5. La progressiva inclusione nella cittadinanza romana

5. La progressiva inclusione nella cittadinanza romana
Il processo che portò all’estensione del diritto di cittadinanza e, quindi, all’inclusione di un numero
sempre più ampio di uomini liberi nel godimento dei diritti fondamentali secondo la legge romana non fu
lineare, né scontato perché anche a Roma, come ad Atene, si scontrava con
primordiali pregiudizi e privilegi. In origine, infatti, l’inclusione di un individuo nella comunità politica
era determinata dall’appartenenza alla comunità religiosa [L’opposizione tra cittadino e straniero] e dal
riconoscimento del diritto a partecipare al culto delle divinità tutelari della città.
Questo legame è evidente in un episodio riferito dallo storico romano Tito Livio nel contesto
delle guerre sannitiche (341-291 a.C.) per combattere le quali Roma fu costretta a ricorrere all’aiuto
dei popoli latini alleati che spesso erano in rivolta perché non vedevano riconosciuti i propri diritti.
A fronte della richiesta di cittadinanza [La cittadinanza e l’antica religione] presentata in senato
da Annio, capo della delegazione latina, la reazione del console Tito Manlio chiarisce quanto i legami
politici e i diritti conseguenti fossero definiti da una religione, quella antica, che dava alla
contrapposizione cittadino-straniero un carattere così rigido che lo straniero non poteva contrarre
matrimonio, commerciare e avere proprietà (diritti civili), né poteva votare e ricoprire cariche pubbliche
(diritti politici).
Il drastico rifiuto imposto dall’antica religione non favorì ovviamente la pace. Solo due anni dopo, però,
un altro console, Lucio Furio Camillo, repressa con le armi la ribellione dei popoli del Lazio, affrontò lo
stesso problema in termini più saggi e lungimiranti. Con un discorso [Ampliare la cittadinanza rende
grande lo stato] tenuto in senato, Furio Camillo chiariva definitivamente, per la storia di Roma, che la
stabilità e la potenza dello stato nascono dalla capacità di includere e assimilare i popoli sottomessi,
e non dalla loro distruzione.
Le parole di Furio Camillo sono inequivocabili, e la storia ha mostrato quanto siano spesso state vere:
la grandezza dello stato romano derivò da quella fondamentale scelta di civiltà, anche se Roma non
rinunciò a esercitare il suo dominio.
Ciò nonostante, i romani dovettero imparare dalla dura lezione dei fatti la saggezza espressa dal
discorso di Furio Camillo. Un momento cruciale e spartiacque fu la “guerra sociale” (91-88 a.C.),
quando gli alleati (socii) italici si ribellarono a Roma proprio perché non vedevano riconosciuto il proprio
diritto di cittadinanza.
Per venire a capo della rivolta, Roma dovette acconsentire alle richieste dei popoli italici e nel 90
a.C. la lex Iulia concesse lapiena cittadinanza ai socii rimasti fedeli e ai ribelli che deponevano le
armi.
Alla fine della guerra la cittadinanza romana era stata estesa a tutta la penisola a sud del Po. Nel 49
a.C., fu Cesare a estendere la piena cittadinanza romana a tutti gli abitanti della Gallia Transpadana.
Nel 42 a.C., con l’integrazione della provincia Cisalpina, la cittadinanza romana era conferita a
pressoché tutte le aree dell’attuale territorio italiano. Elio Aristide, nel 143 d.C., pronunciò un
significativo Elogio di Roma [L’elogio della cittadinanza romana] mostrando il consenso che suscitò
l’estensione della cittadinanza romana.