Studio Teologico “S. Paolo” – Catania La giustificazione per fede nel pensiero paolino (appunti per il V anno) 20 ottobre 2016 Dal tempo della Riforma, il tema della giustificazione per fede in Paolo è stato considerato “l’articolo per mezzo del quale la Chiesa regge e si cade”. L’ affermazione è oggi ridimensionata, anche se il dibattito continua, investendo la centralità della questione nel pensiero paolino. Se alcuni studiosi, tra cui Bultmann e Käsemann considerano il tema centrale in Paolo e non soltanto in rapporto al giudaismo, ma in relazione a tutti gli uomini peccatori e a come possano trovare la grazia di Dio, altri la ritengono una dottrina sussidiaria necessaria a neutralizzare le istanze del giudaismo stesso (Schweitzer, Wrede). Secondo altri,. Il tema della giustificazione s’inscrive in quello più ampio della grazia e rappresenta una delle modalità attraverso le quali essa si descrive. Gli studi recenti hanno ricollocato la nascita e lo sviluppo della questione della giustificazione per fede nel suo quadro culturale, sociale e religioso. La giustificazione per fede era delineata come una dottrina nata in antitesi al giudaismo e per segnare la sua fine. Lutero stesso poi stabilì un legame tra la chiesa del suo tempo con le sue regole ed i suoi atti e il giudaismo con le sue opere della legge: entrambe le istituzioni erano dichiarate abitate dal principio di merito, contro cui sembra si ergesse il principio della giustificazione per fede. Il mondo protestante e quello cattolico si concentrarono su questa differenza, perdendo di vista il carattere originario del tema della giustificazione. Gli studi furono – e lo sono a volte, ancora in parte – inficiati da un pregiudizio che si tendeva a difendere: la sola fides o la necessità delle opere per la salvezza. E. P. Sanders ebbe il merito di riproporre la questione legandola alla provenienza giudaica di Paolo ed al suo essere fariseo. A lui si deve la formula “nomismo di alleanza”, secondo cui la Torah o Legge e le sue opere si situano in un contesto relazionale che è quello definito dall’alleanza. Le opere non sono, cioè, meritorie, ma permettono all’ebreo di rimanere entro il quadro definito dall’alleanza. Bisogna però notare, contrariamente a Sanders, che le opere della legge sono espressioni dell’essere nell’alleanza, più che mezzi per rimanervi. In questo gioca l’interpretazione del pensiero paolino e, insieme, del pensiero ebraico circa la Torah le sue opere come si è espresso al tempo di Paolo. La comunità di Qumran ravvisa come opere della legge quelle riguardanti il tempio, i sacrifici e la purità, il sacerdozio, ambiti che avrebbero assicurato l’identità della comunità 1 distinguendola dal resto di Israele nel momento in cui la comunità stessa avesse osservato le regole (opere) ad essi inerenti. Non si comprende se ciò fosse richiesto per tutto Israele, ma lo si può immaginare. Osservare le opere della legge è pertanto mantenere l’identità e il privilegio derivante dall’alleanza, distinguendosi dal resto, che, in tal modo, risulta logicamente fuori dall’alleanza stessa. A parere di J. D. G. Dunn la giustificazione in Paolo nasce come antitesi ai giudeocristiani che intendevano imporre ai gentili convertiti al cristianesimo le pratiche della religione ebraica, le opere della legge appunto, non perché esse fossero ritenute meritorie, ma perché esse riportavano i gentili all’interno della Torah e, dunque, li situavano dentro l’alleanza, permettendo in tal modo l’assicurazione dell’identità di Israele quale unico popolo di Dio e dei privilegi ad esso legati. Ciò, a parere di Dunn, appare chiaro dalle lettere di Rm e Gal, come pure da Fil 3, passo in cui Paolo adduce se stesso come esempio di uno zelo tutto farisaico nel sostenere la posizione di privilegio di Israele senza estenderla ai gentili rivelatosi poi errato, al punto da fargli esclamare: “ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo” (Fil 3,7). Dunn, pertanto, interpreta i lessemi “giustizia di Dio” e “opere della legge” alla luce di questo assunto, in certi casi forzando l’esegesi di alcuni brani. A lui si riconosce tuttavia il merito di porre in positivo la questione della giustificazione, contrariamente a Sanders che l’affronta in termini negativi come messa in discussione dell’elezione e dell’identità di popolo: a parere di Dunn la giustificazione per fede è il tentativo da parte di Paolo di spiegare come la promessa di Abramo sia passata ai gentili, non rimanendo chiusa nell’ambito stretto di Israele. A questo proposito, gli autori legano il sorgere del tema della giustificazione in Paolo al suo passato di persecutore e alla sua conversione. Negli eventi della sua vita ci si chiede quale ruolo abbiano giocato i gruppi di giudeo – cristiani presenti al suo tempo, cioè se Paolo sia stato influenzato più dal giudeocristianesimo di lingua aramaica o da quello di lingua greca. In Atti, la sua conversione segue al martirio di Stefano, esponente di spicco del giudeocristianesimo di lingua greca. Da At 22,3 sappiamo che frequentò a Gerusalemme la scuola del grande Gamaliele I, principale maestro farisaico del suo tempo: ed infatti, Paolo appartenne alla corrente farisaica, come compare in Atti e come egli stesso ammette nelle sue lettere 1. In 2Cor 11,22, nella sua apologia e nel suo folle vanto di fronte agli oppositori, ci fornisce la sua carta d’identità: è israelità, quindi non è un pagano, ed è ebreo, parla cioè la lingua sacra e l’aramaico e, pur nella diaspora, è legatissimo alla madrepatria. È discendente di Abramo giacché appartiene alla tribù famosa di Beniamino, essendo i suoi genitori per nascita appartenenti al popolo d’Israele e stretti osservanti della legge, 1 At 22,3; 23,6; 26,4; Fil 3,4-6; Rm 9,3b-5a; 11,1. 2 come si deduce dalla circoncisione di Paolo stesso avvenuta puntualmente l’ottavo giorno dalla sua nascita (Fil 3,4-6b). Della sua formazione farisaica e del suo zelo per la legge (cosa comune in Palestina dopo l’età maccabaica: vd. su questo l’analisi di Dunn) abbiamo notizia in Gal 1,13: si desume con certezza che il luogo e l’ambiente di formazione farisaica di Paolo furono le sinagoghe gerosolimitane, non certo le scuole tarsesi. Eppure non si può fare di Paolo un palestinese alla stregua di Giacomo: usa, infatti, il greco con molta padronanza e si muove molto a suo agio nella versione greca (la LXX) della Bibbia ebraica. Lo stile semplice, lontano dall’atticismo, delle sue lettere, è accompagnato da una serie di espedienti retorici che coniugano concetti giudaici e forme espressive greche in maniera a dir poco unica ed efficace. Questa tecnica letteraria Paolo l’apprese, secondo alcuni studiosi, non dal giudaismo palestinese e neppure da quello ellenistico, ma da un giudaismo ellenofono presente a Gerusalemme dai tempi dell’ellenizzazione della città. È nelle sinagoghe di questi ebrei che parlano e leggono in greco 2 che Paolo apprese le nozioni fondamentali di una retorica greco–giudaica 3 differente sia dalle normali scuole greche sia da quelle ebraiche, posta a sevizio della predicazione sinagogale, come pure alcuni concetti che costituiranno gli asserti primi e fondamentali del nascente cristianesimo e che Paolo farà suoi 4. Sono inoltre i membri di queste sinagoghe farisaiche ellenofone a fornire, accanto alla rigorosa osservanza della legge, una serie di istruzioni concrete sull’adempimento dei comandamenti per i pellegrini della diaspora, consci che molte norme non erano né valide né praticabili fuori dalla terra d’Israele: questo dovette far nascere nel Paolo cristiano il suo senso di libertà dinanzi alla legge nella sua missione ai gentili, pur mantenendo la santità della legge stessa, oltre a renderlo aperto a tutti, pronto a farsi tutto a tutti (1Cor9). Da questi ambienti sorsero i giudeocristiani ellenofoni 5 di Stefano e di Filippo, contro i quali, proprio a Gerusalemme, si riversò tutta l’ira del giovane Saulo (At 7,58: neaniéav) 6, pieno di zelo per la legge. 2 Si tratta delle sinagoghe di cui si parla in At 6,9, nate dai liberti della diaspora grecofona ritornati in patria, a Geusalemme e lì stabiliti da lungo tempo: romani, cirenei, alessandrini, cilici, giudei della provincia d’Asia. 3 Alla formazione sinagogale ellenofona alludono i termini sofoév (hākām), grammateuév (sôfēr), suzhththév (daršān/dôrēš) di 1Cor 1,20, come pure la formula di saluto delle sue lettere, il midrash di Abramo in Rm 4 e Gal 3 e l’elenco potrebbe continuare. 4 Così ad es. le categorie giuridiche con le quali si comprende la natura della morte di Gesù e si esprime l’opera di riconciliazione. Su questo M. Hengel, Il Paolo, cit., 129: «L’uso linguistico giuridico di Paolo, che si orienta secondo la ‘giustificazione del peccatore senza le opere della legge’, già per questo non dovrebbe venir considerato, come oggi invece di nuovo piace fare, quale teologumeno tardo, secondario, del primo teologo cristiano, poiché proprio le forme linguistiche e le categorie di pensiero connesse risalgono al tempo dei suoi studi nella casa di studio farisaica a Gerusalemme e, come indicano Gal 1-3 e Fil 3, furono determinanti per la svolta della sua vita. Essi l’hanno accompagnato per tutta la vita». 5 M. HENGEL, L’ellenizzazione della Giudea nel I secolo d. C., Paideia, Brescia 1993, 56: «È comunque probabile che la traduzione in greco di parti della tradizione su Gesù come pure la creazione di uno specifico lessico teologico propriamente cristiano, con termini quali a\poéstolov, eu\aggeélion, e\kklhsiéa, caériv, caérisma, o| ui|oèv tou% a\nqrwépou ecc., abbiano avuto inizio a Gerusalemme già assai presto, forse come conseguenza immediata dell’attività di Gesù, che attirò anche giudei della diaspora, e che non debbano aver avuto luogo alcune decine di anni dopo al di 3 Hengel cerca di superare la tesi di F. CH. Baur, Die Christuspartei in der korinthischen Gemeinde, der Gegensatz des petrinischen und paulinischen Christentums in der ältesten Kirche, der Apostel Petrus in Rom, in Tübinger Zeitschrift für Theologie 4 (1831) 61-206, che riprende la distinzione, tipicamente hegeliana, tra giudeocristianesimo palestinese, capeggiato da Giacomo (tesi), e cristianesimo ellenistico (antitesi), capeggiato da Paolo, al centro dei quali sta Pietro (sintesi). In realtà, la derivazione di Paolo dal giudeocristianesimo ellenistioco non è assoluta, come riconosce Dunn . Lo stesso Hengel riconosce la formazione farisaica di Paolo quale alveo della formulazione del suo pensiero, chiaramente sviluppato ed ampliato in seguito alla luce della fede nel Cristo. Il problema dell’identità cristiana e giudaica si pose con forza al concilio di Gerusalemme. L’arrivo ad Antiochia di alcuni cristiani circoncisi provenienti dalla Giudea solleva infine il problema dell’identità cristiana. A parere di costoro, infatti, i gentili, se volevano davvero esser salvi, dovevano farsi circoncidere. Circoncisione e salvezza sono intenzionalmente giustrapposti : ciò che sta a cuore dei farisei cristiani è, infatti, l’incorporazione dei pagani al popolo d’Israele attraverso la berit milah, il che sollevava loro da qualsiasi scrupolo rituale e li rassicurava dal punto di vista identitario. Paolo e Barnaba oppongono loro resistenza. La questione si trasferisce da Antiochia a Gerusalemme, la “chiesa madre”. Qui i circoncisi incontrano l’adesione di alcuni farisei credenti, i quali affermano la necessità della circoncisione e dell’osservanza della Legge di Mosè. In seno all’assemblea è Pietro a prendere la parola per primo , rimettendo in campo la conversione di Cornelio, il timorato di Dio per eccellenza , pur sempre un pagano, come è descritto dallo stesso Pietro (15,7). Implicitamente, Pietro sta di nuovo spiegando e soprattutto difendendo la sua condotta di fronte ai cristiani circoncisi. In ciò trova il sostegno di Paolo e Barnaba, che narrano della loro missione presso i pagani. Per Pietro, Paolo e Barnaba i gentili hanno già ottenuto la salvezza. Ma la questione è altra e di un’importanza capitale: bisogna che i gentili che hanno creduto al vangelo siano incorporati al popolo ebraico? Se la risposta è sì, Barnaba si è pertanto ingannato ; se è no, l’identità ebraica, segnata dalla circoncisione, viene meno. È Giacomo, presentato come capo della Chiesa di Gerusalemme (l’ “io” di 15,19), a dirimere la questione: partendo dalla Scrittura, con una citazione di Am 9,11-12, identifica la comunità dei credenti in Gesù con la tenda di Davide rialzata. L’ingresso delle nazioni, nella profezia di Amos, è l’effetto della ricostituzione della tenda davidica fuori della Palestina, ad Antiochia o altrove. In altri termini: le radici della comunità “giudeocristiana–ellenistica” o, più esattamente, giudeocristiana grecofona, presso la quale il messaggio portato da Gesù venne formulato per la prima volta in lingua greca, vanno chiaramente ricercate in Gerusalemme stessa ove, conseguentemente, deve anche aver avuto luogo una prima elaborazione linguistica del kerygma e della cristologia propri della comunità in questione». 6 ID, Il Paolo precristiano, Paideia, Brescia 1992, 60: «Sha’ul poteva avere allora da venticinque a trentacinque anni; non era più un semplice talmid, bensì già aveva, presumibilmente come maestro, una certa responsabilità nell’ambito delle sinagoghe grecofone di Gerusalemme, quando fu strappato ad una carriera piena di speranze ed ambizioni e la sua vita assunse una direzione completamente nuova». 4 stessa. Per cui, a parere di Giacomo, i gentili cristiani non devono essere circoncisi, ma neppure assimilati agli ebrei per il fatto di condividere con questi ultimi la stessa fede in Gesù . Giacomo, difatti, rivolge così un implicito rimprovero a Pietro circa la sua condotta . Alla fine, tra la linea abramitica, che sarà quella seguita da Paolo, e la linea mosaica, propugnata dai cristiani circoncisi, Giacomo opta per un’altra possibilità: il riferimento a Noè e alle leggi noachidi, come le disposizioni da lui stesso ordinate ed il decreto conciliare inviato alle Chiese testimoniano (vv. 1929) . Le leggi noachidi pongono in tal modo, all’interno dello stesso ambiente cristiano, delle distinzioni identitarie tra gentili ed ebrei: i primi, attraverso Noè, sono collocati sul terreno della Torah, senza però farli entrare nell’alleanza di Mosè, che è prerogativa degli ebrei. Oltretutto, la prospettiva noachide non proibisce la circoncisione, che rimane una possibilità aperta: lo illustra chiaramente il caso di Timoteo (16, 1-3). Paolo situa l’origine della giustificazione per fede in Abramo, come si nota in Gal 3,6-14 e Rm 4. La vicenda di Abramo è poi interpretata attraverso l’oracolo profetico di Ab 2,4 (privato degli aggettivi “sua fede” in TM e “mia fede” in LXX) nel midrash di Gal, la cui formulazione è uguale a quella di “computare la giustizia” di Gen 15,6. Il computo della giustizia ad Abramo avviene nella fede, per il suo atto di fede, prima che egli adempia ogni opera della legge, come la circoncisione in Gen 17. Se la legge è buona, come buono è il comandamento (cfr Rm 7,12), tuttavia essa non si fonda sulla fede, ma sulle opere, intese come mezzo e segno del rimanere nell’alleanza. Per Paolo, l’osservanza delle opere non è sufficiente per ritenere effettuata la giustificazione dell’uomo. Come per Abramo, occorre la fede. Questa è fede in Cristo, ha per oggetto Cristo, il quale è divenuto compimento della legge (Rm 10,4) nel senso espresso in Gal attraverso il ricorso a Dt 27,26 e Lv 18,5: la maledizione minacciata a coloro che non praticano le opere della legge si è pienamente adempiuta in Cristo. La legge con le sue opere non ha più bisogno di adempimento. La morte di Gesù è lo spazio in cui la legge si compie per Israele. Da Israele la giustificazione in Cristo si riversa sui gentili. Paolo, come nella sua missione, anche nella formulazione teologica non perde mai di vista il fatto che nell’ordine della salvezza in primo luogo viene la giustificazione di Israele, da cui essa poi discende ai gentili. Il retroterra paolino per comprendere la giustificazione per fede è, come notano i più tra gli studiosi, il concetto di zedaqah ebraica, la quale intende il corretto rapporto tra l’ebreo e Dio nel contesto dell’alleanza, il riconoscimento di Dio come instauratore e iniziatore dell’alleanza, la confessione della sua fedeltà alle promesse e il sapersi investito da quest’azione graziosa (ḥesed), cioè di amore, oggetto delle promesse di Dio, coinvolto in una relazione /alleanza che si rinnova 5 nonostante le infedeltà personali e comunitarie. La giustizia e la giustificazione non seguono, pertanto, al peccato, ma all’alleanza. Per i sapienti la zedaqah insieme al mishpat assicura l’ordine della creazione e quello sociale, promanando dalla santità (qedushah) di Dio. In Paolo è la fede in Cristo che permette l’avverarsi dello stato di grazia, non le opere della legge. In Paolo la giustificazione è compresa in alcuni passi come effetto della riconciliazione: 2Cor 5,11-6,10 Il foébov tou% Kuriéou si lega in Paolo alla coscienza del suo ministero, come ben mostra la particella ou&n che lega la pericope a 4,2: Paolo riprende il discorso sul suo ministero, difendendolo dagli oppositori, subito dopo la piéstiv soteriologica–escatologica sulla resurrezione, alla quale l’ ou&n si collega, ma non principalmente. Non si ha, infatti, una corrispondenza con il bh%ma tou% Cristou% di 5,10, il che sarebbe una proiezione nostra, quanto invece con il v. 7 del cap. 4, dove Paolo è ben cosciente di avere il tesoro del ministero in vasi di creta (cioè lui medesimo), perché l’iperbole della potenza del ministero sia fatta risalire a Dio, non a lui. Il richiamo in 5,14 dell’ a\gaéph, unito al foébov mediante la corrispondenza delle particelle ou&n…gaèr, dimostra come il foébov in Paolo non sia parenetico, ma si tratti di una risposta all’amore di Dio 7. Di questo foébov Paolo ha una conoscenza esperienziale, derivata dal suo manifestarsi in lui: ei\doétev indica appunto tale tipo di conoscenza 8. In virtù di ciò, Paolo si sforza, cerca di convincere 9 gli uomini tutti 10, non solo i corinti, riguardo sia la legittimità del suo ministero sia la verità del suo vangelo sia la necessità di accogliere il kairoév della riconciliazione con Dio (6,2). Agli uomini, perché dinanzi a Dio egli è ormai “manifestato” (ppf.); ma nutre la speranza di essere manifestato pure ai corinti, perché essi lo conoscano interamente, non solo in 7 Così H. BALZ, foébov, in H. Balz – G. Schneider (a cura di), Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento (DENT), I, Paideia, Brescia 1995, 1817: «Egli stesso (Paolo) però, nel suo servizio apostolico, è influenzato dal foébov tou% Kuriéou (2Cor 5,11), ossia è preso e al tempo stesso incoraggiato ad avere fiducia […]. Il loro (dei credenti) timore di Dio è però una risposta non al potere ma all’amore di Dio». 8 Il verbo si ripete in 5,16 a proposito della non–conoscenza di alcuno secondo la carne e si differenzia da gignwéskw, giacché quest’ultimo indica una conoscenza che il soggetto acquisisce dalla sua parte attraverso un atto unitivo integrale. Questo atto unitivo di conoscenza nei confronti di Cristo in Paolo è però sempre preceduto e, dunque, determinato dal fatto di essere lui conosciuto da Cristo e di conoscere nella maniera in cui è conosciuto: così in 1Cor 13,12. Il verbo oi!da indica sì una conoscenza unitiva ed esperienziale, ma motivata più dall’esternazione formale (ei!dov) dell’oggetto conosciuto. 9 Peiéqomen è presente di conato. 6 parte (vd. 1,12-14), così che il vanto reciproco venga messo dinanzi a quegli oppositori che si vantano nel volto e non nel cuore. Il proswép§ di 5,12 è in parallelo alla conoscenza secondo la carne degli uomini e di Cristo che gli oppositori hanno (5,16) e si contrappone al proswép§ dell’Apostolo e dei suoi collaboratori che lasciano trasparire la gloria di Dio (vd. 3,18) 11. Gli oppositori si caratterizzano12 come coloro che mercanteggiano la parola di Dio (2,17), falsificano la medesima (4,2), predicano se stessi (4,5: in una frase al negativo), si raccomandano da sé (10,12), predicano un Gesù, un vangelo, uno spirito diverso (11,4-6), sono ministri di satana (11,13-15), sfruttano i corinti (11,19-20), si vantano di essere ebrei (11,22-23). Ad essi fa da contrappeso Paolo nella sua a\sqeneiéa, della quale si vanta in 11,30 e in 12,5-6.9-10. Un motivo, quello della debolezza, che ritorna applicato alla morte di Cristo in 13,3-5, quest’ultimo da legare a 5,21 e a 8,9, il quale ultimo, a sua volta, richiama 5,14. Paolo, infatti, è debole in Cristo, ma la sua debolezza è perché i corinti siano forti (13,9): per questo si è abbassato (tapeinw%n), perché i corinti fossero innalzati (11,7). E ciò non è per lui a|martiéa. La debolezza paolina non è un motivo psicologico né un segno di mediocrità accettata come indice di una condizione di peccato imposta alla natura umana, dalla quale è impossibile uscire, ma che Dio non tiene in considerazione, operando prodigi attraverso essa: questa interpretazione, assai comune, nasconde, dietro l’apparenza di una verità rassicurante, una certa scusante del peccato stesso e della connivenza con esso. Al contrario la a\sqeneiéa paolina è l’essere tapeiénov, cioè la chiara consapevolezza di non essere nulla, di non servire a nulla, perché è Dio che opera tutto. L’essere tapeiénov è secondo Cristo (cfr. Fil 2) e non secondo la carne. Questo può far sembrare che Paolo sia fuori di sé: e lo è veramente per Dio, dal quale la sua follia è determinata e per il quale Paolo è folle 13. Ma per i corinti, che non sopportano la sua a\frosuénh 10 In a!nqrwépouv manca l’articolo. La gloria della nuova alleanza di 3,6 è fatta rifulgere dallo pneu%ma Kuriéou che ricorre qui e in: 1,22: toén a\rrabw%na tou% pneuématov e\n tai%v kardiéaiv h\mw%n 4,13: toé autoé pneu%ma thév piéstewv 5,5: toén a\rrabw%na tou% pneuématov. Per cui si ha che lo Spirito della fede dato come pegno ai corinti e a Paolo nel loro cuore permette la confessione che dà la risurrezione (“come dallo Spirito del Signore” di 3,18). Il motivo della risurrezione è soteriologicopneumatologico e si inserisce in un contesto escatologico, come un attento esame della 2° piéstiv (4,13—5,10) rivela. Le tre suddette dimensioni teologiche (soteriologia, escatologia e pneumatologia) rientrano pure nel brano in esame. Il motivo battesimale–pasquale è sottinteso: d’altronde Paolo non ne può parlare perché, come appare da 1Cor 1,13, questo era il motivo di divisione tra i corinti, tanto che Paolo stesso ringrazia di non aver battezzato se non qualcuno. 12 Gli oppositori possono essere descritti solo attraverso il procedimento del “mirror reading”, non avendo nessuna loro autopresentazione, ma solo la descrizione faziosa e negativamente enfatica di Paolo: così R. PENNA, La presenza degli avversari di Paolo in 2Cor 10—13: esame letterario, in L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, 301. Degli avversari tratteremo diffusamente più avanti. 13 Illuminante, in tal senso, il passo di Mc 3,21, dove il verbo e\xiéstanai è riferito a Gesù dai suoi parenti. V. P. FURNISH, II Corinthians, AB, New York, 1984, 308 scrive: «Used intransitively, as here, the verb existanai means “to lose one’s mind”, “to be beside oneself”, etc. Paul employs this verb nowhere else, but in Mark 3:21 it is used in the 11 7 (11,1), Paolo è assennato, cioè è nella piena consapevolezza che quel modo folle di esercitare il ministero, lavorando con le sue mani e senza lettere di raccomandazione, è secondo Cristo. Come già detto, il foébov tou% Kuriéou rimanda all’ a\gaéph, che, come iniziativa divina d’amore, conduce il ministero dell’apostolo 14. Quest’ultimo opera una “distinzione” (kriénantav) 15 tra il kataè saérka e l’ ou di ou\deéna (specificazione del tou%to di kriénw) in base ad un motivo fondamentale espresso da Paolo ai vv. 14-15 e che Paolo mutua dalla tradizione scritturistica giudaica 16: il fatto che uno solo è morto per tutti 17. L’oggettività spaziale ed esistenziale che la morte apre richiama quell’oggettività che in Rm 5,12-19 Adamo inaugura per poi lasciare il posto al dikaiéwma e\noèv, che produce la dikaiéwsiv zwh%v 18. Il vantaggio della morte di Cristo per tutti si risolve in un orientamento della morte di tutti verso colui che è morto e same way with reference to allegation that Jesus was “beside himself” (RSV), that is, “possessed” (see v. 22). See also, e.g., LXX Isa 28:7, where it means “to be out of one’s head because of strong drink”». 14 A proposito del fatto se il genitivo “di Cristo” debba considerarsi soggettivo oppure oggettivo o entrambi le cose V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 309, afferma: «The evidence for the subjective (alone) is decisive: (a) Paul nowhere else writes about one’s “love for Christ”, and rarely about one’s “love for God” (then using only the verb, Rom 8:28; 1Cor 8:3; cf. 1Cor 2:9, quoting Isa; 16:22, quoting a liturgical formulation [with philein, not agapan]). (b) God’s love for his people is an absolutely fundamental Pauline theme (e.g., Rom 5:5; 2Cor 13:11.13), and this is seen to have been established decisively through Christ (Rom 8:39), above all through his death (Rom 5:8)». Condivido pienamente la sua posizione. Più avanti, sempre nella stessa pagina, il medesimo autore, a proposito del verbo suneécei, fa notare: «The verb used here (synechein) has a wide range of meanings […]. In Phil 1:23 (the only other Pauline occurrence) it describes the apostle’s situation of being “hard pressed” (RSV; BAG s. v. 5) to choose between life and death – that is, constrained to make a difficult choice […]. Spicq (who himself translates the verb here as “étreint” [1959:127], “embraces” [not “impels”, as in the English version of his book]), has noted that synechein commonly means “oblige” in the papyri, and soon became “the usual word for stating the executory force of a judicial decision” (1965:192-93; cf. Collange, 253) […]. Like Paul’s own verb, it has a certain juridical connotation». Il ministero della riconciliazione, attuato attraverso la morte di Cristo, si situa in un contesto giuridico. Sotto questa prospettiva è da intendersi lo stesso sacrificio di Cristo e ancora la missione apostolica dell’annuncio del Vangelo, che Paolo in 1Cor 9,16 definisce come una “necessità”, un destino impostogli, al quale non può sottrarsi. 15 Sempre V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 310 scive:«Like synechein, the verb krinein often has a juridical connotation: to come to a firm and effective decision about something or someone; see BAG s. v. 4a. Spicq (1959: 13536) provides istances where it means specifically coming to a religious judgement (“conviction”, Héring, 42 n.20) about something». 16 Per tradizione scritturistica giudaica intendo qui sia i libri dell’Antico Testamento sia gli altri scritti giudaici anteriori o contemporanei a Paolo. Non si può, infatti, chiarire o spiegare il pensiero paolino facendo ricorso a fonti posteriori: si tratta, per certo, di un grave errore metodologico. Al riguardo vd. J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani. Commentario critico–teologico, Piemme, Casale Monferrato 1999, 492. 17 V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 310, afferma: «The preposition hyper (translated here simply for) cannot in and of itself bear the weight of any particular theory of the atonement. It may mean “for the sake [or: benefit] of” (so Binder 1973:306), or “instead of”, thus overlapping in meaning with anti, as in Philm 13»; ancora G. BARBAGLIO, Le Lettere, cit., 648, nota 118 pensa che «l’espressione ‘per tutti’ non sembra equivalere alla formula ‘al posto di tutti’ (=hypér scambiabile con antí), come interpreta R. Bultmann nel suo commento»; ribadisce la stessa idea in ID., La teologia, cit., 268. Ritengo che il senso della preposizione sia “a vantaggio di tutti”, significato che è peraltro giustificato da 5,21: ma lo studio della preposizione con le conseguenze che ne derivano per la comprensione della natura della morte di Cristo sarà affrontato più avanti. Lo stesso afferma J. MURPHY-O’CONNOR, La teologia della seconda lettera ai Corinti, Paideia, Brescia 1993, 74: «Le parole apparentemente innocue ‘per tutti’ sono state l’elemento chiave per un’intera pletora di teorie della redenzione […]. Cercare sfumature non serve; tutto quel che si può spigolare da una serie significativa di affermazioni (1Tess. 5,10; 1Cor 15,3; Gal 2,20; Rm 5,8; 14,15) è che la morte di Cristo tornava a vantaggio dell’umanità. Soltanto una simile espressione generica rispecchia fedelmente la situazione della soteriologia cristiana nella metà del primo secolo d. C.». 18 Così pure in 1Cor 15,22.45-49, dove si ha già l’idea non di una sostituzione, ma di un emergenza in Cristo dell’uomo spirituale nell’uomo animale. 8 risorto per tutti: se per Cristo è usata l’espressione u\peér paéntwn, per i viventi si impiega il dativo di appartenenza, ad indicare che la morte vantaggiosa, nella quale Cristo ha accolto tutti, ha aperto lo spazio di quella che sarà in seguito la riconciliazione e la giustificazione 19. Paolo qui completa, in maniera concisa e lapidaria, quanto affermato nella 2° piéstiv (4,13—5,10), dove è la vita di Gesù che deve manifestarsi in quanti portano nel loro corpo la neékrwsin tou% \Ihsou%, cioè la manifestazione visibile di quella che è la consegna alla morte attraverso Gesù, perché la vita di Gesù sia manifestata anche nella carne mortale 20. Il mhkeéti, unito al presente zw%sin, preceduto dal participio presente zw%ntev, contrapposto quest’ultimo all’aoristo a\peéqanen (presente 2 volte, al v. 14 e al v. 15) e al participio apoqanoénti del v. 15 21, indica la definitività attuale di questa condizione dei viventi e risale alla soteriologia escatologica di 4,7—5,10: le conseguenze (w£ste: v. 16) prodotte da ciò sono espresse in 5,16 proprio con l’apertura dell’ a\poè tou% nu%n e si condensano nella conoscenza di alcuno non secondo la carne. L’ a\poè tou% nu%n indica una novità, l’inizio di una nuova fase già al presente 22: è legato al nu%n ou|keéti successivo e prepara la catena che si estende da 5,18 a 6,2 di i\douè …i\douè nu%n …i\douè nu%n di sapore profetico, che annuncia il compimento di quanto annunciato. L’espressione kataè saérka non è riferita a ou\deéna, ma al verbo oi!damen: Paolo non intende qui negare la dimensione umana di Gesù 23, la sua conoscenza di persona avuta da altri 24, né separa il Signore della gloria da quel Gesù storico, da lui ritenuto un nemico da perseguitare nei suoi seguaci prima della conversione. Ciò che muta è il modo della conoscenza, quello secondo la carne, che gli oppositori vantano 25, ma che Paolo a\poè tou% nu%n non ha più, conoscendo ormai in conseguenza della mutata condizione stabilita dalla morte di Cristo 26. Alla conoscenza non secondo la carne segue una seconda derivazione dalla morte di Cristo per tutti: la nuova creazione. 19 Vd. ancora Rm 14,8-9; Gal 2,19-20; 1Ts 5,10. Illuminante in tal senso risulta Lc 20,38: «Dio non è dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui (au\t§%: dat. di appartenenza)». 20 Si noti l’idea dello scambio morte–vita in Gesù e per mezzo di lui, del quale parleremo più avanti. 21 L’aoristo indica un’azione compiuta, cioè che ha raggiunto la sua pienezza. 22 Si distacca dall’escatologia apocalittica, protesa al futuro, grazie al motivo soteriologico dell’u|peèr, sottolineato nella sua presenzialità e contemporaneità dal mhkeéti zw%sin. 23 Essa è riaffermata da alcune espressioni semanticamente affini della stessa lettera, come ad es. 10,3: «nella carne (e\n sarkiè) infatti camminando, non secondo la carne (kataè saérka) combattiamo»; 4,11: «la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale». Si ha ancora Rm 1,3, dove Cristo figlio di Dio è detto genomeénou e\k speérmatov Dauièd kataè saérka; e l’inno cristologico di 1Tm 3,16:«si è manifestato nella carne», anche se per il pronome relativo si accettasse la lezione del neutro, riferito a “mistero”, il quale ultimo sarebbe quello rivelato in 2Cor 4,11, dove traspare appunto nella vita stessa dell’Apostolo. In tal caso, fa bene l’autore della 1Tm a porre Paolo maestro ed apostolo quale exemplum anzitutto per se stesso, che dell’opera paolina è il prosecutore. 24 Potrebbe indicare ciò l’espressione: «se anche abbiamo conosciuto secondo la carne Cristo» (v. 16). 25 Così in 1,12 dove si ha e\n sofiéa sarkik+%, che ricorda il sofoié kataè saérka di 1Cor 1,26. 26 Di questa mutata condizione si parla in Gal 3,28: «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Lo stesso tema è ripreso in 1Cor 12,13; Rm 10,12; nella tradizione paolina di Col 3,11. 9 La parola ktiésiv rimanda a Iahvé creatore, non solo dell’ordine cosmico, ma anche della storia 27: con le stesse parole si dice che Dio fa le cose del mondo (il creato) come il popolo. In Sir 24 la Sapienza, parlando della sua origine, afferma che Dio e!ktiseén me; il DtIs, che Paolo cita qui, parla per primo della creazione per mezzo della parola e come nuova creazione, oltre a vedere il ritorno dall’esilio come nuovo esodo, superiore al primo 28. Quest’ultimo si attua in una fase escatologica, in quanto Is 43,18, citato da Paolo, rimanda a Is 65,17. La possibilità di questo compimento escatologico è data da Dio stesso, che abbraccia tutta la creazione e la storia affermando di se stesso in 44,6 e 48,12: «io sono il primo e l’ultimo e all’infuori di me non vi è altro Dio» 29. Testi rabbinici affermano che la creazione è malata e che si ricostituirà nella sua sanità alla venuta del Messia; inoltre, cosa notevole per il nostro brano, affermano ancora che ciò che rende l’uomo simile a Dio è la conoscenza: ed infatti, la conoscenza non secondo la carne in Paolo deriva e si colloca nella nuova creazione, espressione concreta della nuova alleanza, inaugurata dalla morte di Cristo per tutti. L’uomo, presso i rabbini, è nuova creazione quando si rinnova il suo rapporto con Dio, non solo attraverso la conversione e la circoncisione, ma anche attraverso il pentimento ed il perdono 30. Paolo riprende il concetto della creazione attraverso la parola in 2Cor 4,6 (divisione luce – tenebre). Dio la attua in Cristo, e precisamente nella sua morte, che, a differenza della circoncisione, è il fondamento della nuova creazione in Gal 6,15. La nuova creazione è apertura, inizio profetico delle cose nuove, cioè del ministero della riconciliazione, e morte e passaggio delle cose antiche 31, cioè il modo delle carne 32. Tutto questo 33, cioè la conoscenza non secondo la carne e la nuova creazione, come anche l’affermazione finale che “le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”, viene da Dio 27 W. FOERSTER, ktiézw, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), Grande lessico del Nuovo Testamento (GLNT), V, Paideia, Brescia 1969, 1263ss, che seguiamo nella trattazione di questa voce. 28 ibid., 1266 cita i seguenti passi: 41,4; 48,13; 44,26; 45,12. Lo stesso V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 314-315: «In Paul’s letters ktisis virtually always refers to the creation in its entirety […]. For the concept, Paul is indebted to apocalyptic Judaism…; see especially Stuhlmacher (1967), who also notes the significance of the idea in Hellenistic Judaism». 29 ibid., 1288 nota che anche l’amore per il prossimo è fondato su Dio creatore e che la Torah costituisce il senso obiettivo della creazione e della storia del mondo, specie quando rientra nell’orbita della sofiéa (Sir 24). 30 ibid., 1287-1295. Il ricorso ai testi rabbinici qui è giustificato in quanto il pensiero da loro espresso ha radici lontane che probabilmente giungono sino al tempo di Paolo. 31 V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 315: «Georgi (1964:257; cf. 138-39, 167ff.) has argued that this phrase may have been a slogan of Paul’s opponents, for whom (according to Georgi’s hypothesis) religious tradition played an important role. It is probable, however, that the apostle’s use of the phrase derives from the general apocalyptic tradition and designates the totality of creation […]. See LXX Isa 43:18-19, where ta archaia is used in synonymous parallelism with ta prota, “the first things” (cf. Rev 21:4) and is contrasted, as it is here, with kaina, “new things”». 32 ibid., 316: «The apocalyptic tradition to which Paul is clearly indebted in this passage conceives of a total replacement of the old by the new, not just a rehabilitation of the old». 33 ibid., 316: «This verse is connected with what precedes it by the conjunction de, left untranslated here». 10 “che ha riconciliato noi con lui per mezzo di Cristo e ha dato a noi il ministero della riconciliazione”. Siamo al cuore del discorso. Paolo sta legittimando il suo ministero di fronte ai corinti, nel tentativo di rispondere ai suoi oppositori e alle accuse mossegli: il punto in questione è l’apice della sua difesa condotta secondo ben determinate linee teologiche 34. Notevoli difficoltà sorgono qui nel definire lo stesso sviluppo letterario del tema. Seguendo l’esegesi di Käsemann, che vede nei vv. 19-21 un frammento di un inno pre-paolino, gli esegeti individuano proprio in questi vv. l’inizio di una citazione, letterale o adattata da Paolo, introdotta da w|v o£ti al v. 19; il problema è allora rappresentato dal v. 18, del quale ci si chiede se appartenga alla citazione o se sia stato scritto da Paolo e, in quest’ultimo caso, se veramente apra una citazione o il v. 19 debba considerarsi una spiegazione paolina, frammista ad una formula tradizionale, del v. precedente 35. Si nota uno stretto legame tra il v. 18a ed il v. 19c: la presenza in questi vv. dei participi aoristi permette di individuare l’inno pre-paolino nel v. 19ab 36. Il fatto che l’ultimo participio aoristo, quello del v. 19c (qeémenov), sia al nominativo, non indica una semplice coordinazione tematica e letterale: il caso nominativo è dato dall’attrazione di Qeoèv del v. 19a, il tempo verbale dell’aoristo è determinato dalla formulazione paolina al passato del v. 18 37. Non convince l’ipotesi di una coordinazione senza esplicita citazione avanzata da alcuni in base a corrispondenze semantiche e lessicografiche, le quali non sempre sono valide e spesso travisano il senso teologico del testo medesimo 38. Un altro problema è dato dalla costruzione verbale h&n katallaésswn: la maggior 34 ID., The ministry of reconciliation, in CthMi 4 (1997) 208: «The broader literary context of Paul’s reference to “the ministry of reconciliation” is the discussion of the meaning of apostleship which begins at 2:14 and extends through 7:4. The narrower context is found in 5:11—6:10 where the content of the gospel entrusted to God’s true servants is more specifically summarized»; 212: «This accords with the point being made against the false apostles in the whole of 2:14—7:4: true apostles are not “sufficient” of themselves, but their sufficiency is in God alone(3:5-6); their ministry is by God’s mercy (4:1), through the agency of Christ (4:5-6) and to God’s own glory (4:7, 15). This whole line of argument reaches its climax now in 5:18-20». 35 ID., II Corinthians, cit., 318 scrive:«Finally, Käsemann (1971a:53) takes the hos as “transitional” and regards hoti as introducing a quotation. There are enough indications that Paul is indeed relying on a traditional formulation in v. 19ab to make this last suggestion the most plausible»; contrariamente, D. L. TURNER, Paul and the ministry of reconciliation in 2Cor 5:11—6:2, in Criswt 4 (1989s) 84, nota 33 afferma:«Paul also uses this combination in 2 Cor 11:21 and 2 Thess 2:2, but in these cases the combination introduces statements which Paul does not totally affirm. Some who believe that Paul is alluding to a traditional formula at this point translate “as it is said” (e. g., Furnish, 2 Corinthians, 317-18). But arguments that Paul is adapting tradition throughout the passage (as, e. g., by Martin, “Reconciliation at Corinth”, 94ff.) are not convincing. One thing is clear, the thought of v 18 is enlarged in v 19, making an epexegetical translation such as “that is” preferable». 36 ID., The ministry, cit., 211, nota 23: «The use of the aorist tense for all three participles (tou katallaxantos…dontos…themenos) not only shows their connection, but also distingishes them from the use of the present participle (katallason) in the pre-Pauline formula of vs.19ab». 37 ibid., 211, nota 24: «Against Bultmann (for example), who, not reckoning with a citation in vs. 19, co-ordinates kai themenos…with me logizomenos…, Der zweite Brief an die Korinter, p.163. But when one sees that me logizomenos…autön is a part of a pre-Pauline explication of reconciliation (although not one incompatible with Paul’s own view, e.g., in Rm. 5:6-11), then the way is opened for viewing kai dontos…in vs.18b and kai themenos in vs. 19c as co-ordinate. The nominative case of themenos has of course been determined by theos in the citation of vs.19a, but even so Paul returns to the aorist tense of his own formulation in vs.18». 38 Così D. L. TURNER, Paul and the ministry, cit., 84, nota 32: «The following displays the similarity of these two verses: 18 A taè deè paénta e\k tou% Qeou% katallaéxantov h|mav e|aut§% diaè Cristou% 11 parte degli studiosi pensa si tratti una coniugazione perifrastica di derivazione semitica, per altri il verbo h&n va attribuito solo a Dio e separato dal participio presente 39; quest’ultimo potrebbe anche intendersi come un participium coniunctum 40. È certo comunque che si tratta di una forma all’imperfetto cosiddetta “incoativa”, giacché mette in risalto l’inizio del processo di riconciliazione. Questo è perciò opera di Dio che riconcilia a sé l’umanità intera 41, non imputando a nessuno le colpe 42: Paolo diviene annunziatore della parola di riconciliazione 43 nel ministero 44 della B kaiè doéntov h|mi%n thèn diakoniéan th%v katallagh%v 19 A’ w|v o£ti qeoèv h&n e\n Crist§% koésmon katallaésswn e|aut§% C mhè logizoémenov au\toi%v taè paraptwémata au\tw%n B’ kaiè qeémenov e\n h|mi%n toèn loégon th%v katallagh%v The A and A’ lines are quite similar except that the object of reconciliation (“us”) in A is expanded to “world” in A’. The band B’ lines are nearly synonymous except for the terminology, with B having doéntov… diakoniéan and B’ having qeémenov… loégon. It is obvious that the major expansion has taken place in line C, wich describes reconciliation in terms used elsewhere of justification (Psa 32:2; Rm 4:8)». La corrispondenza lessicografica non viene però motivata dall’autore, il quale non si accorge che è proprio C a rompere la linearità del parallelismo della sua costruzione (e C non contiene un’affermazione teologica tale da poter essere considerata principale). Ancora,il fatto che C possa contenere una terminologia simile a quella usata per il concetto di giustificazione non abilita ad una identificazione tra quest’ultima e l’idea di riconciliazione. Inoltre diaconia della riconciliazione e parola di riconciliazione non sono così facilmente scambiabili per sinonimia: così H. HÜBNER, Teologia biblica del Nuovo Testamento. La teologia di Paolo, 2 voll, Brescia 1999, 261, che fa sue le opinioni in merito di Hofius. 39 Così V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 318: «(a) One may read the verb, was (ēn), independently of the participle, reconciling (katallassōn), thus obtaining “God was in Christ, reconciling…” […]. (b) One may read ēn… katallassōn as an imperfect periphrastic construction (perhaps an Aramaism), thus obtaining “in Christ God was reconciling…” […]. This yelds a meaning fully in accord with v. 18 (thus “in Christ” [v. 19a] would be equivalent to “through Christ” [v. 18])». 40 H. HÜBNER, Teologia biblica, cit., 260, nota 62: «Vista l’espressione singolare w|v o£ti, con Blass-DebrunnerRehkopf, 353 n.7, andrebbe presa seriamente in considerazione la traduzione “come è certo che fu Dio a riconciliare a sé l’umanità in Cristo”. Se tale traduzione dovesse essere adeguata, se dunque katallaésswn va considerato un participium coniunctum, tuttavia l’interpretazione di Hofius per cui Dio era presente nel crocifisso non ne risulterebbe affatto modificata». 41 J. DUPONT, La Réconciliation dans la Théologie de Saint Paul, PUL, Bruges–Paris, 1953, 18: «Pour saint Paul, ce que Dieu change, ce n’est pas ses propes dispositions; ce n’est pas davantage les dispositions de l’homme à son égard; c’est la situation dans laquelle l’homme se trouve par rapport à lui». 42 La non imputazione si svolge in seno ad un contesto giuridico e giudiziario: a tal proposito V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 319: «That a juristic concept is at work here is well illustrated by 2 Kgdms 19:20 (2Sam 19:19; Shimei pleading with King David for clemency): “Let not my Lord now charge me with transgression [mē dialogisasthō ho kyrios mou anomian]”». 43 La parola di riconciliazione si identifica con il vangelo ed è distinta dal ministero della riconciliazione: così V. P. FURNISH, The ministry, cit., 215; H. HÜBNER, Teologia biblica, cit., 261, riprendendo Hofius, afferma: «Il vangelo sarebbe la parola propria di Dio. È innegabile che il vangelo sia proprio questo. Ma la ‘diakonia della riconciliazione’ consiste nell’annunciare appunto questa parola, che è parola di Dio. È la coincidenza tra parola apostolica e parola particolare di Dio a far diventare l’annuncio un evento escatologico». Per cui, non è la riconciliazione del mondo a fondare la diaconia della riconciliazione, ma viceversa, proprio perché Dio “ha posto in noi la parola della riconciliazione”. Il movente della riconciliazione è in Paolo di natura soteriologica. 44 Così V. P. FURNISH, The ministry, cit., 209, n.16: «The words are often rendered as “servant”, “serving” and “service” and it is true that they can bear this meaning, with special reference to those who serve at meal. But D. Georgi has shown that, in various philosophical, religious, propagandistic texts contemporary with Paul, the terms refer primarily to preaching and teaching, and that this is also the meaning they have for the apostle». Ibid., 215, ricorda che «the phrase “the ministry of reconciliation” has formal parallels in the phrases “the ministry of the Spirit” and “the ministry of righteousness” in 3:8,9. Those expressions (contrasted, respectively, with the ministries “of death” and “of condemnation”, 3:7,9) describe the ministry of the new covenant (cf. diakonous kaines diathekes, 3:6)». 12 medesima, fungendo da ambasciatore per Cristo 45. In questo ruolo egli esorta e comanda a lasciarsi riconciliare con Dio: la forma verbale usata, katallaéghte, è un imperativo kerigmatico, mentre il verbo parakaleién assume in certi casi il significato di “tentare di creare riconciliazione” 46. La riconciliazione è allora scambio, come vuole l’etimologia stessa del termine, tra colui che non aveva conosciuto peccato, il quale è fatto peccato, e coloro che erano ingiusti, i quali divengono giustificazione di Dio. È questa del v. 21 l’affermazione centrale di tutto il brano, che ne determina il movimento teologico, precedente e seguente. Il richiamo è al v. 14, che qui trova la sua giustificazione: si comprende, nell’ottica dello scambio, la natura della morte dell’uno solo per tutti e le conseguenze esistenziali (v. 15-16), cosmiche (v. 17) ed apostoliche (v. 18-20) che da questa particolare morte derivano. L’affermazione del v. 21 sembra essere una riflessione, o meglio un’interpretazione che inquadra la morte di Gesù nell’ottica del quarto carme del Servo di Iahvé di Isaia 47. In quest’ultimo, a 53,10 si afferma: O$pn {$) {y$T-{). Il rimando qui è al singolo giusto solidale con gli empi: l’offerta di sé 48 consiste nel partecipare insieme con gli empi al giudizio emesso su di loro. Ma proprio qui avviene lo scambio: la condanna dei molti passa sull’uno solo giusto, la cui sentenza di assoluzione per la sua innocenza si riversa per converso sui molti empi, rendendoli giusti e perciò salvandoli dalla fine. Non è lui a rendere giusti gli empi, ma la sua solidarietà a far sì che il giudizio di condanna non sia attuato sui molti, ma solo su se stesso 49. È da notare, inoltre, che Paolo usa l’astratto per il concreto: si parla enfaticamente di a|martiéa, che indica il peccato come potenza oggettiva 50, non di paraptwmaéta, affermando 45 L’ambasceria e la supplica di Paolo scaturiscono da Cristo stesso, che esorta/riconcilia attraverso (diaè) lui ed i suoi collaboratori: si ripete due volte u|peèr Cristou%. 46 V. P. FURNISH, The ministry, cit., 216: «In some contexts parakalein can itself mean, specifically, to seek reconciliation.[…]. Finally, in II Cor 2:6-8 Paul warns these same Corinthians that they have punished a certain errant member quite enough; now they should “turn to forgive and to support (parakalesai) him”. In this context the verb means to seek a new rapport with someone through forgiveness and, as Paul says specifically in the next sentence, through love: “I urge you to confirm [or perhaps: reaffirm ] your love for him” Here the “appeal” (parakalein) is to be directed toward “resocialization” or, using a Pauline word, toward “reconciliation”». 47 ID., II Corinthians, op. cit., 340: «Hoad 1957:254 (cf. Hofius 1980a:196) compares this to Isa 53:9b (of the Suffering Servant): “he committed not lawless act, nor was deceit found in his mouth” (LXX: anomian ouk epoiēsen, oude heurethē dolos en tō stomati autou)». 48 L’interpretazione del v. è assai controversa. 49 Sui processi e sul concetto giuridico di giustizia nell’AT vd. P. BOVATI, Ristabilire la giustizia, Analecta biblica 110, PIB, Roma 1986. 50 Non penso che il lessema possa indicare anche il sacrificio per il peccato in questo caso: Paolo, nel descrivere con termini cultuali la morte di Cristo, adopera vocaboli di natura sacrificale come i|lasthérion in Rm 3,25 o a\poluétrwsiv in 1 Cor 1,30. In questo caso, ha ragione H. MERKEL, katallaéssw, in H. Balz – G. Schneider (a cura di), DENT, I, Paideia, Brescia 1995, 1944: «Si dovrebbe piuttosto ricordare, con Hengel 83s., che è caratteristica del pensiero orientale la ‘molteplicità degli approcci’, così che Paolo mette in risalto il significato salvifico della morte di Gesù proprio perché giustappone varie categorie di interpretazione: la riconciliazione dall’ambito politico–sociale, l’espiazione dall’ambito cultuale, la giustificazione dall’ambito forense, il riscatto dall’area del diritto internazionale». 13 esplicitamente che Gesù fu fatto a|martiéa; così pure si rivela che in virtù dell’esser fatto peccato di Cristo, gli uomini diventano giustificazione di Dio. Il pensiero si comprende legandolo all’affermazione di 1Cor 1,30, dove sta scritto che Cristo Gesù, per opera di Dio «è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione»: anche qui è usato l’astratto per il concreto, indicando in Cristo la causa originante ogni perfezione dell’uomo nel suo rapporto con Dio 51. La dikaiosuénh è l’atto di rendere giusti da parte di Dio: essa è un atto di grazia che implica insieme il giudizio. Il pensiero veterotestamentario non vede contrapposti in assoluto la misericordia ed il castigo: questi sono espressioni congiunte dell’unico amore di Dio, entrambi necessari perché si rinnovi il rapporto dell’uomo con Dio 52. Paolo qui non parte dalla cristologia, per illustrare chi sia Cristo, ma dalla soteriologia, dalla storia concreta così come è narrata (inno) per dire la natura di Cristo, il suo essere relazionale, come tale aperto e disposto allo scambio, dal quale prende avvio la diaconia della riconciliazione e, da questa, la nuova creazione. Ciò perché l’astratto (la divinità di Gesù) non spiega il concreto, cioè la storia: non si comprenderebbe il senso della morte del Figlio di Dio, assimilato al peccato, senza la storia. Essendo collaboratore 53 (di Dio qui, come lo è della gioia dei corinti in 2Cor 1,24), anche Paolo esorta, come il Dio che esorta e consola 54. L’esortazione paolina non ha un tenore Lo stesso afferma la centralità della categoria di riconciliazione, che fa risalire alla tradizione antiochena, nel pensiero paolino: questo contro J. GNILKA, Paolo di Tarso. Apostolo e testimone, Paideia, Brescia 1998, secondo il quale, a causa della sua frequenza relativamente scarsa, la riconciliazione non andrebbe considerata un motivo centrale della teologia paolina. 51 Vd. anche Rm 6,13.18, dove si ha la corrispondenza peccato–giustificazione in riferimento ai credenti ed alla loro condotta. 52 G. SCHRENK, dikaiosuénh, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), GLNT, II, Paideia, Brescia 1966, 1270: «La dikaiosuénh è certamente un atto di grazia, ma è tale da porre al tempo stesso nettamente in evidenza la giustizia di Dio giudice»; Schrenk però rifiuta di applicare la situazione giuridica direttamente al rapporto uomo–Dio. Preferisce parlare di una metafora giuridica che «non si può estendere per concatenazione logica, ma va trasposta direttamente sul piano divino» (1272), in modo da mantenere alla giustificazione il suo carattere “grazioso” e da preservare la santità e l’agire santo di Dio nella fedeltà al patto. Mi sembra che queste preoccupazioni apologetiche facciano perdere la “realtà” del rapporto uomo–Dio, che è invece tenuta sempre presente nel pensiero biblico: è nella concretezza della vita che si fa l’esperienza di Dio. 53 G. BERTRAM, sunergoév, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), GLNT, XIII, Paideia, Brescia 1981, 200 nota, a proposito del testo ebraico di Is 38,12: «Nel testo ebraico in questo passo si trova un termine tecnico della tessitura, e forse anche traducendo con sunergoév si voleva anzitutto far riferimento al tessuto come risultato del lavoro manuale del tessitore». Non possiamo essere sicuri che qui Paolo richiami direttamente il suo lavoro, peraltro indicato in At 18,3 con il termine skhnopoioié (riferito pure ad Aquila e a sua moglie Prisca). È certo, però, che Paolo affermi così, ancora una volta, di non avere bisogno di lettere di raccomandazione o di sostegno materiale dalla comunità, perché egli ha scelto di vivere lavorando con le sue proprie mani, nell’annuncio gratuito del Vangelo. Il lavoro qualifica, infatti, la sua diaconia, contro gli oppositori. Ancora, in 8,23 Tito è detto sunergoév di Paolo nel suo ministero verso i corinti: traducendo l’ebr. rbx (gr. anche fiélov), indica il collega. La collaborazione nello stesso ministero rende tutti paritari: tutti sono al servizio di Dio che opera la riconciliazione. Così pure Gesù in Lc 22,27 sta come diacono. G. Bertram, nell’articolo citato, aggiunge: «Con queste designazioni Paolo rivendica a sé e ai suoi collaboratori una qualificazione teologica. Il loro aiuto nella predicazione dell’evangelo significa che essi partecipano con l’Apostolo al peso del servizio della riconciliazione e così, con un faticoso lavoro, hanno parte, nel senso di Is.43,24, all’opera propria di Dio. In tal modo sono servi e operai di 14 moralistico, essa è invito ad accogliere: deéxasqai indica l’aspetto del ricevere qualcosa da un altro ed esprime la reazione ad un’azione proveniente dall’esterno 55. Paolo invita ad accogliere la grazia della riconciliazione, operata attraverso Cristo, che si manifesta nella sua diaconia: in tal senso, l’invito è ad accogliere lui medesimo come vero apostolo. L’esortazione presenta una citazione di Is 49,8 secondo la versione dei LXX: se nel testo originale è difficile sapere a chi l’invito è rivolto, se al servo come continuazione del 2° carme o a Israele (al v. 14, infatti, parla Sion), in Paolo l’esortazione è volta ai corinti 56. A questi ultimi l’Apostolo chiede in particolare di accogliere il kairoév dektoév e l’ h|meéra swthriéav, annunciati dal profeta Isaia ed oggi avveratisi, attraverso la morte di Cristo, nella conoscenza non secondo la carne e nella nuova creazione. Infatti, il doppio i\douè nu%n di 6,2 richiama il nu%n del v. 16c e l’ i\douè del v. 17b, costruendo un’inclusione con l’ a\poè tou% nu%n del v. 16a, il quale ultimo fa rientrare così tutto quanto è detto in 5,16—6,10 nella sfera soteriologia ed escatologica attuale data dalla morte oggettivizzante di Cristo. In Is 49,8 è Dio che coglie il kairoév, non l’uomo: ma il destino imposto richiede all’uomo la risposta della volontà attraverso la decisione morale, per lo meno nel mondo greco. Più il kairoév si compie nel presente, più diviene pressante in Paolo, come d'altronde lo era anche in Gesù, l’appello (parakalou%men) ad accoglierlo, cioè ad attuarlo concretamente nella propria esistenza 57. L’accoglienza del momento favorevole si risolve nell’accoglienza data a Paolo ed ai suoi collaboratori, nei quali è stata posta la parola della riconciliazione (v. 19c), come veri diaconi di Dio, che in nessun modo danno occasione perché venga bestemmiato il loro ministero. L’ e\n pantiè di 6,4 è specificato da quanto segue ai vv. 4b-10, che costituiscono l’ulteriore legittimazione del ministero paolino. Della composizione di questi versetti abbiamo già parlato 58. Qui Dio. Come tali essi possono pretendere l’obbedienza della comunità. Ciononostante, essi non sono i padroni della comunità in senso umano, bensì promotori della sua gioia (2 Cor 1,24)». 54 Alla nota 53 abbiamo già visto come il verbo parakaleién assuma il significato, oltre che di “consolare”, anche di “tentare di fare riconciliazione”. O. SCHMITZ – G. STÄHLIN, parakaleién, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), GLNT, IX, Paideia, Brescia 1974 notano che il consolare e la consolazione «servono per promettere o attestare la consolazione divina di cui ha bisogno il popolo di Dio sottoposto al giudizio divino o anche il singolo che sta nella tentazione e nell’ angoscia» (615). Gli stessi ricordano, inoltre, che nell’AT a consolare sono la Torah, la Sapienza ed il Servo di Dio (648). Nel giudaismo il tempo del Messia è quello in cui si attuerà la consolazione di Israele da parte di Dio, cioè la risurrezione. Consolazione e risurrezione sono associati nella nostra lettera in 1,3-6.9, dove si afferma che Dio consola nelle qliéyeiv, che sono il segno distintivo del vero apostolo, aprendo in tal modo alla speranza nella risurrezione. Vd. ancora lo stesso motivo in 4,13—5,10, la 2° piéstiv soteriologica – escatologica, ed i vv. 14-15 del brano in esame. 55 Il verbo lambaénein si situa più dalla parte di chi dà ed indica la presa dell’oggetto. Il significato di deéxasqai qui può essere chiarito da Mt 18,5, dove Gesù afferma che chi accoglie un bambino nel suo nome accoglie lui. 56 Da notare che il nostro brano è composto con citazioni esplicite ed implicite di Is. Ciò rivela la conoscenza ampia delle Scritture di Israele che Paolo possiede come pure l’uso ottimo che gli è proprio delle tecniche di interpretazione giudaiche, particolarmente il midrash. Ciò rivela la sua superiorità sugli oppositori e, al contempo, getta luce sull’identità e la provenienza di quest’ultimi. 57 Così pensa G. DELLING, kairoév, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), GLNT, IV, Paideia, Brescia 1968, 1377. 58 Vd. alle pp. 8-9. 15 aggiungiamo che la descrizione del ministero paolino in essi contenuta ha come paralleli nella stessa lettera 4,7-12 e 11,23-30 59. Degno di nota è il fatto che Paolo parli di armi della giustificazione, il che richiama il «le nostre armi non sono carnali» di 10,3. L’immagine delle armi si comprende meglio da 1Ts 5,8, dove si parla della «corazza della fede e della carità» e della speranza della salvezza quale elmo e da Rm 13,12, dove si parla di armi della luce; più diffuso sul tema Ef 6,10-17, che parla di verità per cingere i fianchi, di corazza della giustizia, dello zelo per propagare il vangelo quale calzatura ai piedi, di scudo della fede, di elmo della salvezza, di spada dello Spirito, cioè la Parola. Ancora, le antitesi dei vv. 8-10 testimoniano lo scambio avvenuto nella persona dell’apostolo. Egli è nella sua debolezza perché appaia in lui la potenza di Dio, che nella croce di Cristo riconcilia a sé il mondo e determina una nuova creazione per quanti accolgono il momento favorevole della salvezza e muoiono con Cristo. L’esortazione è infatti rivolta a credenti. Così l’apostolo legittima il suo ministero dinanzi ai suoi oppositori, predicando nella sua stessa vita la riconciliazione, questo admirabile commercium 60 che sin da ora immette escatologicamente nella nuova creazione e nella nuova alleanza, dissolvendo il modo della carne e facendo apparire le cose nuove. 2.1.Rm 5, 1-21 Dello scambio operato dall’uno solo giusto e innocente con il peccato di molti Paolo torna a parlare in Rm 5,1-21, l’altro testo dove appaiono, in maniera preponderante, i termini con radice katal-. Anche qui si segue l’opposizione uno/molti (vv. 12.15a.18.19) in ordine all’opera di Adamo (v. 14: 2 volte) e di Cristo (vv. 15.17) delineata secondo una comparazione di disuguaglianza, per cui l’azione del secondo è sovrabbondante rispetto a quella del primo e non vi può essere eguagliata né confrontata. L’influenza di Adamo, cioè dell’uno, sui molti ha matrice giudaica: la si riscontra in Sap 2,24, Sir 25,23, Sal 51,7, Gb 14,4 ma soprattutto negli scritti contemporanei non “canonici”. In 2Apoc Bar 17,3 si legge: «La lunghezza del tempo in cui egli [Adamo] visse non gli giovò, ma arrecò morte e abbreviò la vita dei suoi discendenti»; 23,4: «Quando Adamo peccò, la morte fu decretata contro coloro che sarebbero nati (da lui)»; 48,42: «Che hai fatto, Adamo, a tutta la tua posterità? Che si dovrebbe dire di Eva, che per prima prestò ascolto al serpente? Poiché questa moltitudine va verso la corruzione»; 54,15: «Benché Adamo abbia peccato per primo causando così la morte di tutti gli uomini, tuttavia ciascuno di coloro che sono nati da lui o ha preparato il futuro 59 In 11,23-30 abbiamo la corrispondenza di questi termini: koépoi, fulakaié, plhgaié, a\grupniaié, nhsteiéai. Così intesero i Padri lo scambio tra l’uomo e Cristo. Uno scambio che è riconciliazione e che avviene in forza della solidarietà salvifica di Dio in Cristo con il peccato dell’umanità. 60 16 tormento per la propria anima o ha scelto per sé le glorie venture»; 54,19: «Così Adamo non è la causa, se non per sé soltanto; ciascuno di noi è Adamo per se stesso». In 4Esd 3,7: «Egli [Adamo] lo [il comando di Dio] ha trasgredito e immediatamente Tu hai deciso la morte per lui e per i suoi discendenti»; 3,21: «Il primo Adamo, gravato da un cuore debole, ha trasgredito (il comando) ed è stato sopraffatto come lo sono stati tutti coloro che sono discesi da lui. Così la malattia divenne permanente»; 7,118: «O Adamo, che cosa hai fatto? Benché il peccato sia stato tuo, la caduta non è stata soltanto tua, ma anche nostra, di noi che siamo tuoi discendenti»61. Paolo riprende nel suo procedimento a minori ad maius l’idea giudaica dell’“uno solo”, applicato a Cristo allo stesso modo di Adamo. Ma il risultato è di gran lunga superiore, anzi non vi sono paragoni, come è dimostrato nei problematici vv. 12-14 62. Da qui parte poi tutta l’argomentazione sull’opera di grazia di Cristo a vantaggio degli uomini, che risulta superiore a quella di Adamo. La sezione 12-21 del cap. 5 viene così a costituirsi come fondamento delle affermazioni contenute in 1-11 dello stesso cap., che descrive l’opera di riconciliazione. Questa consiste nell’essere in pace con Dio: la pace qui non è un motivo psicologico, indica invece un positivo rapporto con Dio, che è possesso 63 derivante da un dono, quello della giustificazione 64. La pace, ottenuta attraverso la mediazione di Cristo 65, produce il vanto in mezzo alle tribolazioni, le quali temprano i caratteri della fede (u\pomonhé, dokimhé e la stessa e\lpiév) del cristiano. Tutto questo è opera dello Spirito donato ai credenti 66. La pace, che si delinea nei termini di una riconciliazione nei vv. 8-11, è opera della morte di Cristo per gli empi, proprio mentre questi erano deboli (v. 6) e peccatori (v. 8: è equivalente al v. 6). Questa morte non richiede nessuna disposizione morale in coloro a favore dei quali essa è avvenuta: essa rimane iniziativa gratuita di Dio, ma non può avvenire comunque senza gli uomini 67. Questi, 61 Le citazioni dei testi giudaici sono tratti da J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani, cit., 493, citati in polemica con Davies, che afferma l’inclusione dell’umanità nel corpo di Adamo sulla base di testi rabbinici di molto seriori a Paolo (492). Vd. anche G. BARBAGLIO, La teologia, cit., 609; H. SCHLIER, La lettera ai Romani, in Commentario Teologico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia,1982, 303-321. 62 La maggior parte degli studiosi ritiene che qui vi sia un anacoluto: il paragone, iniziato al v. 12, non si chiude al v. 13, ma al v. 14c. Per altri, invece,il v. 12 rappresenterebbe un periodo ipotetico, la cui apodosi è costituita dalla seconda parte dello stesso v. introdotta da kaiè ou$twv, anche se questa forma è irregolare, ma non assente dall’AT greco (Gs 11,15). Sarebbe infatti una traduzione della congiunzione ebraica we, che introduce una apodosi: vd. B. ROSSI, Cristo nuovo Adamo, in A. SACCHI & C., Lettere paoline e altre lettere, LOGOS/6, LDC, Leumann-Torino, 1996, 466. 63 I migliori mss. greci leggono ()*, A, B*, C, D, K, L, 33, 1175) e!cwmen, il congiuntivo presente, dando così una sfumatura parenetica. I mss. )1, B2, F, G, P, Y, 0220 leggono all’indicativo presente: Paolo non esorta, ma sta descrivendo una situazione di fatto. Lo scambio di o con w si considera dovuta ad un errore uditivo di Terzo: così J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani, cit., 472 e H. SCHLIER, La lettera, cit., 243. 64 Il participio aoristo passivo dikaioqeéntev si riferisce ad un evento già avvenuto; esso è parallelo in 5,10 all’aoristo passivo kathllaéghmen e al participio aoristo passivo katallageéntev. 65 Il diaè tou% Kuriéou h|mw%n \Ihsou% Cristou% è uno degli argomenti forti a favore della lezione e!comen, indicando l’influenza attuale del Risorto sui cristiani. 66 Su tutto questo vd. le bellissime pagine di H. SCHLIER, La Lettera, cit.,253-260. 67 Così H. SCHLIER, La Lettera, cit., 262-263: «In tal modo egli (Paolo) pone in risalto il carattere straordinario della morte di Cristo, la quale non richiede alcuna disposizione morale in coloro ‘per i quali (e ciò significa anzitutto ‘a 17 che sono nemici di Dio (e\cqroiè o!ntev68: v. 10, il punto culminante della climax dopo a\sqenw%n del v. 6 e a|martwlw%n del v. 8), sono riconciliati con Lui attraverso la morte del Figlio suo (v. 10), essendo stati salvati dall’ira nel sangue dello stesso Figlio (v. 9). Le due espressioni del v. 9 e del v. 10 stanno in parallelo e si equivalgono: il riferimento al sangue ed alla morte non connota nulla di sacrificale o di cultuale. Qui si intende semplicemente affermare il dono della vita di Cristo, opponendo questo comportamento a quello descritto nel v. 7 69. È stata l’opera di un solo uomo a determinare l’ingresso nel mondo e del peccato e della grazia. Nella seconda parte del cap. 5, nei vv. 12-21, l’espressione ei/v a!nqrwpov ricorre ben 12 volte, ad indicare sia Adamo sia Cristo. Con Adamo 70, secondo lo schema di Gen 3, che Paolo riprende, il peccato e la morte, entità personificate 71, entrarono nel mondo. La morte regna sovrana perché tutti peccarono: la discussione esegetica verte proprio sul senso da dare all’espressione e\f’§/ e diversi sono stati i tentativi di soluzione: a) tradurre “nel quale” leggendo e\f come e\n e, dunque, riferendo il pronome relativo ad a!nqrwpov, cioè ad Adamo. In tal caso si farebbe appello al concetto di incorporazione, intendendo che tutti peccarono in Adamo. È questa la traduzione di Agostino, della Vetus Latina e della Volgata, quella che ha giustificato la dottrina del peccato originale intesa come trasmissione fisica generazionale 72; b) tradurre “a motivo del quale”, cioè di Adamo, come alcuni Padri greci; c) tradurre “perché”, “in vista del fatto che”, “in quanto”, secondo un uso noto, ma raro , che considera e\f’§/ l’equivalente della congiunzione causale dioéti o l’abbreviazione di e\piè tou%t§ o£ti con valore causativo–condizionale e risultativo. Montagnini 73 ritiene l’espressione una traduzione dell’ebraico ‘al-ken, con valore conclusivo-causativo. Di questa equivalenza sembrano favore dei quali’) è avvenuta […]. Come abbiamo già detto, il significato primo di u|peèr h|mw%n in Paolo è ‘a vantaggio nostro’ (Rm 8,31.34; 1Cor 11,24; Gal 2,20 [cfr. 1,4]; inoltre 2 Cor 5,21; Gal 3,13); come significato secondario si può cogliere talvolta ‘in vece nostra’, che discende appunto da ‘a vantaggio nostro’. Intendere però u|peèr h|mw%n nel senso di ‘comunque senza di noi’ è insufficiente». 68 Si discute se il senso dell’espressione “essenti nemici” debba considerarsi attivo e perciò tradurre “che odiano Dio” oppure passivo “odiati da Dio”. È certo comunque che indica un’ostilità aperta. 69 J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani, cit., 479. 70 Secondo il parere di B. ROSSI, Cristo nuovo, cit., 467, Paolo nel v. 12 non intenderebbe stabilire un confronto tra Adamo e Cristo, cosa che gli riesce al v. 14, ma soltanto parlare del rapporto tra Adamo e gli uomini. Così l’ A. giustifica il senso di kaiè ou$twv come traduzione della particella ebraica we che introduce una apodosi ed afferma la struttura chiastica dell’apodosi stessa (peccato – morte/morte – peccato) al fine di enfatizzare la seconda parte del versetto, dove si enuncia il fatto che la morte ha regnato sovrana perché tutti peccarono. 71 Entrambi i termini sono sorretti dall’articolo determinativo; per a|martiéa, il senso di potenza del male nella sua realtà è dato dalla valenza semantica del termine stesso. 72 Su questo vd. l’excursus in J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani, cit., 484-490. 73 F. MONTAGNINI, Rm 5,12-14 alla luce del dialogo rabbinico, Paideia, Brescia 1971, 57-67. 18 esistere pochi casi sicuri nella letteratura greca 74 ed incerti sono gli altri passi paolini 75 in cui compare l’espressione e\f’§/ 76. Quest’ultima traduzione pare essere la più probabile; del resto la lectio difficilior o rara è sempre da preferire. In tal caso si intende che, come per mezzo di Adamo il peccato entrò nel mondo e con esso la morte, così quest’ultima regna e domina sugli uomini a causa dei loro peccati 77, mediante i quali essi danno l’assenso al peccato di Adamo. Si manifesta così la presenza di due responsabilità, quella di Adamo, che aprì le porte al peccato, e quella degli uomini, con la loro persistenza nello stato e nelle opere di peccato 78, e si instaura così una solidarietà nel male, che viene superata da una solidarietà nel bene, non semplicemente opposta alla prima, ma di gran lunga superiore ad essa e sovrabbondante, in Cristo. I vv. 15-17 illustrano questa novità di gran lunga più grande e piena: in 15a si parla di paraéptwma (caduta) di Adamo e di caérisma (forse qui equivalente a caériv per indicare l’atto e il dono di grazia) 79 di Cristo, quest’ultimo la concretizzazione donativa (dwreaè) della caériv tou% Qeou% sovrabbondante rispetto al fallo di Adamo che produsse la morte di tutti (v. 15b: spiega l’opposizione). In 16a si contrappongono i modi di attuazione (diaè)del peccato e del dono: la spiegazione della contrapposizione è data con categorie giuridiche che inquadrano il problema in ambito forense. Si afferma infatti che l’atto di condanna derivato da una sola caduta portò all’esecuzione della sentenza di morte (toè meèn gaèr kriéma e\x e|noèv80 ei|v kataékrima); al contrario l’atto di grazia da molte cadute condusse all’esecuzione della sentenza di assoluzione (toè deè caérisma e\k pollw%n paraptwmaétwn ei\v dikaiéwma 81) 82. Il v. 17 è in parallelo ai vv. 15b e 16b, dei quali riprende le linee portanti, e conclude la dimostrazione della superiorità dell’opera di Cristo su quella di Adamo. Nei vv. 18-21 Paolo, completando in certo qual senso il paragone cominciato al v. 74 J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani, cit., 496 afferma: «Il problema di quest’interpretazione è che non esistono nella letteratura greca antica casi in cui e\f’§/ sia usato come l’equivalente causale di dioéti» e cita una serie di passi da Diodoro Siculo ad Appiano alla Vita Isidori di Damascius del X sec., quest’ultima la sola rilevante. 75 Fil 3,12; 4,10; 2Cor 5,4. 76 Una buona presentazione della problematica si ha in J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani, cit., 494-498 e in B. ROSSI, Cristo nuovo, cit., 467-468. 77 Il verbo h$marton è da intendersi in senso attivo; in Is 24,6 (LXX) si ha un uso simile del verbo: diaè tou%to a\raè e!detai thèn gh%n, o$ti h|maértosan oi| katoikou%ntev au\thén («per questo motivo una maledizione ingoia la terra, poichè hanno peccato coloro che l’abitano»). Le altre interpretazioni che gli conferiscono valore stativo o incorporativo nel passato sono soltanto apologie dell’interpretazione agostiniana e risentono di dogmatismo: vd. B. ROSSI, Cristo nuovo, cit., 468, n.22. 78 Adamo peccò trasgredendo un comando (questo il senso di paraébasiv del v.14c); gli uomini da Adamo a Mosè, cioè senza la legge, aderirono a lui con i loro peccati, che non possono però dirsi trasgressione (in 14b viene usato il verbo a|martaénw al participio aoristo). 79 H. SCHLIER, La lettera, cit., 288. 80 Ritengo che e|noèv sottintenda paraptwématov, rientrando nella logica stilistica del testo. 81 Il lessema nella LXX ha valore di “verdetto giusto” (cfr. 1Re 3,28). 82 Si deve sottindere il verbo e\doéqh: così secondo i commentari. Il v. 16 è molto vicino ad Is 52,13-53,21. 19 12 83, prolunga il suo pensiero, rendendolo ancor più efficace. È qui che Paolo usa le categorie forensi di dikaiéwma (v. 18c), dikaiéwsiv (v. 18c) dikaiéoi (v. 19c), dikaiosuénh (v. 21b), termini che indicano l’emissione della sentenza e la sua esecuzione, che consiste nel rendere giusti i molti. Per questi ultimi si usa il verbo kaqista%nai, di indole giudiziaria 84, in riferimento alla parakohé di Adamo e all’u|pakohé di Cristo (v. 19), che stanno tra loro in rapporto antitetico di disuguaglianza, giacché “dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (v. 20). I molti, infatti, sono dichiarati peccatori a causa della loro solidarietà attiva con il peccato di Adamo, che il loro peccato e le loro trasgressioni contribuiscono a far emergere; al contrario, sono dichiarati giusti in virtù della solidarietà di Cristo con loro, ai quali è fatto un dono di grazia, che per ciò stesso supera il regime del peccato e il suo schema, giacché la nuova misura della grazia è la sovrabbondanza. Prof. Carmelo Raspa Bibliografia: 83 Come vuole H. SCHLIER, La lettera, cit., 294: «Soltanto ora, ma in modo tanto più chiaro e sicuro, L’Apostolo può svolgere il concetto che aveva in mente sin da 5,12 e, per così dire, può colmare l’anacoluto del v. 12, può collocare l’ou$twv che corrisponde all’w$sper». 84 Sul valore del verbo vd. J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani, cit., 504; H. SCHLIER, La lettera, cit., 297 nega l’indole giudiziaria del brano, pur riconoscendo che il linguaggio giuridico adottato nel v. 19 ha paralleli ellenistici ed è presente anche in 3Mac 1,2; 3,5, in quanto, a suo parere, i molti non sono dichiarati peccatori o giusti, ma ci diventano. Ma Schlier non riflette abbastanza in questo punto sull’inversione provocata da Cristo. 20 J. D. G. DUNN, Giustificazione per fede, in ID., La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia Editrice, Brescia 1999, 337-389; R. PENNA (a cura di), Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, voci: Giustificazione/Giustizia789-814. 21