Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • pp. 197-266
Vol. 43 • N. 172
Ottobre-Dicembre 2013
Immunologia Pediatrica (a cura di Luigi D. Notarangelo)
Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo
Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive
Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione
Oncologia Pediatrica (a cura di Andrea Biondi)
I tumori dei bambini e adolescenti in Italia
Children with cancer in Europe: challenges and perspectives
Il trapianto emopoietico e le terapie cellulari nella cura delle neoplasie ematologiche del bambino:
da uno sguardo al passato alla proiezione futura
FRONTIERE (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)
Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare
Focus
Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale
In RICORDO Di Lucia Piceni Sereni
Pacini
Editore
Medicina
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Vol. 43 • N. 172
Ottobre-Dicembre 2013
INDICE numero 172 Ottobre-Dicembre 2013
Immunologia Pediatrica (a cura di Luigi D. Notarangelo)
Presentazione
Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo
Emilia Cirillo, Vera Gallo, Giuliana Giardino, Claudio Pignata................................................................................................................ 199
Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive
Chiara Azzari, Roberta Cupone, Elisa Giocaliere, Clementina Canessa, Francesca Lippi, Giancarlo la Marca...................................... 208
Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione
Alessandro Plebani, Vassilios Lougaris, Annarosa Soresina, Raffaele Badolato................................................................................... 215
Oncologia Pediatrica (a cura di Andrea Biondi)
Presentazione
I tumori dei bambini e adolescenti in Italia
Andrea Pession, Roberto Rondelli......................................................................................................................................................... 226
Children with cancer in Europe: challenges and perspectives
Kathy Pritchard-Jones.......................................................................................................................................................................... 233
Il trapianto emopoietico e le terapie cellulari nella cura delle neoplasie ematologiche del bambino:
da uno sguardo al passato alla proiezione futura
Pietro Merli, Giuseppe Palumbo, Stefania Gaspari, Franco Locatelli.................................................................................................... 238
Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)
Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare
Carmine Settembre, Alessandro Fraldi, Diego L. Medina, Andrea Ballabio........................................................................................... 246
FOCUS
Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale
Ennio Del Giudice, Angela Francesca Crisanti...................................................................................................................................... 258
In ricordo di Lucia Piceni Sereni
Andrea Biondi ...................................................................................................................................................................................... 266
Immunologia pediatrica
Le immunodeficienze primitive (IDP) rappresentano un gruppo eterogeneo di malattie, per lo più monogeniche, caratterizzate da difetti di
sviluppo e/o funzione del sistema immunitario. Nonostante la loro rarità, le IDP hanno svolto un ruolo di fondamentale importanza nella
storia recente della Medicina. In particolare, la prima applicazione con successo del trapianto di midollo osseo nell’uomo fu realizzata nel
1968 in un bambino affetto da immunodeficienza combinata grave (SCID) X-recessiva. Nel 1990, Michael Blaese e coll. effettuarono il primo
tentativo di terapia genica in una bambina affetta da SCID da deficit di adenosina deaminasi (ADA). A distanza di alcuni decenni, lo studio
delle IDP continua a fornire importanti spunti di sviluppo per il progredire dei metodi di diagnosi e cura e per una migliore comprensione
della fisiopatologia dell’organismo umano. In questo numero, tre articoli di revisione illustrano alcuni di questi recenti sviluppi.
Nell’articolo “Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo”, Pignata e collaboratori sfatano il dogma secondo cui elemento caratteristico
e imprescindibile delle IDP debba essere necessariamente rappresentato da infezioni gravi, non selettive, per lo più a localizzazione multipla. Al contrario, nel corso degli ultimi 15 anni è stato chiaramente stabilito che difetti genetici a carico del sistema immunitario possono
comportare una predisposizione selettiva nei confronti di singoli patogeni. L’articolo di Cirillo et al. si sofferma in particolare sulla suscettibilità mendeliana alle infezioni da micobatteri e sulla candidiasi mucocutanea cronica, ma altri esempi noti di difetti immunitari “selettivi”
comprendono la suscettibilità ad infezioni da piogeni e l’encefalite erpetica. È interessante osservare come in alcuni casi il progresso nelle
tecniche di analisi genetica, oggi spesso basate su sequenziamento delle intere regioni esoniche o dell’intero genoma, ha portato a “riscoprire” difetti che la Medicina accademica aveva ormai dimenticato. La candidiasi mucocutanea cronica ne è un valido esempio: riconosciuta
come entità nosologica negli anni ’70-’80, era poi “scomparsa” dalla lista ufficiale delle IDP formulata dall’apposito Comitato della International Union of Immunological Societies, salvo poi “ricomparire”, una volta identificati difetti a carico di vari geni necessari per lo sviluppo
dei linfociti TH17, principale elemento cellulare di difesa contro la candida. Nello stesso articolo, Cirillo et al. forniscono altri esempi “non
ortodossi” di IDP, in particolare caratterizati da disreattività immunitaria, come nelle forme leaky dei difetti dei geni RAG o nelle sindromi con
iper-IgE. Questa nuova visione, certo più complessa, ma anche più interessante, delle IDP, impone che il medico abbia un atteggiamento
meno conservatore nell’approccio diagnostico alle IDP.
Per rimanere invece nel capitolo delle forme tipiche di IDP, e in particolare di quelle a presentazione più precoce e a prognosi più grave
(le SCID), un’autentica rivoluzione è stata rappresentata dall’avvento di tecniche di screening neonatale. Tale argomento viene sviluppato
nell’articolo di Azzari e coll. Partendo da studi in pazienti con AIDS, Douek et al. avevano dimostrato che è possibile quantificare la produzione di nuovi linfociti T nel timo, misurando nelle cellule del sangue periferico i livelli di T cell receptor excision circles (TRECs), un sottoprodotto del riarrangiamento genico del T cell receptor (TCR). Si tratta di frammenti di DNA che vengono generati durante il riarrangiamento
del locus del TCRa. Tali frammenti vengono circolarizzati e persistono nei linfociti TCRab+ che vengono rilasciati dal timo, ma vengono poi
progressivamente diluiti durante i processi replicativi degli stessi linfociti T in periferia. Indipendentemente dalla natura del difetto genetico,
tutte le forme tipiche di SCID sono caratterizzate da un grave difetto di produzione dei linfociti T. Misurando mediante PCR quantitativa
(qPCR) i livelli di TREC presenti nei campioni di sangue raccolti alla nascita su cartoncini di Guthrie, è possibile stabilire se il neonato ha una
produzione valida di linfociti T (TREC nei limiti della norma) o se al contrario vi è un grave difetto di produzione dei linfociti T (TREC indosabili
o gravemente ridotti). Quest’ultima condizione è fortemente sospetta for SCID e deve indurre ad accertamenti di secondo livello (conta linfocitaria, citofluorimetria a flusso, test funzionali) volti ad accertare in modo definitivo la presenza di una SCID. Lo screening neonatale per
la SCID basato sulla determinazione dei livelli di TREC alla nascita è attualmente utilizzato in 17 Stati negli USA e oltre 3 milioni di bambini
sono stati già sottoposti a screening. Più di 50 casi di SCID sono stati correttamente identificati in epoca pre-sintomatica, permettendo l’immediato ricorso a misure preventive e risolutive. L’importanza della diagnosi precoce delle SCID è sottolineata dall’osservazione che questa
condizione, altrimenti inevitabilmente fatale, può essere trattata con successo col trapianto di cellule staminali ematopoietiche (e in alcune
forme anche con terapia genica o con terapia enzimatica sostitutiva). Dati prodotti dalla dott.ssa Buckley alla Duke University e recentemente confermati su una ampia casistica del registro nord-americano del Primary Immune Deficiency Treatment Consortium dimostrano
che se il trapianto di midollo osseo viene effettuato in bambini con SCID di età inferiore a 3,5 mesi di vita, la percentuale di sopravvivenza è
superiore al 90%. Se questi dati dimostrano l’utilità del test di screening basato sui TREC, va tuttavia sottolineato che il test presenta alcuni
lati problematici. In particolare, si tratta di un test che identifica non solo le SCID, ma in generale tutte le condizioni di grave linfopenia T,
compresi quindi alcuni casi di Sindrome di George, altre sindromi malformative con coinvolgimento timico (CHARGE, Sindrome di Jacobsen,
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L.D. Notarangelo
ecc), condizioni con perdita di linfociti T nel terzo spazio (chilotorace, grave ascite). Inoltre, valori ridotti di TREC sono stati osservati nei nati
prematuri. Tutto ciò pone importante problemi di diagnosi differenziale. Al contempo, forme leaky di SCID possono non essere diagnosticate correttamente dal test di determinazione dei livelli di TREC. Ciò vale in particolare per alcune varianti a esordio tardivo del deficit di
ADA. Azzari e la Marca hanno realizzato un test alternativo per la diagnosi neonatale di deficit di ADA basato sulla spettrometria di massa,
dimostrandone la superiorità rispetto al test basato sui TREC nel riconoscere queste forme leaky di SCID da deficit di ADA. Con la crescente
diffusione della spettrometria di massa nello screening neonatale delle malattie metaboliche, è lecito attendersi ulteriori sviluppi anche nella
diagnosi di altre forme di immunodeficienza congenita. Infine, diversi gruppi stanno lavorando alla realizzazione di uno screening neonatale
dell’agammaglobulinemia congenita, attraverso la misurazione mediante qPCR dei livelli di KRECs (kappa receptor excision circles), un
sottoprodotto del riarrangiamento genico al locus kappa delle catene leggere immunoglobuliniche, che testimonia la presenza di un’efficace
linfopoiesi B (difettiva invece nei pazienti con agammaglobulinemia congenita). La combinazione TREC-KREC potrebbe infine permettere il
riconoscimento più fine di varianti SCID a fenotipo T- B- rispetto a varianti T- B+, in opposizione a condizioni di difetto isolato dei linfociti B
(TREC normali, KREC assenti). L’utilità in termini di costi e vantaggi sanitari e sociali di tecniche di screening neonatale che comprendano
non solo i TRECs, ma anche i KRECs è tuttavia ancora da dimostrare.
Infine, nel terzo articolo di questo numero, Plebani e coll. presentano un’esaustiva rassegna delle indicazioni, modalità di somministrazione
e meccanismi di azione delle immunoglobuline. Nel corso degli anni, vi è stata un’importante evoluzione nelle tecniche di preparazione
dei preparati di immunoglobuliniche per uso terapeutico. Con le tecniche più moderne di preparazione, è stato possibile produrre preparati
molto più sicuri, ovviando in tal modo a gravi infezioni (come diversi casi di epatite C) verificatisi all’inizio degli anni ’80 in pazienti trattati
con immunoglobuline per via endovenosa (IVIG). Nel corso degli ultimi quindici anni, importanti variazioni di mercato hanno imposto un
ripensamento sulle indicazioni d’uso delle immunoglobuline. In particolare, a fronte di un numero di donatori di plasma che, seppure in
crescita, non è variato considerevolmente, è cresciuto enormemente il numero di potenziali pazienti: basti pensare all’ingresso nel mercato
di nuovi paesi consumatori di immunoglobuline, come Cina e India. Particolarmente puntuale è quindi la discussione, affrontata da Plebani
e coll., su indicazioni consolidate e impiego off-label delle immunoglobuline. La stessa modalità di somministrazione è stata oggetto di
rivisitazione. Oltre a formulazioni per uso endovenoso, si è affermato l’impiego per via sottocutanea, che offre al paziente una maggiore convenienza nel decidere quando effettuare la terapia e soprattutto la possibilità di effettuarla a domicilio. Importanti differenze organizzative e
nelle procedure di rimborso delle spese sanitarie da paese a paese rappresentano peraltro ancora oggi il fattore che maggiormente incide
sulla ripartizione del mercato interno tra somministrazione per via endovenosa e somministrazione per via sottocutanea. Infine, Plebani e
coll. discutono i più recenti sviluppi sui meccanismi d’azione (accertati e presunti) delle immunoglobuline, con riferimento in particolare agli
studi di Ravetch sugli effetti immunomodulanti della regione F(ab)2 e sull’interazione del frammento Fc delle immunoglobuline con diversi
recettori. Più recentemente, l’attenzione dei ricercatori si è soffermata sulla glicosilazione del frammento Fc, che sembra svolgere un ruolo
importante nel determinare gli effetti immunomodulanti dei preparati immunoglobulinici stessi. Si tratta di studi ancora in fase iniziale, ma
che potrebbero offrire importanti sviluppi, potenzialmente in grado di modificare in modo radicale la procedure di preparazione e modificazione delle immunoglobuline per uso terapeutico.
L’immunologia pediatrica è quindi in continua evoluzione. I tre argomenti trattati in questo numero ne sono un’autorevole dimostrazione.
Luigi D. Notarangelo
Division of Immunology, Boston Children’s Hospital
Harvard Stem Cell Institute, Boston, MA (USA)
198
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 199-207
immunologia pediatrica
Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo
Emilia Cirillo, Vera Gallo, Giuliana Giardino, Claudio Pignata
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università “Federico II”, Napoli
Riassunto
Nel settore delle immunodeficienze primitive (IDP) vi è stata negli ultimi decenni una rapida evoluzione, che ha portato ad un considerevole ampliamento delle
conoscenze, e di conseguenza alla ridefinizione nosografica delle diverse forme. È stata da sempre sottolineata l’importanza di definire in maniera puntuale i
campanelli di allarme e i segni di presentazione delle diverse forme in modo da coglierne precocemente l’esordio. Dal punto di vista clinico, le alterazioni del
sistema immunitario sono state storicamente associate ad una aumentata suscettibilità a contrarre infezioni gravi, non selettive, frequentemente a localizzazione multipla e sostenute da germi opportunistici o non comuni. Inoltre, le immunodeficienze più gravi sono state considerate in passato ad esordio precoce
nei primi due anni di vita, con sintomi tipici quali arresto di crescita, diarrea intrattabile, infezioni severe ricorrenti e resistenti al trattamento, ascessi di organo
e cutanei ricorrenti, a seconda delle forme. Attualmente, accanto a forme tipiche in cui l’immunodeficienza cellulare, umorale o combinata si presenta clinicamente con un quadro classicamente indicativo di una risposta immune deficitaria, sono stati descritti casi clinici atipici, in cui i segni di presentazione sono
meno suggestivi di un immunodeficit di base. In questo articolo di revisione affrontiamo il problema della diagnosi differenziale di alcune di queste forme di
recente identificazione, partendo da quattro campanelli d’allarme o segni clinici chiave con lo scopo di allertare non solo lo specialista immunologo, ma anche
e soprattutto il pediatra, che ha il non facile compito di sospettare precocemente un numero sempre maggiore di malattie complesse.
Summary
The field of primary immunodeficiencies (PID) has been characterized in the last decades by a rapid evolution that has led to a considerable expansion of knowledge,
and, subsequently, to a nosografic re-classification of the different forms. The importance of defining in a timely manner the alarm signals and signs of presentation
of the different forms has always been pointed out for an early diagnosis. From a clinical standpoint, the alterations of the immune system have been typically associated with an increased susceptibility of patients with PID to severe, non-selective, infections, frequently affecting multiple tissues and supported by uncommon
and opportunistic germs. In addition, in the past, PID have been stereotyped as severe disorders, characterized by an early onset in the first two years of life, with
typical symptoms such as failure to thrive, intractable diarrhea, recurrent and severe infections resistant to treatment, multiple organ and cutaneous abscesses.
Moreover, the recovery from whichever infection was considered sufficient to rule out a PID. For a long time, it was assumed that a defective immune system, not
able to respond to non-self antigens, was necessarily not able to respond to self-antigens as well. Therefore, it was thought that autoimmunity could not occur in patients with primary immunodeficiencies. These “dogmas” have been confuted, with the recent identification of novel forms of PIDs, characterized by peculiar clinical
phenotypes. Along with typical forms of cellular, humoral or combined immunodeficiencies presenting with a range of clinical signs indicative of defective immune
responses, several cases have been reported which are characterized by atypical clinical signs, that are less suggestive of an underlying immunodeficiency. In this
review, we approach the differential diagnosis of novel PIDs based on four presenting signs, and discuss novel and recently identified underlying genetic defects,
with the aim to alert not only the immunologist but also the pediatrician for an early recognition of such complex disorders.
Parole chiave: Immunodeficienze primitive, granuloma epitelioide, immunodeficienza grave combinata, Iper IgE, anomalie ectodermiche con immunodeficienza, candidiasi cronica
Key words: Primary immunodeficiencies, epitelioid granuloma, severe combined immunodeficiency, Hyper IgE, ectodermal dysplasia with immunodeficiency, chronic candidiasis
Introduzione
Le immunodeficienze primitive (IDP) rappresentano un settore della
Pediatria in cui vi è stata una sorprendente evoluzione delle conoscenze nelle ultime due decadi. In particolare, è stato identificato un
considerevole numero di nuove forme, ben definite sia dal punto di
vista del quadro clinico che dell’alterazione genetica e del meccanismo molecolare sotteso. In conseguenza di tale progresso di conoscenze, in poco più di venti anni il numero delle IDP è passato da
poco più di dieci malattie note negli anni ’80 alle oltre 250 nosograficamente distinte ad oggi descritte (Al-Herz et al., 2011; Parvaneh
et al., 2013). Tale incremento di conoscenza è stato favorito dalla
maggiore attenzione clinica e dall’applicazione alle problematiche
cliniche delle avanzate tecnologie di genetica ed immunologia molecolare.
Non sorprende, quindi, che gli scenari clinici di presentazione ed i
campanelli di allarme che possono aiutare a riconoscere tali patologie siano oggi alquanto diversi rispetto a quanto noto in passato.
È opportuno, pertanto, che si inizi ad approcciare il tema delle novità
nel contesto delle IDP affrontandolo per problemi, piuttosto che nel
modo sistematico, come di consueto.
Obiettivo della revisione
In questa review ci si soffermerà sulle immunodeficienze che si presentano con:
• Granuloma epitelioide
• Valori molto elevati di IgE
• Alterazioni degli annessi cutanei
• Candidiasi persistente
che vengono quindi considerati importanti segnali di sospetto
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
I dati presentati nella review sono stati selezionati tramite una ricerca condotta sulla la banca bibliografica Medline, utilizzando come
motore di ricerca Pubmed con le seguenti parole chiave: primary
199
E. Cirillo et al.
immunodeficencies, granuloma and immunodeficiencies, SCID,
hyper IgE syndrome, ectodermal dysplasia with immunodeficiency,
Nude-SCID, mucocutaneous candidiasis. Sono state selezionate le
pubblicazioni relative agli ultimi 5 anni ristrette alla fascia “all child
(birth-18 years)”.
Immunodeficienze primitive associate a lesioni
granulomatose
Il granuloma come segno di immunodeficienza
Il granuloma epitelioide è una lesione che, generalmente, indica uno
stato infiammatorio cronico. Istologicamente è costituito da cellule
epitelioidi, macrofagi, linfociti, plasmacellule e fibroblasti, con un’organizzazione nodulare tipica degli elementi infiammatori. Esso rappresenta spesso la risposta specifica dell’organismo a un agente
estraneo (granulomi da corpo estraneo o non immunogeno) o ad un
processo infettivo specifico: batterico, virale o parassitario (granuloma infettivi o immunologico o da ipersensibilità). È noto da tempo
che una lesione granulomatosa possa essere caratteristica peculiare di alcune IDP, quali la Malattia Granulomatosa Cronica, l’Immunodeficienza Comune Variabile e la Sindrome di Chediak-Higashi.
Tuttavia negli ultimi anni l’osservazione che in un numero sempre
crescente di IDP si osservano lesioni granulomatose ha indotto i
clinici a considerare il granuloma un segno di inadeguata risposta
immunitaria a un persistente agente infettivo e, pertanto, una spia di
immunodeficienza. Alcune forme di IDP, quali la Suscettibilità mendeliana alle malattie da micobatteri (MSMD) ed alcune varianti di
SCID, suggeriscono che il granuloma debba sempre far sospettare
una condizione di immunodeficienza.
Suscettibilità mendeliana alle micobatteriosi
La MSMD è una sindrome rara caratterizzata da una predisposizione a sviluppare infezioni gravi sostenute da specie di micobatteri
scarsamente virulente, quali i micobatteri ambientali non tubercolari (MOTT) e il bacillo di Calmette-Guèrin (BCG). I pazienti affetti presentano anche una maggiore vulnerabilità alle infezioni da
Mycobacterium tuberculosis e da specie di Salmonella non tifoidee
(Bustamante et al., 2011), mentre superano normalmente le altre
comuni infezioni. L’epoca di esordio della malattia è generalmente
in età infantile (nella maggior parte dei casi nei primi 3 anni) ma si
può manifestare anche in età adulta. Lo spettro di presentazione
è variabile, da infezioni locali ricorrenti da MOTT fino ad infezioni
disseminate e letali da BCG. La gravità del fenotipo clinico dipende
anche dal genotipo.
La MSMD è legata a disordini dell’asse IL-12-INF-γ. La risposta
dell’ospite ai micobatteri inizia, infatti, con la fagocitosi del micobatterio da parte dei macrofagi, che iniziano a secernere IL-12. La
produzione di tale citochina è promossa anche dall’attivazione della
via del CD40-CD40L. L’IL-12 induce il reclutamento e l’attivazione di
linfociti T CD4+ e CD8+ nel sito di infezione, dove, riconoscendo gli
antigeni micobatterici presentati dai macrofagi, producono alcune
citochine, in particolare IFN-γ e TNF-α. A sua volta l’IFN-γ si lega al
recettore presente sugli stessi fagociti, amplificandone le funzioni
anti-micobatteriche e aumentando la produzione di IL-12 (Bustamante et al., 2008; Saunders et al., 2007). Attualmente, sono state
descritte alterazioni genetiche e, in particolare, mutazioni germinali a trasmissione autosomica a carico di 6 geni (IFNGR1, IFNGR2,
STAT1, IL12B, IL12RB1, IRF8), coinvolti nel pathway di signaling di
IFNγ, IL12 ed IL23, citochine coinvolte specificamente nella difesa
200
dai micobatteri. In particolare, le mutazioni che riguardano IFNGR1,
IFNGR2 e STAT1 sono responsabili dell’alterazione della risposta cellulare all’IFN-γ, mentre quelle a carico di IL12RB1 e IL12B alterano
direttamente il funzionamento di tale citochina. Accanto a queste
forme a trasmissione autosomica, sono state descritte due forme a
trasmissione recessiva legata al cromosoma X, associate a mutazioni dei geni NEMO e CYBB. Tali geni sono da tempo noti quali causa di altre due immunodeficienze primitive, Displasia Ectodermica
Anidrotica con immunodeficienza (EDAID) e Malattia Granulomatosa
Cronica X-linked (CGD) (Bustamante et al., 2011). A differenza di
queste ultime due immunodeficienze, le mutazioni di NEMO che determinano aumentata suscettibilità alle micobatteriosi interferiscono
solo con la produzione da parte dei mononucleati di IL-12, CD40indotta, mentre le mutazioni di CYBB (che codifica per la proteina
gp91phox), coinvolgono selettivamente il burst respiratorio all’interno dei macrofagi e non dei neutrofili. Tali mutazioni possono quindi
causare MSMD, alterando selettivamente un singolo pathway di signaling (CD40-IL-12, NEMO) o esclusivamente i macrofagi, nel caso
della mutazione di CYBB.
Recentemente è stata descritta una nuova causa genetica di MSMD:
la mutazione in omozigosi del gene ISG15, che codifica per la proteina ISG15, una molecola ubiquitin-like la cui sintesi è indotta dagli
IFN-α e β, citochine importanti nella difesa contro i virus. Il quadro
clinico associato a tale mutazione è caratterizzato da un esordio
precoce delle infezioni micobatteriche, scarsamente responsive alla
terapia antimicrobica, ma non da aumentata frequenza di infezioni
virali., Infatti la ridotta secrezione di ISG15 da parte dei granulociti neutrofili dopo stimolazione micobatterica, determina una ridotta
produzione di INF-γ prevalentemente nelle cellule natural killer, con
conseguente aumentata suscettibilità alle micobatteriosi. Questo dimostra che il gene ISG15 ha un suo ruolo chiave nella risposta ai micobatteri ed è invece ridondante, non rilevante nelle difese antivirali
(Bogunovic et al., 2012).
L’identificazione di questi disordini genetici ha importanti implicazioni soprattutto terapeutiche. Infatti, l’identificazione precoce di questi
pazienti potrebbe contribuire ad orientare la scelta della migliore opzione terapeutica possibile, tra profilassi antibiotica a lungo termine,
somministrazione di IFN-γ o trapianto di midollo osseo.
Nuove varianti di SCID
I geni RAG 1 e RAG2 condificano per proteine essenziali per promuovere il processo di ricombinazione delle catene V(D)J del TCR e del
recettore per l’antigene delle immunoglobuline. Conseguentemente,
mutazioni dei geni RAG nell’uomo erano state associate ad una variante di SCID con fenotipo T-B-NK+, ma anche a forme “atipiche”
con presenza di una quota residua di linfociti T autologhi oligoclonali,
come nel caso della Sindrome di Omenn e di altre varianti atipiche
di “leaky” SCID. Le mutazioni genetiche che determinano un’attività
enzimatica residua nulla di RAG 1 e 2 sono responsabili della forma classica, mentre mutazioni ipomorfiche con attività enzimatica
residua sono alla base delle restanti forme (Tab. I). Tra queste, la
forma descritta più di recente è la forma associata a lesioni granulomatose. Si differenzia dalle altre SCID, per l’età di insorgenza più
avanzata, (dopo il terzo anno di vita) e la bassa incidenza di infezioni
pericolose quoad vitam. Anche l’immunofenotipo che la caratterizza
tale forma è peculiare (T+B+NK+), con un numero di linfociti B e T
ridotto ma non completamente assente. Altre caratteristiche immunologiche riscontrate nei pazienti affetti sono l’eosinofilia con livelli
di IgE non elevati, livelli di immunoglobuline nella norma e risposta anticorpale presente; sporadicamente è stato riscontrato deficit
selettivo di IgA. Tale forma di SCID si caratterizza per il peculiare
Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo
Tabella I.
Caratteristiche cliniche, genetiche e immunofenotipiche delle differenti forme di SCID associate a mutazioni dei geni RAG 1 e RAG2.
Disordine
SCID classica
Genotipo
Mutazioni con attività
enzimatica residua <1%
Immunofenotipo
Caratteristiche cliniche
T-B- NK+
Infezioni severe polmonari e intestinali batteriche, virali e
fungine, assenti linfonodi, tonsille e adenoidi
T+B- NK+
GVHD
T+ B- NK+
Eritrodermia, alopecia acquisita, linfoadenomegalia e
epato-splenomegalia
Sindrome di Ommen incompleta
T+ B-/+ NK+
Diarrea protratta, eritrodermia/rash cutaneo e
epatomegalia
SCID con espansione di cellule
Tγδ
T+ B-/+ NK+
Infezioni virali severe, ulcere genitali e orali, citopenia
autoimmune e linfoproliferazione EBV correlata
SCID con lesioni granulomatose
T+ B+ NK+
Infiammazione granulomatosa della cute e altri tessuti,
riduzione conta linfocitaria, autoimmunità
SCID classica con trasfusione
maternofetale
Sindrome di Ommen classica
Mutazioni con attivita
enzimatica residua >1%
sviluppo di granulomi epitelioidi, non caseosi in differenti organi e
tessuti, quali la cute, i polmoni, la lingua, linfonodi e milza (Schuetz
et al., 2008). Il meccanismo immunopatogenetico alla base della
formazione di tali lesioni resta a tutt’oggi sconosciuto. È possibile
che rappresentino il tentativo del sistema immunitario difettivo di
arginare microrganismi patogeni a bassa virulenza, che non riesce
altrimenti a eliminare. È inoltre possibile che altre mutazioni in geni
diversi da RAG, geni modificatori, possano essere implicati nella formazione di tali granulomi.
L’identificazione di forme ad insorgenza tardiva con fenotipi più lievi
modifica radicalmente il paradigma delle SCID, da sempre considerate malattie molto gravi e letali, se non trattate entro il primo anno
di vita. Pertanto, il sospetto di tale diagnosi va posto in quei pazienti
che si presentano con lesioni granulomatose, non altrimenti spiegabili indipendentemente dall’età di esordio. Va ricordato, tuttavia,
che alcuni casi con fenotipo sovrapponibile possono essere dovuti
a engraftment materno, ovvero alla presenza di linfociti T materni
che per via transplacentare raggiungono il circolo fetale (Al-Muhsen,
2010). Nei neonati sani i linfociti materni vengono rapidamente eliminati dai linfociti T immunocompetenti del ricevente, ma nei bambini immunodeficienti possono persistere a lungo per l’assenza di
risposta T. Clinicamente l’engraftment materno va sospettato nei
casi caratterizzati dalla presenza di segni clinici e laboratoristici tipici della graft-versus-host disease, che interessa prevalentemente
la cute, l’intestino e il fegato. Recentemente, sono stati descritti due
casi in cui l’engraftment materno ha causato rigetto del trapianto
allogenico e citopenia autoimmune (Palmer et al., 2007), ma in alcuni casi può essere asintomatico. L’identificazione dei linfociti T di
origine materna può essere effettuata con diverse tecniche, tra cui
la tipizzazione HLA ad alta risoluzione, l’ibridazione fluorescente in
situ ed RFLP (restriction fragment length polymorphism), utilizzando
marcatori molecolari che riconoscono regioni variabile del DNA presenti esclusivamente nella madre.
Immunodeficienze primitive con elevati valori di IgE
Livelli elevati di IgE sono spesso riscontrati in IDP con eczema e
infezioni ricorrenti, quali la Sindrome di Omenn, da mutazioni ipomorfiche in geni RAG1, RAG2, ARTEMIS, ADA e RMRP; la Sindrome
di Wiskott-Aldrich da mutazioni del gene WAS; la Sindrome IPEX
(immunodisregolazione, poliendocrinopatia, enteropatia, X-Linked)
causata da mutazione del gene FOXP3 e la Sindrome di Comel-Ne-
therton da difetto di SPINK5 (Tab. II). Ciascuno di questi disordini presenta caratteristiche peculiari che li contraddistinguono dalle forme
più note come le sindromi da Iper IgE (HIES) (Tab. III).
Tali disordini sono caratterizzati globalmente da livelli molto elevati
di IgE (> 2000 UI/L), eczema grave, suscettibilità a contrarre infezioni da Stafilococco aureo o miceti, polmoniti ricorrenti con tendenza
a neoformazione di pneumatocele (Yong et al., 2012) e possono essere ereditati in maniera autosomica dominante (AD) o autosomica
recessiva (AR). Talora sono stati descritti casi sporadici. Non sempre
è agevole differenziarle dalle forme gravi di dermatite atopica, in cui
si possono riscontrare valori molto elevati di IgE sieriche, e talvolta
infezioni virali o batteriche, anche perché il fenotipo clinico spesso
diviene evidente nella sua complessità solo nel corso degli anni, e
ciò può determinare ritardo nella diagnosi, soprattutto per i pazienti
in età pediatrica o che presentano forme più attenuate di malattia.
Studi recenti hanno dimostrato che mutazioni ipomorfiche nel gene
STAT3 sono responsabili della forma AD (Holland et al., 2007), caratterizzata dalla classica triade sintomatologica rappresentata da
ascessi cutanei “freddi” ricorrenti da stafilococco, infezioni ricorrenti delle vie aree, aumentata concentrazione delle IgE sieriche. Tale
triade è presente nel 75% di tutti i casi di HIES AD e nell’85% dei
casi nei bambini di età superiore agli 8 anni. In molti casi il rash
neonatale è il primo segno della malattia.
Nel bambino con difetto di STAT3, oltre allo Stafilococco aureo,
spesso meticillino-resistente, seppur con minor frequenza è possibile ritrovare infezioni da Haemophilus influenzae e da Streptococcus pneumoniae. Le infezioni broncopolmonari inoltre rappresentano fattore predisponente alla colonizzazione da agenti opportunisti
quali Pseudomonas aeruginosa ed Aspergillus fumigatus, con il rischio di sviluppare aspergillosi invasiva e aspergillomi. Circa l’80%
di tali soggetti sono affetti da candidiasi mucocutanea cronica; inoltre sono state descritte anche forme fungine extrapolmonari dovute
ad infezione da Cryptococcus e Histoplasma (Vinh et al., 2010).
La suscettibilità alle infezioni nei pazienti affetti da HIES è dovuta ad
alterazioni della funzione delle cellule Th17 per difetto della trasduzione del segnale mediato da diverse citochine, in particolare IL-6 e
IL-22 (Milner et al., 2008).
Nel 2004, Renner e collaboratori hanno descritto una forma di sindrome con iper-IgE ad ereditarietà AR, con caratteristiche comuni
alla forma classica, ma con un differente profilo di suscettibilità alle
infezioni, spesso con complicanze neurologiche, elevata predisposizione ad autoimmunità e disordini proliferativi.
201
E. Cirillo et al.
Tabella II.
Immunodeficienze primitive con aumentati livelli di IgE e manifestazioni cutanee: vecchi e nuovi fenotipi.
Disordine
Ereditarietà
Gene
Caratteristiche
immunologiche
Fenotipo clinico
Sindrome di
Omenn
AR
Mutazioni
ipomorfiche in geni
RAG1/2, ARTEMIS,
ADA e RMRP, IL/Ra,
DNA ligasi IV, γc,
geni non noti
Aumento IgE, riduzione delle
Ig sieriche, linfociti T presenti
ma con ridotta eterogeneità,
linfociti B normali o ridotti
Sindrome di
Wiskott-Aldrich
XL
WAS
Aumento IgA e IgE, difetto di
Microtrombocitopenia, eczema,
risposta linfocitaria, ridotta
disordini autoimmuni, eczema,
risposta antigeni polisaccaridici infezioni virali e batteriche
#301000
Sindrome di
Wiskott-Aldrich 2
AR
WIPF1
Riduzione linfociti B e linfociti T
CD8, riduzione dell’attività NK
Eczema, trombocitopenia, infezioni
ricorrenti
#614493
Sindrome di
Comel-Netherton
AR
SPINK5
Aumento IgE, ridotti livelli di
IgA, riduzione di linfociti B
switched e non switched
Ittiosi, capelli bamboo, atopia,
suscettibilità infezioni batteriche e
virali, difetto di crescita
#256500
IPEX
XL
FOXP3
Difetto e/o alterata funzione
di cellule T regolatorie CD4+
CD25+ FOXP3+ livelli di IgA e
IgE normali/elevati
Enteropatia autoimmune, diabete
mellito ad esordio precoce, eczema,
disordini autoimmuni
#304790
Sindrome di
Olmsted
AR
TRPV3
IgE e IgA elevate, riduzione
IgG3, ipereosinofilia
Cheratodermia palmo-plantare,
alopecia, onicodistrofia, infezioni,
cutanee ricorrenti batteriche
e fungine, carcinoma a cellule
squamose
#614594
Eritrodermia, eosinofilia,
adenopatia, epatosplenomegalia
Numero OMIM
#603554
Tabella III.
Caratteristiche cliniche e immunologiche delle Sindromi da Iper IgE (HIES).
Disordine
Gene
HIES AD
STAT3
Riduzione linfociti Th17; ridotta
risposta anticorpale specifica;
riduzione linfociti B memory
switched e non switched
Dismorfismi faciali, eczema, osteoporosi e
fratture, anomalie dentarie, iperestensibilità
legamentosa, infezioni batteriche da
Staphylococcus aureus (ascessi polmonari e
cutanei, pneumatoceli), candidiasi
#147060
HIES AR
TYK2
Difetto di signaling indotto da
citochine
Suscettibilità a batteri intracellulari
(micobatteri, salmonella), funghi e virus
#611521
Riduzione linfociti T e B e cellule
NK, aumento IgE, riduzione IgM
Atopia severa, ipereosinofilia, infezioni
ricorrenti, infezioni cutanee severe virali e
batteriche, predisposizione al cancro
#243700
DOCK8
Caratteristiche immunologiche
Nell’ambito di tale variante, che differisce dalla forma classica sia
per modalità di trasmissione genetica sia per caratteristiche cliniche, un primo difetto genetico venne identificato nel 2006, con il
riconoscimento di mutazioni del gene TYK2 (Minegishi et al., 2006).
In particolare, il paziente affetto da questa variante presentava alterazioni dei sistemi di trasduzione del segnale mediato dall’IFN a,
IL-6, IL-10, IL-12 e IL23, con conseguente malfunzionamento dei
meccanismi di immunità innata ed adattiva. Il difetto di TYK2 rimane
comunque una forma molto rara, le cui caratteristiche cliniche sono
peraltro controverse, come dimostrato dalla descrizione di un secondo caso, con presentazione clinica assai diversa, caratterizzata da
infezione disseminata da BCG, zoster ricorrente e neurobrucellosi, in
assenza di livelli elevati di IgE (Kilic et al., 2012). D’altra parte, molti
casi di sindrome con iper-IgE a trasmissione autosomico-recessiva
202
Fenotipo clinico
Numero OMIM
sono stati ascritti ad alterazioni del gene DOCK8, che codifica per
una proteina coinvolta nella regolazione dello citoscheletro (Zhang et
al., 2009). I pazienti con difetto di DOCK8 soffrono di infezioni virali
gravi, che colpiscono soprattutto la cute (HPV, verruche) e che sono
ad elevato rischio di degenerazione maligna. Inoltre, fa parte della
sindrome una grave suscettibilità a manifestazioni allergiche, con
associati livelli elevati di IgE.
Recentemente è stato descritto un paziente affetto da sindrome di
Olmsted da difetto del gene TRPV3, caratterizzato da lesioni ipercheratosiche periorifiziali e cheratodermia palmo-plantare associato
ad un particolare fenotipo immunologico con elevati valori di IgE,
ipereosinofilia ricorrente, frequenti infezioni cutanee da batteri e
funghi, in particolare da Candida albicans, aumento di IgA, con IgG3
tendenzialmente ridotte. Il quadro suggerisce un ruolo primario del
Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo
gene, espresso in cheratinociti e cellule di Langherans cutanee, nella risposta immune (Danso-Abeam et al., 2013).
Immunodeficienze associate ad alterazioni cutanee
Anche specifiche anomalie a carico della cute e degli annessi cutanei, quali secchezza cutanea e fragilità dei capelli, anomalie ungueali
e anomalie della dentizione, possono rappresentare un campanello
d’allarme di immunodeficienza. Le principali sindromi associate ad
anomalie di cute ed annessi cutanei sono la displasia ectodermica
anidrotica con immunodeficit, la Sindrome Nude/SCID, la Sindrome
autoimmune poliendocrina di tipo 1 (APS1 o APECED – autoimmune
polyendocrinopathy-candidiasis-ectodermal dystrophy), la Sindrome di Chediak-Higashi.
La displasia ectodermica (ED) comprende un vasto e complesso gruppo di patologie (Priolo et al., 2000) caratterizzate da un
difetto di sviluppo di due o più strutture originate dall’ectoderma
(OMIM_34500). Attualmente, sono note oltre 190 forme di ED, con
un’incidenza stimata intorno a 7 casi ogni 10000 nati vivi. Possono
presentarsi sia come forme sporadiche sia come malattie ereditate secondo le diverse modalità di trasmissione mendeliana, AD,
AR, X-linked dominante o recessiva (Tab. IV). Sono caratterizzate da
anomalie di capelli, unghie e ghiandole sudoripare ed in alcuni casi
possono essere associate ad alterazioni in altri organi e sistemi e
a ritardo mentale (Itin et al., 2004; Priolo et al., 2000). L’epidermide è secca, sottile ed ipopigmentata con ipercheratosi ed eczemi.
Possono essere presenti note dismorfiche, quali fronte pronunciata, labbra spesse, gonfie e sporgenti. I capelli sono generalmente
biondi, con frequenti ipotricosi e segni di alopecia totale o parziale.
Anomalie ungueali possono includere distrofia, ipertrofia e difetti
di cheratinizzazione. Vi può essere oligodontia, anodontia o denti
di forma conica. L’ipoplasia delle ghiandole sudoripare può determinare intolleranza al calore e ipertermia. L’assenza di ghiandole
mucose nel tratto respiratorio e gastrointestinale può causare infezioni frequenti (Kupietzky et al., 1995). La displasia ectodermica
anidrotica rappresenta la forma più comune (Itin et al., 2004; Kupietzky et al., 1995) con frequenza nella popolazione di 1:100.000.
Tale sindrome può essere trasmessa come tratto recessivo legato
al cromosoma X (Kupietzky et al., 1995), autosomico dominante ed
autosomico recessivo (Priolo et al., 2000) ed è causata da mutazioni in una delle molecole coinvolte nel pathway dell’ectodisplasina
(EDA, OMIM_224900). Mutazioni a carico di molecole coinvolte nel
pathway dell’NF-kB e in particolare a carico del gene NEMO (NF-KB
Essential Modulator), sono responsabili di forme di displasia ectodermica con immunodeficienza (Fig. 1), anche se alcune mutazioni
di NEMO sono responsabili di immunodeficienze diverse come la
Sindrome da Iper-IgM tipo 6. La Displasia Ectodermica Ipoidrotica
con Immunodeficit (HED-ID) è un’immunodeficienza ben codificata,
nella quale le anomalie della cute, degli annessi cutanei e dei denti,
tipiche delle displasie ipoidrotiche, si associano ad una compromissione del sistema immunitario cellulare ed umorale con aumentata
suscettibilità alle infezioni. Le mutazioni di NEMO sono responsabili
di un’alterazione del segnale indotto dai TLR, che si manifesta con
la mancata produzione di IL-6 in risposta alla stimolazione cellulare
con agonisti dei TRL in vitro e con un’aumentata suscettibilità ad
infezioni invasive da batteri piogeni in vivo. I valori di IgG, in particolare di IgG2, sono ridotti, occasionalmente anche quelli di IgA, IgM ed
IgE. È spesso presente anche un’iper-IgD. Il difetto della produzione
di anticorpi contro antigeni specifici è una caratteristica peculiare
dell’XL-HED-ID. I pazienti mantengono bassi titoli di anticorpi antipneumococcici e presentano trascurabili livelli di isoemoagglutine.
Anche la produzione di anticorpi contro antigeni proteici valutata
come risposta alla vaccinazione con tossoide tetanico e difterico è
in genere bassa.
L’età media alla diagnosi è di 4 mesi. I pazienti affetti da HED-ID
sviluppano sin dai primi mesi di vita episodi ricorrenti di polmoniti, sepsi, ascessi cutanei e dei tessuti profondi, infezioni intestinali,
encefaliti, meningiti, sinusiti e osteomieliti. Le infezioni sono sostenute prevalentemente da batteri piogeni come Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae ed Haemophilus influenzae. Sono
possibili anche infezioni da micobatteri non tubercolari, soprattutto
Mycobacterium avium intracellulare, che si manifestano con celluliti,
linfoadeniti, osteomieliti, polmoniti e forme disseminate. Meno frequenti sono le infezioni virali che però possono essere molto severe
(encefaliti da virus dell’herpes simplex, gravi gastroenteriti da adenovirus, sepsi da citomegalovirus). Infezioni da germi opportunistici
(polmoniti da Pneumocystis jirovecii e candidosi orali) si verificano
nel 10% dei pazienti.
Patologie autoimmunitarie e infiammatorie sono descritte nel 25%
dei pazienti, come la malattia infiammatoria intestinale, anemie
emolitiche autoimmuni e artriti croniche. La manifestazione più frequente è una colite infiammatoria, detta NEMO colitis, che in genere si presenta precocemente nell’infanzia con diarrea intrattabile e
distrofia.
La prognosi è infausta. Le infezioni ricorrenti conducono a frequenti
ospedalizzazioni e allo sviluppo di complicanze gravi. In particolare, le
Tabella IV.
Displasie Ectodermiche Ipoidrotiche.
Disordine
Displasia ectodermica Ipoidrotica 1 (XHED)
Localizzazione
cromosomica
Gene
Trasmissione
Numero OMIM
Xq12-q13.1
EDA
XL-R
#305100
Displasia ectodermica Ipoidrotica 10A, Hair/Nail Type (ECTD10A)
2q11-q13
EDAR
AD
#129490
Displasia ectodermica Ipoidrotica 10B, Hair/Tooth Type (ECTD10B)
2q11-q13
EDAR
AR
#224900
Displasia ectodermica Ipoidrotica 11A, Hair/Tooth Type (ECTD11A)
1q42.2-q43
EDARADD
AD
#614940
Displasia ectodermica Ipoidrotica 11B, Hair/Tooth Type (ECTD11B)
1q42.2-q43
EDARADD
AR
#614941
Displasia ectodermica Ipoidrotica, con Immunodeficienza (HED-ID)
Xq28
NEMO
XL-R
#300291
Displasia ectodermica Ipoidrotica con Immunodeficienza,
Osteopetrosi e Linfedema (OL-EDA-ID)
Xq28
NEMO
XL-R
#300301
Displasia ectodermica Anidrotica, con difetto T cellulare
14q13
NFKBIA
AD
#612132
203
E. Cirillo et al.
Figura 1.
Pathway dell’ectodisplasina (EDA).
Il clivaggio di EDA dà origine ad una forma secreta in grado di interagire con il suo recettore. Il signaling prende origine dall’interazione sulla superficie delle cellule ectodermiche tra l’EDA e il suo recettore EDAR. Il legame EDA-EDAR provoca un riarrangiamento dei domini citosplasmatici
C-terminali del recettore, che recluta l’adattatore EDAR-associated death domain protein (EDARADD) ed altri elementi di trasduzione intracellulari,
come TRAF6, TAB2 e TAK1. Questi a loro volta reclutano ed attivano l’NF-kB Essential Modulator (NEMO) che, insieme alle chinasi di Ikβ 1 e 2
(IKK1 e IKK2), forma un complesso che fosforila l’IkBα, inviandolo alla ubiquitinizzazione e, quindi, alla degrazione proteasomica. L’NF-kB, privo
così del suo inibitore, può migrare nel nucleo, dove stimola la trascrizione di geni bersaglio, come Shh, BMP, LTβ e madcam1, importanti per la
morfogenesi di cute e annessi cutanei.
infezioni dell’apparato respiratorio possono determinare l’insorgenza
di bronchiectasie e malattia polmonare cronica. La patologia infettiva
ed infiammatoria intestinale può portare diarrea intrattabile e grave
deficit della crescita corporea. La mortalità infantile è del 50%.
La sindrome Nude/SCID umana è una grave immunodeficienza
combinata con predominante compromissione delle cellule T, caratterizzata da alopecia congenita, estesa a ciglia e sopracciglia e
distrofia ungueale ereditata come disordine autosomico recessivo
(Pignata et al., 1996). Tale sindrome è causata da mutazioni nel gene
FOXN1 situato sul cromosoma 17, che anche nell’uomo codifica per
il fattore di trascrizione winged-helix espresso selettivamente nelle
cellule epiteliali della pelle e del timo, dove regola l’equilibrio tra
crescita e differenziazione (Fig. 2). Dal punto di vista immunologico,
i pazienti mostrano un difetto T selettivo testimoniato dall’assenza
di risposta proliferativa associata ad un grave blocco nel differenziamento delle cellule T. In particolare, il fenotipo immunologico è
caratterizzato da una drastica riduzione delle cellule CD3+, CD4+,
CD8+ e dall’assenza di cellule naive CD4+CD45RA+. È interessante
notare che in tutti i pazienti descritti i linfociti B ed NK sono in numero normale. FOXN1 nell’uomo svolge un ruolo cruciale negli stadi
precoci dell’ontogenesi T cellulare prenatale. Tuttavia, l’identificazione di un limitato numero di cellule CD8+ suggerisce un’origine
extratimica di tali cellule ed implica l’esistenza di un meccanismo di
linfopoiesi FOXN1-indipendente. Studi su modelli animali documentano l’esistenza di cellule T in grado di differenziare in siti extratimici, quali fegato e intestino. L’importanza di FOXN1 nello sviluppo di
204
cute ed annessi è suggerita dall’evidenza in soggetti eterozigoti di
alterazioni riscontrate a livello dei peli e delle unghie (Auricchio et
al., 2005). La più frequente alterazione fenotipica delle unghie è la
Figura 2.
Geni che regolano e che sono regolati da FOXN1.
L’espressione di FOXN1 è regolata dal segnale mediato dalle proteine
wingless (Wnt), sonic hedgehog (Shh) e bone morphogenetic protein
(BMP). I geni regolati da FOXN1 includono i ligandi di Notch, Delta like
ligand- (DLL-)1 e DLL-4, le chemochine CCL25 e CXCL12 ed il fibroblast growth factor receptor (FGFR).
Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo
Figura 3.
Caratteristiche cutanee del fenotipo umano Nude/SCID.
A Alopecia. Pattern di distrofia ungueale: B leuconichia, C coilonichia e
D distrofia canaliforme.
coilonichia (“unghia a cucchiaio”), caratterizzata da una superficie
concava e dalle estremità del letto ungueale rialzate, associate ad
un notevole assottigliamento del letto ungueale stesso. Alterazioni
meno frequenti, sono la distrofia canaliforme e la scanalatura trasversa delle unghie (Beau line). L’alterazione fenotipica più specifica
è la leuconichia, caratterizzata da un assetto tipicamente arciforme
somigliante ad una mezza luna che coinvolge la parte prossimale
del letto ungueale (Auricchio et al., 2005) (Fig. 3).
poraneamente un altro gruppo (Van de Veerdonk et al., 2011) ha
evidenziato una terza anomalia genetica, trasmessa come carattere
AD, a carico del gene STAT1, la cui manifestazione clinica più caratteristica è appunto la CMC. Differentemente dalla forma AR associata ad aumentata suscettibilità alle micobatteriosi e alle infezioni
virali, questa mutazione ha un effetto gain of function della proteina.
Tale effetto si traduce in un’aumentata attivazione di STAT1 a livello
nucleare con conseguente shift della risposta immunitaria verso la
produzione di citochine Th17-inibenti (Liu et al., 2011). Tali evidenze
sottolineano ulteriormente l’importanza della IL-17 nella difesa contro Candida albicans. Inoltre, sono state recentemente identificate
mutazioni in omozigosi nei geni codificanti per le molecole DECTIN1
o C-type lectin associated 7 member A (CLEC7A) e caspase recruitment domain-containing protein 9 (CARD9) che sottendono un fenotipo clinico sovrapponibile alle precedenti forme essendo associate
a una maggiore suscettibilità alla CMC in bambini altrimenti sani
(Ferwerda et al., 2009; LeibundGut-Landmann et al., 2007).
DECTIN1 è una proteina localizzata sulla superficie cellulare di macrofagi, cellule dendritiche e neutrofili dove, tramite la formazione
della cosiddetta sinapsi fagocitica in seguito al contatto con il micete, è coinvolta nel riconoscimento della Candida (Goodridge et
al., 2011). La stimolazione di DECTIN1 determina l’attivazione di un
pathway di signaling intracellulare nel quale è coinvolta la proteina
CARD9, con sintesi di una serie di chemochine e citochine (TNF-α,
IL-2, IL-6,IL-10) induttrici della risposta immunitaria antifungina
Th17 (LeibundGut-Landmann et al., 2007) (Fig. 4).
La CMC oltre che isolata, può manifestarsi nel contesto di altre immunodeficienze ben definite sia dal punto di vista clinico che genetico e del
La candidiasi persistente
Dal punto di vista clinico, le alterazioni del sistema immunitario sono
state da sempre associate ad aumentata suscettibilità dei pazienti
affetti da IDP a contrarre infezioni gravi, non selettive, frequentemente a localizzazione multipla e talvolta sostenute da germi opportunistici o non comuni. Tra queste un ruolo di primo piano è stato
rappresentato dalle infezioni da miceti e, tra questi, da Candida. In
particolare, Candida albicans, un micete commensale facente parte
della normale flora del nostro organismo, rappresenta il microrganismo opportunista più frequentemente responsabile nei soggetti con
IDP sia di infezioni ricorrenti e persistenti a carico di cute e mucose,
la cosiddetta candidiasi mucocutanea persistente (CMC), che di infezioni sistemiche invasive spesso fatali.
Pertanto la CMC, una volta escluse le più frequenti condizioni sottese
all’aumentata suscettibilità alla candida (diabete mellito, trattamenti
antibiotici prolungati e immunodepressione secondaria atrattamenti
chemioterapici e steroidei, infezione da HIV) deve essere considerata un importante campanello di allarme di immunodeficienza.
Negli ultimi tempi, la CMC è stata oggetto di notevole interesse
scientifico, che ha portato alla identificazione di numerose e distinte
alterazioni molecolari associate. In particolare un ruolo patogeneticamente rilevante sembra rivestito dell’alterazione della risposta
immunitaria mediata dai linfociti Th17 e dalle interleuchine 17 e 22
da essi prodotte, cruciali nella difesa mucocutanea contro le diverse
specie di Candida.
Nel 2011 Puel e collaboratori hanno identificato due difetti genetici
responsabili di CMC isolata, in assenza di altre infezioni o manifestazioni autoimmuni, il deficit di IL-17F a trasmissione autosomica dominante e il deficit della catena a del recettore per l’IL-17 (IL17RA),
a trasmissione autosomico-recessiva (Puel et al., 2011). Contem-
Figura 4.
Pathways di signaling coinvolti nel riconoscimento di Candida albicans
e nello sviluppo dei linfociti Th17.
Il legame della Candida ai recettori DECTIN1 e DECTIN2 presenti sulla
superficie cellulare delle cellule dendritiche attiva una cascata intracellulare che coinvolge alcune proteine, tra cui le proteine Syk, CARD9,
BCL10, MALT1, come illustrato in figura. Tali proteine formano un
complesso che determina l’attivazione dei fattori di trascrizione, tra cui
NF-kB, che svolge un ruolo principale nella induzione della sintesi di
citochine (IL-6, IL-2, TNFa, IL-10, Il-23) coinvolte nella differenziazione
dei linfociti T naive in linfociti Th17. Il differenziamento cellulare richiede
l’attivazione del fattore di trascrizione STAT3, che induce l’espressione
di RORγT e RORα. I linfociti Th17 esplicano la loro funzione attraverso
la produzione di IL-17F, IL-17A e IL-23.
205
E. Cirillo et al.
Tabella V.
Immunodeficienze primitive associate a candidiasi mucocutanea cronica.
Disordine
SCID
Ereditarietà
Difetto genetico
Quadro clinico
AD, AR, X-LINKED
IL2RG, X-linked; JAK3, AR;
IL7Rα, AR; CD3δ,AR; CD3ε, AR;
RAG1, AR; RAG2,AR; ARTEMIS,
AR; CD45,AR
Infezioni batteriche, virali, fungine
severe e ricorrenti, arresto di crescita,
dermatite eczematosa
APECED
AR
AIRE
CMC, ipoparatiroidismo, morbo di
Addison, autoimmunità multipla
Alti livelli di IgE, polmoniti ricorrenti
con pneumatoceli, alterazioni
scheletriche, note dismorfiche
AD-HIES
AD
STAT3
Deficit di DOCK8
AR
DOCK8
Deficit di TYK2
AR
TYK2
Deficit di IL-12 e 1L-13
AR
IL12B; IL12RB1; IL13
Suscettibilità alle infezioni da
micobatteri e Salmonella
AD,AR
Deficit di IL-17F e IL-17RA
IL17F,AD; IL17RA,AR
CMC
Deficit di DECTIN1
AR
DECTIN1
CMC
Deficit di CARD9
AR
CARD9
CMC
GOF di STAT1
AD
STAT1
CMC
CMC: candidiasi mucocutanea cronica; GOF: gain of function
meccanismo molecolare sotteso (Tab. V). L’associazione della CMC con
poliendocrinopatia autoimmune, alopecia e distrofia ectodermica è suggestiva della sindrome APECED, caratterizzata da mutazioni a carico del
gene AIRE. In questa rara sindrome a trasmissione AR, la CMC fa parte
della classica triade di esordio insieme con l’ipoparatiroidismo e l’insufficienza corticosurrenalica. Studi recenti hanno evidenziato nel siero dei
pazienti affetti autoanticorpi diretti contro le IL-17A e IL-17F, principali
citochine coinvolte nel differenziamento dei linfociti Th17 (Kisand et al.,
2010). La conseguente alterazione della risposta immune Th17-mediata
può giustificare la CMC nella sindrome APECED.
Inoltre non va dimenticato che mutazioni a carico del gene STAT3 sottendono la sindrome da Iper IgE, immunodeficienza in cui la CMC si
associa ad alti livelli di IgE (>2000 U/L), polmoniti ricorrenti complicate
da pneumatoceli, ascessi, anomalie scheletriche e note dismorfiche.
Infine, proprio in considerazione della cruciale funzione dei linfociti
Th-17 a livello della cute e delle mucose, anche i pazienti affetti da immunodeficienze caratterizzate da un’importante compromissione del
compartimento T cellulare, come ad es. SCID e Sindrome da delezione
della regione q11 del cromosoma 22 (del22q11) tendono a presentare
una maggiore frequenza di candidiasi orale e mucosale (Conti et al.,
2010). È fondamentale, quindi, considerare e tenere sempre alto il
sospetto anche per le forme classiche di immunodeficienza.
Conclusioni
Grazie all’identificazione di nuovi fenotipi e all’utilizzo di tecniche di
diagnostica molecolare d’avanguardia, il campo delle immunodeficienze ha subito una notevole e rapida evoluzione. Basti pensare che
dall’ultima e recente classificazione dell’Unione Internazionale delle
Società di Immunologia (IUIS), pubblicata alla fine dell’anno 2011,
sono state descritte in letteratura altre 19 immunodeficienze di cui è
stata identificato il gene causativo (Parvaneh et al., 2013).
L’identificazione di fenotipi nuovi, caratterizzati da infezioni selettive in bambini altrimenti sani, esordio tardivo, autoimmunità, lesioni
granulomatose, ha notevolmente ampliato il range dei segni clinici di
presentazione e radicalmente modificato il paradigma di immunodeficienza primitiva. è necessario quindi valorizzare il fenotipo clinico per
elaborare algoritmi diagnostici accessibili anche ai non specialisti del
settore, per favorire diagnosi precoce e trattamento appropriato.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
Le immunodeficienze primitive sono disordini immunologici severi ad esordio precoce spesso fatali nel primi anni di vita. Infezioni ricorrenti a decorso
severo, sostenute da germi rari e scarsamente responsive al trattamento antibiotico sono la caratteristica clinica principale dei pazienti affetti da IDP.
Un sistema immunitario difettivo non è in grado di riconoscere antigeni “Self”, determinando quadri di autoimmunità
Cosa sappiamo adesso
I quadri di presentazione delle IDP si sono ampiamente diversificati, includendo molte forme ad esordio tardivo e con fenotipo clinico “mild”. Infezioni
ricorrenti e persistenti da germi comuni, es. Candida spp, e sostenute selettivamente da un singolo agente possono rappresentare una spia di immunodeficienza. L’identificazione di nuovi difetti genetici per le IDP note e di nuovi fenotipi clinici di IDP ha ampliato il numero dei campanelli di allarme
Per la pratica clinica
Bisogna porre grande attenzione ai quadri clinici caratterizzati da infezioni singole persistenti o ricorrenti sostenute dallo stesso patogeno, lesioni
granulomatose, alterazioni cutanee e manifestazioni autoimmuni multiple, non altrimenti spiegabili. I bambini che presentano i campanelli d’allarme
discussi in questa revisione, richiedono una valutazione immunologica, sia a livello funzionale che molecolare nel fondato sospetto di immunodeficienza
206
Immunodeficienze primitive: cosa c’è di nuovo
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dovuta a mutazioni del gene DOCK8.
Corrispondenza
Claudio Pignata, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali – Sezione di Pediatria, Unità Operativa Complessa di Immunologia pediatrica,
Università degli Studi “Federico II”, Via Sergio Pansini, 5 – 80131 Napoli. Tel.: +39 081 7464340. Fax: +39 081 5451278. E-mail: [email protected]
207
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 208-214
immunologia pediatrica
Screening neonatale delle immunodeficienze
congenite: stato attuale e prospettive
Chiara Azzari 1,2, Roberta Cupone 1,2, Elisa Giocaliere 3,4, Clementina Canessa 1,2, Francesca
Lippi1,2, Giancarlo la Marca 3,4
Divisione di Immunologia e Allergia, Ospedale pediatrico universitario Anna Meyer, Firenze
Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze
3
Laboratorio di Screening neonatale, Biochimica e Farmacologia, Unità e laboratorio di Neurologia pediatrica,
Dipartimento di Neuroscienze, Ospedale pediatrico universitario Anna Meyer, Firenze
4
Dipartimento di Neuroscienze, Psicologia, Farmacologia e Salute del Bambino, Università di Firenze
1
2
Riassunto
Gli screening neonatali sono procedure diagnostiche che hanno come scopo quello di evidenziare patologie in fase presintomatica, con notevoli vantaggi
sia per il paziente (in termini di salute), che per la società (in termini di risparmi di risorse).
In molti paesi viene effettuato screening neonatale per numerosi errori congeniti del metabolismo (ECM); in alcuni di essi, con l’impiego della spettrometria
di massa (MS), si può ottenere la diagnosi di oltre 40 ECM fra difetti della beta-ossidazione degli acidi grassi, amminoacidopatie, acidurie organiche e difetti
del ciclo dell’urea.
Nel 2010 il Secretary’s Advisory Committee for Heritable Disorders in Newborns and Children (ACHDNC) ha raccomandato l’estensione dello screening
neonatale anche alle immunodeficienze severe combinate (SCID). È noto, infatti, che il bambino con immunodeficienza congenita nasce sano, ma va rapidamente incontro a gravi infezioni che possono portare a danni permanenti o addirittura alla morte. Una diagnosi precoce ottenuta mediante screening
neonatale consente di ottenere il massimo risultato terapeutico.
Summary
Neonatal screenings are diagnostic procedures made to identify pre-symptomatic diseases. Such procedures lead to benefits in terms of both health for
the patient and resources for society. Several countries have adopted neonatal screenings for many congenital metabolic diseases (CMD), often using
tandem mass spectrometry (MS). This allows the diagnosis of over 40 different CMD such as defects of fatty acid beta-oxidation, amino acids and urea
cicle disorders. In 2010 the Secretary’s Advisory Committee for Heritable Disorders in Newborns and Children (ACHDNC) recommended to extend the use
of neonatal screenings to detect Severe Combined Immunodeficiencies (SCID). It’s a known fact that immunodeficient babies are born healthy and later
suffer severe infections which can lead to permanent damages or even death. Early diagnosis through newborn screening would allow to perform the most
effective treatment.
Parole chiave: immunodeficienze severe combinate, screening neonatale, TRECs; KRECs; Spettrometria di massa
Key words: severe combined immunodeficiency, neonatal screening, TRECs; KRECs, tandem mass spettrometry
Metodologia della ricerca bibliografica
Perché lo screening?
La ricerca degli articoli rilevanti lo Screening Neonatale delle Immunodeficienze Severe Combinate è stata effettuata sulla banca
bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca Pubmed
e come parole chiave: “Neonatal Screening, SCID, Tandem mass,
TREC, KREC, RT-PCR”.
Non tutte le patologie possono essere sottoposte a screening neonatale. Perché ciò possa avvenire e sia vantaggioso per la comunità e
per il paziente è infatti necessario che la patologia suddetta abbia un
elevato tasso di morbilità e mortalità e un’incidenza notevole nella
popolazione, che venga individuato un marcatore altamente specifico per la patologia stessa e che sia disponibile una terapia in grado di modificarne il decorso clinico dopo aver effettuato la diagnosi
precoce. Le SCID, pur essendo comunemente considerate patologie
rare, in realtà rispondono a questi requisiti. Diversi studi in letteratura hanno, infatti, dimostrato come il trattamento precoce delle SCID
possa favorevolmente modificarne l’andamento altrimenti fatale: un
trapianto di midollo osseo o di cellule staminali, effettuati nel corso
dei primi 3,5 mesi di vita del paziente con SCID, ossia prima che
possa sviluppare infezioni gravi, garantisce un tasso di sopravvivenza intorno al 95%. Di contro, per quei pazienti sottoposti a trapianto
più tardivamente, il tasso di sopravvivenza scende al 60-70% (Buckley, 2004; Gaspar et al., 2004; Puck, 2007). In merito all’incidenza
Le immunodeficienze severe combinate (SCID)
Le SCID sono condizioni cliniche ereditarie che si manifestano con
un grave deficit del sistema immunitario, ad esordio nella maggior
parte dei casi precoce nei primi mesi dopo la nascita e decorso invariabilmente fatale, se non trattate, solitamente entro i primi due anni
di vita. I neonati affetti da SCID sono perfettamente sani alla nascita,
ma precocemente si ammalano di gravi infezioni a causa del difetto numerico o funzionale dei linfociti T e/o B. È prioritario, dunque,
riconoscere le SCID prima che esse si manifestino con gravi o fatali
episodi infettivi, in modo da poter intervenire tempestivamente.
208
Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive
nella popolazione, va precisato che le SCID sono patologie la cui
reale frequenza è probabilmente sottostimata a seguito della mancanza di un metodo diagnostico valido che ne permettesse, negli
anni passati, l’identificazione. Non è inverosimile che un numero
imprecisato di piccoli pazienti deceduti precocemente a seguito di
infezioni gravi fosse affetto da SCID non diagnosticata. Un calcolo
approssimativo dell’incidenza cumulativa di SCID nella popolazione si aggira intorno ad 1 caso su 66.000 nuovi nati (Backer et al.,
2009). Si rende necessaria, pertanto, una metodica di screening dal
basso costo e che possa indagare la presenza di diverse patologie
causa di immunodeficienza severa utilizzando un unico test.
I primi tentativi di screening
Uno dei primi metodi proposti nel tentativo di identificare precocemente un’immunodeficienza in tutti i nuovi nati era rappresentato
dall’esecuzione di un emocromo. Sebbene si tratti di un esame dal
costo contenuto e che non richiede una specifica formazione del
personale, esso non si è dimostrato sufficientemente sensibile e
specifico nell’identificazione delle SCID. In molte SCID non è presente alla nascita la linfopenia che sarebbe individuabile con l’emocromo e, di contro, la presenza di una linfopenia non è necessariamente
sinonimo di SCID. Uno studio effettuato da Lipstein et al. ha tentato
di individuare il cut-off del valore di globuli bianchi (GB) che potesse
garantire una sufficiente sensibilità e specificità del test: considerando un cut-off di 2800 GB/mm3, l’emocromo avrebbe una sensibilità dell’86% e una specificità del 94% nell’individuare una SCID; alzando il cut-off a 5000 GB/mm3 la sensibilità salirebbe al 100%, con
una specificità di appena il 56% e, dunque, un alto numero di falsi
positivi (Lipstein et al., 2010). Inoltre, effettuare un prelievo venoso
in tutti i nuovi nati rappresenterebbe una procedura non routinaria.
Un ulteriore tentativo di screening delle SCID, anch’esso di difficile
attuazione, è dato dal dosaggio di IL-7 su spot neonatale (DBS), dal
momento che tale citochina è normalmente elevata nei pazienti con
basso numero di linfociti T. La metodica necessita però di ulteriore
conferma con altri test più specifici e, pertanto, raggiungerebbe costi troppo elevati.
T cell receptor excision circles (TREC)
Negli USA è stato messo a punto e validato un metodo basato su una
tecnica di amplificazione genica capace di effettuare un dosaggio
quantitativo dei T-cell receptor excision circles (TREC), piccoli frammenti di DNA normalmente prodotti da cellule T nel timo durante la
differenziazione del T cell receptor (Chan et al., 2005; Hazenberg et
al., 2001). Durante questa maturazione, tutto il DNA relativo ai loci
V, D e J non utilizzato, viene fisiologicamente espulso. Questo fenomeno, che viene definito ricombinazione, dà luogo alla formazione,
nelle cellule T, di un prodotto finito, che è il TCR (con i suoi segmenti
VDJ), e ad una grande quantità di DNA “avanzato” che resta nella
cellula. I frammenti di DNA che vengono generati durante la maturazione dei linfociti T e la formazione del recettore specifico TCR,
si aggregano a costituire strutture circolari definite TREC (Fig. 1). I
TREC non si moltiplicano durante la divisione cellulare cosicché un
dosaggio quantitativo di questi elementi dà un’idea quantitativa sul
numero delle cellule T che sono andate incontro a maturazione; è
utile quindi per individuare la presenza di recenti emigranti timici,
cioè di cellule appena “uscite” dal timo. Un quantitativo normale di
TREC è presente solo quando il processo di ricombinazione avviene
normalmente, mentre quando la ricombinazione non avviene cor-
Figura 1.
Rappresentazione schematica della produzione dei TREC durante la ricombinazione VDJ.
Il recettore VDJ del linfocita T si forma mediante l’unione di un tratto V, un
tratto D e un tratto J. Il DNA umano contiene numerosi tratti V (V1,V2,V3..),
numerosi D e numerosi J. Tra tutti quelli contenuti nel genoma umano,
soltanto un V, un D e un J vengono casualmente selezionati a formare il
recettore. Il DNA eccedente (quello che conteneva i tratti genomici codificanti per tutti gli altri V, D e J non selezionati) viene espulso e va a formare
dei piccoli frammenti di DNA circolare, detti appunto T cell receptor excision circles (il cui acronimo è TREC).
rettamente o quando esiste un grave difetto numerico dei linfociti T la quantità di TREC risulterà molto ridotta. Nonostante le SCID
siano causate da mutazioni in molti geni diversi, la maggior parte
dei pazienti con SCID ha un ridotto numero di cellule T funzionali e
quindi un basso numero di TREC (Notarangelo, 2010). Per tale motivo, l’analisi quantitativa dei TREC è stata proposta come metodo di
screening neonatale delle SCID. Il primo stato americano ad avviare un progetto pilota di screening neonatale delle SCID mediante il
dosaggio dei TREC è stato il Wisconsin. Il progetto, attuato grazie al
sostegno della Jeffrey Modell Foundation, del Children’s Hospital del
Wisconsin e del Wisconsin Laboratory of Hygiene, ha permesso di
analizzare la presenza dei TREC direttamente sullo spot neonatale
(DBS) di 207,696 nuovi nati da gennaio 2008 a dicembre 2010. I
TREC vengono dosati su DBS (Fig. 2) mediante una tecnica di biologia molecolare, Real-time PCR (Verbsky et al., 2012).
La Real-time PCR supera molti dei limiti esposti da altri test di biologia molecolare: è una metodica di rapida esecuzione in quanto
consente di analizzare l’avvenuta amplificazione del DNA specifico
ricercato nel corso della stessa reazione, senza attenderne il termine; ha un’elevata sensibilità rilevando anche meno di 5 copie
di sequenza per campione ed elevatissima specificità; inoltre può
utilizzare contemporaneamente diversi fluorocromi per marcare le
sonde nel corso di una stessa reazione, permettendo così di identificare contemporaneamente più geni. Nell’analisi dei TREC, il DNA
necessario per la RT-PCR può essere ottenuto con estrazione da
DBS; questo approccio è molto pratico e abbatte notevolmente i costi. Infatti si possono utilizzare, per l’analisi quantitativa dei TRECs gli
stessi spot neonatali comunemente effettuati su tutti i nuovi nati per
209
C. Azzari et al.
Figura 2.
Estrazione, amplificazione e analisi dei TRECs da spot neonatali mediante RT-PCR.
La procedura di quantificazione dei TREC mediante Realtime PCR è estremamente semplice e rapida. Si parte da uno spot del diametro di 3,2 mm,
corrispondente a circa 3,4 µL di sangue, si estrae il DNA e si amplifica con sonde e primers specifici.
lo screening di patologie quali la fenilchetonuria (PKU), l’ipotiroidismo congenito e la fibrosi cistica. Il metodo di raccolta del campione
è dunque lo stesso già utilizzato per tutti i neonati e le procedure
di spedizione ai centri di riferimento sono ben collaudate. Questo
riduce il rischio di mancata raccolta o perdita di campioni da parte
dei reparti di neonatologia.
Accanto alla diagnosi di SCID, la riduzione dei TRECs può essere
talvolta evidenziata anche in pazienti con forme intermedie di SCID
(“leaky” SCID), nei pazienti con engrafment T materno (Morinishi et
al., 2009) e nei pazienti con sindromi talvolta associate a immunodeficienza, quali la Sindrome di Di George.
Il metodo presenta, tuttavia, alcune mancanze: innanzitutto non può
evidenziare i difetti isolati dei linfociti B, come la agammaglobulinemia congenita (XLA o malattia di Bruton) che possono manifestarsi
già nel primo anno di vita con una sintomatologia di gravità e conseguenze paragonabili a quelle delle SCID con difetto di T, inoltre è
un metodo dal costo non trascurabile (circa 6-8$ /test) e presenta
una specificità e sensibilità buone ma non del tutto soddisfacenti.
Per quanto riguarda la specificità, è stato dimostrato che la ricerca
dei TREC con RT-PCR può dare falsi positivi in bambini prematuri, in
neonati i corso di sepsi o anche in pazienti con linfopenie transitorie
non associate ad immunodeficienza (Mallott et al., 2013). In merito,
poi, alla sensibilità, il metodo non è risultato in grado di diagnosticare alla nascita tutti i casi di SCID, e può considerare falsamente
negativi alcuni casi di SCID sindromiche, come l’immunodeficienza
associata alla malattia veno-occlusiva, alcuni difetti di adenosina
deaminasi (ADA-SCID) (La Marca et al., 2013) o di purina-nucleoside fosforilasi (PNP-SCID) (Azzari, dati non pubblicati), forme di
SCID caratterizzate da alterazioni di vie metaboliche con accumulo
di metaboliti a monte delle vie compromesse.
La spettrometria di massa
Alla ricerca di un approccio alternativo, in Italia è stato sviluppato e
validato un nuovo metodo basato sulla MS in grado di identificare
due forme di SCID, il difetto di adenosina deaminasi e il difetto di
purina-nucleoside-fosforilasi caratterizzate da profonde alterazioni
metaboliche. Le alterazioni sono già presenti alla nascita e sono caratterizzate, nel caso di ADA-SCID, dall’accumulo di due metaboliti,
l’adenosina e la desossiadenosina e, nel caso di PNP-SCID, di guanosina, inosina e dei loro deossi-derivati. I metaboliti specifici sono
facilmente individuabili negli spot di sangue prelevati alla nascita
(DBS), utilizzando la stessa procedura di MS con cui oggi, nella mag-
210
gior parte dei paesi del mondo, si effettua lo screening neonatale
degli errori congeniti del metabolismo (Azzari et al., 2011).
Dalla fine degli anni ’90 i progressi tecnologici, e in particolare l’utilizzo della spettrometria di massa tandem (MS), che consente l’analisi di più metaboliti su un’unica goccia di sangue, hanno portato
a modificare il concetto di screening, da un sistema con un test per
malattia (come il test di Guthrie effettuato in origine per la diagnosi
di PKU) ad un sistema con un test per molte malattie (screening in
MS).
Nella MS, con la medesima goccia di sangue, vengono contemporaneamente analizzati e quantificati vari metaboliti (acilcarnitine,
amminoacidi), marcatori che si trovano alterati in oltre 40 malattie
metaboliche (acidurie organiche, difetti della β-ossidazione degli
acidi grassi, amminoacidopatie e difetti del ciclo dell’urea) (La Marca et al., 2008).
Queste patologie, rare singolarmente, mostrano elevata frequenza
come gruppo e sono suscettibili di trattamento. Se non diagnosticate
possono portare rapidamente ad exitus o a gravi sequele neurologiche. Il prelievo di sangue, sotto forma di DBS, è raccolto tra le 48 e
le 72 ore di vita.
Ad ogni neonato viene punto il tallone, e alcune gocce di sangue
vengono raccolte su carta bibula Whatmann 903, essiccate, quotidianamente spedite al laboratorio di screening tramite corriere e
analizzate entro due giorni dalla raccolta. La puntura del tallone avviene abitualmente sulla porzione mediale o su quella laterale del
tallone stesso, utilizzando una lancetta “pungidito”. La disinfezione
della cute avviene mediante alcool isopropilico al 70%. Occorre lasciare asciugare completamente la cute prima di pungere il tallone,
ed eliminare con garza sterile la prima goccia di sangue, al fine di
evitare commistioni di sangue e disinfettante, che possono interferire con le determinazioni analitiche.
Standard chimici e marcati
Gli standard marcati con isotopi stabili sono disponibili commercialmente e sono utilizzati per l’analisi quantitativa. La soluzione madre
viene preparata in metanolo per le acilcarnitine e in una miscela
50:50 v/v acqua/metanolo per gli amminoacidi. Le concentrazioni
degli standard sono comprese nell’intervallo 500-2500 μmol/L per
gli aminoacidi e fra 7,6-152 μmol/L per le acilcarnitine. Le concentrazioni di succinilacetone, adenosina, 2-deossiadenosina, guanosina, deossi-guanosina, inosina e deossi-inosina sono 10 μmol/L.
Le soluzioni giornaliere vengono preparate per diluizione 1:200 v/v
Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive
dalle soluzioni madri usando una miscela acqua/metanolo 10:90 v/v.
Tutti i solventi utilizzati sono di grado HPLC.
Preparazione del campione e analisi MS/MS
Uno spot del diametro di 3,2 mm, corrispondente a circa 3,4 µL di sangue viene prelevato dal DBS ed inserito in una piastra a 96 pozzetti.
Duecento μl della soluzione di metanolo contenente gli standard
marcati e 100µL di una soluzione acquosa di idrazina 3mmol/L vengono aggiunti ai campioni.
La piastra contenente i campioni viene incubata a 37°C per 25 minuti sotto agitazione per ottenere una completa estrazione degli
analiti di interesse dallo spot di sangue.
Al termine dell’estrazione, il surnatante viene prelevato e trasferito
in una nuova piastra e quindi essiccato sotto corrente di azoto a circa 50°C. I campioni vengono risospesi con 300µL di una soluzione
70:30 v/v acetonitrile-H2O (0,1% acido formico).
Una volta preparato, il campione è pronto per essere analizzato con
uno strumento HPLC-MS/MS.
Le analisi di routine vengono eseguite su uno spettrometro di massa
a triplo quadrupolo, utilizzando come modalità di scansione in ionizzazione positiva il neutral loss scan per gli amminoacidi, il precursor
ion scan per le acilcarnitine e il multiple reaction monitoring (MRM)
per altri metaboliti di interesse, tra cui il succinilacetone e i nucleosidi purinici.
La diagnosi precoce mediante screening neonatale consente una
terapia, in fase presintomatica. Attualmente esiste ampia variabilità
nel gruppo di difetti metabolici ricercati su spot neonatale nei diversi
paesi. In Italia, dal 1992, lo screening neonatale include esclusivamente la ricerca della Fenilchetonuria (PKU), dell’ipotiroidismo congenito e della Fibrosi Cistica.
In anticipo rispetto alle altre regioni italiane, dal 2004 la Toscana si
è adeguata ai protocolli internazionali sottoponendo tutti i nuovi nati
a screening su DBS mediante MS per più di 40 patologie. Inoltre, da
gennaio 2011, il pannello di patologie sottoposte a screening neonatale in MS è stato allargato alle immunodeficienze causate da deficit
dell’enzima Adenosina Deaminasi (ADA) e di Purina-nucleoside Fosforilasi (PNP). I primi 18 mesi di esperienza toscana hanno permesso di individuare un paziente ADA, suggerendo così che l’incidenza
della malattia è largamente sottostimata.
L’ADA-SCID è una delle più frequenti SCID (10-25%) e nella sua forma neonatale (early onset) porta rapidamente a morte per infezioni
gravi. Esistono anche forme più tardive di questa immunodeficienza (delayed and late onset) che si manifestano con severe infezioni
ricorrenti, autoimmunità, danno neurologico; anche questi fenotipi
possono portare a danni permanenti e a morte. Proprio per la loro
caratteristica di progressività e quindi per il fatto che il danno timico
può non essere completo alla nascita, le forme che non hanno esordio neonatale sfuggono al test basato su dosaggio di TREC mentre
vengono individuate mediante il test in MS (La Marca et al., 2008;
Azzari et al., 2011). I livelli dei metaboliti adenosina e desossiadenosina, marcatori del difetto di ADA sono, infatti, correlati alla mutazione genica che ha causato il difetto, con la conseguenza che i loro
livelli sono già elevati alla nascita e restano stabilmente alterati nel
corso della vita. La differenza tra i valori che si trovano nei pazienti
con ADA-SCID e nei soggetti sani è estremamente ampia (Fig. 3),
tanto che non esiste overlapping nei range tra sano e malato. La
conseguenza di questo fenomeno è un’altissima specificità e sensibilità del test.
In maniera analoga, il metodo MS è in grado di identificare il difetto
di PNP dosando i metaboliti specifici Guanosina ed Inosina e i loro
Figura 3.
Confronto tra i livelli di adenosina e 2-deossiadenosina dosati su DBS con MS in paziente sano e affetto da ADA-SCID.
Nel paziente sano i livelli di adenosina sono molto bassi e la 2-desossiadenosina è addirittura assente. Al contrario, nel paziente con ADA-SCID
i livelli dei due metaboliti possono essere anche 1000 volte più alti dell’atteso. Non esiste overlapping tra i livelli trovati in soggetti sani e i livelli
trovati nei pazienti con ADA-SCID, per cui il test non presenta falsi positivi. I metaboliti sono già presenti alla nascita, anche in pazienti con forme
di immunodeficienza da difetto di ADA ad esordio tardivo; la tandem massa è quindi il metodo più sensibile per la diagnosi di ADA-SCID.
211
C. Azzari et al.
Tabella I.
Principali differenze tra screening neonatale per immunodeficienze effettuato con tecnologia Realtime per TREC e spettrometria di massa tandem.
Screening con TRECs
Sensibilità
Specificità
Tecnologia utilizzata
Costo per test
Screening con (per ADA-SCID e PNP-SCID)
<100%
100%
per ADA e PNP
Non identifica i casi di difetto di ADA ad esordio tardivo
Non identifica alcune SCID
Identifica tutti i casi di ADA e PNP sia ad esordio precoce
che tardivo
<100%
100%
per ADA e PNP
Valuta come casi positivi anche linfopenie T non associate
ad immunodeficienza
Non sono stati descritti falsi positivi
Realtime PCR
Spettrometria di massa
Tecnologia non in uso routinario nei laboratori di screening
Tecnologia in uso routinario nei laboratori di screening
6€
< 0,05 €
desossiderivati. Il metodo MS ha, per la diagnosi di SCID da difetto
di ADA o PNP, una specificità e una sensibilità molto elevate (ad oggi
entrambe del 100%) e un costo molto contenuto (inferiore a 0.05
€/test). Lo svantaggio di questo metodo sta nel fatto che esso non
riesce ad individuare, al momento, SCID diverse da ADA e PNP. Essendo, però, estremamente poco costoso e molto più sensibile dei
TREC, specialmente nelle forme non neonatali, il metodo MS può essere utilizzato in aggiunta all’uso dei TREC. Inoltre, per il bassissimo
costo di applicazione, il metodo può essere introdotto in tutte quelle
realtà che non dispongono di fondi sufficienti ad uno screening su
base genetica (TREC) (Tab. I).
Lo screening per ADA e PNP-SCID mediante spettrometria di massa tandem potrebbe essere facilmente incluso in un programma di
screening sulla popolazione a causa del suo basso costo e perché
non richiede né la strumentazione extra né tempo extra degli operatori, che già lavorano nei programmi di screening. Il presente metodo è applicabile anche ai neonati prematuri i cui livelli medi di adenosina, guanosina, inosina e dei loro deossi-derivati non differiscono
da quelli osservati nei neonati a termine. Nessuno dei pazienti ADA o
PNP analizzati fino ad ora è nato prematuro, ma è ben noto che elevati livelli di metaboliti tossici sono già presenti durante la vita fetale.
Il metodo descritto non sembra essere influenzato da stoccaggio
a lungo termine o condizione di cattiva conservazione. I metaboliti
assorbiti sul cartoncino di Guthrie (DBS) prelevato alla nascita sono
molto stabili, tanto che possono essere testati anche dopo anni (Azzari et al., 2011) permettendo di individuare in modo inequivocabile
un paziente ADA o PNP-SCID nato molti anni prima.
Figura 4.
Schematica rappresentazione della produzione dei KREC (modificata da van Zelm MC et al., JEM, 2007).
212
Screening neonatale delle immunodeficienze congenite: stato attuale e prospettive
Tabella II.
Principali vantaggi e limiti dei metodi di screening neonatale sperimentati fino ad oggi.
Emocromo
Vantaggi
Basso costo
Dosaggio IL-7
TREC
KREC
Spettrometria di
massa
Effettuabile su spot
neonatale
Effettuabile su spot
neonatale
Effettuabile su spot
neonatale
Effettuabile su spot
neonatale
Individua linfopenia
T, associata o meno a
SCID
Individua la maggior
parte delle SCID con
difetto di T
Individua la maggior
parte delle SCID con
difetto di T e/o B
Specificità 100% su
deficit di ADA e PNP
Sensibilità 100% su
deficit di ADA e PNP
Costo estremamente
basso
Utilizza una tecnologia
già in uso routinario nei
laboratori di screening
Limiti
Bassa specificità;
difficoltà di
impostazione di un
cut-off
Costo elevato
Costo elevato
Costo elevato
Necessaria esecuzione
di prelievo ematico su
tutti i nuovi nati
Scarsa specificità
(necessità di test di
conferma mediante
esami quali TREC)
Non identifica i difetti di
ADA ad esordio tardivo,
né alcune SCID
Non identifica i difetti di
ADA ad esordio tardivo,
né alcune SCID
Utilizza una tecnologia
non in uso nei
laboratori di screening
Utilizza una tecnologia
non in uso nei
laboratori di screening
Utilizza una tecnologia
non in uso nei
laboratori di screening
Utilizza una tecnologia
non in uso nei
laboratori di screening
Individua linfopenie
non associate ad
immunodeficienza
Deve essere effettuato
insieme con il test
TREC per raggiungere
sensibilità e specificità
adeguate
Kappa-deleting recombination excision circles
(KREC)
Analogamente a quanto avviene nella maturazione del TCR nelle
cellule T, anche nelle cellule B si verifica una ricombinazione che
estromette piccole parti di DNA “avanzato”. Con procedura simile
a quella dei TREC, che utilizza lo stesso metodo di amplificazione
genica in Realtime, questi frammenti di DNA, chiamati KREC (Fig. 4)
possono essere individuati e quantizzati, consentendo così di individuare forme di immunodeficienza primitiva con deficit isolato dei B
(Nakagawa et al., 2011).
L’utilizzo dei KREC non deve essere però visto come limitato all’individuazione delle immunodeficienze con difetto isolato di cellule B;
è stato recentemente dimostrato che in alcune forme di SCID con
fenotipo più lieve, può essere alterato anche uno solo dei due test
TREC/KREC. L’utilizzo di entrambi i metodi contemporaneamente
consente di migliorare la sensibilità di diagnosi.
È evidente però che raddoppiare un test genetico già di per sé costoso come quello dei TREC può rappresentare un ulteriore scoglio alla
diffusione dello screening. Per questo motivo sono state introdotte
tecniche di multiplex Realtime PCR, mediante le quali nella stessa
Dati disponibili solo su
difetto di ADA e PNP
provetta viene ricercata con primer e sonde specifiche sia la presenza di TREC che di KREC (Borte et al., 2012). In questo modo il costo
è solo di poco superiore al costo dei TREC da soli.
Resta tuttavia da chiarire quale sia la specificità del metodo KREC e
quella del metodo multiplex (TREC più KREC) quando usati su un’intera popolazione di nuovi nati. Questi dati potranno essere ottenuti
soltanto mediante l’applicazione del metodo ad uno screening di
popolazione. Il passo successivo sarà, per tutti i ricercatori che si
occupano di screening neonatale, quello di armonizzare le procedure in modo da avere risultati paragonabili, tendo conto dei vantaggi e
svantaggi di tutte le tecnologie fino ad oggi utilizzate (Tab. II).
Prospettive future
In conclusione, l’utilizzo di uno screening neonatale per le SCID può
significativamente migliorare l’outcome clinico della patologia e
molti metodi, tra cui l’analisi con amplificazione genica dei TREC e
KREC, o metodi in spettrometria di possono essere utilizzati allo scopo di allargare il più possibile la popolazione sottoponibile a screening con il costo più ridotto possibile.
213
C. Azzari et al.
Bibliografia
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un’elevata sensibilità e specificità.
Baker MW, Grossman WJ, Laessig RH et al. Development of a routine newborn
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** Gli autori hanno effettuato uno studio su quattro pazienti pediatrici affetti da
immunodeficienza severa combinata X-linked, dimostrando l’efficacia e la fattibilità della terapia genica nel ripristinare l’immunità cellulare ed umorale.
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** L’autore riesamina, alla luce dei recenti progressi nell’ambito della biologia
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Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
Le immunodeficienze congenite sono malattie estremamente gravi e spesso mortali già nel primo anno di vita. Inizialmente si credeva che esse fossero
estremamente rare. Nel passato sono stati proposti diversi metodi per la loro diagnosi molto precoce, tra cui il dosaggio di IL7, l’emocromo a tutti i
nuovi nati.
Cosa sappiamo adesso
Oggi sappiamo che la frequenza delle immunodeficienze congenite è grandemente sottostimata e che sono disponibili metodologie basate sulla biologia molecolare o sulla spettrometria di massa, altamente sensibili e specifiche, che consentono di effettuare uno screening di massa per la maggior
parte di esse.
Quali ricadute sulla pratica clinica.
Considerando che esistono terapie risolutive, estremamente efficaci se utilizzate in fase pre-sintomatica, si può prevedere una diffusione sempre
maggiore dello screening neonatale per le immunodeficienze congenite.
Corrispondenza
Chiara Azzari, Immunologia Pediatrica, Università degli Studi di Firenze, Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Viale Pieraccini, 24, 50139
Firenze. [email protected]
214
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 215-224
immunologia pediatrica
Terapia con immunoglobuline: indicazioni,
modalità di somministrazione e meccanismi
d’azione
Alessandro Plebani, Vassilios Lougaris, Annarosa Soresina, Raffaele Badolato
Clinica Pediatrica Università degli Studi di Brescia e Spedali Civili di Brescia
Riassunto
I primi preparati di immunoglobuline sono stati impiegati a partire dal 1952 ed utilizzati come terapia sostitutiva allo stesso modo in cui l’insulina viene
utilizzata nei diabetici. La via di somministrazione inizialmente impiegata (intramuscolare) non consentiva la somministrazione di un volume (ovvero di
quantità di IgG) sufficiente a garantire un controllo soddisfacente degli episodi infettivi, ma questi preparati non potevano essere somministrati per via endovenosa che avrebbe consentito l’infusione di un volume maggiore, perché causavano gravi effetti collaterali. Pertanto un grande sforzo è stato compiuto
per produrre preparazioni sicure ed efficaci da somministrare per via endovenosa, modalità largamente impiegata a partire dai primi anni ’80. A partire dal
2006, la disponibilità di preparati ad hoc e di pompe di infusione tecnicamente avanzate, hanno permesso di rivalutare la via di somministrazione sottocutanea, che in molte nazioni è diventata la via preferenzialmente utilizzata anche per rispondere alle esigenze di una minore medicalizzazione dei pazienti.
A partire dai primi anni ’80 l’osservazione casuale che le immunoglobuline ad alte dosi erano in grado di normalizzare le piastrine nella porpora idiopatica
trombocitopenica ha dato l’avvio al loro impiego come terapia immunomodulante in molte altre malattie autoimmuni e/o infiammatorie. La terapia immunomodulante prevede la somministrazione di un dosaggio di immunoglobuline superiore rispetto a quello della terapia sostitutiva. Ma se vi è consenso sul
dosaggio, non ancora completamente definiti sono i meccanismi che stanno alla base di questa attività immunomodulante e in questo articolo ne vengono
discussi quelli ipotizzati. In questi ultimi anni si è assistito ad un consumo mondiale progressivamente crescente delle immunoglobuline (si è passati da
7.400 kg nel 1984 a 94.860 kg nel 2010). Il consumo per la terapia immunomodulante (spesso per patologie in cui le immunoglobuline sono considerate
una terapia off-label) ha di gran lunga superato quello per la terapia sostitutiva, richiamando l’attenzione degli organi competenti sulla formulazione di una
scala di priorità per il loro impiego basata sui livelli di evidenza di efficacia.
Summary
The first preparations of immunoglobulins were introduced in 1952 and were used as a replacement treatment, similarly to the use of insulin in patients with
diabetes. The initial route of administration (subcutaneous/intramuscular) did not allow the administration of a sufficient volume to guarantee a satisfactory control of infectious episodes. Moreover, those early preparations could not be administered intravenously due to severe adverse reactions. Therefore,
significant effort was made in order to produce immunoglobulin preparations that were both safe and efficacious for intravenous administration, a route
that was largely used starting from the 80’s. Since 2006, the availability of specific immunoglobulin preparations and technically advanced infusion pumps
has allowed to reconsider the subcutaneous route of administration. This approach was also meant to reduce patients’medicalization. Subcutaneous administration of immunoglobulins has since become the preferred route of administration in many countries. Starting from the early 80’s, the serendipitous
observation that immunoglobulin administration could restore platelet count in patients with idiopathic thrombocytopenic purpura (ITP), an autoimmune
disorder, led to broaden use of immunoglobulins in the treatment of various autoimmune and/or inflammatory disorders. In such cases, immunoglobulins
are not used as a replacement therapy, but rather as an immunomodulatory drug. Moreover, the dosage required to achieve immunomodulatory effects is
higher than used for replacement treatment.
The mechanisms underlying the immunomodulatory effect of immunoglobulins are still not clear; various hypotheses have been proposed and are discussed in this article. Importantly, in recent years the global consumption of immunoglobulins has raised significantly (from 7,400 kg in 1984 to 94,860
kg in 2010). The consumption of immunoglobulins as immunomodulatory therapy (in many cases still an off-label indication) has largely overtaken that of
replacement therapy. Therefore, formulation of a priority scale by the competent authorities for immunoglobulin usage is of paramount importance.
Parole chiave: immunoglobulina, terapia sostitutiva, terapia immunomodulante
Key words: immunoglobulins, substitution therapy, immunomodulatory effect
Introduzione: note storiche
L’impiego clinico delle immunoglobuline come terapia empirica risale a più di 100 anni fa quando Emil Von Behring le utilizzò per il
trattamento di malattie mediate da tossine (tetano e difterite), ma
solo nel 1952 le immunoglobuline sono state impiegate in terapia
sostitutiva con lo stesso criterio per cui l’insulina viene utilizzata
per il trattamento del diabete di tipo 1. È infatti in quell’anno che
Odgeon Bruton descrisse per la prima volta una forma di immunodeficienza primitiva, caratterizzata dall’assenza delle immunoglobuline
sieriche, che verrà poi denominata malattia di Bruton o agammaglobulinemia X recessiva (Bruton, 1952). In quel periodo i linfociti T
e i linfociti B non erano ancora stati identificati e non erano ancora disponibili metodiche per il dosaggio delle immunoglobuline nel
siero. La diagnosi di agammaglobulinemia fu posta da Bruton sulla
base dell’assenza del picco gamma all’elettroforesi delle proteine
sieriche, esame eseguito mediante l’apparecchio di Arne Tiselius.
Agli inizi degli anni ’40, Frederick Cohn e i suoi collaboratori del Dipartimento di Chimica Fisica della Harvard Medical School, avevano
allestito un sistema di frazionamento del plasma per la produzione
215
A. Plebani et al.
di emoderivati, mediante un procedimento di precipitazione a freddo
con etanolo. La frazione II di Cohn derivata da questo processo di
frazionamento e che era considerata un prodotto di “scarto”, conteneva la “frazione gamma”, quindi ricca di immunoglobuline sieriche.
Bruton, seguendo un’intuizione geniale, ha somministrato per via
sottocutanea la frazione II di Cohn, aprendo così la strada a quella
che sarebbe poi diventata una terapia elettiva e salvavita per molte
forme di immunodeficienza primitiva.
In base alle prime esperienze, sembrava che le immunodeficienze
primitive potessero rappresentare il gruppo di malattie per le quali la somministrazione di immunoglobuline trovasse l’indicazione
non solo più razionale, ma di fatto anche esclusiva. Tuttavia, tale
“esclusività” durò fino al 1981, anno in cui alcuni ricercatori svizzeri
osservarono che la somministrazione di immunoglobuline ad alte
dosi in due soggetti con ipogammaglobulinemia, che casualmente presentavano anche una porpora trombocitopenica idiopatica
(PTI), aumentava significativamente i livelli delle piastrine. Questi
dati furono in seguito confermati in una casistica più ampia (Imbach et al.,1981;Fehr et al.,1982) e hanno portato alla formulazione
del concetto di effetto “immunomodulante” delle immunoglobuline.
Per estensione, a partire dalla PTI , la terapia con immunoglobuline
è stata sperimentata, con risultati variabili, in molte altre malattie
autoimmuni incluse diverse malattie neurologiche per le quali le
opzioni terapeutiche sono limitate. Successivamente, l’utilizzo delle
immogobuline è stato esteso anche a malattie infiammatorie, sfruttando il loro effetto immunomodulante ed utilizzando un dosaggio
differente da quello impiegato nella terapia sostitutiva.
Evoluzione della preparazione dei prodotti
Nel tempo le modalità di preparazione e di somministrazione delle
immunoglobuline hanno subito notevoli variazioni, sia per quanto
riguarda il dosaggio che per quanto attiene la via di somministrazione. Contemporaneamente, sono state introdotte significative modifiche nei processi di preparazione delle immunoglobuline per uso
terapeutico, con notevoli miglioramenti di sicurezza ed efficacia dei
prodotti. Tali progressi si sono associati ad un significativo miglioramento delle prospettive e della qualità di vita dei pazienti trattati con
terapia a base di immunoglobuline.
Il primo prodotto impiegato da Bruton e somministrato per via sottocutanea, consisteva in un preparato di IGS (immune serum globulin)
alla concentrazione di 165 mg/ml, a pH 6.8, che andava conservato
a 5°C. In queste condizioni la soluzione nel tempo tendeva a formare aggregati responsabili di gravi effetti collaterali per via della
loro capacità di attivare il complemento, se il preparato veniva somministrato per via endovenosa. Quindi i primi prodotti commerciali
di immunoglobuline erano indicati esclusivamente per la somministrazione intramuscolare . Tuttavia era apparso subito evidente che
l’effetto protettivo delle immunoglobuline somministrate attraverso
queste vie era strettamente dipendente dal volume di preparato
somministrato e che il volume necessario per somministrare una
quantità protettiva di immunoglobuline sarebbe stato troppo elevato
per essere accettato dal paziente, anche per via degli effetti collaterali, soprattutto locali. Da qui la necessità di sviluppare prodotti da
somministrare per via endovenosa (IVIG). Il problema principale della
somministrazione endovenosa è stato quello di eliminare l’attività
anticomplementare. Tale obiettivo è stato perseguito mediante la
digestione enzimatica, metodica applicata nella preparazione della
formulazione dei primi preparati per via endovenosa (IVIG). Tuttavia
la digestione con pepsina determinava la formazione di un prodotto
contenente il frammento F(ab)2 e il frammento Fc, la digestione con
216
Figura 1.
Rappresentazione schematica della molecola di immunoglobulina IgG. È
costituita da due catene pesanti legate da ponti disolfuro e da due catene
leggere ciascuna legata, sempre da ponti disolfuro, ad una catena pesante. Sia le catene leggere che quelle pesanti sono costituite da una parte
variabile (V) e da una parte costante (C). All’interno della molecola intera
si riconoscono la parte Fab e la parte Fc. La prima ha la funzione di legare
gli antigeni specifici, la seconda di legarsi ai recettori per il frammento
Fc (FcγRs) espressi sulle cellule del sistema immune. La digestione con
pepsina dà luogo ad un singolo frammento F(ab)2 e ad un frammento Fc,
mentre la digestione con papaina dà luogo a due frammenti Fab identici
e a un frammento Fc (da Radosevich e Burnouf, 2010).
papaina determinava la formazione di un prodotto contenente due
frammenti identici di Fab e il frammento Fc e questi preparati sono
risultati scarsamente efficaci (Radosevich e Burnouf, 2010) (Fig. 1).
Da qui la necessità di produrre preparati con la minor attività anticomplementare possibile, ma al contempo più efficaci, cercando
di mantenere intatta la struttura delle immunoglobuline, attraverso
metodiche che le modificavano chimicamente. A questo si è arrivati
tramite l’impiego di metodiche che facevano uso del trattamento
con beta-propiolattone (alchilazione e acilazione di alcuni amminoacidi) o con sulfonazione/alchilazione (rottura del legami disolfidrici
tra le catene leggere e quelle pesanti). Ma anche in questo caso il
risultato non era soddisfacente, dal momento che questi prodotti
chimicamente modificati avevano una vita media molto ridotta, venendo rapidamente eliminati dal sistema reticolo endoteliale.
Ai prodotti attualmente disponibili, che sono a molecola IgG intatta e
a scarso contenuto di aggregati, si è arrivati attraverso il trattamento
del precipitato grezzo di IgG, ottenuto mediante frazionamento alcolico (la frazione II di Cohn), con uno dei seguenti metodi: o con debole
trattamento acido (pH 4) in presenza di tracce di pepsina oppure con
precipitazione con polietilenglicole (PEG), oppure con purificazione
su resine a scambio ionico. Con questi trattamenti si ottengono i
prodotti oggi commercialmente disponibili, che sono efficaci e ben
tollerati dai pazienti (Tab. I). Per una più completa descrizione della
modalità di preparazione dei vari prodotti si rimanda alla bibliografia
(Radosevich e Burnouf, 2010).
Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione
Tabella I.
Preparati di immunoglobuline umane normali, attualmente disponibili
in Italia (da www.codifa.it, settembre 2013).
Prodotti per via endovenosa
Prodotto
Ditta
Flebogamma
Instituto Grifols Poligono Levante S.A.
Gammagard
Baxter S.p.A.
Gamten
Octapharma Italy S.p.A.
Ig Vena
Kedrion S.p.A.
Intratect
Biotest Pharma GmbH
Keyven
Kedrion S.p.A.
Kiovig
Baxter AG
Octagam
Octapharma Limited
Pentaglobin
Biotest Pharma GmbH
Privigen
CSL Behring GmbH
Venital
Kedrion S.p.A.
Prodotti per via sottocutanea
Prodotto
Ditta
Hizentra
CSL Behring GmbH
Subcuvia
Baxter AG
Vivaglobin
CSL Behring GmbH
Sicurezza dei preparati
I vari prodotti di IVIG vengono preparati partendo da miscele di plasma di migliaia di donatori. Questo consente di disporre di preparati
con elevati titoli anticorpali e ampio spettro di azione. Tuttavia, quanto più è elevato il numero dei donatori tanto più è elevata la probabilità che una donazione possa essere contaminata. Nonostante fosse
noto che il frazionamento alcolico fosse in grado di ridurre il rischio
di trasmissione di agenti virali, nel 1983 sono stati riportati diversi
casi di trasmissione di epatite non A-non B (quella che adesso noi
conosciamo con il nome di epatite C) occorsi in seguito alla somministrazione di diversi preparati di IVIG (Yap, 1996).
Nonostante non fosse stata accertata la causa di queste trasmissioni, si è ritenuto che fosse da ricercarsi nella procedure di preparazione di questi prodotti. Questi casi hanno portato a rivedere e a
migliorare i sistemi di controllo dell’inattivazione virale durante i processi di preparazione e ad estenderli su larga scala (Radosevich e
Burnouf, 2010). Al riguardo sono stati introdotti diversi metodi quali:
1. la pastorizzazione: si tratta di un trattamento a 60°C per 10 ore
che inattiva sia virus capsulati che non capsulati; al fine di evitare la formazione di aggregati vengono aggiunti degli stabilizzanti
(sucroso o sorbitolo) che vengono poi rimossi attraverso la nanofiltrazione;
2. un trattamento con solvente (tri-n-butilfosfato)/detergente (polisorbato 80 e/o triton X-100) per 1-6 ore a 20-35°C. I solventi/
detergenti vengono poi rimossi tramite cromatografia. Efficace
nella inattivazione dei virus capsulati;
3. un trattamento con acido caprilico per 1 ora a 20°C. Efficace
nella inattivazione dei virus capsulati;
4. la nanofiltrazione. Può essere eseguita utilizzando filtri con pori
differenti. Efficace nella rimozione di virus capsulati e non capsulati. Sembra efficace nella rimozione anche di proteine prioniche.
L’applicazione di una o più di queste metodiche ha significativamente aumentato la sicurezza dei prodotti attualmente disponibili per
quanto riguarda la trasmissione di virus.
In ogni caso il controllo della qualità dei preparati inizia con l’identificazione e la selezione dei donatori sulla base della valutazione della
storia clinica, tenendo anche in considerazione i dati di sorveglianza epidemiologica della popolazione di appartenenza. Ogni singolo
donatore deve risultare negativo per la presenza di anticorpi contro
l’HIV-1/2, l’HCV e per l’antigene di superficie dell’ HBV (HBsAg). Inoltre, su mini-pool di plasma, con sempre maggiore frequenza, viene
eseguita la ricerca degli acidi nucleici per HIV, HBV, HCV, HAV e per
parvovirus B19. Il pool di plasma finale da sottoporre alla procedura
di frazionamento deve risultare negativo per gli acidi nucleici dell’HCV, per gli anticorpi anti HIV e per l’antigene HbsAg. Diverse aziende, oltre a queste indicazioni di legge, eseguono la ricerca anche
degli acidi nucleici per l’HIV, l’HBV, il Parvovirus B19 e l’HAV. Tutte
queste misure contribuiscono a ridurre il carico virale nel materiale
di partenza.
Caratteristiche dei prodotti
Per essere efficace e il più possibile privo di effetti collaterali, il prodotto deve contenere livelli di IgG superiori al 95% con una fisiologica distribuzione delle singole sottoclassi delle IgG ed un ampio spettro di attività anticorpale, meno del 3% di aggregati di elevato peso
molecolare e livelli minimi di IgA, titolo di isoemoagglutinine (anti A
e anti B) <1/64, attività anticomplementare ≤1, concentrazioni di
attivatore della prekallicreina <35UI/ml. Infine, il prodotto non deve
contenere HBsAg né anticorpi anti HIV-1, HIV-2 e anti HCV. Una più
completa descrizione dei parametri internazionali che riguardano il
controllo di qualità dei preparati, secondo le Good Manufacturing
Practices si può avere consultando i seguenti siti: http://www.nibsc.
ac.uk/products/catalogue.html; http://www.who.int/bloodproducts/
catalogue/en/index.html). In Italia i prodotti di immunoglobuline
sono erogati dal Servizio Sanitario Nazionale, attraverso le farmacie
ospedaliere o le singole ASL. I prodotti ad oggi disponibili in Italia
sono elencati in tabella I.
Applicazioni terapeutiche e trattamento sostitutivo
Indicazioni
Il trattamento sostitutivo con Ig rappresenta la terapia elettiva e salvavita delle immunodeficienze primitive a prevalente difetto dell’immunità umorale, mentre per le forme di immunodeficienza combinata (umorale e cellulare) questo trattamento è di supporto al trapianto
di midollo osseo che rappresenta la terapia elettiva (Tab. II).
Il trattamento sostitutivo con Ig alle dosi considerate standard (vedere paragrafo successivo) ha significativamente ridotto la morbilità
e mortalità e migliorato la qualità di vita di questi pazienti (Maarschalk-Ellerbroek et al., 2011). Prendendo ad esempio l’agammaglobulinemia, dai dati della letteratura pubblicati nella metà degli
anni ’80 e ’90, la mortalità, principalmente di natura infettiva, era
circa del 18% (Smith e Witte, 1999). In una casistica più recente di
73 pazienti (Plebani et al., 2002), ma confermata in una casistica più
estesa di 180 pazienti registrati nella banca dati IPINET, la mortalità
è risultata del 5%. La differenza tra le casistiche degli anni ’80 e ’90
e quelle più recenti sta nel fatto che le prime riguardavano molti più
pazienti trattati a lungo con immunoglobuline intramuscolo e con
una diagnosi tardiva, mentre le più recenti contengono pazienti con
217
A. Plebani et al.
Tabella II.
Indicazioni all’impiego delle IVIG. Per la terapia immunomodulante,
lista abbreviata e formulata secondo le indicazioni dell’FDA (Gelfand,
2012).
Terapia sostitutiva
• Immunodeficienze primitive
- Agammaglobulinemia X e autosomica recessiva
- Immunodeficienza comune variabile
- Immunodeficienza con Iper IgM
- Sindrome linfoproliferativa X recessiva
- Sindrome di Wiskott-Aldrich
- Difetto anticorpale nella atassia-telengiectasia e nella Del22
- Immunodeficienze combinate
• Immunodeficienze secondarie
- Infezione pediatrica da HIV
- Trapianto di midollo osseo alogeneico
- Trapianto di rene in ricevente con titoli anticorpali elevati o un
donatore ABO incompatibile
- Leucemia linfocitica cronica e mieloma
Terapia immunomodulante
• Approvata
- Porpora Idiopatica Trombocitopenica
- Polineuropatia infiammatoria demielinizzante cronica
- Malattia di Kawasaki
- Neuropatia motoria multifocale
• Approvata, ma se in presenza di alcune condizioni*
Malattie neuromuscolari:
- Sindrome di Guillain-Barrè
- Sclerosi multipla ricorrente
- Miastenia gravis
- Polimiosite refrattaria
- Poliradicoloneuropatia
- Miastenia di Lambert-Eaton
- Opsociono-Mioclono
- Retinopatia di Birdshot
- Dermatomiosite refrattaria
Malattie ematologiche:
- Anemia emolitica autoimmune
- Grave anemia da parvovirus B19
- Neutropenia autoimmune
- Trombocitopenia neonatale alloimmune
- Trombocitopenia HIV associata
- GVHD (Graft-versus-host disease)
- Infezione da CMV o polmonite interstiziale in pazienti che devono fare
trapianto di midollo
Malattie dermatologiche:
- Pemfigo volgare
- Pemfigo foliaceo
- Pemfigoide bolloso
- Epidermolisi bollosa
- Fascite necrotizzante
- Necrolisi epidermica tossica
* Diagnosi certa, fallimento o controindicazione ai trattamenti usuali, rapida progressione o ricaduta della malattia, miglioramento documentato dopo somministrazione di Ig.
218
diagnosi più precoce e che avevano iniziato il trattamento per via
endovenosa subito dopo la diagnosi. Questo dimostra che una diagnosi precoce, prima che siano instaurate complicanze (soprattutto
le bronchiectasie), associata ad un adeguato e tempestivo trattamento sostitutivo, sono le due condizioni essenziali per ridurre la
mortalità e la morbilità e per garantire a questi pazienti una qualità di
vita per molti versi simile a quella dei loro coetanei sani. Il follow-up
prolungato di questi pazienti ha anche consentito di dimostrare che,
mentre il trattamento sostitutivo controlla ottimamente le infezioni
gravi (sepsi, encefaliti da enterovirus, ecc.), non altrettanto ottimale
è il controllo delle infezioni a livello mucoso. Infatti durante il followup, a dispetto di un appropriato trattamento sostitutivo, le infezioni
più frequenti erano le gastroenteriti e le bronchiti e broncopolmoniti,
queste ultime responsabili dello sviluppo di pneumopatia cronica,
che rappresenta tuttora la maggior causa di morte di questi pazienti.
Questo dimostra che le immunoglobuline non raggiungono in modo
ottimale le superfici mucose dove dovrebbero svolgere il loro maggiore effetto protettivo. Per questo motivo è importante associare
alla terapia sostitutiva la fisioterapia respiratoria.
Oltre all’uso nelle immunodeficienze primitive, la terapia sostitutiva
con Ig è indicata anche in alcune condizioni che presentano un difetto anticorpale di tipo secondario come i tumori, l’infezione da HIV,
alcune malattie oncoematologiche, il trapianto di midollo o di organi.
Si tratta di indicazioni formulate in base al grado di raccomandazione ottenuto partendo dai livelli di evidenza di efficacia (Orange et
al., 2006; Nimmerjahn e Ravetch, 2008; Gelfand, 2012). Per quanto
riguarda l’impiego nei prematuri come prevenzione delle sepsi neonatali, una recente valutazione del Cochrane Neonatal Group riporta
che il loro impiego riduce del 3% gli episodi di sepsi e del 4% le
infezioni gravi, senza tuttavia incidere significativamente sulla mortalità (Soll, 2013).
Vie di somministrazione e dosaggio utilizzato
Le principali tappe riguardanti la via di somministrazione delle immunoglobuline sono riportate in Figura 2. È interessante notare
come la prima somministrazione di Ig praticata da Bruton sia stata
eseguita per via sottocutanea, via che in questi ultimi anni è stata
di molto rivalutata e praticata. Il dosaggio arbitrariamente scelto da
Bruton era di 3.2 g al mese (corrispondente a circa 100 mg/kg del
suo paziente). Sono stati Janeway e Gitlin poco dopo a proporre la
via di somministrazione intramuscolare, consensualmente accettata a livello internazionale. Tuttavia, il dosaggio proposto (100 mg/
kg/mese) risultava insufficiente a raggiungere livelli di IgG sieriche
considerati protettivi, che avrebbero richiesto la somministrazione
di volumi molto elevati, con conseguenti importanti effetti collaterali, soprattutto dolore locale, difficilmente accettabile da parte del
paziente, soprattutto se di peso elevato. Inoltre, sebbene questo dosaggio risultasse efficace nel ridurre gli episodi di infezioni gravi
(come la sepsi), non lo era nel controllare complicanze croniche a
lungo termine come le bronchiectasie. Da qui la necessità di sviluppare prodotti che potessero essere somministrati per via endovenosa consentendo la somministrazione di volumi più elevati e quindi di
raggiungere livelli sierici di IgG più efficaci. Questi prodotti si sono
resi disponibili nella seconda metà degli anni ’80 e hanno rapidamente soppiantato i preparati per via intramuscolare. Inizialmente
anche per i preparati per via endovenosa, il dosaggio raccomandato
era di 100 mg/kg/mese. Fu in seguito al lavoro di Roifman (Roifman
et al., 1987) che aveva dimostrato come il mantenimento di elevati
livelli sierici di Ig (> 500 mg/dl) riducesse le complicanze polmonari,
che la dose di 400 mg/kg/mese è stata considerata la dose standard. In ogni caso, il dosaggio può essere aggiustato secondo le
Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione
Figura 2.
Terapia sostitutiva con immunoglobuline: principali tappe storiche.
varie necessità del paziente riducendo gli intervalli tra una somministrazione e l’altra o aumentando la dose. In questo secondo caso
è stato dimostrato che un aumento di 100 mg/kg/mese determina
un aumento di IgG sieriche di circa 120 mg/dl e che, ogni aumento
di concentrazione di 100 mg/dl, determina una riduzione del 27%
degli episodi infettivi. Ad esempio, la frequenza degli episodi di polmonite ad un dosaggio di IgG che mantiene i livelli sierici attorno
ai 500 mg/dl è 5 volte superiore a quella osservata ad un dosaggio
che mantenga i valori i IgG attorno ai 1000 mg/dl (Orange et al.,
2010). Questo dimostra che il controllo delle infezioni delle basse
vie aeree dipende principalmente dai livelli di IgG sieriche. Tuttavia,
tali considerazioni valgono per l’agammaglobulinemia, ma non per
l’immunodeficienza comune variabile, condizione che, a differenza
dell’agammaglobulinemia può associarsi alla presenza di IgA. Le IgA
presenti possono svolgere un parziale ruolo protettivo a livello delle
mucose, consentendo di controllare gli episodi infettivi anche con un
dosaggio inferiore di IgG (Quinti et al., 2011).
In questi ultimi anni, vi è stato un ritorno alla somministrazione delle
Ig per via sottocutanea. Ciò è stato reso possibile dalla commercializzazione di prodotti specificamente preparati per la somministrazione
attraverso questa via. La disponibilità di pompe da infusione di dimensioni sempre più piccole e più efficaci, la possibilità di somministrare
questi preparati a livello domiciliare, la farmacocinetica più fisiologica
di questi preparati rispetto a quelli per via endovenosa (livelli costantemente stabili senza picco iniziale), il desiderio dei pazienti di essere
meno medicalizzati e di programmare e adattare la terapia alle proprie
necessità anche professionali, la pressocché assenza di effetti collaterali gravi, hanno contribuito, in questi ultimi anni, alla aumentata
diffusione di questa via di somministrazione nella maggior parte delle
nazioni. Inoltre analisi di farmacoeconomia hanno dimostrato che la
somministrazione domiciliare sottocutanea è economicamente vantaggiosa per il servizio sanitario nazionale, consentendo di risparmiare
sui costi dell’ospedalizzazione (Haddad, 2012).
Il dosaggio utilizzato per la via sottocutanea è di 100 mg/kg/settimana, equivalente al dosaggio di 400 mg/kg/mese del preparato per
via endovenosa. L’FDA americana, considerata la diversa biodisponibilità delle Ig per via sottocutanea rispetto a quelle per via endovenosa, raccomanda che il dosaggio delle IgG per via sottocutanea
sia aumentato del 37% rispetto a quello per via endovenosa. Questa
raccomandazione non è invece prevista nelle disposizioni europee,
perché non da tutti gli autori condivisa.
Trattamento immunomodulante
Indicazioni
Come precedentemente accennato, il riscontro di un aumento delle
piastrine in un soggetto con PTI e ipogammaglobulinemia in seguito
alla somministrazione di immunoglobuline indicate per la sua condizione di immunodeficienza ha dato l’avvio al loro impiego in molte
altre forme di malattie autoimmuni/infiammatorie, postulando che
le IgG agissero in questo caso con un effetto immunomodulante. In
tabella II sono riportate le malattie per le quali le immunoglobuline
sono utilizzate per questo effetto (Gelfand, 2012). Solo per poche
malattie il loro uso è stato approvato; per la maggior parte il trattamento è ancora considerato off-label, oppure è suggerito sulla base
di esperienze sporadiche, ma non esistono tuttora studi clinici controllati. Peraltro ci possono essere differenze tra le varie agenzie per
quanto riguarda la classificazione off-label di alcune patologie (es. la
Guillain-Barré approvata in Europa non lo è da parte dell’FDA) e per
quanto riguarda la valutazione dei livelli di evidenza di efficacia delle
IVIG tra le varie forme considerate off-label riportate nei vari lavori
della letteratura, ai quali si rimanda per un maggiore approfondimento (Orange et al., 2006; Nimmerjahn e Ravetch, 2008, Gelfand,
2012). In ogni caso, l’orientamento attuale degli organi competenti
è di autorizzare singoli prodotti per singole malattie, nelle quali sia
stata dimostrata l’efficacia.
Il dosaggio comunemente utilizzato come immunomodulante è di
2g/kg/dose per via endovenosa, in un intervallo di tempo che va
dalla somministrazione in sole 12 ore fino anche a frazionare il do-
219
A. Plebani et al.
Tabella III.
Meccanismi dell’attività antiinfiammatoria e immunomodulante delle
IgG.
Attività mediata dal frammento Fab
- Soppressione o neutralizzazione degli autoanticorpi
- Sopressione o neutralizzazione delle citochine
- Neutralizzazione dei componenti derivati dall’attivazione del
complemento
- Network idiotipo-antidiotipo
- Blocco del legame con le proteine di adesione
- Effetto su specifici recettori cellulari
- Modulazione della maturazione e funzione delle cellule dendritiche
Attività mediata dal frammento Fc
- Blocco dell’FcRn
- Blocco degli Fcγs attivatori
- Aumentata espressione di FcgRIIB con attività inibitoria
- Immunomodulazione attraverso la componente glicosilata delle IgG
saggio in 4-5 giorni. Recenti trial hanno dimostrato l’efficacia anche
della somministrazione per via sottocutanea nel trattamento di malattie neurologiche (Markvardsen et al., 2013).
Meccanismi di azione
Tuttora poco noti sono i meccanismi attraverso i quali le IgG ad alte
dosi risultano essere efficaci. In particolare, è difficile comprendere,
in special modo per le malattie causate da autoanticorpi, come una
miscela policlonale di IgG possa sopprimere l’attività dello stesso
isotipo di immunoglobulina che riconosce autoantigeni (autoanticorpo), fenomeno definito come “paradosso delle IgG endovena”. A
complicare ulteriormente il quadro interpretativo vi è l’osservazione
che questo trattamento si è dimostrato efficace anche per malattie
che non sono mediate da autoanticorpi. Sulla base delle osservazioni cliniche e dei dati sperimentali disponibili, in modo particolare nel
modello murino, sono state formulate varie ipotesi e costruiti modelli
interpretativi che prendono in considerazione meccanismi mediati,
da una parte, dalla porzione F(ab)2, e dall’altra, dalla porzione Fc
delle IgG (Tab. III); il ruolo predominante comunque viene svolto dal
frammento Fc. Inoltre non va trascurato l’effetto di altre molecole,
non correlate alle immunoglobuline, che possono essere presenti
nei diversi preparati. Sarebbe troppo lungo elencare le varie malattie
nelle quali l’effetto immunomodulante si ipotizza venga svolto dalla
porzione F(ab)2 o dalla porzione Fc della molecola immunoglobulinica; al riguardo rimando a eccellenti lavori di review che sono stati
pubblicati sull’argomento (Nimmerjahn e Ravetch, 2008; Schwab e
Nimmerjahn, 2013). A scopo esemplificativo citerò due dei possibili
meccanismi attraverso i quali la porzione F(ab)2, svolge funzione immunomodulante: 1. la sua capacità di legare e quindi neutralizzare
il C3a e il C5a che hanno una potente attività proinfiammatoria; 2. la
presenza nel prodotto di anticorpi specifici per molecole del “self”
(citochine, parte variabile delle IgG [anti-idiotipo], CD95, CD95L,
BAFF, APRIL, ecc.) coinvolte nella risposta infiammatoria. In merito a
questo secondo punto, è importante citare l’esempio della necrolisi
epidermica tossica (TEN: toxic epidermal necrolysis), patologia indotta da farmaci e che è caratterizzata dal distacco dell’epidermide
dal derma per apoptosi dei cheratinociti, causata dall’interazione del
220
CD95 (FAS) con il suo ligando (CD95L). La presenza nei preparati di
immunoglobuline di anticorpi diretti contro il CD95 blocca questa interazione. Studi in vitro hanno infatti dimostrato che l’eliminazione di
questi anticorpi dal preparato ne determinano la perdita di efficacia.
Tuttavia, come già accennato, è l’interazione del frammento Fc con
i vari recettori (FcgRs) espressi sulla superficie cellulare a svolgere la gran parte del ruolo immunomodulante attribuito alle IVIG. Va
comunque sottolineato che i dati sperimentali al riguardo non sono
sempre facilmente interpretabili e diversi meccanismi sono stati
ipotizzati.
I FcgRs sono una famiglia di diversi recettori con funzioni differenti
(Fig. 3) e che sono largamente espressi, anche se a densità differente, sulle cellule del sistema immune, inclusi i basofili, gli eosinofili,
le mastcellule, i monociti e i macrofagi. Diverse sono le ipotesi, non
mutualmente esclusive, sul ruolo degli FcgRs nel condizionare l’effetto immunomodulante delle IgG (Schwab e Nimmerjahn, 2013) che
sono di seguito riportate.
Ruolo di FcRn (neonatal Fc receptor).
Questo recettore appartiene alla famiglia delle molecole HLA di
Classe I, regola la vita media delle IgG sieriche ed è espresso da una
ampia varietà di cellule incluse le cellule endoteliali e i macrofagi.
Modelli murini che mancano di questa proteina o della b2-microglobulina, presentano valori di Ig molto ridotte, come conseguenza della
riduzione della loro vita media. La funzione di questo recettore è di
legare le Ig sieriche, fagocitarle e reimmetterle in circolo dopo averle
riespresse sulla superficie cellulare (Junghans e Anderson, 1996). In
sua assenza questo processo non avviene e quindi le IgG vengono
eliminate in poche ore con significativa riduzione della vita media (Li
et al., 2005). Il ruolo immunomodulante delle IgG infuse ad elevate concentrazioni, consiste nella competizione con gli autoanticorpi
circolanti del paziente per il legame con l’FcRn. In questo modo gli
autoanticorpi sono esclusi dal processo di fagocitosi e reimmissione
in circolo e pertanto vengono velocemente eliminati (Fig. 4, modello
1). Tuttavia questo modello è stato messo in discussione da un recente lavoro nel quale si dimostra che il miglioramento della PTI in
seguito all’infusione di IgG si verifica anche in topi difettivi per FcRn
(Crow et al., 2011).
Ruolo degli FcgRs
Partendo dal concetto che gli FcgRs svolgono un ruolo centrale
nel mediare i meccanismi effettori anticorpo-dipendenti della risposta infiammatoria, è apparso ragionevole ipotizzare che il ruolo
immunomodulante delle IgG infuse fosse di limitare l’accesso agli
FcgRs attivatori degli immunocomplessi circolanti. Questa ipotesi
era supportata dall’osservazione che la clearance dei globuli rossi
opsonizzati con anticorpi anti D radiomarcati era ritardata nei pazienti con PTI trattati con IgG (Fehr et al., 1982). Ipotesi che in parte
contraddice quella del modello precedente, perché se il ruolo delle
IVIG è quello di bloccare l’FcRn, gli immunocomplessi radio marcati
avrebbero dovuto essere eliminati più rapidamente. Tuttavia, alcuni
studi hanno dimostrato che la somministrazione di anticorpi anti Rh
(D) in pazienti con PTI Rh (D) positivi, (con conseguente formazione
di immunocomplessi) aveva lo stesso effetto della somministrazione
di IVIG (Crow e Lazarus, 2008). Questi lavori hanno quindi rafforzato l’ipotesi che l’attività immunomodulante delle IgG infuse dipenda
dalla capacità di inibire, per competizione, il legame degli immunocomplessi circolanti agli FcgRs attivatori presenti sui macrofagi
(Fig. 4, modello 2). Secondo questo modello, l’effetto immunomodulante delle IVIG viene svolto dagli immunocomplessi (aggregati)
presenti negli stessi preparati. Questo può in parte spiegare perché
Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione
Figura 3.
Famiglia degli FcγRs dell’uomo. L’FcRn appartiene alla famiglia delle molecole HLA di classe I e controlla la vita media delle IgG. Gli altri recettori
sono in grado di legare la parte Fc delle IgG e il loro coinvolgimento controlla la risposta cellulare. La molecola DC-SIGN è in grado di legare la
componente glicosilata delle IgG e svolge attività antiinfiammatoria (da Schwab e Nimmerjahn, 2013).
siano richieste elevate concentrazioni di IVIG per avere l’effetto immunomodulante.
Ruolo di FcgRIIB
L’osservazione che non sempre la somministrazione di anticorpi anti
Rh(D) in pazienti con PTI Rh(D) positivi era efficace nel controllare
i livelli di piastrine e che la presenza di dimeri o aggregati nei vari
preparati di anticorpi anti Rh(D) non determinava un effetto terapeutico (Schwab e Nimmerjahn, 2013), ha portato a ipotizzare altri
meccanismi, oltre a quello del blocco degli FcgRs. L’osservazione
che topi difettivi in FcgRIIB, o topi nei quali questo recettore era stato bloccato con l’uso di Ab monoclonali – utilizzando sempre come
modello la PTI – non rispondevano al trattamento con IVIG (Samuelsson et al., 2001), ha fatto ipotizzare che l’FcgRIIB, considerato un
recettore con attività inibitoria, potesse giocare un ruolo significativo
sull’effetto immunomodulante delle IVIG. Tale ipotesi è stata confermata da studi successivi condotti su modelli murini e umani, che
hanno dimostrato che, in seguito alla somministrazione di IVIG, si
ha un’aumentata densità di espressione di FcgRIIB sulle cellule della
linea mieloide o un aumento del numero delle cellule mieloidi che
esprimono questo recettore. (Tackenberg et al., 2009). Si avrebbe
inoltre una redistribuzione dei recettori FcgRs con aumento degli
inibitori rispetto agli attivatori. Gli immunocomplessi circolanti si legano quindi preferenzialmente a FcgRs con attività inibitoria. (Fig. 4,
modello 3).
Glicosilazione delle IgG
Le IgG sono glicoproteine che contengono una catena glucidica legata al residuo di asparagina in posizione 297 di ciascuna catena
del frammento Fc. L’importanza della catena glucidica sull’effetto
immunomodulante delle IgG è dimostrata dal fatto che questo effetto viene eliminato se le IVIG sono deglicosilate. L’effetto terapeutico
è mediato dalla parte glicosilata dell’Fc e non da quella del F(ab)2. È
stato inoltre visto che l’attività immunomodulante viene abrogata in
seguito alla rimozione di acido sialico terminale; viene al contrario
potenziata se la catena glucidica viene arricchita in acido sialico.
Recentemente sono state identificate diverse proteine, appartenenti
alla famiglia delle molecole SIGLEC (sialic acid-binding Ig-like lec-
tins) (Pillai et al., 2012), espresse sulla superficie delle cellule del
sistema immune e che hanno la capacità di legare molecole che
contengono residui terminali di acido sialico. Trattandosi di proteine
che presentano nella parte intracellulare della molecola sequenze
con attività inibitoria (ITIMs: immunoreceptor tyrosine-based inhibitory motif) è ragionevole pensare che anche queste molecole possano contribuire all’effetto immunomodulante delle IVIG. Inoltre, la
dimostrazione che in topi deficitari della molecola SIGNR1 (ICAM-3
grabbing non-integrin-related 1) o trattati con anticorpi monoclonali
diretti contro questa proteina veniva eliminato l’effetto immunomodulante delle IVIG (Anthony et al., 2008), ha permesso di attribuire
a questa molecola un ruolo nei meccanismi della immunomodulazione. Si tratta di una proteina espressa da varie cellule del sistema
immune con capacità di legare le glicoforme di IgG ricche in acido
sialico. Agendo da recettore per le IgG glicosilate svolge una funzione simile a quella degli FcgRs. L’equivalente umano di SIGNR1 è
DC-SIGN, espresso sulle cellule dendritiche, anch’esso in grado di
legare le glicoforme di IgG ricche in acido sialico. In seguito a questo legame viene attivata la produzione di IL33 e IL4. Quest’ultima
aumenta l’espressione del recettore FcgRIIB con attività inibitoria e
riduce l’espressione di FcgRs con proprietà attivatorie sulle cellule
macrofagiche; pertanto, gli immunocomplessi circolanti si legano
preferenzialmente ai recettori inibitori evitando di svolgere attività
infiammatoria (Antony et al., 2011). Recentemente è stato dimostrato che l’interazione delle IVIG con DC-SIGN determina anche espansione delle cellule Treg, mediata dalla produzione di prostaglandine
E2 da parte delle cellule dendritiche (Trinath J et al., 2013). Secondo
queste osservazioni sperimentali l’attività immunomodulante delle
IgG dipende quindi anche dal contenuto in acido sialico delle varie
glicoforme di IgG presenti in un preparato.
Le ipotesi sopradescritte sono state formulate sulla base di protocolli sperimentali differenti ed è verosimile che ciascun protocollo
metta in evidenza solo un aspetto del puzzle, peraltro complesso e
non completamente chiarito, di come le IVIG svolgano l’effetto immunomodulante. In realtà è molto probabile che i vari meccanismi
soprariportati concorrano, integrandosi l’uno con l’altro alla realizzazione di questo effetto.
221
A. Plebani et al.
durante le prime somministrazioni del preparato o quando il paziente ha in corso un’infezione.
Dopo qualche somministrazione dello stesso prodotto solitamente questi eventi tendono a scomparire, ma il 10-20% dei pazienti
possono presentare reazioni anche dopo un periodo variabilmente
lungo di trattamento ben tollerato. Da qui la necessità di monitorare
sempre attentamente questi pazienti.
Reazioni avverse gravi (anafilassi, crisi d’asma, sindrome di Stevens-Johnson, trombosi, citopenia, emolisi, convulsioni, meningite
asettica, ecc.) sono fortunatamente più rare. Tra le complicanze rare
è stata segnalata anche l’insufficienza renale, per lo più associata a
prodotti contenenti stabilizzanti a base di zuccheri (saccarosio, maltosio glucosio). Pertanto, prodotti che contengono zuccheri vanno
evitati nei pazienti con problemi renali per l’aumentato rischio di
complicanze renali e nei pazienti diabetici al fine di evitare brusche
variazioni dei livelli glicemici. L’osmolarità del preparato e la presenza di fattori procoagulanti vanno tenuti in considerazione per i
pazienti con problemi cardiovascolari, disfunzione renale e rischio
tromboembolico.
Il passaggio alla somministrazione per via sottocutanea riduce il rischio di reazioni gravi e le reazioni avverse sono solitamente lievi e
locali (rossore, gonfiore, ecc.).
Considerazioni sull’uso appropriato della terapia
con immunoglobuline
Figura 4.
Modelli che spiegano il ruolo immunomodulante delle IVIG mediato dal
frammento Fc. a. Solitamente il recettore FcRn espresso dalle cellule
endoteliali capta le IgG sieriche, le fagocita e le riesprime di nuovo in
superficie, consentendone la loro reimmissione in circolo. È questo processo che determina la vita media delle IgG sieriche; quelle che non
passano attraverso questo meccanismo vengono eliminate nel giro di
qualche ora. Nel caso in circolo ci siano numerosi immunocomplessi,
formati da autoanticorpi che legano l’autoantigene specifico, questi si
legheranno ai recettori sia attivatori che inibitori, espressi sulle cellule
del sistema immune (macrofago) e, a seconda della densità di espressione di questi recettori, si svilupperà il quadro infiammatorio. b. Sono
illustrati i tre possibili modelli attraverso i quali si esplica l’effetto immunomodulante delle IVIG ad alte dosi. Modello 1. Le IVIG somministrate
saturano i recettori FcRn, portando quindi alla rapida eliminazione degli
autoanticorpi. Modello 2. Le IVIG competono con gli immunocomplessi
circolanti per il legame con gli FcγRs presenti sui macrofagi. Modello 3.
Le IVIG somministrate inducono un’aumentata espressione di recettori
inibitori (FcγRIIB), che annullano l’effetto infiammatorio degli immunocomplessi circolanti (da Nimmerjahn e Ravetch, 2008).
Tollerabilià e scelta del prodotto
I prodotti oggi disponibili sono in genere ben tollerati. Dai numerosi
studi della letteratura riportati, risulta che i più comuni eventi avversi
sono di lieve entità (dolore addominale, lombare, cefalea, nausea,
vomito, rash orticarioide, mialgia, asma lieve, febbre di media intensità). Tali eventi avversi si verificano nel 5-15% dei pazienti e, in
genere, sono controllabili con l’interruzione del trattamento o con la
riduzione nella velocità di somministrazione. La somministrazione di
antiinfiammatori non steroidei e/o antiistaminici, può essere utile;
qualora la risposta sia scarsa è indicata la somministrazione di steroidi (idrocortisone 10 mg/kg/dose). Le reazioni sono più frequenti
222
In queste ultime decadi si è assistito ad un considerevole allargamento delle indicazioni all’impiego terapeutico delle immunoglobuline tanto che il loro consumo ha significativamente superato quello
di altri emoderivati come l’albumina, i fattori della coagulazione,
ecc. Il mercato mondiale delle Ig è passato da 7.400 kg nel 1984 a
94.860 nel 2010. Questo aumento è dovuto ad una richiesta sempre
maggiore del loro utilizzo come terapia immunomodulante e quindi
ad uno spettro sempre più ampio di malattie (autoimmuni, infiammatorie, neurologiche, cutanee, ecc.) nelle quali le immunoglobuline sono state e vengono utilizzate. Tuttavia, per quanto riguarda
queste malattie, è interessante osservare che solo il 40-50% delle
immunoglobuline è stato utilizzato per il trattamento di malattie per
le quali esiste un consenso generale; per il rimanente 60-50% il
trattamento è off-label. Spesso il loro impiego è guidato da sporadiche segnalazioni della letteratura piuttosto che da robuste evidenze
clinico-sperimentali; certo, in ogni caso si riferiscono a pazienti per i
quali le opzioni terapeutiche classiche si erano rivelate fallimentari.
Un eccessivo e ingiustificato loro utilizzo per malattie considerate
off-label potrebbe riportare ad un esaurimento della disponibilità
del prodotto, creando dei problemi per quelle patologie per le quali
questo trattamento è di prima scelta, come si è verificato a partire
dal 1997. Allora un insieme di fattori avevano portato ad una crisi
di disponibilità di Ig, tra i quali la crescente domanda e la diminuzione dell’offerta per i problemi legati alla diffusione dell’AIDS e
della malattia di Creutzfeldt-Jakob (vCJD). Questi ultimi hanno imposto una serie di misure precauzionali per assicurare la massima
sicurezza degli emoderivati, che hanno influito sulla disponibilità di
materiale: test di screening più specifici e sensibili, estensione e
applicazione dei metodi di inattivazione virale, maggiori controlli sui
donatori, ritiro dei prodotti provenienti da donatori a rischio di vCJD,
divieto, per un determinato periodo di tempo, di usare plasma da
sangue intero raccolto in Inghilterra e in altri paesi europei. Queste
limitazioni costrinsero l’industria del plasma ad effettuare delle ristrutturazioni, alcune aziende chiusero, altre si fusero. Si arrivò nel
Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione
1998 ad una riduzione della produzione e ad una grave carenza di
immunoglobuline. Negli USA la crisi fu così grave che il Congresso,
in seguito alla sollecitazione della Immune Deficiency Foundation,
emise una serie di provvedimenti volti ad aumentare la produzione
di immunoglobuline. A partire dal 2006 produzione e fabbisogno si
bilanciarono. A questo si è arrivati anche attraverso la formulazione,
da parte di società scientifiche, di linee guida nelle quali le raccomandazioni all’impiego delle immunoglobuline erano definite sulla
base di evidenze scientifiche (Orange et al., 2006). L’applicazione di
queste indicazioni associate al monitoraggio del consumo delle IVIG
rappresentano un importante strumento di controllo per ottimizzare
l’utilizzo e garantire la disponibilità delle IVIG.
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
Il primo impiego delle immunoglobuline come terapia sostitutiva è datato 1952, e coincide con la descrizione della prima immunodeficienza primitiva,
caratterizzata dall’assenza delle immunoglobuline sieriche. Successivamente, questo trattamento è stato esteso anche ad altre forme di immunodeficienze primitive, per le quali costituisce il trattamento elettivo e salvavita. I primi prodotti utilizzati presentavano un’efficacia limitata per via della
modalità di preparazione e della via di somministrazione; inoltre erano gravati da un maggior numero di effetti collaterali.
Cosa sappiamo adesso
I notevoli progressi tecnologici sviluppati verso la fine degli anni ’70 hanno consentito di produrre preparati di immunoglobuline somministrabili per
via endovenosa più efficaci e sicuri. La via endovenosa, permettendo di somministrate quantità elevate di questi prodotti, ha dimostrato, inizialmente
in modo del tutto casuale, l’efficacia della somministrazione delle immunoglobuline anche in malattie autoimmuni e/o infiammatorie, sfruttando il loro
effetto immunomodulante. Ora sappiamo molto sui meccanismi attraverso i quali le immunoglobuline svolgono questo ruolo immunomodulante.
Quali ricadute sulla pratica clinica
La somministrazione di immunoglobuline come terapia sostitutiva per via endovenosa, e più recentemente per via sottocutanea, ha radicalmente migliorato la morbilità e la mortalità, nonché la qualità di vita dei pazienti con difetti dell’immunità. Il notevole consumo delle immunoglobuline, derivato in
parte dal loro non giustificato impiego in un numero sempre maggiore di malattie autoimmuni e/o infiammatorie (per molte delle quali il trattamento è
tuttora considerato off-label), può creare problemi di approvvigionamento nel tempo, a scapito di malattie considerate prioritarie. Da qui la necessità di
un loro impiego basato sui livelli di evidenza di efficacia, formulate da competenti commissioni. Inoltre la conoscenza più approfondita dei meccanismi
attraverso i quali le immunoglobuline esplicano il loro effetto immunomodulante, consentirà di produrre prodotti più efficaci e mirati.
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223
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Corrispondenza
Alessandro Plebani, Clinica Pediatrica, Università degli Studi di Brescia, Spedali Civili, P.le Spedali Civili, 1, Brescia. Tel.: 030 3995715.
E-mail: [email protected]
224
Oncologia pediatrica
Il tumore in età pediatrica e adolescenziale rappresenta una patologia relativamente rara. Grande è il suo interesse biologico e notevole
la rilevanza sul piano sociale e di sanità pubblica. La multidisciplinarietà ha comportato un evidente miglioramento della prognosi e della
qualità di vita. Nei paesi con risorse economiche elevate, la sopravvivenza dei tumori infantili ha raggiunto oggi l’80%. Ciò si è realizzato
attraverso l’arruolamento dei pazienti in protocolli clinici come standard di cura di prima linea, il miglioramento delle terapie di supporto e
il contributo del trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (allo-TCSE).
Il contributo di Pession e Rondelli illustra i dati di recente pubblicazione nella monografia pubblicata dall’Associazione Italiana dei Registri
Tumori (AIRTUM), in collaborazione con l’Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica (AIEOP) . I dati mostrano la riduzione
dell’incidenza dei tumori pediatrici osservata nell’ultimo decennio dopo il sensibile aumento registrato a partire dalla fine degli anni ’80,
anche se tuttavia rimane più elevata che nel resto d’Europa. Il secondo aspetto rilevante riguarda il miglioramento della sopravvivenza a
5 anni dalla diagnosi che è migliorata, passando dal 72% (1988-1993) all’83% (2003-2008), sovrapponibile a quanto riportato in altri paesi
occidentali. Un aspetto di particolare attenzione riguarda gli adolescenti (15-18 anni), per i quali si è osservato un aumento dei casi ed una
percentuale di arruolamenti a protocolli di diagnosi e cura significativamente inferiore a quello della fascia di età tra 0-14 anni.
Le sfide per il futuro a livello europeo sono discusse dall’articolo di Kathy Pritchard-Jones, già presidente della SIOP Europa. È difficile
ipotizzare che il progressivo miglioramento possa essere ottenuto con un’ulteriore ottimizzazione delle terapie con farmaci convenzionali.
L’accesso a farmaci meno tossici e diretti contro target molecolari più specifici dei chemioterapici convenzionali e la collaborazione internazionale per far fronte all’identificazione e trattamento di gruppi di pazienti sempre più piccoli, sono due degli aspetti da cui dipenderà
l’ulteriore miglioramento della sopravvivenza dei pazienti. Infine l’impatto a lungo termine dei trattamenti chemio-radioterapici sulla qualità
di vita è divenuto sempre più rilevante, considerando che si stima che circa 1 adulto su 1000 sia stato affetto da tumore in età pediatrica.
Il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (allo-TCSE) ha contribuito in modo significativo al miglioramento della prognosi di
numerosi pazienti pediatrici affetti da emopatie maligne. Merli, Palumbo, Gaspari e Locatelli offrono una completa revisione degli elementi
che hanno caratterizzato tale progresso e le prospettive future. In particolare viene presentata l’evoluzione nella selezione del donatore con
il progressivo superamento del limite rappresentato dalla disponibilità di un fratello/sorella HLA-identico, attraverso il ricorso a donatori
adulti da registro, così come unità di sangue cordonale adeguatamente caratterizzate e criopreservate. Nuove strategie di manipolazione
del trapianto rendono oggi possibile il ricorso anche a donatori parzialmente compatibili e anche aploidentici. Infine la disponibilità di nuovi
approcci di immunoterapia adottiva sta fornendo prospettive di terapie innovative per il trattamento di pazienti affetti da tumori non responsivi a terapie citostatiche convenzionali.
Andrea Biondi
Università degli Studi di Milano-Bicocca
Fondazione MBBM-Ospedale S. Gerardo, Monza
225
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 226-232
ONCologia pediatrica
I tumori dei bambini e adolescenti in Italia
Andrea Pession1-2, Roberto Rondelli2
1
2
Cattedra di Pediatria, Università degli Studi di Bologna
Unità Operativa di Pediatria, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna
Riassunto
Il tumore in età pediatrica e adolescenziale rappresenta una patologia rara, di grande interesse biologico e di estrema rilevanza sociale e di sanità pubblica,
nella quale la multidisciplinarietà ha comportato un evidente miglioramento della prognosi e della qualità di vita. In Italia dal 1975 l’Associazione Italiana
di Ematologia e Oncologia Pediatrica (AIEOP) rappresenta un punto di riferimento per la diagnosi e la terapia di questi pazienti, grazie all’attivazione di
protocolli multicentrici utilizzati nella totalità dei centri italiani di oncoematologia pediatrica.
Il quadro disegnato dalla recente monografia pubblicata dall’Associazione Italiana dei Registri Tumori in collaborazione con AIEOP, mostra una situazione in
buona parte confortante, come la riduzione dell’incidenza dei tumori pediatrici osservata nell’ultimo decennio dopo il sensibile aumento registrato a partire
dalla fine degli anni ’80, anche se tuttavia rimane più elevata che nel resto d’Europa e se, nel contempo, si è osservato un aumento dei casi tra gli adolescenti. Un’altra nota positiva viene anche dai progressi registrati nella prognosi a lungo termine. Infatti la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è migliorata,
passando dal 72% (1988-1993) all’83% (2003-2008), sovrapponibile a quanto riportato in altri paesi occidentali. E se va registrata una positiva riduzione
del fenomeno della migrazione extraregionale, dall’altra si è assistito all’aumento dell’immigrazione per motivi sanitari. Infine, nonostante l’impegno degli
epidemiologi, al giorno d’oggi ancora poco si conosce sull’eziologia dei tumori pediatrici e pertanto è consigliabile adottare il principio di precauzione al fine
di prevenire l’esposizione dei bambini a sostanze possibilmente cancerogene.
Summary
Cancer in children and adolescents is a rare disease, of great biological interest and extremely relevant in terms of social life and public health; a multidisciplinary approach to this disease has led to definite improvement in prognosis and quality of life for patients.
Since 1975, childhood cancer patients have benefited from multicentric diagnostic and treatment protocols established by the Italian Paediatric Haematology and Oncology Association (AIEOP) and used in all Italian paediatric oncology and haematology centres.
The recent monograph published by the Italian Association of Cancer Registries in collaboration with AIEOP, shows a quite reassuring situation, such as the
reduction of cancer incidence in the last decade of observation, after the increase reported from the late 1980s, even if it remains higher than in the rest
of Europe and despite the increase of tumors in adolescents.
Another encouraging element is the progress in the long-term prognosis. In fact, the 5-year survival from diagnosis has improved from 72% (1988-1993)
to 83% (2003-2008), comparable to that reported in other European countries. The monograph reports also a reduction of extra-regional migration for
diagnosis and/or treatment, while recruitment of immigrant children underwent a progressive, steady increase over the years.
Finally, despite the efforts of epidemiologists, nowadays still little is known about the etiology of pediatric cancer and therefore it is advisable to adopt the
precautionary principle in order to prevent the exposure of children to possibly carcinogenic substances.
Parole chiave: tumori, bambini, adolescenti
Key words: cancer, children, adolescent
Obiettivo
La monografia I tumori in Italia - Rapporto 2012: I tumori dei bambini
e degli adolescenti, pubblicata su “Epidemiologia & Prevenzione”,
nel numero di gennaio-febbraio 2013, offre il pretesto per fare il
punto sull’epidemiologia dei tumori dei bambini e degli adolescenti
in Italia, su un periodo di osservazione di vent’anni (AIRTUM Working
Group et al., 2013).
Introduzione
L’assistenza dei pazienti oncologici in Italia
Il tumore in età pediatrica e adolescenziale rappresenta una patologia rara, di grande interesse biologico e di estrema rilevanza
sociale e di sanità pubblica, nella quale la multidisciplinarietà ha
comportato un evidente miglioramento della prognosi e della qualità di vita.
Negli ultimi trent’anni, la ricerca medica ha investito notevoli risorse
226
per la diagnosi e la terapia di queste neoplasie, riuscendo spesso a
modificare la storia naturale della malattia, e notevole è stato l’impatto sulla pratica clinica corrente.
Fin dal 1975, i pazienti in età pediatrica con neoplasia hanno potuto beneficiare di protocolli multicentrici diagnostico-terapeutici
attivati dall’Associazione Italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica (AIEOP) ed utilizzati dapprima in pochi centri specializzati, quindi nella totalità dei centri oncoematologici pediatrici
italiani.
L’attività dell’AIEOP ha contribuito a migliorare la prognosi di questi pazienti, infatti se negli anni ’70 la guarigione veniva ottenuta
in meno del 30% dei casi, attualmente oltre il 70% dei casi può
considerarsi guarito a 5 anni dalla diagnosi, risultati paragonabili a
quelli ottenuti da altri gruppi cooperatori occidentali (Pession et al.,
2008). Due elementi hanno contribuito a ciò: da un lato il crescente
reclutamento in studi clinici controllati per le diverse neoplasie e
dall’altro l’erogazione della terapia in centri altamente specializzati.
Attualmente sono 54 i centri aderenti all’AIEOP, distribuiti su quasi
tutto il territorio nazionale (Fig. 1).
I tumori dei bambini e adolescenti in Italia
adolescenti, senza differenze sostanziali per area geografica. Questi
tassi d’incidenza, anche se inferiori a quelli riportati nella monografia precedente, sono ancora relativamente elevati, se paragonati a
quelli registrati negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa settentrionale
(Pritchard-Jones et al., 2006; Kaatsch, 2010).
Il rapporto tra casi osservati e casi attesi
I centri AIEOP hanno dimostrato la capacità di reclutare la quasi totalità
dei casi attesi in età 0-14 anni di leucemie e linfomi, nonché dei casi
affetti da tumore a forte componente genetica, quali i neuroblastomi,
i tumori di Wilms, i retinoblastomi e gli epatoblastomi. Una particolare
lacuna nella rete AIEOP è invece risultata essere quella dei tumori del
sistema nervoso centrale (SNC) (< 30% dell’atteso) che vengono diagnosticati e trattati per lo più in centri di neurochirurgia che non aderiscono all’AIEOP. Un’ulteriore carenza è rappresentata dai carcinomi,
quali quelli tiroidei e i melanomi, seguiti prevalentemente da centri
specializzati non AIEOP (Pession e Rondelli, 2008).
Per quanto riguarda gli adolescenti, i centri AIEOP hanno fatto registrare reclutamenti molto bassi rispetto all’atteso, con valori del
10%, relativi al periodo 1989-2006, con un massimo per i sarcomi
ossei e neuroblastomi (> 40%) e minimo per carcinomi e melanomi
(< 1%) (Ferrari et al., 2009).
Figura 1.
Numero dei centri AIEOP per regione e area geografica.
Risultati
L’incidenza dei tumori pediatrici
I dati di incidenza, in Italia come in quasi tutti i paesi del mondo,
sono prodotti dai registri tumori di popolazione che in alcuni casi coprono tutto il territorio nazionale, ed in altri, come l’Italia, solo parte
della popolazione residente. In Italia, circa il 50% della popolazione
è coperto da un registro tumori dell’Associazione Italiana dei Registri
Tumori (AIRTUM).
Ogni anno in Europa si ammalano 140 bambini ogni milione di soggetti
di età 0-14 anni, con qualche variabilità tra i vari paesi e tra Europa
dell’Est e dell’Ovest. Questo tasso di incidenza è peraltro aumentato con
un incremento annuo variabile dallo 0,8 al 2,1% a seconda di istotipo,
età, sesso e nazione di residenza. L’aumento nei paesi europei è stato
rilevante per tutti i tumori e pari all’1% annuo (Kaatsch et al., 2006).
Monografia 2012 - Tumori infantili in calo: ma siamo ancora
superiori al resto d’Europa
Un dato incoraggiante è che l’aumento dell’incidenza dei tumori infantili registrato in Italia fino alla seconda metà degli anni ’90 si è
arrestato.
Risulta infatti che nell’ultimo decennio l’andamento dell’incidenza
di tutti i tumori maligni nei bambini (età 0-14 anni) è stazionario;
inoltre, dal 1995, i casi di leucemia acuta linfoblastica sono diminuiti
del 2% su base annua.
Negli adolescenti (età 15-19 anni), al contrario, l’incidenza di tutti i
tumori maligni è aumentata in media del 2% l’anno: soprattutto nelle
femmine (+2%), per lo più linfomi di Hodgkin, mentre in entrambi i
sessi si registra un aumento dei tumori della tiroide (+8%).
Attualmente sono circa 1380 e 780 rispettivamente i bambini e gli
adolescenti che ogni anno in Italia si ammalano di tumore maligno,
pari a 164 casi per milione di bambini e 269 casi per milione di
Monografia 2012 - Rapporto casi osservati e casi attesi buono,
tranne che per gli adolescenti
Le stime recenti relative al triennio 2008-2010 confermano l’ottimo
reclutamento dell’AIEOP nella fascia di età 0-14 anni, che nel complesso fa registrare un 92% dell’atteso, con valori soddisfacenti per
quasi tutti i tipi di tumore, SNC compreso (Tab. I).
Per gli adolescenti il rapporto tra casi osservati e casi attesi risulta
invece di appena il 25%, con valori superiori al 90% solo per tumori
ossei e neuroblastomi.
Infine, quando si analizza il rapporto osservati/attesi per regione di
residenza o loro aggregazioni in macroaree, questo risulta molto simile nelle varie aree geografiche: 64% al Nord, 70% al Centro e 63%
al Sud e nelle Isole.
La sopravvivenza
è noto che i tumori rimangono la seconda causa di morte, dopo gli
incidenti, nei bambini tra 0 e 14 anni, con un tasso di mortalità pari a
2.8-3.5 morti ogni 100000 bambini (Bosetti et al., 2010).
Nel corso degli ultimi 3-4 decenni, la sopravvivenza (SUR) dei bambini affetti da tumore è notevolmente aumentata nei paesi ad alto
reddito grazie al perfezionamento di strumenti diagnostici, strategie
terapeutiche e sviluppo di gruppi cooperatori.
Un’analisi condotta in 23 stati europei riporta una SUR a 5 anni dalla
diagnosi pari all’81% in bambini e all’87% in adolescenti affetti da
tumore, diagnosticati nel periodo 1995-2002 (Gatta et al., 2009).
I dati pubblicati dall’AIEOP nel 2008 riportano, in una popolazione
di oltre 10000 bambini oncologici nel periodo 1989-1998, una SUR
globale a 5 e 10 anni dalla diagnosi rispettivamente di 73% e 69%,
del 76% e 73% per i disordini linfoproliferativi e del 68% e 65% per
i tumori solidi. (Pession et al., 2008).
Monografia 2012 - Sopravvivenza a lungo termine in aumento:
maggiore probabilità di guarigione
Attualmente, la SUR a 5 anni dalla diagnosi di tumore è dell’82% nei
bambini e dell’86% negli adolescenti, valori sovrapponibili a quanto
riportato in altri paesi occidentali. Inoltre, la SUR a lungo termine
(15 anni) è solo di poco inferiore, a testimoniare una probabilità di
guarigione elevata in entrambe le classi di età.
227
A. Pession, R. Rondelli
Tabella I.
Rapporto tra il numero di casi osservati (O) nella banca dati AIEOP Mod.1.01 nel periodo 2008-2010 in Italia e il numero di casi attesi (A) in base
ai tassi di incidenza AIRTUM dello stesso periodo, per tipo di tumore e fasce di età.
ICCC-3
Tipo di tumore
O
A
O/A (IC 95%)
O
A
O/A (IC 95%)
I
Leucemie
1403
1335
1.05 (1.00-1.11)
117
265
0.44 (0.37-0.53)
II
Linfomi
661
649
1.02 (0.94-1.10)
189
807
0.23 (0.20-0.27)
III
Tutti i tumori del SNC
764
916
0.83 (0.78-0.90)
80
257
0.31 (0.25-0.39)
IV
Neuroblastoma e altri tumori del SNP
366
329
1.11 (1.00-1.23)
6
6
1.00 (0.45-2.23)
V
Retinoblastoma
75
96
0.79 (0.63-0.98)
0
VI
Tumori del rene
202
209
0.97 (0.84-1.11)
4
12
0.33 (0.13-0.89)
VII
Tumori del fegato
56
48
1.16 (0.89-1.50)
6
11
0.55 (0.25-1.21)
VIII
Tumori maligni delle ossa
164
212
0.77 (0.66-0.90)
100
110
0.91 (0.75-1.11)
IX
Tumori dei tessuti molli e altri sarcomi
extra-ossei
253
268
0.95 (0.84-1.07)
63
150
0.42 (0.33-0.54)
X
Tumori a cellule germinali, tumori
trofoblastici e neoplasie delle gonadi
121
128
0.94 (0.79-1.13)
32
236
0.14 (0.10-0.19)
XI
Altre neoplasie maligne epiteliali e
melanomi
59
206
0.29 (0.22-0.37)
19
599
0.03 (0.02-0.05)
XII
Altre e non specificate neoplasie maligne
26
92
0.28 (0.19-0.42)
10
51
0.20 (0.11-0.37)
4150
4488
0.92 (0.90-0.95)
626
2504
0.25 (0.23-0.27)
Tutti i tumori maligni
0-14 anni
15-19 anni
Legenda: ICCC-3, International Classification of Childhood Cancer-Third Edition; IC 95%, intervallo di confidenza al 95%; SNC, sistema nervoso centrale; SNP, sistema
nervoso periferico.
La SUR a 5 anni dalla diagnosi risulta però diversa per i vari sottogruppi
di età: 78%, età <1 anno; 83%, età 1-4 anni; 79%, età 5-9 anni; 83%,
età 10-14 anni e anche per quanto riguarda il tipo di tumore (Tab. II).
La SUR degli adolescenti è migliorata negli ultimi 15 anni nel nostro
Paese, con un valore globale superiore all’80% nel periodo 20032008. Questi valori sono simili a quelli relativi all’Europa riportati all’inizio degli anni Duemila dal progetto EUROCARE 4 (Gatta et al., 2009).
L’eziologia
Purtroppo, poco si sa ancora sull’eziologia dei tumori pediatrici. Solo
il 5% ha una chiara origine genetica, e per meno del 3% è plausibile
una diretta correlazione con esposizioni ambientali (infezioni, agenti
fisici, sostanze chimiche). Ne consegue che, per oltre il 90% dei
tumori, la causa è ignota.
I fattori di rischio ad oggi studiati sono numerosi, ma le conclusioni
in merito al loro ruolo causale sono ancora molto incerte.
Monografia 2012 - L’eziologia è ancora ampiamente sconosciuta
Premesso che il significato dell’incremento dei tumori infantili, verificatosi negli ultimi decenni in evidente concomitanza con l’aumento,
ancor più marcato, e la progressiva anticipazione nell’età di insorgenza
di molte patologie cronico-degenerative, potrebbe deporre per un’origine embrio-fetale e/o trans generazionale di queste patologie per le
quali si imporrebbe una prevenzione primaria ed una integrazione del
paradigma di cancerogenesi infantile per il quale potrebbe aver un ruolo
fondamentale l’assetto epigenetico, la definizione di causa di tumore
pediatrico andrebbe riservata solo per le esposizioni per le quali le Monografie IARC esprimono una valutazione di “sufficiente evidenza” di
cancerogenicità, riferita specificamente all’esposizione nei bambini.
A questo proposito, per quanto riguarda le radiazioni ionizzanti, una
recente revisione della letteratura ribadisce il ruolo dell’esposizione
228
a radiazioni ionizzanti, non solo diretta, ma anche prenatale in utero,
in cui la IARC, basandosi soprattutto sulla coorte dei sopravvissuti
alla bomba atomica, conclude che l’aumento di rischio di tumori comincia nell’infanzia e persiste a lungo nell’età adulta (IARC, 2009a).
Per la maggior parte della popolazione la fonte d’esposizione non naturale più importante è rappresentata dagli esami radiografici a fini diagnostici e dalla radioterapia. Tra gli esami radiografici, la TC è la tecnica
che comporta il più alto livello di esposizione, con dimostrato aumento di
incidenza di leucemie e tumori SNC, proporzionale alla dose cumulativa
di radiazioni prima dei 22 anni d’età (Pearce et al., 2012).
La IARC ha stabilito che c’è un’evidenza limitata che campi elettrici e magnetici a bassa frequenza causino leucemia nei bambini,
mentre l’effetto dell’esposizione a radiofrequenze (es. telefoni cellulari) è ancora controverso. Pertanto resta indicato un atteggiamento
precauzionale, raccomandando, ad esempio, l’uso dell’auricolare
soprattutto nei bambini (IARC, 2002; IARC, 2013).
Vi è evidenza che il fumo passivo causi epatoblastomi nei bambini
esposti, così come per l’uso di pesticidi in gravidanza o durante l’infanzia che risulta associato a maggior rischio di leucemie e linfomi,
così come per l’esposizione lavorativa peri-concezionale dei genitori
ad alcune sostanze quali solventi o idrocarburi (IARC, 2012a; Vinson
et al., 2011; IARC, 2012c; Miligi et al., 2013).
Nota è inoltre l’associazione tra agenti infettivi e alcuni tipi di tumore
in età pediatrica, quali: virus di Epstein-Barr e linfomi, virus dell’epatite B e C ed epatocarcinomi, virus HIV e neoplasie emolinfopoietiche
(IARC, 2009b).
Anche i fattori genetici ereditari hanno un ruolo importante nell’eziologia dei tumori in età pediatrica. Infatti è noto che alcune malattie
congenite aumentano il rischio di diverse neoplasie infantili, come la
sindrome di Down, che comporta un rischio elevato di leucemia, o in
caso di neurofibromatosi di tipo 1, atassia-telangectasia o anemia di
Fanconi, dove l’incidenza di leucemie e linfomi è molto elevata. La
I tumori dei bambini e adolescenti in Italia
Tabella II.
Sopravvivenza osservata (OS) a 5 anni con l’approccio di periodo per bambini (01-14 anni) e adolescenti (15-19 anni) per le principali categorie
di tumori maligni. Banca dati AIRTUM, periodo 2003-2008.
ICCC-3
Tipo di tumore
0-14 anni
15-19 anni
I
Leucemie
OS % (IC 95%)
OS % (IC 95%)
85 (83-87)
72 (65-78)
Ia Leucemia acuta linfoblastica
89 (86-91)
68 (57-76)
Ib Leucemia acuta mieloblastica
65 (56-73)
68 (53-79)
Linfomi
89 (86-92)
91 (89-93)
IIa Linfoma di Hodgkin
94 (90-97)
94 (91-96)
IIb Linfoma non-Hodgkin (compreso Linfoma di Burkitt)
84 (79-89)
83 (76-88)
III
Tumori maligni del SNC
64 (59-68)
67 (57-75)
IIIc Tumore embrionale intracranico e intraspinale
62 (53-70)
79 (57-91)
IV
Neuroblastoma e altri tumori del SNP
73 (67-78)
48 (10-79)
V
Retinoblastoma
99 (91-100)
-
VI
Tumori del rene
89 (83-93)
100
VII
Tumori del fegato
82 (65-92)
48 (8-81)
VIII
Tumori maligni delle ossa
64 (56-71)
64 (52-73)
VIIIa Osteosarcoma
66 (54-75)
66 (48-78)
II
IX
VIIIc Sarcoma di Ewing e altri sarcomi dell’osso
64 (52-74)
53 (33-70)
Tumori dei tessuti molli e altri sarcomi extra-ossei
79 (73-84)
71 (61-78)
IXa Rabdomiosarcoma
74 (63-81)
62 (40-77)
X
Tumori a cellule germinali, tumori trofoblastici e neoplasie delle gonadi
87 (78-92)
94 (89-96)
XI
Altre neoplasie maligne epiteliali e melanomi
94 (89-97)
94 (92-96)
XIb Carcinoma della tiroide
XII
Altre e non specificate neoplasie maligne
100
100
82 (80-83)
86 (84-87)
Tutti i tumori maligni
Legenda: ICCC-3, International Classification of Childhood Cancer-Third Edition; IC 95%, intervallo di confidenza al 95%; SNC, sistema nervoso centrale; SNP, sistema
nervoso periferico.
neurofibromatosi di tipo 1 è un fattore di rischio anche per i tumori del
SNC e con la sindrome di Li-Fraumeni rappresenta uno dei fattori di
rischio noti più importanti per i sarcomi dei tessuti molli (Seif, 2011).
Per quanto riguarda l’associazione con fattori perinatali, questa è stata
presa in considerazione, in particolare con i tumori che hanno incidenza più elevata nel primo anno di vita, ipotizzando che il rischio elevato
alla nascita possa risultare da esposizioni della madre in gravidanza.
Recentemente sono comparsi in letteratura alcuni lavori che riferiscono aumenti significativi del rischio relativo di istiocitosi e leucemie
per trattamenti di stimolazione dell’ovulazione (Petridou et al., 2012).
Tra gli altri fattori che risultano essere associati ad un aumento del
rischio di tumore in età pediatrica, vanno citati l’età avanzata della
madre e l’elevato peso alla nascita, così come la presenza di malformazioni che si associa più spesso a tumori delle cellule germinali,
retinoblastoma, sarcomi dei tessuti molli e leucemie (Johnson et al.,
2009; Caughey e Michels, 2009; Carozza et al., 2012).
Infine, va citata la possibile associazione tra il consumo di alcol in gravidanza e rischio di leucemia mieloblastica nel bambino (IARC, 2012a).
Migrazione
Con il termine “migrazione sanitaria” s’intende comunemente il ricovero in una struttura ospedaliera localizzata in una regione (o nazione)
diversa rispetto a quella di residenza; rappresenta un fenomeno al-
quanto rilevante in termini quantitativi: infatti interessa l’8,3% della
popolazione infantile italiana, valore superiore dello 0,5% a quello relativo a tutta la popolazione (Centro studi investimenti sociali, 2011).
Sebbene la migrazione è un possibile indicatore di disuguaglianza
nell’accesso ai servizi sanitari, non sempre e non necessariamente
deve essere considerata un fenomeno negativo. Infatti, in alcuni casi,
come la diagnosi e la terapia di malattie rare come i tumori pediatrici, oppure in caso di prestazioni che richiedono un volume adeguato
di pazienti per assicurare qualità ed efficienza, è ragionevole favorire
l’affluenza dei pazienti presso strutture di riferimento specializzate.
Da sempre questo fenomeno è stato registrato dall’AIEOP e valutato
nell’ordine del 25% nel periodo 1989-2000, interessando soprattutto
i casi residenti nelle regioni del Sud e delle Isole, con punte di oltre il
50%, soprattutto nel caso di pazienti affetti da tumori solidi, e con flussi migratori indirizzati prevalentemente a centri AIEOP del Nord Italia.
Monografia 2012 - Migrazione: ancora elevata al sud e nelle
isole, ma in costante diminuzione
I dati dell’AIEOP, riferiti al periodo 2001-2010, dimostrano un accesso alle cure diversificato per età ed area geografica di residenza.
La migrazione extraregionale per la diagnosi e/o il trattamento dei
pazienti pediatrici verso un centro AIEOP di una regione diversa rispetto a quella di residenza interessa nel periodo 2006-2010 circa
il 20% dei casi arruolati, ma mentre risulta quasi trascurabile per
229
A. Pession, R. Rondelli
chi risiede al Nord, è particolarmente rilevante per i bambini che
risiedono in alcune regioni del Sud e nelle Isole, dove può riguardare
oltre il 30% dei casi (Tab. III).
Il fenomeno migratorio che colpisce prevalentemente i casi affetti da
tumore solido (28%), rispetto a quelli con leucemie o linfomi (11%),
si è significativamente ridotto negli ultimi 5 anni considerati, sia globalmente, sia per area geografica e patologia, con valori inferiori
anche del 5% rispetto al quinquennio precedente, anche grazie al
miglioramento dell’organizzazione dei centri AIEOP, della collaborazione con i pediatri di famiglia e della fiducia delle famiglie nei centri
vicini alla propria residenza.
Immigrazione
Mentre la migrazione all’estero per la cura dei tumori infantili è un
fenomeno non più così frequentemente osservato nel nostro Paese come in passato, da oltre dieci anni si assiste ad un aumento
dell’immigrazione sanitaria verso centri italiani, che ha portato la
quota dei bambini stranieri con tumore a quadruplicare dal 1999
ad oggi. Si tratta di bambini che provengono principalmente da paesi europei, ma anche da altri continenti, talora a seguito di accordi
nazionali, ma altre volte si tratta di bambini appartenenti a famiglie
entrate nel nostro Paese in modo irregolare, che oltre al problema
oncologico devono affrontare anche l’incertezza della vita quotidiana
(Rondelli et al., 2011).
Monografia 2012 - Immigrazione: in aumento i casi immigrati
per motivi sanitari
Con l’aumento dell’immigrazione, risultano in costante crescita anche i bambini nati all’estero curati nei centri AIEOP, passati da un 2%
del totale nel 1999 all’8% nel 2008.
Nel periodo considerato, la maggior parte dei bambini immigrati risulta provenire dall’Europa (65,7%): il 40,1% da paesi extra
Unione europea, quali Albania (21,5%), Ex-Jugoslavia (10,9%),
Ucraina (4,3%) e Russia (1,0%); il 25,6% da paesi dell’Unione europea, quali Romania (16,8%), Germania (2,1%) e Grecia (1,7%).
Il 13,2% proviene dall’America Latina, soprattutto da Venezuela
(4%) e Ecuador (1,9%). Il 10,8% proviene dall’Africa: Marocco
(3,8%), Libia (1,6%); il 10,1% dall’Asia: Iraq (1,4%); 2 casi (0.2%)
dall’Oceania.
La provenienza dei casi, oltre che dalla vicinanza geografica, può
essere condizionata, come per Iraq e Venezuela, da programmi di
cooperazione sanitaria esistenti tra l’Italia e questi paesi, in accordo
con quanto previsto dai principi guida della cooperazione italiana
allo sviluppo.
Conclusioni
I risultati della monografia 2012 sui tumori infantili sono in buona
parte confortanti, se pensiamo all’incidenza dei tumori nei bambini,
che dopo un significativo aumento del 3% annuo dalla fine degli
anni ’80 alla fine degli anni ’90, ha iniziato a diminuire di circa l’1%
l’anno nell’ultima decade, anche se rimane più elevata che nel resto
d’Europa.
Una nota positiva viene anche dai progressi registrati nella prognosi a lungo termine, dovuti soprattutto all’arruolamento dei casi nei
protocolli multicentrici attivati dall’AIEOP fin dagli anni ’70. La SUR a
5 anni dopo una diagnosi di tumore è migliorata, passando dal 72%
(1988-1993) all’83% (2003-2008), con un valore attuale dell’82%
nei bambini e dell’86% negli adolescenti, sovrapponibile a quanto
riportato in altri paesi occidentali. Rimangono tuttavia dei sottogruppi di età (es. < 1 anno) e/o patologia (es. tumori SNC) in cui la SUR
Tabella III.
Migrazione extraregionale per periodo di diagnosi.
Regione residenza
2001-2005
Migrazione % (IC 95%)
2006-2010
Migrazione % (IC 95%)
Differenza %
17.1 (13.8-20.4)
19.4 (16.1-22.4)
+ 2.3
Piemonte
Lombardia
Trentino Alto Adige
Veneto
6.7 (5.1-8.3)
7.1 (5.6-8.6)
+ 0.4
92.1 (86.0-98.2)
93.5 (88.5-98.5)
+ 1.4
8.4 (6.0-10.8)
7.2 (5.1-9.3)
- 1.2
Friuli Venezia Giulia
18.5 (11.8-25.2)
15.8 (9.7-21.9)
- 2.6
Liguria
11.0 (6.0-16.1)
7.0 (3.0-11.0)
- 4.0
Emilia Romagna
22.0 (17.8-26.2)
15.3 (12.0-18.6)
- 6.7
Toscana
12.6 (9.1-16.1)
5.9 (3.6-8.2)
- 6.8
Umbria
36.9 (27.6-46.2)
41.4 (31.7-51.1)
+ 4.5
Marche
28.9 (21.6-36.2)
19.2 (13.0-24.2)
- 9.7
8.7 (6.3-11.1)
8.7 (6.4-10.9)
-
Lazio
Abruzzo
64.9 (57.4-72.4)
63.2 (54.7-71.7)
- 1.7
Campania
31.1 (27.7-34.5)
25.6 (22.6-28.6)
- 5.4
Puglia
46.8 (42.4-51.2)
38.6 (34.3-42.9)
- 8.2
Calabria
40.7 (34.1-47.3)
43.2 (36.9-49.5)
+ 2.4
Sicilia
34.5 (30.7-38.3)
32.5 (28.7-36.3)
- 2.0
Sardegna
34.4 (27.0-41.8)
26.9 (20.3-33.5)
- 7.5
ITALIA
23.6 (22.6-24.6)
20.5 (19.6-21.4)
- 3.1
Legenda: IC 95%, intervallo di confidenza al 95%.
230
I tumori dei bambini e adolescenti in Italia
non è soddisfacente e pertanto sono necessari ulteriori progressi nel
trattamento di queste forme.
Tra le criticità emerse risulta particolarmente importante quella relativa sia all’aumento dei tumori negli adolescenti, sia al loro basso
reclutamento nei centri pediatrici. L’assistenza agli adolescenti è
ancora inadeguata, ed è strategico esplorare strumenti alternativi
alla rete dei centri AIEOP, quale quella dei registri tumori aderenti
all’AIRTUM, con i quali è nata una collaborazione che ha già portato
a pianificare progetti comuni sull’argomento.
Un altro fenomeno positivo è rappresentato dalla riduzione del
fenomeno della migrazione extraregionale dovuta alla sempre
più capillare diffusione dei centri AIEOP sul territorio nazionale.
Il fenomeno si è ridotto significativamente nel tempo, arrivando ora
a interessare circa il 20% dei casi arruolati.
Una sfida che si sta delineando per il prossimo futuro è rappresentata al contempo dall’aumento dell’immigrazione sanitaria. Se da una
parte il fenomeno dell’immigrazione è un flusso che pare inarresta-
bile, sebbene minore e con caratteristiche diverse, l’immigrazione a
scopi sanitari di bambini e adolescenti affetti da tumore è in costante aumento e prevalentemente segue canali istituzionali o umanitari
che possono essere in qualche modo pianificati.
Infine, risulta estremamente rilevante il fatto che ancora poco si
conosce sull’eziologia dei tumori pediatrici. L’elenco delle sostanze
di cui si ha la certezza che causino tumore nel bambino è ancora limitato, se paragonato a quello dell’adulto. Alle sostanze vanno
poi aggiunte le infezioni, i comportamenti, l’alimentazione e il fatto
che più spesso si assiste ad un’esposizione multipla, basti pensare all’inquinamento atmosferico. Pertanto questo è il motivo che
impone di adottare il principio di precauzione al fine di prevenire
l’esposizione dei bambini a sostanze possibilmente cancerogene,
consapevoli come sia ancora lungo il cammino da fare da parte di
epidemiologi, pediatri oncologi e operatori sanitari a qualunque titolo
coinvolti, per migliorare ancora di più il presente e il futuro di bambini e adolescenti.
Box di orientamento
Tumori infantili in calo: ma siamo ancora superiori al resto d’Europa
Eziologia ancora ampiamente sconosciuta
Sopravvivenza a lungo termine in aumento: maggiore probabilità di guarigione
Assistenza agli adolescenti ancora inadeguata: ne può risentire la prognosi
Migrazione: ancora elevata al sud e nelle isole, ma in costante diminuzione
Immigrazione: in aumento i casi immigrati per motivi sanitari
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Corrispondenza
Andrea Pession, Direttore U.O. Pediatria, Policlinico S. Orsola-Malpighi, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Via Massarenti, 11, 40138
Bologna. Tel./Fax.: +39 051 346044. E-mail: [email protected]
232
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 233-237
ONCologia pediatrica
Children with cancer in Europe: challenges and
perspectives
Kathy Pritchard-Jones
University College London, Institute of Child Health, 30 Guilford Street, London, UK
Summary
Cancer in children and adolescents is rare and biologically different from cancer in adults. In high-income countries, survival from childhood cancer has
reached 80% through a continuous focus on the integration of clinical research into front-line care for nearly all children affected by malignant disease.
Further improvements must entail new biology-driven approaches since optimization of conventional treatments has in many cases reached its limits. This
will be achieved by the access to drugs thar are less toxic and more targeted than those currently used and through international collaborative research,
since rare cancers are being subdivided into increased smaller subgroups. Finally the long-term effect of anticancer treatment on quality of life must also
be taken into account because more than one in 1000 adults in high-income countries are thought to be survivors of cancer in childhood or adolescence.
Riassunto
I tumori del bambino e adolescente sono malattie relativamente rare e biologicamente differenti dai tumori dell’età adulta. Nei paesi con risorse economiche
elevate, la sopravvivenza dei tumori infantili ha raggiunto oggi l’80%. Ciò si è realizzato attraverso l’arruolamento dei pazienti in protocolli clinici come
standard di cura di prima linea. Il progressivo miglioramento è probabile possa essere ottenuto con approcci innovativi basati sulle conoscenze biologiche
e molecolari, poiché l’ottimizzazione dei trattamenti con i farmaci convenzionali ha raggiunto ormai il massimo delle sue potenzialità. L’accesso a farmaci
meno tossici e diretti contro target molecolari più specifici dei chemioterapici convenzionali e la collaborazione internazionale per far fronte all’identificazione e trattamento di gruppi di pazienti sempre più piccoli, sono due degli aspetti da cui dipenderà l’ulteriore miglioramento della sopravvivenza dei pazienti.
Infine l’impatto a lungo termine dei trattamenti chemio-radioterapici sulla qualità di vita è divenuto sempre più rilevante, considerando che si stima che
circa 1 adulto su 1000 sia stato affetto da tumore in età pediatrica.
Key words: childhood cancer, clinical research, SIOP Europe
Parole chiave: cancro infantile, ricerca clinica, SIOP Europa
Introduction
Cancer in children is a significant health challenge for our society,
even though it is relatively rare, affecting about 1 in 600 children
before their 15th birthday, and comprises only 1% of all cancers in
high income countries (Pritchard-Jones et al., 2013). In this setting,
overall survival has increased to approximately 80% at 5 years. This
means that current estimates of the proportion of the young adult
population (aged 18-40 years) who has survived childhood cancer
stands at 1 in a thousand. This proportion is set to continue to rise
rapidly.
Despite these good overall survival rates, there remain subgroups
of childhood cancers with much worse outcomes, such as high risk
neuroblastoma, high grade gliomas and metastatic sarcomas. Also,
for those children who are cured with current treatments, many will
have received unpleasant, prolonged therapy that disrupts schooling
and family life and may cause permanent side effects that compromise normal functioning in adult life. Hence, clinical research that
aims to improve survival rates and quality of survival for the total
population afflicted by childhood cancer remains an important goal
for our society.
The spectrum of the mainly embryonal cancer types seen in children is very different from the predominantly epithelial types seen
in adults and from the spectrum of cancers seen in adolescents and
young adults (Fig. 1). However, the number of major subtypes is just
as complex as in adult cancer (Fig. 2). Once biological risk stratifica-
tion is incorporated, whereby tumours are risk-stratified according
to their molecular subtype, then each childhood cancer category becomes individually rarer still. Hence, it is essential that clinical trials
specific to the cancers that affect children and adolescents are conducted in a timely and efficient manner if we are to continue to make
progress at a European level. These inevitably require multi-national
co-operation due to the small numbers of cases in each country.
Since the beginning of the new millenium, the rate of improvement
in overall survival rates has slowed for most childhood cancers (Fig.
3). It is becoming clear that we have reached the limits of optimising
currently available treatments through dose intensification or rapid
scheduling, and that new approaches are needed (Pritchard-Jones
et al., 2013). These can include introduction of biomarkers to improve the accuracy of risk-stratification or response assessment,
and use of new, molecularly targeted drugs that have mostly been
developed for adult cancers (Vassal et al., 2013). Indeed, there are
now more than 400 biologically targeted drugs available for clinical
use in adult cancers, but few of these have yet been tested for their
safety or efficacy in childhood cancers, even though there may be a
strong biological rationale if the same molecular target is disrupted
in cancer in both age groups.
The other major challenge is the inequality in survival rates seen
between different geographical regions of Europe. The differences
measured by comparative cancer registry research in the 1990s
233
K. Pritchard-Jones
Age groups (years)
Mortality
Figure 2.
Proportion of the 12 main tumor groups in children and adolescents in Europe (with permission of Lancet Oncology, Pritchard-Jones et al., 2013).
Years
Figure 1.
Cancer incidence by type in three age groups (with permission of Lancet Oncology, Pritchard-Jones and Sullivan, 2013).
showed an approximately 15-20% difference in survival rates,
even though the rate of improvement was similar in Eastern and
Western European regions (Fig. 4). Whilst there is recent evidence
that this difference is decreasing in the 2000s (Gatta et al, 2013),
it must be remembered that this improvement is only known with
any confidence in those countries with cancer registration in place
at a population level. There may be persisting outcome differences
in countries without specific cancer control resources in place. For
these reasons, outcomes research must also focus on the broader
aspects of health services delivery and models of care.
The Europe perspective
To address the challenges faced by children and young people with
cancer at a European level, the ENCCA project (European Network for
Cancer research in Children and Adolescents) was developed with funding from the 7th framework programme of the European Commission
(www.encca.eu). Due to the requirements of European grant funding,
234
Figure 3.
Child cancer mortality (per million person-years) (aged 0-14 years) in
three European countries (Ireland, Netherlands and UK (combined) (blue
line) and the USA (red line) (modified from Lancet Oncology, PritchardJones et al., 2013).
ENCCA was created at relatively short notice in 2009 by the collaborative efforts of a relatively limited number of specialist centres active in
treatment and clinical research into childhood and/or adolescent cancers. However, it was always planned from the very beginning that ENCCA would unite the multinational clinical trial groups and national childhood cancer organisations into the building blocks of a future «virtual
institute» of paediatric haemato-oncology research, that would involve
every major treatment and research centre across Europe.
To summarise the need in numbers, every year there are 15,000
new cases of cancer in children and adolescents in Europe. Whilst
80% can be cured with current multidisciplinary treatments, 3,000
will die. There are more than 60 different disease types histologically and clinically, from newborns to teenagers. There are hundreds
of subtypes when biomarkers are considered. These children and
young people receive their diagnosis and treatment at one of about
250 public specialised treatment centres in the EU, each seeing only
a handful of each individual cancer type each year.
Childhood cancer in Europe: problems and perspective
Mortality
agreeing common goals and priorities and then working in partnership to deliver these in a timely fashion. Everyone will benefit from
such sharing of resources – most importantly the patients who will
see the fruits of the research being applied in clinical care more
quickly and with greater confidence from the robust sample size
involved in each trial question.
Years
Figure 4.
Child cancer mortality (per million person-years) (aged 0-14 years) in
former socialist economies (red line) compared with other European
countries (blue line) (modified from Lancet Oncology, Pritchard-Jones
et al., 2013).
The challenges of clinical research
Since the 1970’s, there have been networks conducting clinical trials across many institutions, all working to a common protocol with
standards for diagnosis, pathology review, response assessment
and event free and overall survival. Many of these clinical trial groups
started as national entities, often conducting single arm studies that
laid the evidence base for the standard of care. However, soon either
the numbers required for statistically meaningful trial design, or the
intellectual rigor and pleasure of working with like-minded individuals with a common understanding and passion for improvement in
outcomes, led to most clinical trial groups working across national
boundaries. By the late 1990s, approximately 40% of patients were
treated within trials (phase I to III), a further 40% were treated according to recognised standards within prospective studies, but less
than 5% were enrolled in pharma-sponsored trials of new drugs.
However, since the introduction of the well-intentioned EU Clinical
Trials Directive (EU-CTD), the proportion of children treated in clinical trials or prospective studies has dropped dramatically. This is not
because the trials are no longer needed, but rather because the time
taken and expense incurred to open a trial has increased massively
due to new bureacracy and need for formal sponsorship with insurance (Pritchard-Jones, 2008).
How to make progress
The challenge for childhood cancer in the current millenium must
be to gain a better understanding of the biological basis of the different childhood cancers and to work in partnership with the pharmaceutical industry to obtain better access to molecularly targeted
drugs that may offer chances for improved or safer cure (Vassal et
al., 2013, Pritchard-Jones, 2008). This will require extensive translational research, with comprehensive tissue banking from current
patients linked to their clinical diagnosis, treatment and outcome
data. Only in this way can biomarkers for risk prediction, response
assessment and signposting to existing therapies be developed and
assessed prior to routine use in standard care.
How do we achieve all of this with the limited resources available to
us? The answer has to lie in much wider and stronger collaboration,
Through the ENCCA project and its workstreams, many high-level
research teams dedicated to paediatric tumour biology have forged
stronger links and are sharing tissue samples and genomic analysis data. A series of ‘biology-driven drug development workshops’
have been held to bring together experts in drug development, the
relevant tumour biology and clinical trial groups and representatives
of parents and regulators (http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/
document_library/Regulatory_and_procedural_guideline/2013/02/
WC500139182.pdf;http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Regulatory_and_procedural_guideline/2013/02/
WC500139183.pdf; Perotti et al., 2013).
Here the discussion has been about understanding the driver biological targets or pathways for each tumour type or subtype and
prioritising the drugs for testing in early phase trials in high risk
tumours. The ultimate output of each workshop is a proposal for a
model ‘Paediatric investigation plan’ that can stimulate more appropriate drug development plans that match the clinical unmet needs
of children with these forms of cancer.
Working with the clinical trial groups and the innovative therapies for
children with cancer consortium (www.itcc-consortium.org), several
workpackages within ENCCA are prioritising this biology-driven approach to new drug development, aiming to open at least one trial
of a suitably targeted new agent. The resources to run the trial do
not come from ENCCA, rather it provides the catalyst that has allowed groups to bid successfully for further funding or to present a
united front to an industry partner to make the drug and sometimes
sponsorship available.
This partnership approach to improving outcomes for children and
young people with cancer across Europe requires us all to think in a
different way to the traditional institutional and national loyalties we
were brought up with. We need to agree on the best structures and
relationships in order to build a sustainable, safe and high quality
network for clinical care and research that benefits all of the children and young people with cancer in Europe. This is the only way
we can truly tackle the unacceptable variation we find now in access to ‘state of the art’ treatment and best outcomes. SIOP Europe
has therefore created a ‘European Clinical Research Council’ (ECRC)
to be the common, harmonised voice for advocacy and lobbying at
the European level on paediatric and adolescent cancer clinical and
research activities. The ECRC comprises representatives of each of
the National Paediatric Haemato-Oncology Societies (NAPHOS) and
of the multi-national clinical trial groups.
Many EU member states have established NAPHOS that have links
to health policy makers and have introduced quality standards
for specialist centres to care for children with cancer and for the
training of the staff who work there. In the UK, for example, there
are 17 specialist centres designated to provide services for a total
population of about 60 million. Quality standards were published in
2005 (http://www.nice.org.uk/nicemedia/pdf/C&YPManual.pdf) and
centres have been externally quality assessed since 2012. However,
not all countries in Europe have yet achieved this, and the degree
235
K. Pritchard-Jones
Table I.
The 7 priority areas for a Virtual Institute of Paediatric Haematology Oncology to make progress in:
Introducing safe and effective innovative treatments (new drugs, new technologies) in multidisciplinary standard care.
Driving therapeutic decision by improved risk classification and use of molecular characteristics (tumour, patient) – personalized medicine
Increasing knowledge on tumour biology and speeding up translation to the patients
Increasing equal access across Europe to standard care and clinical research
Addressing the specific needs of adolescents and young adults jointly with adult oncology
Addressing long-term toxicity and cancer treatment consequences including the genetic background/risk – quality of survivorship
Understanding the causes of paediatric cancers and setting prevention where possible
Table II.
Challenges and proposed solutions to make progress in childhood cancers.
Summary of Challenges
Increasing complexity of risk stratification
Proposed Solutions
We have to work together across Europe to design and implement clinical
trials – the European Clinical Trials Council, co-ordinated by SIOPE
– single countries only have a handful of cases in each category e.g. very
high risk Wilms: 5 pts and 1-2 relapses/yr in Italy
Optimisation of intensive use of present treatments has reached its limits
European virtual institute for translational research in childhood and
adolescent cancer to promote a biology-driven approach
- Need for biology-driven approach to risk stratification and response
assessment in front line treatment
Unaffordable & unnecessarily complex regulatory bureaucracy for
international investigator-led clinical trials
Professionals, parents and patients need to establish a “Therapeutic
Alliance” with industry & regulators
- Need to influence revision of EU CTD to a Regulation
Insufficient commercial interest from Phama
of development of standards and quality assurance remains variable. Hence, an important project has been launched through SIOP
Europe, the European Standards of Care for children with cancer
(http://www.siope.eu/european-research-and-standards/standards-of-care-in-paediatric-oncology/). This is now being disseminated through a partnership with EPAAC (European Partnership for
Action Against Cancer). It should be noted that a key component of
the expected standard for any childhood cancer treatment centre is
the ability to offer patients participation in clinical trials and to contribute clinical data to cancer registration processes. This is based
on the clear observation that patients who are treated within clinical
trials or at institutions that are active in research have better outcomes (Stiller et al., 2012). The life threatening diseases that make
up childhood cancer and the serious side effects of the necessary
treatments mandate that the clinical teams should be constantly
236
Professionals, parents and patients need to establish a “Therapeutic
Alliance” with industry & regulators
learning and improving through clinical research and well designed
prospective studies and audit.
Conclusions
SIOP Europe and ENCCA are currently working on creating a sustainable solution to the challenges we face together in continuing
to make improvements for children and young people with cancer
in Europe. This group has identified 7 priority areas that we need
to focus on (Tab. I). Whilst the challenges are immense, solutions
have been identified (Tab. II). We now need to coordinate our efforts in each country so that we can work together most effectively
to ensure we are ready to win the opportunities that we expect to
be available in Horizon 2020 and other funding sources in the near
future.
Childhood cancer in Europe: problems and perspective
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
I tumori pediatrici, rappresentando solo l’1-2% di tutti i casi registrati di tumore, sono un evento relativamente raro. Nonostante ciò, queste malattie
hanno un grande impatto sui pazienti, sulle loro famiglie e sulla società in generale, e costituiscono la seconda causa di morte in età infantile dopo
traumi ed avvelenamenti. La diminuzione del tasso di mortalità dei tumori pediatrici (in particolare leucemie, malattia di Hodgkin e sarcomi) è stato
uno dei successi più importanti della medicina negli ultimi 30 anni. Tale risultato è stato ottenuto principalmente grazie all’arruolamento dei pazienti
in protocolli clinici di diagnosi e trattamento, come standard di cura, al miglioramento delle terapie di supporto e ai risultati del trapianto di cellule
staminali emopoietiche.
Cosa sappiamo adesso
Nei paesi con elevate risorse economiche, il trend di miglioramento ha raggiunto una stabilità ed è difficile prevedere che un ulteriore successo possa avvenire con l’ottimizzazione dei chemioterapici fino ad ora utilizzati. La genomica sta progressivamente modificando il paradigma di cura verso
l’utilizzo di farmaci diretti contro le alterazioni genetiche dei diversi tipi di tumore. L’aspettativa è quella di poter disporre di farmaci meno tossici e
più efficaci, perché diretti principalmente contro la cellula tumorale. Un ulteriore aspetto di novità è costituito dai “guariti” o “lungo sopravviventi” (si
stima che circa 1 adulto su 1000 sia stato affetto da tumore in età pediatrica) e dalla necessità di sviluppare risposte a nuove domande di salute, di
inserimento sociale e di qualità di vita.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Il successo terapeutico dei tumori in età pediatrica rende ancora più necessario il diretto coinvolgimento del Pediatra e Medico di famiglia nel percorso
di diagnosi e cura per poter divenire senza soluzione di continuità il referente diretto di nuovi bisogni di salute che il bambino/adolescente “guarito”
esprimerà a conclusione del suo percorso terapeutico.
References
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study. Lancet Oncol 2013;Dec5 (Epub ahead of print).
Perotti D, Hohenstein P, Bongarzone I, et al. Is Wilms Tumor a Candidate Neoplasia for Treatment with WNT/β-Catenin Pathway Modulators? A Report from
the Renal Tumors Biology-Driven Drug Development Workshop. Mol Cancer Ther
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Pritchard-Jones K, SIOP Europe. Clinical Trials for children with cancer in Europe
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2008;44:2106-11.
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http://www.ema.europa.eu/docs/en_GB/document_library/Regulatory_and_
procedural_guideline/2013/02/WC500139183.pdf
http://www.siope.eu/european-research-and-standards/standards-of-care-inpaediatric-oncology/
http://www.nice.org.uk/nicemedia/pdf/C&YPManual.pdf.
Corrispondenza
Kathy Pritchard-Jones, University College London, Institute of Child Health, 30 Guilsford Street, London, UK. E-mail: [email protected]
237
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 238-245
ONCologia pediatrica
Il trapianto emopoietico e le terapie cellulari
nella cura delle neoplasie ematologiche del
bambino: da uno sguardo al passato alla
proiezione futura
Pietro Merli1, Giuseppe Palumbo1, Stefania Gaspari1, Franco Locatelli1,2
Dipartimento di Oncoematologia Pediatrica e Medicina Trasfusionale, IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù,
Roma
2
Dipartimento di Scienze Pediatriche, Università degli Studi di Pavia, Pavia
1
Riassunto
Il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (allo-TCSE) ha contribuito in modo significativo al miglioramento della prognosi di numerosi
pazienti pediatrici affetti da emopatie maligne. Per molti anni, l’unico donatore di cellule staminali impiegato è stato un fratello/sorella HLA-identico. Nelle
ultime due decadi, tuttavia, per i pazienti che non disponevano di un donatore familiare, sono stati largamente utilizzati donatori adulti da registro, utilizzando sia midollo osseo che cellule staminali ematopoietiche da sangue periferico, così come unità di sangue cordonale adeguatamente caratterizzate
e criopreservate. Più recentemente, inoltre, il trapianto da un donatore familiare parzialmente compatibile è diventato una possibile alternativa, grazie
anche all’implementazione di nuove strategie di manipolazione del trapianto e all’osservazione che l’infusione di ciclofosfamide nei giorni immediatamente
successivi al trapianto è in grado di prevenire l’insorgenza delle complicanze immuno-mediate correlate all’allo-TCSE (nello specifico, rigetto e malattia
da trapianto verso l’ospite). Infine, negli ultimi anni, si è assistito allo sviluppo di strategie di immunoterapia adottiva, basate sull’infusione di linfociti T
patogeno-specifici, così come sull’infusione di linfociti T trasdotti con recettori chimerici in grado di riconoscere specificamente particolari antigeni tumoreassociati. Questo tipo di linfociti anti-tumore rappresentano una sorta di rivoluzione nel campo dell’allo-TCSE, in particolare per il trattamento di quei
pazienti affetti da tumori non responsivi a terapie citostatiche convenzionali.
Summary
Allogeneic hematopoietic stem cell transplantation (Allo-HSCT) has significantly contributed to improve the prognosis of many children with life-threatening
haematological malignancies. While for many years the only donor employed was an HLA-identical sibling, in the last 2 decades, unrelated adult donors
of either bone marrow or peripheral blood hematopoietic stem cells, as well as cord blood units collected and cryopreserved, have been largely utilized to
transplant patients lacking a compatible family donor. More recently, transplantation of hematopoietic stem cells from an HLA-partially matched relative
have become a suitable alternative, also thanks to the implementation of novel strategies of graft manipulation and to the discovery that the infusion of
cyclophosphamide immediately after transplantation can prevent the occurrence of immune-mediated complications related to Allo-HSCT (namely, graft
rejection and graft-versus-host disease). The last few years have witnessed the emergence of strategies of adoptive cell therapy, based on the infusion of
pathogen-specific immune cells and of T cells transduced with chimeric antigen receptors, able to specifically target antigens present on tumor cells. These
selective anti-tumor T lymphocytes promise to represent a sort of revolution in the field of allo-HSCT, rendering this procedure even more successful and
useful to treat children with malignancies not benefiting from conventional chemotherapy approaches.
Parole chiave: Trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche, emopatie maligne, trapianto aploidentico, immunoterapia
Key words: Allogeneic hematopoietic stem cell transplantation, haematological malignancies, HLA-haploidentical transplantation, immunotherapy
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli rilevanti sul Trapianto allogenico di cellule
staminali ematopoietiche è stata effettuata sulla banca bibliografica
Medline utilizzando come motore di ricerca PubMed (1955-presente) e come parole chiave “Allogeneic Hematopoietic Stem Cell Transplantation”, “Cord Blood Transplantation”, “Unrelated Donor”, “Haploidentical Transplantation” e “Partially Matched Relative Donor”.
Introduzione
Non vi è dubbio che il trapianto allogenico di cellule emopoietiche (allo-TCSE) abbia significativamente contribuito a modificare la prognosi
238
di molti pazienti pediatrici affetti da emopatie maligne, rappresentando, in alcuni casi, come per esempio nelle leucemie mielomonocitiche
giovanili (JMML) (Locatelli et al., 2005), l’unica terapia salvavita e, in
altri, come nelle leucemie acute ad alto rischio, la terapia elettivamente più efficace per ridurre il rischio di ricaduta di malattia nei pazienti
che raggiungono una remissione (Pession et al., 2005). Altrettanto
indiscutibile è l’osservazione che, nel corso degli anni, l’effetto terapeutico dell’allo-TCSE si sia progressivamente definito come principalmente attribuibile all’azione delle cellule linfocitarie appartenenti
all’immunità innata o adattiva del donatore, le quali contribuiscono in
maniera determinante all’eradicazione delle cellule tumorali del ricevente sopravvissute alla terapia citostatica e/o radiante impiegata in
preparazione al trapianto (regime di condizionamento).
Il trapianto di cellule staminali emopoietiche nelle emopatie maligne pediatriche
Le prime osservazioni sull’effetto antileucemico del trapianto di cellule spleniche in modelli murini risalgono alla metà degli anni ’50 dello
scorso secolo (Barnes and Loutit, 1957). Esperimenti successivi condotti
in modelli di cane e di scimmia, hanno permesso, nel 1957, la realizzazione del primo allo-TCSE sull’uomo: 2 pazienti affetti da leucemia
furono sottoposti a trapianto di midollo osseo geneticamente identico
dopo irradiazione dell’organismo con dosi sovramassimali; in entrambi
i casi, dopo l’attecchimento, i pazienti morirono per recidiva di malattia
(Thomas et al., 1957). Solo nel 1965 si è, tuttavia, ottenuto il primo attecchimento persistente di un trapianto da fratello (Mathe et al., 1965);
per questo motivo, fino alla fine degli anni ’60, sono stati effettuati
poche decine di trapianti di midollo, con risultati scoraggianti in termini di sopravvivenza, soprattutto a causa del mancato attecchimento
dell’emopoiesi del donatore, della malattia del trapianto contro l’ospite
(Graft-versus-Host Disease, GvHD, dovuta all’aggressione delle cellule T
linfocitarie del donatore rispetto a tessuti del ricevente riconosciuti come
non-self) e della recidiva della leucemia (Bortin, 1970). In quegli anni,
l’identificazione del Complesso Maggiore di Istocompatibilità (Human
Leukocyte Antigen system, sistema HLA) e la conseguente possibilità di
selezionare donatori familiari immunogeneticamente identici ha portato
a una notevole riduzione del rigetto e della GvHD (van Rood, 1968), dando nuovo impulso all’allo-TCSE.
Ulteriori progressi sono derivati dall’introduzione della ciclosporina
per la profilassi della GvHD. La ciclosporina è un oligopeptide ad
azione immunosoppressiva che agisce come inibitore dei linfociti
T; è stata inizialmente impiegata nei trapianti di organo solido, ma
il suo uso era principalmente limitato dalla rilevante nefrotossicità.
L’aggiustamento delle dosi sulla base della farmacocinetica ne ha
reso possibile l’estensivo uso clinico (Powles et al., 1978), tanto che,
tuttora, in associazione con il Methotrexate, essa costituisce il gold
standard per la profilassi della GvHD.
I progressi ottenuti in termini di profilassi e terapia delle complicanze infettive, attraverso la disponibilità di nuovi antibiotici ad ampio
spettro, di farmaci antivirali e la sintesi di nuovi antifungini hanno
ulteriormente migliorato l’efficacia clinica dell’allo-TCSE.
A partire dai primi anni ’70, l’istituzione di Registri di Midollo Osseo per
il trattamento di quei pazienti che non avevano a disposizione un donatore HLA-identico all’interno del nucleo familiare, ha reso possibile l’accesso alla procedura trapiantologica per un numero sempre crescente
di soggetti. Oggi, i Registri, collegati tra loro in rete, annoverano oltre
20.000.000 di potenziali donatori, cui vanno sommate le oltre 600.000
unità di sangue cordonale in tutto il mondo adeguatamente caratterizzate in termini immunogenetici e di contenuto cellulare e criopreservate.
Gli straordinari risultati clinici ottenuti negli anni grazie all’allo-TCSE
hanno dato impulso alla ricerca di tecniche innovative che consentono di offrire questa possibilità terapeutica anche a quei pazienti che
non hanno a disposizione, nella fratria o al di fuori di essa, un donatore HLA identico. Tra queste attività di ricerca traslazionale, molto
rilevanti sono state quelle che hanno portato all’identificazione di
tecniche innovative di manipolazione estensiva delle cellule che
vengono ad essere trapiantate e che, oggi, consentono una buona
sicurezza ed efficacia anche per allo-TCSE realizzati impiegando un
donatore familiare HLA-parzialmente compatibile (trapianto aploidentico) (Aversa et al., 1994).
Il trapianto da donatore non consanguineo HLAidentico (Matched Unrelated Donor, MUD)
Considerando la modalità co-dominante della ereditarietà del sistema HLA, la probabilità di reperire per un paziente un germano
compatibile è del 25%. È, quindi, evidente che solo una minoranza
dei pazienti che potrebbero beneficiare di un trapianto possiede un
donatore HLA-identico all’interno del nucleo familiare. La probabilità
di reperire un donatore HLA-identico tramite i Registri Internazionali
dei donatori di midollo osseo o le banche di raccolta e conservazione del sangue cordonale è stimabile oggi nell’ordine del 60-70%,
dipendendo, tuttavia, in larga parte dalle caratteristiche immunogenetiche e dall’etnia del ricevente. Pazienti di origine caucasica
hanno, infatti, una probabilità di identificare un donatore compatibile
maggiore rispetto a pazienti di origine africana o ispanica, in quanto
i gruppi etnici da cui originano questi pazienti sono assai meno rappresentati nei registri rispetto al gruppo caucasico.
Mentre nei primi anni d’impiego di donatori non consanguinei l’outcome
dei pazienti sottoposti a questo tipo di trapianto era inferiore rispetto ai
trapianti da un donatore germano a causa di un aumentato rischio di
complicanze immmunologiche (GvHD e rigetto), a loro volta motivate
dai limiti delle tecniche di tipizzazione HLA, la tipizzazione genomica ad
alta risoluzione in atto dal 1998 ha di fatto attualmente completamente
annullato le differenze tra trapianto da donatore familiare e da donatore
MUD (Locatelli et al., 2002; Bernardo et al., 2012). La tipizzazione del
sistema HLA viene, infatti, oggi realizzata utilizzando metodiche di tipizzazione molecolare ad alta risoluzione per gli alleli di classe I e II del
sistema HLA. Generalmente i pazienti vengono tipizzati per cinque loci
HLA: HLA-A, -B, -C, -DRB1 e -DQB1. Il donatore ideale è quello identico
per tutti e cinque i loci. Tuttavia, sono utilizzati con buona probabilità di
successo donatori non familiari che differiscono dal ricevente per un
singolo allele. È stato dimostrato che alcuni alleli sono più permissivi
di altri, e, quindi, la disparità di questi non costituisce un ostacolo assoluto all’efficacia dell’allo-TCSE. Ad esempio, la disparità allelica sul
locus HLA-B è meglio tollerata rispetto a quella sui loci HLA-A, HLA-C or
HLA-DRB1, mentre la disparità di HLA-DQB1 non comporta alcun rischio
aggiuntivo, se non associata ad altre disparità alleliche (Lee et al., 2007;
Petersdorf et al., 2004). È stato, inoltre, dimostrato che mutazioni specifiche di aminoacidi nella catena pesante delle molecole HLA di classe
I correlano con incidenze più elevate di GvHD e con maggior rischio di
mortalità correlata alla procedura (Ferrara et al., 2001).
Il trapianto da cellule di sangue cordonale
(Unrelated Cord Blood Transplantation, UCBT)
Dal primo trapianto di sangue cordonale, eseguito da Gluckman e
collaboratori nel 1988 in un paziente affetto da Anemia di Fanconi
(Gluckman et al., 1989), numerosi studi ne hanno dimostrato l’efficacia come fonte alternativa di cellule staminali ematopoietiche per
quei pazienti che necessitano di trapianto allogenico, sia nel contesto di patologie maligne che benigne (Barker et al., 2001; Locatelli
et al., 2013; Locatelli et al., 1999; Rocha et al., 2001; Rocha et al.,
2000; Wagner et al., 1995). In particolare, studi condotti in pazienti
pediatrici hanno evidenziato una sopravvivenza globale ed una sopravvivenza libera da malattia sovrapponibili al trapianto da MUD
(Barker et al., 2001), con lo svantaggio rispetto a questo di un attecchimento più lento (specialmente per quanto riguarda il recupero
delle piastrine), ma con il vantaggio di una minor incidenza e severità di GvHD acuta e cronica (Rocha et al., 2001; Rocha et al., 2000).
Ad oggi, nel mondo, come già menzionato, sono conservate più
di 600.000 unità di sangue cordonale e sono stati eseguiti più di
30.000 trapianti di questo tipo (Ballen et al., 2013).
I due principali fattori che determinano il successo di questo tipo di
trapianto sono la dose cellulare infusa (normalmente espressa in
termini di cellule nucleate totali per Kg del ricevente, TNC/Kg) (Lo-
239
P. Merli et al.
catelli et al., 1999; Gluckman, 2004) e il matching HLA (espresso
in termini di matching HLA per i loci A,B e DR (x/6) o per i loci A, B,
C e DR (x/8)) (Wagner et al., 2002): i due fattori sono intimamente
connessi (Barker et al., 2007; Eapen et al., 2007), per cui, in linea
generale, in presenza di una disparità immunogenetica maggiore
nella coppia donatore/ricevente è necessario disporre di una maggiore dose cellulare per raggiungere un outcome comparabile; per
questo motivo, sono stati sviluppati appositi algoritmi di selezione
delle unità di sangue cordonale, un esempio dei quali è riportato in
Figura 1 (Barker et al., 2011; Eapen et al., 2013).
Data, quindi, l’importanza della dose cellulare, è ovvio come questa,
specialmente nei pazienti adulti, ma anche nei pazienti pediatrici
con un peso elevato, sia un fattore limitante per il successo del trapianto. In virtù di questa osservazione, vari gruppi di ricerca hanno
investigato strategie atte a migliorare l’attecchimento dell’unità cordonale.
Il primo approccio preso in considerazione è stato quello del trapianto contemporaneo di 2 unità cordonali diverse: nonostante vi
siano evidenze del vantaggio di questo approccio nel paziente adulto
(Scaradavou et al., 2013), l’analisi preliminare di uno studio prospettico randomizzato ha evidenziato come, nel contesto pediatrico, il
co-trapianto di 2 unità non manipolate di sangue cordonale non solo
non porti ad un vantaggio in termini di sopravvivenza, ma comporti
anche un rischio di GvHD acuta maggiore (Wagner et al., 2012).
Un’altra strategia adottata di recente è rappresentata dall’espansione ex-vivo di un’unità di sangue cordonale su un layer di cellule
stromali mesenchimali (MSCs) (Robinson et al., 2006), dato che tali
cellule concorrono a costituire la nicchia ematopoietica. In un recente lavoro, de Lima e collaboratori hanno dimostrato come questa
metodica permetta un’espansione delle cellule nucleate di 12 volte e
delle cellule CD34+ di circa 30 volte (de Lima et al., 2012): l’infusione del prodotto, insieme ad una seconda unità di sangue cordonale
non manipolata, determinava, inoltre, un attecchimento più rapido.
È interessante notare che lo studio del chimerismo ha mostrato che,
come osservato in altri studi di co-trapianto di 2 unità di sangue
cordonale di cui una era stata manipolata, l’unità espansa era responsabile dell’attecchimento precoce, mentre quella non manipolata sosteneva l’attecchimento a lungo termine: non è ancora chiaro
se ciò sia dovuto ad una minor presenza di cellule favorenti l’attecchimento (dato che la maggior parte delle piattaforme di espansione
comportano la deplezione dei linfociti) o ad un esaurimento della
capacità di autorinnovamento delle cellule staminali.
Un approccio simile dal punto di vista concettuale è costituito dalla coinfusione di un’unità di sangue cordonale con MSCs: tale strategia non
ha però mostrato un vantaggio in termini di attecchimento, pur dimostrando una minor incidenza di GvHD di grado III-IV (Bernardo et al.,
2011).
Dal momento che una percentuale significativa delle cellule infuse
non raggiunge il midollo osseo (soprattutto a causa dell’intrappolamento a livello del filtro polmonare), Frassoni e collaboratori hanno
sperimentato l’infusione diretta nel midollo osseo (a livello delle creste iliache) dell’unità di sangue cordonale: è stato dimostrato come
tale approccio permetta il superamento dell’effetto-dose, anche in
presenza di una elevata disparità immunogenetica fra donatore e
ricevente (Frassoni et al., 2008).
Sono allo studio approcci ulteriori attualmente volti al miglioramento
dell’attecchimento e dell’immunoricostituzione, quali:
il co-trapianto di sangue cordonale e cellule staminali periferiche da
donatore aploidentico (Lui et al., 2011) o MUD (Bautista et al., 2009);
il miglioramento dell’homing delle cellule staminali e dei progenitori
cordonali infusi, attraverso la fucosilazione delle cellule (Robinson et
al., 2013), l’inibizione dell’enzima Dipeptildipeptidasi 4 (DPP4) (Christopherson et al., 2004) e il pretrattamento con prostaglandina E
modificata (Cutler et al., 2012).
Il trapianto da donatore aploidentico
Per donatore aploidentico, s’intende un donatore che condivida con
il ricevente la metà dei geni HLA (che essendo localizzati sul braccio
corto del cromosoma 6 vengono ereditati in blocco): questi donatori
sono solitamente rappresentati dai genitori, da fratelli o dalla prole del
ricevente. Il trapianto da donatore aploidentico (o donatore familiare
HLA-parzialmente compatibile) presenta, rispetto ad altri tipi di trapianto, indubbi vantaggi, tra i quali: l’immediata disponibilità, almeno
virtualmente, per tutti i pazienti (con conseguente ottimizzazione del
timing del trapianto stesso); la possibilità di scelta del miglior donatore
tra tutti i familiari disponibili; e la possibilità di far ricorso al donatore in
caso di necessità di terapie cellulari (Reisner et al., 2011).
Come è intuitivamente immaginabile, tuttavia, questo tipo di trapianto presenta diverse problematiche, principalmente concernenti il superamento della barriera HLA nella coppia donatore/ricevente. Da
esse sono derivate, per anni, un’aumentata incidenza di rigetto del
trapianto e di sviluppo di quadri straordinariamente severi di GvHD.
La messa a punto di tecniche in grado di ottenere una deplezione
estensiva dei T linfociti dall’inoculo trapiantato e la possibilità di ottenere numeri assai elevati di progenitori emopoietici dal sangue
periferico dei donatori hanno consentito di superare in larga parte
questi ostacoli. In particolare, l’ottenimento di 4 logaritmi di T-deplezione del graft (eseguita nella maggior parte dei casi con un metodo
“indiretto”, cioè attraverso la selezione positiva delle cellule staminali emopoietiche CD34+) e l’infusione di una mega-dose di progenitori ematopoietici (definita come l’infusione di un numero di cellule
CD34+ superiore a 10-12 x 106/Kg) (Aversa et al., 1994; Aversa et
al., 1998; Aversa et al., 2005; Bachar-Lustig et al., 1995) si sono
dimostrate cruciali per garantire un’elevata probabilità di attecchimento dell’emopoiesi del donatore, senza concomitante sviluppo di
GvHD. Nonostante la rimozione quasi completa dei linfociti T, l’effetto
immunologico del trapianto contro eventuali cellule maligne residue
(Graft-versus-Leukemia, GvL) può essere mantenuto dalle cellule
L’alloreattività NK fu descritta per la prima volta più di 20 anni fa da Moretta e colleghi (Moretta A et al 1990), i quali osservarono la lisi in vitro di blasti leucemici allogenici
da parte di particolari subsets di cellule NK caratterizzate dall’espressione/assenza di alcune molecole di superficie, identificate successivamente come recettori specifici
per molecole HLA di classe I. Le cellule Natural Killer possiedono specifici recettori, distribuiti clonalmente, denominati Killer cell Immunoglobulin-like Receptors (KIRs)
che riconoscono specifici determinanti antigenici (KIR ligandi), condivisi da alcuni gruppi allelici di molecole HLA di classe I (HLA-C: alleli di gruppo 1 e 2; HLA-B alleli che
condividono la specificità Bw4). Durante il loro sviluppo, dopo l’interazione tra KIR e ligandi self, le cellule NK diventano “educate/licenziate” ad esercitare l’alloreattività
contro bersagli allogenici che non esprimano KIR ligandi self. Nel setting del trapianto aploidentico, dunque, l’alloreattività NK (donor-versus-recipient) viene esercitata da
cellule NK del donatore “licenziate” (maturando a livello del midollo osseo dopo il trapianto, esse vengono esposte prevalentemente a molecole HLA del donatore, presenti
sulle cellule ematopoietiche), cioè cellule NK che esprimono il proprio repertorio KIR, i cui ligandi sono, almeno in parte, non espressi sui bersagli allogenici. L’alloreattività
mediata dalle cellule NK si esplica su tre tipi cellulari, con altrettanti effetti benefici in termini clinici (Moretta et al., 2008): in primo luogo l’eliminazione dei linfociti T del
ricevente residui è in grado di prevenire il rigetto delle cellule del donatore, migliorando, quindi, la probabilità di attecchimento; in secondo luogo, l’eliminazione delle cellule
dendritiche del ricevente (con conseguente priming inefficace dei linfociti T alloreattivi del donatore) diminuisce l’incidenza di GvHD; infine, l’effetto più importante per
l’outcome clinico, si esplica attraverso l’azione litica sulle cellule leucemiche residue con conseguente riduzione del rischio di recidiva della leucemia.
1
240
Il trapianto di cellule staminali emopoietiche nelle emopatie maligne pediatriche
Le principali strategie a questo scopo attualmente in studio sono:
1) G-CSF primed graft
2) Profilassi della GvHD con rapamicina
3) Profilassi della GvHD con ciclofosfamide ad alte dosi
Figura 1.
Algoritmo di selezione di unità di sangue cordonali (CIBMTR, Center for
International Blood and Marrow Transplant Research).
TNC: cellule nucleate totali
Natural Killer alloreattive1 (vedi anche Fig. 2) (Ruggieri et al., 2002).
Allo stato attuale, dunque, dal punto di vista immunologico, il problema maggiore da cui è gravato il trapianto aploidentico è costituito
dalla ritardata ricostituzione immunologica (Oevermann et al., 2012),
dovuta al ridotto numero di linfociti T trasferiti con il graft, che si traduce poi sul piano clinico in una marcata incidenza di patologia infettiva
e, in assenza di alloreattività delle cellule NK, in un maggior rischio di
recidiva della malattia di base (Fig. 2) (Horowitz et al., 1990).
In virtù di questa osservazione, sono, tutt’ora, in fase di sperimentazione diverse strategie per superare il problema di un ritardo del
processo di ricostituzione immunologica; tra tutte queste, si possono
riconoscere due importanti filoni di ricerca che ineriscono all’ambito
del trapianto aploidentico cosiddetto “T-repleto” (in cui cioè il graft
non viene T-depletato) e strategie nell’ambito del trapianto aploidentico cosiddetto “T-depleto” (Seggewiss et al., 2010).
Il trapianto aploidentico T-repleto
Negli ultimi anni, ha acquistato sempre maggior interesse la possibilità di eseguire trapianti da familiare aploidentico senza eseguire
una manipolazione del graft (senza eseguire cioè una deplezione dei
linfociti T, con evidenti vantaggi in termini di fattibilità e di costi), ma
intervenendo sul ricevente (e/o sul donatore) per prevenire la GvHD.
G-CSF primed graft
Questo approccio si basa sull’evidenza che il priming del donatore
con G-CSF polarizza i linfociti T a livello del midollo osseo da un fenotipo Th1 ad un fenotipo Th2, con conseguente minor incidenza di
GvHD (Jun et al., 2004). Allo stato attuale, sono stati sviluppati diversi protocolli basati su questa metodica, cui va, comunque, associata
una rilevante immunosoppressione, che comprende la combinazione,
oltre che di siero antilinfocitario (ATG), di numerosi farmaci (quali ad
esempio ciclosporina, methotrexate, micofenolato e basiliximab (Di
Bartolomeo et al., Blood 2013;Huang et al., 2009;Wang et al., 2009).
Profilassi della GvHD con rapamicina
La rapamicina è un immunosoppressore che, a differenza degli
inibitori della calcineurina, promuove la differenziazione di linfociti
T regolatori (Treg) una sottopopolazione di linfociti T con proprietà
immunomodulanti che non necessitano di un priming antigenico (Ciceri et al., 2011). Recentemente, è stato dimostrato come l’infusione
di Treg dopo trapianto aploidentico prevenga la GvHD e favorisca la
ricostituzione immunologica (Di Ianni et al., 2011). Ad oggi, tuttavia,
solo pochi studi hanno indagato l’utilizzo della rapamicina nel setting trapiantologico aploidentico (Peccatori et al., 2010).
Profilassi della GvHD con ciclofosfamide ad alte dosi
Negli anni ’70, Owens e Santos hanno dimostrato nel modello murino che cicli brevi di ciclofosfamide nelle immediate vicinanze del
trapianto di midollo osseo colpivano i linfociti T alloreattivi sia del
donatore che del ricevente (Owens and Santos, 1971). L’osservazione che la ciclofosfamide non è tossica per le cellule staminali
ematopoietiche grazie all’elevata espressione nel loro citoplasma
dell’enzima detossificante aldeide deidrogenasi (Jones et al., 1995),
insieme alla dimostrazione che alte dosi di ciclofosfamide sono in
grado, nel topo, di ridurre l’incidenza di GvHD e rigetto, senza alterare l’attecchimento delle cellule staminali ematopoietiche, hanno
portato un nuovo interesse sull’utilizzo clinico di questa strategia
(Prigozhina et al., 1997).
I due studi principali sono stati condotti dal gruppo del Johns
Hopkins di Baltimora e del Fred Hutchinson Cancer Research Center
di Seattle, su una popolazione complessiva di 210 pazienti, sia bambini che adulti, affetti da leucemia acuta e cronica ed altre neoplasie
ematologiche (Luznik et al., 2008; Munchel et al., 2011).
Trapianto aploidentico T-depleto
Come detto in precedenza la T-deplezione rappresenta un’efficace
strategia per prevenire la GvHD nel trapianto aploidentico, tanto che,
dopo il trapianto, non è necessaria alcuna profilassi farmacologica
della stessa. Attualmente, nella maggior parte dei casi, la procedura di T-deplezione viene condotta mediante selezione positiva delle
cellule CD34+.
Le principali strategie volte al miglioramento dell’immunoricostituzione nel trapianto aploidentico T-depleto sono costituite da:
Figura 2.
Trapianto aploidentico: vantaggi e svantaggi.
1) Infusione di linfociti T patogeno-specifici
2) Infusione di linfociti T “ingegnerizzati” con geni suicidi
3) Infusione di linfociti T regolatori (Treg)
241
P. Merli et al.
Infusione di linfociti T patogeno-specifici
Diversi gruppi hanno messo a punto, partendo da cellule mononucleate del donatore, protocolli per la generazione di linee cellulari o cloni T specifici per i principali agenti patogeni responsabili di
complicanze gravi o addirittura fatali dopo il trapianto. Perruccio e
collaboratori hanno generato cloni di T linfociti diretti contro antigeni
di aspergillo e di cytomegalovirus (Perruccio et al., 2005). Con un
approccio simile, sono state generate linee dirette verso antigeni di
adenovirus ed EBV (Comoli et al., 2007). L’elevato impegno richiesto,
tuttavia, in termini di tempo, costi ed esperienza tecnica, per la generazione di queste linee o cloni, ne limita l’impiego su larga scala.
Infusione di linfociti T “ingegnerizzati” con geni suicidi
Un altro recente approccio al miglioramento della ricostituzione immunologica consiste nell’infusione di linfociti T policlonali ingegnerizzati per esprimere geni suicidi, attivabili da farmaci o sostanze
inerti nel caso, dopo l’infusione, si sviluppi GvHD non controllabile
con le terapie convenzionali.
Ciceri e collaboratori hanno infuso linfociti policlonali del donatore
transfettati con il gene suicida HSV tirosina chinasi (HSV-TK), attivabile grazie all’infusione di ganciclovir, farmaco assai efficace nelle
infezioni/riattivazioni d’infezione da cytomegalovirus (Ciceri et al.,
2009). È tuttora in corso uno studio randomizzato di fase 3 sul trapianto aploidentico T depleto con o senza infusione di linfociti T HSVTK in pazienti adulti con leucemia ad alto rischio (NCT00914628).
Il gruppo del Baylor College of Medicine di Houston ha, più recentemente, sviluppato un’altra strategia sfruttando il pathway dell’apoptosi indotta dalle caspasi: le cellule T del donatore sono, infatti, state
transfettate con un transgene codificante per una caspasi 9, la cui
attivazione è inducibile mediante una molecola inerte (AP1903). L’infusione di questa molecola determina l’apoptosi del 90% dei linfociti
T modificati entro 30 minuti dall’infusione con controllo della GVHD e
senza alcuna ricorrenza della stessa (Di Stasi et al., 2011).
Infusione di linfociti T regolatori (Treg)
Un’ulteriore strategia per migliorare l’immunoricostituzione consiste nell’infusione sequenziale di Treg seguita da quella di linfociti
T convenzionali (Tcon). In modelli murini, infatti, l’infusione di Treg
determina una soppressione della GvHD senza inibire l’effetto GvL e
una più rapida ricostituzione di linfociti Tcon (Edinger et al., 2003).
Recentemente, sono stati riportati i risultati, molto incoraggianti, di
questo approccio (Di Ianni et al., 2011).
Deplezione TCRαβ/CD19
A cavallo tra il trapianto T-repleto e quello T-depleto è stata recentemente sviluppata una terza strategia: la deplezione dei linfociti TcRαβ/CD19.
Questo approccio si basa sulla sola eliminazione, dal graft, delle cellule
effettrici della GvHD, ovvero i linfociti Tαβ2, mantenendo al contempo
nell’inoculo altre popolazioni cellulari utili ai fini dell’outcome trapiantologico (principalmente cellule NK, linfociti Tγδ3 e, in misura minore,
cellule dendritiche). Dato che tali cellule sono funzionalmente mature,
esse possono esplicare il loro effetto benefico immediatamente dopo il
trapianto (cosa che non succede nel trapianto “convenzionale” T-depleto, in cui la maturazione delle cellule NK richiede dalle 6 alle 8 settimane
di tempo (vedi anche Fig. 3) (Locatelli et al., 2013)).
Tale tecnica è stata resa possibile dallo sviluppo di una metodica per
la deplezione dei linfociti TcRαβ+ e CD19+ da cellule mononucleate
(PBMCs) mobilizzate, utilizzabile a livello clinico (Chaleff et al., 2007).
Ad oggi sono disponibili dati preliminari, provenienti dai gruppi di
Tubinga e Roma, su pazienti pediatrici sottoposti a trapianto aploidentico TcRαβ/CD19 depleto: in particolare, il primo studio clinico
(Handgretinger et al., 2011), condotto su 23 pazienti affetti da leucemia acuta ad alto rischio ha evidenziato non solo un attecchimento
del 100% e un’immunoricostituzione molto rapida, ma anche una
mortalità legata al trapianto (TRM) estremamente bassa. Questa
procedura trapiantologica è stata di recente utilizzata anche in pazienti affetti da patologie non maligne, per i quali non era disponibile
un altro tipo di donatore, con ottimi risultati (Bertaina et al., 2013).
Uno sguardo al futuro: l’infusione di cellule
geneticamente modificate con attività anti-tumorale
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da approcci di immunoterapia adottiva, basati sull’infusione di cellule dell’immunità innata
o adottiva, opportunamente selezionate e attivate ex vivo. Come
ben noto, l’avvento di tecniche d’ingegneria genetica ha permesso
anche di sviluppare approcci terapeutici basati sull’introduzione di
geni in cellule somatiche. Esempi di applicazione clinica coronata
da successo in questo ambito sono rappresentati dal trattamento
di bambini affetti da forme gravi d’immunodeficienza primitiva (severe combined immuno-deficiency, SCID) (Aiuti et al., 2009) o da
Sindrome di Wiskott-Aldrich (Aiuti et al., 2013). Più recentemente,
importanti sforzi di ricerca si sono concentrati sull’introduzione in
T linfociti di sequenze geniche che codificano per recettori specifici
diretti contro molecole espresse sulla superficie di elementi tumorali
(chimeric antigen receptors, CAR) (Hoyos et al., 2012). In ambito pediatrico, è di recentissima pubblicazione il trattamento di 2 pazienti
affetti da leucemia linfoblastica acuta (uno dei quali sottoposto ad
allo-TCSE e infuso con cellule di derivazione del donatore) trattati
con successo attraverso l’impiego di T linfociti trasdotti con un CAR
specifico per la molecola CD19, espressa sulla superficie di cellule leucemiche a differenziazione B linfocitaria (Grupp et al., 2013).
L’associazione di questi CAR con sequenze in grado di mediare un
segnale co-stimolatorio che ottimizza l’attivazione T linfocitaria ne
aumenta in maniera considerevole l’attività, promuovendone sia la
capacità di espansione/persistenza in vivo, sia la capacità litica sui
bersagli tumorali.
È nota da tempo l’elevata suscettibilità allo sviluppo di malattie proliferative EBV-correlate in pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali ematopoietiche T-depletato:
dato che tali disordini linfoproliferativi originano prevalentemente dalle cellule B del donatore, in questo approccio si preferisce B-depletare l’inoculo di cellule che verranno
infuse.
3
I linfociti Tγδ (denominati anche linfociti T innate-like o transazionali) sono una sottpopolazione linfocitaria che possiede determinate caratteristiche proprie del compartimento innato del sistema immunitario (Bonneville et al., 2010): infatti, in modo simile ad altri linfociti T non convenzionali, essi riconoscono antigeni non-peptidici conservati
che sono iperespressi da cellule sottoposte a stress, la cui distribuzione e modalità di espressione assomigliano a quelle dei PAMPs (Pathogen-Associated Molecular Patterns) e DAMPs (Danger-Associated Molecular Patterns), riconosciuti dai PRR (Pattern Recognition Receptors). Inoltre i linfociti T γδ acquisiscono, in una fase molto precoce
del loro sviluppo, un fenotipo pre-attivato, caratterizzato dall’espressione di markers di memoria: questo stato pre-attivato permette una rapida induzione delle funzioni
effettrici dopo il riconoscimento dello stress cellulare. Numerosi studi, in vitro ed in vivo, hanno suggerito come i linfociti T γδ possano essere effettori potenzialmente
efficaci nel contesto del trapianto di cellule staminali. In particolare, Godder e colleghi hanno analizzato prospetticamente l’immunoricostituzione dei linfociti T γδ in una
coorte di pazienti sottoposti a trapianto aploidentico (Godder et al., 2007): è stato evidenziato un netto incremento della sopravvivenza in pazienti che presentavano un alto
numero di linfociti T γδ nel sangue periferico rispetto ai pazienti con un numero normale/basso.
2
242
Il trapianto di cellule staminali emopoietiche nelle emopatie maligne pediatriche
Figura 3.
Una nuova strategia per il TCSE da donatore aploidentico: deplezione dei linfociti T α/β (modificata da Locatelli et al., 2013).
Riserve legate a questa strategia ineriscono alla possibile emergenza di cellule tumorali che riducono o aboliscono l’espressione
dell’antigene verso il quale il CAR è diretto e all’eccesso di attivazione e proliferazione di cellule coinvolte in una risposta infiammatoria. Per quest’ultimo aspetto, l’introduzione nel costrutto genico che si viene a trasdurre di una sequenza che codifica
per un gene suicida, come per esempio quello della caspasi 9
precedentemente menzionato, può rappresentare un’utile strategia in grado di migliorare la sicurezza dell’approccio. Negli anni
a venire, questi sofisticati approcci di bioingegneria cellulare
troveranno vasta arena clinico-applicativa e certamente contribuiranno a rendere sempre più vicino il sogno di tutti gli oncologi
pediatri: rendere il cancro una malattia guaribile in tutti i bambini
che ne ammalano.
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
Il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche ha contribuito in modo significativo al miglioramento della prognosi dei pazienti pediatrici
affetti da emopatie maligne ad alto rischio; per lungo tempo, tuttavia, l’unica fonte di cellule staminali è stata costituita da un fratello HLA-identico.
Cosa sappiamo adesso
L’introduzione della tipizzazione HLA ad alta risoluzione per donatori non consanguinei, la sempre maggiore disponibilità di unità di sangue cordonale
(insieme ad una migliore conoscenza delle indicazioni a questo tipo di trapianto e alle strategie di “potenziamento” dello stesso), così come lo sviluppo
di programmi di trapianto T-depleto o T-repleto da donatore familiare parzialmente compatibile, hanno enormemente espanso le possibilità di offrire ad
ogni paziente l’opzione terapeutica trapiantologica. Infine l’introduzione di terapie cellulari adottive ha ulteriormente aumentato le possibilità terapeutiche per i bambini affetti da emopatie maligne.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Ad oggi è virtualmente possibile reperire un donatore adatto per ogni paziente che necessiti di un trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche.
243
P. Merli et al.
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* In questo lavoro de Lima e colleghi hanno dimostrato come la coltura ex-vivo
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TNC e delle cellule CD34+, ponendo le basi per il superamento del problema
della dose cellulare.
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** Questo studio ha mostrato per la prima volta come la tipizzazione molecolare
ad alta risoluzione permetta di ottenere nei bambini con leucemia, trapiantati da
un MUD, risultati simili a quelli ottenuti impiegando come donatore un germano
HLA-identico.
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* In questo studio Moretta e colleghi hanno descritto per la prima volta il fenomeno dell’alloreattivià NK.
Moretta A, Locatelli F, Moretta L. Human NK cells: from HLA class I-specific killer
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**In questo lavoro viene discusso come l’effetto GvL è mantenuto anche nel
trapianto aploidentico grazie all’azione delle cellule NK alloreattive.
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*In questo lavoro si dimostra per la prima volta in modo inequivocabile la minor
incidenza di GvHD acuta e cronica nei pazienti sottoposti a trapianto di sangue
cordonale rispetto a quelli sottoposti a trapianto da sangue midollare.
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** Questa analisi preliminare dello studio randomizzato BMT CTN 0501 dimostra
che il trapianto di 2 unità di cordone non comporta vantaggi nei pazienti pediatrici.
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Corrispondenza
Franco Locatelli, Dipartimento di Onco-Ematologia Pediatrica e Medicina Trasfusionale IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù Piazza S. Onofrio 4
00165 ROMA. Tel.: +39 06 68592678. Fax: +39 06 68592292. E-mail: [email protected]
245
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • Pp. 246-257
Frontiere
Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo
cellulare
Carmine Settembre1-4, Alessandro Fraldi1, Diego L. Medina1 e Andrea Ballabio1-4
Telethon Institute of Genetics and Medicine (TIGEM), Napoli
Dipartimento di Genetica Molecolare e Umana, Baylor College of Medicine, Houston, Texas, USA
3
Jan and Dan Duncan Neurological Research Institute, Texas Children’s Hospital, Houston, Texas, USA
4
Genetica Medica, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università “Federico II”, Napoli
1
2
Riassunto
Per lungo tempo, i lisosomi sono stati considerati come una sorte di “inceneritori” coinvolti nella degradazione e nel riciclo dei rifiuti cellulari. Tuttavia, ora ci
sono prove convincenti che dimostrano che i lisosomi hanno una funzione molto più ampia essendo coinvolti in processi fondamentali, come la secrezione,
la riparazione della membrana plasmatica, la regolazione del metabolismo energetico e l’autofagia. Queste osservazioni pongono i lisosomi al crocevia di
diversi processi cellulari, con implicazioni significative per la salute dell’uomo. L’individuazione di un master gene, il fattore di trascrizione EB (TFEB) che
regola la biogenesi lisosomiale e l’autofagia, offre la possibilità di modulare la funzione lisosomiale aprendo nuove strategie terapeutiche per patologia quali
le malattie da accumulo lisosomiale e altre patologie neurodegenerative.
Summary
For a long time, lysosomes were considered merely to be cellular “garbage bin” deputed to degradation of exhausted cellular material. Emerging research
is showing that lysosomes are implicated in several cellular processes such as secretion, plasma membrane repair, signaling and energy metabolism.
Furthermore, the pivotal role of the lysosomes in autophagic pathways collocates these organelles at the crossroads of many cellular processes, which are
important for health and disease. The discovery of the transcription factor EB (TFEB) as master regulator of lysosomal biogenesis and autophagy unveiled
how lysosome adapts to environmental cues, such as energy deprivation, and targeting TFEB may provide a novel therapeutic approach to modulate lysosomal function in human disease.
Introduzione
I lisosomi, descritti per la prima volta nel 1955 da Christian de Duve
(de Duve, 2005), sono costituiti da un compartimento interno acido
(lume), delimitato da una membrana a doppio strato lipidico, e contengono diversi tipi di idrolasi, deputate alla degradazione di specifici substrati. Integrate nella membrana lisosomiale ci sono proteine
coinvolte nel trasporto di sostanze da e verso il lume, nell’acidificazione lisosomiale e nella fusione del lisosoma con altre strutture
cellulari (Saftig and Klumperman, 2009). Il materiale extracellulare
raggiunge il lisosoma attraverso la via dell’endocitosi (Luzio et al.,
2009a), mentre i componenti intracellulari vengono trasportati al lisosoma attraverso l’autofagia (Kaushik and Cuervo, 2012; Mijaljica
et al., 2011; Mizushima et al., 2008). I lisosomi possono secernere il loro contenuto mediante fusione con la membrana plasmatica (Chieregatti and Meldolesi, 2005; Verhage and Toonen, 2007).
Questo processo, conosciuto come “esocitosi” lisosomiale, è molto
attivo in particolari tipi di cellule, come le cellule della linea ematopoietica (Blott and Griffiths, 2002), gli osteoclasti (Mostov and Werb,
1997) e i melanociti (Stinchcombe et al., 2004). Inoltre, i lisosomi
intervengono in una serie di processi biologici, come la riparazione
della membrana plasmatica, l’omeostasi cellulare, il metabolismo
energetico e la risposta immunitaria. Poco si sa su come la funzione lisosomiale vari nei diversi tipi cellulari e nei diversi tessuti,
durante le fasi della vita e in diversi individui, così come in diverse
condizioni fisiologiche. Tuttavia, negli ultimi anni, la visione statica
del lisosoma si è progressivamente trasformata in una più ampia
e dinamica. La capacità del lisosoma di adattarsi a diversi stimoli
246
ambientali è diventata evidente dopo aver scoperto che la biogenesi
e la funzione lisosomiale sono soggette a un controllo trascrizionale. Questo nuovo concetto di adattamento lisosomiale è importante
per la comprensione di come i processi biologici di base, che vanno
dallo smaltimento dei rifiuti cellulari al controllo del metabolismo
energetico, rispondano a stimoli ambientali.
In questo articolo, descriveremo inizialmente la struttura del lisosoma e il suo ruolo noto nel processo di degradazione dei substrati cellulari e poi considereremo i ruoli emergenti dei lisosomi, compresa
la loro funzione nella riparazione della membrana plasmatica e nella
trasmissione del segnale, prima di discutere l’identificazione del fattore di trascrizione EB (TFEB) come proteina chiave che regola la
biogenesi lisosomiale e l’autofagia (Sardiello et al., 2009; Settembre
et al., 2011). Infine, ci concentreremo su come le disfunzioni lisosomiali siano associate all’insorgenza di numerose patologie umane.
La struttura dei lisosomi
Recentemente, numerosi articoli hanno descritto la serie complessa
di eventi che porta alla formazione di un lisosoma maturo (Braulke
and Bonifacino, 2009; Henne et al., 2011; Luzio et al., 2009b; Luzio
et al., 2007; Pfeffer, 2001; Rink et al., 2005; Saftig and Klumperman, 2009; Sridhar et al., 2013; Zerial and McBride, 2001). Il lisosoma maturo ha un lume acido, circondato da una membrana
povera di colesterolo (Schulze et al., 2009). La funzione principale
della membrana lisosomiale è di isolare l’ambiente acido aggressivo
del lume dal resto della cellula. Ciò è garantito dalla presenza di
Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare
una spessa guaina (il glicocalice) che riveste il perimetro interno e
che impedisce alla membrana lisosomiale di essere degradata dalle
idrolasi acide intraluminali. La membrana lisosomiale media anche
attivamente la fusione dei lisosomi con altre strutture cellulari, come
endosomi, autofagosomi e membrana plasmatica, nonché il trasporto di metaboliti, ioni e substrati solubili dentro e fuori dai lisosomi.
Il lume lisosomiale contiene circa sessanta differenti idrolasi solubili
attive a pH acido. Questi enzimi sono gli attori principali nell’esecuzione delle tappe sequenziali che sottintendono i principali processi
catabolici. Gli enzimi lisosomiali comprendono membri di famiglie di
proteine, come solfatasi, glicosidasi, peptidasi, fosfatasi, lipasi e nucleasi, che permettono al lisosoma di idrolizzare un vasto repertorio
di substrati biologici, tra cui glicosaminoglicani, sfingolipidi, glicogeno e proteine. L’indirizzamento della maggior parte degli enzimi
lisosomiali ai lisosomi, così come la loro capacità di essere secreti
e ricatturati dalle cellule, è mediata da una modifica del mannosio-6 fosfato che essi subiscono nei compartimenti tardivi del Golgi
(Braulke and Bonifacino, 2009; Ghosh et al., 2003). La capacità delle cellule di assumere enzimi lisosomiali attraverso il recettore del
mannosio-6 fosfato (MPR) è la base per la terapia enzimatica sostitutiva per molte malattie da accumulo lisosomiale (LSD) (Neufeld,
1980). Un diverso meccanismo di targeting, che è mediato in parte
dal recettore lisosomiale LIMP2 (lysosome integral membrane protein 2) è stato di recente identificato per la β-glucocerebrosidasi
(Reczek et al., 2007).
La figura 1 illustra le funzioni principali del lisosoma e mostra alcuni
processi chiave che lo vedono coinvolto. Le proteine SNARE e RAB
sono cruciali per i processi di trafficking e fusione lisosomiale. Tra
le proteine del lisosoma la proteina LAMP1 (lysosome-associated
membrane protein 1) è la più abbondante, rappresentando circa il
50% delle proteine totali della membrana, ed è coinvolta nel traffico lisosomiale (Andrejewski et al., 1999; Saftig and Klumperman,
2009). Il complesso LYNUS (Lysosome Nutrient Sensing) include
diversi complessi proteici che interagiscono sulla superficie lisosomiale. Il suo ruolo è quello di rilevare il contenuto di nutrienti del lisosoma e segnalare le informazioni al nucleo (vedi di seguito). Inoltre,
sono stati identificati sulla membrana lisosomiale anche diversi canali ionici. MCOLN1 (mucolipin 1) è un canale cationico non selettivo
Figura 1.
Principali funzioni dei lisosomi e le loro relazioni con i processi cellulari chiave.
I lisosomi sono coinvolti nel processo di degradazione e riciclo di materiale intracellulare (attraverso l’autofagia) e di materiale extracellulare (attraverso l’endocitosi). Durante questi processi i lisosomi si fondono rispettivamente con gli autofagosomi e con gli endosomi tardivi. I prodotti derivati
dalla degradazione vengono utilizzati per generare nuovi componenti cellulari e per fornire l’energia necessaria ai fabbisogni nutrizionali della cellula. I lisosomi sono sottoposti anche all’esocitosi regolata dal Ca2+ per poter secernere il loro contenuto all’interno dello spazio extracellulare e per
riparare i danni alla membrana plasmatica. Quando sono presenti lesioni sulla membrana plasmatica, i lisosomi migrano velocemente nel punto
danneggiato dove si fondono con la membrana in modo da consentire una chiusura efficiente. Più recentemente, i lisosomi sono stati identificati
come organelli ‘segnale’, capaci di rilevare la disponibilità dei nutrienti ed attivare una comunicazione dal lisosoma al nucleo, in modo da mediare
la risposta alla fame e regolare il metabolismo energetico.
247
C. Settembre, A. Fraldi, D.L. Medina, A. Ballabio
(Dong et al., 2008) coinvolto nel segnale del Ca2+ durante la fusione
lisosomiale con altre membrane, come la membrana plasmatica
(Dong et al., 2009; LaPlante et al., 2006; Medina et al., 2011) e autofagosomica (Wong et al., 2012). Una carenza di MCOLN1 provoca
la mucolipidosi tipo IV, una malattia da accumulo lisosomiale (LSD)
(Bargal et al., 2000; Bassi et al., 2000). CIC7, un canale del cloro,
contribuisce all’acidificazione lisosomiale ed è coinvolto nella osteopetrosi ereditaria (Jentsch et al., 2005; Kasper et al., 2005; Weinert
et al., 2010). I trasportatori nella membrana lisosomiale comprendono LAMP2A, che media l’autofagia chaperone-mediata (CMA) legando alla membrana lisosomiale i substrati proteici citosolici, in modo
che possano essere internalizzati e degradati (Cuervo et al., 2000;
Kaushik and Cuervo, 2012). Mutazioni di LAMP2A causano la malattia di Danon, che è associata con l’accumulo di vacuoli autofagici
nelle cellule muscolari (Nishino et al., 2000). NPC1 (Niemann-Pick
C1 protein) è una proteina della membrana lisosomiale, coinvolta
nell’export di colesterolo dal lume endolisosomiale. Mutazioni di
NPC1 causano la malattia di Niemann-Pick tipo C1 (Lloyd-Evans et
al., 2008). HGSNAT (heparan-α glucosaminide N-acetiltrasferase)
è un enzima che partecipa alla degradazione progressiva di eparan solfato (Durand et al., 2010; Fan et al., 2006; Hrebicek et al.,
2006), e le cui mutazioni causano la mucopolisaccaridosi di tipo IIIC
(MPSIIIC).
Siamo ancora lontani dall’identificazione e caratterizzazione funzionale di tutte le proteine lisosomiali. Sulla base dei dati attuali, sono
state identificate poco più di 100 proteine residenti nei lisosomi;
circa 70 di queste sono proteine della matrice lisosomiale e circa 50
sono proteine della membrana lisosomiale (Schroder et al., 2010).
Tuttavia, questi numeri potrebbero aumentare nel prossimo futuro.
Le funzioni dei lisosomi
Le funzioni lisosomiali possono essere schematicamente suddivise
in tre tipi principali: la degradazione, la secrezione e la regolazione
del segnale cellulare (signaling) (Fig. 1).
Degradazione lisosoma-mediata
Analogamente al trasporto dei rifiuti urbani agli inceneritori, la raccolta e il trasporto dei rifiuti cellulari ai lisosomi richiede una logistica complessa. La cellula ha sviluppato diverse vie per il trasporto dei
rifiuti extracellulari e intracellulari al lisosoma.
Il materiale extracellulare raggiunge il lisosoma principalmente attraverso l’endocitosi. La cattura di materiale extracellulare e di proteine integrali di membrana avviene attraverso specifici meccanismi
endocitici che variano a seconda della natura della sostanza. Esempi
importanti di endocitosi sono la fagocitosi, la macropinocitosi, l’endocitosi clatrina-mediata, l’endocitosi caveolina-mediata e l’endocitosi caveolina e clatrina-indipendente (Conner and Schmid, 2003).
I recettori presenti sulla membrana plasmatica, una volta attivati,
possono essere internalizzati attraverso meccanismi di endocitosi
mediati da clatrina (Doherty and McMahon, 2009) o meccanismi
clatrina-indipendenti di endocitosi (Hansen and Nichols, 2009). Dopo
l’internalizzazione, i recettori sono indirizzati agli endosomi (Sorkin
and von Zastrow, 2009), dai quali possono essere riciclati e tornare
alla membrana plasmatica per consentire l’attivazione ripetuta del
recettore o essere destinati alla degradazione lisosomiale, con conseguente terminazione del segnale da parte del recettore (Haglund
and Dikic, 2012; Katzmann et al., 2001; Raiborg and Stenmark,
2009). Un caratteristico segno di maturazione endosoma-lisosoma
è la progressiva diminuzione del pH interno a ~pH 5 (Ohkuma and
Poole, 1978). Il processo di acidificazione è fondamentale per il ri-
248
lascio delle idrolasi acide da parte del recettore del mannosio-6 fosfato nel lume endosomale e il riciclo del recettore all’apparato del
Golgi (Luzio et al., 2007).
I materiali intracellulari raggiungono i lisosomi attraverso il processo
di autofagia, un processo catabolico di “autodigestione” che è utilizzato dalle cellule per catturare i propri componenti citoplasmatici
destinati alla degradazione e al riciclo. Sono stati identificati tre tipi
di autofagia: microautofagia; autofagia mediata da chaperone (CMA)
e macroautofagia. Durante la microautofagia, le proteine citosoliche
sono inghiottite nel lisosoma attraverso l’invaginazione diretta della
membrana lisosomiale o endosomiale (Ahlberg et al., 1982; Mijaljica
et al., 2011; Sahu et al., 2011).
Nella CMA, le proteine citosoliche sono trasportate nel lume lisosomiale, attraverso l’internalizzazione mediata da chaperones e
recettori. Ciò richiede lo srotolamento delle proteine e la loro traslocazione attraverso la membrana lisosomiale, che avviene tramite
la proteina LAMP2A (Chiang et al., 1989; Cuervo and Dice, 1996;
Kaushik and Cuervo, 2012). La macroautofagia si basa sulla biogenesi di autofagosomi, che sono vescicole costituite da doppia membrana che sequestrano materiale citoplasmatico e poi si fondono
con i lisosomi. Pertanto, il ruolo di tutti e tre i tipi di autofagia nei
processi di degradazione e di riciclo è strettamente dipendente dalla
funzione lisosomiale. Per semplicità, da qui in poi useremo il termine
autofagia per riferirci alla macroautofagia, che rappresenta il tipo
principale di autofagia.
L’autofagia è attivata da una vasta gamma di condizioni cellulari
stressanti e media la degradazione di aggregati di proteine, lipidi
ossidati, organelli danneggiati e agenti patogeni intracellulari. I prodotti di degradazione risultanti sono usati per generare nuovi componenti cellulari ed energetici, in risposta alle esigenze nutrizionali
della cellula. I meccanismi alla base dell’autofagia e la sua rilevanza
in condizioni fisiologiche e patologiche, sono stati ampiamente studiati negli ultimi dieci anni e ben descritti in articoli recenti (He and
Klionsky, 2009; Ravikumar et al., 2010).
L’esocitosi lisosomiale
I lisosomi possono secernere i loro contenuti nello spazio extracellulare attraverso un processo chiamato esocitosi lisosomiale, che può
essere rilevata dalla traslocazione di proteine di membrana lisosomiali (per esempio, LAMP1) sulla membrana plasmatica (Chieregatti
and Meldolesi, 2005; Rodriguez et al., 1997; Verhage and Toonen,
2007). In questo processo, i lisosomi si fondono con la membrana
plasmatica attraverso un meccanismo regolato dal Ca2+ che è associato ad un grosso rilascio del contenuto lisosomiale nella matrice
extracellulare (Andrews, 2000; Chavez et al., 1996; Coorssen et al.,
1996; Jaiswal et al., 2002; Rodriguez et al., 1997; Stinchcombe and
Griffiths, 1999).
L’esocitosi lisosomiale non è solo responsabile della secrezione di
contenuti lisosomiali, ma ha anche un ruolo fondamentale nella
riparazione della membrana plasmatica. Lesioni della membrana
plasmatica inducono la rapida migrazione dei lisosomi al sito danneggiato. I lisosomi poi si fondono con la membrana plasmatica e
risigillano efficientemente il sito danneggiato (Gerasimenko et al.,
2001; Reddy et al., 2001). Questo processo è anche importante nei
meccanismi di difesa contro le infezioni batteriche (Roy et al., 2004)
ed è stato implicato in un tipo specifico di distrofia muscolare, caratterizzata da un difetto nella riparazione della fibra muscolare (Han
et al., 2007).
L’esocitosi lisosomiale è regolata da TFEB, il principale regolatore
della biogenesi lisosomiale (vedi di seguito). TFEB induce sia l’aggancio che la fusione dei lisosomi alla membrana plasmatica, rego-
Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare
lando l’espressione di alcuni geni, i cui prodotti proteici aumentano
la dinamica lisosomiale e provocano un aumento intracellulare del
Ca2+, mediato da MCOLN1 (Medina et al., 2011). È interessante notare che la regolazione dell’esocitosi lisosomiale mediata da TFEB
ha un ruolo importante nel differenziamento degli osteoclasti e nel
riassorbimento osseo (Ferron et al., 2013).
“Signaling” lisosomiali
È ormai evidente che il lisosoma svolge un ruolo importante come
“sensore” dei nutrienti cellulari e nelle vie di segnalazione che sono
coinvolte nel metabolismo e nella crescita cellulare. Il complesso chinasico mTORC1 (mammalian target of rapamycin complex 1), controllore principale della crescita delle cellule e dell’organismo (Laplante
and Sabatini, 2012), è localizzato sulla superficie lisosomiale (Sancak
et al., 2010). La localizzazione lisosomiale di mTORC1 suggerisce
una co-regolazione tra la crescita e il catabolismo cellulare. Fattori
di crescita, ormoni, amminoacidi, glucosio, ossigeno e stress sono i
principali attivatori di mTORC1, che a sua volta regola positivamente
la biosintesi di proteine, mRNA, lipidi e la produzione di ATP (Efeyan
et al., 2012; Laplante and Sabatini, 2012). In questo modo, mTORC1
regola l’equilibrio tra stati biosintetici e catabolici. Quando i nutrienti
sono presenti, mTORC1 fosforila direttamente e sopprime l’attività del
complesso chinasi ULK1-ATG13-FIP200 (unc-51-like kinase 1-autophagy-related 13-focal adhesion kinase family-interacting protein of
200 kDa) (Ganley et al., 2009; Hosokawa et al., 2009; Jung et al.,
2009), che è necessario per indurre la biogenesi degli autofagosomi
(Chan et al., 2012; Hara et al., 2008). L’inibizione di mTORC1, tramite digiuno o indotta da farmaci, porta all’attivazione di ULK1-ATG13FIP200 e all’autofagia. Pertanto, il livello di autofagia cellulare è inversamente correlata con l’attività di mTORC1e l’inibizione farmacologica
di mTORC1 stimola potentemente l’autofagia.
Il complesso macchinario di “signaling”, composto da mTORC1 e
da ulteriori complessi proteici, è localizzato sulla superficie lisosomiale. Questo complesso, indicato come LYNUS (Lysosome Nutrient
Sensing), risponde al contenuto degli amminoacidi nei lisosomi e
segnala le informazioni sia al citoplasma che al nucleo. I principali componenti del complesso LYNUS sono illustrati nella figura 2. Il
ruolo dei lisosomi come sensori dei nutrienti è un nuovo concetto
che amplia la nostra visione di questi organelli, da semplici esecutori dello smaltimento dei rifiuti cellulari a sensori e regolatori di
diverse funzioni cellulari, tra cui la progressione del ciclo cellulare,
la crescita, la biosintesi di macromolecole e l’autofagia (Zoncu et al.,
2011). La recente scoperta di un meccanismo di segnale lisosomanucleo indotto dal digiuno, (vedi di seguito) rinforza ulteriormente
questo concetto (Settembre et al., 2012). È interessante notare che
la ri-formazione lisosomiale autofagica (ALR), un processo evolutivamente conservato secondo il quale i lisosomi nascenti sono formati da membrane autolisosomiali, richiede anche la riattivazione
di mTORC1 durante il digiuno prolungato (Rong et al., 2012; Rong
et al., 2011; Yu et al., 2010). Inoltre, il digiuno prolungato controlla
anche la ri-formazione lisosomiale attraverso l’attività di PI4KIIIβ
(phosphatidylinositol 4-kinase IIIβ) (Sridhar et al., 2013).
Regolazione della funzione dei lisosomi
La recente scoperta di un network di geni lisosomiali e del master
regolatore TFEB ha rivelato che la funzione lisosomiale può essere
coordinata per rispondere e adattarsi agli stimoli ambientali. Di seguito è discusso il ruolo centrale di TFEB nel regolare la biogenesi
lisosomiale, il segnale lisosoma-nucleo e il catabolismo dei lipidi.
TFEB regola la biogenesi lisosomiale e la clearance cellulare
I processi di clearance cellulari mediati dai lisosomi richiedono l’azione coordinata d’idrolasi, processi di acidificazione e proteine di
membrana.
L’espressione e l’attività di tali componenti devono essere coordinate per consentire la funzione lisosomiale ottimale in diverse condizioni fisiologiche e patologiche, come crescita, digiuno, infezione
e accumulo intracellulare di vari prodotti. Il concetto di adattamento
lisosomiale è emerso solo di recente, poiché poca attenzione è stata
data allo studio della regolazione trascrizionale dei geni codificanti per le proteine lisosomiali. La recente scoperta di un network di
geni lisosomiali, chiamato CLEAR (coordinated lysosomal expression
and regulation) e del regolatore master TFEB, un membro della sottofamiglia di fattori di trascrizione MITF (microphtalmia-associated
transcription factor) (Rehli et al., 1999), precedentemente implicato in una traslocazione cromosomica associata al carcinoma renale (Medendorp et al., 2007), fornisce la prova sperimentale che
la funzione lisosomiale è controllata in modo globale (Sardiello et
al., 2009). Coerentemente con il suo ruolo come modulatore della
rete CLEAR, TFEB regola positivamente l’espressione dei geni lisosomiali, controlla il numero di lisosomi e promuove la capacità
delle cellule di degradare i substrati lisosomiali (Ma et al., 2012;
Sardiello et al., 2009). In particolare, TFEB attiva la trascrizione di
geni che codificano per proteine coinvolte in diversi aspetti della
clearance cellulare, come la biogenesi lisosomiale, l’autofagia, l’esocitosi, l’endocitosi e ulteriori processi associati al lisosoma, come
la fagocitosi, la risposta immunitaria e il catabolismo dei lipidi. È interessante notare che molte proteine coinvolte nella degradazione di
noti substrati autofagici, quali quelle non lisosomiali, appartengono
a questo network (Palmieri et al., 2011). Queste osservazioni hanno suggerito che TFEB regola anche la genesi degli autofagosomi
(Palmieri et al., 2011). Infatti, la sovra-espressione di TFEB in colture
cellulari aumenta notevolmente il numero di autofagosomi, aumenta
la fusione lisosoma-autofagosoma e la degradazione dei substrati
dell’autofagia (Settembre et al., 2011). Inoltre, la sovra-espressione
di TFEB mediata da virus nel fegato induce l’autofagia (Settembre et
al., 2011). Così, sebbene l’indirizzamento di substrati autofagici al
lisosoma e la loro degradazione da parte di enzimi lisosomiali siano
processi cellulari distinti, essi sono meccanicisticamente collegati da un comune programma trascrizionale di regolazione (Cuervo,
2011; Settembre et al., 2011).
TFEB trasmette segnali dal lisosoma al nucleo
Molti meccanismi trascrizionali che controllano le funzioni cruciali
delle cellule hanno la capacità di rispondere a stimoli ambientali.
In condizioni basali, nella maggior parte dei tipi cellulari TFEB è
localizzato nel citoplasma. Tuttavia, in condizioni particolari, come
il digiuno o la disfunzione lisosomiale, TFEB trasloca rapidamente
nel nucleo (Sardiello et al., 2009; Settembre et al., 2011). Questo
processo è controllato dallo stato di fosforilazione di TFEB; TFEB fosforilato si trova prevalentemente nel citoplasma, mentre la forma
defosforilata si trova nel nucleo (Settembre et al., 2011). Studi di
fosfoproteomica hanno identificato almeno dieci siti di fosforilazione
diversi nella proteina TFEB, suggerendo un complesso meccanismo
regolatorio (Dephoure et al., 2008).
TFEB citoplasmatico è localizzato, almeno parzialmente, sulla superficie lisosomiale, dove interagisce con mTORC1 e il complesso
LYNUS (Martina and Puertollano, 2013; Settembre et al., 2012) (Fig.
2). Questa osservazione suggerisce un meccanismo attraverso il
quale il lisosoma regola la propria biogenesi controllando la loca-
249
C. Settembre, A. Fraldi, D.L. Medina, A. Ballabio
Lisosoma
Figura 2.
Modello della regolazione e della funzione di TFEB durante il digiuno.
Questo modello illustra in che modo l’attività del fattore di trascrizione EB (TFEB) viene indotta dalla limitata disponibilità di nutrienti e come lo
stesso fattore possa mediare la risposta al digiuno attraverso la regolazione del catabolismo lipidico. In presenza di quantità sufficienti di nutrienti,
TFEB interagisce con il sistema lisosomiale sensibile ai nutrienti (LYNUS), il quale rileva i livelli nutrizionali dei lisosomi grazie alla presenza del
complesso ATPasi vacuolare. TFEB viene fosforilato da mTORC1 (mammalian target of rapamycin complex 1) sulla superficie lisosomiale. TFEB
risulta così inattivo essendo sequestrato dal citosol. Durante il digiuno, mTORC1 viene rilasciato dal complesso LYNUS e diventa inattivo. TFEB
non può essere più fosforilato da mTORC1 e, perciò, trasloca nel nucleo, dove attiva la trascrizione di sè stesso. Pertanto, il digiuno regola l’attività di TFEB attraverso un duplice meccanismo che coinvolge una modificazione post-traduzionale (la fosforilazione) ed un anello trascrizionale
autoregolatore. Una volta entrato nel nucleo, TFEB regola l’espressione di geni coinvolti nel processo autofagico dei lisosomi, tra i quali PPARα
(peroxisome proliferator-activated receptor α), e PGC1α (PPARγ co-activator 1α) ed i loro geni target. In questo modo, TFEB controlla la risposta
al digiuno attivando sia la lipofagia sia la β-ossidazione degli acidi grassi. La figura mostra i componenti principali del complesso LYNUS. mTORC1,
che comprende proteine regolatrici associate ad mTOR, come RAPTOR (regulatory-associated protein of mTOR), mLST8 (mammalian lethal with
SEC13 protein) e DEPTOR (DEP domain-containing mTOR-interacting protein), interagisce fisicamente con i diversi RAG GTPasi (RAGA o RAGB e
RAGC o RAGD), che attivano mTORC1 sulla superficie lisosomiale. Un complesso noto come Ragulator interviene nella regolazione e nel legame di
RAG GTPasi alla membrana lisosomiale. La proteina GTPasi omologa di RAS abbondante nel cervello (RHEB) è coinvolta anche nell’attivazione di
mTORC1 grazie alla presenza di fattori di crescita. Il complesso v-ATPasi ha la funzione di rilevare amminoacidi e media le interazioni aminoacidisensibili tra RAG GTPasi e il complesso Ragulator, che rappresenta lo step iniziale nella comunicazione lisosomiale. Il canale endolisosomiale
ATP-sensibile e permeabile al Na+ (lysoNaATP), che comprende le subunità del canale del calcio a 2 pori 1 (TPC1) e TPC2, è situato sulla membrana
lisosomiale. Di recente si è dimostrato che questo canale interagisce con mTORC1 e partecipa al rilevamento dei nutrienti. Il tipo di interazione tra
lysoNaATP e mTORC1 è tuttora sconosciuto, ma sembra che si tratti di una forma indipendente dagli altri componenti del complesso LYNUS, così
come è stato osservato per TFEB e i suoi interattori (vedi testo principale).
lizzazione subcellulare di TFEB. Condizioni cellulari che portano alla
inattivazione di mTORC1, come lo stress, il digiuno e l’inibizione lisosomiale, inducono la traslocazione nucleare di TFEB e quindi attivano il sistema lisosomiale (Martina et al., 2012; Roczniak-Ferguson et
al., 2012; Settembre et al., 2012). Più recentemente, è stato dimostrato che TFEB interagisce con la RAG GTPasi attiva (Martina and
Puertollano, 2013). Questa interazione promuove la localizzazione
250
lisosomiale di TFEB e la sua fosforilazione dipendente da mTORC1
(Martina and Puertollano, 2013).
Dati recenti indicano che i livelli di nutrienti cellulari regolano TFEB
anche a livello trascrizionale. L’eliminazione di siero e amminoacidi nel mezzo di coltura cellulare induce l’espressione dell’mRNA
di TFEB, mentre l’aggiunta successiva di nutrienti al mezzo blocca
questa induzione. Allo stesso modo, privando i topi di cibo per 24
Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare
ore, si induce l’espressione di TFEB in molti tessuti (Settembre et
al., 2011). Inoltre, la risposta trascrizionale di TFEB ai nutrienti è
mediata da un circuito di feedback autoregulatorio, secondo il quale
TFEB si lega al proprio promotore in modo dipendente dal digiuno e
inducendo la propria espressione (Settembre et al., 2013). In questo
modo, la regolazione dell’attività di TFEB da parte di nutrienti comporta un rapido cambiamento post-trascrizionale e fosforilazionedipendente, che è responsabile della traslocazione nucleare di TFEB,
e coinvolge un componente autoregulatorio trascrizionale, che permette una risposta lenta ma più duratura. Questa complessa regolazione media la risposta cellulare al digiuno, inducendo il catabolismo
lipidico (Settembre et al., 2013) (vedi di seguito).
In conclusione, TFEB partecipa a un meccanismo di “signaling”
lisosoma-nucleo che trasmette informazioni sullo stato lisosomiale
al nucleo, in modo da innescare una risposta trascrizionale. Questo
“dialogo” tra il lisosoma e il nucleo controlla la clearance cellulare e
il metabolismo energetico. Un modello della regolazione di TFEB da
parte dei nutrienti è illustrato in figura 2.
TFEB regola il catabolismo lipidico
L’autofagia ha un ruolo centrale nel metabolismo dei lipidi, trasportando composti lipidici ai lisosomi, dove vengono idrolizzati ad acidi
grassi liberi (FFA) e glicerolo. Questo processo, chiamato macrolipofagia (Singh and Cuervo, 2011; Singh et al., 2009), indica la presenza di una stretta relazione tra metabolismo lipidico intracellulare e
lisosomi. È interessante notare che il sovraccarico eccessivo di lipidi
può a sua volta inibire l’autofagia. Questo potrebbe essere causato
da un’alterazione della composizione della membrana lisosomiale,
rendendola meno soggetta a fusione con gli autofagosomi (Rodriguez-Navarro and Cuervo, 2012; Rodriguez-Navarro et al., 2012),
o mediante la ridotta regolazione di geni dell’autofagia (Yang et al.,
2010).
Col ripristino dell’autofagia nel fegato migliora il fenotipo metabolico
di topi geneticamente obesi (ob/ob), suggerendo che il miglioramento della funzione lisosomiale può essere una possibile strategia terapeutica per il trattamento dell’obesità (Yang et al., 2010). È interessante notare che la disfunzione lisosomiale è stata associata ad un
alterato metabolismo energetico in modelli murini di malattie lisosomiali (Woloszynek et al., 2007). Inoltre, nella malattia di Wolman,
la carenza di lipasi acida lisosomiale porta ad un grave accumulo
intracellulare di grassi (Du et al., 1998).
Questi studi suggeriscono che la regolazione delle vie metaboliche
lisosomiali e autofagiche possono avere un effetto sul metabolismo
lipidico cellulare. Supporta questa ipotesi l’evidenza che TFEB regola
il metabolismo lipidico del fegato (Settembre et al., 2013). Queste
osservazioni hanno fornito una nuova prospettiva sul ruolo dei lisosomi nel metabolismo energetico cellulare e nei meccanismi alla
base dell’obesità e della sindrome metabolica. Un modello proposto
per il ruolo di TFEB nel catabolismo lipidico è illustrato in Figura 2.
Disfunzioni lisosomiali e malattie umane
La disfunzione lisosomiale è stata associata a diverse malattie umane, così come con il processo di invecchiamento, che è associato
a un declino della funzione lisosomiale e a un progressivo accumulo intracellulare di materiale (per esempio, lipofuscina e ubiquitina) (Cuervo and Dice, 2000). In effetti, la stimolazione del pathway
autofagico-lisosomiale sembra essere un fattore determinante per
l’effetto anti-invecchiamento della restrizione calorica (Rubinsztein
et al., 2011). L’identificazione di proteine che regolano la biogenesi
e la funzione lisosomiale, come TFEB, potrebbe aprire la strada allo
sviluppo di nuove terapie per le malattie caratterizzate da grave disfunzione lisosomiale.
Malattie da accumulo lisosomiali e malattie neurodegenerative
Da più di tre decadi è noto che i difetti genetici di specifici componenti dei lisosomi portano all’accumulo di substrati che non sono
degradati nel lume lisosomiale, a cui consegue una progressiva disfunzione lisosomiale in vari tessuti e organi. Queste malattie sono
note come malattie da accumulo lisosomiale (LSD). La classificazione delle LSD e le loro caratteristiche cliniche sono state descritte in
dettaglio in diversi articoli recenti (Ballabio and Gieselmann, 2009;
Cox and Cachon-Gonzalez, 2012; Futerman and van Meer, 2004;
Schultz et al., 2011; Vitner et al., 2010; Walkley, 2009). Nonostante
queste malattie siano state tra le prime per le quali sono state identificate le basi biochimiche e molecolari, a tutt’oggi risultano ancora
poco chiari i meccanismi attraverso i quali il deposito di materiale
non degradato nei lisosomi si traduce in una disfunzione cellulare e
tissutale e nei sintomi clinici. Una compromissione della funzionalità lisosomiale globale ha un ruolo importante nella patogenesi di
numerose LSD, perché un deficit di singole proteine lisosomiali può
avere vaste conseguenze sulle funzioni di base dei lisosomi (Ballabio and Gieselmann, 2009). In particolare, numerosi studi hanno
dimostrato un’alterazione del pathway autofagico nelle LSD (Ballabio and Gieselmann, 2009; de Pablo-Latorre et al., 2012; Di Malta
et al., 2012; Fraldi et al., 2010; Lieberman et al., 2012; Settembre
et al., 2008). Questo risulta nell’accumulo secondario di substrati
autofagici, come ad esempio proteine poliubiquitinate e mitocondriali disfunzionali, che possono giocare un ruolo fondamentale
nella patogenesi della malattia (Settembre et al., 2008). Un blocco
dell’autofagia nelle LSD può essere causato da un difetto nella fusione tra lisosomi e autofagosomi, come osservato nel deficit multiplo
di solfatasi (MSD) e nella mucopolisaccaridosi tipo IIIA (MPS-IIIA),
che può essere causato da anomalie nella composizione della membrana lisosomiale e nella distribuzione delle proteine SNAREs (Fraldi
et al., 2010).
Le strategie terapeutiche attuali per le LSD sono finalizzate a una
correzione o a una sostituzione dell’attività degli enzimi lisosomiali
difettosi, e sono basate sull’utilizzo di chaperon molecolari, di terapia enzimatica sostitutiva o di terapia genica mediata da virus (Cox,
2012). L’inibizione della sintesi del substrato è un’altra opzione terapeutica disponibile per un alcune LSD (Cox, 2012). Queste strategie, tuttavia, hanno diverse limitazioni, quali ad esempio la difficoltà
di far arrivare l’enzima, o il gene, nella sede giusta nell’organismo.
Inoltre, l’attraversamento della barriera emato-encefalica rappresenta un ostacolo per l’arrivo dell’enzima ricombinante al cervello.
È importante sottolineare che i costi complessivi di studi preclinici e
sperimentazioni cliniche sono estremamente elevati se si considera che le LSD comprendono più di 60 diverse malattie, e che nella
maggior parte dei casi, ogni terapia è strettamente specifica per una
singola malattia.
Le prove finora accumulate indicano che la disfunzione lisosomiale
e autofagica è uno dei meccanismi principali che sono alla base
delle malattie neurodegenerative più comuni, come il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer e la corea di Huntington (Harris and
Rubinsztein, 2012; Wong and Cuervo, 2010) (Fig. 3). Proteine mutate
che tendono a formare aggregati e causano malattie neurodegenerative, come l’huntingtina espansa nella malattia di Huntington
e l’α-sinucleina mutata nella malattia di Parkinson, sono eliminate
migliorando il pathway autofagico-lisosomiale (Cuervo et al., 2004;
Jeong et al., 2009; Winslow et al., 2010). Inoltre, le proteine che
tendono a formare aggregati, possono a loro volta influenzare l’ef-
251
C. Settembre, A. Fraldi, D.L. Medina, A. Ballabio
Figura 3.
Difetto della clearance cellulare nelle patologie neurodegenerative.
Il difetto cellulare della clearance, che comporta neuro degenerazione, può derivare da due diversi meccanismi. Il primo, mutazioni di loss-offunction a livello di geni coinvolti nel pathway lisosoma-autofagico (per esempio, ATP13A2 (ATPasi di tipo 13 A 2), CATD (cathepsin D), GBA (betaglucosidasi acida), PSEN1 (presenil 1), PSEN2, VPS35 (vacuolar protein sorting 35), PARKIN (proteina del morbo di Parkinson), PINK (PTEN-induced
putative kinase), CHMP2B (charged multivesicular body protein 2B), RAB7 e WDR45 (WD repeat 45)) possono causare la degradazione cellulare e
il processo del riciclo. Secondo, mutazioni di gain-of-function di proteine prone-aggregate (per esempio, SNCA (alfa-sinucleina), APP (amyloid precursor protein), HTT (huntingtin) e MAPT (protina TAU associata ai microtubuli) possono amplificazione l’aggregazione proteica e il danno a carico
dei pathway lisosoma-autofagici. Inoltre, è stata osservata una diminuzione globale della funzione lisosomiale-autofagica durante l’invecchiamento
che danneggia la clearence cellulare. Infine, senza far riferimento al meccanismo coinvolto, il difetto cellulare della clearance causa l’accumulo di
proteine neurotossiche e morte delle cellule nervose.
Abbreviazioni: AD, malattia di Alzheimer; CMT2B, Charcot-Marie-Tooth di tipo 2B; FTD, demenza fronto-temporale; PD, morbo di Parkinson; SENDA, encefalopatia statica infantile con neurodegenerazione in adulti; HD, malattia di Huntington.
ficienza dell’autofagia inibendo il riconoscimento dei substrati da
parte degli autofagosomi (Martinez-Vicente et al., 2010; Orenstein
et al., 2013).
In numerose malattie neurodegenerative sono state descritte mutazioni nei geni che codificano componenti essenziali del pathway
endolisosomiale-autofagico. Un numero significativo di pazienti
affetti dal morbo di Parkinson, in particolare gli Ebrei Ashkenaziti
(Aharon-Peretz et al., 2004), sono eterozigoti per mutazioni nel gene
che codifica per l’enzima lisosomiale β-glucocerebrosidasi (Sidransky et al., 2009). Mutazioni omozigoti nello stesso gene causano la
malattia di Gaucher, una malattia neurodegenerativa da accumulo
lisosomiale (Brady et al., 1965). È stato proposto che bassi livelli di
glucocerebrosidasi portano a un aumentato accumulo di glucosilceramide nel lisosoma, e questo a sua volta accelera la sintesi e la stabilizzazione di oligomeri solubili di α-sinucleina, che eventualmente
si convertono in fibrille amiloidi.
Inoltre l’accumulo di α-sinucleina blocca anche l’indirizzamento di
glucocerebrosidasi di nuova sintesi verso il lisosoma e quindi au-
252
menta ulteriormente l’accumulo di glucosilceramide (Mazzulli et al.,
2011). Mutazioni dell’ATPasi tipo 13a2 (ATP13A2), un componente
del complesso di acidificazione lisosomiale, sono state trovate in
pazienti con parkinsonismo ereditario (Ramirez et al., 2006) e sono
associate a disfunzione lisosomiale, clearance difettosa degli autofagosomi e accumulo di α-sinucleina (Usenovic and Krainc, 2012).
Allo stesso modo, mutazioni nei geni che codificano per PTEN (PINKinduced putative kinase) e PARK (proteina della malattia di Parkinson) sono associate con la clearance difettosa dei mitocondri, tramite un tipo specifico di autofagia degli organelli noto come mitofagia,
che porta alla malattia di Parkinson (Geisler et al., 2010; Kitada et
al., 1998; Narendra et al., 2008; Valente et al., 2004). Il morbo di
Parkinson è stato osservato anche nei pazienti con mutazioni nella
proteina VPS35 (vacuolar protein sorting 35), che codifica per una
proteina lisosomiale coinvolta nel trasporto retrogrado tra endosomi
e TGN (Choi et al., 2012; Zimprich et al., 2011).
Disfunzioni dei lisosomi e dell’autofagia sono state identificate anche in pazienti con malattia di Alzheimer con mutazioni in preseni-
Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare
lina 1 (PSEN1) (Lee et al., 2010). Per spiegare la disfunzione lisosomiale in questi pazienti, sono stati proposti almeno due meccanismi
differenti, uno con un difetto lisosomiale di acidificazione (Lee et
al., 2010) e l’altro con un difetto nell’omeostasi lisosomiale del Ca+2
(Coen et al., 2012). Ulteriori esempi di malattie neurodegenerative,
che sono causate da mutazioni di proteine c​ oinvolte nella mutazione
degli endosomi e dei lisosomi, sono la demenza fronto-temporale e
la malattia di Charcot-Marie-Tooth di tipo 2B, che sono dovute rispettivamente a mutazioni di CHMP2B (charged multivesicular body
protein 2) (Skibinski et al., 2005) e RAB7 (Verhoeven et al., 2003).
Attivazione di TFEB come potenziale terapia
La presenza di meccanismi patogenetici comuni tra le LSDs e le
più frequenti malattie neurodegenerative suggerisce che le strategie
terapeutiche destinate al recupero e/o al miglioramento della funzione lisosomiale e autofagica possono avere un impatto su entrambi
i tipi di malattie. Diversi tentativi sono stati fatti per trattare modelli animali di malattie neurodegenerative, rendendo più efficiente
il pathway lisosomiale-autofagico (Harris and Rubinsztein, 2012;
Menzies et al., 2010; Mueller-Steiner et al., 2006; Ravikumar et al.,
2004; Rose et al., 2010; Sun et al., 2008; Tanaka et al., 2004; Yang
et al., 2011). Un obiettivo terapeutico promettente, reso disponibile
dopo la recente scoperta di TFEB, sarebbe quello di incrementare
la capacità della cellula di fare clearance, inducendo la funzione di
TFEB. Studi preliminari hanno mostrato che le cellule con livelli di
TFEB aumentati mostrano un ritmo più veloce di clearance dei glicosaminoglicani (GAGs) rispetto a cellule di controllo (Sardiello et al.,
2009). L’iper-espressione di TFEB con vettori virali determina anche
una riduzione notevole di GAGs e della vacuolizzazione cellulare in
cellule staminali neuronali differenziate (NSC), che sono state isolate
da modelli murini di MSD e MPSIIIA, due gravi tipi di LSDs (Medina
et al., 2011). Risultati simili sono stati ottenuti usando questo approccio in cellule di pazienti con altri tipi di LSDs e/o in modelli di
topo, con ceroidolipofuscinosi neuronale di tipo 3 (CLN3, malattia
di Batten) e con malattia di Pompe (Medina et al., 2011). L’iperespressione di TFEB in un modello murino della malattia di Pompe
ha ridotto l’accumulo del glicogeno e le dimensioni dei lisosomi, ha
migliorato il processing dell’autofagosoma e ridotto l’accumulo di
vacuoli autofagici. È interessante notare che l’effetto di clearance
di TFEB è risultata dipendente dal pathway autofagico (Spampanato
et al., 2013). TFEB è stato utilizzato anche come strumento per promuovere la clearance cellulare nelle malattie neurodegenerative più
comuni.
Inoltre, è stato dimostrato che il trasferimento del gene TFEB in un
modello murino della malattia di Parkinson è in grado di revertire il
fenotipo patologico (Dehay et al., 2010). In un recente studio, TFEB è
stato identificato come il principale mediatore della capacità di PGC1α
di promuovere clearance cellulare e di ridurre la neurotossicità in un
modello murino della corea di Huntington (Tsunemi et al., 2012). Infine, la iper-espressione di TFEB nel fegato di topi portatori di una forma
Figura 4.
TFEB regola la clearance cellulare.
Il fattore di trascrizionee EB (TFEB) controlla la biogenesi dei lisosomi, regolando il livello degli enzimi lisosomiali, l’acidificazione e il numero dei
lisosomi. TFEB controlla anche l’autofagia definendo il numero di autofagosomi e gestendo la fusione tra i lisosomi e gli autofagosomi. Infine, TFEB
regola il legame e la fusione dei lisosomi alla membrana plasmatica durante il processo di esocitosi lisosomiale. L’azione combinata di questi tre
processi permette la clearance cellulare.
253
C. Settembre, A. Fraldi, D.L. Medina, A. Ballabio
mutata di α1-antitripsina ha comportato la clearance di questa proteina mutata e recuperato la funzionalità del fegato (Pastore et al., 2013).
Il meccanismo con cui TFEB promuove la clearance del materiale
di accumulo deve essere ulteriormente chiarito. L’induzione di TFEB
protegge dall’accumulo lisosomiale in LSD nonostante una deficienza
completa di uno o più enzimi lisosomiali. Il meccanismo principale in
questo caso è l’attivazione dell’esocitosi lisosomiale, con cui il materiale immagazzinato può essere secreto dalle cellule a seguito della
iper-espressione di TFEB. Tuttavia, in generale, è possibile che la clearance cellulare mediata da TFEB sia il risultato degli effetti combinati
di biogenesi lisosomiale, autofagia ed esocitosi lisosomiale (Fig. 4). La
possibilità di modulare la funzione lisosomiale farmacologicamente,
per esempio inibendo la fosforilazione di TFEB o aumentando la defosforilazione di TFEB, rappresenta una strategia terapeutica attraente
per promuovere la clearance cellulare in tutte le suddette malattie.
Pertanto, la selezione degli approcci farmacologici finalizzati a individuare molecole che promuovono la traslocazione al nucleo di TFEB
rappresenta un interessante passo in avanti. Tuttavia, per valutare i
potenziali effetti collaterali saranno necessari accurati studi a lungo
termine. Trattamenti che possono aumentare l’attività di TFEB solo
per limitati periodi di tempo, possono essere l’opzione migliore per le
malattie in cui l’accumulo di materiale richiede molto tempo. Al momento attuale, è troppo presto per stabilire se l’induzione di TFEB sarà
un’opzione terapeutica valida per le LSDs o altre malattie. Tuttavia, la
vasta gamma di malattie che potrebbero essere trattate con questa
strategia terapeutica apre attraenti prospettive.
Conclusioni e prospettive future
Il ruolo emergente dei lisosomi in processi importanti, come il
signaling e il metabolismo di nutrienti, richiede ulteriori studi, in
quanto quello di cui si è a conoscenza allo stato attuale potreb-
be rappresentare solo la punta dell’iceberg. Approcci sistematici, come trascrittomica, proteomica e metabolomica, insieme
ad un potente strumento come la system biology saranno particolarmente importanti per identificare tutte le componenti del
lisosoma (Walkley, 2009). Questi approcci dovrebbero essere integrati da tecnologie di in vivo imaging e microscopia intravitale,
che consentono la visualizzazione dei lisosomi nel contesto di
un organismo vivente e in condizioni fisiologiche o patologiche
specifiche.
Un approccio interdisciplinare permetterà anche di rispondere a
problematiche importanti e poco esplorate, quali le variazioni del
numero, dimensioni e contenuto dei lisosomi in diversi tessuti o
individui e la diversa tipologia di lisosomi associata a funzioni
specifiche; di comprendere come le condizioni ambientali o patologiche influenzano la composizione, la funzione o l’identità dei
lisosomi, e qual è il ruolo fisiologico del signaling lisosomiale e
come questo sia coinvolto nelle patologie umane.
Oltre al coinvolgimento nelle malattie neurodegenerative, il ruolo
del lisosoma in altri processi patologici, quali le anomalie del
metabolismo lipidico, le infezioni e perfino l’invecchiamento, è
ancora largamente inesplorato. L’analisi trascrittomica e proteomica dei tessuti derivati da pazienti e il sequenziamento del DNA
dell’esoma o dell’intero genoma di pazienti può portare alla scoperta di variazioni lisosomiali come fattori predisponenti per altre
malattie dell’uomo. Inoltre, lo studio della funzione lisosomiale in
vari processi patologici potrà portare allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche. Infine, lo sviluppo di screening farmacologici
potrà aprire la strada per l’identificazione di nuovi composti in
grado di modulare la funzione lisosomiale, che potrebbero essere utilizzati come farmaci efficaci per promuovere la clearance
cellulare.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
• I lisosomi sono organelli cellulari coinvolti nella degradazione e nel riciclo dei rifiuti cellulari. I materiali extracellulari e intracellulari che devono
essere eliminati raggiungono il lisosoma rispettivamente tramite endocitosi e autofagia. I lisosomi sono anche coinvolti nella secrezione e nella
riparazione della membrana plasmatica, fondendosi con essa in un processo chiamato esocitosi lisosomiale.
• La funzione lisosomiale è eseguita da idrolasi luminali responsabili della digestione del substrato e dalle proteine membrana-associate che gestiscono il traffico di materiali all’interno e all’esterno dei lisosomi.
Che cosa sappiamo adesso
• Un macchinario complesso, che comprende il complesso di mTORC1 (mammalian target of rapamycin complex 1), un regolatore principale della
crescita cellulare, il complesso V-ATPase e complessi supplementari, si trova sulla superficie lisosomiale ed è dedicato al rilevamento del contenuto
di nutrienti del lisosoma. Questo complesso è detto LYNUS (Lysosome Nutrient Sensing).
La maggior parte dei geni codificanti proteine lisosomiali appartengono a una rete genica detta CLEAR (Coordinated Lysosomal Expression and Regulation). Questi geni sono regolati dal fattore di trascrizione EB (TFEB), il regolatore più importante per la biogenesi lisosomiale. Utilizzando questo
meccanismo di regolazione, le cellule possono adattare la funzione lisosomiale a rispondere a stimoli ambientali.
• L’attività di TFEB è indotta dal digiuno, sia tramite un’autoregolazione trascrizionale che un meccanismo fosforilazione-dipendente. Una volta attivato,
TFEB media la risposta al digiuno promuovendo il catabolismo dei lipidi attraverso la regolazione dei geni “master” del metabolismo lipidico PPARa
(peroxisome proliferator-activated receptor-α) e PGC1α (PPARγ co-activator 1α).
La regolazione e la funzione di TFEB si sono conservate nel corso dell’evoluzione.
Quali prospettive per il futuro
• Le disfunzioni lisosomiali e autofagiche sono fenomeni che avvengono sia nelle malattie da accumulo lisosomiale (LSD) che nelle malattie neurodegenerative più comuni, nelle quali c’è una clearance cellulare difettosa e l’accumulo di materiali tossici. Pertanto, l’induzione della clearance cellulare
mediata da TFEB può rappresentare una strategia terapeutica nuova ed efficace per queste patologie.
254
Il lisosoma: centro di controllo del metabolismo cellulare
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** Descrizione del macchinario di rilevamento amminoacidico che si trova sulla
superficie lisosomiale e coinvolge mTORC1. Questo coinvolge i lisosomi nel
signaling e nel metabolismo energetico cellulare.
Corrispondenza
Andrea Ballabio, Telethon Institute of Genetics and Medicine (TIGEM), Via Pietro Castellino 111, 80131, Naples, Italy. [email protected]
257
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 41 • N. 172 • Pp. 258-265
Focus
Le basi neurobiologiche
dello sviluppo relazionale
Ennio Del Giudice, Angela Francesca Crisanti*
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria, Università degli Studi “Federico II”, Napoli
*Pediatra di Libera Scelta, Azienda Sanitaria Locale Napoli 2 Nord, Napoli
Riassunto
La relazione genitore-bambino e lo sviluppo cerebrale sono intimamente correlati: la formazione del legame di attaccamento della madre verso il proprio
bambino si basa sulla capacità di quest’ultimo di fornire gli stimoli idonei ad attivare i circuiti cortico-limbici correlati a specifici comportamenti dei genitori.
Alcune abilità quali quelle empatiche e quelle legate alla cosiddetta “Teoria della mente”, che si basano sul sistema dei neuroni specchio, sono particolarmente rilevanti ai fini della relazione genitoriale. L’attaccamento madre-bambino si fonda sulla co-attivazione di due distinti network cerebrali: il circuito
dopaminergico mesolimbico della ricompensa (reward system) e il sistema della paura/ansia, in cui il nucleo accumbens e l’amigdala ricoprono un ruolo
chiave. I comportamenti genitoriali sono anche modulati da alcuni neurotrasmettitori cerebrali tra i quali spiccano la dopamina, l’ossitocina e la serotonina.
Inoltre, le varianti genetiche possono spiegare la variabilità individuale nei comportamenti sociali e nel temperamento umano: questo vale in particolare per
il legame di attaccamento. La metodica nota come imaging genetics fornisce uno strumento innovativo che permette di studiare l’impatto dei polimorfismi
genetici, rilevanti per il funzionamento cerebrale, sul comportamento umano, anche ai fini della scoperta di nuove opzioni terapeutiche per la patologie
neuropsichiatriche.
Summary
The parent-infant relationship and physical brain development are inherently interlinked. The mother’s attachment to her infant is a complex process that
entails the provision of salient inputs from the infant, capable of activating cortico-limbic modules to eventually induce specific parental behaviors. Relevant
issues pertaining to both cognition and emotion such as empathy and Theory-of-Mind skills are called into play: the neural basis of these ability may rely
on the mirror neuron system. Maternal-infant bonding is based on the co-activation of two distinct fear-related (fear circuitry) and motivational networks
(reward circuitry), in which the amygdala and the accumbens nucleus respectively play a crucial role. Parental behaviors are also influenced by infant cues
that activate certain interacting neurotransmitters, including oxytocin and dopamine, as well as serotonin. Since a substantial proportion of variance in
human social behavior and temperament is explained by genetic differences, polymorphisms in the neurotransmitter genes may impact on emotions and
social interactions, inducing pathologic traits and vulnerability to neuropsychiatric disorders.
Parole chiave: sviluppo relazionale, attaccamento, circuiti cerebrali, genetica per immagini
Key words: social development, attachment, brain circuitries, imaging genetics
Introduzione
Il legame di attaccamento (vedi Appendice) costituisce una pietra
miliare dello sviluppo infantile e coinvolge componenti biologiche,
comportamentali e psicologiche, rivestendo un ruolo cruciale nella
vita di ciascun individuo, dalla nascita fino all’età adulta (Bowlby,
1958; Raby et al., 2013).
La relazione genitore-bambino e lo sviluppo cerebrale sono intimamente correlati: è utile conoscere il complesso percorso che dai geni
conduce alle funzioni cerebrali e al comportamento umano (MeyerLindenberg, 2012). L’espressione dei geni è mediata da specifici
meccanismi molecolari e cellulari che determinano e modulano
il comportamento umano attraverso il coinvolgimento di circuiti o
reti neurali, comunemente indicati col termine inglese di network
(Fig. 1). La Teoria dei Grafi (Graph theory) permette di rappresentare
e meglio definire i network cerebrali in termini di nodi e connessioni, sottoposti durante l’età evolutiva ad un continuo rimodellamento,
subendo incrementi e riduzioni nell’ambito di un’integrazione sempre più complessa, nel corso della quale alcune connessioni sinaptiche sono fisiologicamente eliminate e altre rafforzate (Dennis et al.,
2013). Le nuove tecniche di diagnostica per neuroimmagini consen-
258
tono di ricostruire queste reti in vivo, sia in termini di connettività
strutturale mediante la Trattografia Diffusionale (Diffusion Tensor
Imaging, DTI), che di connettività funzionale con la Risonanza Magnetica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI).
Con quest’ultima tecnica è stato possibile ottenere una curva di maturazione cerebrale simile a quelle normalmente usate in pediatria
per il peso, l’altezza o la circonferenza cranica (Fig. 2); la maturità
funzionale media si raggiunge ad un’età cerebrale di circa 22 anni
(Dosenbach et al., 2010).
La metodica nota come Connettività Funzionale allo stato di riposo
(resting-state Functional Connectivity) ha individuato la modalità di
funzionamento cerebrale di default definita Default Mode Network
(DMN): una “attività di fondo” destinata al lavoro mentale introspettivo indipendente da stimoli esterni quale il mind wandering. Il
DMN subisce modifiche durante tutta l’età evolutiva, anche se la sua
piena attività funzionale comincia ad avvicinarsi a quella dell’adulto
intorno ai due anni di vita (Parsons et al., 2010). Il DMN insieme con
il Salience Network (SN), che identifica gli stimoli salienti e il Central
Executive Network (CEN) preposto a funzioni corticali superiori quali
l’attenzione o la memoria di lavoro, fa parte dei core neurocogniti-
Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale
Figura 1.
Dai geni al comportamento.
Il complesso percorso che conduce: a) dall’espressione genica; b) alla modulazione neurochimica (es.dopamina, ossitocina); c) all’attivazione
dei circuiti cerebrali; d) ai comportamenti umani. Nella sezione c della figura sono rappresentati i tre più importanti network neurocognitivi (core
neurocognitive networks): CEN, SN, DMN. Il CEN (Central Executive Network), a sede frontoparietale, con fulcro nella corteccia prefrontale dorsolaterale e nella corteccia parietale posteriore, è adibito allo svolgimento delle funzioni corticali superiori quali la memoria di lavoro e l’attenzione. Il
SN (Salience Network), con fulcro nella corteccia frontoinsulare e nella parte dorsale della corteccia cingolata anteriore, si occupa del rilevamento
degli input significativi per l’individuo e mostra ampie connessioni con le strutture limbiche e sottocorticali implicate nel sistema della ricompensa
e motivazione. Il DMN (Default Mode Network), con fulcro nella corteccia cingolata posteriore e in quella prefrontale mediale, è importante nello
svolgimento delle attività mentali auto-referenziali (self-referential) indipendenti dagli stimoli esterni (modificata in parte da Menon, 2011).
fc MI
ve networks nel contesto dei cosiddetti Large-scale brain networks
(Menon, 2011; Lindquist e Barrett, 2012; Barrett e Satpute, 2013).
Il SN svolge un ruolo critico nel passaggio tra il CEN e il DMN. Tutte
le volte che viene percepito uno stimolo significativo, la corteccia
fronto-insulare impegna il CEN nelle funzioni cognitive superiori e
contemporaneamente disattiva il DMN, garantendo maggiore rilevanza allo stimolo stesso (He et al., 2013).
Recentemente sono state messe a punto due tecniche innovative
capaci di individuare con precisione i circuiti neuronali cerebrali:
optogenetics e clarity. La prima, comporta l’inserimento all’interno
dei neuroni di alcune proteine sensibili alla luce consentendo così
di “accendere” o “spegnere” le cellule a piacimento mediante uno
stimolo luminoso (Kim et al., 2013), mentre, la seconda, utilizza un
trattamento chimico capace di rendere trasparente il cervello in toto
in modo tale da consentire una visione tridimensionale dei network
cerebrali (Chung et al., 2013; Chung e Deisseroth, 2013).
Le basi neurali dello sviluppo socio-relazionale
età (anni)
Figura 2.
Curva di maturazione funzionale del cervello umano.
La curva è stata ottenuta riportando in grafico i dati relativi a 238 esami
di rs-fcMRI (connettività funzionale allo stato di riposo) in soggetti di
età compresa tra 7 e 30 anni. Sull’asse delle ascisse è indicata l’età
cronologica in anni, mentre su quello delle ordinate sono riportati gli
indici maturativi di connettività funzionale (fcMI). Il modello mostra un
livello di maturazione asintotica intorno ad una età cerebrale media di
circa 22 anni che corrisponde ad un fcMI leggermente superiore a 1.0
(modificata da Dosenbach et al., 2010).
La formazione del legame di attaccamento della madre verso il
proprio bambino si basa sulla capacità di quest’ultimo di fornire stimoli idonei ad attivare i circuiti cortico-limbici che sono alla
base di comportamenti genitoriali specifici (Fig. 3) (Swain, 2008).
L’attaccamento madre-bambino richiede la co-attivazione di due distinti network cerebrali: il sistema dopaminergico mesolimbico della
ricompensa (reward system), che trasporta la dopamina dall’area
tegmentale ventrale (VTA) del mesencefalo al nucleus accumbens
e alla corteccia prefrontale (Fig. 4) e il sistema della paura/ansia,
in cui l’amigdala, nodo centrale del sistema limbico, garantisce i
comportamenti materni di accudimento. Recenti ricerche nei roditori
259
E. Del Giudice, A.F. Crisanti
Figura 3.
Genesi dei comportamenti genitoriali di accudimento.
Gli stimoli provenienti dal bambino, dotati di rilevante significato per il genitore, attivano, tramite meccanismi motivazionali e neuromodulatori, una
serie di sistemi modulari cortico-limbici finalizzati alla regolazione dei comportamenti genitoriali: 1) circuiti cerebrali preposti alle cure e all’accudimento della prole a prevalente sede sottocorticale, 2) circuiti cognitivi relativi principalmente alle abilità empatiche e di Teoria della Mente (Theory
of Mind) e 3) circuiti preposti alla regolazione dell’ansia e della paura, capaci di rilevare potenziali minacce esterne (modificata da Swain, 2008).
hanno permesso di individuare uno specifico circuito “prefrontale
mediale-amigdala” definito aversive amplification circuit (circuito
per l’amplificazione dell’avversione) che aumenta le risposte comportamentali legate alla paura/ansia (Robinson et al., 2012). Anche
nell’uomo è stato descritto un analogo circuito a modulazione serotoninergica – che realizza un accoppiamento funzionale (functional
coupling) tra l’amigdala e le cortecce cingolata anteriore/prefrontale
dorsomediale – come probabile base per la vulnerabilità ai disturbi
d’ansia (Robinson et al., 2013).
Il sistema cerebrale della ricompensa comprende diverse componenti: a) liking, che rappresenta la caratteristica edonica del
piacere in sé, b) wanting, che indica la motivazione ad ottenere
la ricompensa e c) learning, cioè l’apprendimento correlato alla
ricompensa (Perogamvros e Schwartz, 2012). La dopamina mesolimbica, un tempo ritenuta il neurotrasmettitore del ‘piacere’,
determina piuttosto un processo motivazionale di salienza emotiva
finalizzato ad ottenere la ricompensa, ma che non ne implica necessariamente il suo godimento. Le aree cerebrali capaci di generare piacere (hedonic hotspots) sono state identificate nel ratto:
si tratta di aree anatomicamente molto ristrette e localizzate in
particolari regioni tra cui: il nucleo accumbens e il pallido ventrale; nell’uomo, gli studi mediante Risonanza Magnetica funzionale
hanno dimostrato come l’emozione legata al piacere sia meglio
rappresentata dall’attività a livello della corteccia orbitofrontale
(Berridge e Kringelbach, 2013). Inoltre, l’insieme della corteccia
orbitofrontale e dell’amigdala – che riceve l’informazione visiva
dalle regioni sensibili ai volti localizzate nel giro fusiforme e nel
solco temporale superiore – costituisce il network preposto all’elaborazione dei segnali emotivi provenienti dal viso, importante
per la modulazione delle relazioni interpersonali. Questo network
va incontro ad una maturazione funzionale: dapprima compare un
260
circuito “di attesa delle esperienze” (experience-expectant circuit)
che inizia la sua attività funzionale intorno ai sei mesi di vita e
successivamente un circuito “dipendente dalle esperienze” (experience-dependent circuit) suscettibile di essere raffinato dalle
esperienze individuali specifiche nel corso dell’età evolutiva (Leppanen e Nelson, 2009).
La Risonanza Magnetica funzionale è stata utilizzata per studiare le
reazioni emotive delle madri durante la visione di filmati dei propri
figli, allo scopo di identificare i circuiti neurali che sono alla base del
comportamento materno (Atzil et al., 2011). Le aree attive implicate sono localizzate a livello del sistema limbico e di varie regioni
della corteccia cerebrale: le basi neurali dell’accudimento materno
includono quindi sia regioni limbiche motivazionali sottocorticali che
network modulatori dell’emozione a livello corticale. Tra queste aree
corticali, la corteccia prefrontale mediale è connessa alle abilità empatiche e di mentalizzazione o Teoria della Mente (Theory of Mind)
che aumentano la capacità materna di saper leggere e rispondere
ai segnali provenienti dal proprio bambino. Le competenze legate
alla Teoria della Mente, intesa come la capacità di saper comprendere e riflettere sugli stati mentali propri e altrui, raggiungono la
maturazione tra i quattro e i sei anni di età. I compiti mirati alle
abilità di mentalizzazione, studiati mediante la Risonanza Magnetica
funzionale, comportano un’attivazione specifica della corteccia prefrontale mediale che nei bambini e negli adolescenti appare ridotta
rispetto ai soggetti adulti (Adolphs, 2003). La strategia neurale per
ragionare sul pensiero altrui cambia nel passaggio dall’adolescenza
all’età adulta (Blakemore e Robbins, 2012): quindi, un sistema di
teoria della mente in fase di maturazione potrebbe modulare in maniera differente il processo decisionale dell’adolescente all’interno
del contesto sociale, consentendo una migliore comprensione dei
comportamenti a rischio in presenza di coetanei.
Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale
Nell’uomo la mimica facciale rapida sembra riflettere la capacità
degli individui di empatizzare con gli altri. L’empatia, definita come
risposta appropriata alle emozioni altrui, è particolarmente rilevante per i comportamenti genitoriali e, nell’uomo, include tre componenti: arousal affettivo, comprensione dell’emozione e regolazione
dell’emozione (Decety, 2010). I comportamenti prosociali e altruistici
compaiono precocemente: bambini tra i 12 e i 18 mesi di vita sono in
grado di confortare persone in difficoltà e mostrare comportamenti
spontanei di aiuto. La comprensione delle emozioni raggiunge poi
una sufficiente maturità intorno ai tre anni, mentre la regolazione
delle emozioni – che consente il controllo dei comportamenti affettivi – si sviluppa lungo tutto l’arco dell’infanzia e dell’adolescenza in
parallelo con la maturazione delle funzioni esecutive.
La modulazione neurochimica dei comportamenti
sociali
Figura 4.
Il sistema della ricompensa (reward system).
Il sistema dopaminergico mesolimbico della ricompensa (linee rosse)
trasporta la dopamina dall’area tegmentale ventrale (VTA) del mesencefalo al nucleus accumbens (NAc) e alla corteccia prefrontale (PFC): sono
indicate anche le proiezioni glutammatergiche (linee blu) dalla PFC all’amigdala (AMY) e alla VTA e proiezioni GABAergiche da NAc a VTA (linea
arancione). Il nucleus accumbens è una regione chiave del sistema che
modula le risposte individuali alle ricompense e inoltre influenza i meccanismi di assuefazione indotti dalle sostanze di abuso. La corteccia prefrontale (PFC) “che include diverse sezioni tra cui la PFC dorsolaterale, la
PFC mediale, la corteccia orbitofrontale e la corteccia cingolata anteriore,
preposte a funzioni distinte ma spesso sovrapposte” fa parte del sistema
limbico ed è essenziale per la regolazione delle emozioni. Le regioni prefrontali esercitano un controllo top-down delle risposte emozionali, agendo sia sull’amigdala che sul NAc. Infine, la freccia verde indica la stretta
connessione sul piano funzionale (functional coupling) tra l’amigdala e la
corteccia cingolata anteriore (evidenziata in rosso), ritenuta cruciale per la
vulnerabilità alla depressione e alle caratteristiche temperamentali di tipo
ansioso (modificata da Feder et al., 2009).
Le basi neurobiologiche della capacità di comprendere gli stati mentali ed emotivi altrui possono essere ricondotte al sistema
dei neuroni specchio (Mirror neuron system, MNS) (Canessa et al.,
2009). Si tratta di neuroni che si attivano sia quando si compie
un’azione, sia quando si osserva la medesima azione compiuta da
altri. Nell’uomo tre aree cerebrali formano un circuito chiave per
le abilità di imitazione (Iacoboni e Dapretto, 2006): da una parte la corteccia frontale inferiore e il lobulo parietale inferiore, che
costituiscono il MNS, e dall’altra il solco temporale superiore che
funge da input visivo al sistema (Fig. 5). Recentemente è stato
approfondito lo studio della mimica facciale rapida (una risposta
automatica presente solo nei primati e nell’uomo che consente
l’immediata imitazione della mimica facciale altrui) confermando
che i soggetti interessati non solo condividono la stessa espressione, ma anche le stesse emozioni in una sorta di ‘contagio emotivo’
come quello che caratterizza la relazione madre-bambino (Mancini
et al., 2013).
Il cervello umano produce molecole endogene capaci di generare
piacere quali i peptidi oppiodi e gli endocannabinoidi. Queste molecole agiscono sul sistema della ricompensa amplificando gli effetti
dopaminergici a livello del nucleo accumbens e dell’area tegmentale
ventrale. Il sistema oppioide endogeno – costituito da tre tipi di recettori: μ, κ, e δ e dai loro ligandi: endorfine, encefaline e dinorfi-
Figura 5.
Il sistema dei neuroni specchio.
Un neurone specchio è un neurone che si accende sia quando si compie un’azione, sia quando si osserva la medesima azione compiuta da
altri. Rappresentazione schematica nella specie umana del sistema
frontoparietale (in rosso) dei neuroni specchio (MNS) e della sua principale fonte di informazione visiva (in giallo). Il MNS frontoparietale comprende un’area anteriore, localizzata nella corteccia frontale inferiore
– che include la circonvoluzione frontale postero-inferiore e la corteccia
premotoria ventrale adiacente – e un’area posteriore localizzata nella
parte rostrale del lobulo parietale inferiore: una terza area, localizzata
nella sezione posteriore del solco temporale superiore (STS) costituisce
l’input visivo principale al MNS (freccia arancione). Nel loro insieme, le
tre aree formano un circuito chiave core circuit per le abilità di imitazione. Il flusso di informazioni dall’area parietale (descrizione motoria
dell’azione) a quella frontale (scopo dell’azione) è indicato dalla freccia rossa. Il MNS invia al STS le rappresentazioni delle azioni imitative
motorie (freccia), allo scopo di confrontare lo schema dell’atto motorio
imitativo con la descrizione visiva dell’azione osservata.
261
E. Del Giudice, A.F. Crisanti
ne – svolge il compito di mediare il rinforzo positivo motivazionale
degli stimoli sociali, contribuendo al consolidamento del legame di
attaccamento. I topi privi del gene per il recettore oppioide µ mostrano deficit nei comportamenti di attaccamento, confermando
quindi che l’espressione di questo gene è essenziale per lo sviluppo
dell’attaccamento materno: è stato anche dimostrato che le varianti
polimorfiche del gene per il recettore oppioide µ correlano con la
qualità dell’attaccamento genitoriale sia negli uomini che nei primati (Copeland et al., 2011). D’altra parte, le evidenze scientifiche
nei roditori supportano il ruolo degli endocannabinoidi in tre aspetti
chiave dell’interazione madre-bambino: la suzione, il comportamento materno e le vocalizzazioni ultrasoniche indotte dalla separazione
(Manduca et al., 2012).
I comportamenti genitoriali sono influenzati da stimoli provenienti
dal bambino capaci di attivare alcuni neurotrasmettitori cerebrali tra
i quali la dopamina e l’ossitocina (Swain et al., 2007). Il sistema di
ricompensa dopaminergico e il sistema ossitocinergico giocano un
ruolo fondamentale nel promuovere e mantenere i comportamenti
materni. L’ossitocina, definita neuropeptide “sociale”, sintetizzata
nei nuclei sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo, agisce sia
perifericamente che centralmente sulle aree cerebrali preposte ai
comportamenti emotivi e sociali (es. l’amigdala e il nucleo accumbens), fungendo quindi da ormone e da neuromodulatore centrale
(Benarroch, 2013).
Gli input emotivi, quali volti di bambini sorridenti o piangenti, sono
potenti stimolatori del comportamento materno umano: le madri con
attaccamento sicuro, alla vista del volto del proprio bambino, mostrano, rispetto alle madri con attaccamento insicuro, un’aumentata
attivazione delle aree cerebrali associate all’ossitocina e al sistema
della ricompensa; allo stesso modo, i livelli di ossitocina periferica,
durante il contatto fisico con il proprio bambino, sono significativamente più elevati nelle madri con attaccamento sicuro e sono correlati positivamente con l’attivazione cerebrale delle aree cerebrali
prima citate (Strathearn et al., 2009). Questi dati sperimentali suggeriscono che le differenze individuali nell’attaccamento materno
possano essere legate a una differente modulazione da parte dei
sistemi ossitocinergico e dopaminergico.
L’ossitocina somministrata per via endonasale supera la barriera
ematoencefalica, consentendo di condurre molti studi in ambito
umano. Ad esempio, nel gioco di fiducia (trust game) – due soggetti
interagiscono in modo anonimo ricoprendo il ruolo di investitore o di
consulente bancario – l’ossitocina aumenta considerevolmente la
fiducia dell’investitore e la motivazione a stringere relazioni sociali,
promuovendo la fiducia negli altri e la disponibilità ad assumersi
rischi (Kosfeld et al., 2005).
per il funzionamento cerebrale sul comportamento umano (MeyerLindenberg, 2012).
Uno studio recente dimostra che due polimorfismi a singolo nucleotide o SNP (Single Nucleotide Polymorphism) del gene per il recettore dell’ossitocina sono correlati a deficit del comportamento
sociale (Kumsta e Heinrichs, 2013). In particolare, le madri portatrici
di almeno un allele dello SNP rs53576A, presentano una significativa riduzione dell’interesse globale nei confronti del proprio bambino, oltre a una diminuzione delle capacità empatiche. Quanto al
secondo SNP rs2254298A, è stato evidenziato, nelle madri portatrici, un aumento del functional coupling (accoppiamento funzionale)
tra amigdala e corteccia cingolata, che può essere correlato ad una
disregolazione delle componenti emotive e affettive materne.
Il gene ras-specific guanine-nucleotide releasing factor 2 (RASGFR2) codifica per una proteina che determina l’attivazione calcio dipendente del pathway ERK, che a sua volta controlla l’eccitabilità dei
neuroni dopaminergici. La possibile associazione del gene rasGFR2
con il sistema della ricompensa è stata studiata, con la Risonanza
Magnetica funzionale, negli adolescenti reclutati dallo studio IMAGEN (Stacey et al., 2012). I polimorfismi del gene RASGRF2 correlano con l’attivazione della corteccia cingolata anteriore, confermando
il ruolo di questo gene nella regolazione dell’attività dei neuroni dopaminergici mesolimbici, cruciale per il sistema della ricompensa,
associato negli adolescenti al consumo di alcol e altre sostanze di
abuso.
Gli effetti dell’ossitocina sull’elaborazione delle emozioni sono anche mediati dai neuroni serotoninergici (Meyer-Lindenberg et al.,
2011). I polimorfismi nel gene per il trasportatore della serotonina
(5-HTTLPR) modulano l’attività dell’amigdala: i portatori dell’allele
S, paragonati agli omozigoti L/L, mostrano un’aumentata attivazione
dell’amigdala con una conseguente iperresponsività dei circuiti di
elaborazione delle emozioni che rappresenta un potenziale fattore
di rischio per i disturbi dell’umore. I polimorfismi del gene per il trasportatore della serotonina (5-HTTLPR) influenzano anche le interazioni del sistema funzionale amigdala-corteccia cingolata (Pezawas
et al., 2005). I portatori dell’allele S mostrano una ridotta connettività funzionale di questo sistema rispetto agli omozigoti L/L. Questa
variante genetica altera quindi i circuiti cortico-limbici deputati al
controllo degli impulsi e all’elaborazione dell’informazione sociale,
attraverso una eccessiva disponibilità di serotonina che può amplificare gli effetti neurobiologici delle esperienze sociali negative nel
corso dello sviluppo. In ultima analisi, il circuito amigdala-corteccia
cingolata è modulato sia dal sistema ossitocinergico che da quello
serotoninergico, rappresentando un’area in cui le funzioni dei due
sistemi del comportamento sociale convergono.
L’impatto delle varianti genetiche sul
comportamento umano
Le relazioni tra le emozioni e le funzioni cognitive
superiori
Le nuove tecniche di citogenetica molecolare come, ad esempio,
array CGH (Comparative Genomic Hybridization) hanno permesso
di identificare alterazioni cromosomiche submicroscopiche, quali
microdelezioni o duplicazioni, oltre che varianti strutturali polimorfiche (Copy Number Variant, CNV) capaci di influenzare il fenotipo
clinico. Le differenze genetiche possono spiegare una notevole parte
della variabilità individuale nei comportamenti sociali e nel temperamento dell’uomo (Meyer-Lindenberg e Tost, 2012): questo vale
in particolare per il legame di attaccamento (Raby et al., 2013). La
metodica nota come imaging genetics fornisce uno strumento con
il quale si può studiare l’impatto dei polimorfismi genetici rilevanti
Gli studi condotti con la Risonanza Magnetica funzionale nei soggetti in età evolutiva hanno evidenziato in maniera chiara i cambiamenti che si manifestano nel tempo, sia a livello dei pattern di
attivazione che della connettività funzionale. In particolare, è stato
messo in risalto il passaggio da una risposta emotiva viscerale, mediata dall’amigdala e dalla corteccia orbitofrontale, ad una razionale,
che coinvolge in modo progressivo la corteccia prefrontale mediale
(Lindquist e Barrett, 2012).
La regolazione delle emozioni implica il controllo top-down delle regioni “fredde” della corteccia prefrontale sulle regioni “calde” del
sistema limbico, quali l’amigdala (Ray e Zald, 2012). Nell’adolescen-
262
Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale
za la maturazione delle relazioni funzionali tra regioni prefrontali e
limbiche è caratterizzata dal divario tra le loro traiettorie di sviluppo,
in quanto le strutture limbiche sottocorticali maturano più precocemente delle regioni prefrontali: questo squilibrio funzionale potrebbe
spiegare le peculiari caratteristiche degli adolescenti improntate a
più frequenti comportamenti a rischio (Casey et al., 2013).
Le attuali conoscenze non consentono però di separare in modo così
netto il cervello “cognitivo” da quello “emotivo”: infatti, regioni cerebrali considerate come ‘affettive’ sono coinvolte nei processi cognitivi
e viceversa; inoltre i processi cognitivi ed emotivi sono chiaramente
tra loro integrati (Pessoa, 2008). In particolare, l’analisi quantitativa
della connettività cerebrale globale mostra come l’amigdala occupi
una posizione nel centro geometrico esatto della rappresentazione
grafica, suggerendo il suo ruolo di hub centrale che collega tra loro
molteplici hub periferici, ciascuno dei quali collega regioni comprese
entro cluster funzionali separati. In questo modo l’amigdala si presenta come un forte candidato per l’integrazione dell’informazione
cognitiva ed emozionale (Pessoa, 2008; Jennings et al., 2013).
Bibliografia
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* Lavoro pilota per gli studi umani sugli effetti sociali dell’ossitocina.
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Lindquist KA, Barrett LF. A functional architecture of the human brain: emerging
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* Review sulla organizzazione funzionale del sistema nervoso centrale.
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Manduca A, Campolongo P, Trezza V. Cannabinoid modulation of mother-infant
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Menon V. Large-scale brain networks and psychopathology: a unifying triple network model. Trends Cogn Sci 2011;15:483-503.
* Review sui circuiti cerebrali di ampia estensione (Large-scale brain networks).
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* Un comment sulla imaging genetics.
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Meyer‑Lindenberg A, Domes G, Kirsch P et al. Oxytocin and vasopressin in the
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** Eccellente revisione della letteratura sulle applicazioni traslazionali dei dati
disponibili sulle funzioni dell’ossitocina e della vasopressina.
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** Un lavoro importante sui rapporti tra polimorfismi della serotonina e patologie
neuropsichiatriche.
Raby KL, Cicchetti D, Carlson EA et al. Genetic contributions to continuity and
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* Recente contributo sui determinanti genetici dell’attaccamento.
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** Un’interessante review sui circuiti cerebrali di ampia estensione.
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** Una recente review sulla fisiologia e fisiopatologia dell’ossitocina.
Berridge K, Kringelbach ML. Neuroscience of affect: brain mechanisms of pleasure and displeasure. Curr Opin Neurobiol 2013 (in corso di stampa).
** Un update sui meccanismi cerebrali del piacere.
Blakemore S, Robbins T. Decision-making in the adolescent brain. Nat Neurosci
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* Un contributo alla comprensione del processo decisionale in adolescenza.
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** Review sul circuito cerebrale della paura/ansia.
Chung K, Deisseroth K. CLARITY for mapping the nervous system. Nat Methods
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* Una recente spiegazione del metodo CLARITY.
Chung K, Wallace J, Kim SY. Structural and molecular interrogation of intact biological systems. Nature 2013; 497:332-7.
** Primo lavoro che utilizza il metodo CLARITY.
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** Lavoro importante per la comprensione dei rimodellamenti funzionali dei network cerebrali.
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263
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Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Gli studi psicoanalitici e, più in generale psicodinamici, avevano sempre focalizzato l’attenzione sull’importanza delle relazioni precoci per il successivo
sviluppo della personalità: una buona relazione madre-bambino era predittiva di una sana personalità adulta. Anche le patologie neuropsichiatriche
infantili erano interpretate alla luce della prospettiva psicoanalitica come derivanti da conflitti intrapsichici irrisolti: esempio classico è l’autismo infantile
la cui patogenesi era ricondotta ad una incapacità genitoriale di stabilire relazioni affettive efficaci (madri “ frigorifero”).
Cosa sappiamo adesso
I comportamenti sociali, inclusi quelli materni, hanno una chiara base neurobiologica, che si esprime attraverso l’azione di specifici circuiti o sistemi
neurali. È stata anche chiarita l’importanza cruciale dei polimorfismi o varianti genetiche capaci di modellare il comportamento sociale a livello individuale. Inoltre, alcune varianti genetiche producono una disfunzione dei sistemi neurali che può determinare patologie neuropsichiatriche.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Le applicazioni traslazionali della imaging genetics con la possibilità di studiare la fisiopatologia dei circuiti cerebrali in rapporto a specifiche varianti
genetiche, stanno creando nuove opzioni terapeutiche per i disturbi neuropsichiatrici.
Appendice
L’attaccamento e la sua valutazione
Il concetto di attaccamento nasce nella prospettiva etologica e consiste nel bisogno da parte del bambino di ricercare e mantenere la vicinanza protettiva del genitore nei momenti di stress (es. pericolo, malattia) e di trarre rassicurazione e conforto dalla figura di attaccamento. Al compimento del
primo anno di età, quando l’attaccamento è ormai consolidato, il bambino acquisisce un suo modo personale di sperimentare la protezione e l’aiuto del
genitore. Le differenze individuali tra i bambini nelle modalità di attaccamento sono valutabili mediante alcuni metodi di osservazione, tra i quali il più
ampiamente utilizzato è la cosiddetta Strange Situation, elaborato da un’allieva di Bowlby, Mary Ainsworth (Ainsworth, 1978). Si tratta di una procedura
psicologica strutturata della durata di 20 minuti, durante la quale è possibile osservare le reazioni del bambino in un contesto di stress crescente, determinato in prima battuta dalla presenza di un estraneo e poi dall’allontanamento della madre. La procedura consente di discriminare quattro categorie
di attaccamento: un attaccamento sicuro, anche se nell’ambito di uno spettro di variabilità, e tre tipi di attaccamento insicuro, dei quali l’attaccamento
disorganizzato costituisce la forma di maggiore compromissione relazionale. La sicurezza dell’attaccamento bambino-genitore pone le fondamenta
della capacità di stabilire future buone relazioni nella vita adulta. D’altra parte, gli studi prospettici hanno dimostrato come l’attaccamento insicuro e in
particolar modo quello disorganizzato incrementino il rischio di patologie psichiatriche nell’infanzia e nell’adolescenza.
264
Le basi neurobiologiche dello sviluppo relazionale
Glossario
Central executive network (CEN): network cerebrale preposto alle funzioni corticali superiori quali la pianificazione dei progetti, i processi decisionali,
il controllo dell’attenzione e la memoria di lavoro.
Connettività strutturale (structural connectivity): connessione fisica tra le differenti aree cerebrali dimostrata in vivo mediante la trattografia diffusionale.
Connettività funzionale (functional connectivity): interrelazione statistica delle variabili relative ai cambiamenti che si verificano in un determinato arco
temporale tra differenti network cerebrali, che consente di stabilirne l’interdipendenza funzionale.
Connettività funzionale allo stato di riposo (resting-state Functional Connectivity, rsFC): metodica di Risonanza Magnetica mirata a identicare in vivo
le regioni cerebrali interconnesse sul piano funzionale durante lo stato di riposo, quando non viene proposto alcun compito da svolgere.
Default Mode Network (DMN): network cerebrale attivo durante lo stato di riposo sensoriale che va incontro a calo dell’attività quando il cervello è
chiamato a eseguire dei compiti cognitivi. Il DMN svolge una “attività di fondo” destinata a un lavoro mentale principalmente introspettivo, es. mind
wandering.
IMAGEN: progetto di ricerca multicentrico europeo finalizzato a migliorare la conoscenza dei processi mentali negli adolescenti, studiando in un campione di circa 2.000 soggetti, la reattività emozionale e i comportamenti a rischio.
Imaging genetics (genetica per immagini): metodica che abbina i dati forniti dalla genetica a quelli della fMRI allo scopo di definire gli effetti determinati dai polimorfismi e delle varianti genetiche sui network.
Large-scale brain networks: circuiti neurali la cui estensione ricopre molteplici regioni cerebrali. I più importanti ai fini delle funzioni cognitive superiori perciò detti core neurocognitive networks, sono il CEN (Central Executive Network), SN (Salience Network) e DMN (Default Mode Network).
Ricompensa (Reward): stimolo che rinforza positivamente un determinato comportamento di solito associato ad una esperienza di piacere. I reward
primari cioè innati, non appresi, sono ad es. il cibo, l’acqua, gli stimoli di natura sessuale, mentre quelli secondari sono soggetti ad apprendimento: ad
es. il denaro, le interazioni sociali e il tatto piacevole.
Risonanza Magnetica Funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI): metodica capace di identificare in vivo le aree cerebrali specificamente attivate nel corso di un compito (task) mirato a studiare una determinata funzione cerebrale.
Salience network (SN): network cerebrale preposto alla rilevazione e alla successiva elaborazione di stimoli significativi per l’individuo, provenienti sia
dall’ambiente esterno che da quello interno.
Sistema della ricompensa (Reward system): il sistema dopaminergico mesolimbico della ricompensa, con fulcro nel nucleus accumbens, rilascia in
modo fisiologico dopamina in occasione di esperienze piacevoli. I picchi di dopamina sono ottenibili anche con sostanze endogene prodotte dal cervello
stesso, che stimolano l’attività del sistema dopaminergico mesolimbico, quali i peptidi oppioidi e gli endocannabinoidi. Anche numerose sostanze d’abuso inducono il rilascio di dopamina da parte della via mesolimbica, con un risultato spesso più intenso e piacevole di quello prodotto naturalmente,
col rischio di sviluppare dipendenza.
Teoria dei grafi (Graph theory): teoria matematica che rappresenta i problemi mediante l’uso dei grafi, costituiti da un insieme di vertici (o nodi) e spigoli, le connessioni tra i vertici. È stata utilizzata per analizzare e studiare i network cerebrali, definiti anch’essi in termini di nodi e connessioni tra nodi.
Trattografia diffusionale (Diffusion tensor imaging, DTI): metodica di Risonanza Magnetica cerebrale capace di evidenziare e analizzare in vivo i fasci
di sostanza bianca, utilizzando le proprietà di diffusione delle molecole di acqua.
Corrispondenza
Ennio Del Giudice, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria
Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Via Sergio Pansini, 5, 80131 Napoli. Tel.: +0817464543. Fax: 0817463116. E-mail: [email protected]
265
Ottobre-Dicembre 2013 • Vol. 43 • N. 172 • P. 266
in ricordo
In ricordo di Lucia Piceni Sereni
Ci ha lasciato una grande persona! Che voglio ricordare prima di tutto per l’entusiasmo che ha trasmesso a generazioni di studenti di Medicina di Milano, per la sua passione in Laboratorio. Professionista curiosa, intelligente, che detestava parole inutili e sapeva andare sempre
con rapidità al cuore del problema. Ti guardava con lo sguardo acuto e anche la clemenza per le nostre risposte inadeguate come studenti.
La voglio ricordare anche per le cene superlative con cui accoglieva gli “amici di Fabio” e che ho avuto il piacere di apprezzare.
Ci sono persone che riescono ad essere “straordinarie” proprio nella normalità della vita quotidiana, nelle relazioni, nei gesti...
La prof.ssa Piceni Sereni è stato questo e molto di più!
Un abbraccio con emozioni e ricordi: un tesoro che solo il cuore può custodire!
Andrea Biondi
Gli amici di Prospettive in Pediatria sono affettuosamente vicini a Fabio Sereni per la perdita della compagna di una vita.
266