linfocita T si forma mediante l’unione di un tratto V, un tratto D e un tratto J. Il DNA umano contiene numerosi tratti V (V1,V2,V3..), numerosi D e numerosi J. Tra tutti quelli contenuti nel genoma umano, soltanto un V, un D e un J vengono casualmente selezionati a formare il recettore. Il DNA eccedente (quello che conteneva i tratti genomici codificanti per tutti gli altri V, D e J non selezionati) viene espulso e va a formare dei piccoli frammenti di DNA circolare, detti appunto T cell receptor excision circles (il cui acronimo è TREC). rettamente o quando esiste un grave difetto numerico dei linfociti T la quantità di TREC risulterà molto ridotta. Nonostante le SCID siano causate da mutazioni in molti geni diversi, la maggior parte dei pazienti con SCID ha un ridotto numero di cellule T funzionali e quindi un basso numero di TREC (Notarangelo, 2010). Per tale motivo, l’analisi quantitativa dei TREC è stata proposta come metodo di screening neonatale delle SCID. Il primo stato americano ad avviare un progetto pilota di screening neonatale delle SCID mediante il dosaggio dei TREC è stato il Wisconsin. Il progetto, attuato grazie al sostegno della Jeffrey Modell Foundation, del Children’s Hospital del Wisconsin e del Wisconsin Laboratory of Hygiene, ha permesso di analizzare la presenza dei TREC direttamente sullo spot neonatale (DBS) di 207,696 nuovi nati da gennaio 2008 a dicembre 2010. I TREC vengono dosati su DBS (Fig. 2) mediante una tecnica di biologia molecolare, Real-time PCR (Verbsky et al., 2012). La Real-time PCR supera molti dei limiti esposti da altri test di biologia molecolare: è una metodica di rapida esecuzione in quanto consente di analizzare l’avvenuta amplificazione del DNA specifico ricercato nel corso della stessa reazione, senza attenderne il termine; ha un’elevata sensibilità rilevando anche meno di 5 copie di sequenza per campione ed elevatissima specificità; inoltre può utilizzare contemporaneamente diversi fluorocromi per marcare le sonde nel corso di una stessa reazione, permettendo così di identificare contemporaneamente più geni. Nell’analisi dei TREC, il DNA necessario per la RT-PCR può essere ottenuto con estrazione da DBS; questo approccio è molto pratico e abbatte notevolmente i costi. Infatti si possono utilizzare, per l’analisi quantitativa dei TRECs gli stessi spot neonatali comunemente effettuati su tutti i nuovi nati per 209 C. Azzari et al. Figura 2. Estrazione, amplificazione e analisi dei TRECs da spot neonatali mediante RT-PCR. La procedura di quantificazione dei TREC mediante Realtime PCR è estremamente semplice e rapida. Si parte da uno spot del diametro di 3,2 mm, corrispondente a circa 3,4 µL di sangue, si estrae il DNA e si amplifica con sonde e primers specifici. lo screening di patologie quali la fenilchetonuria (PKU), l’ipotiroidismo congenito e la fibrosi cistica. Il metodo di raccolta del campione è dunque lo stesso già utilizzato per tutti i neonati e le procedure di spedizione ai centri di riferimento sono ben collaudate. Questo riduce il rischio di mancata raccolta o perdita di campioni da parte dei reparti di neonatologia. Accanto alla diagnosi di SCID, la riduzione dei TRECs può essere talvolta evidenziata anche in pazienti con forme intermedie di SCID (“leaky” SCID), nei pazienti con engrafment T materno (Morinishi et al., 2009) e nei pazienti con sindromi talvolta associate a immunodeficienza, quali la Sindrome di Di George. Il metodo presenta, tuttavia, alcune mancanze: innanzitutto non può evidenziare i difetti isolati dei linfociti B, come la agammaglobulinemia congenita (XLA o malattia di Bruton) che possono manifestarsi già nel primo anno di vita con una sintomatologia di gravità e conseguenze paragonabili a quelle delle SCID con difetto di T, inoltre è un metodo dal costo non trascurabile (circa 6-8$ /test) e presenta una specificità e sensibilità buone ma non del tutto soddisfacenti. Per quanto riguarda la specificità, è stato dimostrato che la ricerca dei TREC con RT-PCR può dare falsi positivi in bambini prematuri, in neonati i corso di sepsi o anche in pazienti con linfopenie transitorie non associate ad immunodeficienza (Mallott et al., 2013). In merito, poi, alla sensibilità, il metodo non è risultato in grado di diagnosticare alla nascita tutti i casi di SCID, e può considerare falsamente negativi alcuni casi di SCID sindromiche, come l’immunodeficienza associata alla malattia veno-occlusiva, alcuni difetti di adenosina deaminasi (ADA-SCID) (La Marca et al., 2013) o di purina-nucleoside fosforilasi (PNP-SCID) (Azzari, dati non pubblicati), forme di SCID caratterizzate da alterazioni di vie metaboliche con accumulo di metaboliti a monte delle vie compromesse. La spettrometria di massa Alla ricerca di un approccio alternativo, in Italia è stato sviluppato e validato un nuovo metodo basato sulla MS in grado di identificare due forme di SCID, il difetto di adenosina deaminasi e il difetto di purina-nucleoside-fosforilasi caratterizzate da profonde alterazioni metaboliche. Le alterazioni sono già presenti alla nascita e sono caratterizzate, nel caso di ADA-SCID, dall’accumulo di due metaboliti, l’adenosina e la desossiadenosina e, nel caso di PNP-SCID, di guanosina, inosina e dei loro deossi-derivati. I metaboliti specifici sono facilmente individuabili negli spot di sangue prelevati alla nascita (DBS), utilizzando la stessa procedura di MS con cui oggi, nella mag- 210 gior parte dei paesi del mondo, si effettua lo screening neonatale degli errori congeniti del metabolismo (Azzari et al., 2011). Dalla fine degli anni ’90 i progressi tecnologici, e in particolare l’utilizzo della spettrometria di massa tandem (MS), che consente l’analisi di più metaboliti su un’unica goccia di sangue, hanno portato a modificare il concetto di screening, da un sistema con un test per malattia (come il test di Guthrie effettuato in origine per la diagnosi di PKU) ad un sistema con un test per molte malattie (screening in MS). Nella MS, con la medesima goccia di sangue, vengono contemporaneamente analizzati e quantificati vari metaboliti (acilcarnitine, amminoacidi), marcatori che si trovano alterati in oltre 40 malattie metaboliche (acidurie organiche, difetti della β-ossidazione degli acidi grassi, amminoacidopatie e difetti del ciclo dell’urea) (La Marca et al., 2008). Queste patologie, rare singolarmente, mostrano elevata frequenza come gruppo e sono suscettibili di trattamento. Se non diagnosticate possono portare rapidamente ad exitus o a gravi sequele neurologiche. Il prelievo di sangue, sotto forma di DBS, è raccolto tra le 48 e le 72 ore di vita. Ad ogni neonato viene punto il tallone, e alcune gocce di sangue vengono raccolte su carta bibula Whatmann 903, essiccate, quotidianamente spedite al laboratorio di screening tramite corriere e analizzate entro due giorni dalla raccolta. La puntura del tallone avviene abitualmente sulla porzione mediale o su quella laterale del tallone stesso, utilizzando una lancetta “pungidito”. La disinfezione della cute avviene mediante alcool isopropilico al 70%. Occorre lasciare asciugare completamente la cute prima di pungere il tallone, ed eliminare con garza sterile la prima goccia di sangue, al fine di evitare commistioni di sangue e disinfettante, che possono interferire con le determinazioni analitiche. Standard chimici e marcati Gli standard marcati con isotopi stabili sono disponibili commercialmente e sono utilizzati per l’analisi quantitativa. La soluzione madre viene preparata in metanolo per le acilcarnitine e in una miscela 50:50 v/v acqua/metanolo per gli amminoacidi. Le concentrazioni degli standard sono comprese nell’intervallo 500-2500 μmol/L per gli aminoacidi e fra 7,6-152 μmol/L per le acilcarnitine. Le concentrazioni di succinilacetone, adenosina, 2-deossiadenosina, guanosina, deossi-guanosina, inosina e deossi-inosina sono 10 μmol/L. Le soluzioni giornaliere vengono preparate per diluizione 1:200 v/v Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive dalle soluzioni madri usando una miscela acqua/metanolo 10:90 v/v. Tutti i solventi utilizzati sono di grado HPLC. Preparazione del campione e analisi MS/MS Uno spot del diametro di 3,2 mm, corrispondente a circa 3,4 µL di sangue viene prelevato dal DBS ed inserito in una piastra a 96 pozzetti. Duecento μl della soluzione di metanolo contenente gli standard marcati e 100µL di una soluzione acquosa di idrazina 3mmol/L vengono aggiunti ai campioni. La piastra contenente i campioni viene incubata a 37°C per 25 minuti sotto agitazione per ottenere una completa estrazione degli analiti di interesse dallo spot di sangue. Al termine dell’estrazione, il surnatante viene prelevato e trasferito in una nuova piastra e quindi essiccato sotto corrente di azoto a circa 50°C. I campioni vengono risospesi con 300µL di una soluzione 70:30 v/v acetonitrile-H2O (0,1% acido formico). Una volta preparato, il campione è pronto per essere analizzato con uno strumento HPLC-MS/MS. Le analisi di routine vengono eseguite su uno spettrometro di massa a triplo quadrupolo, utilizzando come modalità di scansione in ionizzazione positiva il neutral loss scan per gli amminoacidi, il precursor ion scan per le acilcarnitine e il multiple reaction monitoring (MRM) per altri metaboliti di interesse, tra cui il succinilacetone e i nucleosidi purinici. La diagnosi precoce mediante screening neonatale consente una terapia, in fase presintomatica. Attualmente esiste ampia variabilità nel gruppo di difetti metabolici ricercati su spot neonatale nei diversi paesi. In Italia, dal 1992, lo screening neonatale include esclusivamente la ricerca della Fenilchetonuria (PKU), dell’ipotiroidismo congenito e della Fibrosi Cistica. In anticipo rispetto alle altre regioni italiane, dal 2004 la Toscana si è adeguata ai protocolli internazionali sottoponendo tutti i nuovi nati a screening su DBS mediante MS per più di 40 patologie. Inoltre, da gennaio 2011, il pannello di patologie sottoposte a screening neonatale in MS è stato allargato alle immunodeficienze causate da deficit dell’enzima Adenosina Deaminasi (ADA) e di Purina-nucleoside Fosforilasi (PNP). I primi 18 mesi di esperienza toscana hanno permesso di individuare un paziente ADA, suggerendo così che l’incidenza della malattia è largamente sottostimata. L’ADA-SCID è una delle più frequenti SCID (10-25%) e nella sua forma neonatale (early onset) porta rapidamente a morte per infezioni gravi. Esistono anche forme più tardive di questa immunodeficienza (delayed and late onset) che si manifestano con severe infezioni ricorrenti, autoimmunità, danno neurologico; anche questi fenotipi possono portare a danni permanenti e a morte. Proprio per la loro caratteristica di progressività e quindi per il fatto che il danno timico può non essere completo alla nascita, le forme che non hanno esordio neonatale sfuggono al test basato su dosaggio di TREC mentre vengono individuate mediante il test in MS (La Marca et al., 2008; Azzari et al., 2011). I livelli dei metaboliti adenosina e desossiadenosina, marcatori del difetto di ADA sono, infatti, correlati alla mutazione genica che ha causato il difetto, con la conseguenza che i loro livelli sono già elevati alla nascita e restano stabilmente alterati nel corso della vita. La differenza tra i valori che si trovano nei pazienti con ADA-SCID e nei soggetti sani è estremamente ampia (Fig. 3), tanto che non esiste overlapping nei range tra sano e malato. La conseguenza di questo fenomeno è un’altissima specificità e sensibilità del test. In maniera analoga, il metodo MS è in grado di identificare il difetto di PNP dosando i metaboliti specifici Guanosina ed Inosina e i loro Figura 3. Confronto tra i livelli di adenosina e 2-deossiadenosina dosati su DBS con MS in paziente sano e affetto da ADA-SCID. Nel paziente sano i livelli di adenosina sono molto bassi e la 2-desossiadenosina è addirittura assente. Al contrario, nel paziente con ADA-SCID i livelli dei due metaboliti possono essere anche 1000 volte più alti dell’atteso. Non esiste overlapping tra i livelli trovati in soggetti sani e i livelli trovati nei pazienti con ADA-SCID, per cui il test non presenta falsi positivi. I metaboliti sono già presenti alla nascita, anche in pazienti con forme di immunodeficienza da difetto di ADA ad esordio tardivo; la tandem massa è quindi il metodo più sensibile per la diagnosi di ADA-SCID. 211 C. Azzari et al. Tabella I. Principali differenze tra screening neonatale per immunodeficienze effettuato con tecnologia Realtime per TREC e spettrometria di massa tandem. Screening con TRECs Sensibilità Specificità Tecnologia utilizzata Costo per test Screening con (per ADA-SCID e PNP-SCID) <100% 100% per ADA e PNP Non identifica i casi di difetto di ADA ad esordio tardivo Non identifica alcune SCID Identifica tutti i casi di ADA e PNP sia ad esordio precoce che tardivo <100% 100% per ADA e PNP Valuta come casi positivi anche linfopenie T non associate ad immunodeficienza Non sono stati descritti falsi positivi Realtime PCR Spettrometria di massa Tecnologia non in uso routinario nei laboratori di screening Tecnologia in uso routinario nei laboratori di screening 6€ < 0,05 € desossiderivati. Il metodo MS ha, per la diagnosi di SCID da difetto di ADA o PNP, una specificità e una sensibilità molto elevate (ad oggi entrambe del 100%) e un costo molto contenuto (inferiore a 0.05 €/test). Lo svantaggio di questo metodo sta nel fatto che esso non riesce ad individuare, al momento, SCID diverse da ADA e PNP. Essendo, però, estremamente poco costoso e molto più sensibile dei TREC, specialmente nelle forme non neonatali, il metodo MS può essere utilizzato in aggiunta all’uso dei TREC. Inoltre, per il bassissimo costo di applicazione, il metodo può essere introdotto in tutte quelle realtà che non dispongono di fondi sufficienti ad uno screening su base genetica (TREC) (Tab. I). Lo screening per ADA e PNP-SCID mediante spettrometria di massa tandem potrebbe essere facilmente incluso in un programma di screening sulla popolazione a causa del suo basso costo e perché non richiede né la strumentazione extra né tempo extra degli operatori, che già lavorano nei programmi di screening. Il presente metodo è applicabile anche ai neonati prematuri i cui livelli medi di adenosina, guanosina, inosina e dei loro deossi-derivati non differiscono da quelli osservati nei neonati a termine. Nessuno dei pazienti ADA o PNP analizzati fino ad ora è nato prematuro, ma è ben noto che elevati livelli di metaboliti tossici sono già presenti durante la vita fetale. Il metodo descritto non sembra essere influenzato da stoccaggio a lungo termine o condizione di cattiva conservazione. I metaboliti assorbiti sul cartoncino di Guthrie (DBS) prelevato alla nascita sono molto stabili, tanto che possono essere testati anche dopo anni (Azzari et al., 2011) permettendo di individuare in modo inequivocabile un paziente ADA o PNP-SCID nato molti anni prima. Figura 4. Schematica rappresentazione della produzione dei KREC (modificata da van Zelm MC et al., JEM, 2007). 212 Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive Tabella II. Principali vantaggi e limiti dei metodi di screening neonatale sperimentati fino ad oggi. Emocromo Vantaggi Basso costo Dosaggio IL-7 TREC KREC Spettrometria di massa Effettuabile su spot neonatale Effettuabile su spot neonatale Effettuabile su spot neonatale Effettuabile su spot neonatale Individua linfopenia T, associata o meno a SCID Individua la maggior parte delle SCID con difetto di T Individua la maggior parte delle SCID con difetto di T e/o B Specificità 100% su deficit di ADA e PNP Sensibilità 100% su deficit di ADA e PNP Costo estremamente basso Utilizza una tecnologia già in uso routinario nei laboratori di screening Limiti Bassa specificità; difficoltà di impostazione di un cut-off Costo elevato Costo elevato Costo elevato Necessaria esecuzione di prelievo ematico su tutti i nuovi nati Scarsa specificità (necessità di test di conferma mediante esami quali TREC) Non identifica i difetti di ADA ad esordio tardivo, né alcune SCID Non identifica i difetti di ADA ad esordio tardivo, né alcune SCID Utilizza una tecnologia non in uso nei laboratori di screening Utilizza una tecnologia non in uso nei laboratori di screening Utilizza una tecnologia non in uso nei laboratori di screening Utilizza una tecnologia non in uso nei laboratori di screening Individua linfopenie non associate ad immunodeficienza Deve essere effettuato insieme con il test TREC per raggiungere sensibilità e specificità adeguate Kappa-deleting recombination excision circles (KREC) Analogamente a quanto avviene nella maturazione del TCR nelle cellule T, anche nelle cellule B si verifica una ricombinazione che estromette piccole parti di DNA “avanzato”. Con procedura simile a quella dei TREC, che utilizza lo stesso metodo di amplificazione genica in Realtime, questi frammenti di DNA, chiamati KREC (Fig. 4) possono essere individuati e quantizzati, consentendo così di individuare forme di immunodeficienza primitiva con deficit isolato dei B (Nakagawa et al., 2011). L’utilizzo dei KREC non deve essere però visto come limitato all’individuazione delle immunodeficienze con difetto isolato di cellule B; è stato recentemente dimostrato che in alcune forme di SCID con fenotipo più lieve, può essere alterato anche uno solo dei due test TREC/KREC. L’utilizzo di entrambi i metodi contemporaneamente consente di migliorare la sensibilità di diagnosi. È evidente però che raddoppiare un test genetico già di per sé costoso come quello dei TREC può rappresentare un ulteriore scoglio alla diffusione dello screening. Per questo motivo sono state introdotte tecniche di multiplex Realtime PCR, mediante le quali nella stessa Dati disponibili solo su difetto di ADA e PNP provetta viene ricercata con primer e sonde specifiche sia la presenza di TREC che di KREC (Borte et al., 2012). In questo modo il costo è solo di poco superiore al costo dei TREC da soli. Resta tuttavia da chiarire quale sia la specificità del metodo KREC e quella del metodo multiplex (TREC più KREC) quando usati su un’intera popolazione di nuovi nati. Questi dati potranno essere ottenuti soltanto mediante l’applicazione del metodo ad uno screening di popolazione. Il passo successivo sarà, per tutti i ricercatori che si occupano di screening neonatale, quello di armonizzare le procedure in modo da avere risultati paragonabili, tendo conto dei vantaggi e svantaggi di tutte le tecnologie fino ad oggi utilizzate (Tab. II). Prospettive future In conclusione, l’utilizzo di uno screening neonatale per le SCID può significativamente migliorare l’outcome clinico della patologia e molti metodi, tra cui l’analisi con amplificazione genica dei TREC e KREC, o metodi in spettrometria di possono essere utilizzati allo scopo di allargare il più possibile la popolazione sottoponibile a screening con il costo più ridotto possibile. 213 C. Azzari et al. Bibliografia Azzari C, La Marca G, Resti M. Neonatal screening for severe combined immunodeficiency caused by an adenosine deaminase defect: a reliable and inexpensive method using tandem mass spectrometry. J Allergy Clin Immunol 2011;127:1394-9. ** Gli autori utilizzano per la prima volta la Spettrometria di Massa per lo screening su spot neonatale dell’ADA-SCID, validando e brevettando un nuovo metodo per la diagnosi prenatale delle immunodeficienze ad un costo irrisorio ed un’elevata sensibilità e specificità. Baker MW, Grossman WJ, Laessig RH et al. Development of a routine newborn screening protocol for severe combined immunodeficiency. J Allergy Clin Immunol 2009;124:522-7. Borte S, Von Döbeln U, Fasth A et al. Neonatal screening for severe primary immunodeficiency diseases using high-throughput triplex real-time PCR. Blood 2012;119:2552-5. Buckley RH. Molecular defects in human severe combined immunodeficiency and approaches to immune reconstitution. Annu Rev Immunol 2004;22:625-55. Chan K, Puck JM. Development of population-based newborn screening for severe combined immunodeficiency. J Allergy Clin Immunol 2005;115:391-8. Gaspar HB, Parsley KL, Howe S et al. Gene therapy of X-linked severe combined immunodeficiency by use of a pseudotyped gammaretroviral vector. Lancet 2004;364:2181-7. ** Gli autori hanno effettuato uno studio su quattro pazienti pediatrici affetti da immunodeficienza severa combinata X-linked, dimostrando l’efficacia e la fattibilità della terapia genica nel ripristinare l’immunità cellulare ed umorale. Hazenberg MD, Verschuren MC, Hamann D et al. T cell receptor excision circles as markers for recent thymic emigrants: basic aspects, technical approach, and guidelines for interpretation. J Mol Med (Berl) 2001;79:631-40. La Marca G, Malvagia S, Casetta B et al. Progress in expanded newborn screening for metabolic conditions by LC-MS/MS in Tuscany: update on methods to reduce false tests. J Inherit Metab Dis 2008;31:395-404. La Marca G, Canessa C, Giocaliere E et al. Tandem mass spectrometry, but not Tcell receptor excision circle analysis, identifies newborns with late-onset adenosine deaminase deficiency. J Allergy Clin Immunol 2013;131:1604-10. Lipstein EA, Vorono S, Browning MF et al. Systematic evidence review of newborn screening and treatment of severe combined immunodeficiency. Pediatrics 2010;125:1226-35. Mallott J, Kwan A, Church J et al. Newborn screening for SCID identifies patients with ataxia telangiectasia. J Clin Immunol 2013;33:540-9. Morinishi Y, Imai K, Nakagawa N et al. Identification of severe combined immunodeficiency by T-cell receptor excision circles quantification using neonatal guthrie cards. J Pediatr 2009;155:829-33. Nakagawa N, Imai K, Kanegane H et al. Quantification of κ-deleting recombination excision circles in Guthrie cards for the identification of early B-cell maturation defects. J Allergy Clin Immunol 2011;128:223-5. Notarangelo LD. Primary immunodeficiencies. J Allergy Clin Immunol 2010;125:s182-94. ** L’autore riesamina, alla luce dei recenti progressi nell’ambito della biologia molecolare e della genetica, le basi patogenetiche, i metodi di diagnosi e le possibilità terapeutiche delle immunodeficienze primarie. Puck JM. Population-based newborn screening for severe combined immunodeficiency: steps toward implementation. J Allergy Clin Immunol 2007;120:760-8. Verbsky J, Thakar M, Routes J. The Wisconsin approach to newborn screening for severe combined immunodeficiency. J Allergy Clin Immunol 2012;129:622-7. Box di orientamento Cosa si sapeva prima Le immunodeficienze congenite sono malattie estremamente gravi e spesso mortali già nel primo anno di vita. Inizialmente si credeva che esse fossero estremamente rare. Nel passato sono stati proposti diversi metodi per la loro diagnosi molto precoce, tra cui il dosaggio di IL7, l’emocromo a tutti i nuovi nati. Cosa sappiamo adesso Oggi sappiamo che la frequenza delle immunodeficienze congenite è grandemente sottostimata e che sono disponibili metodologie basate sulla biologia molecolare o sulla spettrometria di massa, altamente sensibili e specifiche, che consentono di effettuare uno screening di massa per la maggior parte di esse. Quali ricadute sulla pratica clinica. Considerando che esistono terapie risolutive, estremamente efficaci se utilizzate in fase pre-sintomatica, si può prevedere una diffusione sempre maggiore dello screening neonatale per le immunodeficienze congenite. Corrispondenza Chiara Azzari, Immunologia Pediatrica, Università degli Studi di Firenze, Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Viale Pieraccini, 24, 50139 Firenze. [email protected] 214 Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 215-224 immunologia pediatrica Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione Alessandro Plebani, Vassilios Lougaris, Annarosa Soresina, Raffaele Badolato Clinica Pediatrica Università degli Studi di Brescia e Spedali Civili di Brescia Riassunto I primi preparati di immunoglobuline sono stati impiegati a partire dal 1952 ed utilizzati come terapia sostitutiva allo stesso modo in cui l’insulina viene utilizzata nei diabetici. La via di somministrazione inizialmente impiegata (intramuscolare) non consentiva la somministrazione di un volume (ovvero di quantità di IgG) sufficiente a garantire un controllo soddisfacente degli episodi infettivi, ma questi preparati non potevano essere somministrati per via endovenosa che avrebbe consentito l’infusione di un volume maggiore, perché causavano gravi effetti collaterali. Pertanto un grande sforzo è stato compiuto per produrre preparazioni sicure ed efficaci da somministrare per via endovenosa, modalità largamente impiegata a partire dai primi anni ’80. A partire dal 2006, la disponibilità di preparati ad hoc e di pompe di infusione tecnicamente avanzate, hanno permesso di rivalutare la via di somministrazione sottocutanea, che in molte nazioni è diventata la via preferenzialmente utilizzata anche per rispondere alle esigenze di una minore medicalizzazione dei pazienti. A partire dai primi anni ’80 l’osservazione casuale che le immunoglobuline ad alte dosi erano in grado di normalizzare le piastrine nella porpora idiopatica trombocitopenica ha dato l’avvio al loro impiego come terapia immunomodulante in molte altre malattie autoimmuni e/o infiammatorie. La terapia immunomodulante prevede la somministrazione di un dosaggio di immunoglobuline superiore rispetto a quello della terapia sostitutiva. Ma se vi è consenso sul dosaggio, non ancora completamente definiti sono i meccanismi che stanno alla base di questa attività immunomodulante e in questo articolo ne vengono discussi quelli ipotizzati. In questi ultimi anni si è assistito ad un consumo mondiale progressivamente crescente delle immunoglobuline (si è passati da 7.400 kg nel 1984 a 94.860 kg nel 2010). Il consumo per la terapia immunomodulante (spesso per patologie in cui le immunoglobuline sono considerate una terapia off-label) ha di gran lunga superato quello per la terapia sostitutiva, richiamando l’attenzione degli organi competenti sulla formulazione di una scala di priorità per il loro impiego basata sui livelli di evidenza di efficacia. Summary The first preparations of immunoglobulins were introduced in 1952 and were used as a replacement treatment, similarly to the use of insulin in patients with diabetes. The initial route of administration (subcutaneous/intramuscular) did not allow the administration of a sufficient volume to guarantee a satisfactory control of infectious episodes. Moreover, those early preparations could not be administered intravenously due to severe adverse reactions. Therefore, significant effort was made in order to produce immunoglobulin preparations that were both safe and efficacious for intravenous administration, a route that was largely used starting from the 80’s. Since 2006, the availability of specific immunoglobulin preparations and technically advanced infusion pumps has allowed to reconsider the subcutaneous route of administration. This approach was also meant to reduce patients’medicalization. Subcutaneous administration of immunoglobulins has since become the preferred route of administration in many countries. Starting from the early 80’s, the serendipitous observation that immunoglobulin administration could restore platelet count in patients with idiopathic thrombocytopenic purpura (ITP), an autoimmune disorder, led to broaden use of immunoglobulins in the treatment of various autoimmune and/or inflammatory disorders. In such cases, immunoglobulins are not used as a replacement therapy, but rather as an immunomodulatory drug. Moreover, the dosage required to achieve immunomodulatory effects is higher than used for replacement treatment. The mechanisms underlying the immunomodulatory effect of immunoglobulins are still not clear; various hypotheses have been proposed and are discussed in this article. Importantly, in recent years the global consumption of immunoglobulins has raised significantly (from 7,400 kg in 1984 to 94,860 kg in 2010). The consumption of immunoglobulins as immunomodulatory therapy (in many cases still an off-label indication) has largely overtaken that of replacement therapy. Therefore, formulation of a priority scale by the competent authorities for immunoglobulin usage is of paramount importance. Parole chiave: immunoglobulina, terapia sostitutiva, terapia immunomodulante Key words: immunoglobulins, substitution therapy, immunomodulatory effect Introduzione: note storiche L’impiego clinico delle immunoglobuline come terapia empirica risale a più di 100 anni fa quando Emil Von Behring le utilizzò per il trattamento di malattie mediate da tossine (tetano e difterite), ma solo nel 1952 le immunoglobuline sono state impiegate in terapia sostitutiva con lo stesso criterio per cui l’insulina viene utilizzata per il trattamento del diabete di tipo 1. È infatti in quell’anno che Odgeon Bruton descrisse per la prima volta una forma di immunodeficienza primitiva, caratterizzata dall’assenza delle immunoglobuline sieriche, che verrà poi denominata malattia di Bruton o agammaglobulinemia X recessiva (Bruton, 1952). In quel periodo i linfociti T e i linfociti B non erano ancora stati identificati e non erano ancora disponibili metodiche per il dosaggio delle immunoglobuline nel siero. La diagnosi di agammaglobulinemia fu posta da Bruton sulla base dell’assenza del picco gamma all’elettroforesi delle proteine sieriche, esame eseguito mediante l’apparecchio di Arne Tiselius. Agli inizi degli anni ’40, Frederick Cohn e i suoi collaboratori del Dipartimento di Chimica Fisica della Harvard Medical School, avevano allestito un sistema di frazionamento del plasma per la produzione 215 A. Plebani et al. di emoderivati, mediante un procedimento di precipitazione a freddo con etanolo. La frazione II di Cohn derivata da questo processo di frazionamento e che era considerata un prodotto di “scarto”, conteneva la “frazione gamma”, quindi ricca di immunoglobuline sieriche. Bruton, seguendo un’intuizione geniale, ha somministrato per via sottocutanea la frazione II di Cohn, aprendo così la strada a quella che sarebbe poi diventata una terapia elettiva e salvavita per molte forme di immunodeficienza primitiva. In base alle prime esperienze, sembrava che le immunodeficienze primitive potessero rappresentare il gruppo di malattie per le quali la somministrazione di immunoglobuline trovasse l’indicazione non solo più razionale, ma di fatto anche esclusiva. Tuttavia, tale “esclusività” durò fino al 1981, anno in cui alcuni ricercatori svizzeri osservarono che la somministrazione di immunoglobuline ad alte dosi in due soggetti con ipogammaglobulinemia, che casualmente presentavano anche una porpora trombocitopenica idiopatica (PTI), aumentava significativamente i livelli delle piastrine. Questi dati furono in seguito confermati in una casistica più ampia (Imbach et al.,1981;Fehr et al.,1982) e hanno portato alla formulazione del concetto di effetto “immunomodulante” delle immunoglobuline. Per estensione, a partire dalla PTI , la terapia con immunoglobuline è stata sperimentata, con risultati variabili, in molte altre malattie autoimmuni incluse diverse malattie neurologiche per le quali le opzioni terapeutiche sono limitate. Successivamente, l’utilizzo delle immogobuline è stato esteso anche a malattie infiammatorie, sfruttando il loro effetto immunomodulante ed utilizzando un dosaggio differente da quello impiegato nella terapia sostitutiva. Evoluzione della preparazione dei prodotti Nel tempo le modalità di preparazione e di somministrazione delle immunoglobuline hanno subito notevoli variazioni, sia per quanto riguarda il dosaggio che per quanto attiene la via di somministrazione. Contemporaneamente, sono state introdotte significative modifiche nei processi di preparazione delle immunoglobuline per uso terapeutico, con notevoli miglioramenti di sicurezza ed efficacia dei prodotti. Tali progressi si sono associati ad un significativo miglioramento delle prospettive e della qualità di vita dei pazienti trattati con terapia a base di immunoglobuline. Il primo prodotto impiegato da Bruton e somministrato per via sottocutanea, consisteva in un preparato di IGS (immune serum globulin) alla concentrazione di 165 mg/ml, a pH 6.8, che andava conservato a 5°C. In queste condizioni la soluzione nel tempo tendeva a formare aggregati responsabili di gravi effetti collaterali per via della loro capacità di attivare il complemento, se il preparato veniva somministrato per via endovenosa. Quindi i primi prodotti commerciali di immunoglobuline erano indicati esclusivamente per la somministrazione intramuscolare . Tuttavia era apparso subito evidente che l’effetto protettivo delle immunoglobuline somministrate attraverso queste vie era strettamente dipendente dal volume di preparato somministrato e che il volume necessario per somministrare una quantità protettiva di immunoglobuline sarebbe stato troppo elevato per essere accettato dal paziente, anche per via degli effetti collaterali, soprattutto locali. Da qui la necessità di sviluppare prodotti da somministrare per via endovenosa (IVIG). Il problema principale della somministrazione endovenosa è stato quello di eliminare l’attività anticomplementare. Tale obiettivo è stato perseguito mediante la digestione enzimatica, metodica applicata nella preparazione della formulazione dei primi preparati per via endovenosa (IVIG). Tuttavia la digestione con pepsina determinava la formazione di un prodotto contenente il frammento F(ab)2 e il frammento Fc, la digestione con 216 Figura 1. Rappresentazione schematica della molecola di immunoglobulina IgG. È costituita da due catene pesanti legate da ponti disolfuro e da due catene leggere ciascuna legata, sempre da ponti disolfuro, ad una catena pesante. Sia le catene leggere che quelle pesanti sono costituite da una parte variabile (V) e da una parte costante (C). All’interno della molecola intera si riconoscono la parte Fab e la parte Fc. La prima ha la funzione di legare gli antigeni specifici, la seconda di legarsi ai recettori per il frammento Fc (FcγRs) espressi sulle cellule del sistema immune. La digestione con pepsina dà luogo ad un singolo frammento F(ab)2 e ad un frammento Fc, mentre la digestione con papaina dà luogo a due frammenti Fab identici e a un frammento Fc (da Radosevich e Burnouf, 2010). papaina determinava la formazione di un prodotto contenente due frammenti identici di Fab e il frammento Fc e questi preparati sono risultati scarsamente efficaci (Radosevich e Burnouf, 2010) (Fig. 1). Da qui la necessità di produrre preparati con la minor attività anticomplementare possibile, ma al contempo più efficaci, cercando di mantenere intatta la struttura delle immunoglobuline, attraverso metodiche che le modificavano chimicamente. A questo si è arrivati tramite l’impiego di metodiche che facevano uso del trattamento con beta-propiolattone (alchilazione e acilazione di alcuni amminoacidi) o con sulfonazione/alchilazione (rottura del legami disolfidrici tra le catene leggere e quelle pesanti). Ma anche in questo caso il risultato non era soddisfacente, dal momento che questi prodotti chimicamente modificati avevano una vita media molto ridotta, venendo rapidamente eliminati dal sistema reticolo endoteliale. Ai prodotti attualmente disponibili, che sono a molecola IgG intatta e a scarso contenuto di aggregati, si è arrivati attraverso il trattamento del precipitato grezzo di IgG, ottenuto mediante frazionamento alcolico (la frazione II di Cohn), con uno dei seguenti metodi: o con debole trattamento acido (pH 4) in presenza di tracce di pepsina oppure con precipitazione con polietilenglicole (PEG), oppure con purificazione su resine a scambio ionico. Con questi trattamenti si ottengono i prodotti oggi commercialmente disponibili, che sono efficaci e ben tollerati dai pazienti (Tab. I). Per una più completa descrizione della modalità di preparazione dei vari prodotti si rimanda alla bibliografia (Radosevich e Burnouf, 2010). Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione Tabella I. Preparati di immunoglobuline umane normali, attualmente disponibili in Italia (da www.codifa.it, settembre 2013). Prodotti per via endovenosa Prodotto Ditta Flebogamma Instituto Grifols Poligono Levante S.A. Gammagard Baxter S.p.A. Gamten Octapharma Italy S.p.A. Ig Vena Kedrion S.p.A. Intratect Biotest Pharma GmbH Keyven Kedrion S.p.A. Kiovig Baxter AG Octagam Octapharma Limited Pentaglobin Biotest Pharma GmbH Privigen CSL Behring GmbH Venital Kedrion S.p.A. Prodotti per via sottocutanea Prodotto Ditta Hizentra CSL Behring GmbH Subcuvia Baxter AG Vivaglobin CSL Behring GmbH Sicurezza dei preparati I vari prodotti di IVIG vengono preparati partendo da miscele di plasma di migliaia di donatori. Questo consente di disporre di preparati con elevati titoli anticorpali e ampio spettro di azione. Tuttavia, quanto più è elevato il numero dei donatori tanto più è elevata la probabilità che una donazione possa essere contaminata. Nonostante fosse noto che il frazionamento alcolico fosse in grado di ridurre il rischio di trasmissione di agenti virali, nel 1983 sono stati riportati diversi casi di trasmissione di epatite non A-non B (quella che adesso noi conosciamo con il nome di epatite C) occorsi in seguito alla somministrazione di diversi preparati di IVIG (Yap, 1996). Nonostante non fosse stata accertata la causa di queste trasmissioni, si è ritenuto che fosse da ricercarsi nella procedure di preparazione di questi prodotti. Questi casi hanno portato a rivedere e a migliorare i sistemi di controllo dell’inattivazione virale durante i processi di preparazione e ad estenderli su larga scala (Radosevich e Burnouf, 2010). Al riguardo sono stati introdotti diversi metodi quali: 1. la pastorizzazione: si tratta di un trattamento a 60°C per 10 ore che inattiva sia virus capsulati che non capsulati; al fine di evitare la formazione di aggregati vengono aggiunti degli stabilizzanti (sucroso o sorbitolo) che vengono poi rimossi attraverso la nanofiltrazione; 2. un trattamento con solvente (tri-n-butilfosfato)/detergente (polisorbato 80 e/o triton X-100) per 1-6 ore a 20-35°C. I solventi/ detergenti vengono poi rimossi tramite cromatografia. Efficace nella inattivazione dei virus capsulati; 3. un trattamento con acido caprilico per 1 ora a 20°C. Efficace nella inattivazione dei virus capsulati; 4. la nanofiltrazione. Può essere eseguita utilizzando filtri con pori differenti. Efficace nella rimozione di virus capsulati e non capsulati. Sembra efficace nella rimozione anche di proteine prioniche. L’applicazione di una o più di queste metodiche ha significativamente aumentato la sicurezza dei prodotti attualmente disponibili per quanto riguarda la trasmissione di virus. In ogni caso il controllo della qualità dei preparati inizia con l’identificazione e la selezione dei donatori sulla base della valutazione della storia clinica, tenendo anche in considerazione i dati di sorveglianza epidemiologica della popolazione di appartenenza. Ogni singolo donatore deve risultare negativo per la presenza di anticorpi contro l’HIV-1/2, l’HCV e per l’antigene di superficie dell’ HBV (HBsAg). Inoltre, su mini-pool di plasma, con sempre maggiore frequenza, viene eseguita la ricerca degli acidi nucleici per HIV, HBV, HCV, HAV e per parvovirus B19. Il pool di plasma finale da sottoporre alla procedura di frazionamento deve risultare negativo per gli acidi nucleici dell’HCV, per gli anticorpi anti HIV e per l’antigene HbsAg. Diverse aziende, oltre a queste indicazioni di legge, eseguono la ricerca anche degli acidi nucleici per l’HIV, l’HBV, il Parvovirus B19 e l’HAV. Tutte queste misure contribuiscono a ridurre il carico virale nel materiale di partenza. Caratteristiche dei prodotti Per essere efficace e il più possibile privo di effetti collaterali, il prodotto deve contenere livelli di IgG superiori al 95% con una fisiologica distribuzione delle singole sottoclassi delle IgG ed un ampio spettro di attività anticorpale, meno del 3% di aggregati di elevato peso molecolare e livelli minimi di IgA, titolo di isoemoagglutinine (anti A e anti B) <1/64, attività anticomplementare ≤1, concentrazioni di attivatore della prekallicreina <35UI/ml. Infine, il prodotto non deve contenere HBsAg né anticorpi anti HIV-1, HIV-2 e anti HCV. Una più completa descrizione dei parametri internazionali che riguardano il controllo di qualità dei preparati, secondo le Good Manufacturing Practices si può avere consultando i seguenti siti: http://www.nibsc. ac.uk/products/catalogue.html; http://www.who.int/bloodproducts/ catalogue/en/index.html). In Italia i prodotti di immunoglobuline sono erogati dal Servizio Sanitario Nazionale, attraverso le farmacie ospedaliere o le singole ASL. I prodotti ad oggi disponibili in Italia sono elencati in tabella I. Applicazioni terapeutiche e trattamento sostitutivo Indicazioni Il trattamento sostitutivo con Ig rappresenta la terapia elettiva e salvavita delle immunodeficienze primitive a prevalente difetto dell’immunità umorale, mentre per le forme di immunodeficienza combinata (umorale e cellulare) questo trattamento è di supporto al trapianto di midollo osseo che rappresenta la terapia elettiva (Tab. II). Il trattamento sostitutivo con Ig alle dosi considerate standard (vedere paragrafo successivo) ha significativamente ridotto la morbilità e mortalità e migliorato la qualità di vita di questi pazienti (Maarschalk-Ellerbroek et al., 2011). Prendendo ad esempio l’agammaglobulinemia, dai dati della letteratura pubblicati nella metà degli anni ’80 e ’90, la mortalità, principalmente di natura infettiva, era circa del 18% (Smith e Witte, 1999). In una casistica più recente di 73 pazienti (Plebani et al., 2002), ma confermata in una casistica più estesa di 180 pazienti registrati nella banca dati IPINET, la mortalità è risultata del 5%. La differenza tra le casistiche degli anni ’80 e ’90 e quelle più recenti sta nel fatto che le prime riguardavano molti più pazienti trattati a lungo con immunoglobuline intramuscolo e con una diagnosi tardiva, mentre le più recenti contengono pazienti con 217 A. Plebani et al. Tabella II. Indicazioni all’impiego delle IVIG. Per la terapia immunomodulante, lista abbreviata e formulata secondo le indicazioni dell’FDA (Gelfand, 2012). Terapia sostitutiva • Immunodeficienze primitive - Agammaglobulinemia X e autosomica recessiva - Immunodeficienza comune variabile - Immunodeficienza con Iper IgM - Sindrome linfoproliferativa X recessiva - Sindrome di Wiskott-Aldrich - Difetto anticorpale nella atassia-telengiectasia e nella Del22 - Immunodeficienze combinate • Immunodeficienze secondarie - Infezione pediatrica da HIV - Trapianto di midollo osseo alogeneico - Trapianto di rene in ricevente con titoli anticorpali elevati o un donatore ABO incompatibile - Leucemia linfocitica cronica e mieloma Terapia immunomodulante • Approvata - Porpora Idiopatica Trombocitopenica - Polineuropatia infiammatoria demielinizzante cronica - Malattia di Kawasaki - Neuropatia motoria multifocale • Approvata, ma se in presenza di alcune condizioni* Malattie neuromuscolari: - Sindrome di Guillain-Barrè - Sclerosi multipla ricorrente - Miastenia gravis - Polimiosite refrattaria - Poliradicoloneuropatia - Miastenia di Lambert-Eaton - Opsociono-Mioclono - Retinopatia di Birdshot - Dermatomiosite refrattaria Malattie ematologiche: - Anemia emolitica autoimmune - Grave anemia da parvovirus B19 - Neutropenia autoimmune - Trombocitopenia neonatale alloimmune - Trombocitopenia HIV associata - GVHD (Graft-versus-host disease) - Infezione da CMV o polmonite interstiziale in pazienti che devono fare trapianto di midollo Malattie dermatologiche: - Pemfigo volgare - Pemfigo foliaceo - Pemfigoide bolloso - Epidermolisi bollosa - Fascite necrotizzante - Necrolisi epidermica tossica * Diagnosi certa, fallimento o controindicazione ai trattamenti usuali, rapida progressione o ricaduta della malattia, miglioramento documentato dopo somministrazione di Ig. 218 diagnosi più precoce e che avevano iniziato il trattamento per via endovenosa subito dopo la diagnosi. Questo dimostra che una diagnosi precoce, prima che siano instaurate complicanze (soprattutto le bronchiectasie), associata ad un adeguato e tempestivo trattamento sostitutivo, sono le due condizioni essenziali per ridurre la mortalità e la morbilità e per garantire a questi pazienti una qualità di vita per molti versi simile a quella dei loro coetanei sani. Il follow-up prolungato di questi pazienti ha anche consentito di dimostrare che, mentre il trattamento sostitutivo controlla ottimamente le infezioni gravi (sepsi, encefaliti da enterovirus, ecc.), non altrettanto ottimale è il controllo delle infezioni a livello mucoso. Infatti durante il followup, a dispetto di un appropriato trattamento sostitutivo, le infezioni più frequenti erano le gastroenteriti e le bronchiti e broncopolmoniti, queste ultime responsabili dello sviluppo di pneumopatia cronica, che rappresenta tuttora la maggior causa di morte di questi pazienti. Questo dimostra che le immunoglobuline non raggiungono in modo ottimale le superfici mucose dove dovrebbero svolgere il loro maggiore effetto protettivo. Per questo motivo è importante associare alla terapia sostitutiva la fisioterapia respiratoria. Oltre all’uso nelle immunodeficienze primitive, la terapia sostitutiva con Ig è indicata anche in alcune condizioni che presentano un difetto anticorpale di tipo secondario come i tumori, l’infezione da HIV, alcune malattie oncoematologiche, il trapianto di midollo o di organi. Si tratta di indicazioni formulate in base al grado di raccomandazione ottenuto partendo dai livelli di evidenza di efficacia (Orange et al., 2006; Nimmerjahn e Ravetch, 2008; Gelfand, 2012). Per quanto riguarda l’impiego nei prematuri come prevenzione delle sepsi neonatali, una recente valutazione del Cochrane Neonatal Group riporta che il loro impiego riduce del 3% gli episodi di sepsi e del 4% le infezioni gravi, senza tuttavia incidere significativamente sulla mortalità (Soll, 2013). Vie di somministrazione e dosaggio utilizzato Le principali tappe riguardanti la via di somministrazione delle immunoglobuline sono riportate in Figura 2. È interessante notare come la prima somministrazione di Ig praticata da Bruton sia stata eseguita per via sottocutanea, via che in questi ultimi anni è stata di molto rivalutata e praticata. Il dosaggio arbitrariamente scelto da Bruton era di 3.2 g al mese (corrispondente a circa 100 mg/kg del suo paziente). Sono stati Janeway e Gitlin poco dopo a proporre la via di somministrazione intramuscolare, consensualmente accettata a livello internazionale. Tuttavia, il dosaggio proposto (100 mg/ kg/mese) risultava insufficiente a raggiungere livelli di IgG sieriche considerati protettivi, che avrebbero richiesto la somministrazione di volumi molto elevati, con conseguenti importanti effetti collaterali, soprattutto dolore locale, difficilmente accettabile da parte del paziente, soprattutto se di peso elevato. Inoltre, sebbene questo dosaggio risultasse efficace nel ridurre gli episodi di infezioni gravi (come la sepsi), non lo era nel controllare complicanze croniche a lungo termine come le bronchiectasie. Da qui la necessità di sviluppare prodotti che potessero essere somministrati per via endovenosa consentendo la somministrazione di volumi più elevati e quindi di raggiungere livelli sierici di IgG più efficaci. Questi prodotti si sono resi disponibili nella seconda metà degli anni ’80 e hanno rapidamente soppiantato i preparati per via intramuscolare. Inizialmente anche per i preparati per via endovenosa, il dosaggio raccomandato era di 100 mg/kg/mese. Fu in seguito al lavoro di Roifman (Roifman et al., 1987) che aveva dimostrato come il mantenimento di elevati livelli sierici di Ig (> 500 mg/dl) riducesse le complicanze polmonari, che la dose di 400 mg/kg/mese è stata considerata la dose standard. In ogni caso, il dosaggio può essere aggiustato secondo le Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione Figura 2. Terapia sostitutiva con immunoglobuline: principali tappe storiche. varie necessità del paziente riducendo gli intervalli tra una somministrazione e l’altra o aumentando la dose. In questo secondo caso è stato dimostrato che un aumento di 100 mg/kg/mese determina un aumento di IgG sieriche di circa 120 mg/dl e che, ogni aumento di concentrazione di 100 mg/dl, determina una riduzione del 27% degli episodi infettivi. Ad esempio, la frequenza degli episodi di polmonite ad un dosaggio di IgG che mantiene i livelli sierici attorno ai 500 mg/dl è 5 volte superiore a quella osservata ad un dosaggio che mantenga i valori i IgG attorno ai 1000 mg/dl (Orange et al., 2010). Questo dimostra che il controllo delle infezioni delle basse vie aeree dipende principalmente dai livelli di IgG sieriche. Tuttavia, tali considerazioni valgono per l’agammaglobulinemia, ma non per l’immunodeficienza comune variabile, condizione che, a differenza dell’agammaglobulinemia può associarsi alla presenza di IgA. Le IgA presenti possono svolgere un parziale ruolo protettivo a livello delle mucose, consentendo di controllare gli episodi infettivi anche con un dosaggio inferiore di IgG (Quinti et al., 2011). In questi ultimi anni, vi è stato un ritorno alla somministrazione delle Ig per via sottocutanea. Ciò è stato reso possibile dalla commercializzazione di prodotti specificamente preparati per la somministrazione attraverso questa via. La disponibilità di pompe da infusione di dimensioni sempre più piccole e più efficaci, la possibilità di somministrare questi preparati a livello domiciliare, la farmacocinetica più fisiologica di questi preparati rispetto a quelli per via endovenosa (livelli costantemente stabili senza picco iniziale), il desiderio dei pazienti di essere meno medicalizzati e di programmare e adattare la terapia alle proprie necessità anche professionali, la pressocché assenza di effetti collaterali gravi, hanno contribuito, in questi ultimi anni, alla aumentata diffusione di questa via di somministrazione nella maggior parte delle nazioni. Inoltre analisi di farmacoeconomia hanno dimostrato che la somministrazione domiciliare sottocutanea è economicamente vantaggiosa per il servizio sanitario nazionale, consentendo di risparmiare sui costi dell’ospedalizzazione (Haddad, 2012). Il dosaggio utilizzato per la via sottocutanea è di 100 mg/kg/settimana, equivalente al dosaggio di 400 mg/kg/mese del preparato per via endovenosa. L’FDA americana, considerata la diversa biodisponibilità delle Ig per via sottocutanea rispetto a quelle per via endovenosa, raccomanda che il dosaggio delle IgG per via sottocutanea sia aumentato del 37% rispetto a quello per via endovenosa. Questa raccomandazione non è invece prevista nelle disposizioni europee, perché non da tutti gli autori condivisa. Trattamento immunomodulante Indicazioni Come precedentemente accennato, il riscontro di un aumento delle piastrine in un soggetto con PTI e ipogammaglobulinemia in seguito alla somministrazione di immunoglobuline indicate per la sua condizione di immunodeficienza ha dato l’avvio al loro impiego in molte altre forme di malattie autoimmuni/infiammatorie, postulando che le IgG agissero in questo caso con un effetto immunomodulante. In tabella II sono riportate le malattie per le quali le immunoglobuline sono utilizzate per questo effetto (Gelfand, 2012). Solo per poche malattie il loro uso è stato approvato; per la maggior parte il trattamento è ancora considerato off-label, oppure è suggerito sulla base di esperienze sporadiche, ma non esistono tuttora studi clinici controllati. Peraltro ci possono essere differenze tra le varie agenzie per quanto riguarda la classificazione off-label di alcune patologie (es. la Guillain-Barré approvata in Europa non lo è da parte dell’FDA) e per quanto riguarda la valutazione dei livelli di evidenza di efficacia delle IVIG tra le varie forme considerate off-label riportate nei vari lavori della letteratura, ai quali si rimanda per un maggiore approfondimento (Orange et al., 2006; Nimmerjahn e Ravetch, 2008, Gelfand, 2012). In ogni caso, l’orientamento attuale degli organi competenti è di autorizzare singoli prodotti per singole malattie, nelle quali sia stata dimostrata l’efficacia. Il dosaggio comunemente utilizzato come immunomodulante è di 2g/kg/dose per via endovenosa, in un intervallo di tempo che va dalla somministrazione in sole 12 ore fino anche a frazionare il do- 219 A. Plebani et al. Tabella III. Meccanismi dell’attività antiinfiammatoria e immunomodulante delle IgG. Attività mediata dal frammento Fab - Soppressione o neutralizzazione degli autoanticorpi - Sopressione o neutralizzazione delle citochine - Neutralizzazione dei componenti derivati dall’attivazione del complemento - Network idiotipo-antidiotipo - Blocco del legame con le proteine di adesione - Effetto su specifici recettori cellulari - Modulazione della maturazione e funzione delle cellule dendritiche Attività mediata dal frammento Fc - Blocco dell’FcRn - Blocco degli Fcγs attivatori - Aumentata espressione di FcgRIIB con attività inibitoria - Immunomodulazione attraverso la componente glicosilata delle IgG saggio in 4-5 giorni. Recenti trial hanno dimostrato l’efficacia anche della somministrazione per via sottocutanea nel trattamento di malattie neurologiche (Markvardsen et al., 2013). Meccanismi di azione Tuttora poco noti sono i meccanismi attraverso i quali le IgG ad alte dosi risultano essere efficaci. In particolare, è difficile comprendere, in special modo per le malattie causate da autoanticorpi, come una miscela policlonale di IgG possa sopprimere l’attività dello stesso isotipo di immunoglobulina che riconosce autoantigeni (autoanticorpo), fenomeno definito come “paradosso delle IgG endovena”. A complicare ulteriormente il quadro interpretativo vi è l’osservazione che questo trattamento si è dimostrato efficace anche per malattie che non sono mediate da autoanticorpi. Sulla base delle osservazioni cliniche e dei dati sperimentali disponibili, in modo particolare nel modello murino, sono state formulate varie ipotesi e costruiti modelli interpretativi che prendono in considerazione meccanismi mediati, da una parte, dalla porzione F(ab)2, e dall’altra, dalla porzione Fc delle IgG (Tab. III); il ruolo predominante comunque viene svolto dal frammento Fc. Inoltre non va trascurato l’effetto di altre molecole, non correlate alle immunoglobuline, che possono essere presenti nei diversi preparati. Sarebbe troppo lungo elencare le varie malattie nelle quali l’effetto immunomodulante si ipotizza venga svolto dalla porzione F(ab)2 o dalla porzione Fc della molecola immunoglobulinica; al riguardo rimando a eccellenti lavori di review che sono stati pubblicati sull’argomento (Nimmerjahn e Ravetch, 2008; Schwab e Nimmerjahn, 2013). A scopo esemplificativo citerò due dei possibili meccanismi attraverso i quali la porzione F(ab)2, svolge funzione immunomodulante: 1. la sua capacità di legare e quindi neutralizzare il C3a e il C5a che hanno una potente attività proinfiammatoria; 2. la presenza nel prodotto di anticorpi specifici per molecole del “self” (citochine, parte variabile delle IgG [anti-idiotipo], CD95, CD95L, BAFF, APRIL, ecc.) coinvolte nella risposta infiammatoria. In merito a questo secondo punto, è importante citare l’esempio della necrolisi epidermica tossica (TEN: toxic epidermal necrolysis), patologia indotta da farmaci e che è caratterizzata dal distacco dell’epidermide dal derma per apoptosi dei cheratinociti, causata dall’interazione del 220 CD95 (FAS) con il suo ligando (CD95L). La presenza nei preparati di immunoglobuline di anticorpi diretti contro il CD95 blocca questa interazione. Studi in vitro hanno infatti dimostrato che l’eliminazione di questi anticorpi dal preparato ne determinano la perdita di efficacia. Tuttavia, come già accennato, è l’interazione del frammento Fc con i vari recettori (FcgRs) espressi sulla superficie cellulare a svolgere la gran parte del ruolo immunomodulante attribuito alle IVIG. Va comunque sottolineato che i dati sperimentali al riguardo non sono sempre facilmente interpretabili e diversi meccanismi sono stati ipotizzati. I FcgRs sono una famiglia di diversi recettori con funzioni differenti (Fig. 3) e che sono largamente espressi, anche se a densità differente, sulle cellule del sistema immune, inclusi i basofili, gli eosinofili, le mastcellule, i monociti e i macrofagi. Diverse sono le ipotesi, non mutualmente esclusive, sul ruolo degli FcgRs nel condizionare l’effetto immunomodulante delle IgG (Schwab e Nimmerjahn, 2013) che sono di seguito riportate. Ruolo di FcRn (neonatal Fc receptor). Questo recettore appartiene alla famiglia delle molecole HLA di Classe I, regola la vita media delle IgG sieriche ed è espresso da una ampia varietà di cellule incluse le cellule endoteliali e i macrofagi. Modelli murini che mancano di questa proteina o della b2-microglobulina, presentano valori di Ig molto ridotte, come conseguenza della riduzione della loro vita media. La funzione di questo recettore è di legare le Ig sieriche, fagocitarle e reimmetterle in circolo dopo averle riespresse sulla superficie cellulare (Junghans e Anderson, 1996). In sua assenza questo processo non avviene e quindi le IgG vengono eliminate in poche ore con significativa riduzione della vita media (Li et al., 2005). Il ruolo immunomodulante delle IgG infuse ad elevate concentrazioni, consiste nella competizione con gli autoanticorpi circolanti del paziente per il legame con l’FcRn. In questo modo gli autoanticorpi sono esclusi dal processo di fagocitosi e reimmissione in circolo e pertanto vengono velocemente eliminati (Fig. 4, modello 1). Tuttavia questo modello è stato messo in discussione da un recente lavoro nel quale si dimostra che il miglioramento della PTI in seguito all’infusione di IgG si verifica anche in topi difettivi per FcRn (Crow et al., 2011). Ruolo degli FcgRs Partendo dal concetto che gli FcgRs svolgono un ruolo centrale nel mediare i meccanismi effettori anticorpo-dipendenti della risposta infiammatoria, è apparso ragionevole ipotizzare che il ruolo immunomodulante delle IgG infuse fosse di limitare l’accesso agli FcgRs attivatori degli immunocomplessi circolanti. Questa ipotesi era supportata dall’osservazione che la clearance dei globuli rossi opsonizzati con anticorpi anti D radiomarcati era ritardata nei pazienti con PTI trattati con IgG (Fehr et al., 1982). Ipotesi che in parte contraddice quella del modello precedente, perché se il ruolo delle IVIG è quello di bloccare l’FcRn, gli immunocomplessi radio marcati avrebbero dovuto essere eliminati più rapidamente. Tuttavia, alcuni studi hanno dimostrato che la somministrazione di anticorpi anti Rh (D) in pazienti con PTI Rh (D) positivi, (con conseguente formazione di immunocomplessi) aveva lo stesso effetto della somministrazione di IVIG (Crow e Lazarus, 2008). Questi lavori hanno quindi rafforzato l’ipotesi che l’attività immunomodulante delle IgG infuse dipenda dalla capacità di inibire, per competizione, il legame degli immunocomplessi circolanti agli FcgRs attivatori presenti sui macrofagi (Fig. 4, modello 2). Secondo questo modello, l’effetto immunomodulante delle IVIG viene svolto dagli immunocomplessi (aggregati) presenti negli stessi preparati. Questo può in parte spiegare perché Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione Figura 3. Famiglia degli FcγRs dell’uomo. L’FcRn appartiene alla famiglia delle molecole HLA di classe I e controlla la vita media delle IgG. Gli altri recettori sono in grado di legare la parte Fc delle IgG e il loro coinvolgimento controlla la risposta cellulare. La molecola DC-SIGN è in grado di legare la componente glicosilata delle IgG e svolge attività antiinfiammatoria (da Schwab e Nimmerjahn, 2013). siano richieste elevate concentrazioni di IVIG per avere l’effetto immunomodulante. Ruolo di FcgRIIB L’osservazione che non sempre la somministrazione di anticorpi anti Rh(D) in pazienti con PTI Rh(D) positivi era efficace nel controllare i livelli di piastrine e che la presenza di dimeri o aggregati nei vari preparati di anticorpi anti Rh(D) non determinava un effetto terapeutico (Schwab e Nimmerjahn, 2013), ha portato a ipotizzare altri meccanismi, oltre a quello del blocco degli FcgRs. L’osservazione che topi difettivi in FcgRIIB, o topi nei quali questo recettore era stato bloccato con l’uso di Ab monoclonali – utilizzando sempre come modello la PTI – non rispondevano al trattamento con IVIG (Samuelsson et al., 2001), ha fatto ipotizzare che l’FcgRIIB, considerato un recettore con attività inibitoria, potesse giocare un ruolo significativo sull’effetto immunomodulante delle IVIG. Tale ipotesi è stata confermata da studi successivi condotti su modelli murini e umani, che hanno dimostrato che, in seguito alla somministrazione di IVIG, si ha un’aumentata densità di espressione di FcgRIIB sulle cellule della linea mieloide o un aumento del numero delle cellule mieloidi che esprimono questo recettore. (Tackenberg et al., 2009). Si avrebbe inoltre una redistribuzione dei recettori FcgRs con aumento degli inibitori rispetto agli attivatori. Gli immunocomplessi circolanti si legano quindi preferenzialmente a FcgRs con attività inibitoria. (Fig. 4, modello 3). Glicosilazione delle IgG Le IgG sono glicoproteine che contengono una catena glucidica legata al residuo di asparagina in posizione 297 di ciascuna catena del frammento Fc. L’importanza della catena glucidica sull’effetto immunomodulante delle IgG è dimostrata dal fatto che questo effetto viene eliminato se le IVIG sono deglicosilate. L’effetto terapeutico è mediato dalla parte glicosilata dell’Fc e non da quella del F(ab)2. È stato inoltre visto che l’attività immunomodulante viene abrogata in seguito alla rimozione di acido sialico terminale; viene al contrario potenziata se la catena glucidica viene arricchita in acido sialico. Recentemente sono state identificate diverse proteine, appartenenti alla famiglia delle molecole SIGLEC (sialic acid-binding Ig-like lec- tins) (Pillai et al., 2012), espresse sulla superficie delle cellule del sistema immune e che hanno la capacità di legare molecole che contengono residui terminali di acido sialico. Trattandosi di proteine che presentano nella parte intracellulare della molecola sequenze con attività inibitoria (ITIMs: immunoreceptor tyrosine-based inhibitory motif) è ragionevole pensare che anche queste molecole possano contribuire all’effetto immunomodulante delle IVIG. Inoltre, la dimostrazione che in topi deficitari della molecola SIGNR1 (ICAM-3 grabbing non-integrin-related 1) o trattati con anticorpi monoclonali diretti contro questa proteina veniva eliminato l’effetto immunomodulante delle IVIG (Anthony et al., 2008), ha permesso di attribuire a questa molecola un ruolo nei meccanismi della immunomodulazione. Si tratta di una proteina espressa da varie cellule del sistema immune con capacità di legare le glicoforme di IgG ricche in acido sialico. Agendo da recettore per le IgG glicosilate svolge una funzione simile a quella degli FcgRs. L’equivalente umano di SIGNR1 è DC-SIGN, espresso sulle cellule dendritiche, anch’esso in grado di legare le glicoforme di IgG ricche in acido sialico. In seguito a questo legame viene attivata la produzione di IL33 e IL4. Quest’ultima aumenta l’espressione del recettore FcgRIIB con attività inibitoria e riduce l’espressione di FcgRs con proprietà attivatorie sulle cellule macrofagiche; pertanto, gli immunocomplessi circolanti si legano preferenzialmente ai recettori inibitori evitando di svolgere attività infiammatoria (Antony et al., 2011). Recentemente è stato dimostrato che l’interazione delle IVIG con DC-SIGN determina anche espansione delle cellule Treg, mediata dalla produzione di prostaglandine E2 da parte delle cellule dendritiche (Trinath J et al., 2013). Secondo queste osservazioni sperimentali l’attività immunomodulante delle IgG dipende quindi anche dal contenuto in acido sialico delle varie glicoforme di IgG presenti in un preparato. Le ipotesi sopradescritte sono state formulate sulla base di protocolli sperimentali differenti ed è verosimile che ciascun protocollo metta in evidenza solo un aspetto del puzzle, peraltro complesso e non completamente chiarito, di come le IVIG svolgano l’effetto immunomodulante. In realtà è molto probabile che i vari meccanismi soprariportati concorrano, integrandosi l’uno con l’altro alla realizzazione di questo effetto. 221 A. Plebani et al. durante le prime somministrazioni del preparato o quando il paziente ha in corso un’infezione. Dopo qualche somministrazione dello stesso prodotto solitamente questi eventi tendono a scomparire, ma il 10-20% dei pazienti possono presentare reazioni anche dopo un periodo variabilmente lungo di trattamento ben tollerato. Da qui la necessità di monitorare sempre attentamente questi pazienti. Reazioni avverse gravi (anafilassi, crisi d’asma, sindrome di Stevens-Johnson, trombosi, citopenia, emolisi, convulsioni, meningite asettica, ecc.) sono fortunatamente più rare. Tra le complicanze rare è stata segnalata anche l’insufficienza renale, per lo più associata a prodotti contenenti stabilizzanti a base di zuccheri (saccarosio, maltosio glucosio). Pertanto, prodotti che contengono zuccheri vanno evitati nei pazienti con problemi renali per l’aumentato rischio di complicanze renali e nei pazienti diabetici al fine di evitare brusche variazioni dei livelli glicemici. L’osmolarità del preparato e la presenza di fattori procoagulanti vanno tenuti in considerazione per i pazienti con problemi cardiovascolari, disfunzione renale e rischio tromboembolico. Il passaggio alla somministrazione per via sottocutanea riduce il rischio di reazioni gravi e le reazioni avverse sono solitamente lievi e locali (rossore, gonfiore, ecc.). Considerazioni sull’uso appropriato della terapia con immunoglobuline Figura 4. Modelli che spiegano il ruolo immunomodulante delle IVIG mediato dal frammento Fc. a. Solitamente il recettore FcRn espresso dalle cellule endoteliali capta le IgG sieriche, le fagocita e le riesprime di nuovo in superficie, consentendone la loro reimmissione in circolo. È questo processo che determina la vita media delle IgG sieriche; quelle che non passano attraverso questo meccanismo vengono eliminate nel giro di qualche ora. Nel caso in circolo ci siano numerosi immunocomplessi, formati da autoanticorpi che legano l’autoantigene specifico, questi si legheranno ai recettori sia attivatori che inibitori, espressi sulle cellule del sistema immune (macrofago) e, a seconda della densità di espressione di questi recettori, si svilupperà il quadro infiammatorio. b. Sono illustrati i tre possibili modelli attraverso i quali si esplica l’effetto immunomodulante delle IVIG ad alte dosi. Modello 1. Le IVIG somministrate saturano i recettori FcRn, portando quindi alla rapida eliminazione degli autoanticorpi. Modello 2. Le IVIG competono con gli immunocomplessi circolanti per il legame con gli FcγRs presenti sui macrofagi. Modello 3. Le IVIG somministrate inducono un’aumentata espressione di recettori inibitori (FcγRIIB), che annullano l’effetto infiammatorio degli immunocomplessi circolanti (da Nimmerjahn e Ravetch, 2008). Tollerabilià e scelta del prodotto I prodotti oggi disponibili sono in genere ben tollerati. Dai numerosi studi della letteratura riportati, risulta che i più comuni eventi avversi sono di lieve entità (dolore addominale, lombare, cefalea, nausea, vomito, rash orticarioide, mialgia, asma lieve, febbre di media intensità). Tali eventi avversi si verificano nel 5-15% dei pazienti e, in genere, sono controllabili con l’interruzione del trattamento o con la riduzione nella velocità di somministrazione. La somministrazione di antiinfiammatori non steroidei e/o antiistaminici, può essere utile; qualora la risposta sia scarsa è indicata la somministrazione di steroidi (idrocortisone 10 mg/kg/dose). Le reazioni sono più frequenti 222 In queste ultime decadi si è assistito ad un considerevole allargamento delle indicazioni all’impiego terapeutico delle immunoglobuline tanto che il loro consumo ha significativamente superato quello di altri emoderivati come l’albumina, i fattori della coagulazione, ecc. Il mercato mondiale delle Ig è passato da 7.400 kg nel 1984 a 94.860 nel 2010. Questo aumento è dovuto ad una richiesta sempre maggiore del loro utilizzo come terapia immunomodulante e quindi ad uno spettro sempre più ampio di malattie (autoimmuni, infiammatorie, neurologiche, cutanee, ecc.) nelle quali le immunoglobuline sono state e vengono utilizzate. Tuttavia, per quanto riguarda queste malattie, è interessante osservare che solo il 40-50% delle immunoglobuline è stato utilizzato per il trattamento di malattie per le quali esiste un consenso generale; per il rimanente 60-50% il trattamento è off-label. Spesso il loro impiego è guidato da sporadiche segnalazioni della letteratura piuttosto che da robuste evidenze clinico-sperimentali; certo, in ogni caso si riferiscono a pazienti per i quali le opzioni terapeutiche classiche si erano rivelate fallimentari. Un eccessivo e ingiustificato loro utilizzo per malattie considerate off-label potrebbe riportare ad un esaurimento della disponibilità del prodotto, creando dei problemi per quelle patologie per le quali questo trattamento è di prima scelta, come si è verificato a partire dal 1997. Allora un insieme di fattori avevano portato ad una crisi di disponibilità di Ig, tra i quali la crescente domanda e la diminuzione dell’offerta per i problemi legati alla diffusione dell’AIDS e della malattia di Creutzfeldt-Jakob (vCJD). Questi ultimi hanno imposto una serie di misure precauzionali per assicurare la massima sicurezza degli emoderivati, che hanno influito sulla disponibilità di materiale: test di screening più specifici e sensibili, estensione e applicazione dei metodi di inattivazione virale, maggiori controlli sui donatori, ritiro dei prodotti provenienti da donatori a rischio di vCJD, divieto, per un determinato periodo di tempo, di usare plasma da sangue intero raccolto in Inghilterra e in altri paesi europei. Queste limitazioni costrinsero l’industria del plasma ad effettuare delle ristrutturazioni, alcune aziende chiusero, altre si fusero. Si arrivò nel Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione 1998 ad una riduzione della produzione e ad una grave carenza di immunoglobuline. Negli USA la crisi fu così grave che il Congresso, in seguito alla sollecitazione della Immune Deficiency Foundation, emise una serie di provvedimenti volti ad aumentare la produzione di immunoglobuline. A partire dal 2006 produzione e fabbisogno si bilanciarono. A questo si è arrivati anche attraverso la formulazione, da parte di società scientifiche, di linee guida nelle quali le raccomandazioni all’impiego delle immunoglobuline erano definite sulla base di evidenze scientifiche (Orange et al., 2006). L’applicazione di queste indicazioni associate al monitoraggio del consumo delle IVIG rappresentano un importante strumento di controllo per ottimizzare l’utilizzo e garantire la disponibilità delle IVIG. Box di orientamento Cosa si sapeva prima Il primo impiego delle immunoglobuline come terapia sostitutiva è datato 1952, e coincide con la descrizione della prima immunodeficienza primitiva, caratterizzata dall’assenza delle immunoglobuline sieriche. Successivamente, questo trattamento è stato esteso anche ad altre forme di immunodeficienze primitive, per le quali costituisce il trattamento elettivo e salvavita. I primi prodotti utilizzati presentavano un’efficacia limitata per via della modalità di preparazione e della via di somministrazione; inoltre erano gravati da un maggior numero di effetti collaterali. Cosa sappiamo adesso I notevoli progressi tecnologici sviluppati verso la fine degli anni ’70 hanno consentito di produrre preparati di immunoglobuline somministrabili per via endovenosa più efficaci e sicuri. La via endovenosa, permettendo di somministrate quantità elevate di questi prodotti, ha dimostrato, inizialmente in modo del tutto casuale, l’efficacia della somministrazione delle immunoglobuline anche in malattie autoimmuni e/o infiammatorie, sfruttando il loro effetto immunomodulante. Ora sappiamo molto sui meccanismi attraverso i quali le immunoglobuline svolgono questo ruolo immunomodulante. Quali ricadute sulla pratica clinica La somministrazione di immunoglobuline come terapia sostitutiva per via endovenosa, e più recentemente per via sottocutanea, ha radicalmente migliorato la morbilità e la mortalità, nonché la qualità di vita dei pazienti con difetti dell’immunità. Il notevole consumo delle immunoglobuline, derivato in parte dal loro non giustificato impiego in un numero sempre maggiore di malattie autoimmuni e/o infiammatorie (per molte delle quali il trattamento è tuttora considerato off-label), può creare problemi di approvvigionamento nel tempo, a scapito di malattie considerate prioritarie. Da qui la necessità di un loro impiego basato sui livelli di evidenza di efficacia, formulate da competenti commissioni. Inoltre la conoscenza più approfondita dei meccanismi attraverso i quali le immunoglobuline esplicano il loro effetto immunomodulante, consentirà di produrre prodotti più efficaci e mirati. Bibliografia Anthony RM, Wermeling F, Karlsson MC et al. Identification of a receptor required for the anti-inflammatory activity of IVIG. Proc Natl Acad Sci, USA 2008;105:19571-8. **Si identifica la molecola SIGNR1come il recettore che, legando le forme glicosilate delle IgG, ne media il loro effetto immunomodulante. Antony RM, Kobayashi T, Wermeling F et al. Intravenous gglobulin suppresses inflammation through a novel Th2 pathway. Nature 2011;475:110-3. **Si dimostra una nuova modalità attraverso la quale le immunoglobuline esplicano la loro attività immunomodulante, per il coinvolgimento di IL13 e IL4. Bruton O C. Agammaglobulinemia. Pediatrics 1952;9:722-7. Crow AR, Lazarus AH. The mechanism of action of intravenous immunoglobulin and polyclonal anti-D immunoglobulin in the amelioration of immune thrombocytopenic purpura: what we really know? Transf Med Rev 2008;22:103-16. Crow AR, Suppa SJ, Chen X et al. The neonatal Fcreceptor (FcRn) is not required for IVIg or anti-CD44 monoclonal antibody-mediated amelioration of murine immune thrombocytopenia. Blood 2011;118:6403-6. Fehr J, Hofmann V, Kappeler U. Transient reversal of thtombocytopenic purpura by high –dose intravenous gamma globulin. N Eng J Med 1982;306:1254-8. Gelfand EW. 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La multidisciplinarietà ha comportato un evidente miglioramento della prognosi e della qualità di vita. Nei paesi con risorse economiche elevate, la sopravvivenza dei tumori infantili ha raggiunto oggi l’80%. Ciò si è realizzato attraverso l’arruolamento dei pazienti in protocolli clinici come standard di cura di prima linea, il miglioramento delle terapie di supporto e il contributo del trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (allo-TCSE). Il contributo di Pession e Rondelli illustra i dati di recente pubblicazione nella monografia pubblicata dall’Associazione Italiana dei Registri Tumori (AIRTUM), in collaborazione con l’Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica (AIEOP) . I dati mostrano la riduzione dell’incidenza dei tumori pediatrici osservata nell’ultimo decennio dopo il sensibile aumento registrato a partire dalla fine degli anni ’80, anche se tuttavia rimane più elevata che nel resto d’Europa. Il secondo aspetto rilevante riguarda il miglioramento della sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi che è migliorata, passando dal 72% (1988-1993) all’83% (2003-2008), sovrapponibile a quanto riportato in altri paesi occidentali. Un aspetto di particolare attenzione riguarda gli adolescenti (15-18 anni), per i quali si è osservato un aumento dei casi ed una percentuale di arruolamenti a protocolli di diagnosi e cura significativamente inferiore a quello della fascia di età tra 0-14 anni. Le sfide per il futuro a livello europeo sono discusse dall’articolo di Kathy Pritchard-Jones, già presidente della SIOP Europa. È difficile ipotizzare che il progressivo miglioramento possa essere ottenuto con un’ulteriore ottimizzazione delle terapie con farmaci convenzionali. L’accesso a farmaci meno tossici e diretti contro target molecolari più specifici dei chemioterapici convenzionali e la collaborazione internazionale per far fronte all’identificazione e trattamento di gruppi di pazienti sempre più piccoli, sono due degli aspetti da cui dipenderà l’ulteriore miglioramento della sopravvivenza dei pazienti. Infine l’impatto a lungo termine dei trattamenti chemio-radioterapici sulla qualità di vita è divenuto sempre più rilevante, considerando che si stima che circa 1 adulto su 1000 sia stato affetto da tumore in età pediatrica. Il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (allo-TCSE) ha contribuito in modo significativo al miglioramento della prognosi di numerosi pazienti pediatrici affetti da emopatie maligne. Merli, Palumbo, Gaspari e Locatelli offrono una completa revisione degli elementi che hanno caratterizzato tale progresso e le prospettive future. In particolare viene presentata l’evoluzione nella selezione del donatore con il progressivo superamento del limite rappresentato dalla disponibilità di un fratello/sorella HLA-identico, attraverso il ricorso a donatori adulti da registro, così come unità di sangue cordonale adeguatamente caratterizzate e criopreservate. Nuove strategie di manipolazione del trapianto rendono oggi possibile il ricorso anche a donatori parzialmente compatibili e anche aploidentici. Infine la disponibilità di nuovi approcci di immunoterapia adottiva sta fornendo prospettive di terapie innovative per il trattamento di pazienti affetti da tumori non responsivi a terapie citostatiche convenzionali. Andrea Biondi Università degli Studi di Milano-Bicocca Fondazione MBBM-Ospedale S. Gerardo, Monza 225 Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 226-232 ONCologia pediatrica I tumori dei bambini e adolescenti in Italia Andrea Pession1-2, Roberto Rondelli2 1 2 Cattedra di Pediatria, Università degli Studi di Bologna Unità Operativa di Pediatria, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna Riassunto Il tumore in età pediatrica e adolescenziale rappresenta una patologia rara, di grande interesse biologico e di estrema rilevanza sociale e di sanità pubblica, nella quale la multidisciplinarietà ha comportato un evidente miglioramento della prognosi e della qualità di vita. In Italia dal 1975 l’Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica (AIEOP) rappresenta un punto di riferimento per la diagnosi e la terapia di questi pazienti, grazie all’attivazione di protocolli multicentrici utilizzati nella totalità dei centri italiani di oncoematologia pediatrica. Il quadro disegnato dalla recente monografia pubblicata dall’Associazione Italiana dei Registri Tumori in collaborazione con AIEOP, mostra una situazione in buona parte confortante, come la riduzione dell’incidenza dei tumori pediatrici osservata nell’ultimo decennio dopo il sensibile aumento registrato a partire dalla fine degli anni ’80, anche se tuttavia rimane più elevata che nel resto d’Europa e se, nel contempo, si è osservato un aumento dei casi tra gli adolescenti. Un’altra nota positiva viene anche dai progressi registrati nella prognosi a lungo termine. Infatti la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è migliorata, passando dal 72% (1988-1993) all’83% (2003-2008), sovrapponibile a quanto riportato in altri paesi occidentali. E se va registrata una positiva riduzione del fenomeno della migrazione extraregionale, dall’altra si è assistito all’aumento dell’immigrazione per motivi sanitari. Infine, nonostante l’impegno degli epidemiologi, al giorno d’oggi ancora poco si conosce sull’eziologia dei tumori pediatrici e pertanto è consigliabile adottare il principio di precauzione al fine di prevenire l’esposizione dei bambini a sostanze possibilmente cancerogene. Summary Cancer in children and adolescents is a rare disease, of great biological interest and extremely relevant in terms of social life and public health; a multidisciplinary approach to this disease has led to definite improvement in prognosis and quality of life for patients. Since 1975, childhood cancer patients have benefited from multicentric diagnostic and treatment protocols established by the Italian Paediatric Haematology and Oncology Association (AIEOP) and used in all Italian paediatric oncology and haematology centres. The recent monograph published by the Italian Association of Cancer Registries in collaboration with AIEOP, shows a quite reassuring situation, such as the reduction of cancer incidence in the last decade of observation, after the increase reported from the late 1980s, even if it remains higher than in the rest of Europe and despite the increase of tumors in adolescents. Another encouraging element is the progress in the long-term prognosis. In fact, the 5-year survival from diagnosis has improved from 72% (1988-1993) to 83% (2003-2008), comparable to that reported in other European countries. The monograph reports also a reduction of extra-regional migration for diagnosis and/or treatment, while recruitment of immigrant children underwent a progressive, steady increase over the years. Finally, despite the efforts of epidemiologists, nowadays still little is known about the etiology of pediatric cancer and therefore it is advisable to adopt the precautionary principle in order to prevent the exposure of children to possibly carcinogenic substances. Parole chiave: tumori, bambini, adolescenti Key words: cancer, children, adolescent Obiettivo La monografia I tumori in Italia - Rapporto 2012: I tumori dei bambini e degli adolescenti, pubblicata su “Epidemiologia & Prevenzione”, nel numero di gennaio-febbraio 2013, offre il pretesto per fare il punto sull’epidemiologia dei tumori dei bambini e degli adolescenti in Italia, su un periodo di osservazione di vent’anni (AIRTUM Working Group et al., 2013). Introduzione L’assistenza dei pazienti oncologici in Italia Il tumore in età pediatrica e adolescenziale rappresenta una patologia rara, di grande interesse biologico e di estrema rilevanza sociale e di sanità pubblica, nella quale la multidisciplinarietà ha comportato un evidente miglioramento della prognosi e della qualità di vita. Negli ultimi trent’anni, la ricerca medica ha investito notevoli risorse 226 per la diagnosi e la terapia di queste neoplasie, riuscendo spesso a modificare la storia naturale della malattia, e notevole è stato l’impatto sulla pratica clinica corrente. Fin dal 1975, i pazienti in età pediatrica con neoplasia hanno potuto beneficiare di protocolli multicentrici diagnostico-terapeutici attivati dall’Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica (AIEOP) ed utilizzati dapprima in pochi centri specializzati, quindi nella totalità dei centri oncoematologici pediatrici italiani. L’attività dell’AIEOP ha contribuito a migliorare la prognosi di questi pazienti, infatti se negli anni ’70 la guarigione veniva ottenuta in meno del 30% dei casi, attualmente oltre il 70% dei casi può considerarsi guarito a 5 anni dalla diagnosi, risultati paragonabili a quelli ottenuti da altri gruppi cooperatori occidentali (Pession et al., 2008). Due elementi hanno contribuito a ciò: da un lato il crescente reclutamento in studi clinici controllati per le diverse neoplasie e dall’altro l’erogazione della terapia in centri altamente specializzati. Attualmente sono 54 i centri aderenti all’AIEOP, distribuiti su quasi tutto il territorio nazionale (Fig. 1). I tumori dei bambini e adolescenti in Italia adolescenti, senza differenze sostanziali per area geografica. Questi tassi d’incidenza, anche se inferiori a quelli riportati nella monografia precedente, sono ancora relativamente elevati, se paragonati a quelli registrati negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa settentrionale (Pritchard-Jones et al., 2006; Kaatsch, 2010). Il rapporto tra casi osservati e casi attesi I centri AIEOP hanno dimostrato la capacità di reclutare la quasi totalità dei casi attesi in età 0-14 anni di leucemie e linfomi, nonché dei casi affetti da tumore a forte componente genetica, quali i neuroblastomi, i tumori di Wilms, i retinoblastomi e gli epatoblastomi. Una particolare lacuna nella rete AIEOP è invece risultata essere quella dei tumori del sistema nervoso centrale (SNC) (< 30% dell’atteso) che vengono diagnosticati e trattati per lo più in centri di neurochirurgia che non aderiscono all’AIEOP. Un’ulteriore carenza è rappresentata dai carcinomi, quali quelli tiroidei e i melanomi, seguiti prevalentemente da centri specializzati non AIEOP (Pession e Rondelli, 2008). Per quanto riguarda gli adolescenti, i centri AIEOP hanno fatto registrare reclutamenti molto bassi rispetto all’atteso, con valori del 10%, relativi al periodo 1989-2006, con un massimo per i sarcomi ossei e neuroblastomi (> 40%) e minimo per carcinomi e melanomi (< 1%) (Ferrari et al., 2009). Figura 1. Numero dei centri AIEOP per regione e area geografica. Risultati L’incidenza dei tumori pediatrici I dati di incidenza, in Italia come in quasi tutti i paesi del mondo, sono prodotti dai registri tumori di popolazione che in alcuni casi coprono tutto il territorio nazionale, ed in altri, come l’Italia, solo parte della popolazione residente. In Italia, circa il 50% della popolazione è coperto da un registro tumori dell’Associazione Italiana dei Registri Tumori (AIRTUM). Ogni anno in Europa si ammalano 140 bambini ogni milione di soggetti di età 0-14 anni, con qualche variabilità tra i vari paesi e tra Europa dell’Est e dell’Ovest. Questo tasso di incidenza è peraltro aumentato con un incremento annuo variabile dallo 0,8 al 2,1% a seconda di istotipo, età, sesso e nazione di residenza. L’aumento nei paesi europei è stato rilevante per tutti i tumori e pari all’1% annuo (Kaatsch et al., 2006). Monografia 2012 - Tumori infantili in calo: ma siamo ancora superiori al resto d’Europa Un dato incoraggiante è che l’aumento dell’incidenza dei tumori infantili registrato in Italia fino alla seconda metà degli anni ’90 si è arrestato. Risulta infatti che nell’ultimo decennio l’andamento dell’incidenza di tutti i tumori maligni nei bambini (età 0-14 anni) è stazionario; inoltre, dal 1995, i casi di leucemia acuta linfoblastica sono diminuiti del 2% su base annua. Negli adolescenti (età 15-19 anni), al contrario, l’incidenza di tutti i tumori maligni è aumentata in media del 2% l’anno: soprattutto nelle femmine (+2%), per lo più linfomi di Hodgkin, mentre in entrambi i sessi si registra un aumento dei tumori della tiroide (+8%). Attualmente sono circa 1380 e 780 rispettivamente i bambini e gli adolescenti che ogni anno in Italia si ammalano di tumore maligno, pari a 164 casi per milione di bambini e 269 casi per milione di Monografia 2012 - Rapporto casi osservati e casi attesi buono, tranne che per gli adolescenti Le stime recenti relative al triennio 2008-2010 confermano l’ottimo reclutamento dell’AIEOP nella fascia di età 0-14 anni, che nel complesso fa registrare un 92% dell’atteso, con valori soddisfacenti per quasi tutti i tipi di tumore, SNC compreso (Tab. I). Per gli adolescenti il rapporto tra casi osservati e casi attesi risulta invece di appena il 25%, con valori superiori al 90% solo per tumori ossei e neuroblastomi. Infine, quando si analizza il rapporto osservati/attesi per regione di residenza o loro aggregazioni in macroaree, questo risulta molto simile nelle varie aree geografiche: 64% al Nord, 70% al Centro e 63% al Sud e nelle Isole. La sopravvivenza è noto che i tumori rimangono la seconda causa di morte, dopo gli incidenti, nei bambini tra 0 e 14 anni, con un tasso di mortalità pari a 2.8-3.5 morti ogni 100000 bambini (Bosetti et al., 2010). Nel corso degli ultimi 3-4 decenni, la sopravvivenza (SUR) dei bambini affetti da tumore è notevolmente aumentata nei paesi ad alto reddito grazie al perfezionamento di strumenti diagnostici, strategie terapeutiche e sviluppo di gruppi cooperatori. Un’analisi condotta in 23 stati europei riporta una SUR a 5 anni dalla diagnosi pari all’81% in bambini e all’87% in adolescenti affetti da tumore, diagnosticati nel periodo 1995-2002 (Gatta et al., 2009). I dati pubblicati dall’AIEOP nel 2008 riportano, in una popolazione di oltre 10000 bambini oncologici nel periodo 1989-1998, una SUR globale a 5 e 10 anni dalla diagnosi rispettivamente di 73% e 69%, del 76% e 73% per i disordini linfoproliferativi e del 68% e 65% per i tumori solidi. (Pession et al., 2008). Monografia 2012 - Sopravvivenza a lungo termine in aumento: maggiore probabilità di guarigione Attualmente, la SUR a 5 anni dalla diagnosi di tumore è dell’82% nei bambini e dell’86% negli adolescenti, valori sovrapponibili a quanto riportato in altri paesi occidentali. Inoltre, la SUR a lungo termine (15 anni) è solo di poco inferiore, a testimoniare una probabilità di guarigione elevata in entrambe le classi di età. 227 A. Pession, R. Rondelli Tabella I. Rapporto tra il numero di casi osservati (O) nella banca dati AIEOP Mod.1.01 nel periodo 2008-2010 in Italia e il numero di casi attesi (A) in base ai tassi di incidenza AIRTUM dello stesso periodo, per tipo di tumore e fasce di età. ICCC-3 Tipo di tumore O A O/A (IC 95%) O A O/A (IC 95%) I Leucemie 1403 1335 1.05 (1.00-1.11) 117 265 0.44 (0.37-0.53) II Linfomi 661 649 1.02 (0.94-1.10) 189 807 0.23 (0.20-0.27) III Tutti i tumori del SNC 764 916 0.83 (0.78-0.90) 80 257 0.31 (0.25-0.39) IV Neuroblastoma e altri tumori del SNP 366 329 1.11 (1.00-1.23) 6 6 1.00 (0.45-2.23) V Retinoblastoma 75 96 0.79 (0.63-0.98) 0 VI Tumori del rene 202 209 0.97 (0.84-1.11) 4 12 0.33 (0.13-0.89) VII Tumori del fegato 56 48 1.16 (0.89-1.50) 6 11 0.55 (0.25-1.21) VIII Tumori maligni delle ossa 164 212 0.77 (0.66-0.90) 100 110 0.91 (0.75-1.11) IX Tumori dei tessuti molli e altri sarcomi extra-ossei 253 268 0.95 (0.84-1.07) 63 150 0.42 (0.33-0.54) X Tumori a cellule germinali, tumori trofoblastici e neoplasie delle gonadi 121 128 0.94 (0.79-1.13) 32 236 0.14 (0.10-0.19) XI Altre neoplasie maligne epiteliali e melanomi 59 206 0.29 (0.22-0.37) 19 599 0.03 (0.02-0.05) XII Altre e non specificate neoplasie maligne 26 92 0.28 (0.19-0.42) 10 51 0.20 (0.11-0.37) 4150 4488 0.92 (0.90-0.95) 626 2504 0.25 (0.23-0.27) Tutti i tumori maligni 0-14 anni 15-19 anni Legenda: ICCC-3, International Classification of Childhood Cancer-Third Edition; IC 95%, intervallo di confidenza al 95%; SNC, sistema nervoso centrale; SNP, sistema nervoso periferico. La SUR a 5 anni dalla diagnosi risulta però diversa per i vari sottogruppi di età: 78%, età <1 anno; 83%, età 1-4 anni; 79%, età 5-9 anni; 83%, età 10-14 anni e anche per quanto riguarda il tipo di tumore (Tab. II). La SUR degli adolescenti è migliorata negli ultimi 15 anni nel nostro Paese, con un valore globale superiore all’80% nel periodo 20032008. Questi valori sono simili a quelli relativi all’Europa riportati all’inizio degli anni Duemila dal progetto EUROCARE 4 (Gatta et al., 2009). L’eziologia Purtroppo, poco si sa ancora sull’eziologia dei tumori pediatrici. Solo il 5% ha una chiara origine genetica, e per meno del 3% è plausibile una diretta correlazione con esposizioni ambientali (infezioni, agenti fisici, sostanze chimiche). Ne consegue che, per oltre il 90% dei tumori, la causa è ignota. I fattori di rischio ad oggi studiati sono numerosi, ma le conclusioni in merito al loro ruolo causale sono ancora molto incerte. Monografia 2012 - L’eziologia è ancora ampiamente sconosciuta Premesso che il significato dell’incremento dei tumori infantili, verificatosi negli ultimi decenni in evidente concomitanza con l’aumento, ancor più marcato, e la progressiva anticipazione nell’età di insorgenza di molte patologie cronico-degenerative, potrebbe deporre per un’origine embrio-fetale e/o trans generazionale di queste patologie per le quali si imporrebbe una prevenzione primaria ed una integrazione del paradigma di cancerogenesi infantile per il quale potrebbe aver un ruolo fondamentale l’assetto epigenetico, la definizione di causa di tumore pediatrico andrebbe riservata solo per le esposizioni per le quali le Monografie IARC esprimono una valutazione di “sufficiente evidenza” di cancerogenicità, riferita specificamente all’esposizione nei bambini. A questo proposito, per quanto riguarda le radiazioni ionizzanti, una recente revisione della letteratura ribadisce il ruolo dell’esposizione 228 a radiazioni ionizzanti, non solo diretta, ma anche prenatale in utero, in cui la IARC, basandosi soprattutto sulla coorte dei sopravvissuti alla bomba atomica, conclude che l’aumento di rischio di tumori comincia nell’infanzia e persiste a lungo nell’età adulta (IARC, 2009a). Per la maggior parte della popolazione la fonte d’esposizione non naturale più importante è rappresentata dagli esami radiografici a fini diagnostici e dalla radioterapia. Tra gli esami radiografici, la TC è la tecnica che comporta il più alto livello di esposizione, con dimostrato aumento di incidenza di leucemie e tumori SNC, proporzionale alla dose cumulativa di radiazioni prima dei 22 anni d’età (Pearce et al., 2012). La IARC ha stabilito che c’è un’evidenza limitata che campi elettrici e magnetici a bassa frequenza causino leucemia nei bambini, mentre l’effetto dell’esposizione a radiofrequenze (es. telefoni cellulari) è ancora controverso. Pertanto resta indicato un atteggiamento precauzionale, raccomandando, ad esempio, l’uso dell’auricolare soprattutto nei bambini (IARC, 2002; IARC, 2013). Vi è evidenza che il fumo passivo causi epatoblastomi nei bambini esposti, così come per l’uso di pesticidi in gravidanza o durante l’infanzia che risulta associato a maggior rischio di leucemie e linfomi, così come per l’esposizione lavorativa peri-concezionale dei genitori ad alcune sostanze quali solventi o idrocarburi (IARC, 2012a; Vinson et al., 2011; IARC, 2012c; Miligi et al., 2013). Nota è inoltre l’associazione tra agenti infettivi e alcuni tipi di tumore in età pediatrica, quali: virus di Epstein-Barr e linfomi, virus dell’epatite B e C ed epatocarcinomi, virus HIV e neoplasie emolinfopoietiche (IARC, 2009b). Anche i fattori genetici ereditari hanno un ruolo importante nell’eziologia dei tumori in età pediatrica. Infatti è noto che alcune malattie congenite aumentano il rischio di diverse neoplasie infantili, come la sindrome di Down, che comporta un rischio elevato di leucemia, o in caso di neurofibromatosi di tipo 1, atassia-telangectasia o anemia di Fanconi, dove l’incidenza di leucemie e linfomi è molto elevata. La I tumori dei bambini e adolescenti in Italia Tabella II. Sopravvivenza osservata (OS) a 5 anni con l’approccio di periodo per bambini (01-14 anni) e adolescenti (15-19 anni) per le principali categorie di tumori maligni. Banca dati AIRTUM, periodo 2003-2008. ICCC-3 Tipo di tumore 0-14 anni 15-19 anni I Leucemie OS % (IC 95%) OS % (IC 95%) 85 (83-87) 72 (65-78) Ia Leucemia acuta linfoblastica 89 (86-91) 68 (57-76) Ib Leucemia acuta mieloblastica 65 (56-73) 68 (53-79) Linfomi 89 (86-92) 91 (89-93) IIa Linfoma di Hodgkin 94 (90-97) 94 (91-96) IIb Linfoma non-Hodgkin (compreso Linfoma di Burkitt) 84 (79-89) 83 (76-88) III Tumori maligni del SNC 64 (59-68) 67 (57-75) IIIc Tumore embrionale intracranico e intraspinale 62 (53-70) 79 (57-91) IV Neuroblastoma e altri tumori del SNP 73 (67-78) 48 (10-79) V Retinoblastoma 99 (91-100) - VI Tumori del rene 89 (83-93) 100 VII Tumori del fegato 82 (65-92) 48 (8-81) VIII Tumori maligni delle ossa 64 (56-71) 64 (52-73) VIIIa Osteosarcoma 66 (54-75) 66 (48-78) II IX VIIIc Sarcoma di Ewing e altri sarcomi dell’osso 64 (52-74) 53 (33-70) Tumori dei tessuti molli e altri sarcomi extra-ossei 79 (73-84) 71 (61-78) IXa Rabdomiosarcoma 74 (63-81) 62 (40-77) X Tumori a cellule germinali, tumori trofoblastici e neoplasie delle gonadi 87 (78-92) 94 (89-96) XI Altre neoplasie maligne epiteliali e melanomi 94 (89-97) 94 (92-96) XIb Carcinoma della tiroide XII Altre e non specificate neoplasie maligne 100 100 82 (80-83) 86 (84-87) Tutti i tumori maligni Legenda: ICCC-3, International Classification of Childhood Cancer-Third Edition; IC 95%, intervallo di confidenza al 95%; SNC, sistema nervoso centrale; SNP, sistema nervoso periferico. neurofibromatosi di tipo 1 è un fattore di rischio anche per i tumori del SNC e con la sindrome di Li-Fraumeni rappresenta uno dei fattori di rischio noti più importanti per i sarcomi dei tessuti molli (Seif, 2011). Per quanto riguarda l’associazione con fattori perinatali, questa è stata presa in considerazione, in particolare con i tumori che hanno incidenza più elevata nel primo anno di vita, ipotizzando che il rischio elevato alla nascita possa risultare da esposizioni della madre in gravidanza. Recentemente sono comparsi in letteratura alcuni lavori che riferiscono aumenti significativi del rischio relativo di istiocitosi e leucemie per trattamenti di stimolazione dell’ovulazione (Petridou et al., 2012). Tra gli altri fattori che risultano essere associati ad un aumento del rischio di tumore in età pediatrica, vanno citati l’età avanzata della madre e l’elevato peso alla nascita, così come la presenza di malformazioni che si associa più spesso a tumori delle cellule germinali, retinoblastoma, sarcomi dei tessuti molli e leucemie (Johnson et al., 2009; Caughey e Michels, 2009; Carozza et al., 2012). Infine, va citata la possibile associazione tra il consumo di alcol in gravidanza e rischio di leucemia mieloblastica nel bambino (IARC, 2012a). Migrazione Con il termine “migrazione sanitaria” s’intende comunemente il ricovero in una struttura ospedaliera localizzata in una regione (o nazione) diversa rispetto a quella di residenza; rappresenta un fenomeno al- quanto rilevante in termini quantitativi: infatti interessa l’8,3% della popolazione infantile italiana, valore superiore dello 0,5% a quello relativo a tutta la popolazione (Centro studi investimenti sociali, 2011). Sebbene la migrazione è un possibile indicatore di disuguaglianza nell’accesso ai servizi sanitari, non sempre e non necessariamente deve essere considerata un fenomeno negativo. Infatti, in alcuni casi, come la diagnosi e la terapia di malattie rare come i tumori pediatrici, oppure in caso di prestazioni che richiedono un volume adeguato di pazienti per assicurare qualità ed efficienza, è ragionevole favorire l’affluenza dei pazienti presso strutture di riferimento specializzate. Da sempre questo fenomeno è stato registrato dall’AIEOP e valutato nell’ordine del 25% nel periodo 1989-2000, interessando soprattutto i casi residenti nelle regioni del Sud e delle Isole, con punte di oltre il 50%, soprattutto nel caso di pazienti affetti da tumori solidi, e con flussi migratori indirizzati prevalentemente a centri AIEOP del Nord Italia. Monografia 2012 - Migrazione: ancora elevata al sud e nelle isole, ma in costante diminuzione I dati dell’AIEOP, riferiti al periodo 2001-2010, dimostrano un accesso alle cure diversificato per età ed area geografica di residenza. La migrazione extraregionale per la diagnosi e/o il trattamento dei pazienti pediatrici verso un centro AIEOP di una regione diversa rispetto a quella di residenza interessa nel periodo 2006-2010 circa il 20% dei casi arruolati, ma mentre risulta quasi trascurabile per 229 A. Pession, R. Rondelli chi risiede al Nord, è particolarmente rilevante per i bambini che risiedono in alcune regioni del Sud e nelle Isole, dove può riguardare oltre il 30% dei casi (Tab. III). Il fenomeno migratorio che colpisce prevalentemente i casi affetti da tumore solido (28%), rispetto a quelli con leucemie o linfomi (11%), si è significativamente ridotto negli ultimi 5 anni considerati, sia globalmente, sia per area geografica e patologia, con valori inferiori anche del 5% rispetto al quinquennio precedente, anche grazie al miglioramento dell’organizzazione dei centri AIEOP, della collaborazione con i pediatri di famiglia e della fiducia delle famiglie nei centri vicini alla propria residenza. Immigrazione Mentre la migrazione all’estero per la cura dei tumori infantili è un fenomeno non più così frequentemente osservato nel nostro Paese come in passato, da oltre dieci anni si assiste ad un aumento dell’immigrazione sanitaria verso centri italiani, che ha portato la quota dei bambini stranieri con tumore a quadruplicare dal 1999 ad oggi. Si tratta di bambini che provengono principalmente da paesi europei, ma anche da altri continenti, talora a seguito di accordi nazionali, ma altre volte si tratta di bambini appartenenti a famiglie entrate nel nostro Paese in modo irregolare, che oltre al problema oncologico devono affrontare anche l’incertezza della vita quotidiana (Rondelli et al., 2011). Monografia 2012 - Immigrazione: in aumento i casi immigrati per motivi sanitari Con l’aumento dell’immigrazione, risultano in costante crescita anche i bambini nati all’estero curati nei centri AIEOP, passati da un 2% del totale nel 1999 all’8% nel 2008. Nel periodo considerato, la maggior parte dei bambini immigrati risulta provenire dall’Europa (65,7%): il 40,1% da paesi extra Unione europea, quali Albania (21,5%), Ex-Jugoslavia (10,9%), Ucraina (4,3%) e Russia (1,0%); il 25,6% da paesi dell’Unione europea, quali Romania (16,8%), Germania (2,1%) e Grecia (1,7%). Il 13,2% proviene dall’America Latina, soprattutto da Venezuela (4%) e Ecuador (1,9%). Il 10,8% proviene dall’Africa: Marocco (3,8%), Libia (1,6%); il 10,1% dall’Asia: Iraq (1,4%); 2 casi (0.2%) dall’Oceania. La provenienza dei casi, oltre che dalla vicinanza geografica, può essere condizionata, come per Iraq e Venezuela, da programmi di cooperazione sanitaria esistenti tra l’Italia e questi paesi, in accordo con quanto previsto dai principi guida della cooperazione italiana allo sviluppo. Conclusioni I risultati della monografia 2012 sui tumori infantili sono in buona parte confortanti, se pensiamo all’incidenza dei tumori nei bambini, che dopo un significativo aumento del 3% annuo dalla fine degli anni ’80 alla fine degli anni ’90, ha iniziato a diminuire di circa l’1% l’anno nell’ultima decade, anche se rimane più elevata che nel resto d’Europa. Una nota positiva viene anche dai progressi registrati nella prognosi a lungo termine, dovuti soprattutto all’arruolamento dei casi nei protocolli multicentrici attivati dall’AIEOP fin dagli anni ’70. La SUR a 5 anni dopo una diagnosi di tumore è migliorata, passando dal 72% (1988-1993) all’83% (2003-2008), con un valore attuale dell’82% nei bambini e dell’86% negli adolescenti, sovrapponibile a quanto riportato in altri paesi occidentali. Rimangono tuttavia dei sottogruppi di età (es. < 1 anno) e/o patologia (es. tumori SNC) in cui la SUR Tabella III. Migrazione extraregionale per periodo di diagnosi. Regione residenza 2001-2005 Migrazione % (IC 95%) 2006-2010 Migrazione % (IC 95%) Differenza % 17.1 (13.8-20.4) 19.4 (16.1-22.4) + 2.3 Piemonte Lombardia Trentino Alto Adige Veneto 6.7 (5.1-8.3) 7.1 (5.6-8.6) + 0.4 92.1 (86.0-98.2) 93.5 (88.5-98.5) + 1.4 8.4 (6.0-10.8) 7.2 (5.1-9.3) - 1.2 Friuli Venezia Giulia 18.5 (11.8-25.2) 15.8 (9.7-21.9) - 2.6 Liguria 11.0 (6.0-16.1) 7.0 (3.0-11.0) - 4.0 Emilia Romagna 22.0 (17.8-26.2) 15.3 (12.0-18.6) - 6.7 Toscana 12.6 (9.1-16.1) 5.9 (3.6-8.2) - 6.8 Umbria 36.9 (27.6-46.2) 41.4 (31.7-51.1) + 4.5 Marche 28.9 (21.6-36.2) 19.2 (13.0-24.2) - 9.7 8.7 (6.3-11.1) 8.7 (6.4-10.9) - Lazio Abruzzo 64.9 (57.4-72.4) 63.2 (54.7-71.7) - 1.7 Campania 31.1 (27.7-34.5) 25.6 (22.6-28.6) - 5.4 Puglia 46.8 (42.4-51.2) 38.6 (34.3-42.9) - 8.2 Calabria 40.7 (34.1-47.3) 43.2 (36.9-49.5) + 2.4 Sicilia 34.5 (30.7-38.3) 32.5 (28.7-36.3) - 2.0 Sardegna 34.4 (27.0-41.8) 26.9 (20.3-33.5) - 7.5 ITALIA 23.6 (22.6-24.6) 20.5 (19.6-21.4) - 3.1 Legenda: IC 95%, intervallo di confidenza al 95%. 230 I tumori dei bambini e adolescenti in Italia non è soddisfacente e pertanto sono necessari ulteriori progressi nel trattamento di queste forme. Tra le criticità emerse risulta particolarmente importante quella relativa sia all’aumento dei tumori negli adolescenti, sia al loro basso reclutamento nei centri pediatrici. L’assistenza agli adolescenti è ancora inadeguata, ed è strategico esplorare strumenti alternativi alla rete dei centri AIEOP, quale quella dei registri tumori aderenti all’AIRTUM, con i quali è nata una collaborazione che ha già portato a pianificare progetti comuni sull’argomento. Un altro fenomeno positivo è rappresentato dalla riduzione del fenomeno della migrazione extraregionale dovuta alla sempre più capillare diffusione dei centri AIEOP sul territorio nazionale. Il fenomeno si è ridotto significativamente nel tempo, arrivando ora a interessare circa il 20% dei casi arruolati. Una sfida che si sta delineando per il prossimo futuro è rappresentata al contempo dall’aumento dell’immigrazione sanitaria. Se da una parte il fenomeno dell’immigrazione è un flusso che pare inarresta- bile, sebbene minore e con caratteristiche diverse, l’immigrazione a scopi sanitari di bambini e adolescenti affetti da tumore è in costante aumento e prevalentemente segue canali istituzionali o umanitari che possono essere in qualche modo pianificati. Infine, risulta estremamente rilevante il fatto che ancora poco si conosce sull’eziologia dei tumori pediatrici. L’elenco delle sostanze di cui si ha la certezza che causino tumore nel bambino è ancora limitato, se paragonato a quello dell’adulto. Alle sostanze vanno poi aggiunte le infezioni, i comportamenti, l’alimentazione e il fatto che più spesso si assiste ad un’esposizione multipla, basti pensare all’inquinamento atmosferico. Pertanto questo è il motivo che impone di adottare il principio di precauzione al fine di prevenire l’esposizione dei bambini a sostanze possibilmente cancerogene, consapevoli come sia ancora lungo il cammino da fare da parte di epidemiologi, pediatri oncologi e operatori sanitari a qualunque titolo coinvolti, per migliorare ancora di più il presente e il futuro di bambini e adolescenti. Box di orientamento Tumori infantili in calo: ma siamo ancora superiori al resto d’Europa Eziologia ancora ampiamente sconosciuta Sopravvivenza a lungo termine in aumento: maggiore probabilità di guarigione Assistenza agli adolescenti ancora inadeguata: ne può risentire la prognosi Migrazione: ancora elevata al sud e nelle isole, ma in costante diminuzione Immigrazione: in aumento i casi immigrati per motivi sanitari Bibliografia AIRTUM Working Group; CCM; AIEOP Working Group. Italian cancer figures, report 2012: Cancer in children and adolescents. Epidemiol Prev 2013;37:1-225. ** Primo rapporto targato AIRTUM e AIEOP, contenente i dati più aggiornati sui tumori che colpiscono bambini e adolescenti italiani. Bosetti C, Bertuccio P, Chatenoud L, et al. Childhood cancer mortality in Europe, 1970-2007. Eur J Cancer 2010;46(2):384-94. Carozza SE, Langlois PH, Miller EA, et al. Are children with birth defects at higher risk of childhood cancers? Am J Epidemiol 2012;175(12):1217-24. Caughey RW, Michels KB. Birth weight and childhood leukemia: a meta-analysis and review of the current evidence. Int J Cancer 2009;124(11):2658-70. Centro studi investimenti sociali. Il sistema del welfare. 45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2011. Roma, CENSIS, 2011. Ferrari A, Dama E, Pession A, et al. Adolescents with cancer in Italy: Entry into the national cooperative paediatric oncology group AIEOP trials. Eur J Cancer 2009;45:328-34. * Primo lavoro collaborativo AIEOP e AIRTUM su incidenza e sopravvivenza negli adolescenti affetti da tumore. Gatta G, Zigon G, Capocaccia R, et al. Survival of European children and young adults with cancer diagnosed 1995-2002. Eur J Cancer 2009;45(6):992-1005. * Importante studio collaborativo (EUROCARE) sulla sopravvivenza di oltre 70000 tra bambini e adolescenti affetti da neoplasia che ha coinvolto 83 registri tumori di 23 paesi europei. IARC monographs on the evaluation of carcinogenic risks to humans. Volume 80. Non-Ionizing Radiation, Part 1: Static and Extremely Low-Frequency (ELF) Electric and Magnetic Fields. Lyon, IARC, 2002. IARC monographs on the evaluation of carcinogenic risks to humans. Volume 100D. Radiation. Lyon, IARC, 2009a. IARC monographs on the evaluation of carcinogenic risks to humans. Volume 100B. Biological Agents. Lyon, IARC, 2009b. IARC monographs on the evaluation of carcinogenic risks to humans. Volume 100E. Personal habits and indoor combustions. Lyon, IARC, 2012a. IARC monographs on the evaluation of carcinogenic risks to humans. Volume 100F. Chemical Agents and Related Occupations. Lyon, IARC, 2012c. IARC monographs on the evaluation of carcinogenic risks to humans. Volume 102. Non-Ionizing Radiation, Part 2: Radiofrequency Electromagnetic Fields. Lyon, IARC, 2013. Johnson KJ, Carozza SE, Chow EJ, et al. Parental age and risk of childhood cancer: a pooled analysis. Epidemiology 2009;20(4):475-83. Kaatsch P, Steliarova-Foucher E, Crocetti E, et al. Time trends of cancer incidence in European children (1978-1997): report from the Automated Childhood Cancer Information System project. Eur J Cancer 2006;42(13):1961-71. * Importante studio collaborativo (ACCIS) sui trend temporali di incidenza nel periodo 1978-1997 in Europa di oltre 77000 casi in età pediatrica affetti da neoplasia, che ha coinvolto 33 registri tumori di 15 paesi europei. Kaatsch P. Epidemiology of childhood cancer. Cancer Treat Rev 2010;36(4):27785. Miligi L, Benvenuti A, Mattioli S, et al. Risk of childhood leukaemia and non Hodgkin lymphoma after parental occupational exposure to solvents and other industrial exposures: the SETIL Study. Occup Environ Med 2013;70(9):648-55. * Prima pubblicazione dello studio collaborativo italiano multicentrico (SETIL) sull’eziologia di leucemie acute e linfomi non-Hodgkin in età pediatrica, in relazione alle esposizioni professionali dei genitori. Pearce MS, Salotti JA, Little MP, et al. Radiation exposure from CT scans in childhood and subsequent risk of leukaemia and brain tumours: a retrospective cohort study. Lancet 2012;380(9840):499-505. Pession A, Dama E, Rondelli R, et al. Survival of children with cancer in Italy, 1989-98. A report from the hospital based registry of the Italian Association of Paediatric Haematology and Oncology (AIEOP). 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In high-income countries, survival from childhood cancer has reached 80% through a continuous focus on the integration of clinical research into front-line care for nearly all children affected by malignant disease. Further improvements must entail new biology-driven approaches since optimization of conventional treatments has in many cases reached its limits. This will be achieved by the access to drugs thar are less toxic and more targeted than those currently used and through international collaborative research, since rare cancers are being subdivided into increased smaller subgroups. Finally the long-term effect of anticancer treatment on quality of life must also be taken into account because more than one in 1000 adults in high-income countries are thought to be survivors of cancer in childhood or adolescence. Riassunto I tumori del bambino e adolescente sono malattie relativamente rare e biologicamente differenti dai tumori dell’età adulta. Nei paesi con risorse economiche elevate, la sopravvivenza dei tumori infantili ha raggiunto oggi l’80%. Ciò si è realizzato attraverso l’arruolamento dei pazienti in protocolli clinici come standard di cura di prima linea. Il progressivo miglioramento è probabile possa essere ottenuto con approcci innovativi basati sulle conoscenze biologiche e molecolari, poiché l’ottimizzazione dei trattamenti con i farmaci convenzionali ha raggiunto ormai il massimo delle sue potenzialità. L’accesso a farmaci meno tossici e diretti contro target molecolari più specifici dei chemioterapici convenzionali e la collaborazione internazionale per far fronte all’identificazione e trattamento di gruppi di pazienti sempre più piccoli, sono due degli aspetti da cui dipenderà l’ulteriore miglioramento della sopravvivenza dei pazienti. Infine l’impatto a lungo termine dei trattamenti chemio-radioterapici sulla qualità di vita è divenuto sempre più rilevante, considerando che si stima che circa 1 adulto su 1000 sia stato affetto da tumore in età pediatrica. Key words: childhood cancer, clinical research, SIOP Europe Parole chiave: cancro infantile, ricerca clinica, SIOP Europa Introduction Cancer in children is a significant health challenge for our society, even though it is relatively rare, affecting about 1 in 600 children before their 15th birthday, and comprises only 1% of all cancers in high income countries (Pritchard-Jones et al., 2013). In this setting, overall survival has increased to approximately 80% at 5 years. This means that current estimates of the proportion of the young adult population (aged 18-40 years) who has survived childhood cancer stands at 1 in a thousand. This proportion is set to continue to rise rapidly. Despite these good overall survival rates, there remain subgroups of childhood cancers with much worse outcomes, such as high risk neuroblastoma, high grade gliomas and metastatic sarcomas. Also, for those children who are cured with current treatments, many will have received unpleasant, prolonged therapy that disrupts schooling and family life and may cause permanent side effects that compromise normal functioning in adult life. Hence, clinical research that aims to improve survival rates and quality of survival for the total population afflicted by childhood cancer remains an important goal for our society. The spectrum of the mainly embryonal cancer types seen in children is very different from the predominantly epithelial types seen in adults and from the spectrum of cancers seen in adolescents and young adults (Fig. 1). However, the number of major subtypes is just as complex as in adult cancer (Fig. 2). Once biological risk stratifica- tion is incorporated, whereby tumours are risk-stratified according to their molecular subtype, then each childhood cancer category becomes individually rarer still. Hence, it is essential that clinical trials specific to the cancers that affect children and adolescents are conducted in a timely and efficient manner if we are to continue to make progress at a European level. These inevitably require multi-national co-operation due to the small numbers of cases in each country. Since the beginning of the new millenium, the rate of improvement in overall survival rates has slowed for most childhood cancers (Fig. 3). It is becoming clear that we have reached the limits of optimising currently available treatments through dose intensification or rapid scheduling, and that new approaches are needed (Pritchard-Jones et al., 2013). These can include introduction of biomarkers to improve the accuracy of risk-stratification or response assessment, and use of new, molecularly targeted drugs that have mostly been developed for adult cancers (Vassal et al., 2013). Indeed, there are now more than 400 biologically targeted drugs available for clinical use in adult cancers, but few of these have yet been tested for their safety or efficacy in childhood cancers, even though there may be a strong biological rationale if the same molecular target is disrupted in cancer in both age groups. The other major challenge is the inequality in survival rates seen between different geographical regions of Europe. The differences measured by comparative cancer registry research in the 1990s 233 K. Pritchard-Jones Age groups (years) Mortality Figure 2. Proportion of the 12 main tumor groups in children and adolescents in Europe (with permission of Lancet Oncology, Pritchard-Jones et al., 2013). Years Figure 1. Cancer incidence by type in three age groups (with permission of Lancet Oncology, Pritchard-Jones and Sullivan, 2013). showed an approximately 15-20% difference in survival rates, even though the rate of improvement was similar in Eastern and Western European regions (Fig. 4). Whilst there is recent evidence that this difference is decreasing in the 2000s (Gatta et al, 2013), it must be remembered that this improvement is only known with any confidence in those countries with cancer registration in place at a population level. There may be persisting outcome differences in countries without specific cancer control resources in place. For these reasons, outcomes research must also focus on the broader aspects of health services delivery and models of care. The Europe perspective To address the challenges faced by children and young people with cancer at a European level, the ENCCA project (European Network for Cancer research in Children and Adolescents) was developed with funding from the 7th framework programme of the European Commission (www.encca.eu). Due to the requirements of European grant funding, 234 Figure 3. Child cancer mortality (per million person-years) (aged 0-14 years) in three European countries (Ireland, Netherlands and UK (combined) (blue line) and the USA (red line) (modified from Lancet Oncology, PritchardJones et al., 2013). ENCCA was created at relatively short notice in 2009 by the collaborative efforts of a relatively limited number of specialist centres active in treatment and clinical research into childhood and/or adolescent cancers. However, it was always planned from the very beginning that ENCCA would unite the multinational clinical trial groups and national childhood cancer organisations into the building blocks of a future «virtual institute» of paediatric haemato-oncology research, that would involve every major treatment and research centre across Europe. To summarise the need in numbers, every year there are 15,000 new cases of cancer in children and adolescents in Europe. Whilst 80% can be cured with current multidisciplinary treatments, 3,000 will die. There are more than 60 different disease types histologically and clinically, from newborns to teenagers. There are hundreds of subtypes when biomarkers are considered. These children and young people receive their diagnosis and treatment at one of about 250 public specialised treatment centres in the EU, each seeing only a handful of each individual cancer type each year. Childhood cancer in Europe: problems and perspective Mortality agreeing common goals and priorities and then working in partnership to deliver these in a timely fashion. Everyone will benefit from such sharing of resources – most importantly the patients who will see the fruits of the research being applied in clinical care more quickly and with greater confidence from the robust sample size involved in each trial question. Years Figure 4. Child cancer mortality (per million person-years) (aged 0-14 years) in former socialist economies (red line) compared with other European countries (blue line) (modified from Lancet Oncology, Pritchard-Jones et al., 2013). The challenges of clinical research Since the 1970’s, there have been networks conducting clinical trials across many institutions, all working to a common protocol with standards for diagnosis, pathology review, response assessment and event free and overall survival. Many of these clinical trial groups started as national entities, often conducting single arm studies that laid the evidence base for the standard of care. However, soon either the numbers required for statistically meaningful trial design, or the intellectual rigor and pleasure of working with like-minded individuals with a common understanding and passion for improvement in outcomes, led to most clinical trial groups working across national boundaries. By the late 1990s, approximately 40% of patients were treated within trials (phase I to III), a further 40% were treated according to recognised standards within prospective studies, but less than 5% were enrolled in pharma-sponsored trials of new drugs. However, since the introduction of the well-intentioned EU Clinical Trials Directive (EU-CTD), the proportion of children treated in clinical trials or prospective studies has dropped dramatically. This is not because the trials are no longer needed, but rather because the time taken and expense incurred to open a trial has increased massively due to new bureacracy and need for formal sponsorship with insurance (Pritchard-Jones, 2008). How to make progress The challenge for childhood cancer in the current millenium must be to gain a better understanding of the biological basis of the different childhood cancers and to work in partnership with the pharmaceutical industry to obtain better access to molecularly targeted drugs that may offer chances for improved or safer cure (Vassal et al., 2013, Pritchard-Jones, 2008). This will require extensive translational research, with comprehensive tissue banking from current patients linked to their clinical diagnosis, treatment and outcome data. Only in this way can biomarkers for risk prediction, response assessment and signposting to existing therapies be developed and assessed prior to routine use in standard care. How do we achieve all of this with the limited resources available to us? The answer has to lie in much wider and stronger collaboration, Through the ENCCA project and its workstreams, many high-level research teams dedicated to paediatric tumour biology have forged stronger links and are sharing tissue samples and genomic analysis data. A series of ‘biology-driven drug development workshops’ have been held to bring together experts in drug development, the relevant tumour biology and clinical trial groups and representatives of parents and regulators (http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/ document_library/Regulatory_and_procedural_guideline/2013/02/ WC500139182.pdf;http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Regulatory_and_procedural_guideline/2013/02/ WC500139183.pdf; Perotti et al., 2013). Here the discussion has been about understanding the driver biological targets or pathways for each tumour type or subtype and prioritising the drugs for testing in early phase trials in high risk tumours. The ultimate output of each workshop is a proposal for a model ‘Paediatric investigation plan’ that can stimulate more appropriate drug development plans that match the clinical unmet needs of children with these forms of cancer. Working with the clinical trial groups and the innovative therapies for children with cancer consortium (www.itcc-consortium.org), several workpackages within ENCCA are prioritising this biology-driven approach to new drug development, aiming to open at least one trial of a suitably targeted new agent. The resources to run the trial do not come from ENCCA, rather it provides the catalyst that has allowed groups to bid successfully for further funding or to present a united front to an industry partner to make the drug and sometimes sponsorship available. This partnership approach to improving outcomes for children and young people with cancer across Europe requires us all to think in a different way to the traditional institutional and national loyalties we were brought up with. We need to agree on the best structures and relationships in order to build a sustainable, safe and high quality network for clinical care and research that benefits all of the children and young people with cancer in Europe. This is the only way we can truly tackle the unacceptable variation we find now in access to ‘state of the art’ treatment and best outcomes. SIOP Europe has therefore created a ‘European Clinical Research Council’ (ECRC) to be the common, harmonised voice for advocacy and lobbying at the European level on paediatric and adolescent cancer clinical and research activities. The ECRC comprises representatives of each of the National Paediatric Haemato-Oncology Societies (NAPHOS) and of the multi-national clinical trial groups. Many EU member states have established NAPHOS that have links to health policy makers and have introduced quality standards for specialist centres to care for children with cancer and for the training of the staff who work there. In the UK, for example, there are 17 specialist centres designated to provide services for a total population of about 60 million. Quality standards were published in 2005 (http://www.nice.org.uk/nicemedia/pdf/C&YPManual.pdf) and centres have been externally quality assessed since 2012. However, not all countries in Europe have yet achieved this, and the degree 235 K. Pritchard-Jones Table I. The 7 priority areas for a Virtual Institute of Paediatric Haematology Oncology to make progress in: Introducing safe and effective innovative treatments (new drugs, new technologies) in multidisciplinary standard care. Driving therapeutic decision by improved risk classification and use of molecular characteristics (tumour, patient) – personalized medicine Increasing knowledge on tumour biology and speeding up translation to the patients Increasing equal access across Europe to standard care and clinical research Addressing the specific needs of adolescents and young adults jointly with adult oncology Addressing long-term toxicity and cancer treatment consequences including the genetic background/risk – quality of survivorship Understanding the causes of paediatric cancers and setting prevention where possible Table II. Challenges and proposed solutions to make progress in childhood cancers. Summary of Challenges Increasing complexity of risk stratification Proposed Solutions We have to work together across Europe to design and implement clinical trials – the European Clinical Trials Council, co-ordinated by SIOPE – single countries only have a handful of cases in each category e.g. very high risk Wilms: 5 pts and 1-2 relapses/yr in Italy Optimisation of intensive use of present treatments has reached its limits European virtual institute for translational research in childhood and adolescent cancer to promote a biology-driven approach - Need for biology-driven approach to risk stratification and response assessment in front line treatment Unaffordable & unnecessarily complex regulatory bureaucracy for international investigator-led clinical trials Professionals, parents and patients need to establish a “Therapeutic Alliance” with industry & regulators - Need to influence revision of EU CTD to a Regulation Insufficient commercial interest from Phama of development of standards and quality assurance remains variable. Hence, an important project has been launched through SIOP Europe, the European Standards of Care for children with cancer (http://www.siope.eu/european-research-and-standards/standards-of-care-in-paediatric-oncology/). This is now being disseminated through a partnership with EPAAC (European Partnership for Action Against Cancer). It should be noted that a key component of the expected standard for any childhood cancer treatment centre is the ability to offer patients participation in clinical trials and to contribute clinical data to cancer registration processes. This is based on the clear observation that patients who are treated within clinical trials or at institutions that are active in research have better outcomes (Stiller et al., 2012). The life threatening diseases that make up childhood cancer and the serious side effects of the necessary treatments mandate that the clinical teams should be constantly 236 Professionals, parents and patients need to establish a “Therapeutic Alliance” with industry & regulators learning and improving through clinical research and well designed prospective studies and audit. Conclusions SIOP Europe and ENCCA are currently working on creating a sustainable solution to the challenges we face together in continuing to make improvements for children and young people with cancer in Europe. This group has identified 7 priority areas that we need to focus on (Tab. I). Whilst the challenges are immense, solutions have been identified (Tab. II). We now need to coordinate our efforts in each country so that we can work together most effectively to ensure we are ready to win the opportunities that we expect to be available in Horizon 2020 and other funding sources in the near future. Childhood cancer in Europe: problems and perspective Box di orientamento Che cosa si sapeva prima I tumori pediatrici, rappresentando solo l’1-2% di tutti i casi registrati di tumore, sono un evento relativamente raro. Nonostante ciò, queste malattie hanno un grande impatto sui pazienti, sulle loro famiglie e sulla società in generale, e costituiscono la seconda causa di morte in età infantile dopo traumi ed avvelenamenti. La diminuzione del tasso di mortalità dei tumori pediatrici (in particolare leucemie, malattia di Hodgkin e sarcomi) è stato uno dei successi più importanti della medicina negli ultimi 30 anni. Tale risultato è stato ottenuto principalmente grazie all’arruolamento dei pazienti in protocolli clinici di diagnosi e trattamento, come standard di cura, al miglioramento delle terapie di supporto e ai risultati del trapianto di cellule staminali emopoietiche. Cosa sappiamo adesso Nei paesi con elevate risorse economiche, il trend di miglioramento ha raggiunto una stabilità ed è difficile prevedere che un ulteriore successo possa avvenire con l’ottimizzazione dei chemioterapici fino ad ora utilizzati. La genomica sta progressivamente modificando il paradigma di cura verso l’utilizzo di farmaci diretti contro le alterazioni genetiche dei diversi tipi di tumore. L’aspettativa è quella di poter disporre di farmaci meno tossici e più efficaci, perché diretti principalmente contro la cellula tumorale. Un ulteriore aspetto di novità è costituito dai “guariti” o “lungo sopravviventi” (si stima che circa 1 adulto su 1000 sia stato affetto da tumore in età pediatrica) e dalla necessità di sviluppare risposte a nuove domande di salute, di inserimento sociale e di qualità di vita. Quali ricadute sulla pratica clinica Il successo terapeutico dei tumori in età pediatrica rende ancora più necessario il diretto coinvolgimento del Pediatra e Medico di famiglia nel percorso di diagnosi e cura per poter divenire senza soluzione di continuità il referente diretto di nuovi bisogni di salute che il bambino/adolescente “guarito” esprimerà a conclusione del suo percorso terapeutico. References Dixon-Woods M, Naafs-Wilstra M, Valsecchi MG. Improving recruitment to clinical trials for cancer in childhood. Lancet Oncology 2008;9:392-9. Gatta G, Botta L, Rossi S et al. The EUROCARE Working Group. Childhood cancer survival in Europe 1999-2007: results of EUROCARE-5 - a population-based study. Lancet Oncol 2013;Dec5 (Epub ahead of print). Perotti D, Hohenstein P, Bongarzone I, et al. Is Wilms Tumor a Candidate Neoplasia for Treatment with WNT/β-Catenin Pathway Modulators? A Report from the Renal Tumors Biology-Driven Drug Development Workshop. Mol Cancer Ther 2013;12:2619-27. Pritchard-Jones K, SIOP Europe. Clinical Trials for children with cancer in Europe – still a long way from harmonization: a report from SIOP Europe. Eur. J Cancer 2008;44:2106-11. Pritchard-Jones K, Dixon-Woods M, Naafs-Wilstra M, et al. Improving recruitment to clinical trials for cancer in childhood. Lancet Oncol 2008;9:392-9. Pritchard-Jones K, Pieters R, Reaman G, et al. Sustaining innovation and improvement in the treatment of childhood cancer: lessons from high-income countries. Lancet Oncol 2013;14:95-103. Pritchard-Jones K, Sullivan R. Children with cancer: driving the global agenda. Lancet Oncol 2013;14:189-91. Stiller C, Kroll M, Pritchard-Jones K. Population survival from childhood cancer in Britain during 1978-2005 by eras of entry to clinical trials. Annals Oncology 2012;23:2464-9. Vassal G, Zwaan C, Ashley D, et al. New drugs for children and adolescents with cancer: the need for novel development pathways. Lancet Oncol 2013;14:11724. http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Regulatory_and_ procedural_guideline/2013/02/WC500139182.pdf http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Regulatory_and_ procedural_guideline/2013/02/WC500139183.pdf http://www.siope.eu/european-research-and-standards/standards-of-care-inpaediatric-oncology/ http://www.nice.org.uk/nicemedia/pdf/C&YPManual.pdf. Corrispondenza Kathy Pritchard-Jones, University College London, Institute of Child Health, 30 Guilsford Street, London, UK. E-mail: [email protected] 237 Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 238-245 ONCologia pediatrica Il trapianto emopoietico e le terapie cellulari nella cura delle neoplasie ematologiche del bambino: da uno sguardo al passato alla proiezione futura Pietro Merli1, Giuseppe Palumbo1, Stefania Gaspari1, Franco Locatelli1,2 Dipartimento di Oncoematologia Pediatrica e Medicina Trasfusionale, IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma 2 Dipartimento di Scienze Pediatriche, Università degli Studi di Pavia, Pavia 1 Riassunto Il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (allo-TCSE) ha contribuito in modo significativo al miglioramento della prognosi di numerosi pazienti pediatrici affetti da emopatie maligne. Per molti anni, l’unico donatore di cellule staminali impiegato è stato un fratello/sorella HLA-identico. Nelle ultime due decadi, tuttavia, per i pazienti che non disponevano di un donatore familiare, sono stati largamente utilizzati donatori adulti da registro, utilizzando sia midollo osseo che cellule staminali ematopoietiche da sangue periferico, così come unità di sangue cordonale adeguatamente caratterizzate e criopreservate. Più recentemente, inoltre, il trapianto da un donatore familiare parzialmente compatibile è diventato una possibile alternativa, grazie anche all’implementazione di nuove strategie di manipolazione del trapianto e all’osservazione che l’infusione di ciclofosfamide nei giorni immediatamente successivi al trapianto è in grado di prevenire l’insorgenza delle complicanze immuno-mediate correlate all’allo-TCSE (nello specifico, rigetto e malattia da trapianto verso l’ospite). Infine, negli ultimi anni, si è assistito allo sviluppo di strategie di immunoterapia adottiva, basate sull’infusione di linfociti T patogeno-specifici, così come sull’infusione di linfociti T trasdotti con recettori chimerici in grado di riconoscere specificamente particolari antigeni tumoreassociati. Questo tipo di linfociti anti-tumore rappresentano una sorta di rivoluzione nel campo dell’allo-TCSE, in particolare per il trattamento di quei pazienti affetti da tumori non responsivi a terapie citostatiche convenzionali. Summary Allogeneic hematopoietic stem cell transplantation (Allo-HSCT) has significantly contributed to improve the prognosis of many children with life-threatening haematological malignancies. While for many years the only donor employed was an HLA-identical sibling, in the last 2 decades, unrelated adult donors of either bone marrow or peripheral blood hematopoietic stem cells, as well as cord blood units collected and cryopreserved, have been largely utilized to transplant patients lacking a compatible family donor. More recently, transplantation of hematopoietic stem cells from an HLA-partially matched relative have become a suitable alternative, also thanks to the implementation of novel strategies of graft manipulation and to the discovery that the infusion of cyclophosphamide immediately after transplantation can prevent the occurrence of immune-mediated complications related to Allo-HSCT (namely, graft rejection and graft-versus-host disease). The last few years have witnessed the emergence of strategies of adoptive cell therapy, based on the infusion of pathogen-specific immune cells and of T cells transduced with chimeric antigen receptors, able to specifically target antigens present on tumor cells. These selective anti-tumor T lymphocytes promise to represent a sort of revolution in the field of allo-HSCT, rendering this procedure even more successful and useful to treat children with malignancies not benefiting from conventional chemotherapy approaches. Parole chiave: Trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche, emopatie maligne, trapianto aploidentico, immunoterapia Key words: Allogeneic hematopoietic stem cell transplantation, haematological malignancies, HLA-haploidentical transplantation, immunotherapy Metodologia della ricerca bibliografica La ricerca degli articoli rilevanti sul Trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline utilizzando come motore di ricerca PubMed (1955-presente) e come parole chiave “Allogeneic Hematopoietic Stem Cell Transplantation”, “Cord Blood Transplantation”, “Unrelated Donor”, “Haploidentical Transplantation” e “Partially Matched Relative Donor”. Introduzione Non vi è dubbio che il trapianto allogenico di cellule emopoietiche (allo-TCSE) abbia significativamente contribuito a modificare la prognosi 238 di molti pazienti pediatrici affetti da emopatie maligne, rappresentando, in alcuni casi, come per esempio nelle leucemie mielomonocitiche giovanili (JMML) (Locatelli et al., 2005), l’unica terapia salvavita e, in altri, come nelle leucemie acute ad alto rischio, la terapia elettivamente più efficace per ridurre il rischio di ricaduta di malattia nei pazienti che raggiungono una remissione (Pession et al., 2005). Altrettanto indiscutibile è l’osservazione che, nel corso degli anni, l’effetto terapeutico dell’allo-TCSE si sia progressivamente definito come principalmente attribuibile all’azione delle cellule linfocitarie appartenenti all’immunità innata o adattiva del donatore, le quali contribuiscono in maniera determinante all’eradicazione delle cellule tumorali del ricevente sopravvissute alla terapia citostatica e/o radiante impiegata in preparazione al trapianto (regime di condizionamento). Il trapianto di cellule staminali emopoietiche nelle emopatie maligne pediatriche Le prime osservazioni sull’effetto antileucemico del trapianto di cellule spleniche in modelli murini risalgono alla metà degli anni ’50 dello scorso secolo (Barnes and Loutit, 1957). Esperimenti successivi condotti in modelli di cane e di scimmia, hanno permesso, nel 1957, la realizzazione del primo allo-TCSE sull’uomo: 2 pazienti affetti da leucemia furono sottoposti a trapianto di midollo osseo geneticamente identico dopo irradiazione dell’organismo con dosi sovramassimali; in entrambi i casi, dopo l’attecchimento, i pazienti morirono per recidiva di malattia (Thomas et al., 1957). Solo nel 1965 si è, tuttavia, ottenuto il primo attecchimento persistente di un trapianto da fratello (Mathe et al., 1965); per questo motivo, fino alla fine degli anni ’60, sono stati effettuati poche decine di trapianti di midollo, con risultati scoraggianti in termini di sopravvivenza, soprattutto a causa del mancato attecchimento dell’emopoiesi del donatore, della malattia del trapianto contro l’ospite (Graft-versus-Host Disease, GvHD, dovuta all’aggressione delle cellule T linfocitarie del donatore rispetto a tessuti del ricevente riconosciuti come non-self) e della recidiva della leucemia (Bortin, 1970). In quegli anni, l’identificazione del Complesso Maggiore di Istocompatibilità (Human Leukocyte Antigen system, sistema HLA) e la conseguente possibilità di selezionare donatori familiari immunogeneticamente identici ha portato a una notevole riduzione del rigetto e della GvHD (van Rood, 1968), dando nuovo impulso all’allo-TCSE. Ulteriori progressi sono derivati dall’introduzione della ciclosporina per la profilassi della GvHD. La ciclosporina è un oligopeptide ad azione immunosoppressiva che agisce come inibitore dei linfociti T; è stata inizialmente impiegata nei trapianti di organo solido, ma il suo uso era principalmente limitato dalla rilevante nefrotossicità. L’aggiustamento delle dosi sulla base della farmacocinetica ne ha reso possibile l’estensivo uso clinico (Powles et al., 1978), tanto che, tuttora, in associazione con il Methotrexate, essa costituisce il gold standard per la profilassi della GvHD. I progressi ottenuti in termini di profilassi e terapia delle complicanze infettive, attraverso la disponibilità di nuovi antibiotici ad ampio spettro, di farmaci antivirali e la sintesi di nuovi antifungini hanno ulteriormente migliorato l’efficacia clinica dell’allo-TCSE. A partire dai primi anni ’70, l’istituzione di Registri di Midollo Osseo per il trattamento di quei pazienti che non avevano a disposizione un donatore HLA-identico all’interno del nucleo familiare, ha reso possibile l’accesso alla procedura trapiantologica per un numero sempre crescente di soggetti. Oggi, i Registri, collegati tra loro in rete, annoverano oltre 20.000.000 di potenziali donatori, cui vanno sommate le oltre 600.000 unità di sangue cordonale in tutto il mondo adeguatamente caratterizzate in termini immunogenetici e di contenuto cellulare e criopreservate. Gli straordinari risultati clinici ottenuti negli anni grazie all’allo-TCSE hanno dato impulso alla ricerca di tecniche innovative che consentono di offrire questa possibilità terapeutica anche a quei pazienti che non hanno a disposizione, nella fratria o al di fuori di essa, un donatore HLA identico. Tra queste attività di ricerca traslazionale, molto rilevanti sono state quelle che hanno portato all’identificazione di tecniche innovative di manipolazione estensiva delle cellule che vengono ad essere trapiantate e che, oggi, consentono una buona sicurezza ed efficacia anche per allo-TCSE realizzati impiegando un donatore familiare HLA-parzialmente compatibile (trapianto aploidentico) (Aversa et al., 1994). Il trapianto da donatore non consanguineo HLAidentico (Matched Unrelated Donor, MUD) Considerando la modalità co-dominante della ereditarietà del sistema HLA, la probabilità di reperire per un paziente un germano compatibile è del 25%. È, quindi, evidente che solo una minoranza dei pazienti che potrebbero beneficiare di un trapianto possiede un donatore HLA-identico all’interno del nucleo familiare. La probabilità di reperire un donatore HLA-identico tramite i Registri Internazionali dei donatori di midollo osseo o le banche di raccolta e conservazione del sangue cordonale è stimabile oggi nell’ordine del 60-70%, dipendendo, tuttavia, in larga parte dalle caratteristiche immunogenetiche e dall’etnia del ricevente. Pazienti di origine caucasica hanno, infatti, una probabilità di identificare un donatore compatibile maggiore rispetto a pazienti di origine africana o ispanica, in quanto i gruppi etnici da cui originano questi pazienti sono assai meno rappresentati nei registri rispetto al gruppo caucasico. Mentre nei primi anni d’impiego di donatori non consanguinei l’outcome dei pazienti sottoposti a questo tipo di trapianto era inferiore rispetto ai trapianti da un donatore germano a causa di un aumentato rischio di complicanze immmunologiche (GvHD e rigetto), a loro volta motivate dai limiti delle tecniche di tipizzazione HLA, la tipizzazione genomica ad alta risoluzione in atto dal 1998 ha di fatto attualmente completamente annullato le differenze tra trapianto da donatore familiare e da donatore MUD (Locatelli et al., 2002; Bernardo et al., 2012). La tipizzazione del sistema HLA viene, infatti, oggi realizzata utilizzando metodiche di tipizzazione molecolare ad alta risoluzione per gli alleli di classe I e II del sistema HLA. Generalmente i pazienti vengono tipizzati per cinque loci HLA: HLA-A, -B, -C, -DRB1 e -DQB1. Il donatore ideale è quello identico per tutti e cinque i loci. Tuttavia, sono utilizzati con buona probabilità di successo donatori non familiari che differiscono dal ricevente per un singolo allele. È stato dimostrato che alcuni alleli sono più permissivi di altri, e, quindi, la disparità di questi non costituisce un ostacolo assoluto all’efficacia dell’allo-TCSE. Ad esempio, la disparità allelica sul locus HLA-B è meglio tollerata rispetto a quella sui loci HLA-A, HLA-C or HLA-DRB1, mentre la disparità di HLA-DQB1 non comporta alcun rischio aggiuntivo, se non associata ad altre disparità alleliche (Lee et al., 2007; Petersdorf et al., 2004). È stato, inoltre, dimostrato che mutazioni specifiche di aminoacidi nella catena pesante delle molecole HLA di classe I correlano con incidenze più elevate di GvHD e con maggior rischio di mortalità correlata alla procedura (Ferrara et al., 2001). Il trapianto da cellule di sangue cordonale (Unrelated Cord Blood Transplantation, UCBT) Dal primo trapianto di sangue cordonale, eseguito da Gluckman e collaboratori nel 1988 in un paziente affetto da Anemia di Fanconi (Gluckman et al., 1989), numerosi studi ne hanno dimostrato l’efficacia come fonte alternativa di cellule staminali ematopoietiche per quei pazienti che necessitano di trapianto allogenico, sia nel contesto di patologie maligne che benigne (Barker et al., 2001; Locatelli et al., 2013; Locatelli et al., 1999; Rocha et al., 2001; Rocha et al., 2000; Wagner et al., 1995). In particolare, studi condotti in pazienti pediatrici hanno evidenziato una sopravvivenza globale ed una sopravvivenza libera da malattia sovrapponibili al trapianto da MUD (Barker et al., 2001), con lo svantaggio rispetto a questo di un attecchimento più lento (specialmente per quanto riguarda il recupero delle piastrine), ma con il vantaggio di una minor incidenza e severità di GvHD acuta e cronica (Rocha et al., 2001; Rocha et al., 2000). Ad oggi, nel mondo, come già menzionato, sono conservate più di 600.000 unità di sangue cordonale e sono stati eseguiti più di 30.000 trapianti di questo tipo (Ballen et al., 2013). I due principali fattori che determinano il successo di questo tipo di trapianto sono la dose cellulare infusa (normalmente espressa in termini di cellule nucleate totali per Kg del ricevente, TNC/Kg) (Lo- 239 P. Merli et al. catelli et al., 1999; Gluckman, 2004) e il matching HLA (espresso in termini di matching HLA per i loci A,B e DR (x/6) o per i loci A, B, C e DR (x/8)) (Wagner et al., 2002): i due fattori sono intimamente connessi (Barker et al., 2007; Eapen et al., 2007), per cui, in linea generale, in presenza di una disparità immunogenetica maggiore nella coppia donatore/ricevente è necessario disporre di una maggiore dose cellulare per raggiungere un outcome comparabile; per questo motivo, sono stati sviluppati appositi algoritmi di selezione delle unità di sangue cordonale, un esempio dei quali è riportato in Figura 1 (Barker et al., 2011; Eapen et al., 2013). Data, quindi, l’importanza della dose cellulare, è ovvio come questa, specialmente nei pazienti adulti, ma anche nei pazienti pediatrici con un peso elevato, sia un fattore limitante per il successo del trapianto. In virtù di questa osservazione, vari gruppi di ricerca hanno investigato strategie atte a migliorare l’attecchimento dell’unità cordonale. Il primo approccio preso in considerazione è stato quello del trapianto contemporaneo di 2 unità cordonali diverse: nonostante vi siano evidenze del vantaggio di questo approccio nel paziente adulto (Scaradavou et al., 2013), l’analisi preliminare di uno studio prospettico randomizzato ha evidenziato come, nel contesto pediatrico, il co-trapianto di 2 unità non manipolate di sangue cordonale non solo non porti ad un vantaggio in termini di sopravvivenza, ma comporti anche un rischio di GvHD acuta maggiore (Wagner et al., 2012). Un’altra strategia adottata di recente è rappresentata dall’espansione ex-vivo di un’unità di sangue cordonale su un layer di cellule stromali mesenchimali (MSCs) (Robinson et al., 2006), dato che tali cellule concorrono a costituire la nicchia ematopoietica. In un recente lavoro, de Lima e collaboratori hanno dimostrato come questa metodica permetta un’espansione delle cellule nucleate di 12 volte e delle cellule CD34+ di circa 30 volte (de Lima et al., 2012): l’infusione del prodotto, insieme ad una seconda unità di sangue cordonale non manipolata, determinava, inoltre, un attecchimento più rapido. È interessante notare che lo studio del chimerismo ha mostrato che, come osservato in altri studi di co-trapianto di 2 unità di sangue cordonale di cui una era stata manipolata, l’unità espansa era responsabile dell’attecchimento precoce, mentre quella non manipolata sosteneva l’attecchimento a lungo termine: non è ancora chiaro se ciò sia dovuto ad una minor presenza di cellule favorenti l’attecchimento (dato che la maggior parte delle piattaforme di espansione comportano la deplezione dei linfociti) o ad un esaurimento della capacità di autorinnovamento delle cellule staminali. Un approccio simile dal punto di vista concettuale è costituito dalla coinfusione di un’unità di sangue cordonale con MSCs: tale strategia non ha però mostrato un vantaggio in termini di attecchimento, pur dimostrando una minor incidenza di GvHD di grado III-IV (Bernardo et al., 2011). Dal momento che una percentuale significativa delle cellule infuse non raggiunge il midollo osseo (soprattutto a causa dell’intrappolamento a livello del filtro polmonare), Frassoni e collaboratori hanno sperimentato l’infusione diretta nel midollo osseo (a livello delle creste iliache) dell’unità di sangue cordonale: è stato dimostrato come tale approccio permetta il superamento dell’effetto-dose, anche in presenza di una elevata disparità immunogenetica fra donatore e ricevente (Frassoni et al., 2008). Sono allo studio approcci ulteriori attualmente volti al miglioramento dell’attecchimento e dell’immunoricostituzione, quali: il co-trapianto di sangue cordonale e cellule staminali periferiche da donatore aploidentico (Lui et al., 2011) o MUD (Bautista et al., 2009); il miglioramento dell’homing delle cellule staminali e dei progenitori cordonali infusi, attraverso la fucosilazione delle cellule (Robinson et al., 2013), l’inibizione dell’enzima Dipeptildipeptidasi 4 (DPP4) (Christopherson et al., 2004) e il pretrattamento con prostaglandina E modificata (Cutler et al., 2012). Il trapianto da donatore aploidentico Per donatore aploidentico, s’intende un donatore che condivida con il ricevente la metà dei geni HLA (che essendo localizzati sul braccio corto del cromosoma 6 vengono ereditati in blocco): questi donatori sono solitamente rappresentati dai genitori, da fratelli o dalla prole del ricevente. Il trapianto da donatore aploidentico (o donatore familiare HLA-parzialmente compatibile) presenta, rispetto ad altri tipi di trapianto, indubbi vantaggi, tra i quali: l’immediata disponibilità, almeno virtualmente, per tutti i pazienti (con conseguente ottimizzazione del timing del trapianto stesso); la possibilità di scelta del miglior donatore tra tutti i familiari disponibili; e la possibilità di far ricorso al donatore in caso di necessità di terapie cellulari (Reisner et al., 2011). Come è intuitivamente immaginabile, tuttavia, questo tipo di trapianto presenta diverse problematiche, principalmente concernenti il superamento della barriera HLA nella coppia donatore/ricevente. Da esse sono derivate, per anni, un’aumentata incidenza di rigetto del trapianto e di sviluppo di quadri straordinariamente severi di GvHD. La messa a punto di tecniche in grado di ottenere una deplezione estensiva dei T linfociti dall’inoculo trapiantato e la possibilità di ottenere numeri assai elevati di progenitori emopoietici dal sangue periferico dei donatori hanno consentito di superare in larga parte questi ostacoli. In particolare, l’ottenimento di 4 logaritmi di T-deplezione del graft (eseguita nella maggior parte dei casi con un metodo “indiretto”, cioè attraverso la selezione positiva delle cellule staminali emopoietiche CD34+) e l’infusione di una mega-dose di progenitori ematopoietici (definita come l’infusione di un numero di cellule CD34+ superiore a 10-12 x 106/Kg) (Aversa et al., 1994; Aversa et al., 1998; Aversa et al., 2005; Bachar-Lustig et al., 1995) si sono dimostrate cruciali per garantire un’elevata probabilità di attecchimento dell’emopoiesi del donatore, senza concomitante sviluppo di GvHD. Nonostante la rimozione quasi completa dei linfociti T, l’effetto immunologico del trapianto contro eventuali cellule maligne residue (Graft-versus-Leukemia, GvL) può essere mantenuto dalle cellule L’alloreattività NK fu descritta per la prima volta più di 20 anni fa da Moretta e colleghi (Moretta A et al 1990), i quali osservarono la lisi in vitro di blasti leucemici allogenici da parte di particolari subsets di cellule NK caratterizzate dall’espressione/assenza di alcune molecole di superficie, identificate successivamente come recettori specifici per molecole HLA di classe I. Le cellule Natural Killer possiedono specifici recettori, distribuiti clonalmente, denominati Killer cell Immunoglobulin-like Receptors (KIRs) che riconoscono specifici determinanti antigenici (KIR ligandi), condivisi da alcuni gruppi allelici di molecole HLA di classe I (HLA-C: alleli di gruppo 1 e 2; HLA-B alleli che condividono la specificità Bw4). Durante il loro sviluppo, dopo l’interazione tra KIR e ligandi self, le cellule NK diventano “educate/licenziate” ad esercitare l’alloreattività contro bersagli allogenici che non esprimano KIR ligandi self. Nel setting del trapianto aploidentico, dunque, l’alloreattività NK (donor-versus-recipient) viene esercitata da cellule NK del donatore “licenziate” (maturando a livello del midollo osseo dopo il trapianto, esse vengono esposte prevalentemente a molecole HLA del donatore, presenti sulle cellule ematopoietiche), cioè cellule NK che esprimono il proprio repertorio KIR, i cui ligandi sono, almeno in parte, non espressi sui bersagli allogenici. L’alloreattività mediata dalle cellule NK si esplica su tre tipi cellulari, con altrettanti effetti benefici in termini clinici (Moretta et al., 2008): in primo luogo l’eliminazione dei linfociti T del ricevente residui è in grado di prevenire il rigetto delle cellule del donatore, migliorando, quindi, la probabilità di attecchimento; in secondo luogo, l’eliminazione delle cellule dendritiche del ricevente (con conseguente priming inefficace dei linfociti T alloreattivi del donatore) diminuisce l’incidenza di GvHD; infine, l’effetto più importante per l’outcome clinico, si esplica attraverso l’azione litica sulle cellule leucemiche residue con conseguente riduzione del rischio di recidiva della leucemia. 1 240 Il trapianto di cellule staminali emopoietiche nelle emopatie maligne pediatriche Le principali strategie a questo scopo attualmente in studio sono: 1) G-CSF primed graft 2) Profilassi della GvHD con rapamicina 3) Profilassi della GvHD con ciclofosfamide ad alte dosi Figura 1. Algoritmo di selezione di unità di sangue cordonali (CIBMTR, Center for International Blood and Marrow Transplant Research). TNC: cellule nucleate totali Natural Killer alloreattive1 (vedi anche Fig. 2) (Ruggieri et al., 2002). Allo stato attuale, dunque, dal punto di vista immunologico, il problema maggiore da cui è gravato il trapianto aploidentico è costituito dalla ritardata ricostituzione immunologica (Oevermann et al., 2012), dovuta al ridotto numero di linfociti T trasferiti con il graft, che si traduce poi sul piano clinico in una marcata incidenza di patologia infettiva e, in assenza di alloreattività delle cellule NK, in un maggior rischio di recidiva della malattia di base (Fig. 2) (Horowitz et al., 1990). In virtù di questa osservazione, sono, tutt’ora, in fase di sperimentazione diverse strategie per superare il problema di un ritardo del processo di ricostituzione immunologica; tra tutte queste, si possono riconoscere due importanti filoni di ricerca che ineriscono all’ambito del trapianto aploidentico cosiddetto “T-repleto” (in cui cioè il graft non viene T-depletato) e strategie nell’ambito del trapianto aploidentico cosiddetto “T-depleto” (Seggewiss et al., 2010). Il trapianto aploidentico T-repleto Negli ultimi anni, ha acquistato sempre maggior interesse la possibilità di eseguire trapianti da familiare aploidentico senza eseguire una manipolazione del graft (senza eseguire cioè una deplezione dei linfociti T, con evidenti vantaggi in termini di fattibilità e di costi), ma intervenendo sul ricevente (e/o sul donatore) per prevenire la GvHD. G-CSF primed graft Questo approccio si basa sull’evidenza che il priming del donatore con G-CSF polarizza i linfociti T a livello del midollo osseo da un fenotipo Th1 ad un fenotipo Th2, con conseguente minor incidenza di GvHD (Jun et al., 2004). Allo stato attuale, sono stati sviluppati diversi protocolli basati su questa metodica, cui va, comunque, associata una rilevante immunosoppressione, che comprende la combinazione, oltre che di siero antilinfocitario (ATG), di numerosi farmaci (quali ad esempio ciclosporina, methotrexate, micofenolato e basiliximab (Di Bartolomeo et al., Blood 2013;Huang et al., 2009;Wang et al., 2009). Profilassi della GvHD con rapamicina La rapamicina è un immunosoppressore che, a differenza degli inibitori della calcineurina, promuove la differenziazione di linfociti T regolatori (Treg) una sottopopolazione di linfociti T con proprietà immunomodulanti che non necessitano di un priming antigenico (Ciceri et al., 2011). Recentemente, è stato dimostrato come l’infusione di Treg dopo trapianto aploidentico prevenga la GvHD e favorisca la ricostituzione immunologica (Di Ianni et al., 2011). Ad oggi, tuttavia, solo pochi studi hanno indagato l’utilizzo della rapamicina nel setting trapiantologico aploidentico (Peccatori et al., 2010). Profilassi della GvHD con ciclofosfamide ad alte dosi Negli anni ’70, Owens e Santos hanno dimostrato nel modello murino che cicli brevi di ciclofosfamide nelle immediate vicinanze del trapianto di midollo osseo colpivano i linfociti T alloreattivi sia del donatore che del ricevente (Owens and Santos, 1971). L’osservazione che la ciclofosfamide non è tossica per le cellule staminali ematopoietiche grazie all’elevata espressione nel loro citoplasma dell’enzima detossificante aldeide deidrogenasi (Jones et al., 1995), insieme alla dimostrazione che alte dosi di ciclofosfamide sono in grado, nel topo, di ridurre l’incidenza di GvHD e rigetto, senza alterare l’attecchimento delle cellule staminali ematopoietiche, hanno portato un nuovo interesse sull’utilizzo clinico di questa strategia (Prigozhina et al., 1997). I due studi principali sono stati condotti dal gruppo del Johns Hopkins di Baltimora e del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, su una popolazione complessiva di 210 pazienti, sia bambini che adulti, affetti da leucemia acuta e cronica ed altre neoplasie ematologiche (Luznik et al., 2008; Munchel et al., 2011). Trapianto aploidentico T-depleto Come detto in precedenza la T-deplezione rappresenta un’efficace strategia per prevenire la GvHD nel trapianto aploidentico, tanto che, dopo il trapianto, non è necessaria alcuna profilassi farmacologica della stessa. Attualmente, nella maggior parte dei casi, la procedura di T-deplezione viene condotta mediante selezione positiva delle cellule CD34+. Le principali strategie volte al miglioramento dell’immunoricostituzione nel trapianto aploidentico T-depleto sono costituite da: Figura 2. Trapianto aploidentico: vantaggi e svantaggi. 1) Infusione di linfociti T patogeno-specifici 2) Infusione di linfociti T “ingegnerizzati” con geni suicidi 3) Infusione di linfociti T regolatori (Treg) 241 P. Merli et al. Infusione di linfociti T patogeno-specifici Diversi gruppi hanno messo a punto, partendo da cellule mononucleate del donatore, protocolli per la generazione di linee cellulari o cloni T specifici per i principali agenti patogeni responsabili di complicanze gravi o addirittura fatali dopo il trapianto. Perruccio e collaboratori hanno generato cloni di T linfociti diretti contro antigeni di aspergillo e di cytomegalovirus (Perruccio et al., 2005). Con un approccio simile, sono state generate linee dirette verso antigeni di adenovirus ed EBV (Comoli et al., 2007). L’elevato impegno richiesto, tuttavia, in termini di tempo, costi ed esperienza tecnica, per la generazione di queste linee o cloni, ne limita l’impiego su larga scala. Infusione di linfociti T “ingegnerizzati” con geni suicidi Un altro recente approccio al miglioramento della ricostituzione immunologica consiste nell’infusione di linfociti T policlonali ingegnerizzati per esprimere geni suicidi, attivabili da farmaci o sostanze inerti nel caso, dopo l’infusione, si sviluppi GvHD non controllabile con le terapie convenzionali. Ciceri e collaboratori hanno infuso linfociti policlonali del donatore transfettati con il gene suicida HSV tirosina chinasi (HSV-TK), attivabile grazie all’infusione di ganciclovir, farmaco assai efficace nelle infezioni/riattivazioni d’infezione da cytomegalovirus (Ciceri et al., 2009). È tuttora in corso uno studio randomizzato di fase 3 sul trapianto aploidentico T depleto con o senza infusione di linfociti T HSVTK in pazienti adulti con leucemia ad alto rischio (NCT00914628). Il gruppo del Baylor College of Medicine di Houston ha, più recentemente, sviluppato un’altra strategia sfruttando il pathway dell’apoptosi indotta dalle caspasi: le cellule T del donatore sono, infatti, state transfettate con un transgene codificante per una caspasi 9, la cui attivazione è inducibile mediante una molecola inerte (AP1903). L’infusione di questa molecola determina l’apoptosi del 90% dei linfociti T modificati entro 30 minuti dall’infusione con controllo della GVHD e senza alcuna ricorrenza della stessa (Di Stasi et al., 2011). Infusione di linfociti T regolatori (Treg) Un’ulteriore strategia per migliorare l’immunoricostituzione consiste nell’infusione sequenziale di Treg seguita da quella di linfociti T convenzionali (Tcon). In modelli murini, infatti, l’infusione di Treg determina una soppressione della GvHD senza inibire l’effetto GvL e una più rapida ricostituzione di linfociti Tcon (Edinger et al., 2003). Recentemente, sono stati riportati i risultati, molto incoraggianti, di questo approccio (Di Ianni et al., 2011). Deplezione TCRαβ/CD19 A cavallo tra il trapianto T-repleto e quello T-depleto è stata recentemente sviluppata una terza strategia: la deplezione dei linfociti TcRαβ/CD19. Questo approccio si basa sulla sola eliminazione, dal graft, delle cellule effettrici della GvHD, ovvero i linfociti Tαβ2, mantenendo al contempo nell’inoculo altre popolazioni cellulari utili ai fini dell’outcome trapiantologico (principalmente cellule NK, linfociti Tγδ3 e, in misura minore, cellule dendritiche). Dato che tali cellule sono funzionalmente mature, esse possono esplicare il loro effetto benefico immediatamente dopo il trapianto (cosa che non succede nel trapianto “convenzionale” T-depleto, in cui la maturazione delle cellule NK richiede dalle 6 alle 8 settimane di tempo (vedi anche Fig. 3) (Locatelli et al., 2013)). Tale tecnica è stata resa possibile dallo sviluppo di una metodica per la deplezione dei linfociti TcRαβ+ e CD19+ da cellule mononucleate (PBMCs) mobilizzate, utilizzabile a livello clinico (Chaleff et al., 2007). Ad oggi sono disponibili dati preliminari, provenienti dai gruppi di Tubinga e Roma, su pazienti pediatrici sottoposti a trapianto aploidentico TcRαβ/CD19 depleto: in particolare, il primo studio clinico (Handgretinger et al., 2011), condotto su 23 pazienti affetti da leucemia acuta ad alto rischio ha evidenziato non solo un attecchimento del 100% e un’immunoricostituzione molto rapida, ma anche una mortalità legata al trapianto (TRM) estremamente bassa. Questa procedura trapiantologica è stata di recente utilizzata anche in pazienti affetti da patologie non maligne, per i quali non era disponibile un altro tipo di donatore, con ottimi risultati (Bertaina et al., 2013). Uno sguardo al futuro: l’infusione di cellule geneticamente modificate con attività anti-tumorale Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da approcci di immunoterapia adottiva, basati sull’infusione di cellule dell’immunità innata o adottiva, opportunamente selezionate e attivate ex vivo. Come ben noto, l’avvento di tecniche d’ingegneria genetica ha permesso anche di sviluppare approcci terapeutici basati sull’introduzione di geni in cellule somatiche. Esempi di applicazione clinica coronata da successo in questo ambito sono rappresentati dal trattamento di bambini affetti da forme gravi d’immunodeficienza primitiva (severe combined immuno-deficiency, SCID) (Aiuti et al., 2009) o da Sindrome di Wiskott-Aldrich (Aiuti et al., 2013). Più recentemente, importanti sforzi di ricerca si sono concentrati sull’introduzione in T linfociti di sequenze geniche che codificano per recettori specifici diretti contro molecole espresse sulla superficie di elementi tumorali (chimeric antigen receptors, CAR) (Hoyos et al., 2012). In ambito pediatrico, è di recentissima pubblicazione il trattamento di 2 pazienti affetti da leucemia linfoblastica acuta (uno dei quali sottoposto ad allo-TCSE e infuso con cellule di derivazione del donatore) trattati con successo attraverso l’impiego di T linfociti trasdotti con un CAR specifico per la molecola CD19, espressa sulla superficie di cellule leucemiche a differenziazione B linfocitaria (Grupp et al., 2013). L’associazione di questi CAR con sequenze in grado di mediare un segnale co-stimolatorio che ottimizza l’attivazione T linfocitaria ne aumenta in maniera considerevole l’attività, promuovendone sia la capacità di espansione/persistenza in vivo, sia la capacità litica sui bersagli tumorali. È nota da tempo l’elevata suscettibilità allo sviluppo di malattie proliferative EBV-correlate in pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali ematopoietiche T-depletato: dato che tali disordini linfoproliferativi originano prevalentemente dalle cellule B del donatore, in questo approccio si preferisce B-depletare l’inoculo di cellule che verranno infuse. 3 I linfociti Tγδ (denominati anche linfociti T innate-like o transazionali) sono una sottpopolazione linfocitaria che possiede determinate caratteristiche proprie del compartimento innato del sistema immunitario (Bonneville et al., 2010): infatti, in modo simile ad altri linfociti T non convenzionali, essi riconoscono antigeni non-peptidici conservati che sono iperespressi da cellule sottoposte a stress, la cui distribuzione e modalità di espressione assomigliano a quelle dei PAMPs (Pathogen-Associated Molecular Patterns) e DAMPs (Danger-Associated Molecular Patterns), riconosciuti dai PRR (Pattern Recognition Receptors). Inoltre i linfociti T γδ acquisiscono, in una fase molto precoce del loro sviluppo, un fenotipo pre-attivato, caratterizzato dall’espressione di markers di memoria: questo stato pre-attivato permette una rapida induzione delle funzioni effettrici dopo il riconoscimento dello stress cellulare. Numerosi studi, in vitro ed in vivo, hanno suggerito come i linfociti T γδ possano essere effettori potenzialmente efficaci nel contesto del trapianto di cellule staminali. In particolare, Godder e colleghi hanno analizzato prospetticamente l’immunoricostituzione dei linfociti T γδ in una coorte di pazienti sottoposti a trapianto aploidentico (Godder et al., 2007): è stato evidenziato un netto incremento della sopravvivenza in pazienti che presentavano un alto numero di linfociti T γδ nel sangue periferico rispetto ai pazienti con un numero normale/basso. 2 242 Il trapianto di cellule staminali emopoietiche nelle emopatie maligne pediatriche Figura 3. Una nuova strategia per il TCSE da donatore aploidentico: deplezione dei linfociti T α/β (modificata da Locatelli et al., 2013). Riserve legate a questa strategia ineriscono alla possibile emergenza di cellule tumorali che riducono o aboliscono l’espressione dell’antigene verso il quale il CAR è diretto e all’eccesso di attivazione e proliferazione di cellule coinvolte in una risposta infiammatoria. Per quest’ultimo aspetto, l’introduzione nel costrutto genico che si viene a trasdurre di una sequenza che codifica per un gene suicida, come per esempio quello della caspasi 9 precedentemente menzionato, può rappresentare un’utile strategia in grado di migliorare la sicurezza dell’approccio. Negli anni a venire, questi sofisticati approcci di bioingegneria cellulare troveranno vasta arena clinico-applicativa e certamente contribuiranno a rendere sempre più vicino il sogno di tutti gli oncologi pediatri: rendere il cancro una malattia guaribile in tutti i bambini che ne ammalano. Box di orientamento Cosa si sapeva prima Il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche ha contribuito in modo significativo al miglioramento della prognosi dei pazienti pediatrici affetti da emopatie maligne ad alto rischio; per lungo tempo, tuttavia, l’unica fonte di cellule staminali è stata costituita da un fratello HLA-identico. Cosa sappiamo adesso L’introduzione della tipizzazione HLA ad alta risoluzione per donatori non consanguinei, la sempre maggiore disponibilità di unità di sangue cordonale (insieme ad una migliore conoscenza delle indicazioni a questo tipo di trapianto e alle strategie di “potenziamento” dello stesso), così come lo sviluppo di programmi di trapianto T-depleto o T-repleto da donatore familiare parzialmente compatibile, hanno enormemente espanso le possibilità di offrire ad ogni paziente l’opzione terapeutica trapiantologica. Infine l’introduzione di terapie cellulari adottive ha ulteriormente aumentato le possibilità terapeutiche per i bambini affetti da emopatie maligne. Quali ricadute sulla pratica clinica Ad oggi è virtualmente possibile reperire un donatore adatto per ogni paziente che necessiti di un trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche. 243 P. Merli et al. Bibliografia Aiuti A, Biasco L, Scaramuzza S, et al. Lentiviral hematopoietic stem cell gene therapy in patients with Wiskott-Aldrich syndrome. Science 2013;341:1233151. Aiuti A, Cattaneo F, Galimberti S, et al. Gene therapy for immunodeficiency due to adenosine deaminase deficiency. N Engl J Med 2009;360:447-58. Aversa F, Tabilio A, Terenzi A, et al. Successful engraftment of T-cell-depleted haploidentical “three-loci” incompatible transplants in leukemia patients by addition of recombinant human granulocyte colony-stimulating factor-mobilized peripheral blood progenitor cells to bone marrow inoculum. 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Immunol Rev 2008;224:58-69. **In questo lavoro viene discusso come l’effetto GvL è mantenuto anche nel trapianto aploidentico grazie all’azione delle cellule NK alloreattive. Munchel A, Kesserwan C, Symons HJ, et al. Nonmyeloablative, HLA-haploidentical bone marrow transplantation with high dose, post-transplantation cyclophosphamide. Pediatr Rep 2011;3 Suppl 2:e15. Oevermann L, Lang P, Feuchtinger T, et al. Immune reconstitution and strategies for rebuilding the immune system after haploidentical stem cell transplantation. Ann N Y Acad Sci 2012;1266:161-70. Owens AH, Jr., Santos GW. The effect of cytotoxic drugs on graft-versus-host disease in mice. Transplantation 1971;11:378-82. Peccatori J, Clerici D, Forcina A, et al. In-vivo T-regs generation by rapamycinmycophenolate-ATG as a new platform for GvHD prophylaxis in T-cell repleted unmanipulated haploidentical peripheral stem cell transplantation: results in 59 patients. Bone Marrow Transplant 2010;45:S3-S4. 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Medina1 e Andrea Ballabio1-4 Telethon Institute of Genetics and Medicine (TIGEM), Napoli Dipartimento di Genetica Molecolare e Umana, Baylor College of Medicine, Houston, Texas, USA 3 Jan and Dan Duncan Neurological Research Institute, Texas Children’s Hospital, Houston, Texas, USA 4 Genetica Medica, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università “Federico II”, Napoli 1 2 Riassunto Per lungo tempo, i lisosomi sono stati considerati come una sorte di “inceneritori” coinvolti nella degradazione e nel riciclo dei rifiuti cellulari. Tuttavia, ora ci sono prove convincenti che dimostrano che i lisosomi hanno una funzione molto più ampia essendo coinvolti in processi fondamentali, come la secrezione, la riparazione della membrana plasmatica, la regolazione del metabolismo energetico e l’autofagia. Queste osservazioni pongono i lisosomi al crocevia di diversi processi cellulari, con implicazioni significative per la salute dell’uomo. L’individuazione di un master gene, il fattore di trascrizione EB (TFEB) che regola la biogenesi lisosomiale e l’autofagia, offre la possibilità di modulare la funzione lisosomiale aprendo nuove strategie terapeutiche per patologia quali le malattie da accumulo lisosomiale e altre patologie neurodegenerative. Summary For a long time, lysosomes were considered merely to be cellular “garbage bin” deputed to degradation of exhausted cellular material. Emerging research is showing that lysosomes are implicated in several cellular processes such as secretion, plasma membrane repair, signaling and energy metabolism. Furthermore, the pivotal role of the lysosomes in autophagic pathways collocates these organelles at the crossroads of many cellular processes, which are important for health and disease. The discovery of the transcription factor EB (TFEB) as master regulator of lysosomal biogenesis and autophagy unveiled how lysosome adapts to environmental cues, such as energy deprivation, and targeting TFEB may provide a novel therapeutic approach to modulate lysosomal function in human disease. Introduzione I lisosomi, descritti per la prima volta nel 1955 da Christian de Duve (de Duve, 2005), sono costituiti da un compartimento interno acido (lume), delimitato da una membrana a doppio strato lipidico, e contengono diversi tipi di idrolasi, deputate alla degradazione di specifici substrati. Integrate nella membrana lisosomiale ci sono proteine coinvolte nel trasporto di sostanze da e verso il lume, nell’acidificazione lisosomiale e nella fusione del lisosoma con altre strutture cellulari (Saftig and Klumperman, 2009). Il materiale extracellulare raggiunge il lisosoma attraverso la via dell’endocitosi (Luzio et al., 2009a), mentre i componenti intracellulari vengono trasportati al lisosoma attraverso l’autofagia (Kaushik and Cuervo, 2012; Mijaljica et al., 2011; Mizushima et al., 2008). I lisosomi possono secernere il loro contenuto mediante fusione con la membrana plasmatica (Chieregatti and Meldolesi, 2005; Verhage and Toonen, 2007). Questo processo, conosciuto come “esocitosi” lisosomiale, è molto attivo in particolari tipi di cellule, come le cellule della linea ematopoietica (Blott and Griffiths, 2002), gli osteoclasti (Mostov and Werb, 1997) e i melanociti (Stinchcombe et al., 2004). Inoltre, i lisosomi intervengono in una serie di processi biologici, come la riparazione della membrana plasmatica, l’omeostasi cellulare, il metabolismo energetico e la risposta immunitaria. Poco si sa su come la funzione lisosomiale vari nei diversi tipi cellulari e nei diversi tessuti, durante le fasi della vita e in diversi individui, così come in diverse condizioni fisiologiche. Tuttavia, negli ultimi anni, la visione statica del lisosoma si è progressivamente trasformata in una più ampia e dinamica. La capacità del lisosoma di adattarsi a diversi stimoli 246 ambientali è diventata evidente dopo aver scoperto che la biogenesi e la funzione lisosomiale sono soggette a un controllo trascrizionale. Questo nuovo concetto di adattamento lisosomiale è importante per la comprensione di come i processi biologici di base, che vanno dallo smaltimento dei rifiuti cellulari al controllo del metabolismo energetico, rispondano a stimoli ambientali. In questo articolo, descriveremo inizialmente la struttura del lisosoma e il suo ruolo noto nel processo di degradazione dei substrati cellulari e poi considereremo i ruoli emergenti dei lisosomi, compresa la loro funzione nella riparazione della membrana plasmatica e nella trasmissione del segnale, prima di discutere l’identificazione del fattore di trascrizione EB (TFEB) come proteina chiave che regola la biogenesi lisosomiale e l’autofagia (Sardiello et al., 2009; Settembre et al., 2011). Infine, ci concentreremo su come le disfunzioni lisosomiali siano associate all’insorgenza di numerose patologie umane. La struttura dei lisosomi Recentemente, numerosi articoli hanno descritto la serie complessa di eventi che porta alla formazione di un lisosoma maturo (Braulke and Bonifacino, 2009; Henne et al., 2011; Luzio et al., 2009b; Luzio et al., 2007; Pfeffer, 2001; Rink et al., 2005; Saftig and Klumperman, 2009; Sridhar et al., 2013; Zerial and McBride, 2001). Il lisosoma maturo ha un lume acido, circondato da una membrana povera di colesterolo (Schulze et al., 2009). La funzione principale della membrana lisosomiale è di isolare l’ambiente acido aggressivo del lume dal resto della cellula. Ciò è garantito dalla presenza di Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare una spessa guaina (il glicocalice) che riveste il perimetro interno e che impedisce alla membrana lisosomiale di essere degradata dalle idrolasi acide intraluminali. La membrana lisosomiale media anche attivamente la fusione dei lisosomi con altre strutture cellulari, come endosomi, autofagosomi e membrana plasmatica, nonché il trasporto di metaboliti, ioni e substrati solubili dentro e fuori dai lisosomi. Il lume lisosomiale contiene circa sessanta differenti idrolasi solubili attive a pH acido. Questi enzimi sono gli attori principali nell’esecuzione delle tappe sequenziali che sottintendono i principali processi catabolici. Gli enzimi lisosomiali comprendono membri di famiglie di proteine, come solfatasi, glicosidasi, peptidasi, fosfatasi, lipasi e nucleasi, che permettono al lisosoma di idrolizzare un vasto repertorio di substrati biologici, tra cui glicosaminoglicani, sfingolipidi, glicogeno e proteine. L’indirizzamento della maggior parte degli enzimi lisosomiali ai lisosomi, così come la loro capacità di essere secreti e ricatturati dalle cellule, è mediata da una modifica del mannosio-6 fosfato che essi subiscono nei compartimenti tardivi del Golgi (Braulke and Bonifacino, 2009; Ghosh et al., 2003). La capacità delle cellule di assumere enzimi lisosomiali attraverso il recettore del mannosio-6 fosfato (MPR) è la base per la terapia enzimatica sostitutiva per molte malattie da accumulo lisosomiale (LSD) (Neufeld, 1980). Un diverso meccanismo di targeting, che è mediato in parte dal recettore lisosomiale LIMP2 (lysosome integral membrane protein 2) è stato di recente identificato per la β-glucocerebrosidasi (Reczek et al., 2007). La figura 1 illustra le funzioni principali del lisosoma e mostra alcuni processi chiave che lo vedono coinvolto. Le proteine SNARE e RAB sono cruciali per i processi di trafficking e fusione lisosomiale. Tra le proteine del lisosoma la proteina LAMP1 (lysosome-associated membrane protein 1) è la più abbondante, rappresentando circa il 50% delle proteine totali della membrana, ed è coinvolta nel traffico lisosomiale (Andrejewski et al., 1999; Saftig and Klumperman, 2009). Il complesso LYNUS (Lysosome Nutrient Sensing) include diversi complessi proteici che interagiscono sulla superficie lisosomiale. Il suo ruolo è quello di rilevare il contenuto di nutrienti del lisosoma e segnalare le informazioni al nucleo (vedi di seguito). Inoltre, sono stati identificati sulla membrana lisosomiale anche diversi canali ionici. MCOLN1 (mucolipin 1) è un canale cationico non selettivo Figura 1. Principali funzioni dei lisosomi e le loro relazioni con i processi cellulari chiave. I lisosomi sono coinvolti nel processo di degradazione e riciclo di materiale intracellulare (attraverso l’autofagia) e di materiale extracellulare (attraverso l’endocitosi). Durante questi processi i lisosomi si fondono rispettivamente con gli autofagosomi e con gli endosomi tardivi. I prodotti derivati dalla degradazione vengono utilizzati per generare nuovi componenti cellulari e per fornire l’energia necessaria ai fabbisogni nutrizionali della cellula. I lisosomi sono sottoposti anche all’esocitosi regolata dal Ca2+ per poter secernere il loro contenuto all’interno dello spazio extracellulare e per riparare i danni alla membrana plasmatica. Quando sono presenti lesioni sulla membrana plasmatica, i lisosomi migrano velocemente nel punto danneggiato dove si fondono con la membrana in modo da consentire una chiusura efficiente. Più recentemente, i lisosomi sono stati identificati come organelli ‘segnale’, capaci di rilevare la disponibilità dei nutrienti ed attivare una comunicazione dal lisosoma al nucleo, in modo da mediare la risposta alla fame e regolare il metabolismo energetico. 247 C. Settembre, A. Fraldi, D.L. Medina, A. Ballabio (Dong et al., 2008) coinvolto nel segnale del Ca2+ durante la fusione lisosomiale con altre membrane, come la membrana plasmatica (Dong et al., 2009; LaPlante et al., 2006; Medina et al., 2011) e autofagosomica (Wong et al., 2012). Una carenza di MCOLN1 provoca la mucolipidosi tipo IV, una malattia da accumulo lisosomiale (LSD) (Bargal et al., 2000; Bassi et al., 2000). CIC7, un canale del cloro, contribuisce all’acidificazione lisosomiale ed è coinvolto nella osteopetrosi ereditaria (Jentsch et al., 2005; Kasper et al., 2005; Weinert et al., 2010). I trasportatori nella membrana lisosomiale comprendono LAMP2A, che media l’autofagia chaperone-mediata (CMA) legando alla membrana lisosomiale i substrati proteici citosolici, in modo che possano essere internalizzati e degradati (Cuervo et al., 2000; Kaushik and Cuervo, 2012). Mutazioni di LAMP2A causano la malattia di Danon, che è associata con l’accumulo di vacuoli autofagici nelle cellule muscolari (Nishino et al., 2000). NPC1 (Niemann-Pick C1 protein) è una proteina della membrana lisosomiale, coinvolta nell’export di colesterolo dal lume endolisosomiale. Mutazioni di NPC1 causano la malattia di Niemann-Pick tipo C1 (Lloyd-Evans et al., 2008). HGSNAT (heparan-α glucosaminide N-acetiltrasferase) è un enzima che partecipa alla degradazione progressiva di eparan solfato (Durand et al., 2010; Fan et al., 2006; Hrebicek et al., 2006), e le cui mutazioni causano la mucopolisaccaridosi di tipo IIIC (MPSIIIC). Siamo ancora lontani dall’identificazione e caratterizzazione funzionale di tutte le proteine lisosomiali. Sulla base dei dati attuali, sono state identificate poco più di 100 proteine residenti nei lisosomi; circa 70 di queste sono proteine della matrice lisosomiale e circa 50 sono proteine della membrana lisosomiale (Schroder et al., 2010). Tuttavia, questi numeri potrebbero aumentare nel prossimo futuro. Le funzioni dei lisosomi Le funzioni lisosomiali possono essere schematicamente suddivise in tre tipi principali: la degradazione, la secrezione e la regolazione del segnale cellulare (signaling) (Fig. 1). Degradazione lisosoma-mediata Analogamente al trasporto dei rifiuti urbani agli inceneritori, la raccolta e il trasporto dei rifiuti cellulari ai lisosomi richiede una logistica complessa. La cellula ha sviluppato diverse vie per il trasporto dei rifiuti extracellulari e intracellulari al lisosoma. Il materiale extracellulare raggiunge il lisosoma principalmente attraverso l’endocitosi. La cattura di materiale extracellulare e di proteine integrali di membrana avviene attraverso specifici meccanismi endocitici che variano a seconda della natura della sostanza. Esempi importanti di endocitosi sono la fagocitosi, la macropinocitosi, l’endocitosi clatrina-mediata, l’endocitosi caveolina-mediata e l’endocitosi caveolina e clatrina-indipendente (Conner and Schmid, 2003). I recettori presenti sulla membrana plasmatica, una volta attivati, possono essere internalizzati attraverso meccanismi di endocitosi mediati da clatrina (Doherty and McMahon, 2009) o meccanismi clatrina-indipendenti di endocitosi (Hansen and Nichols, 2009). Dopo l’internalizzazione, i recettori sono indirizzati agli endosomi (Sorkin and von Zastrow, 2009), dai quali possono essere riciclati e tornare alla membrana plasmatica per consentire l’attivazione ripetuta del recettore o essere destinati alla degradazione lisosomiale, con conseguente terminazione del segnale da parte del recettore (Haglund and Dikic, 2012; Katzmann et al., 2001; Raiborg and Stenmark, 2009). Un caratteristico segno di maturazione endosoma-lisosoma è la progressiva diminuzione del pH interno a ~pH 5 (Ohkuma and Poole, 1978). Il processo di acidificazione è fondamentale per il ri- 248 lascio delle idrolasi acide da parte del recettore del mannosio-6 fosfato nel lume endosomale e il riciclo del recettore all’apparato del Golgi (Luzio et al., 2007). I materiali intracellulari raggiungono i lisosomi attraverso il processo di autofagia, un processo catabolico di “autodigestione” che è utilizzato dalle cellule per catturare i propri componenti citoplasmatici destinati alla degradazione e al riciclo. Sono stati identificati tre tipi di autofagia: microautofagia; autofagia mediata da chaperone (CMA) e macroautofagia. Durante la microautofagia, le proteine citosoliche sono inghiottite nel lisosoma attraverso l’invaginazione diretta della membrana lisosomiale o endosomiale (Ahlberg et al., 1982; Mijaljica et al., 2011; Sahu et al., 2011). Nella CMA, le proteine citosoliche sono trasportate nel lume lisosomiale, attraverso l’internalizzazione mediata da chaperones e recettori. Ciò richiede lo srotolamento delle proteine e la loro traslocazione attraverso la membrana lisosomiale, che avviene tramite la proteina LAMP2A (Chiang et al., 1989; Cuervo and Dice, 1996; Kaushik and Cuervo, 2012). La macroautofagia si basa sulla biogenesi di autofagosomi, che sono vescicole costituite da doppia membrana che sequestrano materiale citoplasmatico e poi si fondono con i lisosomi. Pertanto, il ruolo di tutti e tre i tipi di autofagia nei processi di degradazione e di riciclo è strettamente dipendente dalla funzione lisosomiale. Per semplicità, da qui in poi useremo il termine autofagia per riferirci alla macroautofagia, che rappresenta il tipo principale di autofagia. L’autofagia è attivata da una vasta gamma di condizioni cellulari stressanti e media la degradazione di aggregati di proteine, lipidi ossidati, organelli danneggiati e agenti patogeni intracellulari. I prodotti di degradazione risultanti sono usati per generare nuovi componenti cellulari ed energetici, in risposta alle esigenze nutrizionali della cellula. I meccanismi alla base dell’autofagia e la sua rilevanza in condizioni fisiologiche e patologiche, sono stati ampiamente studiati negli ultimi dieci anni e ben descritti in articoli recenti (He and Klionsky, 2009; Ravikumar et al., 2010). L’esocitosi lisosomiale I lisosomi possono secernere i loro contenuti nello spazio extracellulare attraverso un processo chiamato esocitosi lisosomiale, che può essere rilevata dalla traslocazione di proteine di membrana lisosomiali (per esempio, LAMP1) sulla membrana plasmatica (Chieregatti and Meldolesi, 2005; Rodriguez et al., 1997; Verhage and Toonen, 2007). In questo processo, i lisosomi si fondono con la membrana plasmatica attraverso un meccanismo regolato dal Ca2+ che è associato ad un grosso rilascio del contenuto lisosomiale nella matrice extracellulare (Andrews, 2000; Chavez et al., 1996; Coorssen et al., 1996; Jaiswal et al., 2002; Rodriguez et al., 1997; Stinchcombe and Griffiths, 1999). L’esocitosi lisosomiale non è solo responsabile della secrezione di contenuti lisosomiali, ma ha anche un ruolo fondamentale nella riparazione della membrana plasmatica. Lesioni della membrana plasmatica inducono la rapida migrazione dei lisosomi al sito danneggiato. I lisosomi poi si fondono con la membrana plasmatica e risigillano efficientemente il sito danneggiato (Gerasimenko et al., 2001; Reddy et al., 2001). Questo processo è anche importante nei meccanismi di difesa contro le infezioni batteriche (Roy et al., 2004) ed è stato implicato in un tipo specifico di distrofia muscolare, caratterizzata da un difetto nella riparazione della fibra muscolare (Han et al., 2007). L’esocitosi lisosomiale è regolata da TFEB, il principale regolatore della biogenesi lisosomiale (vedi di seguito). TFEB induce sia l’aggancio che la fusione dei lisosomi alla membrana plasmatica, rego- Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare lando l’espressione di alcuni geni, i cui prodotti proteici aumentano la dinamica lisosomiale e provocano un aumento intracellulare del Ca2+, mediato da MCOLN1 (Medina et al., 2011). È interessante notare che la regolazione dell’esocitosi lisosomiale mediata da TFEB ha un ruolo importante nel differenziamento degli osteoclasti e nel riassorbimento osseo (Ferron et al., 2013). “Signaling” lisosomiali È ormai evidente che il lisosoma svolge un ruolo importante come “sensore” dei nutrienti cellulari e nelle vie di segnalazione che sono coinvolte nel metabolismo e nella crescita cellulare. Il complesso chinasico mTORC1 (mammalian target of rapamycin complex 1), controllore principale della crescita delle cellule e dell’organismo (Laplante and Sabatini, 2012), è localizzato sulla superficie lisosomiale (Sancak et al., 2010). La localizzazione lisosomiale di mTORC1 suggerisce una co-regolazione tra la crescita e il catabolismo cellulare. Fattori di crescita, ormoni, amminoacidi, glucosio, ossigeno e stress sono i principali attivatori di mTORC1, che a sua volta regola positivamente la biosintesi di proteine, mRNA, lipidi e la produzione di ATP (Efeyan et al., 2012; Laplante and Sabatini, 2012). In questo modo, mTORC1 regola l’equilibrio tra stati biosintetici e catabolici. Quando i nutrienti sono presenti, mTORC1 fosforila direttamente e sopprime l’attività del complesso chinasi ULK1-ATG13-FIP200 (unc-51-like kinase 1-autophagy-related 13-focal adhesion kinase family-interacting protein of 200 kDa) (Ganley et al., 2009; Hosokawa et al., 2009; Jung et al., 2009), che è necessario per indurre la biogenesi degli autofagosomi (Chan et al., 2012; Hara et al., 2008). L’inibizione di mTORC1, tramite digiuno o indotta da farmaci, porta all’attivazione di ULK1-ATG13FIP200 e all’autofagia. Pertanto, il livello di autofagia cellulare è inversamente correlata con l’attività di mTORC1e l’inibizione farmacologica di mTORC1 stimola potentemente l’autofagia. Il complesso macchinario di “signaling”, composto da mTORC1 e da ulteriori complessi proteici, è localizzato sulla superficie lisosomiale. Questo complesso, indicato come LYNUS (Lysosome Nutrient Sensing), risponde al contenuto degli amminoacidi nei lisosomi e segnala le informazioni sia al citoplasma che al nucleo. I principali componenti del complesso LYNUS sono illustrati nella figura 2. Il ruolo dei lisosomi come sensori dei nutrienti è un nuovo concetto che amplia la nostra visione di questi organelli, da semplici esecutori dello smaltimento dei rifiuti cellulari a sensori e regolatori di diverse funzioni cellulari, tra cui la progressione del ciclo cellulare, la crescita, la biosintesi di macromolecole e l’autofagia (Zoncu et al., 2011). La recente scoperta di un meccanismo di segnale lisosomanucleo indotto dal digiuno, (vedi di seguito) rinforza ulteriormente questo concetto (Settembre et al., 2012). È interessante notare che la ri-formazione lisosomiale autofagica (ALR), un processo evolutivamente conservato secondo il quale i lisosomi nascenti sono formati da membrane autolisosomiali, richiede anche la riattivazione di mTORC1 durante il digiuno prolungato (Rong et al., 2012; Rong et al., 2011; Yu et al., 2010). Inoltre, il digiuno prolungato controlla anche la ri-formazione lisosomiale attraverso l’attività di PI4KIIIβ (phosphatidylinositol 4-kinase IIIβ) (Sridhar et al., 2013). Regolazione della funzione dei lisosomi La recente scoperta di un network di geni lisosomiali e del master regolatore TFEB ha rivelato che la funzione lisosomiale può essere coordinata per rispondere e adattarsi agli stimoli ambientali. Di seguito è discusso il ruolo centrale di TFEB nel regolare la biogenesi lisosomiale, il segnale lisosoma-nucleo e il catabolismo dei lipidi. TFEB regola la biogenesi lisosomiale e la clearance cellulare I processi di clearance cellulari mediati dai lisosomi richiedono l’azione coordinata d’idrolasi, processi di acidificazione e proteine di membrana. L’espressione e l’attività di tali componenti devono essere coordinate per consentire la funzione lisosomiale ottimale in diverse condizioni fisiologiche e patologiche, come crescita, digiuno, infezione e accumulo intracellulare di vari prodotti. Il concetto di adattamento lisosomiale è emerso solo di recente, poiché poca attenzione è stata data allo studio della regolazione trascrizionale dei geni codificanti per le proteine lisosomiali. La recente scoperta di un network di geni lisosomiali, chiamato CLEAR (coordinated lysosomal expression and regulation) e del regolatore master TFEB, un membro della sottofamiglia di fattori di trascrizione MITF (microphtalmia-associated transcription factor) (Rehli et al., 1999), precedentemente implicato in una traslocazione cromosomica associata al carcinoma renale (Medendorp et al., 2007), fornisce la prova sperimentale che la funzione lisosomiale è controllata in modo globale (Sardiello et al., 2009). Coerentemente con il suo ruolo come modulatore della rete CLEAR, TFEB regola positivamente l’espressione dei geni lisosomiali, controlla il numero di lisosomi e promuove la capacità delle cellule di degradare i substrati lisosomiali (Ma et al., 2012; Sardiello et al., 2009). In particolare, TFEB attiva la trascrizione di geni che codificano per proteine coinvolte in diversi aspetti della clearance cellulare, come la biogenesi lisosomiale, l’autofagia, l’esocitosi, l’endocitosi e ulteriori processi associati al lisosoma, come la fagocitosi, la risposta immunitaria e il catabolismo dei lipidi. È interessante notare che molte proteine coinvolte nella degradazione di noti substrati autofagici, quali quelle non lisosomiali, appartengono a questo network (Palmieri et al., 2011). Queste osservazioni hanno suggerito che TFEB regola anche la genesi degli autofagosomi (Palmieri et al., 2011). Infatti, la sovra-espressione di TFEB in colture cellulari aumenta notevolmente il numero di autofagosomi, aumenta la fusione lisosoma-autofagosoma e la degradazione dei substrati dell’autofagia (Settembre et al., 2011). Inoltre, la sovra-espressione di TFEB mediata da virus nel fegato induce l’autofagia (Settembre et al., 2011). Così, sebbene l’indirizzamento di substrati autofagici al lisosoma e la loro degradazione da parte di enzimi lisosomiali siano processi cellulari distinti, essi sono meccanicisticamente collegati da un comune programma trascrizionale di regolazione (Cuervo, 2011; Settembre et al., 2011). TFEB trasmette segnali dal lisosoma al nucleo Molti meccanismi trascrizionali che controllano le funzioni cruciali delle cellule hanno la capacità di rispondere a stimoli ambientali. In condizioni basali, nella maggior parte dei tipi cellulari TFEB è localizzato nel citoplasma. Tuttavia, in condizioni particolari, come il digiuno o la disfunzione lisosomiale, TFEB trasloca rapidamente nel nucleo (Sardiello et al., 2009; Settembre et al., 2011). Questo processo è controllato dallo stato di fosforilazione di TFEB; TFEB fosforilato si trova prevalentemente nel citoplasma, mentre la forma defosforilata si trova nel nucleo (Settembre et al., 2011). Studi di fosfoproteomica hanno identificato almeno dieci siti di fosforilazione diversi nella proteina TFEB, suggerendo un complesso meccanismo regolatorio (Dephoure et al., 2008). TFEB citoplasmatico è localizzato, almeno parzialmente, sulla superficie lisosomiale, dove interagisce con mTORC1 e il complesso LYNUS (Martina and Puertollano, 2013; Settembre et al., 2012) (Fig. 2). Questa osservazione suggerisce un meccanismo attraverso il quale il lisosoma regola la propria biogenesi controllando la loca- 249 C. Settembre, A. Fraldi, D.L. Medina, A. Ballabio Lisosoma Figura 2. Modello della regolazione e della funzione di TFEB durante il digiuno. Questo modello illustra in che modo l’attività del fattore di trascrizione EB (TFEB) viene indotta dalla limitata disponibilità di nutrienti e come lo stesso fattore possa mediare la risposta al digiuno attraverso la regolazione del catabolismo lipidico. In presenza di quantità sufficienti di nutrienti, TFEB interagisce con il sistema lisosomiale sensibile ai nutrienti (LYNUS), il quale rileva i livelli nutrizionali dei lisosomi grazie alla presenza del complesso ATPasi vacuolare. TFEB viene fosforilato da mTORC1 (mammalian target of rapamycin complex 1) sulla superficie lisosomiale. TFEB risulta così inattivo essendo sequestrato dal citosol. Durante il digiuno, mTORC1 viene rilasciato dal complesso LYNUS e diventa inattivo. TFEB non può essere più fosforilato da mTORC1 e, perciò, trasloca nel nucleo, dove attiva la trascrizione di sè stesso. Pertanto, il digiuno regola l’attività di TFEB attraverso un duplice meccanismo che coinvolge una modificazione post-traduzionale (la fosforilazione) ed un anello trascrizionale autoregolatore. Una volta entrato nel nucleo, TFEB regola l’espressione di geni coinvolti nel processo autofagico dei lisosomi, tra i quali PPARα (peroxisome proliferator-activated receptor α), e PGC1α (PPARγ co-activator 1α) ed i loro geni target. In questo modo, TFEB controlla la risposta al digiuno attivando sia la lipofagia sia la β-ossidazione degli acidi grassi. La figura mostra i componenti principali del complesso LYNUS. mTORC1, che comprende proteine regolatrici associate ad mTOR, come RAPTOR (regulatory-associated protein of mTOR), mLST8 (mammalian lethal with SEC13 protein) e DEPTOR (DEP domain-containing mTOR-interacting protein), interagisce fisicamente con i diversi RAG GTPasi (RAGA o RAGB e RAGC o RAGD), che attivano mTORC1 sulla superficie lisosomiale. Un complesso noto come Ragulator interviene nella regolazione e nel legame di RAG GTPasi alla membrana lisosomiale. La proteina GTPasi omologa di RAS abbondante nel cervello (RHEB) è coinvolta anche nell’attivazione di mTORC1 grazie alla presenza di fattori di crescita. Il complesso v-ATPasi ha la funzione di rilevare amminoacidi e media le interazioni aminoacidisensibili tra RAG GTPasi e il complesso Ragulator, che rappresenta lo step iniziale nella comunicazione lisosomiale. Il canale endolisosomiale ATP-sensibile e permeabile al Na+ (lysoNaATP), che comprende le subunità del canale del calcio a 2 pori 1 (TPC1) e TPC2, è situato sulla membrana lisosomiale. Di recente si è dimostrato che questo canale interagisce con mTORC1 e partecipa al rilevamento dei nutrienti. Il tipo di interazione tra lysoNaATP e mTORC1 è tuttora sconosciuto, ma sembra che si tratti di una forma indipendente dagli altri componenti del complesso LYNUS, così come è stato osservato per TFEB e i suoi interattori (vedi testo principale). lizzazione subcellulare di TFEB. Condizioni cellulari che portano alla inattivazione di mTORC1, come lo stress, il digiuno e l’inibizione lisosomiale, inducono la traslocazione nucleare di TFEB e quindi attivano il sistema lisosomiale (Martina et al., 2012; Roczniak-Ferguson et al., 2012; Settembre et al., 2012). Più recentemente, è stato dimostrato che TFEB interagisce con la RAG GTPasi attiva (Martina and Puertollano, 2013). Questa interazione promuove la localizzazione 250 lisosomiale di TFEB e la sua fosforilazione dipendente da mTORC1 (Martina and Puertollano, 2013). Dati recenti indicano che i livelli di nutrienti cellulari regolano TFEB anche a livello trascrizionale. L’eliminazione di siero e amminoacidi nel mezzo di coltura cellulare induce l’espressione dell’mRNA di TFEB, mentre l’aggiunta successiva di nutrienti al mezzo blocca questa induzione. Allo stesso modo, privando i topi di cibo per 24 Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare ore, si induce l’espressione di TFEB in molti tessuti (Settembre et al., 2011). Inoltre, la risposta trascrizionale di TFEB ai nutrienti è mediata da un circuito di feedback autoregulatorio, secondo il quale TFEB si lega al proprio promotore in modo dipendente dal digiuno e inducendo la propria espressione (Settembre et al., 2013). In questo modo, la regolazione dell’attività di TFEB da parte di nutrienti comporta un rapido cambiamento post-trascrizionale e fosforilazionedipendente, che è responsabile della traslocazione nucleare di TFEB, e coinvolge un componente autoregulatorio trascrizionale, che permette una risposta lenta ma più duratura. Questa complessa regolazione media la risposta cellulare al digiuno, inducendo il catabolismo lipidico (Settembre et al., 2013) (vedi di seguito). In conclusione, TFEB partecipa a un meccanismo di “signaling” lisosoma-nucleo che trasmette informazioni sullo stato lisosomiale al nucleo, in modo da innescare una risposta trascrizionale. Questo “dialogo” tra il lisosoma e il nucleo controlla la clearance cellulare e il metabolismo energetico. Un modello della regolazione di TFEB da parte dei nutrienti è illustrato in figura 2. TFEB regola il catabolismo lipidico L’autofagia ha un ruolo centrale nel metabolismo dei lipidi, trasportando composti lipidici ai lisosomi, dove vengono idrolizzati ad acidi grassi liberi (FFA) e glicerolo. Questo processo, chiamato macrolipofagia (Singh and Cuervo, 2011; Singh et al., 2009), indica la presenza di una stretta relazione tra metabolismo lipidico intracellulare e lisosomi. È interessante notare che il sovraccarico eccessivo di lipidi può a sua volta inibire l’autofagia. Questo potrebbe essere causato da un’alterazione della composizione della membrana lisosomiale, rendendola meno soggetta a fusione con gli autofagosomi (Rodriguez-Navarro and Cuervo, 2012; Rodriguez-Navarro et al., 2012), o mediante la ridotta regolazione di geni dell’autofagia (Yang et al., 2010). Col ripristino dell’autofagia nel fegato migliora il fenotipo metabolico di topi geneticamente obesi (ob/ob), suggerendo che il miglioramento della funzione lisosomiale può essere una possibile strategia terapeutica per il trattamento dell’obesità (Yang et al., 2010). È interessante notare che la disfunzione lisosomiale è stata associata ad un alterato metabolismo energetico in modelli murini di malattie lisosomiali (Woloszynek et al., 2007). Inoltre, nella malattia di Wolman, la carenza di lipasi acida lisosomiale porta ad un grave accumulo intracellulare di grassi (Du et al., 1998). Questi studi suggeriscono che la regolazione delle vie metaboliche lisosomiali e autofagiche possono avere un effetto sul metabolismo lipidico cellulare. Supporta questa ipotesi l’evidenza che TFEB regola il metabolismo lipidico del fegato (Settembre et al., 2013). Queste osservazioni hanno fornito una nuova prospettiva sul ruolo dei lisosomi nel metabolismo energetico cellulare e nei meccanismi alla base dell’obesità e della sindrome metabolica. Un modello proposto per il ruolo di TFEB nel catabolismo lipidico è illustrato in Figura 2. Disfunzioni lisosomiali e malattie umane La disfunzione lisosomiale è stata associata a diverse malattie umane, così come con il processo di invecchiamento, che è associato a un declino della funzione lisosomiale e a un progressivo accumulo intracellulare di materiale (per esempio, lipofuscina e ubiquitina) (Cuervo and Dice, 2000). In effetti, la stimolazione del pathway autofagico-lisosomiale sembra essere un fattore determinante per l’effetto anti-invecchiamento della restrizione calorica (Rubinsztein et al., 2011). L’identificazione di proteine che regolano la biogenesi e la funzione lisosomiale, come TFEB, potrebbe aprire la strada allo sviluppo di nuove terapie per le malattie caratterizzate da grave disfunzione lisosomiale. Malattie da accumulo lisosomiali e malattie neurodegenerative Da più di tre decadi è noto che i difetti genetici di specifici componenti dei lisosomi portano all’accumulo di substrati che non sono degradati nel lume lisosomiale, a cui consegue una progressiva disfunzione lisosomiale in vari tessuti e organi. Queste malattie sono note come malattie da accumulo lisosomiale (LSD). La classificazione delle LSD e le loro caratteristiche cliniche sono state descritte in dettaglio in diversi articoli recenti (Ballabio and Gieselmann, 2009; Cox and Cachon-Gonzalez, 2012; Futerman and van Meer, 2004; Schultz et al., 2011; Vitner et al., 2010; Walkley, 2009). Nonostante queste malattie siano state tra le prime per le quali sono state identificate le basi biochimiche e molecolari, a tutt’oggi risultano ancora poco chiari i meccanismi attraverso i quali il deposito di materiale non degradato nei lisosomi si traduce in una disfunzione cellulare e tissutale e nei sintomi clinici. Una compromissione della funzionalità lisosomiale globale ha un ruolo importante nella patogenesi di numerose LSD, perché un deficit di singole proteine lisosomiali può avere vaste conseguenze sulle funzioni di base dei lisosomi (Ballabio and Gieselmann, 2009). In particolare, numerosi studi hanno dimostrato un’alterazione del pathway autofagico nelle LSD (Ballabio and Gieselmann, 2009; de Pablo-Latorre et al., 2012; Di Malta et al., 2012; Fraldi et al., 2010; Lieberman et al., 2012; Settembre et al., 2008). Questo risulta nell’accumulo secondario di substrati autofagici, come ad esempio proteine poliubiquitinate e mitocondriali disfunzionali, che possono giocare un ruolo fondamentale nella patogenesi della malattia (Settembre et al., 2008). Un blocco dell’autofagia nelle LSD può essere causato da un difetto nella fusione tra lisosomi e autofagosomi, come osservato nel deficit multiplo di solfatasi (MSD) e nella mucopolisaccaridosi tipo IIIA (MPS-IIIA), che può essere causato da anomalie nella composizione della membrana lisosomiale e nella distribuzione delle proteine SNAREs (Fraldi et al., 2010). Le strategie terapeutiche attuali per le LSD sono finalizzate a una correzione o a una sostituzione dell’attività degli enzimi lisosomiali difettosi, e sono basate sull’utilizzo di chaperon molecolari, di terapia enzimatica sostitutiva o di terapia genica mediata da virus (Cox, 2012). L’inibizione della sintesi del substrato è un’altra opzione terapeutica disponibile per un alcune LSD (Cox, 2012). Queste strategie, tuttavia, hanno diverse limitazioni, quali ad esempio la difficoltà di far arrivare l’enzima, o il gene, nella sede giusta nell’organismo. Inoltre, l’attraversamento della barriera emato-encefalica rappresenta un ostacolo per l’arrivo dell’enzima ricombinante al cervello. È importante sottolineare che i costi complessivi di studi preclinici e sperimentazioni cliniche sono estremamente elevati se si considera che le LSD comprendono più di 60 diverse malattie, e che nella maggior parte dei casi, ogni terapia è strettamente specifica per una singola malattia. Le prove finora accumulate indicano che la disfunzione lisosomiale e autofagica è uno dei meccanismi principali che sono alla base delle malattie neurodegenerative più comuni, come il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer e la corea di Huntington (Harris and Rubinsztein, 2012; Wong and Cuervo, 2010) (Fig. 3). Proteine mutate che tendono a formare aggregati e causano malattie neurodegenerative, come l’huntingtina espansa nella malattia di Huntington e l’α-sinucleina mutata nella malattia di Parkinson, sono eliminate migliorando il pathway autofagico-lisosomiale (Cuervo et al., 2004; Jeong et al., 2009; Winslow et al., 2010). Inoltre, le proteine che tendono a formare aggregati, possono a loro volta influenzare l’ef- 251 C. Settembre, A. Fraldi, D.L. Medina, A. Ballabio Figura 3. Difetto della clearance cellulare nelle patologie neurodegenerative. Il difetto cellulare della clearance, che comporta neuro degenerazione, può derivare da due diversi meccanismi. Il primo, mutazioni di loss-offunction a livello di geni coinvolti nel pathway lisosoma-autofagico (per esempio, ATP13A2 (ATPasi di tipo 13 A 2), CATD (cathepsin D), GBA (betaglucosidasi acida), PSEN1 (presenil 1), PSEN2, VPS35 (vacuolar protein sorting 35), PARKIN (proteina del morbo di Parkinson), PINK (PTEN-induced putative kinase), CHMP2B (charged multivesicular body protein 2B), RAB7 e WDR45 (WD repeat 45)) possono causare la degradazione cellulare e il processo del riciclo. Secondo, mutazioni di gain-of-function di proteine prone-aggregate (per esempio, SNCA (alfa-sinucleina), APP (amyloid precursor protein), HTT (huntingtin) e MAPT (protina TAU associata ai microtubuli) possono amplificazione l’aggregazione proteica e il danno a carico dei pathway lisosoma-autofagici. Inoltre, è stata osservata una diminuzione globale della funzione lisosomiale-autofagica durante l’invecchiamento che danneggia la clearence cellulare. Infine, senza far riferimento al meccanismo coinvolto, il difetto cellulare della clearance causa l’accumulo di proteine neurotossiche e morte delle cellule nervose. Abbreviazioni: AD, malattia di Alzheimer; CMT2B, Charcot-Marie-Tooth di tipo 2B; FTD, demenza fronto-temporale; PD, morbo di Parkinson; SENDA, encefalopatia statica infantile con neurodegenerazione in adulti; HD, malattia di Huntington. ficienza dell’autofagia inibendo il riconoscimento dei substrati da parte degli autofagosomi (Martinez-Vicente et al., 2010; Orenstein et al., 2013). In numerose malattie neurodegenerative sono state descritte mutazioni nei geni che codificano componenti essenziali del pathway endolisosomiale-autofagico. Un numero significativo di pazienti affetti dal morbo di Parkinson, in particolare gli Ebrei Ashkenaziti (Aharon-Peretz et al., 2004), sono eterozigoti per mutazioni nel gene che codifica per l’enzima lisosomiale β-glucocerebrosidasi (Sidransky et al., 2009). Mutazioni omozigoti nello stesso gene causano la malattia di Gaucher, una malattia neurodegenerativa da accumulo lisosomiale (Brady et al., 1965). È stato proposto che bassi livelli di glucocerebrosidasi portano a un aumentato accumulo di glucosilceramide nel lisosoma, e questo a sua volta accelera la sintesi e la stabilizzazione di oligomeri solubili di α-sinucleina, che eventualmente si convertono in fibrille amiloidi. Inoltre l’accumulo di α-sinucleina blocca anche l’indirizzamento di glucocerebrosidasi di nuova sintesi verso il lisosoma e quindi au- 252 menta ulteriormente l’accumulo di glucosilceramide (Mazzulli et al., 2011). Mutazioni dell’ATPasi tipo 13a2 (ATP13A2), un componente del complesso di acidificazione lisosomiale, sono state trovate in pazienti con parkinsonismo ereditario (Ramirez et al., 2006) e sono associate a disfunzione lisosomiale, clearance difettosa degli autofagosomi e accumulo di α-sinucleina (Usenovic and Krainc, 2012). Allo stesso modo, mutazioni nei geni che codificano per PTEN (PINKinduced putative kinase) e PARK (proteina della malattia di Parkinson) sono associate con la clearance difettosa dei mitocondri, tramite un tipo specifico di autofagia degli organelli noto come mitofagia, che porta alla malattia di Parkinson (Geisler et al., 2010; Kitada et al., 1998; Narendra et al., 2008; Valente et al., 2004). Il morbo di Parkinson è stato osservato anche nei pazienti con mutazioni nella proteina VPS35 (vacuolar protein sorting 35), che codifica per una proteina lisosomiale coinvolta nel trasporto retrogrado tra endosomi e TGN (Choi et al., 2012; Zimprich et al., 2011). Disfunzioni dei lisosomi e dell’autofagia sono state identificate anche in pazienti con malattia di Alzheimer con mutazioni in preseni- Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare lina 1 (PSEN1) (Lee et al., 2010). Per spiegare la disfunzione lisosomiale in questi pazienti, sono stati proposti almeno due meccanismi differenti, uno con un difetto lisosomiale di acidificazione (Lee et al., 2010) e l’altro con un difetto nell’omeostasi lisosomiale del Ca+2 (Coen et al., 2012). Ulteriori esempi di malattie neurodegenerative, che sono causate da mutazioni di proteine c oinvolte nella mutazione degli endosomi e dei lisosomi, sono la demenza fronto-temporale e la malattia di Charcot-Marie-Tooth di tipo 2B, che sono dovute rispettivamente a mutazioni di CHMP2B (charged multivesicular body protein 2) (Skibinski et al., 2005) e RAB7 (Verhoeven et al., 2003). Attivazione di TFEB come potenziale terapia La presenza di meccanismi patogenetici comuni tra le LSDs e le più frequenti malattie neurodegenerative suggerisce che le strategie terapeutiche destinate al recupero e/o al miglioramento della funzione lisosomiale e autofagica possono avere un impatto su entrambi i tipi di malattie. Diversi tentativi sono stati fatti per trattare modelli animali di malattie neurodegenerative, rendendo più efficiente il pathway lisosomiale-autofagico (Harris and Rubinsztein, 2012; Menzies et al., 2010; Mueller-Steiner et al., 2006; Ravikumar et al., 2004; Rose et al., 2010; Sun et al., 2008; Tanaka et al., 2004; Yang et al., 2011). Un obiettivo terapeutico promettente, reso disponibile dopo la recente scoperta di TFEB, sarebbe quello di incrementare la capacità della cellula di fare clearance, inducendo la funzione di TFEB. Studi preliminari hanno mostrato che le cellule con livelli di TFEB aumentati mostrano un ritmo più veloce di clearance dei glicosaminoglicani (GAGs) rispetto a cellule di controllo (Sardiello et al., 2009). L’iper-espressione di TFEB con vettori virali determina anche una riduzione notevole di GAGs e della vacuolizzazione cellulare in cellule staminali neuronali differenziate (NSC), che sono state isolate da modelli murini di MSD e MPSIIIA, due gravi tipi di LSDs (Medina et al., 2011). Risultati simili sono stati ottenuti usando questo approccio in cellule di pazienti con altri tipi di LSDs e/o in modelli di topo, con ceroidolipofuscinosi neuronale di tipo 3 (CLN3, malattia di Batten) e con malattia di Pompe (Medina et al., 2011). L’iperespressione di TFEB in un modello murino della malattia di Pompe ha ridotto l’accumulo del glicogeno e le dimensioni dei lisosomi, ha migliorato il processing dell’autofagosoma e ridotto l’accumulo di vacuoli autofagici. È interessante notare che l’effetto di clearance di TFEB è risultata dipendente dal pathway autofagico (Spampanato et al., 2013). TFEB è stato utilizzato anche come strumento per promuovere la clearance cellulare nelle malattie neurodegenerative più comuni. Inoltre, è stato dimostrato che il trasferimento del gene TFEB in un modello murino della malattia di Parkinson è in grado di revertire il fenotipo patologico (Dehay et al., 2010). In un recente studio, TFEB è stato identificato come il principale mediatore della capacità di PGC1α di promuovere clearance cellulare e di ridurre la neurotossicità in un modello murino della corea di Huntington (Tsunemi et al., 2012). Infine, la iper-espressione di TFEB nel fegato di topi portatori di una forma Figura 4. TFEB regola la clearance cellulare. Il fattore di trascrizionee EB (TFEB) controlla la biogenesi dei lisosomi, regolando il livello degli enzimi lisosomiali, l’acidificazione e il numero dei lisosomi. TFEB controlla anche l’autofagia definendo il numero di autofagosomi e gestendo la fusione tra i lisosomi e gli autofagosomi. Infine, TFEB regola il legame e la fusione dei lisosomi alla membrana plasmatica durante il processo di esocitosi lisosomiale. L’azione combinata di questi tre processi permette la clearance cellulare. 253 C. Settembre, A. Fraldi, D.L. Medina, A. Ballabio mutata di α1-antitripsina ha comportato la clearance di questa proteina mutata e recuperato la funzionalità del fegato (Pastore et al., 2013). Il meccanismo con cui TFEB promuove la clearance del materiale di accumulo deve essere ulteriormente chiarito. L’induzione di TFEB protegge dall’accumulo lisosomiale in LSD nonostante una deficienza completa di uno o più enzimi lisosomiali. Il meccanismo principale in questo caso è l’attivazione dell’esocitosi lisosomiale, con cui il materiale immagazzinato può essere secreto dalle cellule a seguito della iper-espressione di TFEB. Tuttavia, in generale, è possibile che la clearance cellulare mediata da TFEB sia il risultato degli effetti combinati di biogenesi lisosomiale, autofagia ed esocitosi lisosomiale (Fig. 4). La possibilità di modulare la funzione lisosomiale farmacologicamente, per esempio inibendo la fosforilazione di TFEB o aumentando la defosforilazione di TFEB, rappresenta una strategia terapeutica attraente per promuovere la clearance cellulare in tutte le suddette malattie. Pertanto, la selezione degli approcci farmacologici finalizzati a individuare molecole che promuovono la traslocazione al nucleo di TFEB rappresenta un interessante passo in avanti. Tuttavia, per valutare i potenziali effetti collaterali saranno necessari accurati studi a lungo termine. Trattamenti che possono aumentare l’attività di TFEB solo per limitati periodi di tempo, possono essere l’opzione migliore per le malattie in cui l’accumulo di materiale richiede molto tempo. Al momento attuale, è troppo presto per stabilire se l’induzione di TFEB sarà un’opzione terapeutica valida per le LSDs o altre malattie. Tuttavia, la vasta gamma di malattie che potrebbero essere trattate con questa strategia terapeutica apre attraenti prospettive. Conclusioni e prospettive future Il ruolo emergente dei lisosomi in processi importanti, come il signaling e il metabolismo di nutrienti, richiede ulteriori studi, in quanto quello di cui si è a conoscenza allo stato attuale potreb- be rappresentare solo la punta dell’iceberg. Approcci sistematici, come trascrittomica, proteomica e metabolomica, insieme ad un potente strumento come la system biology saranno particolarmente importanti per identificare tutte le componenti del lisosoma (Walkley, 2009). Questi approcci dovrebbero essere integrati da tecnologie di in vivo imaging e microscopia intravitale, che consentono la visualizzazione dei lisosomi nel contesto di un organismo vivente e in condizioni fisiologiche o patologiche specifiche. Un approccio interdisciplinare permetterà anche di rispondere a problematiche importanti e poco esplorate, quali le variazioni del numero, dimensioni e contenuto dei lisosomi in diversi tessuti o individui e la diversa tipologia di lisosomi associata a funzioni specifiche; di comprendere come le condizioni ambientali o patologiche influenzano la composizione, la funzione o l’identità dei lisosomi, e qual è il ruolo fisiologico del signaling lisosomiale e come questo sia coinvolto nelle patologie umane. Oltre al coinvolgimento nelle malattie neurodegenerative, il ruolo del lisosoma in altri processi patologici, quali le anomalie del metabolismo lipidico, le infezioni e perfino l’invecchiamento, è ancora largamente inesplorato. L’analisi trascrittomica e proteomica dei tessuti derivati da pazienti e il sequenziamento del DNA dell’esoma o dell’intero genoma di pazienti può portare alla scoperta di variazioni lisosomiali come fattori predisponenti per altre malattie dell’uomo. Inoltre, lo studio della funzione lisosomiale in vari processi patologici potrà portare allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche. Infine, lo sviluppo di screening farmacologici potrà aprire la strada per l’identificazione di nuovi composti in grado di modulare la funzione lisosomiale, che potrebbero essere utilizzati come farmaci efficaci per promuovere la clearance cellulare. Box di orientamento Cosa sapevamo prima • I lisosomi sono organelli cellulari coinvolti nella degradazione e nel riciclo dei rifiuti cellulari. I materiali extracellulari e intracellulari che devono essere eliminati raggiungono il lisosoma rispettivamente tramite endocitosi e autofagia. I lisosomi sono anche coinvolti nella secrezione e nella riparazione della membrana plasmatica, fondendosi con essa in un processo chiamato esocitosi lisosomiale. • La funzione lisosomiale è eseguita da idrolasi luminali responsabili della digestione del substrato e dalle proteine membrana-associate che gestiscono il traffico di materiali all’interno e all’esterno dei lisosomi. Che cosa sappiamo adesso • Un macchinario complesso, che comprende il complesso di mTORC1 (mammalian target of rapamycin complex 1), un regolatore principale della crescita cellulare, il complesso V-ATPase e complessi supplementari, si trova sulla superficie lisosomiale ed è dedicato al rilevamento del contenuto di nutrienti del lisosoma. Questo complesso è detto LYNUS (Lysosome Nutrient Sensing). La maggior parte dei geni codificanti proteine lisosomiali appartengono a una rete genica detta CLEAR (Coordinated Lysosomal Expression and Regulation). Questi geni sono regolati dal fattore di trascrizione EB (TFEB), il regolatore più importante per la biogenesi lisosomiale. Utilizzando questo meccanismo di regolazione, le cellule possono adattare la funzione lisosomiale a rispondere a stimoli ambientali. • L’attività di TFEB è indotta dal digiuno, sia tramite un’autoregolazione trascrizionale che un meccanismo fosforilazione-dipendente. Una volta attivato, TFEB media la risposta al digiuno promuovendo il catabolismo dei lipidi attraverso la regolazione dei geni “master” del metabolismo lipidico PPARa (peroxisome proliferator-activated receptor-α) e PGC1α (PPARγ co-activator 1α). La regolazione e la funzione di TFEB si sono conservate nel corso dell’evoluzione. Quali prospettive per il futuro • Le disfunzioni lisosomiali e autofagiche sono fenomeni che avvengono sia nelle malattie da accumulo lisosomiale (LSD) che nelle malattie neurodegenerative più comuni, nelle quali c’è una clearance cellulare difettosa e l’accumulo di materiali tossici. Pertanto, l’induzione della clearance cellulare mediata da TFEB può rappresentare una strategia terapeutica nuova ed efficace per queste patologie. 254 Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare Bibliografia Aharon-Peretz J, Rosenbaum H, Gershoni-Baruch R. Mutations in the glucocerebrosidase gene and Parkinson’s disease in Ashkenazi Jews. N Engl J Med 2004 351:1972-7. Ahlberg J, Marzella L, Glaumann H. Uptake and degradation of proteins by isolated rat liver lysosomes. Suggestion of a microautophagic pathway of proteolysis. Lab Invest 1982;47:523-32. Andrejewski N, Punnonen EL, Guhde G et al. Normal lysosomal morphology and function in LAMP-1-deficient mice. 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[email protected] 257 Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 41 • N. 172 • Pp. 258-265 Focus Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale Ennio Del Giudice, Angela Francesca Crisanti* Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria, Università degli Studi “Federico II”, Napoli *Pediatra di Libera Scelta, Azienda Sanitaria Locale Napoli 2 Nord, Napoli Riassunto La relazione genitore-bambino e lo sviluppo cerebrale sono intimamente correlati: la formazione del legame di attaccamento della madre verso il proprio bambino si basa sulla capacità di quest’ultimo di fornire gli stimoli idonei ad attivare i circuiti cortico-limbici correlati a specifici comportamenti dei genitori. Alcune abilità quali quelle empatiche e quelle legate alla cosiddetta “Teoria della mente”, che si basano sul sistema dei neuroni specchio, sono particolarmente rilevanti ai fini della relazione genitoriale. L’attaccamento madre-bambino si fonda sulla co-attivazione di due distinti network cerebrali: il circuito dopaminergico mesolimbico della ricompensa (reward system) e il sistema della paura/ansia, in cui il nucleo accumbens e l’amigdala ricoprono un ruolo chiave. I comportamenti genitoriali sono anche modulati da alcuni neurotrasmettitori cerebrali tra i quali spiccano la dopamina, l’ossitocina e la serotonina. Inoltre, le varianti genetiche possono spiegare la variabilità individuale nei comportamenti sociali e nel temperamento umano: questo vale in particolare per il legame di attaccamento. La metodica nota come imaging genetics fornisce uno strumento innovativo che permette di studiare l’impatto dei polimorfismi genetici, rilevanti per il funzionamento cerebrale, sul comportamento umano, anche ai fini della scoperta di nuove opzioni terapeutiche per la patologie neuropsichiatriche. Summary The parent-infant relationship and physical brain development are inherently interlinked. The mother’s attachment to her infant is a complex process that entails the provision of salient inputs from the infant, capable of activating cortico-limbic modules to eventually induce specific parental behaviors. Relevant issues pertaining to both cognition and emotion such as empathy and Theory-of-Mind skills are called into play: the neural basis of these ability may rely on the mirror neuron system. Maternal-infant bonding is based on the co-activation of two distinct fear-related (fear circuitry) and motivational networks (reward circuitry), in which the amygdala and the accumbens nucleus respectively play a crucial role. Parental behaviors are also influenced by infant cues that activate certain interacting neurotransmitters, including oxytocin and dopamine, as well as serotonin. Since a substantial proportion of variance in human social behavior and temperament is explained by genetic differences, polymorphisms in the neurotransmitter genes may impact on emotions and social interactions, inducing pathologic traits and vulnerability to neuropsychiatric disorders. Parole chiave: sviluppo relazionale, attaccamento, circuiti cerebrali, genetica per immagini Key words: social development, attachment, brain circuitries, imaging genetics Introduzione Il legame di attaccamento (vedi Appendice) costituisce una pietra miliare dello sviluppo infantile e coinvolge componenti biologiche, comportamentali e psicologiche, rivestendo un ruolo cruciale nella vita di ciascun individuo, dalla nascita fino all’età adulta (Bowlby, 1958; Raby et al., 2013). La relazione genitore-bambino e lo sviluppo cerebrale sono intimamente correlati: è utile conoscere il complesso percorso che dai geni conduce alle funzioni cerebrali e al comportamento umano (MeyerLindenberg, 2012). L’espressione dei geni è mediata da specifici meccanismi molecolari e cellulari che determinano e modulano il comportamento umano attraverso il coinvolgimento di circuiti o reti neurali, comunemente indicati col termine inglese di network (Fig. 1). La Teoria dei Grafi (Graph theory) permette di rappresentare e meglio definire i network cerebrali in termini di nodi e connessioni, sottoposti durante l’età evolutiva ad un continuo rimodellamento, subendo incrementi e riduzioni nell’ambito di un’integrazione sempre più complessa, nel corso della quale alcune connessioni sinaptiche sono fisiologicamente eliminate e altre rafforzate (Dennis et al., 2013). Le nuove tecniche di diagnostica per neuroimmagini consen- 258 tono di ricostruire queste reti in vivo, sia in termini di connettività strutturale mediante la Trattografia Diffusionale (Diffusion Tensor Imaging, DTI), che di connettività funzionale con la Risonanza Magnetica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI). Con quest’ultima tecnica è stato possibile ottenere una curva di maturazione cerebrale simile a quelle normalmente usate in pediatria per il peso, l’altezza o la circonferenza cranica (Fig. 2); la maturità funzionale media si raggiunge ad un’età cerebrale di circa 22 anni (Dosenbach et al., 2010). La metodica nota come Connettività Funzionale allo stato di riposo (resting-state Functional Connectivity) ha individuato la modalità di funzionamento cerebrale di default definita Default Mode Network (DMN): una “attività di fondo” destinata al lavoro mentale introspettivo indipendente da stimoli esterni quale il mind wandering. Il DMN subisce modifiche durante tutta l’età evolutiva, anche se la sua piena attività funzionale comincia ad avvicinarsi a quella dell’adulto intorno ai due anni di vita (Parsons et al., 2010). Il DMN insieme con il Salience Network (SN), che identifica gli stimoli salienti e il Central Executive Network (CEN) preposto a funzioni corticali superiori quali l’attenzione o la memoria di lavoro, fa parte dei core neurocogniti- Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale Figura 1. Dai geni al comportamento. Il complesso percorso che conduce: a) dall’espressione genica; b) alla modulazione neurochimica (es.dopamina, ossitocina); c) all’attivazione dei circuiti cerebrali; d) ai comportamenti umani. Nella sezione c della figura sono rappresentati i tre più importanti network neurocognitivi (core neurocognitive networks): CEN, SN, DMN. Il CEN (Central Executive Network), a sede frontoparietale, con fulcro nella corteccia prefrontale dorsolaterale e nella corteccia parietale posteriore, è adibito allo svolgimento delle funzioni corticali superiori quali la memoria di lavoro e l’attenzione. Il SN (Salience Network), con fulcro nella corteccia frontoinsulare e nella parte dorsale della corteccia cingolata anteriore, si occupa del rilevamento degli input significativi per l’individuo e mostra ampie connessioni con le strutture limbiche e sottocorticali implicate nel sistema della ricompensa e motivazione. Il DMN (Default Mode Network), con fulcro nella corteccia cingolata posteriore e in quella prefrontale mediale, è importante nello svolgimento delle attività mentali auto-referenziali (self-referential) indipendenti dagli stimoli esterni (modificata in parte da Menon, 2011). fc MI ve networks nel contesto dei cosiddetti Large-scale brain networks (Menon, 2011; Lindquist e Barrett, 2012; Barrett e Satpute, 2013). Il SN svolge un ruolo critico nel passaggio tra il CEN e il DMN. Tutte le volte che viene percepito uno stimolo significativo, la corteccia fronto-insulare impegna il CEN nelle funzioni cognitive superiori e contemporaneamente disattiva il DMN, garantendo maggiore rilevanza allo stimolo stesso (He et al., 2013). Recentemente sono state messe a punto due tecniche innovative capaci di individuare con precisione i circuiti neuronali cerebrali: optogenetics e clarity. La prima, comporta l’inserimento all’interno dei neuroni di alcune proteine sensibili alla luce consentendo così di “accendere” o “spegnere” le cellule a piacimento mediante uno stimolo luminoso (Kim et al., 2013), mentre, la seconda, utilizza un trattamento chimico capace di rendere trasparente il cervello in toto in modo tale da consentire una visione tridimensionale dei network cerebrali (Chung et al., 2013; Chung e Deisseroth, 2013). Le basi neurali dello sviluppo socio-relazionale età (anni) Figura 2. Curva di maturazione funzionale del cervello umano. La curva è stata ottenuta riportando in grafico i dati relativi a 238 esami di rs-fcMRI (connettività funzionale allo stato di riposo) in soggetti di età compresa tra 7 e 30 anni. Sull’asse delle ascisse è indicata l’età cronologica in anni, mentre su quello delle ordinate sono riportati gli indici maturativi di connettività funzionale (fcMI). Il modello mostra un livello di maturazione asintotica intorno ad una età cerebrale media di circa 22 anni che corrisponde ad un fcMI leggermente superiore a 1.0 (modificata da Dosenbach et al., 2010). La formazione del legame di attaccamento della madre verso il proprio bambino si basa sulla capacità di quest’ultimo di fornire stimoli idonei ad attivare i circuiti cortico-limbici che sono alla base di comportamenti genitoriali specifici (Fig. 3) (Swain, 2008). L’attaccamento madre-bambino richiede la co-attivazione di due distinti network cerebrali: il sistema dopaminergico mesolimbico della ricompensa (reward system), che trasporta la dopamina dall’area tegmentale ventrale (VTA) del mesencefalo al nucleus accumbens e alla corteccia prefrontale (Fig. 4) e il sistema della paura/ansia, in cui l’amigdala, nodo centrale del sistema limbico, garantisce i comportamenti materni di accudimento. Recenti ricerche nei roditori 259 E. Del Giudice, A.F. Crisanti Figura 3. Genesi dei comportamenti genitoriali di accudimento. Gli stimoli provenienti dal bambino, dotati di rilevante significato per il genitore, attivano, tramite meccanismi motivazionali e neuromodulatori, una serie di sistemi modulari cortico-limbici finalizzati alla regolazione dei comportamenti genitoriali: 1) circuiti cerebrali preposti alle cure e all’accudimento della prole a prevalente sede sottocorticale, 2) circuiti cognitivi relativi principalmente alle abilità empatiche e di Teoria della Mente (Theory of Mind) e 3) circuiti preposti alla regolazione dell’ansia e della paura, capaci di rilevare potenziali minacce esterne (modificata da Swain, 2008). hanno permesso di individuare uno specifico circuito “prefrontale mediale-amigdala” definito aversive amplification circuit (circuito per l’amplificazione dell’avversione) che aumenta le risposte comportamentali legate alla paura/ansia (Robinson et al., 2012). Anche nell’uomo è stato descritto un analogo circuito a modulazione serotoninergica – che realizza un accoppiamento funzionale (functional coupling) tra l’amigdala e le cortecce cingolata anteriore/prefrontale dorsomediale – come probabile base per la vulnerabilità ai disturbi d’ansia (Robinson et al., 2013). Il sistema cerebrale della ricompensa comprende diverse componenti: a) liking, che rappresenta la caratteristica edonica del piacere in sé, b) wanting, che indica la motivazione ad ottenere la ricompensa e c) learning, cioè l’apprendimento correlato alla ricompensa (Perogamvros e Schwartz, 2012). La dopamina mesolimbica, un tempo ritenuta il neurotrasmettitore del ‘piacere’, determina piuttosto un processo motivazionale di salienza emotiva finalizzato ad ottenere la ricompensa, ma che non ne implica necessariamente il suo godimento. Le aree cerebrali capaci di generare piacere (hedonic hotspots) sono state identificate nel ratto: si tratta di aree anatomicamente molto ristrette e localizzate in particolari regioni tra cui: il nucleo accumbens e il pallido ventrale; nell’uomo, gli studi mediante Risonanza Magnetica funzionale hanno dimostrato come l’emozione legata al piacere sia meglio rappresentata dall’attività a livello della corteccia orbitofrontale (Berridge e Kringelbach, 2013). Inoltre, l’insieme della corteccia orbitofrontale e dell’amigdala – che riceve l’informazione visiva dalle regioni sensibili ai volti localizzate nel giro fusiforme e nel solco temporale superiore – costituisce il network preposto all’elaborazione dei segnali emotivi provenienti dal viso, importante per la modulazione delle relazioni interpersonali. Questo network va incontro ad una maturazione funzionale: dapprima compare un 260 circuito “di attesa delle esperienze” (experience-expectant circuit) che inizia la sua attività funzionale intorno ai sei mesi di vita e successivamente un circuito “dipendente dalle esperienze” (experience-dependent circuit) suscettibile di essere raffinato dalle esperienze individuali specifiche nel corso dell’età evolutiva (Leppanen e Nelson, 2009). La Risonanza Magnetica funzionale è stata utilizzata per studiare le reazioni emotive delle madri durante la visione di filmati dei propri figli, allo scopo di identificare i circuiti neurali che sono alla base del comportamento materno (Atzil et al., 2011). Le aree attive implicate sono localizzate a livello del sistema limbico e di varie regioni della corteccia cerebrale: le basi neurali dell’accudimento materno includono quindi sia regioni limbiche motivazionali sottocorticali che network modulatori dell’emozione a livello corticale. Tra queste aree corticali, la corteccia prefrontale mediale è connessa alle abilità empatiche e di mentalizzazione o Teoria della Mente (Theory of Mind) che aumentano la capacità materna di saper leggere e rispondere ai segnali provenienti dal proprio bambino. Le competenze legate alla Teoria della Mente, intesa come la capacità di saper comprendere e riflettere sugli stati mentali propri e altrui, raggiungono la maturazione tra i quattro e i sei anni di età. I compiti mirati alle abilità di mentalizzazione, studiati mediante la Risonanza Magnetica funzionale, comportano un’attivazione specifica della corteccia prefrontale mediale che nei bambini e negli adolescenti appare ridotta rispetto ai soggetti adulti (Adolphs, 2003). La strategia neurale per ragionare sul pensiero altrui cambia nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta (Blakemore e Robbins, 2012): quindi, un sistema di teoria della mente in fase di maturazione potrebbe modulare in maniera differente il processo decisionale dell’adolescente all’interno del contesto sociale, consentendo una migliore comprensione dei comportamenti a rischio in presenza di coetanei. Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale Nell’uomo la mimica facciale rapida sembra riflettere la capacità degli individui di empatizzare con gli altri. L’empatia, definita come risposta appropriata alle emozioni altrui, è particolarmente rilevante per i comportamenti genitoriali e, nell’uomo, include tre componenti: arousal affettivo, comprensione dell’emozione e regolazione dell’emozione (Decety, 2010). I comportamenti prosociali e altruistici compaiono precocemente: bambini tra i 12 e i 18 mesi di vita sono in grado di confortare persone in difficoltà e mostrare comportamenti spontanei di aiuto. La comprensione delle emozioni raggiunge poi una sufficiente maturità intorno ai tre anni, mentre la regolazione delle emozioni – che consente il controllo dei comportamenti affettivi – si sviluppa lungo tutto l’arco dell’infanzia e dell’adolescenza in parallelo con la maturazione delle funzioni esecutive. La modulazione neurochimica dei comportamenti sociali Figura 4. Il sistema della ricompensa (reward system). Il sistema dopaminergico mesolimbico della ricompensa (linee rosse) trasporta la dopamina dall’area tegmentale ventrale (VTA) del mesencefalo al nucleus accumbens (NAc) e alla corteccia prefrontale (PFC): sono indicate anche le proiezioni glutammatergiche (linee blu) dalla PFC all’amigdala (AMY) e alla VTA e proiezioni GABAergiche da NAc a VTA (linea arancione). Il nucleus accumbens è una regione chiave del sistema che modula le risposte individuali alle ricompense e inoltre influenza i meccanismi di assuefazione indotti dalle sostanze di abuso. La corteccia prefrontale (PFC) “che include diverse sezioni tra cui la PFC dorsolaterale, la PFC mediale, la corteccia orbitofrontale e la corteccia cingolata anteriore, preposte a funzioni distinte ma spesso sovrapposte” fa parte del sistema limbico ed è essenziale per la regolazione delle emozioni. Le regioni prefrontali esercitano un controllo top-down delle risposte emozionali, agendo sia sull’amigdala che sul NAc. Infine, la freccia verde indica la stretta connessione sul piano funzionale (functional coupling) tra l’amigdala e la corteccia cingolata anteriore (evidenziata in rosso), ritenuta cruciale per la vulnerabilità alla depressione e alle caratteristiche temperamentali di tipo ansioso (modificata da Feder et al., 2009). Le basi neurobiologiche della capacità di comprendere gli stati mentali ed emotivi altrui possono essere ricondotte al sistema dei neuroni specchio (Mirror neuron system, MNS) (Canessa et al., 2009). Si tratta di neuroni che si attivano sia quando si compie un’azione, sia quando si osserva la medesima azione compiuta da altri. Nell’uomo tre aree cerebrali formano un circuito chiave per le abilità di imitazione (Iacoboni e Dapretto, 2006): da una parte la corteccia frontale inferiore e il lobulo parietale inferiore, che costituiscono il MNS, e dall’altra il solco temporale superiore che funge da input visivo al sistema (Fig. 5). Recentemente è stato approfondito lo studio della mimica facciale rapida (una risposta automatica presente solo nei primati e nell’uomo che consente l’immediata imitazione della mimica facciale altrui) confermando che i soggetti interessati non solo condividono la stessa espressione, ma anche le stesse emozioni in una sorta di ‘contagio emotivo’ come quello che caratterizza la relazione madre-bambino (Mancini et al., 2013). Il cervello umano produce molecole endogene capaci di generare piacere quali i peptidi oppiodi e gli endocannabinoidi. Queste molecole agiscono sul sistema della ricompensa amplificando gli effetti dopaminergici a livello del nucleo accumbens e dell’area tegmentale ventrale. Il sistema oppioide endogeno – costituito da tre tipi di recettori: μ, κ, e δ e dai loro ligandi: endorfine, encefaline e dinorfi- Figura 5. Il sistema dei neuroni specchio. Un neurone specchio è un neurone che si accende sia quando si compie un’azione, sia quando si osserva la medesima azione compiuta da altri. Rappresentazione schematica nella specie umana del sistema frontoparietale (in rosso) dei neuroni specchio (MNS) e della sua principale fonte di informazione visiva (in giallo). Il MNS frontoparietale comprende un’area anteriore, localizzata nella corteccia frontale inferiore – che include la circonvoluzione frontale postero-inferiore e la corteccia premotoria ventrale adiacente – e un’area posteriore localizzata nella parte rostrale del lobulo parietale inferiore: una terza area, localizzata nella sezione posteriore del solco temporale superiore (STS) costituisce l’input visivo principale al MNS (freccia arancione). Nel loro insieme, le tre aree formano un circuito chiave core circuit per le abilità di imitazione. Il flusso di informazioni dall’area parietale (descrizione motoria dell’azione) a quella frontale (scopo dell’azione) è indicato dalla freccia rossa. Il MNS invia al STS le rappresentazioni delle azioni imitative motorie (freccia), allo scopo di confrontare lo schema dell’atto motorio imitativo con la descrizione visiva dell’azione osservata. 261 E. Del Giudice, A.F. Crisanti ne – svolge il compito di mediare il rinforzo positivo motivazionale degli stimoli sociali, contribuendo al consolidamento del legame di attaccamento. I topi privi del gene per il recettore oppioide µ mostrano deficit nei comportamenti di attaccamento, confermando quindi che l’espressione di questo gene è essenziale per lo sviluppo dell’attaccamento materno: è stato anche dimostrato che le varianti polimorfiche del gene per il recettore oppioide µ correlano con la qualità dell’attaccamento genitoriale sia negli uomini che nei primati (Copeland et al., 2011). D’altra parte, le evidenze scientifiche nei roditori supportano il ruolo degli endocannabinoidi in tre aspetti chiave dell’interazione madre-bambino: la suzione, il comportamento materno e le vocalizzazioni ultrasoniche indotte dalla separazione (Manduca et al., 2012). I comportamenti genitoriali sono influenzati da stimoli provenienti dal bambino capaci di attivare alcuni neurotrasmettitori cerebrali tra i quali la dopamina e l’ossitocina (Swain et al., 2007). Il sistema di ricompensa dopaminergico e il sistema ossitocinergico giocano un ruolo fondamentale nel promuovere e mantenere i comportamenti materni. L’ossitocina, definita neuropeptide “sociale”, sintetizzata nei nuclei sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo, agisce sia perifericamente che centralmente sulle aree cerebrali preposte ai comportamenti emotivi e sociali (es. l’amigdala e il nucleo accumbens), fungendo quindi da ormone e da neuromodulatore centrale (Benarroch, 2013). Gli input emotivi, quali volti di bambini sorridenti o piangenti, sono potenti stimolatori del comportamento materno umano: le madri con attaccamento sicuro, alla vista del volto del proprio bambino, mostrano, rispetto alle madri con attaccamento insicuro, un’aumentata attivazione delle aree cerebrali associate all’ossitocina e al sistema della ricompensa; allo stesso modo, i livelli di ossitocina periferica, durante il contatto fisico con il proprio bambino, sono significativamente più elevati nelle madri con attaccamento sicuro e sono correlati positivamente con l’attivazione cerebrale delle aree cerebrali prima citate (Strathearn et al., 2009). Questi dati sperimentali suggeriscono che le differenze individuali nell’attaccamento materno possano essere legate a una differente modulazione da parte dei sistemi ossitocinergico e dopaminergico. L’ossitocina somministrata per via endonasale supera la barriera ematoencefalica, consentendo di condurre molti studi in ambito umano. Ad esempio, nel gioco di fiducia (trust game) – due soggetti interagiscono in modo anonimo ricoprendo il ruolo di investitore o di consulente bancario – l’ossitocina aumenta considerevolmente la fiducia dell’investitore e la motivazione a stringere relazioni sociali, promuovendo la fiducia negli altri e la disponibilità ad assumersi rischi (Kosfeld et al., 2005). per il funzionamento cerebrale sul comportamento umano (MeyerLindenberg, 2012). Uno studio recente dimostra che due polimorfismi a singolo nucleotide o SNP (Single Nucleotide Polymorphism) del gene per il recettore dell’ossitocina sono correlati a deficit del comportamento sociale (Kumsta e Heinrichs, 2013). In particolare, le madri portatrici di almeno un allele dello SNP rs53576A, presentano una significativa riduzione dell’interesse globale nei confronti del proprio bambino, oltre a una diminuzione delle capacità empatiche. Quanto al secondo SNP rs2254298A, è stato evidenziato, nelle madri portatrici, un aumento del functional coupling (accoppiamento funzionale) tra amigdala e corteccia cingolata, che può essere correlato ad una disregolazione delle componenti emotive e affettive materne. Il gene ras-specific guanine-nucleotide releasing factor 2 (RASGFR2) codifica per una proteina che determina l’attivazione calcio dipendente del pathway ERK, che a sua volta controlla l’eccitabilità dei neuroni dopaminergici. La possibile associazione del gene rasGFR2 con il sistema della ricompensa è stata studiata, con la Risonanza Magnetica funzionale, negli adolescenti reclutati dallo studio IMAGEN (Stacey et al., 2012). I polimorfismi del gene RASGRF2 correlano con l’attivazione della corteccia cingolata anteriore, confermando il ruolo di questo gene nella regolazione dell’attività dei neuroni dopaminergici mesolimbici, cruciale per il sistema della ricompensa, associato negli adolescenti al consumo di alcol e altre sostanze di abuso. Gli effetti dell’ossitocina sull’elaborazione delle emozioni sono anche mediati dai neuroni serotoninergici (Meyer-Lindenberg et al., 2011). I polimorfismi nel gene per il trasportatore della serotonina (5-HTTLPR) modulano l’attività dell’amigdala: i portatori dell’allele S, paragonati agli omozigoti L/L, mostrano un’aumentata attivazione dell’amigdala con una conseguente iperresponsività dei circuiti di elaborazione delle emozioni che rappresenta un potenziale fattore di rischio per i disturbi dell’umore. I polimorfismi del gene per il trasportatore della serotonina (5-HTTLPR) influenzano anche le interazioni del sistema funzionale amigdala-corteccia cingolata (Pezawas et al., 2005). I portatori dell’allele S mostrano una ridotta connettività funzionale di questo sistema rispetto agli omozigoti L/L. Questa variante genetica altera quindi i circuiti cortico-limbici deputati al controllo degli impulsi e all’elaborazione dell’informazione sociale, attraverso una eccessiva disponibilità di serotonina che può amplificare gli effetti neurobiologici delle esperienze sociali negative nel corso dello sviluppo. In ultima analisi, il circuito amigdala-corteccia cingolata è modulato sia dal sistema ossitocinergico che da quello serotoninergico, rappresentando un’area in cui le funzioni dei due sistemi del comportamento sociale convergono. L’impatto delle varianti genetiche sul comportamento umano Le relazioni tra le emozioni e le funzioni cognitive superiori Le nuove tecniche di citogenetica molecolare come, ad esempio, array CGH (Comparative Genomic Hybridization) hanno permesso di identificare alterazioni cromosomiche submicroscopiche, quali microdelezioni o duplicazioni, oltre che varianti strutturali polimorfiche (Copy Number Variant, CNV) capaci di influenzare il fenotipo clinico. Le differenze genetiche possono spiegare una notevole parte della variabilità individuale nei comportamenti sociali e nel temperamento dell’uomo (Meyer-Lindenberg e Tost, 2012): questo vale in particolare per il legame di attaccamento (Raby et al., 2013). La metodica nota come imaging genetics fornisce uno strumento con il quale si può studiare l’impatto dei polimorfismi genetici rilevanti Gli studi condotti con la Risonanza Magnetica funzionale nei soggetti in età evolutiva hanno evidenziato in maniera chiara i cambiamenti che si manifestano nel tempo, sia a livello dei pattern di attivazione che della connettività funzionale. In particolare, è stato messo in risalto il passaggio da una risposta emotiva viscerale, mediata dall’amigdala e dalla corteccia orbitofrontale, ad una razionale, che coinvolge in modo progressivo la corteccia prefrontale mediale (Lindquist e Barrett, 2012). La regolazione delle emozioni implica il controllo top-down delle regioni “fredde” della corteccia prefrontale sulle regioni “calde” del sistema limbico, quali l’amigdala (Ray e Zald, 2012). Nell’adolescen- 262 Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale za la maturazione delle relazioni funzionali tra regioni prefrontali e limbiche è caratterizzata dal divario tra le loro traiettorie di sviluppo, in quanto le strutture limbiche sottocorticali maturano più precocemente delle regioni prefrontali: questo squilibrio funzionale potrebbe spiegare le peculiari caratteristiche degli adolescenti improntate a più frequenti comportamenti a rischio (Casey et al., 2013). Le attuali conoscenze non consentono però di separare in modo così netto il cervello “cognitivo” da quello “emotivo”: infatti, regioni cerebrali considerate come ‘affettive’ sono coinvolte nei processi cognitivi e viceversa; inoltre i processi cognitivi ed emotivi sono chiaramente tra loro integrati (Pessoa, 2008). In particolare, l’analisi quantitativa della connettività cerebrale globale mostra come l’amigdala occupi una posizione nel centro geometrico esatto della rappresentazione grafica, suggerendo il suo ruolo di hub centrale che collega tra loro molteplici hub periferici, ciascuno dei quali collega regioni comprese entro cluster funzionali separati. In questo modo l’amigdala si presenta come un forte candidato per l’integrazione dell’informazione cognitiva ed emozionale (Pessoa, 2008; Jennings et al., 2013). Bibliografia ioural state from separable features in anxiety. Nature 2013;496:219-23. Jennings JH, Sparta DR, Stamatakis AM et al. Distinct extended amygdala circuits for divergent motivational states. Nature 2013;496:224-230. ** Lavoro importante sulle connessioni dell’amigdala. Kosfeld M, Heinrichs M, Zak PJ et al. Oxytocin increases trust in humans. Nature 2005;435:672-6. * Lavoro pilota per gli studi umani sugli effetti sociali dell’ossitocina. Kumsta R, Heinrichs M. 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Nature 2013; 497:332-7. ** Primo lavoro che utilizza il metodo CLARITY. Copeland WE, Sun H, Costello EJ et al. Child μ-Opioid Receptor Gene Variant Influences Parent–Child Relations. Neuropsychopharmacology 2011;36:1165-70. Decety J. The Neurodevelopment of Empathy in Humans. Dev Neurosci 2010;32:257-67. Dennis EL, Jahanshad N, McMaohn KI et al. Development of brain structural connectivity between ages 12 and 30: a 4-Tesla diffusion imaging study in 439 adolescents and adults. Neuroimage 2013;64:671-84. ** Lavoro importante per la comprensione dei rimodellamenti funzionali dei network cerebrali. Dosenbach NUF, Nardos B, Cohen AL et al. Prediction of Individual Brain Maturity Using fMRI. Science 2010;329:1358-61. Iacoboni M, Dapretto M. The mirror neuron system and the consequences of its dysfunction. Nat Rev Neurosci 2006;7:942-51. * Review sul sistema dei neuroni specchio. He X, Quin W, Liu Y et al. Age-related decrease in functional connectivity of the right frontoinsular cortex with the central executive and default-mode networks in adults from young to middle age. Neurosci Lett 2013 (in corso di stampa). Kim S-Y, Adhikari A, Lee SY et al. Diverging neural pathways assemble a behav- 263 E. Del Giudice, A.F. Crisanti cuitry of negative affective bias: Serotonergic modulation of the dorsal medial prefrontal-amygdala ‘aversive amplification’ circuit. NeuroImage 2013;78:21723. * Lavoro interessante sulla modulazione serotoninergica del circuito amigdalacorteccia prefrontale. Stacey D, Bilbaoc A, Maroteaux M et al. RASGRF2 regulates alcohol-induced reinforcement by influencing mesolimbic dopamine neuron activity and dopamine release. Proc Natl Acad Sci 2012;109:21128-33. Strathearn L, Fonagy P, Amico J et al. Adult Attachment Predicts Maternal Brain and Oxytocin Response to Infant Cues. Neuropsychopharmacology 2009;34:2655-66. Swain JE, Lorberbaum JP, Kose S et al. Brain basis of early parent–infant interactions. J Child Psychol Psychiatr 2007;48:262-87. Swain JE. Baby stimuli and the parent brain. Psychiatry 2008;5:28-36. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima Gli studi psicoanalitici e, più in generale psicodinamici, avevano sempre focalizzato l’attenzione sull’importanza delle relazioni precoci per il successivo sviluppo della personalità: una buona relazione madre-bambino era predittiva di una sana personalità adulta. Anche le patologie neuropsichiatriche infantili erano interpretate alla luce della prospettiva psicoanalitica come derivanti da conflitti intrapsichici irrisolti: esempio classico è l’autismo infantile la cui patogenesi era ricondotta ad una incapacità genitoriale di stabilire relazioni affettive efficaci (madri “ frigorifero”). Cosa sappiamo adesso I comportamenti sociali, inclusi quelli materni, hanno una chiara base neurobiologica, che si esprime attraverso l’azione di specifici circuiti o sistemi neurali. È stata anche chiarita l’importanza cruciale dei polimorfismi o varianti genetiche capaci di modellare il comportamento sociale a livello individuale. Inoltre, alcune varianti genetiche producono una disfunzione dei sistemi neurali che può determinare patologie neuropsichiatriche. Quali ricadute sulla pratica clinica Le applicazioni traslazionali della imaging genetics con la possibilità di studiare la fisiopatologia dei circuiti cerebrali in rapporto a specifiche varianti genetiche, stanno creando nuove opzioni terapeutiche per i disturbi neuropsichiatrici. Appendice L’attaccamento e la sua valutazione Il concetto di attaccamento nasce nella prospettiva etologica e consiste nel bisogno da parte del bambino di ricercare e mantenere la vicinanza protettiva del genitore nei momenti di stress (es. pericolo, malattia) e di trarre rassicurazione e conforto dalla figura di attaccamento. Al compimento del primo anno di età, quando l’attaccamento è ormai consolidato, il bambino acquisisce un suo modo personale di sperimentare la protezione e l’aiuto del genitore. Le differenze individuali tra i bambini nelle modalità di attaccamento sono valutabili mediante alcuni metodi di osservazione, tra i quali il più ampiamente utilizzato è la cosiddetta Strange Situation, elaborato da un’allieva di Bowlby, Mary Ainsworth (Ainsworth, 1978). Si tratta di una procedura psicologica strutturata della durata di 20 minuti, durante la quale è possibile osservare le reazioni del bambino in un contesto di stress crescente, determinato in prima battuta dalla presenza di un estraneo e poi dall’allontanamento della madre. La procedura consente di discriminare quattro categorie di attaccamento: un attaccamento sicuro, anche se nell’ambito di uno spettro di variabilità, e tre tipi di attaccamento insicuro, dei quali l’attaccamento disorganizzato costituisce la forma di maggiore compromissione relazionale. La sicurezza dell’attaccamento bambino-genitore pone le fondamenta della capacità di stabilire future buone relazioni nella vita adulta. D’altra parte, gli studi prospettici hanno dimostrato come l’attaccamento insicuro e in particolar modo quello disorganizzato incrementino il rischio di patologie psichiatriche nell’infanzia e nell’adolescenza. 264 Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale Glossario Central executive network (CEN): network cerebrale preposto alle funzioni corticali superiori quali la pianificazione dei progetti, i processi decisionali, il controllo dell’attenzione e la memoria di lavoro. Connettività strutturale (structural connectivity): connessione fisica tra le differenti aree cerebrali dimostrata in vivo mediante la trattografia diffusionale. Connettività funzionale (functional connectivity): interrelazione statistica delle variabili relative ai cambiamenti che si verificano in un determinato arco temporale tra differenti network cerebrali, che consente di stabilirne l’interdipendenza funzionale. Connettività funzionale allo stato di riposo (resting-state Functional Connectivity, rsFC): metodica di Risonanza Magnetica mirata a identicare in vivo le regioni cerebrali interconnesse sul piano funzionale durante lo stato di riposo, quando non viene proposto alcun compito da svolgere. Default Mode Network (DMN): network cerebrale attivo durante lo stato di riposo sensoriale che va incontro a calo dell’attività quando il cervello è chiamato a eseguire dei compiti cognitivi. Il DMN svolge una “attività di fondo” destinata a un lavoro mentale principalmente introspettivo, es. mind wandering. IMAGEN: progetto di ricerca multicentrico europeo finalizzato a migliorare la conoscenza dei processi mentali negli adolescenti, studiando in un campione di circa 2.000 soggetti, la reattività emozionale e i comportamenti a rischio. Imaging genetics (genetica per immagini): metodica che abbina i dati forniti dalla genetica a quelli della fMRI allo scopo di definire gli effetti determinati dai polimorfismi e delle varianti genetiche sui network. Large-scale brain networks: circuiti neurali la cui estensione ricopre molteplici regioni cerebrali. I più importanti ai fini delle funzioni cognitive superiori perciò detti core neurocognitive networks, sono il CEN (Central Executive Network), SN (Salience Network) e DMN (Default Mode Network). Ricompensa (Reward): stimolo che rinforza positivamente un determinato comportamento di solito associato ad una esperienza di piacere. I reward primari cioè innati, non appresi, sono ad es. il cibo, l’acqua, gli stimoli di natura sessuale, mentre quelli secondari sono soggetti ad apprendimento: ad es. il denaro, le interazioni sociali e il tatto piacevole. Risonanza Magnetica Funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI): metodica capace di identificare in vivo le aree cerebrali specificamente attivate nel corso di un compito (task) mirato a studiare una determinata funzione cerebrale. Salience network (SN): network cerebrale preposto alla rilevazione e alla successiva elaborazione di stimoli significativi per l’individuo, provenienti sia dall’ambiente esterno che da quello interno. Sistema della ricompensa (Reward system): il sistema dopaminergico mesolimbico della ricompensa, con fulcro nel nucleus accumbens, rilascia in modo fisiologico dopamina in occasione di esperienze piacevoli. I picchi di dopamina sono ottenibili anche con sostanze endogene prodotte dal cervello stesso, che stimolano l’attività del sistema dopaminergico mesolimbico, quali i peptidi oppioidi e gli endocannabinoidi. Anche numerose sostanze d’abuso inducono il rilascio di dopamina da parte della via mesolimbica, con un risultato spesso più intenso e piacevole di quello prodotto naturalmente, col rischio di sviluppare dipendenza. Teoria dei grafi (Graph theory): teoria matematica che rappresenta i problemi mediante l’uso dei grafi, costituiti da un insieme di vertici (o nodi) e spigoli, le connessioni tra i vertici. È stata utilizzata per analizzare e studiare i network cerebrali, definiti anch’essi in termini di nodi e connessioni tra nodi. Trattografia diffusionale (Diffusion tensor imaging, DTI): metodica di Risonanza Magnetica cerebrale capace di evidenziare e analizzare in vivo i fasci di sostanza bianca, utilizzando le proprietà di diffusione delle molecole di acqua. Corrispondenza Ennio Del Giudice, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Via Sergio Pansini, 5, 80131 Napoli. Tel.: +0817464543. Fax: 0817463116. E-mail: [email protected] 265 Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • P. 266 in ricordo In ricordo di Lucia Piceni Sereni Ci ha lasciato una grande persona! Che voglio ricordare prima di tutto per l’entusiasmo che ha trasmesso a generazioni di studenti di Medicina di Milano, per la sua passione in Laboratorio. Professionista curiosa, intelligente, che detestava parole inutili e sapeva andare sempre con rapidità al cuore del problema. Ti guardava con lo sguardo acuto e anche la clemenza per le nostre risposte inadeguate come studenti. La voglio ricordare anche per le cene superlative con cui accoglieva gli “amici di Fabio” e che ho avuto il piacere di apprezzare. Ci sono persone che riescono ad essere “straordinarie” proprio nella normalità della vita quotidiana, nelle relazioni, nei gesti... La prof.ssa Piceni Sereni è stato questo e molto di più! Un abbraccio con emozioni e ricordi: un tesoro che solo il cuore può custodire! Andrea Biondi Gli amici di Prospettive in Pediatria sono affettuosamente vicini a Fabio Sereni per la perdita della compagna di una vita. 266