Il problema della costruzione dell`identità nel cinema di Woody Allen

UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
SEDE DI MILANO
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN LINGUAGGI DEI MEDIA
TESI DI LAUREA
Il problema della costruzione dell’identità nel cinema di
Woody Allen
Relatore:
Ch.mo Prof. Ruggero Eugeni
Correlatore:
Ch.mo Prof. Carlo Galimberti
Candidata/o:
Stefano Antonio Sola
Matricola N. 3501627
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
Indice
Introduzione ....................................................................................pag. 6
Primo capitolo – Il Problema dell’identità .......................................pag. 8
1.1. Premessa ...........................................................................pag. 8
1.2. Che cos’è L’identità ............................................................pag. 8
1.3. La creazione dell’identità narrativa tra ipse e idem......... pag. 11
1.4. La presentazione di un personaggio cinematografico ..... pag. 14
Secondo capitolo – Il cinema di Woody Allen ............................... pag. 20
2.1. Premessa ......................................................................... pag. 20
2.2. Biografia........................................................................... pag. 20
2.3. Provare a raccontarsi tra critica e pubblico ..................... pag. 23
2.4. I film: dalla creazione dell’identità alla decostruzione..... pag. 26
2.5. Allen e la nevrosi ............................................................. pag. 38
Terzo capitolo – Le analisi dei film ................................................ pag. 40
1.1. Annie Hall ........................................................................ pag. 40
1.2. Zelig ................................................................................. pag. 45
1.3. Decostructing Harry ......................................................... pag. 51
Conclusioni .................................................................................... pag. 60
Bibliografia .................................................................................... pag.62
Ringraziamenti .............................................................................. pag.64
"Allora tutto il film della mia vita mi è passato davanti agli
occhi in un momento. E io non ero nel cast!"
Woody Allen
5
Introduzione
Sono, senza ombra di dubbio, molteplici le variabili che intercorrono nella produzione di un
film di successo. A mio modesto parere, però, la principale rimane la costruzione di un
personaggio solido, creato dall’indagine profonda dei processi che lo costituiscono. Una
costruzione a 360° che mostri e non dimentichi tutte le più piccole sfaccettature delle cause
e dei desideri che muovono il personaggio all’interno di una storia. Ecco allora che l’analisi di
questo punto non può che partire dalla psicanalisi e dalla costruzione dell’io e dalle varie
teorie che negli anni si sono succeduto nell’indagine della persona.
Punto di arrivo è spontaneamente la filmografia di Woody Allen, l’autore che forse più di
tutti ha fatto della costruzione del personaggio e delle dinamiche psicoanalitiche il suo
marchio di fabbrica esplicitandone ogni volta sia dal punto di vista dialogico che da quello
registico i processi psicoanalitici e costitutivi dell’io del personaggio, esempi quali Play it
again, Sam, Annie Hall, Zelig e Deconstructing Harry sono solo alcune delle opere dove più
insistentemente questo concetto è portato in primo piano.
L’analisi del cinema alleniano può essere fatta, infatti, facendo un parallelismo, se non una
sovrapposizione, con la sua vita fuori dal set cinematografico.
L’imbarazzante numero di elementi di scambio e alternanza è incredibilmente visibile, tanto
che alle volte è difficile riconoscerne la differenza. È un cinema, il suo, pieno, coinvolgente,
intellettuale, narcisistico, basato su punti fermi quali: Freud e la psicoanalisi, Manhattan,
N.Y. e la vita metropolitana, il suo rapporto con Dio e la religione, la comicità e lo humour
ebraico, le continue citazioni al cinema di Bergman e Fellini, al muto e al cinema in bianco e
nero d’epoca, il jazz di New Orleans.
Tutto questo ruota intorno alla figura dell’antieroe e dove questa non appartiene alla
sceneggiatura, Allen si guarda bene di prendere le contromisure creando un alter-ego ad
hoc.
In questa sede si vorranno tralasciare alcuni degli aspetti emblematici del cinema di Woody
Allen per analizzare invece da vicino i fattori e le cause che hanno portato alla creazione di
un’identità allo stesso tempo così ben definite e così fragile e ansiosa.
Gli sviliuppi ci porteranno ad indagare innanzitutto sul concetto di creazione dell’identità
operato negli anni dalle scienze sociale analizzandone così i pensieri che si sono succeduti
nel tempo per arrivare alla filosofia francese di Ricoeur e al raggiungimento del concetto di
6
identità narrativa, inserito nel saggio Sé come un altro, che così perfettamente si lega al
cinema di Woody Allen.
Cinema e schermo che l’autore da sempre utilizza per capire meglio il suo subconscio
inserendone così con lucidità narrativa tutte le zone di ombra su cui la sua mente non
riuscirebbe altrimenti a ragionarne razionalmente.
Cinema che per Woody Allen significa allo stesso tempo realtà e finzione e le cui molteplici
possibilità che la narrativa offre danno all’autore un campo fertile per lavorare con se stesso.
forse per questo Allen ogni anno con puntualità porta sul grande schermo il suo ultimo
lavoro come un modo per esorcizzare le proprie manie e ossessioni, le sue nevrosi, ma anche
quelle di una moderna società dove questi temi sono presenti e in continua evoluzione.
Nessun cineasta ha mai offerto una visione tanto atroce, cinica e pessimistica delle relazioni
umane e dei comportamenti all’interno della borghesia americana d’oggi, ma sempre con il
sorriso a portata di mano perché l’auto-ironia non guasta mai.
Per Allen la vita nella città moderna è un concentrato di imbrogli, insicurezze e nevrosi da cui
lui stesso è invaso.
Si proseguirà analizzando da vicino nel secondo capitolo il cinema di Woody Allen e la sua
vita cercando appunto parallelismi evidenti nella sua produzione e evidenziandone le nevrosi
e la loro messa in scena, il suo rapporto con la narratività, con il pubblico e con la critica.
Si arriverà al punto focale nel terzo capitolo dove attraverso tre film si concentrerà l’analisi
su tre fondamentali punti di creazione identitaria ovvero la creazione dell’identità attraverso
la psicoanalisi e l’assenza di piacere di Annie Hall, la creazione di identità attraverso caratteri
psicosomatici di Zelig e per concludere in linea temporale la costruzione di identità
attraverso lo stile registico ovvero attraverso il montaggio sincopato di Decostructing Harry
si tenterà di analizzare come la mente di Allen funzioni e ragioni attraversando la realtà, la
finzione narrativa ed in conclusione il ricordo.
7
Capitolo I - Il problema dell’identità
1.1
Premessa
Il primo capitolo introduce il concetto di identità nel modo più generale possibile, partendo,
nel secondo paragrafo, dalla definizione datale dalle scienze sociali e spostando quindi
l’accento verso il suo carattere più intrinsecamente filosofico-psicologico.
Nei seguenti due paragrafi si comincerà a restringere il campo di analisi dapprima riferendosi
all’importanza dell’identità nella costruzione di un personaggio di finzione sfruttando alcuni
dei più eminenti pensieri filosofico-psicologici del ‘900 (paragrafo 3) e arrivando al punto
focale con il paragrafo 4 ovvero allo sviluppo dell’identità di un personaggio cinematografico
avvicinandosi così cautamente alle analisi dei protagonisti alleniani.
1.2
Che cos’è l’identità
Il concetto di identità ha da sempre affascinato la mente umana, e almeno negli ultimi
trecento anni, esso ha dato ispirazione ad alcuni dei più eccelsi pensatori della storia. Capire
cosa sia l’identità è in fondo capire ciò che davvero è l’uomo, nella sua accezione più elevata
riuscendo a trarre così delle leggi che ci permettano di addentrarci nel profondità umane, di
comprenderne i comportamenti e la costituzione dell’individuo, ciò che lo fa diventare unico
ed irripetibile, ovvero un individuo sempre diverso, mutevole capace di cambiamenti, capace
soprattutto di creare. È il professor Giovanni Jervis, docente di Psicologia dinamica presso
l`Università La Sapienza di Roma dal 1977 fino alla sua morte, a sciogliere il nodo cruciale:
“L’identità è tutto ciò che caratterizza ciascuno di noi come individuo singolo e
inconfondibile. E' ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro.”1
Da questa breve citazione possiamo già estrarre due punti fondamentali nella ricerca di una
definizione di identità: l’idea di unità intrinseca e il concetto di distinzione da ogni realtà. Sia
il concetto d’essere, che quello di diversità sono concetti primi e necessari. Ogni identità
quando si afferma contestualmente ne richiama altre. La domanda essenziale di ogni
individuo (chi sono?) è la base con cui un soggetto si colloca nella realtà attraverso un
processo di riconoscimento di sé e dell'altro. Ci rendiamo conto quindi di essere diversi dagli
1
Tratto dall’intervista a Giovanni Jervis della trasmissione “Il Grillo [16/02/1998]
8
altri. È quindi la differenziazione tra il sé e l’altro ciò che ci consente di fare il primo passo
verso la costituzione della propria identità.
Naturalmente questo è solo uno degli aspetti da considerare per arrivare alla piena
consapevolezza di ciò che sia realmente e universalmente l’identità. Jervis arriva, perciò, a
delineare due tratti importantissimi dell’identità, sintesi emblematica degli studi che le
scienze sociali hanno concepito negli anni:
“Così come ognuno ha un'identità per gli altri, ha però anche un'identità per sé. Quella per
gli altri è l'identità oggettiva, l'identità per sé è l'identità soggettiva. L'identità soggettiva è
l'insieme delle mie caratteristiche così come io le vedo e le descrivo in me stesso. L'identità
oggettiva di ciascuno, ossia la sua riconoscibilità, si presenta secondo tre principali modalità.
La prima modalità è l'identità fisica: questa è data soprattutto dalle caratteristiche della
faccia, le quali ci permettono di non esser confusi con un'altra persona. La seconda modalità
è l'identità sociale, ossia un insieme di caratteristiche quali l'età, lo stato civile, la
professione, il livello culturale e l'appartenenza ad una certa fascia di reddito. La terza
modalità è l'identità psicologica, ovvero la mia personalità, lo stile costante del mio
comportamento.”2
Ecco quindi inserirsi una differenziazione concettuale nel discorso sull’identità trattato fino
ad ora: l’identità viene a scomporsi da una parte nell’identità soggettiva e dall’altra
nell’identità oggettiva.
L’identità soggettiva si lega perfettamente all’idea di unità intrinseca, ovvero come noi ci
vediamo, le sensazioni che abbiamo nell’essere; mentre L’identità oggettiva è ciò che ci
differenzia a livello di realtà, ciò che ci permette di differenziarci dall’altro.
È con l’interazionismo simbolico3 che arriviamo a chiarire ulteriormente il concetto in quanto
secondo le teorie di Blumer noi costruiamo la nostra identità in base a quello che gli altri
pensano di noi: non viviamo nel vuoto, ma in una società, inseriti in una continua interazione
con gli altri, interazione che nasce grazie a sistemi simbolici condivisi di cui il linguaggio ne è
un perfetto esempio. Abbiamo, quindi, uno status, un ruolo, di cui i comportamenti sono la
parte visibile. Il nostro ruolo all'interno della società viene continuamente negoziato tramite
appunto l'interazione simbolica.
2
Tratto dall’intervista a Giovanni Jervis della trasmissione “Il Grillo [16/02/1998]
Termine coniato da Herbert Blumer in un saggio del 1937 pubblicato sulla rivista Man and society che si
rifaceva in parte ai lavori di George Herbert Mead
3
9
L’approccio teorico e gli interessi di ricerca dell’interazionismo simbolico tendono a
concentrarsi soprattutto sui processi di formazione dell’identità degli individui. Come già
Mead indicava:
“l’identità è il prodotto di un processo autoriflessivo nel quale il soggetto si confronta con le
definizioni di se stesso che trova presenti nei discorsi altrui, che interiorizza ed elabora.
L’interazionismo simbolico sviluppa questa prospettiva enfatizzando il ruolo che le parole
che usiamo continuamente hanno nel dar forma alla nostra realtà e nell’influenzare la
percezione che abbiamo di noi stessi e ed il nostro comportamento.”4
È chiara a questo punto l’importanza, per la creazione della propria identità, degli altri ma
non è l’ultimo principio da tenere conto ragionando sulla creazione dell’identità.
L’ultima questione a cui è importante rifarsi per meglio centrare il discorso sulla creazione di
un personaggio di finzione o cinematografico, che si analizzerà nei seguenti paragrafi, è il
ragionamento che nel 1990, con l’uscita di “Sé come un altro” Paul Ricoeur fece seguendo
l’interesse per l’approccio narrativo alle questioni filosofiche dell’identità personale
diventato molto popolare in quegli anni inserendo così una differenziazione all’interno
dell’identità soggettiva nel tempo che scorre, tempo che è in fin dei conti la realtà nostra a
cui nessuno può sottrarsi:
“La questione dell'identità prende una forma problematica perché disponiamo di due
modelli di identità. Ho tentato, nel mio lavoro, di fissare questi due sensi di identità,
parlando da una parte di identità idem (medesimezza) - per usare un termine latino - e
dall'altra di identità ipse (ipseità).
Che cosa intendo con identità idem? E' l'identità di qualcosa che resta mentre le apparenze
o, come si dice, gli "accidenti", cambiano. Il suo modello filosofico è stato, fin dall'antichità,
la sostanza. La sostanza è il substrato, il suppositum, il supporto, identico nel senso che è
immutabile, che non cambia, che è sottratto al tempo.
Questa identità sostanziale può essere anche realizzata sotto forma di un’identità
strutturale. Per esempio il nostro codice genetico resta lo stesso, dalla nascita alla morte
come una specie. Questa identità sostanziale può essere anche realizzata sotto forma di
un'identità strutturale. Per esempio il nostro codice genetico resta lo stesso, dalla nascita
4
Cfr. “Il mondo in questione”, Paolo Jedlowski [2009], pag. 260
10
alla morte, come una specie di firma biologica. Abbiamo qui un esempio di identità idem:
identità di struttura, di funzione, di risultato.
L'identità ipse invece non implica l'immutabilità e anzi, al contrario, si pone nonostante il
cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri, ecc.
Faccio subito l'esempio più notevole dell'identità ipse; l'identità di me stesso quando
mantengo una promessa. La promessa è sotto questo riguardo l'esempio più notevole,
perché non abbiamo a che fare, nel caso del soggetto che promette, con una identità
sostanziale; al contrario, mantengo la mia promessa nonostante i miei cambiamenti di
umore. Questa è un'identità che potremmo chiamare di mantenimento, più che di
sussistenza. Io sono e mi conservo lo stesso, nonostante non sia più identico, nonostante sia
cambiato nel tempo. Ho dunque due rapporti con il tempo: l'uno è un rapporto in qualche
modo di immutabilità. L'altro di che natura è? Io lo definisco identità narrativa, volendo dire
con ciò che l'identità di un soggetto, capace di mantenere una promessa, è strutturata come
l'identità del personaggio di una storia.
La lezione più importante su cui voglio insistere è la dialettica delle due identità: l'identità
idem e l'identità ipse. Si potrebbe infatti dire che l'identità narrativa - presente nei grandi
racconti o interpretata da noi, decifrata nella vita - oscilla tra i due poli dell'identità
sostanziale, immutabile e dell'identità che esiste solo grazie alla volontà di mantenerla, come
quando si mantiene una promessa.”5
Ecco che da questo concetto nel prossimo paragrafo si cercherà di riapplicare il pensiero di
Ricoeur per legarlo sostanzialmente alla narratività e ai processi che intercorrono nel creare
l’identità di un personaggio di finzione.
1.3
La creazione dell’identità narrativa tra ipse e idem
Ricoeur, nel suo saggio “Sé come un altro” cerca di mostrare come l’identità narrativa sia
soluzione ai problemi di ragionamento sull’identità personale, infatti, quest’ultima trova nei
racconti un’importante mediazione che mostra chiaramente come la comprensione di sé sia
in fin dei conti una propria interpretazione.
Per capire ciò si è mostrato come l’identità ipse si correla alla narrazione, ovvero al racconto
di una storia nel suo dispiegamento di eventi in una determinata successione temporale, i
5
Tratto dall'intervista a Paul Ricoeur “Descrivere, raccontare, prescrivere” [1991]
11
quali eventi sono dotati di cause e conseguenze. La storia raccontata nella narrazione
possiede, quindi, una funzione esplicativa che spiega come diversi stati, eventi o azioni siano
connessi tra loro in singoli episodi dispiegando così il significato che essi hanno l’uno per
l’altro. Questa funzione è svolta dall’intreccio.
Risulta quindi chiaro, reificando il concetto alle persone, come le proprie vite, nel momento
in cui si applicano ad esse modelli narrativi sembrino, più chiare e meno disordinate di
quanto le avessimo in mente, questo fenomeno risultata evidente nel film Decostructing
Harry (1997) come si avrà modo di vedere nelle analisi dei film inserite nel capitolo 3.
“La nozione di “identità narrativa” riposa quindi, sulla capacità della persona di “mettere in
racconto” in modo concordante gli avvenimenti della propria esistenza, grazie a particolari
operazioni attuate nella lettura: prima il trasferimento della dialettica del racconto al
personaggio stesso, quindi la trasposizione della dialettica del personaggio al lettore.” 6
Con Ricoeur quindi si mostra come la nozione di identità sia strettamente connessa alla
permanenza nel tempo chiarendone l’equivocità con i concetti di medesimezza e ipseità. Il
modo in cui la dialettica del personaggio s’inscrive nell’intervallo fra i due poli della
permanenza nel tempo per mediare tra essi, secondo Ricoeur, si manifesta soprattutto nelle
opere narrative di finzione:
“Tale funzione mediatrice che l’identità narrativa del personaggio esercita fra i poli della
medesimezza e dell’ipseità è attestata, essenzialmente, dalle variazioni immaginative alle
quali il racconto sottopone questa identità.”7
Queste variazioni immaginative esplorate dalla narratività denotano anche solo in un unico
tema letterario infinite possibilità di azione sottese alle possibilità esistenziali dei personaggi,
ovvero a possibilità per l’azione e modi di essere che servono per orientarci nel mondo che,
secondo Ricoeur, sono dispiegati nel racconto di finzione. In tal senso possiamo leggere la
seguente citazione:
“La letteratura si presenta come un vasto laboratorio per delle esperienze di pensiero in cui
le risorse di varianza dell’identità narrativa vengono messe alla prova del racconto. Il
6
7
Cfr. Identité narrative et identité éthique. De Boer[1995] pag. 43
Cfr. Sé come un altro, Paul Ricoeur [1990] pag. 240
12
vantaggio di queste esperienze di pensiero è di render manifesta la differenza fra le due
significazioni della permanenza nel tempo, facendo variare il rapporto dell’una all’altra.”8
È a questo punto evidente, rovesciando il pensiero di Ricoeur come la creazione di un
personaggio di finzione sia legata alle esperienze e al vissuto di chi crea appunto il
personaggio in questione.
Mostrando già in questo punto le caratteristiche dei personaggi alleniani risulta evidente
come il regista americano compia uno sforzo di trasmigrazione del suo inconscio nella
creazione delle personalità uniche frutto delle sue paure, delle sue nevrosi e del suo modo di
essere forse negli anni represso ma pur sempre presente nella sua mente.
I valori di ipseità e di medesimezza sono punto focale analizzando i bisogni che portano alla
costruzione dei personaggi di Allen, ecco, infatti, che nel tempo lui cambia fino ad arrivare,
come vedremo più , grazie alla biografia di Eric Lax, a quel genio perfezionista e metodico e
acuto che però non riesce a disfarsi, nella sua persona, delle sue fobie e delle sue
irrequietezza tendendo ad esorcizzarle nel racconto mostrando, rifacendosi a quanto detto,
le infinite possibilità esistenziali che la mente può arrivare a creare attraverso le molteplici
variazioni immaginative.
Secondo Ricoeur, le esperienze immaginarie di pensiero, condotte nell’ambito della “finzione
letteraria”, evidenziano uno scarto con l’ambito della “esperienza quotidiana”. In questo
senso, le variazioni immaginative oltrepassano i caratteri temporali dell’esperienza ordinaria.
Nella quotidianità, infatti, medesimezza e ipseità “tendono a ricoprirsi e a confondersi”9:
esse si esprimono nella loro sovrapposizione (carattere) o nella loro disgiunzione
(mantenersi). Nella finzione letteraria, invece, “lo spazio delle variazioni aperto per i rapporti
fra le due modalità dell’identità è immenso”10.
Ecco che però, in Allen, la dialettica tra ipseità e medesimezza si concretizza tra la sua vita
reale e la sua vita di finzione mostrataci nei suoi film luogo in cui, a differenza di quanto
sostenuto da Ricoeur, l’ipse della sua vita reale, ovvero l’uomo preciso, maniacale e
metodico la quale risultante è la sua funzione autoriale e registica, si fonde con l’idem del
suo subconscio che per sempre si porterà con se, con le sue fobie, i suoi tic e il suo senso di
inadeguatezza caratteristici dei suoi personaggi forse a voler mostrare come in fin dei conti
la sua vera realtà risiede molto più nei suoi film che nella sua vita reale.
8, 9, 10
Cfr. Sé come un altro, Paul Ricoeur [1990] pag. 240
13
1.4
La presentazione dell’identità di un personaggio
cinematografico
Quando ci troviamo ad iniziare una sceneggiatura, la prima cosa da fare è presentare ai
nostri spettatori il/la protagonista. Spesso capita di avere a disposizione una scena
introduttiva per il protagonista, prima che il personaggio si ritrovi effettivamente dentro
l’azione. Questa scena deve essere una specie di carta d’identità, una fotografia istantanea
del protagonista, qualcosa che resti impresso nella mente dello spettatore lungo tutto il film.
Dalle prime inquadrature possono dipendere le sorti di tutto un film: si può pensare che se
uno spettatore medio le troverà noiose difficilmente proseguirà nella visione. Quindi, come
prima cosa, bisognerà riuscire a descrivere i personaggi (o il personaggio) nel migliore dei
modi possibili.
Si può senza dubbio dire che Woody Allen rimane il maestro incontrastato nell’arte di
presentare i propri personaggi, un arte che porta lo spettatore, già nei primi istanti del film a
capire appieno la psicologia del personaggio che di volta in volta il regista newyorchese ci
offre sullo schermo.
Emblematici, nella filmografia di Allen, sono in questo senso le sequenze iniziali di film come
Annie Hall (1977)o del più recente Whatever Works (2009) dove attraverso l’utilizzo del
camera look9, il regista ci presenta cogliendo le più piccole sfumature psicologiche i suoi
personaggi.
La creazione di un personaggio è, comunque, qualcosa di molto più complesso della sola
messa in scena. È qualcosa che affonda le radici in un terreno molto più denso fatto
soprattutto di esperienza, immaginazione e desiderio.
Innanzitutto il personaggio non è una persona ma un fatto narrativo, molto spesso in Allen
questo personaggio si fonde con la persona reale, anch’essa però personaggio, caratterizzato
dalla sua giacca larga a coste e dagli inconfondibili occhiali. Il ruolo del personaggio è
fondamentale all’interno del racconto, gli spetta, infatti, il compito di dare vita a quella
dialettica di valori, di prospettive e di idee di cui sempre un racconto è intessuto.
Ogni narrazione è infatti uno sguardo sul mondo o meglio una molteplicità di sguardi sul
mondo e ognuno dei suoi personaggi è uno di questi sguardi, il racconto li mette insieme, li
confronta, li racchiude in un unico grande contenitore e poi attende, per vedere ciò che
9
Cioè il guardare e parlare di un personaggio nella macchina da presa, e quindi direttamente allo spettatore. Ciò
produce un effetto straniante, inducendo al riso e alla riflessione ed è molto usato da Allen nei suoi film
14
succede. Spesso però qualcuno nascosto o ben visibile gioca una partita a scacchi con questo
confronto gettando il suo sguardo: uno sguardo d’autore.10
Ciò è ben visibile in un film come Play It Again, Sam (1972), dove Sam Felix/Woody Allen
(critico cinematografico/autentico autore del film) muove l’intera vicenda, sia dall’interno
che dall’esterno.
E’ quindi il personaggio che ancora, nel rapporto con l’autore e il narratore, quelle unità
semantiche, quei valori, quelle concezioni del mondo, dal cui dialogo nascono i significati del
testo. È evidente come in Allen le tre figure citate, soprattutto nei film dove è presente in
prima persona, le tre figure si fondono e coincidono.11
È chiaro quindi come, nell’ambito di un testo narrativo, la presentazione di un personaggio
costituisce un momento essenziale tanto della costruzione stessa del personaggio quanto
dello sviluppò dell’intera vicenda. Introdurre un esistente all’interno della storia significa,
infatti, dar corpo a una sua prima caratterizzazione, costruendo così nella destinatario una
certa impressione con cui per il resto del racconto dovrà fare i conti. Presentare un
personaggio è dunque un’operazione di estrema importanza per qualsiasi tipo d’autore.
La presentazione di un personaggio cinematografico si articolerà lungo alcune tappe non
obbligatorie: l’evocazione, la nominazione, la messa in scena, la messa in inquadratura e
l’enunciazione dell’immagine propria.
L’evocazione di un personaggio si avrà quando qualcuno o qualcosa si riferirà ad esso prima
del suo reale ingresso nella diegesi, indicandone già alcuni caratteri e mettendo lo spettatore
in uno stato di attesa, un ottimo esempio per capire meglio è rappresentato dalle sequenze
iniziali del film Sleeper (1973).
La nominazione risulta di minor importanza nel racconto cinematografico rispetto al
racconto letterario, infatti, tale riconoscimento si realizza, più che in un segno nominale,
attraverso un segno visivo, ovvero tramite l’immagine propria che consente allo spettatore
l’identificazione del personaggio. Solo nei casi in cui il personaggio è assente, e qualcuno ne
parla, il nome proprio assume, anche nel racconto cinematografico, un importante funzione
di riconoscimento. Nel racconto cinematografico decade anche la funzione di reificazione
che il nome proprio conferisce al personaggio,è evidente che il segno filmico conferisce a
quest’ultimo un altissimo coefficiente di realtà.
10,11
Cinema e racconto: il personaggio, Dario Tomasi [1988]
15
Arriviamo dunque con la messa in scena all’effettiva introduzione del corpo nella diegesi,
esso non viene più evocato ma è realmente presente nella scena sullo schermo. Tale messa
in scena ha inizio quando qualcosa viene a segnalare la presenza del personaggio: la sua voce
off, lo sguardo di qualcuno nella sua direzione, il riferimento alla sua presenza attraverso le
azioni compiute da un altro personaggio o, nel modo più evidente, attraverso la sua messa in
inquadratura.
Non sempre la messa in inquadratura di un personaggio coincide con quella che si può
chiamare l’enunciazione della sua immagine propria11.tendenzialmente l’immagine propria
coincide con quel tipo di inquadratura che, in particolare per la prima volta, ci consente di
vedere in modo sufficientemente determinato il volto e la fisionomia del personaggio.
L’immagine propria può essere letta come il momento culminante della presentazione del
personaggio. La sua enunciazione viene infatti a costituirsi come il momento in cui l’Io
dell’emittente rivela al tu del destinatario l’egli del personaggio12.
È l’autore, che lavorando su questa immagine, può conferire e rimandare allo spettatore
caratteristiche implicite ed esplicite del personaggio, caratteristiche quindi fisiche e
psicologiche. Ciò implica un’importante
funzione dell’immagine ovvero quella della
caratterizzazione. La sua caratterizzazione fisica, infatti, chiarendo ulteriormente, rinvierà
alla natura psicologica del personaggio, alla sua dimensione interiore: nessuno può infatti
aspettarsi vedendo comparire Woody Allen sullo schermo che egli sia l’esemplare tipico di
eroe impavido, la sua presenza rimanda a livello iconico ad una serie di caratteristiche di
inadeguatezza e di nevrosi.
Chiarificando questo punto si può quindi dire che con la sua messa in scena, il personaggio
inizia quindi a diventare visibile: lo spettatore impara a riconoscerlo e a distinguerlo dagli
altri personaggi. Qui interviene l’uso dell’inquadratura; la forma più frequente, nella
presentazione di un personaggio, è quella del primo piano, che permette il pieno
riconoscimento del volto.
Ma se un’inquadratura in primo piano sembra fornire
un’immagine “oggettiva” del personaggio, occorre piuttosto notare che alcune
caratteristiche sono messe in rilievo a discapito di altre. In generale la soggettività di una
presentazione passa attraverso una selezione delle informazioni fornite allo spettatore, non
11
Si intende per immagine propria l’inquadratura che da del personaggio rappresentato un’immagine che ci
consentirà nel corso del film di riconoscerlo e distinguerlo dagli altri personaggi.
12
Cinema e racconto: il personaggio, Dario Tomasi [1988], pag. 26
16
solo rispetto a ciò che il personaggio è o appare ma ancor più rispetto alla sua vita passata,
che in qualche modo costituisce la premessa all’azione narrata nel corso del film.
Spesso un personaggio viene presentato non da solo ma insieme ad altri; nel caso di un
colloquio tra due personaggi, la tecnica più utilizzata è quella del “campo” e “controcampo”,
vale a dire l’alternanza di inquadrature che riprendono il volto di chi sta parlando in quel
momento.
La narrazione in un film, rifacendosi in qualche modo a Genette13, può essere di diversi tipi,
simili alle forme presenti in un testo letterario, a seconda del livello di conoscenza che il
narratore possiede: nella focalizzazione zero c’è un narratore onnisciente che sa più del
personaggio; nella focalizzazione interna il narratore assume il punto di vista e il livello di
conoscenza di uno o più personaggi; nella focalizzazione esterna il personaggio agisce senza
che il narratore mostri di conoscere i suoi pensieri e i suoi sentimenti.
Il cinema, con la sua (apparente) rappresentazione oggettiva della realtà, privilegia spesso la
focalizzazione esterna, mostrandoci i personaggi come se fossero delle persone che noi
osserviamo, di volta in volta, nel loro agire. Ma in alcuni casi l’introduzione di una voce
narrante (magari proprio quella dello stesso personaggio) permette di rovesciare il rapporto
tra narratore e personaggio, consentendo un accesso diretto al suo mondo interiore.
Entrando dunque nella specificità del raccontare, è bene capire la distinzione tra storia e
discorso, intendendo per storia gli eventi, i personaggi e i luoghi propri di ogni racconto e per
discorso i modi in cui questi eventi, luoghi e personaggi vengono raccontati.
La storia è il “che cosa” viene narrato, il discorso il “come” viene narrato questo “che cosa”.
Questa distinzione vale anche per il film: come s’è già detto, occorre quindi esaminare
sempre come la costruzione di un personaggio sia caratterizzata dall’uso dei codici
cinematografici, ad esempio dalle inquadrature, dai movimenti della macchina da presa,
dalle scelta delle luci e del sonoro…
Un ruolo importante è anche quello dell’ambientazione. La cornice della rappresentazione di
un personaggio può fungere da sfondo dei suoi sentimenti, sia nella forma della sintonia che
in quella del contrasto. Una tale funzione può essere assunta anche dal commento musicale.
Il personaggio non è però mai l’insieme statico dei suoi attributi, ma piuttosto un’entità
dinamica che lo spettatore scopre progressivamente nel corso del racconto, sempre
attraverso prospettive parziali. Da una parte il carattere di un personaggio è il motore delle
13
Figure III, G. Genette[1972]
17
sue azioni e della vicenda che lo riguarda, dall’altro le stesse azioni e gli eventi della storia
rivelano sempre meglio questo suo carattere. Tra il suo essere e il suo fare esiste sempre un
rapporto dialettico. La specificità del linguaggio cinematografico attribuisce al personaggio
anche due altri aspetti importanti: egli non solo è e non solo agisce, ma anche parla e
guarda.
La parola è indubbiamente importante per il significato dei discorsi che il personaggio fa e
che il cinema può far conoscere allo spettatore in un modo ovviamente molto più diretto
della narrazione letteraria; ma importante è anche la voce, la sua intonazione e il suo timbro,
spesso accompagnati dal gesto.
Lo sguardo può invece rivelare il mondo interiore del personaggio, sottolineando sentimenti
quali l’amore, l’odio, la felicità, la paura… Anche una forma particolare di inquadratura, la
“soggettiva”, richiama fortemente l’importanza dello sguardo del personaggio, che in questo
caso si trasforma nello sguardo dello spettatore stesso.
L’identificazione dello spettatore con il personaggio può passare anche attraverso il fattore
della recitazione, e in particolare con il fenomeno del divismo. Indubbiamente l’attore entra
concretamente a far parte della caratterizzazione del suo personaggio: mediante la sua
performance, l’attore fa vivere il personaggio, dandogli il suo volto, realizzando le sue azioni,
pronunciando le sue parole. D’altra parte l’impressione di realtà, che è un carattere
peculiare del cinema, fa sì che lo spettatore riconosca come “reali” i personaggi, con i quali
giunge ad identificarsi, desiderando, in qualche modo, di trasformarli in persone.
L’identificazione diventa spesso un’operazione rassicurante, nella quale lo spettatore sente
confermati i valori sui quali fonda la sua esistenza. La “simpatia” o l’”antipatia” verso un
determinato personaggio si collega dunque al modo di pensare, all’ideologia dello
spettatore, che comunque viene abilmente guidato, in queste sue scelte, dall’azione
dell’autore/regista del film.
È quindi l’autore/regista a determinare totalmente l’identità di un personaggio e a
presentarlo allo spettatore facendo scaturire in esso le reazione e le sensazione che
occorrono per il buon funzionamento della storia. Emblematica su questo punto è un
risposta data da Woody Allen che alle domande di Jean-Michel Frodon:
“JMF - La regia può dare vita a un personaggio, ma può anche rappresentare una minaccia.
Per esempio in Mighty Aphrodite (1995) quando lei, cioè il personaggio di Lenny, il
giornalista, da lei interpretato, interviene sull’esistenza di Linda, la prostituta che ha il volto
di Mira Sorvino. In quel film sembra che lei paragoni la regia ad un goffo tentativo divino.
18
WA - Lenny, il mio personaggio, interferisce con la vita di Linda. Si comporta da regista
perché ne modifica l’abbigliamento, il modo di parlare, l’ambiente che la circonda, le inventa
un partner, tenta di manipolare la sua storia. La cosa interessante, dal mio punto di vista, è
che non è poi così detto che le faccia del bene, anche se lui ne è persuaso. Lei è una
prostituta, ma non si lamenta della condizione: guadagna dei soldi, sogna di diventare
attrice. Lenny la costringe a modellarsi su un’immagine convenzionale di donna della classe
media, che è il suo ideale ma non necessariamente quello di linda. Paradossalmente io
assomiglio a lenny, e dunque nel mio intimo penso che ho fatto bene perché secondo me, la
condizione di prostituta è terribile, ma ammetto che qualcuno potrebbe dirmi: chi sei tu per
decidere che vita debba fare lei?
JMF - Così lei interviene due volte sulla sorte di linda, come personaggio e come regista. La
prima volta il risultato è un fiasco, dato che Linda non rientra nei piani di Lenny, mentre la
seconda volta è un successo. Dato che per lei il film finisce bene.
WA - La seconda volta si tratta di un’interferenza del destino, del deus ex machina, di dio
insomma
JMF - Che poi è lei, sceneggiatore e regista del film.
WA - In effetti sono io ad aver deciso in questo senso, scrivendo la sceneggiatura. Ma non
sono in grado di influire allo stesso modo sulla mia vita, come tutti ben sanno.” 14
Traendo spunto da Francis Scott Fitzgerald possiamo affermare che “Il personaggio è azione”
azione però incanalata dal suo autore/regista che prendendo i panni di una divinità può
portare la personalità del personaggio dove più gli aggrada mostrando così il suo mondo
interiore e la sua psicologia, mettendo, come si diceva all’inizio del paragrafo, il suo sguardo
del mondo in un contenitore e aspettando per vedere cosa accade.
14
Jean-Michel Frodon, Conversazione con Woody Allen [2000] pag. 49-50
19
Capitolo II – Il cinema di Woody Allen
2.1
Premessa
In questo secondo capitolo si cercherà di indagare a fondo nella vita e nelle opere di Woody
Allen per evidenziare quel labile confine tra l’identità del suo personaggio e l’identità
dell’uomo reale che da sempre coesistono nella stessa persona, a volte immedesimandosi e
fondendosi l’una nell’altra, a volte lasciando spiragli di luce che permettono di capire
appieno le due anime di una delle più complesse figure che il mondo abbia conosciuto a
cavallo tra il Novecento ed il secolo nostro.
Si partirà,naturalmente, dalla sua biografia, pel secondo paragrafo, proprio a voler cercare
negli episodi della sua esistenza parallelismi o cause che possano rimandare alla sua
cinematografia e alla psicologia dei suoi personaggi. Nel terzo paragrafo ci si addentrerà in
maniera sistematica nel tentativo e nell’esigenza di raccontarsi di Woody Allen nei confronti
di se stesso, del pubblico e della critica.
Nel quarto paragrafo si darà respiro alle sue opere analizzandone sommariamente le
principali dal suo esordio alla regia con Take the money and run del 1969 fino al suo
capolavoro narrativo Decostructing Harry del 1997 naturalmente partendo dalla creazione
del suo personaggio.
Si completerà questa ampia panoramica sul regista con una breve analisi che cercherà di
indagare nelle nevrosi del regista e nella loro messa in scena cinematografica.
2.2
Biografia
Allan Stewart Konigsberg nato il 1° dicembre 1935 è cresciuto nel quartiere newyorchese di
Brooklyn. I suoi genitori, Martin e Nettie, erano ebrei americani mentre i nonni provenivano
dall'Europa dell'est. Da un punto di vista familiare ed economico ebbe un'infanzia ed
un'adolescenza abbastanza tranquille, anche se, come ha dichiarato in qualche intervista, i
rapporti tra i suoi genitori erano piuttosto litigiosi (è così che li rappresenta anche in "Radio
Days", uno dei suoi film più autobiografici sebbene non vi reciti personalmente).
20
Passa molto tempo al cinema fin da piccolo a vedere James Cagney, Humphrey Bogart, Gary
Cooper, Fred Astaire, John Sturges, i film Disney. Nomi che spesso torneranno nelle sue
opere, ora come suggestioni, ora letteralmente, così come i fratelli Marx, la cui comicità
surreale e il gusto per il nonsense saranno essenziali per formare lo stile di Allen. Odiando
l'estate, il caldo e il sole, passa molte giornate nei cinema con l'aria condizionata. Dopo la
guerra arrivano i film europei: Jacques Tati, René Clair, Jean Renoir, Federico Fellini, Vittorio
De Sica, e la visione/rivelazione di Ingmar Bergman ("Monica e il desiderio" prima, "Una
vampata d'amore" poi). Un apprendistato dello sguardo che lo porta già all'età di sette-otto
anni a desiderare di diventare un autore o un commediografo. La passione per la scrittura,
coltivata fin da bambino, è fondamentale: non a caso molti film di Allen avranno una forte
impronta letteraria. "Buttato fuori presto da scuola", Allen si forma da solo, leggendo (Ernest
Hemingway, William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck), andando al cinema,
ascoltando musica e assistendo a spettacoli teatrali (dove osserva soprattutto le reazioni del
pubblico).
Già attorno ai sedici anni viene scritturato per creare gag per radio, televisione e cabarettisti,
per poi passare a produrre materiale per sé stesso. I primi pezzi teatrali per sua stessa
ammissione non sono molto riusciti. Tra i comici di cabaret che lo influenzano maggiormente
cita il primo Bob Hope, Mort Sahl, Mike Nichols, Elaine May, Jonathan Winters. Comincia a
esibirsi come comico con un materiale che comprende l'insicurezza nella vita e con le donne,
il nervosismo, la paura, la vigliaccheria, storielle argute e surreali, e viene notato da due
produttori che lo ingaggiano per il suo primo lavoro nel cinema: la sceneggiatura di Ciao,
Pussycat. L'esperienza diventa per Allen "il peggior incubo immaginabile": è allora che giura
di non volerla ripetere, a meno di non poter avere lui stesso il controllo del proprio
materiale. Il suo lavoro, fuori dagli schemi commerciali, viene declinato nella più becera
chiave hollywoodiana da "gente senza alcun senso dell'umorismo [...] che affidava le parti
alle amichette, [...] scriveva ruoli per far contente le star senza preoccuparsi che
funzionassero o meno".
Stanco del soprannome “Red” che gli hanno appioppato i compagni, si sceglie un nome
d'arte: diventata Woody Allen nella primavera del 1952 quando diversi quotidiani di New
York cominciano a pubblicare barzellette e battute inventate da lui. I suoi insuccessi
universitari (NY University e City College) lo spingono verso il mondo dello spettacolo: lavora
come presentatore comico nei night club e contemporaneamente si guadagna da vivere
21
scrivendo testi comici per programmi televisivi, prima di iniziare la carriera cinematografica
come sceneggiatore e attore di commedie (What's New Pussycat 1965).
L'esordio alla regia avviene nel 1969 con Take money and run anche se nel 1966 aveva
diretto alcune scene di What’s up Tiger Lily?. Nello stesso anno si sposa per la seconda volta,
con l'attrice Louise Lasser. In pochi anni realizza i film che gli danno fama mondiale, titoli
ormai celeberrimi quali Bananas (1971), Everything You Always Wanted to Know About Sex*
(*But Were Afraid to ask) del 1972 e Love and Death (1975). Sono film di una comicità
scatenata e fulminante. Nel 1977 la svolta. Annie Hall è sicuramente una pellicola ancora
molto divertente, ma con in controluce un trattamento dei temi amaro e disincantato. Il film
piace anche alla detestata "enclave" hollywoodiana, un mondo con cui Woody ha sempre
avuto poco da spartire, che gli assegna quattro Oscar: miglior film, migliore regia,
sceneggiatura e miglior attrice protagonista, quella Diane Keaton che da poco è la sua nuova
compagna nella vita.
Negli anni Ottanta Woody Allen, dopo il successo di Manhattan (1979), considerato da molti
il suo capolavoro, e la sperimentazione linguistica di Zelig (1983) inizia progressivamente a
concentrarsi dietro la macchina da presa e ad affidare il ruolo di protagonista a diversi alter
ego che spalleggiano Mia Farrow, la nuova compagna del regista. I film più originali di questo
periodo sono The purple rose of Cairo (1985) e Radio Days (1987). Comincia così il cosiddetto
periodo "crepuscolare" del regista americano, che risente fortemente dell'influenza della
poetica bergmaniana, in cui si fanno sempre più ricorrenti i temi della morte e della religione
(esorcizzati col filtro dell'ironia), e in cui si accentua l'ipocondria, automaticamente
tematizzata nei suoi film.
Nei primi anni Novanta, invece, Woody Allen comincia a superare l'opera autobiografica
confezionando una serie di film che, almeno apparentemente, esulano dalle tematiche
consuete; è il caso della citazione dell'espressionismo tedesco con Shadows and fog (1991),
dello pseudo-poliziesco Manhattan murder mystery (1993), e di Bullets on Broadway (1994),
una commedia che dietro ai buffi retroscena del teatro degli anni Venti, si concentra sulla
perdita dell'ispirazione poetica. In ogni caso, per il regista, è più che mai difficile distinguere
vita e cinema, essendo l'uno la fedele traduzione in immagini dell'altra: nei suoi film si
ritrovano i genitori ossessivi, che si auspicano per il figlio un futuro da farmacista o bancario,
gli amori disastrati (tre matrimoni, il primo a 19 anni e l'ultimo "scandaloso" con la figlia
adottiva, Soon-Yi Previn); senza contare le interminabili sedute di psicanalisi, individuali e di
22
gruppo, la passione per la musica jazz e per il clarinetto, il continuo riferimento a New York
("Una mia isola. Lì mi sento sicuro. Ci sono i miei ristoranti, i miei cinema, il mio lavoro, i miei
amici.") e le citazione dei suoi grandi miti cinematografici, i fratelli Marx, Bergman, Fellini e
Humphrey Bogart.
Sicuramente il più europeo dei registi americani, il suo cinema potrebbe essere sintetizzato
in poche parole: psicanalisi, sesso, New York, ebraismo e musica jazz (lui stesso si esibisce al
clarinetto ogni lunedì sera al Michael's Pub di New York). Soltanto pochi altri registi
(Federico Fellini, Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni, tutti autori cari al nostro) hanno
avuto lo stesso peso nella cultura "alta" della seconda metà del Novecento.
Oggi Woody Allen è l’antitesi del suo personaggio cinematografico, tipicamente frenetico e
in crisi. Almeno tutorialmente parlando è padrone in tutto e per tutto della propria opera e
del proprio tempo. Particolarmente centrato appare il giudizio che lui stesso da di se: “sono
una persona seria, un lavoratore disciplinato, mi interessa la scrittura, la letteratura, mi
interessano il teatro e il cinema. Non sono un inetto come mi dipingono per raggiungere un
effetto comico. So che la mia vita non è una serie di problemi catastrofici talmente assurdi
da diventare buffi. La mia è un’esistenza molto più banale.”
Decenni di fama e successi lo hanno reso senza dubbio un uomo molto meno timido e
cordiale di quanto fosse. 15
2.3
Provare a raccontarsi tra critica e pubblico
Di tutti i film nella vasta filmografia di Woody Allen, Annie Hall (1977) è quello con cui,
indubbiamente, si misurano tutti gli altri suoi film. Spesso critici e spettatori annunciano
drammaticamente che la stella dell’autore newyorchese è ormai spenta, che la sua vena
creativa si sta esaurendo e che il suo intellettualismo comico non sia più quello di una volta:
Annie Hall fu già negli anni Settanta una risposta a tutto questo, una dichiarazione a nudo di
vulnerabilità, di come un uomo trasformi tutto in una barzelletta per cercare di coprire la sua
miseria . Il film, in fondo rappresenta una sorta di autoritratto di come Allen stesso vedeva la
sua immagine, si potrebbe quindi dire, parafrasando un passo del paragrafo 1.4, che Alvy
15
La biografia di Woody Allen è tratta da Conversazioni su di me e tutto il resto, Eric Lax [2007]
23
Singer, protagonista del film, e in conclusione la rappresentazione dello sguardo di Woody
Allen su se stesso.
Il film ha anche stabilito molti dei temi e degli stili con cui Allen avrebbe fatto i conti molto
spesso nella sua produzione e nella sua vita come ad esempio dal punto di vista narrativo la
sessualità, la psicoanalisi (Frequenta per la prima volta uno specialista nel 1959, a soli
ventiquattro anni, poiché inizia a sentirsi malinconico senza capirne il motivo. Da allora la
terapia diventa un appuntamento fisso ed irrinunciabile, in media una volta a settimana,
tranne brevi periodi di pausa. In momenti più intensi, invece, Allen arriva a frequentare lo
studio di psicologi addirittura tre volte a settimana) la difficoltà nei rapporti con l’altro sesso
e l’impossibilità al raggiungimento della felicità nei suoi personaggi (Annie Hall avrebbe
dovuto chiamarsi, infatti, Anedonia, termine che in psichiatria descrive l'incapacità di un
paziente nel provare piacere, anche in circostanze e attività normalmente piacevoli come
dormire, nutrirsi, le esperienze sessuali e il contatto sociale). Dal punto di vista stilistico da
troviamo invece il jazz e la musica classica,la narrazione dettata da una voce fuori campo e
soprattutto l’utilizzo del camera look che accentua l’introspettività del personaggio che si da
in pasto psicologicamente allo spettatore: metaforicamente è il subconscio di Allen a darsi in
pasto al pubblico.
Da quando Annie Hall, inaspettatamente, batté come miglior film Star Wars nel 1978, la
carriera di Allen fu elevata a nuove altezze, se non commercialmente parlando lo fu a livello
artistico. In breve, egli ebbe la libertà di fare i film che voleva e soprattutto come
voleva. Dopo Annie Hall, i suoi film hanno esplorato molti degli stessi concetti presenti in
questo film, così come una varietà di temi totalmente nuovi,scorrendo tutto, dalla morte alla
separazione, dalla religione (o mancanza) alla psicoanalisi, e alle ossessioni. Per mostrare
tutto ciò Allen seguì due diverse strade nella creazione dei suoi film: in alcuni filosofava in
correnti sotterranee tragico-esistenzialistiche, in altri suoi film, erano i toni comico-sarcastici
a mostrare tutto l’interiore ragionamento dell’autore.
Allen, negli ultimi trent’anni è riuscito a produrre circa un film all’anno e ancora Annie Hall
continua a brillare come la quintessenza della sua produzione, la definizione emblematica
del suo cinema. Non si può non dire però che ci fu un secondo film a decretare la fama di
Woody Allen agli alti livelli intellettuali e artistici con cui oggi viene universalmente
riconosciuto. Pubblicato due anni più tardi, Manhattan , seconda pietra miliare nel cinema
alleniano, era ed è continuamente confrontato con Annie Hall. In questo film Allen è Isaac è
24
uno scrittore televisivo nevrotico e con una vita sentimentale disastrata. L’ex moglie l’ha
lasciato per un’altra donna, dopo aver pubblicato in un libro ogni scabroso dettaglio del loro
ménage. lsaac ha una relazione con una diciassettenne, che lo adora ma che lui vuole
lasciare, e si innamora dell’ex amante del suo migliore amico. Commedia romantica solo in
apparenza (la trama potenzialmente è buona per qualsiasi soap). Manhattan, uno dei film
più riusciti di Woody Allen, è in realtà un’amara riflessione sul cinismo e la superficialità dei
rapporti umani e sullo spregiudicato balletto degli accoppiamenti. I dialoghi sofisticati, lo
humour sferzante celano, ma mai fino in fondo, l’incapacità di misurarsi con la verità dei
sentimenti più autentici, salvandosi solo con la forza delle parole (incredibile la pervicacia
con cui gli uomini insistono a lasciare le loro compagne sostenendo che è per il loro bene).
Allen si rappresenta come un uomo nevrotico, che odia troppo se stesso per lasciare che
qualcun altro lo ami. Ambientato a Manhattan proprio come Annie Hall e come in
quest’ultimo è presente nel cast Diane Keaton.
Non ci volle naturalmente molto perché la critica, quasi all'unanimità, decise che a Allen
piaceva fare lo stesso film più e più volte. La stessa critica e gli stessi spettatori che in
qualche modo contribuirono a creargli proprio l’identità che tutt’ora noi conosciamo.
Oggi, infatti, molti film e polemiche personali dopo, Allen è considerato come una vecchia
versione del quarantenne di Annie Hall, un personaggio occhialuto, nevrotico, cinico e
sprezzante, consumato dall’analisi, ed emotivamente fragile, non in grado di abbracciare la
felicità intesa come il resto del mondo la vede culmine di questo pensiero rimane senza
dubbio il film del 1997 Deconstructing Harry. Ancora oggi, infatti, la critica, invece di
esaminare fino a che punto il dialogo su Allen ha influenzato le analisi effettuate sulle sue
opere, continua (piuttosto ostinatamente) ad insistere sul fatto che sia Allen stesso l'unico
responsabile della sua immagine e una risposta a questo discorso arriva decisa e pesante nel
1983 con il film Zelig, opera capace allo stesso tempo di cambiare il lessico cinematografico e
di mostrare come l’uomo dia alle persone, di volta in volta, l’immagine di sé che essi si
aspettano solo per poter essere accettato e a costo di eclissare la propria reale
identità:“L’esistenza di Zelig è una non esistenza privato di personalità le seu qualità umane
da tempo smarrite nelle peripezie della vita, sta seduto da solo fissando il vuoto in silenzio. È
una cifra, una nullità un fenomeno da baraccone”16
16
Cfr. Zelig, Woody Allen [1983]
25
2.4
I film: dalla creazione dell’identità alla decostruzione
Newyorkese, ebreo, nevrotico, colto, sarcastico, intellettuale, sagace, insicuro, ipocondriaco,
gracile. Con dei grossi occhiali dalla montatura nera, gli abiti dimessi, amante del jazz e del
sesso; tra grattacieli e appartamenti moderni, disteso dentro letti di splendide donne
complicate e sopra lettini di psicanalisti incapaci; alle prese con una società di idioti e ottusi,
violenti e rancorosi, saccenti e arroganti.
Lunghe liste di luoghi comuni su Woody Allen: aggettivi e situazioni messi in fila, e ancora
insufficienti a definire uno dei più grandi geni del Novecento.
Allen risulta imprevedibile e questo carattere diventa presto un modello riconoscibilissimo a
tratti seriale analizzando i temi e lo stile: è la battuta il traino di questa imprevedibilità,
battuta o gag che rovescia l’ipocrisia della realtà, con allena la comicità si fa illuminante e
liberatoria.
Il cinema di Allen evade nella fantasia e nel sogno fino a fondersi in un continuo transfert, di
cui una immaginaria e metafisica Manhattan è lo scenario-principe. È la maschera comica
che sale sulla cattedra della filosofia e della letteratura; dietro la risata cela l'orribile
sentimento di un tempo che scorre inafferrabile, della miserevole condizione umana di
fallimenti e rimorsi e rimpianti, la fragilità del vivere, l'insensatezza del caso, l'incombenza
della morte; l'insufficienza dell'arte, della religione, a volte perfino dell'amore nel placare le
sofferenze. E lì dove tutto diventa inutile spesso le uniche risposte sono di nuovo il Cinema,
pochi istanti d'amore, oppure una lista di cose per cui vale la pena vivere, stilata sdraiati sul
divano.
Il suo vero debutto al cinema avviene nel 1969 con il film Take The Money And Run prodotto
dalla Palomar, casa di produzione appena formatasi, che affida ad Allen stesso la regia,
concedendogli molta libertà. Il protagonista è Virgil Starkwell, aspirante gangster vigliacco,
maldestro e fissato con le donne: uno standard comico presto riconoscibile, preso in prestito
dalla tradizione umoristica ebraica dello schlemiel, lo sciocco, imbranato e sfortunatissimo
cui si erano già ispirati maestri come i fratelli Marx e Charlie Chaplin.
Innumerevoli le gag, la più celebre delle quali è probabilmente quella del colpo in banca: un
messaggio scritto male da Virgil ingenera un'interminabile discussione tra cassieri e direttori
sul fatto che si tratti realmente di una rapina.
Allen in quest’opera adopera il suo "buonsenso" con uno stile ancora grezzo, che contiene
riferimenti e citazioni cinematografiche, primi rimandi all'ebraismo e alla psicanalisi (tra cui
26
la gag degli occhiali pestati per sette volte: la limitazione della vista, simbolo del rifiuto da
parte della società), un uso sardonico dei materiali d'archivio.
È attraverso il primo di una lunga teoria di "perdenti", che Allen inizia anche a delineare la
sua ideologia dell'everyman, schiacciato dai modelli di successo della società massificata.
Virgil, infatti, vuole affermarsi come criminale ma non disdegna l'idea di cambiare vita (si fa
per dire, ironizza Allen) diventando "senatore". Eppure è tragicamente destinato a una
sequela di fallimenti. È rifiutato persino dai teppisti del quartiere. E neanche i genitori coperti dalle maschere di Groucho Marx per non farsi riconoscere nelle loro esilaranti
"testimonianze" - riescono ad accettarlo. Mentre alla prima moglie è affidato il suo epitaffio
definitivo: "Non ebbe mai un riconoscimento".
Al termine delle riprese di Take The Money And Run Allen viene messo sotto contratto dalla
United Artists, dirigendo il film Bananas nel 1971. Slapstick comedy "casualmente politica",
come la definirà lui, che mette alla berlina i vari staterelli dittatoriali del Sudamerica
esportatori di banane, ma soprattutto la rivoluzione castrista cubana (da qui la smisurata
barba posticcia del protagonista).Bananas narra la casualissima ascesa al potere di Fielding
Mellish, un goffo collaudatore che sbarca il lunario verificando la funzionalità di apparecchi
come il "dirigenginnico", in grado di rassodare la muscolatura anche al manager più
sedentario. Trascinato dalla giovane militante Nancy (Louise Lasser, la sua seconda moglie) a
San Marcos/Bananas, viene fatto prigioniero dai guerriglieri. Fino a quando, dopo una serie
di rocambolesche vicissitudini (tra cui il golpe di un simil-Castro che impone lo svedese come
lingua ufficiale e cambi di biancheria intima ogni mezz'ora!) diventa il nuovo, barbutissimo
presidente, finendo con l'essere arrestato al suo ritorno negli Stati Uniti. Qui ha luogo un
esilarante processo, con Edgar Hoover, lo storico capo della Cia, travestito da donna di
colore, e lo stesso Fielding che, imbavagliato e legato, costringe alla confessione un altro
testimone (parodia fin troppo esplicita del processo ai "sette" di Chicago, guidati dal leader
delle Pantere nere, Bob Seattle).
Geniale pastiche di generi , tra gag, giochi di parole e battute fulminanti, sgangherato nella
sua costruzione, priva di un filo narrativo coerente, e accompagnato ossessivamente dal
tema musicale ("Quiero la noche con pasion"),Bananas è il più divertente dei primi film
alleniani ma è al contempo un nuovo manifesto di un pensiero fortemente critico sulla
società americana. Allen da un lato sbeffeggia la mitologia guevariana e castrista, dall'altro
condanna senza mezzi termini l'azione della Cia e l'appoggio statunitense ai vicini regimi
dittatoriali del Sudamerica. Ma soprattutto, nel suo mirino, finiscono la società dei media,
27
dove è la televisione a stabilire cosa sia vero o no (il frequente ricorso ai reportage e alle
telecronache, inclusa quella finale, che racconta sardonicamente la prima notte di nozze di
Fielding e Nancy come un incontro di pugilato) e, in definitiva, la società
dell'incomunicabilità (emblematica la farneticante arringa in aula: "Questo processo è una
parodia, è la parodia di un'impostura di una beffa di un'impostura di due parodie di una
beffa"). Ma quello della decostruzione linguistica resterà uno dei temi centrali di tutta la
produzione alleniana.
Bananas entusiasma solo parte di una critica forse non ancora matura per comprendere la
modernità del suo linguaggio comico, ma riscuote ottimi consensi di pubblico, soprattutto in
quell'Europa che spesso meglio della madrepatria saprà apprezzare la produzione alleniana.
La prova successiva, però, non è davanti alla macchina da presa. Allen, infatti, scrive e recita
il ruolo di protagonista per la commedia teatrale Play It Again, Sam, 1972, omaggio e
citazione di Casablanca, diretta a Broadway da Joe Hardy ma non pensa di trarne un film.
Quando i suoi agenti vendono la storia per il cinema, rifiuta di dirigerla, trattandosi di un
progetto per lui ormai vecchio ed esaurito, poco stimolante. Si limita a recitarvi con il cast
originale.
Anche se la regia cinematografica viene affidata a Herbert Ross, Play It Again, Sam è
emblematico per sondare il ricorrente e fondamentale rapporto tra realtà e fantasia nel
cinema di Allen che come disse “Hanno detto che il tema principale di tutti i miei film è la
differenza tra la realtà e la fantasia. In effetti è un tema che ricorre molto spesso, e penso
dipenda essenzialmente dal fatto che odio la realtà. Ma sai, purtroppo la realtà è l'unico
posto in cui possiamo mangiarci una bella bistecca per cena”.
Il protagonista Allan Felix (Tentando di rifarsi al titolo, chiaro riferimento a Casablanca del
film in italia Allan venne tradotto con Sam), plagiato dal suo "angelo custode" Humphrey
Bogart, cerca di trasformare la vita in situazione filmica, come fuga da un presente che non
funziona. È un altro leit motiv dell'opera di Allen, che troverà ancor più compiuta definizione
su La rosa purpurea del Cairo, dove il cinema uscirà direttamente dallo schermo per farsi vita
reale. "Credo che tutto questo derivi dalla mia infanzia, durante la quale fuggivo
continuamente al cinema". Allen spiega come il mondo perfetto di telefoni bianchi, donne
bellissime e uomini con la battuta pronta fosse una via di fuga dai problemi reali, che ha
avuto su di lui "un'influenza schiacciante" mai superata. "Il desiderio di controllare la realtà,
di riuscire a sceneggiare la realtà e far andare a finire le cose come vuoi tu. Perché l'autore
non fa che creare un mondo in cui gli piacerebbe vivere".
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Oltre a indagare lo scarto tra realtà e fantasia, Play It Again, Sam offre un nuovo, brillante
spaccato dell'umorismo alleniano, che si regge su situazioni quotidiane, ottimi dialoghi e
citazioni cinematografiche, e trova posto nella New York degli amori e dei tradimenti, delle
nevrosi e delle insicurezze, degli uomini d'affari e delle donne superficiali.
Ma Play It Again, Sam è importante anche per un aspetto di vita privata: è sul palco di
Broadway che Allen conosce Diane Keaton, con la quale inizia una delle sue più importanti
relazioni sentimentali che si concluderà alla fine del decennio (i due resteranno sempre in
ottimi rapporti e si ritroveranno poi anche sul set). Uscito distrutto dal primo matrimonio
con la pianista jazz Harlene Rosen e dal secondo con l'attrice Louise Lasser, Allen trova nella
Keaton quello che - anche a suo dire - resterà il grande amore della sua vita. La descrive
come una donna ricca di talento e di gusto, colta, straordinariamente spiritosa. Una persona
del cui giudizio si fida ciecamente. "Molto spesso mi sono trovato a vedere le cose attraverso
i suoi occhi, e questo ha davvero migliorato e ampliato il mio modo di percepire le cose. Lei
ha una grande influenza su di me". Nessun altra musa alleniana saprà mai eguagliarne
fascino e verve.
Tornati a casa una sera da una partita di pallacanestro, Allen e Diane Keaton vedono in tv il
dottor David Reuben che parla del suo bestseller, Everything you always wanted to know
about sex (but were afraid to ask), 1972. Allen trova sia un ottimo pretesto per un film, Il
tema del sesso era già presente negli stand-up di Allen e tornerà spesso nel suo cinema, in
chiave più o meno seria, freudiana, come componente basilare delle relazioni, o per
ridicolizzare (come in questo caso) il modo di percepire il sesso negli Usa, infantile e
puritano, al quale si contrappone il modello "emancipato" post-sessantottino.
Il capitolo successivo cambia completamente registro. Allen propone alla United un film di
quattro ore, a metà del quale il protagonista viene ibernato per risvegliarsi duecento anni
dopo nella New York del futuro. Data la difficoltà di un progetto simile, il regista newyorkese
mantiene solo la seconda parte dell'idea per Sleeper, 1973. Un omaggio alla slapstick
comedy dove Allen indossa ancora la propria maschera comica prima maniera e in cui il
ruolo femminile è cucito su misura per una bellissima Diane Keaton, sulla falsariga delle
eroine dei film di Buster Keaton. Il film sembra richiamare le atmosfere keatoniane anche
negli inseguimenti, nel pessimo rapporto con le macchine (incluso il leggendario Orgasmatic,
l'infernale marchingegno che provoca orgasmi automatici) e in una comicità corporale e
fisica che si alterna alla satira politica e di costume degli anni Settanta (televisione, feste,
ideologie).
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Ad Allen non sembra interessare tanto la politica (sebbene non manchino frecciate al Reagan
allora governatore della California e persino preveggenti battute su Nixon e il Watergate), né
la fantapolitica. L'ambientazione futura è essenzialmente un pretesto comico, ma non
mancano rimandi alle opere di Aldous Huxley e George Orwell (la spersonalizzazione,
l'automazione e rarefazione, anche del piacere e dei sentimenti, la perdita della memoria
collettiva), uniti a un generale senso di angoscia per un futuro dominato dalle macchine. E le
ultime battute "credo nel sesso e nel decesso, due cose veramente fondamentali della vita"
sono già una summa definitiva del pensiero dell’autore.
Raggiunta ormai una discreta fama di autore comico, Allen alza il tiro sublimando in un colpo
solo il suo genio umoristico e la sua vena cinefila e letteraria in una commedia raffinatissima,
che lui stesso ricorderà come la sua miglior opera del primo periodo. Love And Death del
1975 è un ritorno alle origini, in tutti i sensi. Il film viene infatti girato tra la Francia e
l'Ungheria, il paese dove sono nati i nonni del regista. Con un taglio marcatamente europeo,
a cominciare dalla fotografia, firmata dal francese Ghislain Coquet. Ed europee sono anche
molte delle innumerevoli citazioni che costellano la pellicola. Quelle cinematografiche,
anzitutto, da Bergman con tanto di finale che fa il verso a Il Settimo Sigillo a Ejzenstein (le
"maschere" russe iniziali e un chiaro tributo alla "Corazzata Potemkin" nella sequenza dei tre
leoni di Pietroburgo). Ma infiniti sono anche i rimandi letterari e filosofici, a cominciare da
quello più esplicito, "Guerra e pace" di Tolstoj, a svariati ammiccamenti alla narrativa russa
(Dostoevskij, Checov, Turgenev), da parodie del Romanticismo a riflessioni esistenziali con
Spinoza e San Tommaso. Il tutto condito dalle musiche sinfoniche di Sergej Prokofiev.
Una commedia colta, dunque, che però non sfocia mai in mero intellettualismo, grazie alla
straordinaria leggerezza che la guida dalla prima all'ultima scena. Pur proiettato nel dramma,
Allen non rinuncia al suo consueto nonsense, al gusto per la battuta sardonica ("Che effetto
fa essere morti? Hai presente il pollo al ristorante di Tretskij? Beh, è peggio"), alle sue
ossessioni sessuali ("Il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere", "Il sesso
senza amore è una vacua esperienza. D'accordo ma... nella sfera delle esperienze vacue, è
una delle migliori").
Il protagonista, l'occhialuto e codardo Boris Grushenko, dovrebbe essere un contadinotto
russo di inizio Ottecento, ma incarna in realtà tutte le nevrosi e le ossessioni dell'intellettuale
newyorkese contemporaneo. La passione per la cugina Sonja (una strepitosa Diane Keaton),
moglie disinvolta d'un ripugnante mercante d'aringhe, lo spingerà a diventare "eroe per
caso", attentando alla vita di Napoleone, invasore della "Madre Russia", e finendo
irrimediabilmente nei guai. Proprio i contorti e spassosissimi dialoghi tra Allen e la Keaton
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(ormai pienamente co-protagonista) sono il motore della comedy, che gira sempre al
massimo, senza pause o cedimenti. La miriade di gag non nasconde però l'ennesima satira
contro le istituzioni (lo zar e Napoleone, come metafore tragicomiche dell'inettitudine dei
potenti), le ossessioni tanatologiche e uno sguardo pessimista su una condizione umana solo
parzialmente riscattata dall'amore. Torna anche la demolizione del linguaggio, preso
beffardamente alla lettera (il pezzetto di terra del padre che è una vera e propria zolla),
distorto in nonsense o parodiato attraverso i continui luoghi comuni e giochi di parole.
Stavolta anche la critica applaude unanime. E Allen conquista anche l'Orso d'argento
speciale al Festival di Berlino.
Nel 1977, dunque, Woody Allen è già l'indiscusso re della risata intelligente. Ma l'amore per
il cinema di Ingmar Bergman lo spinge più in là, nei dirupi della psiche e dei rapporti di
coppia, seppur sempre sdrammatizzati da una implacabile ironia jewish. Affiancato da
Marshall Brickman, parte da un giallo-rosa per approdare a una storia sentimentale e
autobiografica. Cambia anche il titolo: all'inizio è "Anedonia" (in greco, "l'impossibilità di
provare piacere", una malattia tipica dei suoi personaggi), poi diventa "Annie Hall", dal
diminutivo e dal vero cognome della Keaton. Tutto il film, in realtà, è un'ode alla deliziosa
Diane, in forma straripante con le sue gag, i suoi sorrisi, le sue improvvisazioni e il suo look
da Mary Poppins.
"Io non vorrei mai appartenere a un club che contasse tra i suoi membri uno come me".
Sguardo dritto nella macchina da presa, Alvy Singer si presenta così, aprendo il sipario sulla
più incantevole delle commedie alleniane. Ma se la citazione di Groucho Marx è solo la
prima di un'infinita serie di battute irresistibili, si può senz'altro definire Annie Hall il primo
film non-comico di Allen. L'espediente del monologo rivolto al pubblico prelude infatti a un
nuovo genere di dramma mascherato da commedia. Una nervous romance. E sarà la prima
di una lunga serie, tutta rigorosamente a sfondo newyorkese.
Allen è il paziente sul lettino dello psicoanalista ("ci vado da 15 anni... gli do un altro anno,
poi vado a Lourdes!"), si alterna dentro al film e al suo esterno, insieme protagonista e
osservatore. Il legame con le pellicole precedenti sta nella struttura frammentata e nella
libertà della costruzione narrativa: un flusso di situazioni che si susseguono in un continuo
andirivieni tra presente e passato che fece disperare il povero Ralph Rosemblum in fase di
montaggio (il materiale originario era di 4 ore!). Ecco allora la "confessione" di Alvy: bambino
dal precoce appetito sessuale, cresciuto in una litigiosa famiglia ebrea, con le montagne
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russe sopra il tetto di casa (!) e soggetto a qualche depressione "per i timori di espansione
dell'universo". Divenuto adulto, è un comico di successo, con due matrimoni falliti alle spalle
e una collezione rara di ossessioni. Tuttavia ha un discreto ascendente sulle donne: riduce la
saputella Allison Portchnik a "stereotipo culturale", s'infila nel letto della mistica Pat,
cronista di "Rolling Stone". Poi, durante una partita di tennis, incontra Annie, ragazza svitata
di famiglia wasp, con velleità da cantante. Sembra quasi il suo alter ego: impacciata e
confusa, tenta di ingannare le insicurezze con buffe interiezioni ("la-di-da"), marijuana prima
del sesso e folli scorribande su una vecchia Volkswagen.
La love-story sboccia in una scena da cineteca: i due balbettano una surreale conversazione
sul senso dell'estetica, mentre i sottotitoli ne svelano i pensieri reali a sfondo sessuale. Alvy
avvia Annie alla psicoanalisi, la incoraggia a nuove letture e la trascina a vedere i film di
Bergman. Ma sarà proprio la psicoanalisi a emancipare Annie, spingendola a caccia di gloria
in quella odiata California che l'anti-hollywoodiano Allen ha elevato a simulacro di tutti gli
orrori (il cibo macrobiotico, l'architettura kitsch, i riti satanici, il jet-set, la macchina per gli
applausi).
Il finale riserverà nuovi incontri e un commovente amarcord.
Io e Annie non è solo l'archetipo (e la migliore) di tutte le commedie di Woody Allen. È
l'essenza della sua arte del contrasto uomo/donna, dell'eterna incapacità di capirsi,
dell'anedonia dei rapporti sentimentali. È l'incanto - rinnovato poi nella rapsodia di
Manhattan - di una "New York dell'anima" opposta titanicamente al resto del mondo. La
prospettiva è solo apparentemente individuale. Perché l'inadeguatezza di Alvy è anche il
prezzo di un decennio che ha bruciato gli ideali romantici dei 60, inseguendo nuovi miti: il
successo, la libertà sessuale, la vita da single, l'emancipazione femminile.
Ci sono tutti gli ingredienti indispensabili a una commedia: dialoghi scoppiettanti, humour,
ritmo, leggerezza, intelligenza, malinconia. Ma il gusto si annida anche nei tanti, memorabili
dettagli: le aragoste che guizzano tra le mani, il sapone nero, il copricapo spaziale contro il
sole, l'auto-scontro, il santone alla toilette, il ragno enorme e le racchette Dunlop. Il tutto
reso attraverso un uso geniale del mezzo cinematografico, tra apparizioni improvvise, splitscreen, piani sequenza, flashback, inserti d'animazione e camera look. Anche la fotografia - a
cura dell'ottimo Gordon Willis ("Il Padrino I e II") - è multiforme: grigiastra per gli esterni di
New York, abbagliante per la California e dorata per i ricordi dell'infanzia.
Interiors (Interiors, 1978) si colloca a metà tra due capolavori, a suggello di uno dei periodi
più brillanti della carriera di Allen, che, dopo la consacrazione dell'Oscar, si guadagna la
facoltà di poter girare il suo primo film drammatico. Ma il pubblico si sente tradito dal
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cambio di stile, e la critica americana accoglie freddamente questo dramma all'europea
sull'angoscia della morte, fortemente debitore di Bergman. Un film che, se da un lato pecca
di una certa inesperienza espressiva, dall'altro si rivela uno dei più intensi e profondi per
contenuti. Al centro, la figura di una madre forte ma disperata in seguito all'abbandono del
marito, circondata dalle tre figlie: un'attrice di soap opera, una poetessa fredda, che cerca
nell'arte rifugio e consolazione, e una donna senza talento, per questo più vera e sincera
delle altre. Tre sorelle a confronto, tre ritratti di donne come sarà poi per Hannah and Her
Sisters. Oltre all'inevitabilità della morte, qui Allen si concentra sul finto sollievo dell'arte
("Talvolta penso che l'arte sia la religione degli intellettuali. [...] Ma la verità è che l'arte non
ti salva"), la vecchiaia, e il valore del talento o la sua mancanza.
Nel 1979 fu un colloquio con Gordon Willis, montatore storico dei film di Woody Allen, a
ispirare l'idea per un film in widescreen e bianco e nero. È la suggestione (ennesima) di un
cinema passato, che qui ha anche la funzione di esaltare fino in fondo il “colore" di New
York, uno dei grandi protagonisti di Manhattan (Manhattan, 1979). Un inno alla sua città in
cui si sublima fino in fondo il cinema di Allen e che contribuisce a creare l'impronta più
marcata nella sua filmografia, che qui ottiene la consacrazione definitiva.
L'Allen di Manhattan è quello che indaga i sentimenti, le relazioni e i tradimenti, quello che
ha problemi con le donne, che fa battute argute e frequenta psicanalisti. Ride delle
idiosincrasie di quella New York colta e intellettuale, coi suoi personaggi nervosi, nevrotici,
immaturi e irrazionali.
La musica di George Gershwin e la voce fuori campo di Isaac Davis (Allen), che non può
funzionare in nessun posto se non a New York, aprono una storia di (scambi di) coppie, che
nasce nel momento in cui Isaac conosce Mary (Diane Keaton in uno dei ruoli più maturi),
amante del suo migliore amico, e i due hanno subito un divertente scontro intellettuale.
Una storia che giunge fino a quel finale struggente e romantico, forse uno dei più belli
dell'intera storia del cinema: quell'elenco di cose per cui vale la pena vivere che aprono gli
occhi al protagonista e lo fanno correre fino a casa di Tracy per quell'addio malinconico e
velatamente ottimista. Manhattan vede un regista elegante e in forma, che gioca con scene
lunghe, movimenti di macchina, inquadrature da cui i personaggi entrano ed escono: uno
stile che ripeterà spesso.).
La città è protagonista con la sua topografia: oltre a quelli più noti, ci sono gli ambienti più
frequenti e frequentati in Allen: appartamenti, librerie, teatri, cinema, musei, sale da té e
ristoranti.
33
Ma dopo il grande successo di Manhattan, arrivano i fraintendimenti. In Stardust Memories
del 1980, infatti, pubblico e critica identificano lo stesso Allen con il personaggio del regista
in crisi, arrabbiato con gli spettatori. Non sarà la prima volta che viene individuata una
componente autobiografica anche dove il regista newyorkese la nega con decisione. Film di
difficile lavorazione, presenta tracce di Fellini, anche nella sequenza onirica iniziale dove
Sandy Bates è intrappolato in un vagone di falliti (curiosamente, il finale scartato di Otto e
mezzo avrebbe dovuto svolgersi su un treno). La giustapposizione di realtà e fantasia, un
gusto per il surreale e l'onirico, la magia, il cinema, New York, l'amore tormentato e un
attento controllo del mezzo rendono in realtà la pellicola una delle più interessanti della
filmografia alleniana.
In Zelig del 1983 Mia Farrow è Eudora Fletcher, la psichiatra che tenta di curare l'ineffabile
protagonista. In una New York fine anni Venti, il piccolo impiegato Leonard Zelig (Woody
Allen) è infatti vittima di una ignota malattia : nella sua smisurata smania di essere accettato
e amato dal prossimo, ha sviluppato la capacità camaleontica di assumere le sembianze e la
personalità di chiunque incontri. Ricoverato in ospedale, Zelig (in yiddish "benedetto") viene
affidato alle amorevoli cure della sua strizzacervelli. Ma nel frattempo il suo
"camaleontismo" gli frutta un'inattesa popolarità, che la sorellastra Ruth cerca di sfruttare
trasformandolo in un fenomeno da baraccone. Seguono svariate ed esilaranti peripezie,
inclusa un'imprevedibile presenza di Zelig alle spalle di Hitler durante un comizio a Monaco.
Fino all'altrettanto inatteso trionfo finale.
Zelig, oltre che prodigio d'inventiva e tecnica cinematografica, è l'apoteosi dell'Allenpensiero. La parabola dell'everyman giunge qui alle sue conseguenze estreme: l'unico modo
per farsi accettare è non solo l'omologazione ma la completa identificazione col prossimo
("Mi dà sicurezza essere come gli altri", ammetterà in trance). Se essere veramente se stessi
non paga, tanto vale essere falsi. Uno, nessuno e centomila: Zelig è una maschera
pirandelliana, il simbolo di tutte le aberrazioni del trasformismo, nonché l'approdo
parossistico di un classico argomento cinematografico come quello del "doppio". "La
malattia di Zelig - spiegherà Woody Allen al New York Times è un male che appartiene a
ciascuno di noi. Nel film è portata all'estremo. Ovvero tutto ciò che può portare al
conformismo e infine al fascismo. Perciò ho scelto la forma del documentario: non volevo
mostrare questo personaggio nel suo privato". Non è un caso, del resto, il taglio da
cinegiornale, tra sonoro distorto, pellicola rigata, immagini d'epoca ritoccate, oltre alle (vere)
interviste a personaggi come Irvin Howe, Saul Bellow, Bruno Bettelheim, Susan Sontag.
Allen, infatti, punta ancora una volta l'indice contro i media, strumenti-chiave di propaganda
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per qualsiasi potere, che sia quello nazista (sbertucciato nella sequenza succitata,
doppiamente ironica: cosa ci fa un ebreo, sul palco con il Fuhrer?) o anche solo quello di ogni
governo occidentale che, attraverso questi, riesca a manipolare le coscienze.
Ma Zelig è anche e soprattutto un altro film sull'amore come unica risposta positiva al
dramma dell'esistenza: ciò che muove il protagonista è infatti, anzitutto, il bisogno di
suscitare sentimenti, di essere amato. "Non fu l'approvazione delle masse, ma l'amore di una
donna a cambiare la sua vita", chioserà il commentatore, a conclusione del film. Crollate le
certezze, ammesso anche l'inconfessabile ("ho letto solo le prime due pagine di Moby
Dick!"), Zelig riesce a farsi "ricostruire" la personalità dalla dottoressa Fletcher solo
abbandonandosi all'amore.
L'immaginario iconografico dell'infanzia cinematografica di Allen riemerge di nuovo in un
altro omaggio, questa volta alle commedie romantiche degli anni Trenta e Quaranta, The
Purple Rose of Cairo, 1985. Il regista newyorkese spinge all'eccesso il rapporto
realtà/fantasia con la storia di Cecilia, una solitaria cameriera, fanatica senza speranza dei
film di Hollywood e innamorata di un attore (Jeff Daniels) che uscirà letteralmente dallo
schermo, entrando nel mondo reale. Stavolta è il cinema stesso, il suo rapporto con il
pubblico, a finire sul lettino dello psicanalista.
Alla fine del film tutti torneranno al proprio posto, ma, almeno per un istante, potranno dire
di aver vissuto il loro sogno.
Ambientata nell'epoca della Grande Depressione, La rosa purpurea del Cairo è un'altra
commedia complessa, filosofica, ma al contempo leggera e immediata. Con un velo di
malinconica dolcezza a impreziosire una trama fin troppo esile e lineare. È la metafora della
presa di coscienza e dell'incanto del cinema come via di fuga, rituale luogo di riparo e
consolazione.
Riparo e consolazione nel buio della sala che troverà anche, nel 1986, Micky Sachs (Allen) in
Hannah and Her Sisters, nel momento di maggior depressione. È un film profondo, uno dei
capolavori alleniani, una storia newyorkese corale e di ampio respiro, con battute ispirate e
momenti memorabili, ipocondrie e nevrosi.
Torna il ritratto di famiglia, il divorzio, la crisi, l'incontro/scontro degli ex, il confronto tra
sorelle. L'etica del senso di colpa, l'arte insufficiente a lenire le sofferenze e l'inutilità della
religione. Struttura narrativa circolare, comincia con un affollato pranzo del Giorno del
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Ringraziamento, nonostante la pigrizia di Allen nel girare scene complesse, e termina con un
finale ottimista (ma non troppo).
Film certamente tra i più importanti e sentiti di Allen, con la sua giostra di situazioni tipiche;
un affresco di vita e di sentimenti riconoscibili, con situazioni orribili che si rovesciano grazie
a pochi scampoli di speranza.
Nel 1987 dirige ben due film, Radio Days e September , altra pellicola di ispirazione felliniana
e bergmaniana.
Nel 1988 dirige Another Woman e partecipa al film collettivo New York Stories, insieme a
Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, dirigendo l'episodio Edipo relitto.
Nel 1989 Crimes and Misdemeanors, uno dei suoi film più amati, ottiene un buon successo di
pubblico e critica. L'anno successivo esce Alice, del quale è protagonista incontrastata Mia
Farrow, l'insicura e sognatrice Alice, Nome che solo in parte ha a che fare con Lewis Carroll,
ma scelto perché tipicamente Wasp, dell'ambiente chic dell'Upper East Side frequentato,
suo malgrado, dal regista. Attraverso l'esoterismo e la fuga dalla realtà, Alice apre gli occhi
sulla propria vita.
È un film sul cambiamento, come sarà Husbands and Wives.
Allen si immerge quindi nelle brume mitteleuropee, tra Lang e Murnau, notte e città, circo e
omicidi, mistero e amore, bianco e nero, Shadows and Fog del 1992. In un piccolo paese
europeo, ricostruito con echi espressionisti, si aggira un assassino efferato. Con la splendida
fotografia anni Venti di Carlo Di Palma. (un finto bianco e nero giocato su svariate gradazioni
di grigio).
Lo stile di regia si rilassa in questi anni, con inquadrature lunghe e di agevole lettura, che
Allen attribuisce alla "pigrizia".
Ma il 1992 è soprattutto l'anno della clamorosa rottura tra Woody Allen e Mia Farrow. Una
separazione dolorosa e avvelenata da uno scandalo che i media provvedono a ingigantire
con dovizia di dettagli. Si scopre, infatti, la relazione di Allen con Soon-Yi, la ragazza coreana
adottata da Mia Farrow e dal marito André Previn nel 1978. Woody e Soon-Yi hanno 35 anni
di differenza, lui 57 e lei 22: la storia fra i due sarebbe iniziata quando lei aveva appena finito
il liceo.
La Farrow - dalla quale Allen ha un figlio biologico, Satchel, e due adottivi, Dylan (oggi nota
come Malone) e Moses, pur non avendolo mai sposato - cita in giudizio il regista,
accusandolo di molestie sessuali a danno di Dylan, e reclamando per sé l'esclusiva custodia
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dei figli. Il giudice conclude che le accuse sono prive di fondamento e la vertenza non giunge
mai in tribunale. Il giudice definisce comunque "inappropriata" la condotta del regista e
affida la custodia dei figli alla Farrow.
È un colpo durissimo all'immagine e alla reputazione di Allen, ma non alla sua vita
sentimentale: "È stato un colpo di fortuna, un punto di svolta in meglio", rivelerà a Vanity
Fair nel 2005, dopo aver sposato otto anni prima Soon-Yi (il 22 dicembre 1997 a Palazzo
Cavalli-Franchetti a Venezia) e adottato con lei due figlie, Bechet e Manzie.
La fine del rapporto con la Farrow segna comunque uno spartiacque nella produzione
alleniana, dopo tredici film girati insieme.
Dopo i film Manhattan murder mystery del 1993, Bullets over Broadway del 1994, Mighty
Aphrodite del 1995 e Everyones says I love you del 1997 arriva l’anno della produzione di
Decostructing Harry forse il miglior film delle due ultime decadi: ritmo serrato, invenzioni
visive e narrative, battute fulminanti e geniali. Nella storia di uno scrittore col blocco, Harry
Block, che andrà malvolentieri a ritirare un riconoscimento Allen decostruisce vita e nevrosi,
passato e presente, sogni e fantasie del protagonista e probabilmente della sua vita con un
montaggio discontinuo, in un corto circuito di storie nella storia.
Metalinguistico (e infarcito di esilaranti volgarità, raccoglie aforismi e momenti memorabili,
come l'attore fuori fuoco (Robin Williams), la morte che commette un errore di omonimia, i
litigi tra Allen e Kirstie Alley, le conversazioni col figlio piccolo sul nome da assegnare al
proprio pene ("Dillinger è perfetto") e la discesa agli inferi presieduti da Billy Christal.
Crisi di coppia, amore, creatività, male di vivere, religione, il salvagente parziale dell'arte: un
compendio enciclopedico del suo cinema più ispirato che rende il film una delle chiavi di
lettura più dirette per accedere alla dimensione Allen.
2.5
Allen e la nevrosi
La Fama di Woody Allen è certamente legata alle sue nevrosi, i suoi temi e i suoi stereotipi
riportano sempre ad un ambito psicanalitico. In un certo senso, il dramma della nevrosi è in
effetti tutto qui: Attribuire a qualcosa o a qualcuno un contenuto inconscio. Si tratta di un
contenuto cosciente rimosso e proiettato in un altro oggetto, persona o situazione.
Attribuiamo quindi una nostra qualità a qualcun altro. Noi proiettiamo in continuazione ma
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non ce ne rendiamo conto, ed interpretarlo può farci del male. Le proiezioni derivano da
qualcosa che è stato cosciente.
Consideriamo ad esempio il nero: su di lui proiettiamo tutto quello che pensiamo, la notte
che fa paura, il buio, le tenebre e via dicendo.
Esiste comunemente la capacità di riconoscere le proprie proiezioni ad un determinato
momento della vita: anche per una persona senza conoscenze psicologiche.
Nel soggetto sano c’è la possibilità di integrare le proiezioni e riconoscere quello che è
estraneo a sé stesso, (è un meccanismo proiettivo di apprendimento, senza proiezione non
ci sarebbe l’apprendimento). Le persone con minore capacità proiettano maggiormente ad
esempio i bambini assicurano che la maestra sa tutto; noi lo facciamo ad esempio con
l’insegnante al quale attribuiamo la conoscenza è ovviamente una proiezione che verrà
meno quando avremo assimilato e compreso, non più in una visione scolastica ma
professionale, la materia stessa.
Il soggetto nevrotico non integra le proiezioni, si difende molto da questo come qualcosa di
incompatibile con la sua coscienza.
Lo psicotico ha una mancanza di capacità d’integrazione delle proiezioni e se lo facesse
questo lo scinderebbe, spaccandolo: lo psicotico interpreta ed allora delira. Freud ha
utilizzato la nevrosi come elemento chiave per comprendere l'apparato psichico. Grazie a
questo, Freud è stato in grado di formare molti, se non tutti i risultati della psicoanalisi. La
nostra ricerca ci ha portato alla convinzione che in Allen vi è una stima vera per la nevrosi,
non perché lui stesso si allinea con inconcludenza nevrotica ma perché riconosce e descrive
la centralità del conflitto nevrotico catturandolo nel suo pensiero individuale.
Le nevrosi di Allen sono da intendere come repressioni, non certo come psicopatologie in
generale.
Per quanto riguarda la nevrosi, Allen ha saputo mettere in scena una serie ampia di
formazioni sintomatiche. Chiarificatrice all’interno della filmografia dell’autore sono
emblematicamente le balbuzie. Nei film di Allen i protagonisti faticano ad affermare la
parola io parlando, per suoi protagonisti, infatti, l'io esiste nel balbettare «Io, io, io ...»: è il
sintomo inventato e reso celebre dal registo sin dal suo esordio dietro la macchina da presa.
Nella vita reale sembra comunque che egli non sia affetto da una balbuzie.
Da Freud abbiamo appreso che il sintomo è sempre una costruzione. In Allen, le balbuzie
applicata alla pronuncia della parola «io» sono un geniale metodo per significare “non
posso, non riesco ad essere me stesso”. Allen utilizza la rappresentazione di un sintomo per
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mostrare sinteticamente l'intera struttura di nevrosi, o meglio lo stato di inconscio tenuto a
freno dalla repressione forzata dal Super-Io. Come sappiamo, il conflitto nevrotico è un
conflitto reale, una battaglia da combattersi all’interno l'individuo e Allen sembra voler
combattere questa battaglia nei propri film, in un terreno neutro come quello
cinematografico aiutato dalla fantasia e dalle infinite possibilità che la narrazione può offrire.
39
Capitolo III – Le analisi dei film
Annie Hall (1977)
Costruzione dell’identità attraverso la psicoanalisi e l’assenza del
piacere
Trama
Alvy Singer è un comico di successo, con due matrimoni falliti alle spalle. Un giorno conosce
Annie Hall, una ragazza timida di cui si innamora. Alvy la incita ad ampliare la propria cultura
e Annie segue i suoi consigli, pur rimanendo insicura. Sessualmente le cose fra i due non
vanno troppo bene e anche le differenze sociali finiscono per pesare. Durante un concerto,
Annie viene notata da un produttore e la cosa fa ingelosire Alvy. Con l'aiuto della psicanalisi,
Annie cresce e decide di interrompere il rapporto con Alvy, ma poi i due partono insieme per
la California. Qui Annie ritrova il discografico che aveva promesso di lanciarla e Alvy rimane
solo. Tornato a New York, decide di scrivere una commedia sulla sua storia d'amore. Il lieto
fine è però opera di fantasia: Annie torna in città e intreccia una serena amicizia con l'exfidanzato.
Analisi
Annie Hall è senza ombra di dubbio il film in cui la costante psicanalitica di Woody Allen
ritorna con più frequenza ed importanza. È il film che apre in qualche modo il filone
autobiografico del regista, qui inizia ad inserire tutti quei tratti della sua personalità, tutte le
sue nevrosi e tutti i suoi comportamenti maniacali che lo hanno fatto conoscere ed amare
nel mondo. Con Annie Hall se da un lato Woody Allen recupera in parte i temi del primo
periodo, dall’altro anticipa con piena evidenza alcuni aspetti delle opere che verranno.
Fin dall’inizio, appena dopo i titoli di testa, Allen si impegna in una delle sue performance
preferite: un monologo rivolto allo spettatore dapprima all’interno di una inquadratura
unica, poi distribuito nell’arco di un montaggio che alterna alcune scene di vita giovanile,
familiare e scolastica, del protagonista stesso.
In qualche momento egli compare all’interno delle scene rievocate addirittura da adulto,
usando, usando così uno stilema classico nell’ambito del flash-back:
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“Essenzialmente è così che io guardo alla vita, piena di solitudine di miseria di sofferenza e d
infelicità e che disgraziatamente dura troppo poco *…+ ultimamente i pensieri più strani
attraversano la mia mente perché sono sui 40 e penso di attraversare una crisi o chissà ché
*…+ Annie ed io abbiamo rotto ed io ancora non riesco a farmene una ragione, io.. io
continuo a studiare i cocci del nostro rapporto nella mia mente e ad esaminare la mia vita
cercando di capire da dove è partita la crepa”
Ecco trasparire dal suo viso e dalle sue parole queste nevrosi, questo suo senso di
inadeguatezza e tutte le sue paure che prendono forma in un delirante discorso sulla sua
vita. Arriva a cercare di capire il motivo del suo sentirsi così depresso e si stupisce perché
non crede di essere mai stato un tipo tetro e arriva ad analizzare la sua infanzia, perfetta
sintesi di psichiatria dove senza che lui se ne renda conto tutte queste sue fobie sono già
presenti. Alvy/Woody da bambino si ritrova dallo psicanalista con sua madre:
Madre: “Il bambino è depresso, improvvisamente non riesce più a fare niente”
Psichiatra: “Perché sei depresso Alvy?”
Madre: “Dillo al dottor Flechter. È per qualcosa che ha letto…”
Alvy bambino: “L’universo si sta dilatando, *…+ l’universo è tutto e si sta dilatando questo
significa che un bel giorno scoppierà e allora quel giorno sarà la fine di tutto.”
Madre: “Ha smesso anche di fare i compiti.”
Alvy: “A che scopo farli” *…+
Psichiatra: “Non si dilaterà per miliardi e miliardi di anni e noi di qui ad allora dobbiamo
cercare di godercela.”
Ed il piacere il punto fondamentale di tutto il film o meglio l’assenza della possibilità di
provare piacere. L’opera avrebbe dovuto intitolarsi, infatti, Anedonia, uno dei termini più
diffusi nel vocabolario psicanalitico e psichiatrico. Esso sta ad indicare l'incapacità di una
persona a provare qualsiasi tipo di piacere (alimentare, sessuale, sentimenale, emotivo...). Il
tema della perdita del piacere, per quanto sottile e impercettibile, è centrale nel diegesi del
film e probabilmente in tutta la filmografia del regista newyorkese.
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Bisogna tenere ben presente che negli anni settanta, la teoria cinematografica è
particolarmente attenta al tema del "piacere" (visivo) nel cinema. In particolar modo esso si
esprime nel contesto del Femminist Film Theory (FFT) e nelle teorie sul cinema classico
americano, sviluppatesi entrambe nella metà degli anni settanta ed in parte rifatte ad alcuni
studi del filosofo e psichiatra francese Jacques Lacan. Ed è qui che diventa importante citare
il saggio di Laura Mulvey,Piacere visivo e cinema narrativo, pubblicato nel 1975. Come ha
ben spiegato Veronica Pravadelli in La grande Hollywood, " Laura Mulvey ha teorizzato la
centralità dello sguardo nell'esperienza cinematografica: ovvero, lo sguardo è il vettore del
funzionamento dell'apparato, del rapporto spettatore/schermo e delle dinamiche diegetiche
del testo filmico... In primo luogo, il piacere visivo dell'esperienza cinematografica si fonda
sull'attivazione di due pulsioni contraddittorie del guardare , il voyeurismo e il narcisismo.
Queste dinamiche, tuttavia, non sono ugualmente disponibili per lo spettatore e per la
spettatrice, in quanto il cinema classico ha iscritto la differenza sessuale nelle sue strategie
retoriche e, conseguentemente, nell'esperienza spettatoriale... Il cinema classico è costruito
per il solo piacere dello spettatore maschile: se l'identificazione è il riconoscimento di sé
nell'immagine del proprio simile, è chiaro che, poiché è il personaggio maschile a dominare la
scena, con l'azione e lo sguardo, solo l'uomo in sala potrà identificarsi con l'eroe." Come ben
capiamo quindi, nel classicismo cinematografico, il piacere dell'identificazione e quindi dello
sguardo è concesso solamente all'uomo. Ma allo stesso tempo la Mulvey, afferma che il
"cinema classico in realtà permette alla spettatrice di identificarsi con l'immagine
cinematografica... solo in virtù della regressione della fase pre-edipica. In questo caso il
cinema permetterebbe alla donna di riscoprire quel piacere perduto".
"La perdita del piacere" di Io e Annie è qualcosa di più complesso e ha che vedere non più
con la classicità americana bensì con la sua modernità. Nel cinema moderno americano, lo
spettatore diventa parte integrante del racconto narrativo, inoltre, la differenza
spettatore/spettatrice diventa impensabile, in quanto il punto di vista non è più privilegio di
un eroe maschile. I punti di vista nel film si moltiplicano e lo spettatore si libera finalmente
delle modalità maschiliste del cinema classico. Lo spettatore viene ora chiamato in causa più
volte non tanto a giudicare gli eventi, bensì diventa complice del protagonista, l'amico più
fidato, l'ascoltatore per eccellenza cui il protagonista può fare affidamento. Ed è proprio
quest'ultima affermazione ad essere centrale nel film di Woody Allen, che vuole a tutti i costi
qualcuno che gli dia ragione, pretende che lo spettatore si identifichi con lui e lo fa
attraverso quello che Christian Metz 17chiama "funzione d'orientamento" per lo spettatore
da parte di un personaggio-narratore che "sa e fa sapere (focalizzazione mentale)", "sente e
17
Langage et cinema, Christian Metz [1971]
42
fa sentire (focalizzazione uditiva)", "vede e fa vedere (focalizzazione visiva)" e infine "vede e
sente e fa vedere e fa sentire (focalizzazione audiovisiva)". Tecnicamente, questa sorta di
incanalamento dello sguardo e quindi del piacere visivo, a scapito dello spettatore, è data
dal frequente uso del personaggio - narratore (Woody Allen) di parlare "in macchina" da
presa. Il fatto che tale privilegio, però, viene (auto)concesso al solo protagonista del film ci
di-mostra come Allen sia interessato in fin dei conti a parlare esclusivamente di se, della sua
crisi di mezza età e del suo rapporto deludente e "castrante" con le donne. L'instabilità
emotiva, i matrimoni falliti, il rapporto contrastato con Annie Hall, fanno d Alvy Singer un
personaggio ai limiti della depressione, una persona ormai incapace di provare "piacere"
dalla vita. Il massimo che il personaggio-narratore si concede e concede al piacere dello
spettatore è di guardare al passato, ricordarlo con romanticismo e ironia , come gli ultimi
frame del film che riassumono la storia d'amore tra Alvy e Annie.
La storia si svolge innanzitutto atemporalmente: la vicenda comincia, procede, poi si ferma,
torna indietro, va avanti ritorna al punto di partenza. L’atmosfera é ormai quella della
commedia sofisticata. Infine Allen cerca un’uniformitá dello stile attraverso un abile
montaggio ed una regia leggera, dando risalto alla bravura e alla personalitá degli interpreti,
lui compreso.
Annie Hall tratta di come noi raccontiamo storie, ricordiamo relazioni, il nostro proprio
passato e di come imponiamo le nostre menti razionali sugli eventi fortuiti dell’esperienza.
Come tale, é giá in partenza un film che pretende che lo spettatore adotti una prospettiva
modernista, un atteggiamento autocosciente verso Allen e la sua narrativa. Io e Annie é un
testo alternatamente moderno e classico che in differenti punti del suo svolgersi mette in
primo piano il racconto, chi racconta e l’atto stesso del raccontare.
Ed è in fin dei conti ciò di cui si parlava nel primo capitolo a proposito dell’ identità narrativa
pensata da Paul Ricoeur:
“La nozione di “identità narrativa” riposa quindi, sulla capacità della persona di “mettere in
racconto” in modo concordante gli avvenimenti della propria esistenza, grazie a particolari
operazioni attuate nella lettura: prima il trasferimento della dialettica del racconto al
personaggio stesso, quindi la trasposizione della dialettica del personaggio al lettore.”18
E’ possibile dividere il film in tre momenti.
18
Cfr. Identité narrative et identité éthique. De Boer[1995] pag. 43
43
- la sequenza di apertura: Allen-Singer rivela i suoi problemi affettivi “Io e Annie abbiamo
rotto” e dopo averci spiegato ció che lui chiama “scherzo chiave della sua vita adulta ( non
accetterei di far parte di un club che mi permetta di esserne membro), procede con una
serie di commenti sulla sua giovinezza, accompagnati da un’elaborata e divertente serie di
flashback saltando a caso da un luogo e tempo all’altro.
- L’incontro tra Alvye e Annie, e proseguendo fino a tutto il corteggiamento. Qui la
narrazione assume un tono classico-realistico. A partire dalla loro relazione fino alla prima
separazione, i fatti sono presentati in ordine cronologico e senza interventi da parte del
narratore-autore.
- La sequenza in cui Alvye e Annie discutono in strada sulla relazione del lei con il suo
professore di poesia. La rottura tra i due é accentuata da due significanti deviazioni dalla
struttura classica: la prima é un flashback di un tempo non specificato in cui Alvye discute
con Annie delle seduta di psicanalisi di quest’ultima; la seconda é la scena in cui Alvye ferma
delle persone per strada, dopo che Annie lo ha lasciato, e le interroga sulla natura delle
relazioni umane.
Questo sicuramente segnala il ritorno del narratore-autore nel modo del film; con la sua
rottura narrativa, la storia recupera la sua strategia ironica e autoriflessiva sospesa durante il
momento centrale.
Il narratore comico, quindi, nel suo stato ambivalente di aurore e personaggio, sconvolge
completamente l’autonomia di un mondo ermetico e romanzato in un’ottica del tutto
modernista.
Analizzando il tessuto tematico del film, possiamo ritrovare in Alvye-Allen un personaggio
rappresentativo della nostra epoca. Dalla continua autoanalisi che il protagonista fa su se
stesso, emerge il giudizio dell’autore su una societá moralmente incapace di stabilire un
sano rapporto con la realtá.
L’emancipazione femminile, il primo affermarsi di una vita da single, la costante ricerca del
successo a prezzo di falsitá personali, costituiscono l’ambiente dentro cui si muove l’esitante
Alvye Singer.
Quest’ultimo, angosciato fin da piccolo dalla morte e dal vuoto che lo circonda, nevrotico e
pessimista, con l’arrivo di Annie comincia di nuovo a rischiare e a credere possibile una
relazione stabile e gratificante; quindi reinveste su di lei tutta la sua carica di Pigmalione e di
educatore trasformando il rapporto in un continuo dominio verbale.
Il nodo piú stretto, che li tiene avvinti l’uno all’altra, é la nevrosi che li divora e che affonda le
sue radici in un perenne stato di ansietá, dovuto alla paura della solitudine e all’angoscia del
fallimento esistenziale.
44
La cittá é il luogo ideale dell’uomo insicuro e romantico, ebreo e intelligente; la psicanalisi,
prendendo il posto della confessione cattolica, diventa elemento fondamentale e inutile
dell’uomo moderno americano.
In un’epoca di mass-media, di falsi intellettualismi, di alienazione e smarrimento, di volontá
e non volontá, forse non é neanche possibile una relazione stabile, come del resto, forse non
é proprio possibile capire totalmente se stessi e gli altri, soprattutto relazionati in un
rapporto a due.
Dopo la scena dell’addio tra Alvye e Annie, la stessa situazione é riproposta in uno scenario
vuoto, da due personaggi strettamente somiglianti ai nostri protagonisti; solo che questa
Annie accetta la proposta di matrimonio. Alvye seduto su una sedia a guardare la coppia, si
volta verso la macchina da preda e dice: “Cosa posso dire? E’ la mia rappresentazione”. La
prima rappresentazione di Alvye Singer forse, ma forse anche l’attuale film di Woody Allen.
Ancora una volta con inaspettata finalitá, autore-narratore-personaggio rompono il mondo
della narrazione e lasciano nell’ambiguitá, stavolta, intere basi concettuali della storia.
Zelig (1983)
Costruzione dell’identità attraverso i caratteri psicosomatici
Trama
Siamo nel 1928. L'uomo del momento è Leonard Zelig (Woody Allen), vittima di una ignota
malattia che si manifesta nella trasformazione psicosomatica dei tratti in conseguenza del
contesto in cui l'individuo si trova. Ricoverato in ospedale, Zelig viene seguito da Eudora
Fletcher (Mia Farrow), una psichiatra che cerca di scoprire le radici dello strano fenomeno
nell'inconscio del paziente. Il "camaleontismo" di Zelig si trasforma in una moda. Leonard
viene affidato alla sorellastra che cerca di trasformarlo in un fenomeno da baraccone. La
dottoressa Fletcher tenta di proteggere Leonard e se ne innamora. I due decidono di
sposarsi, ma Zelig, turbato dagli scandali montati dalla stampa, fugge in Europa. Eudora lo
ritrova a Berlino: Leonard è alle spalle di Hitler durante un'adunata nazista. Fuggiti
dalla Germania, Leonard e Eudora vengono accolti trionfalmente in patria.
45
Analisi
Zelig, di Woody Allen, è forse il mokumentary più noto e riuscito della storia. Si tratta di un
saggio quintessenziale sul Novecento.
Intorno al personaggio di Leonard Zelig, Woody Allen costruisce il paradigma del rapporto
tra verità e finzione attraverso quattro differenti piani di lettura:
- sul piano linguistico e propriamente filmico
- sul piano narrativo
- sul piano filosofico
- sul piano storico-culturale
Il film, del 1983, diviene un modello testuale per tutti i cineasti che a vario titolo e con varie
finalità si misureranno con il meta-cinema e con tecniche di manipolazione audiovisiva
sempre più raffinate: da Stone a Zemeckis e Spielberg, per restare agli statunitensi. Il film è
dunque essenzialmente un saggio metalinguistico: ecco perché è un saggio sul Novecento.
La genialità del "Leonard" novecentesco di Woody Allen si attua nella moltiplicazione del sé
e parla il linguaggio della comunicazione depistatrice, pervasiva e babelica dei media. Il
camaleontismo del personaggio coincide (e si racconta mediante) il mimetismo del suo
autore. Segnati, in quanto appartenenti al genere umano, dallo stesso dolore storico ed
esistenziale, aspirano entrambi - personaggio e autore - a dare significato ad un talento
incontrollabile e sfuggente, ambiguo e malleabile, per molti versi inconsapevole e non
autentico.
Leonard è la vittima predestinata: o della nullificazione affettiva o della reificazione
totalitaria o della spettacolarizzazione mediatica. Leonard Zelig è un ebreo americano
povero, nato a Brooklin, presumibilmente nel 1900. I suoi genitori non lo difendono mai,
anzi: gli addossano sempre "la colpa di tutto". Vive a New York, la grande mela del melting
pot americano. Comincia ad "esistere" quando, ancora giovane ma già adulto, viene colpito
da una ignota sindrome di mimetismo camaleontico: fisico, culturale, ideologico, ecc... e,
arrestato in circostanze poco chiare e con accuse grottesche, finisce sui giornali "sotto
forma" di notizia. Riconosciuto come "malato", diventa cavia della ricerca scientifica e
strumento delle lotte accademiche.
46
Il film Zelig è una fiction che svolge il tema del documentario e lo fa mescolando
magistralmente tutti i possibili materiali visivi e sonori e conducendo lo spettatore in una
dimensione labirintica in cui il tempo (gli anni '20 e '30 e il presente) e lo spazio (America e
Europa) della narrazione si dilatano e si comprimono nei passaggi misteriosi e nei percorsi
senza uscita creati dal montaggio di materiali "veri", cioè "d'epoca", con materiali "falsi",
cioè realizzati ad hoc.19
Fondamentale nel film è il ruolo che ricopre l’ansia causa scatenante delle trasformazioni di
Leonard. L’ansia non rappresenta di per sé un fenomeno patologico, é uno stato di
attivazione dell’organismo e della mente di fronte a una possibilità di emergenza.
L’attivazione dell’ansia, o angoscia, può essere paralizzante, ma anche uno stimolo alla
conoscenza di sé stesso da parte dell’adulto. I mezzi per imparare a essere "bene ansiosi"
possono consistere tanto in processi di accertamento quanto in processi di accettazione
della propria personalità. Esistono altresì individui che tendono a creare difese dall’ansia di
tipo patologico. Per esempio, tendono a recitare. L’individuo recita la parte in cui si sente più
sicuro. Zelig, il film di Woody Allen, è anzitutto un finto documentario che ricostruisce la
biografia di un immaginario individuo il quale, per correggere la propria ansia interiore, si
trova a impersonificare delle identità fittizie.
Indubbiamente. Zelig rappresenta un caso limite, un caso patologico. È patologico nella
misura in cui l’individuo tenta di trovare delle forme di comportamento e di pensiero altre,
che rimedino al proprio disagio interiore. In realtà si tratta di forme di comportamento e di
pensiero che lo allontanano dalla collettività e lo fanno stare peggio. Ogni individuo sceglie,
nel corso della propria vita e a partire dall’infanzia, dei modelli più o meno compromissori, in
primo luogo quello genitoriale. La ricerca di una somiglianza a identità altre tende a
riassorbirsi nel corso degli anni, soprattutto dopo i 20, nel senso che ogni individuo realizza
un proprio modo di essere, senza la necessità di un ricorso ai modelli. Questo è il caso
ordinario.20 Ecco quindi che Allen si da per l’ennesima volta in pasto al suo pubblico
mostrandosi di volta in volta come essi vorrebbero che sia creando così si un’identità
particolare che tutti possano amare ma perdendo così la sua essenza e le caratteristiche
proprie trasformandosi in un semplice contenitore; le metafore con la sua vita pubblica
appaiono chiare soprattutto in vista dei suoi recenti flop al botteghino.
19
“Zelig” di Woody Allen: produzione del falso, manipolazione del vero. Un saggio sul Novecento, Giovanna
Gliozzi [2003]
20
Tratto dall’intervista a Giovanni Jervis della trasmissione “Il Grillo [14/12/1999]
47
Leonard Zelig è ovviamente un personaggio inventato. Egli tenta in continuazione, con
risultati davvero sorprendenti, di identificarsi con tutte le persone alle quali si avvicina. Dal
grasso al magro, dal cinese al pellerossa, dal pilota d’aereo al medico.
La diagnosi della psichiatra che fin dall’inizio si prende cura di lui, alla fine riuscendo a
ricondurlo nell’ambito della normalità, rivela un disperato bisogno di essere accettato e
gradito agli altri. Personalità, dunque, originariamente debole, egli tenta continuamente di
trasformarsi per acquisire un’identità che gli sfugge.
Così facendo, però, sempre più consolida la sua condizione di “diverso”, offrendosi alla
società in cui vive prima come mito da celebrare e poi come idolo da abbattere, solo
l’invincibile amore della tenace psichiatra Eudora Fletcher riuscirà a guarirlo. Esemplificativo
e premonitore è il momento in cui nel film delle donne che Zelig aveva sposato nelle sue
ossessive trasformazioni tornano per chiedere i danni e per ottenere giustizia, il pubblico che
prima lo amava ora è pronto a dargli addosso così come nella realtà è accaduto quando la
sua relazione con la figlia adottiva di Mia Farrow è uscita allo scoperto.
Ci troviamo insomma di fronte ad un racconto che mette in scena pressoché tutti i livelli
abituali di finzione. Le stesse sedute di psicoanalisi non rappresentano forse l’uso
terapeutico della simulazione?21
Questo contenuto narrativo trova dunque la sua veste cinematografica nella scelta di fondo,
tecnica e stilistica, operata dall’autore.
La struttura del finto documentario biografico, attraverso le inchieste, interviste, filmati, tutti
opportunamente simulati, integra un piano ulteriore di finzione totale. Il quale, debitamente
adattato alla materia del racconto, ci conduce sul terreno di una sintesi realizzata tra
scrittura e lettura del testo filmico.
È interessante analizzare a questo punto la stardom di Zelig attraverso uno schema che
prende in considerazione tre fattori: Zelig stesso, i personaggi che ruotano intorno a lui
durante la vicenda, e la risposta del pubblico. Come già accennato, Zelig diventa famoso in
quanto malato. La patologia affonda le sue radici non nel corpo, ma nella mente. Da cosa è
nata questa malattia? Nelle sedute di psichiatria, Zelig rivela di voler essere amato (“I want
to be liked”), e che il suo problema si è manifestato per la prima volta quando non ha voluto
ammettere di non aver letto Moby Dick. Per semplice vergogna, dunque. Ma Gilles Thérien
nel suo articolo sottolinea un ulteriore aspetto: Zelig è ebreo. Essere ebreo per lui significa
non sentirsi del tutto americano, questo anche a causa delle continue vessazioni subite sin
21
Woody Allen, lo specchio e la maschera, Gianfranco Amato [1990]
48
dall’infanzia. Dunque “il suo più grande desiderio è certamente assimilarsi all’America”.22
Questo motivo, anche se mai posto in primo piano nel film, resta di sottofondo per tutta la
vicenda. Viene esplicitato, ad esempio, quando, all’apice della celebrità, Zelig non è amato
da tutti, perché gruppi quali il Ku –Klux-Klan lo ritengono una minaccia.
Nel corso della malattia di Zelig, due personaggi si rivelano fondamentali per lo svolgersi
della vicenda. Eudora Fletcher, la psichiatra che lo ha in cura, e Ruth, la sorellastra. Eudora è
colei che porterà Zelig alla guarigione. Sappiamo dal film che inizialmente Eudora è
interessata al caso Zelig perché potrebbe renderla celebre, dandole una reputazione positiva
nell’ambiente medico anzitutto, nella società americana poi. Poco alla volta però il suo
interesse si spinge oltre, fino a non essere più unicamente professionale. Eudora riesce a
guarire Zelig, come detto. Ciò che è interessante, è il modo in cui vi riesce. Capisce ben
presto che, per offrire una seppur minima possibilità al suo paziente, deve portarlo via dal
caos della città, dal pubblico-squalo che gli fa continuamente sentire il fiato sul collo. E allora
lo porta nella sua casa di campagna, dove lo sottopone alle cosiddette White Room Sessions,
e dove, dopo una serie di difficoltà iniziali causate dall’identificazione di Zelig con la figura
del medico, poco alla volta Leonard imparerà a essere se stesso. Forse troppo troppo, visto
che impone le sue opinioni non accettando più pareri diversi dal suo.
Cosa si intende con l’espressione essere se stesso? Si intende riacquistare un’identità, non
ancora equilibrata ma quantomeno abbozzata, che prima non c’era perché disintegrata nelle
diverse personalità di chi si trovava al suo fianco. È possibile a questo punto estendere
l’analisi, aggiungendo che uno dei fattori determinanti per la guarigione di Leonard è
l’amore. Eudora infatti, come dichiarato nel film, sceglie una terapia innovativa in due stadi:
quando Zelig è in ipnosi, lavora profondamente sul suo inconscio per ristrutturarlo. Quando
invecce egli è nello stato cosciente, gli fornisce amore e fiducia incondizionati.
Contrapposta a quella di Eudora Fletcher, è la figura della sorellastra di Zelig, Ruth, e
dell’amante di lei, Martin Geist. Essi non solo impediscono la guarigione di Leonard
sottraendolo alle cure del Manhattan Hospital, ma in più sfruttano la sua malattia allo scopo
di ottenerne un guadagno personale, sia in termini economici che di celebrità. A questo
scopo, trasformano Zelig in fenomeno da baraccone, facendo pagare un biglietto d’ingresso
per accedere allo spettacolo dell’ “homme camaléon”. La gente accorre a frotte da tutta
l’America. Zelig è cercato, ammirato, osannato. Si può allora pensare che abbia ottenuto ciò
22
Gilles Thérien, Constitution du sujet parodique dans l’immaginaire du cinéma [1989], pag. 342
49
che voleva: “I want to be liked”. Ma, paradossalmente, gli è successo il contrario. Infatti,
seppur celebre, Zelig è solo e non gode in alcun modo dell’amore che andava cercando.
Ruth, dunque, se da un lato permette a Leonard di restare sulla cresta dell’onda, dall’altro gli
impedisce di risolvere il suo problema più urgente: riacquistare un’identità stabile.
In sintesi, si può affermare che allo stato di salute di Zelig, favorito da Eudora Fletcher,
corrisponde l’oblio da parte del pubblico, e allo stato patologico di Leonard, sfruttato da
Ruth e Martin, corrisponde la celebrità.
La frase che chiude il film spiega ulteriormente quanto detto finora:
“in the end, it was, after all, not the approbation of many but the love of one woman that
changed his life”.
Solo attraverso il suo amore Eudora comprende che Leonard andava alla disperata ricerca di
un normale anonimato: la sua patologia, infatti, non derivava affatto dal desiderio di
risaltare nella massa, ma piuttosto dal desiderio opposto di passare inosservato,
mimetizzandosi nel gruppo. Zelig, insomma, non è altro che un uomo qualunque che esagera
il suo conformismo, come dichiarato dallo stesso Woody Allen:
“Ti riferisci al conformismo? Beh, penso si tratti di una caratteristica personale
nella vita di tutti! Nella vita di Zelig cominciò quando disse di aver letto Moby
Dick. E’ una cosa che riscontri spesso in molte persone. Qualcuno chiede: ‘Hai
letto questo o quest’altro?’ e l’altro risponde: ‘Sì, certo, naturalmente’ anche se
non l’ha letto. Perché vuole piacere e far parte del gruppo.
Con questo film volevo parlare del pericolo che si corre abbandonando il proprio
vero io, nello sforzo di piacere, di non creare problemi, d’inserirsi, e di dove
questo possa condurre una persona in ogni aspetto della sua vita e a livello
politico.
Conduce ad un estremo conformismo e ad un’estrema sottomissione alla
volontà, alle richieste e alle necessità di una personalità forte.”23
23
Woody su Allen, Annalisa Cara e Giampiero Cara [1994], pag. 156
50
In effetti, come accennato più sopra, l’America si identifica in Zelig perché egli fa né più né
meno ciò che ciascuno di noi fa quotidianamente: si adegua a chi gli sta accanto, solo lo fa in
modo più evidente. Come sottolineato da Bruno Bettelheim all’interno del film, si potrebbe
davvero pensare a Leonard come all’estremo conformista. Paradossalmente però,
compiendo lo stesso processo con più persone che non hanno nulla in comune fra loro, non
lo compie mai davvero. Ciascuno di noi, nel quotidiano, per diventare ciò che è, si conforma
a qualche persona (o personaggio, o idea) in cui si identifica. La costruzione completa del
soggetto si ha nel momento in cui si può stabilire un legame fra i nostri comportamenti e il
senso di identità che ci siamo costruiti, nonché quando i comportamenti messi in atto dal
soggetto sono i medesimi, almeno in uno stesso contesto sociale. Come infatti sostiene
Erving Goffman: “quando un individuo *…+ interpreta, in occasioni diverse, la stessa parte di
fronte allo stesso pubblico, è probabile che ne sorga un rapporto sociale”.24
A Zelig questa caratteristica manca, lui non è riconducibile a niente e a nessuno, e anche nel
medesimo contesto sociale assume ruoli differenti (si pensi alla festa durante la quale, per la
primissima volta, Francis Scott Fitzgerald si accorge di lui). La guarigione lo porterà ad essere
in grado di auto-condursi in quanto ha finalmente introiettato i principi di condotta della sua
società.
Decostructing Harry (1997)
La costruzione dell’identità attraverso lo stile registico
Trama
Lo scrittore di successo Harry Block si trova per la prima volta nella sua carriera ad affrontare
il "blocco dello scrittore" ed è in piena nevrosi. Viene accusato da tutti i suoi cari, parenti ed
ex-mogli/amanti, di utilizzare la loro vita e le loro esperienze come materia per le sue opere,
pubblicando, quindi, i segreti di tutti.
Odiato da gran parte delle persone che lo circondano, nessuno vuole avvicinarsi alla sua
demenziale esistenza, e nessuno vuole accompagnarlo alla sua vecchia università, che al
24
La vita quotidiana come rappresentazione, Margherita Ciacci [1969], pag. 26
51
tempo lo espulse e che ora vuole rendergli onore (esplicito riferimento a Il posto delle
fragole di Ingmar Bergman).
I suoi unici compagni sono i personaggi dei suoi racconti, mentre realtà e finzione si
mescolano (i personaggi fittizi, basati su persone vere, sono interpretati nella "realtà" da un
attore, nella "finzione" da un altro) in un turbinio di ricordi e intimità inconfessabili che
affiorano durante il viaggio in macchina verso l'università.
Analisi
Durante i titoli di testa di Deconstructing Harry viene mostrato per quattro volte uno stesso
gruppo di immagini, che anticipa l'inizio di una scena mostrata in seguito. In un film di
Woody Allen è la prima volta che ciò accade dopo molti anni: dal 1974 infatti, con Sleeper (Il
dormiglione), si era avviata la consuetudine di usare semplici scritte bianche su sfondo nero.
Le immagini diegetiche che appaiono già durante la presentazione dei titoli costituiscono
dunque un fatto degno di nota. Inoltre all'inizio del film l'esposizione della vicenda comincia
da tre sequenze consecutive che non fanno parte nella linea principale del racconto, e che
risultano difficili da contestualizzare perché riguardano due diversi livelli finzionali: la
creazione letteraria e la memoria del protagonista. Solo a posteriori si comprende che le
vicende mostrate nelle sequenze risultano incassate nella linea narrativa principale, aperta
subito dopo nello studio di uno psicanalista, mentre il paziente espone i propri sintomi.
Per chi guarda il film, queste modalità di presentazione di elementi narrativi e di elementi
stilistici costituiscono esempi della narrazione atipica che viene adottata, e si propongono
come oggetti di uno sguardo in profondità, che il comune spettatore deve esercitare per fare
ordine e poter mettere in forma gli elementi presentati. Per lo spettatore alleniano invece,
per il fan che conosce la filmografia del regista, non dovrebbe essere difficile situare il film in
rapporto alla produzione precedente, e trovare punti di contatto e riferimenti ad altri film,
notando magari la crescita e il perfezionamento di certi temi o certi personaggi. Può rendersi
conto ad esempio che Deconstructing Harry riprende il discorso là dove si era interrotto in
Stardust Memories (1980), per proporre una finzione autobiografica altrettanto abile e ricca,
e dando l'impressione di compiere un passo ulteriore verso la rappresentazione della
soggettività. Lo spettatore può ricordare anche che in Husbands and Wives (1992) la scelta
stilistica di girare il film come un'inchiesta sui matrimoni e sulla vita di coppia, determinava
una percezione delle vicende affatto diversa rispetto alla tradizionale forma della commedia.
52
Analogamente lo stile di Deconstructing Harry appare legato ai temi del film, e costituisce
una parte significativa della ricerca espressiva compiuta nel corso degli anni.
Il regista di Stardust Memories, in crisi creativa oltre che esistenziale, diviene in
Deconstructing Harry uno scrittore e il film racconta un momento particolare della sua vita,
delle persone con le quali è stato in relazione, dei personaggi che ha creato nel corso della
propria attività, e dei rapporti esistenti tra gli uni e gli altri quasi a voler metaforicamente
tirare le somme della propria vita reale. L'ampio ricorso alla dimensione memoriale e a
quella immaginaria, unite ai momenti vissuti dal protagonista, permettono di presentare un
quadro composito e molto efficace, che per lo spettatore diviene il terreno di analisi sul
quale muoversi per comprendere la crisi che attanaglia Harry Block .
Non succede di frequente nei film di Woody Allen che un aspetto formale non direttamente
connesso all'intreccio venga nettamente messo in evidenza. E' accaduto però in Stardust
Memories e in Husbands and Wives, che costituiscono antecedenti significativi rispetto a
Deconstructing Harry, film che prosegue la ricerca formale per giungere a una tappa
significativa. Ciò accade come si è detto perché un particolare stile di presentazione viene
posto fortemente in evidenza, fin dalla sequenza dei titoli di testa. Tra i semplici cartelli con
scritte bianche su sfondo nero appare infatti per quattro volte un gruppo di inquadrature. In
esso si vede uno dei personaggi del film, Lucy (Judy Davis), arrivare in taxi, scendere e
dirigersi verso un immobile. Lo stile di presentazione però è particolare e le immagini di
susseguono in questo ordine:
1. Un taxi entra nella inquadratura da sinistra
2. Lucy in piedi accanto alla vettura
53
3. L'auto si ferma accanto al marciapiede
4. Lucy in piedi accanto alla vettura si muove
verso la portiera anteriore per pagare il tassista
5. Lucy apre la portiera posteriore e scende
6. Lucy entra dal cancello
7. Lucy al portone suona il campanello
Gli stacchi tra le inquadrature appaiono in evidenza: sia perché le inquadrature 2 e 4 sono
anteposte e rompono la continuità, sia perché vi sono ellissi tra le inquadrature 5, 6 e 7, e
l'azione sembra procedere a scatti. Inoltre le inquadrature sono molto brevi, la durata
complessiva è di soli sette secondi, e la prima impressione che si ha è quella di non riuscire a
54
cogliere ciò che viene presentato, data la rapidità con cui si susseguono. Per questo motivo il
gruppo di inquadrature è ripetuto per quattro volte durante i titoli, e appare di nuovo come
parte iniziale della sequenza in cui Lucy minaccia di uccidere Harry (Woody Allen). Solo
questa quinta visione rende possibile situare le immagini nel loro contesto diegetico, poiché
l'azione iniziata da Lucy scendendo dal taxi prosegue all'interno dell'appartamento dello
scrittore.
Lo stile di costruzione e la ripetizione contribuiscono a caratterizzare stilisticamente l'uso di
questo gruppo di inquadrature. Generalmente quando in un film l'elemento stilistico viene
messo in evidenza, la ragione viene ascritta al fatto di sollecitare una percezione estetica e
non soltanto narrativa della tecnica cinematografica. Può accadere anche che la "percezione
della tecnica" vada oltre una saltuaria messa in evidenza, per apparire sistematicamente
messa in rilievo, fino ad essere svincolata dall'intreccio: procedendo parallelamente ad esso
costituisce così un altro principio di messa in forma del film. Si parla allora di narrazione
parametrica.25
L'inizio di Decostructing Harry sembra muoversi in questa direzione: l'aspetto narrativo si
trova posto in second'ordine, perché ancora non è possibile comprendere cosa sta
accadendo, mentre invece i nervosi stacchi di montaggio e l'anticipazione di inquadrature
successive mettono in evidenza l'elemento stilistico. Le inquadrature anticipate di Lucy
danno l'impressione di "tagliare" l'azione facendo compiere dei balzi in avanti.
L'inquadratura che segue dà l'idea di tornare al corso di azione originario, ma un altro inserto
ripete l'effetto.
Il procedimento è semplice ma molto efficace, perché anteponendo due inquadrature
rispetto alla loro collocazione originale si crea un effetto di confusione nella percezione, e
creando un'ellissi dall'auto al cancello si crea un'impressione di frammentarietà. Ciò provoca
nello spettatore un senso di frustrazione, dato che tra salti in avanti, ritorni indietro e
rapidità nella successione delle inquadrature la percezione non avviene in maniera lineare e
dà l'impressione di perdere dettagli importanti. Il procedimento impone un ritmo nella
successione che non è quello abituale, e si collega al brano di jazz cantato che accompagna i
titoli, e sui cui accenti il montaggio delle inquadrature sembra appoggiarsi.
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David Bordwell, Narration in the Fiction Film, [1988] Cap. 12.
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L'idea di presentare le immagini secondo questo stile viene da Stardust Memories: in una
famosa sequenza, segnalata da molti critici, il ricordo di Dorrie (Charlotte Rampling)
ricoverata in un ospedale psichiatrico torna alla mente del protagonista. Gli stacchi a effetto
che separano le immagini permettono di suggerire il disagio mentale di lei, le sue idee fisse,
e anche la natura frammentata e ricorrente del ricordo che il protagonista associa a Dorrie.
L'idea di collegare le caratteristiche del personaggio alle scelte stilistiche operate nel
montaggio di una singola sequenza, viene estesa in Deconstructing Harry all'intero film.
Questo stile di presentazione sottrae la scena al ritmo percettivo naturale e introduce un
ritmo diverso, sincopato. Con le ellissi che interrompono una stessa inquadratura ripresa in
continuità, l'azione che procede a salti è più veloce, ma è anche più confusa perché non
permette di cogliere i dettagli e di soffermarsi sulle immagini per il tempo dovuto.
Sensazione di frammentazione e andamento a salti, generati dalle scelte stilistiche della
disposizione formale, sono strettamente connessi con i temi presentati, in particolare con le
impressioni e i pensieri del protagonista, e sostengono una linea di attenzione che si muove
parallela a quella del racconto. Il film nel suo insieme ne viene influenzato, e in diversi
momenti altre sequenze mostrano l'uso dello stacco a effetto: siccome la sua presenza è
relativa all'intero ambito della rappresentazione, esso suggerisce una condizione
permanente del personaggio.
Mettere in evidenza questa norma stilistica interna significa insistere sul carattere sincopato
e frammentario, facendolo percepire direttamente allo spettatore. La presenza a livello
microstrutturale si ripete a livello macrostrutturale: anche il racconto procede infatti "a
salti", alternando di continuo i diversi livelli finzionali
il film procede alternando sistematicamente i questi livelli, e mantenendo la linea della
vicenda al presente come ancoraggio per le altre. Nel corso del film le sequenze di ricordo e
di fiction sono sempre, salvo in un caso, inquadrate da quelle al presente, che provvedono a
situarle rispetto alla vicenda usando soprattutto battute di dialogo. All'inizio del film però si
nota il passaggio dall'uno all'altro dei livelli immaginari senza che una sequenza al presente
provveda a situarli. E come abbiamo detto è proprio all'inizio che l'aspetto stilistico viene
messo in evidenza anche a livello microstrutturale. Avviene così che su entrambi i livelli lo
spettatore può cogliere la presenza di anomalie rispetto a una presentazione lineare degli
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eventi: particolarità che richiedono una attenzione all'aspetto stilistico del film, cercando
elementi utili a mettere in forma la vicenda.
Nel seguito del film, il pattern stilistico messo in evidenza sul piano microstrutturale appare
in diversi momenti, sempre legato ad aspetti tematici (dichiarazioni verbali, azioni o stati
interiori dei personaggi), e nel finale trova una diretta parafrasi verbale, che permette di
confermare le ipotesi avanzate nel corso del film. Harry sta prendendo appunti per un nuovo
romanzo, e sulla sua voce mentale che parla della sua "esistenza frammentata e disgiunta" il
montaggio "risponde" con tre rapidi stacchi su Harry davanti alla macchina da scrivere, quasi
a confermare le parole del protagonista.
Il film è costituite da materiali eterogenei, che alimentano la strategia di moltiplicazione dei
livelli finzionali. La storia "al presente" che si avvia nello studio dello psicanalista costituisce il
livello finzionale sul quale sono innestate le altre due linee. Sono relativi alla linea
dell'immaginazione i brani di romanzi e racconti che vengono mostrati in immagini, e
introdotti dalla voce narrante dello scrittore. Sono relativi alla linea del ricordo quelli legati
alle personali esperienze che vengono evocate, soprattutto in relazione ai personaggi
femminili.
Quasi si trattasse di una seduta psicanalitica i "materiali" della interiorità di Harry vengono
evocati per essere messi sotto gli occhi dello spettatore. Il modello si richiama a Annie Hall, e
la dimensione soggettiva del racconto è simile, sebbene lo spettatore non sia mai
direttamente chiamato in causa. C'è però la possibilità di prendere in esame gli elementi
presentati: come lo stesso protagonista afferma nella seduta all'inizio del film, vi è una schisi
tra mondo della fantasia e mondo reale, ed egli percepisce la propria totale inadeguatezza
rispetto a quest'ultima dimensione.
I livelli finzionali si moltiplicano e le linee narrative danno origine a percorsi paralleli nella
vicenda, offrendo possibilità di confronto tra i personaggi. Il contenuto mentale di pensieri e
ricordi del protagonista si oggettiva in materiale letterario, e dà origine a un interessante
sdoppiamento di personaggi e di situazioni. Al tempo stesso, le azioni "al presente" del
protagonista si dispongono fianco a fianco con gli altri elementi e contribuiscono a comporre
il quadro d'insieme.
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L'analisi terapeutica esibita all'inizio diviene per lo spettatore analisi testuale, in cui fa da
rivelatore il confronto tra immaginazione e realtà. La vita reale è caratterizzata da emozioni
violentemente esternate: la scenata di Lucy, e quella della moglie Joan (Kirstie Alley),
mostrano paradossalmente attraverso le frasi urlate dei personaggi femminili la sordità di
Harry verso gli altri. Tale sordità giunge al punto estremo dopo la rottura con Fay (Elisabeth
Shue), con l'insistenza su whisky, psicofarmaci, prostitute. Nella fiction le situazioni evocate
assumono un tono più sobrio, una drammaturgia meno esacerbata, e lasciano intuire il
controllato lavoro della scrittura che rielabora e mette in forma i materiali che Harry ricava
dalla propria autobiografia. Vi è quindi la possibilità di vedere il personaggio, e il problema
che incarna, diversamente oggettivato: ad esempio Paul Epstein (Stanley Tucci) è uno dei
doppi letterari di Harry, nel racconto ispirato al matrimonio con la psicanalista. Pur
mantenendo alcuni elementi in comune, Epstein offre anche diversi aspetti che mutano: è
più calmo e controllato, trova eccessivo lo zelo religioso della moglie e cerca di discuterne in
maniera matura, mentre d'altra parte la voce narrante di Harry e le immagini sottolineano
l'aspetto umoristico.
Lo schema di partenza viene sviluppato anche oltre le premesse, e nel mostrare ulteriori
riflessioni del protagonista i livelli finzionali si intrecciano e si confondono. Come vedremo, in
un paio di occasioni l'incrociarsi delle linee narrative dà origine a due ibridi interessanti:
personaggi della finzione letteraria che appaiono nel presente di Harry e gli permettono di
scoprire nuovi aspetti della realtà.
La decostruzione di Harry è evidente nel fatto che la sua dichiarazione iniziale nello studio
dello psicanalista diviene schema di composizione del film stesso. Nel complesso il film
permette di avvicinare il protagonista, Harry Block, attraverso il suo "pedinamento" in una
particolare situazione di vita, e attraverso le molteplici sfaccettature della realtà mentale che
lo caratterizza.
Il processo di decostruzione di Harry ha radici lontane nella filmografia di Woody Allen. Si rifà
ci sembra al progetto non sviluppato di Anhedonia, che costituiva una delle anime di Annie
Hall, prima che il film prendesse la sua forma definitiva. Il malessere del protagonista, il
senso della morte e l'infelicità causata dall'abbandono da parte di Annie, si trasformano per
Harry in qualcosa di più profondo, che scuote dalle fondamenta il bilancio non solo di una
intera vita affettiva, ma anche le possibilità creative legate al lavoro di scrittore.
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Eppure la vita si fa avanti, investe con la sua presenza ineluttabile, con le sue richieste fatte
da persone che non si limitano a popolare il panorama, ma vivono, e pretendono atti
consapevoli e responsabili. La vita, serbatoio di risorse narrative, si prende così una rivincita
sull'artista, costretto a scendere a patti, a contrattare, ad accettare il ciclo continuo degli
eventi. L'unicità della vita, come abbiamo detto, viene ribadita da Richard, l'amico morto che
appare nella cella, il quale aggiunge che Harry supererà il blocco solo quando troverà un
accordo con le sue fissazioni. Lo scrittore trova così un modo per far convergere arte e vita:
invertendo i termini del problema crea un personaggio che nella vita è un fallimento, ma che
nell'arte invece funziona perfettamente.
La vita immaginaria conduce il protagonista ad una soluzione, ed ecco che, superata la crisi,
accettati i diritti e i fatti ineluttabili che la vita impone, l'officina dello scrittore torna ad
essere produttiva; anche la sua esistenza quotidiana potrà riprendere a funzionare, grazie
allo scrivere che, come afferma nella battuta finale, "in più di un modo aveva salvato la sua
vita". E così la sintesi di questo raffinato gioco a rimpiattino torna ad essere un paradosso
alleniano: dentro la vita Harry Block non è a suo agio, ma non può prescinderne, fuori dalla
vita, nella dimensione immaginaria, i personaggi che crea lo salvano dall'asfissia provocata
dal piatto realismo, ma restano immaginari. Soluzione adatta a concludere l'episodio che lo
riguarda, ma che mette ancora più in evidenza la dialettica aperta e irrisolvibile tra le
pesantezze della realtà vissuta e i vertici della vita immaginaria: una consapevolezza che lo
spettatore alla fine del film non può che assumere come viatico nel tornare alla vita reale.
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Conclusioni
Prima di arrivare a definire una conclusione sulla creazione dell’identità che Woody Allen
attua per creare i suoi personaggi bisogna senza dubbio partire dalla sua visione dualistica
della vita, che nelle pagine lette è stata più volte menzionata.
Qualsiasi forma di esistenza infatti è fatta di se e del suo opposto e solamente legando i due
estremi possiamo arrivare alla completezza.
Ecco quindi che per analizzare l’identità di Allen è necessario legare i due estremi messi in
campo in queste pagine: la realtà e la finzione, il sogno e l’incubo.
Non possiamo certo avere la pretesa di capire la mente dell’autore newyorchese partendo
solo dalla sua vita privata ne tanto meno avere la certezza che ciò che vediamo nello
schermo da lui interpretato o meno sia la reale summa del suo io più profondo.
Allen è si come detto un uomo preciso, metodico e padrone della sua esistenza e delle sue
opere nella vita reale tanto quanto nel suo io più nascosto sia turbato da tutti quegli
elementi messi in campo nei suoi film, dalle nevrosi alle fobie, bloccato in un’inadeguatezza
che lo allontana dal piacere.
Ecco che come per magia possiamo realmente trovare la sua reale identità sovrapponendo
quindi l’uomo dal personaggio partendo dalla sua identità narrativa per arrivare alla sua
reale identità.
È da questa ricerca di un legame tra queste due dimensioni che scaturisce il concetto di
cinema che Allen vuole trasmettere a noi spettatori per aiutarci a vivere le nostre nevrosi
che la società da sempre ci incanala dentro.
Allen si erge dunque da guida, aiutando il pubblico a riconoscersi nel groviglio dei suoi
bisogni indotti di spettatore e consumatore di cinema: mostrerà il cinema non solo come
un’opera d’arte da contemplare, ma la stessa opera avrà in sé la figura dello spettatore,
svelando i meccanismi che avvengono nella vita reale. Il compito che si prefissa è fondare
un’ecologia della mente ripulita dai miti collettivi e ciò lo ottiene stravolgendo i generi
televisivi e cinematografici, distorcendo i linguaggi dei media e, infine, scandalizzando con
tecniche di accostamenti radicali.
Si guardi anche solo l’eroe alleniano: è un perdente e l’unica possibilità di salvezza è
attraverso un processo di autocelebrazione e acquisizione della propria identità, acquisizione
ben visibile nell’opera Zelig, sarebbe inutile infatti darsi in pasto allo spettatore regalando
ogni volta ciò che desidera dall’autore.
Alla base di tutto c’è la visione di una cultura moderna moralmente incapace di stabilire un
sano rapporto con la realtà.
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Forse Allen diventa quindi più reale nei suoi film che nella realtà mostrandosi l’antitesi
perfetta del supereroe che tutti cerchiamo di apparire.
La psicoanalisi è forse un pretesto per mostrarci le perversioni che in fondo sono in ognuno
di noi tenute a bada per non sembrare inappropriate.
Ecco quindi che Allen, trent’anni dopo il suo esordio dietro la macchina da presa non è più
una versione più vecchia dell’Alvy Singer di Annie Hall, ma è una persona completa e in pace
con la propria identità cercata attraverso le storie e i film, e capace, sdraiato su di un divano
di trovare un elenco delle cose per cui vale veramente la pena vivere come antidoto ai
problemi inutili e nevrotici in cui l'uomo spesso è imprigionato. Woody Allen nel suo elenco
cita tutto il meglio dell'America e del mondo. Tutto ciò per cui vale la pena vivere: musica,
film, pittura e cibo. E sono sicuro che l’elenco delle cose per cui vale la pena vivere è un
esercizio fondamentale per ricordarsi ciò di cui siamo fatti: forse il miglior psicanalista di noi
stessi rimane un foglio bianco o nel caso di Woody Allen uno schermo da riempire.
Manhattan, 1979 - Ike sdraiato sul divano elenca i dieci motivi per cui vale
la pena vivere
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