FABRIZIO PALOMBI «La riproduzione interdetta»: ermeneutica e ripetizione in un confronto tra Lacan e Derrida Secondo una struttura abissale da determinarsi, questo spazio è ecceduto da potenze di simulacro. J. Derrida 1. Ai confini del senso L’ermeneutica trova la sua antica origine nell’interpretazione dei messaggi d’origine divina, considerati latori di un senso nascosto che doveva essere rivelato. Progressivamente dilatata al fine di comprendere l’intenzione dell’autore di un testo qualsiasi, l’ermeneutica ha subito una estensione indefinita dei suoi confini, tesa a ricostruire un contesto di senso entro il quale collocare anche la genesi della soggettività. Questa rapsodica definizione dell’ermeneutica è funzionale all’esigenza d’evidenziare il primato del senso per la sua pratica interpretativa. In italiano il termine “senso” possiede un’interessante ambiguità che merita d’essere valorizzata in quanto non è solo sinonimo di significato ma anche di verso, orientamento, direzione. Il senso, doppio, unico o vietato, dirige non solo il traffico caotico delle nostre città e delle arterie stradali che le collegano ma anche quello dei nostri discorsi, delle nostre speranze e delle nostre paure, come dimostrano locuzioni quali “senza senso” e “insensato” che danno voce al timore di sprecare un lavoro, un progetto, un’esistenza. Approfondendo questa metafora il senso potrebbe essere pensato come una direzione che collega un oggetto, un evento o un soggetto ad altri poli donando loro un valore. Il senso di un oggetto è costituito dalla sua funzione: possiamo infatti immaginare dei vettori che lo collegano ad altri connettendo contesti e risalendo di freccia in freccia. Sino a dove? Questi fili che si incrociano, formando i nodi degli eventi e delle cose, potranno essere fissati a quale telaio? Se definiamo questa cornice come “vita” oppure “mondo” ci rendiamo conto che la nostra esistenza non può essere valutata in termini di senso a Bollettino Filosofico 27 (2011-2012): 127-144 ISBN 978-88-548-6064-3 ISSN 1593-7178-00027 DOI 10.4399/97888548606439 127 128 Fabrizio Palombi costo di commettere una fallacia logica. Se la vita è la condizione di possibilità del senso allora possiamo riflettere solo sulla “vita del senso” ma non sul “senso della vita”. Si tratta, in estrema sintesi, della morte di dio nietszchiana il cui valore non indica solo il dissolversi dell’orizzonte religioso ma una più generale relativizzazione del senso che colpisce anche la scienza contemporanea. Sigmund Freud ha esaminato questo stesso tema in una diversa prospettiva proponendo la fortunata definizione delle tre ferite narcisistiche, rispettivamente attribuite a Copernico, Darwin e a se stesso. Jacques Lacan si ispira alla riflessione freudiana per sottrarre e differenziare la pratica psicoanalitica da quella ermeneutica individuando il limite del senso in un significante fondamentale costituito dal fallo che, nella prospettiva clinica, protegge il soggetto dai deliri interpretativi della psicosi paranoica1. Tra gli autori che hanno ispirato la riflessione di Jacques Derrida e la sua critica alla ontoteoteleologia troviamo proprio Nietzsche, Freud e (in forma complessa e spesso implicita) Lacan, che vengono usati in varie occasioni per radicalizzare l’attacco alla metafisica teleologica. “Il fattore della verità” si confronta con la tradizione psicoanalitica e, in particolare, con quella lacaniana che viene considerata una lettura di Freud, per così dire, troppo sensata, troppo vincolata a criteri di carattere ermeneutico2. 2. La lettera rubata La disputa tra Derrida e Lacan è un complesso confronto giocato di sponda per mezzo de La lettera rubata di Edgar Allan Poe (1845). Questo celebre racconto ha contribuito a creare un genere narrativo, ed è stato oggetto di numerose interpretazioni che hanno stratificato su esso un imponente deposito esegetico. La nostra attenzione si rivolgerà esclusivamente a due strati cronologicamente successivi di questa tradizione di esegesi, costituiti dall’interpretazione lacaniana del testo di Poe e da quella che definiamo provvisoriamente la metainterpretazione o meglio la controinterpretazione derridiana. Più precisamente, nel 1955 Lacan dedica una seduta del suo Cfr. PALOMBI (2011). Per un’interessante sintesi delle critiche alla tradizione ermeneutica cfr. DERRIDA (20022003, p. 93) e VERGANI (2000, pp. 169-178). 1 2 «La riproduzione interdetta» 129 secondo seminario, intitolato L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi3, a La lettera rubata. Il testo sarà in seguito pubblicato, sviluppato e ripreso sino al 1966 quando viene proposto come brano inaugurale della raccolta dei suoi Scritti. Vent’anni dopo il secondo seminario di Lacan e quasi dieci anni dopo la pubblicazione degli Scritti, Derrida pubblica Il fattore della verità (1975) con il dichiarato proposito di mettere in crisi l’articolazione del commento lacaniano al fine di tentare un attacco frontale alla sua interpretazione della psicoanalisi formulando la celebre accusa di “fallogocentrismo”4. “Abisso”, “abissale”, “abissato”, “inabissarsi”: sono i termini usati da Derrida per definire la struttura narrativa de La lettera rubata che abbiamo evidenziato nella prima citazione in esergo. Un elenco sufficiente a scoraggiare ogni pretesa di esaustività nell’interpretare il testo di Poe che, per quanto ci riguarda, useremo solo come fulcro teorico per proporre alcune riflessioni in relazione alla ripetizione e ai limiti dell’ermeneutica. In proposito non si deve dimenticare che le proposte teoriche di Lacan e Derrida sono tra loro in competizione per stabilire chi sia il più distante dal senso e dalla tradizione ermeneutica. La posta di questo complesso gioco è costituita, per Lacan, dal primato del significante sul significato e, per Derrida, della traccia sul senso. Proporremo alcuni provvisori tentativi di catalogazione e d’organizzazione dei diversi livelli del confronto per mostrare in seguito la loro precarietà e insufficienza provocata proprio dalla struttura abissale della narrazione di Poe. Inoltre avanzeremo qualche considerazione strumentale su alcune opere d’arte che potrebbero essere efficaci dal punto di vista esplicativo ma che necessitano di essere approfondite e contestualizzate in un contesto più ampio. Uno di questi usi strumentali legittimerà anche la seconda citazione in esergo estrapolata dalla Ricerca del tempo perduto nella conclusione del nostro contributo. La lettera rubata è un testo molto famoso del quale daremo per scontata la conoscenza generalissima della sua trama e del suo baricentro narrativo costituito dallo stratagemma di nascondere una lettera ostentandola in un luogo inaspettato e visibilissimo. La lettera rubata, pubblicata per la prima volta nel 1845 su “The Chamber's Journal”, è il terzo racconto di un ciclo che ha come protagonista l’investigatore Auguste Dupin. 3 4 LACAN (1955-1956). DERRIDA (1975, pp. 105-106). 130 Fabrizio Palombi 3. La struttura narrativa Per dipanare, almeno parzialmente e provvisoriamente, l’intricata struttura narrativa del racconto di Poe proponiamo il metodo analitico di ricostruirla a posteriori, dalla sua fine. L’aggettivo “analitico” possiede la duplice accezione di “scompositivo” e di “pertinente alla teoria freudiana”, in particolare alla dinamica del Nachträglichkeit freudiano e dell’après-coup lacaniano. Integriamo, inoltre, elementi del racconto che Poe non indica esplicitamente ma propone al lettore in forma indiretta seppure estremamente chiara. Secondo Derrida, questo metodo retrospettivo e integrativo mostra una serie di cornici inserite l’una nell’altra sulle quali ci soffermeremo in seguito; per ora ci limitiamo a segnalare le due maggiori, individuate da un anno imprecisato del XIX secolo e da un intervallo temporale di un mese che le separa, e una lunga e complessa serie di minori che distinguono i diversi livelli narrativi. In quella che potremmo considerare, approssimativamente e temporaneamente, come l’inquadratura più piccola, la Regina di Francia racconta al Prefetto di Polizia di Parigi del furto di una lettera di un suo nobile spasimante, subito davanti ai suoi occhi ad opera del potente ministro D. Del contenuto della lettera il lettore e i protagonisti del racconto (con l’ovvia eccezione della regina) non saranno mai informati. Il prefetto di Polizia s’impegna in lunghe, minuziosissime quanto inutili ricerche della lettera nella casa del ministro dopo le quali chiede aiuto al detective Dupin informandolo della vicenda in presenza di un suo amico che, infine, lo narra al lettore. Interessante rilevare che l’amico del detective, soggetto narrante della vicenda, resti anonimo, come voce senza volto. Dopo un mese il Prefetto ritorna da Dupin che, inaspettatamente, è in grado di consegnargli la lettera dietro un lauto compenso. Il detective, successivamente all’uscita di scena del Prefetto, racconta all’amico di essersi recato due volte nella casa del Ministro: la prima per compiere una ricognizione visiva della sua abitazione individuando il documento sottratto in un portacarte appeso al centro di un camino. La seconda, dopo aver distratto il Ministro grazie a un complice, ha sostituito la lettera con un’altra sulla quale ha scritto con la sua grafia in modo che fosse riconoscibile la seguente citazione «Una trama si funeste se non è degna «La riproduzione interdetta» 131 d’Atreo è degna di Tieste» tratta da una delle più famose opere del drammaturgo Prosper de Crébillon5. 4. Lacan, la lettera e la ripetizione La rilevanza dell’analisi lacaniana del racconto di Poe per l’argomento del nostro ciclo di seminari si evince sin dalle primissime righe dove lo psicoanalista francese afferma che La nostra ricerca ci ha condotti al punto di riconoscere che l'automatismo di ripetizione (Wiederholungszwang) trae principio da ciò che abbiamo chiamato insistenza della catena significante. Questa nozione l'abbiamo isolata come correlativa dell'ex-sistenza (cioè: del posto eccentrico) in cui dobbiamo situare il soggetto dell'inconscio, se si deve prendere sul serio la scoperta di Freud6. Esaminiamo brevemente questa citazione e soprattutto alcune parole chiave. Il termine tedesco Wiederholungszwang, più frequentemente tradotto in italiano con la locuzione “coazione a ripetere”, “suole” indicare la tendenza inconscia a ripetere modalità comportamento tipiche, passate o stereotipate in contrasto con quello che Freud ha definito come il «principio di piacere». La scelta di tradurre con l’automatisme de répétition il termine freudiano ci pare interessante e ci riserviamo di studiarla in modo approfondito in altre sedi, tuttavia sin d’ora ci sembra utile ipotizzare un collegamento con uno dei più importanti riferimenti della formazione giovanile dello psicoanalista francese costituito da Gaétan de Clerambault7. La parola “ripetizione” ha, innanzitutto, nel lessico lacaniano, un’accezione clinica e psicopatologica nella quale il soggetto cosciente si scopre spettatore delle proprie azioni, agito da un automatismo del quale vede i limiti, che può descrivere sino alla finezza fenomenologica, senza essere tuttavia in grado di governare o controllare. La “catena significante” viene costruita a partire dall’algoritmo saussuriano rovesciato S/s (Significante su significato) che viene reiterato in una successione di elementi costruita in modo tale che un elemento Sn sia rispettivamente significato di Sn-1 e Significante di Sn+1. Questa DE CREBILLON (1707). LACAN (1955, p. 7). 7 PALOMBI (2009, pp. 17-18, 74). 5 6 132 Fabrizio Palombi reiterazione è il “principio” della ripetizione nella sua duplice accezione di fondamento e inizio. Il riferimento alla ex-sistenza interpretata come “posto eccentrico” ha la funzione di tenere insieme Freud e Heidegger e deve essere letta come una critica al soggetto umanistico che trova nella coscienza il proprio centro. Al contrario il baricentro della soggettività psicoanalitica è spostato verso la sua periferia costituita dalle formazioni dell’inconscio ovvero sogno, motto di spirito, lapsus e, come nel caso della coazione a ripetere, sintomo. Altri aspetti ripetitivi sono l’iterazione delle narrazioni e delle narrazioni di narrazioni, che incastrano il racconto di un personaggio dentro quello di un altro, la ricerca ossessiva dei poliziotti nella casa del ministro. Inoltre, secondo Lacan, nel testo di Poe viene riprodotta una struttura triangolare che potremmo così riassumere in riferimento a tre personaggi presenti nelle varie scene: a) Il Re, la Regina e il Ministro, b) la Regina, il Ministro e il Prefetto, c) il Prefetto, Dupin e l’amico e d) Il Ministro, Dupin e il complice. Derrida rileva che le numerose occorrenze di termini quali “trio” e “triangolo intersoggettivo” servirebbero a «descrivere le due scene del “dramma reale” così decifrato» in relazione al complesso edipico freudiano8. Questa è la verità ma (come direbbe Lacan) non tutta perché è verosimile che l’insistenza dello psicoanalista sul tema del triangolo serva per ricollegarsi non solo all’Edipo ma anche all’enigma dei tre prigionieri e alla temporalità che caratterizza il suo setting analitico9. In una pagina del seminario di Lacan si commenta la traduzione francese del titolo del racconto di Poe affermando che Baudelaire […] ha tradito Poe traducendo con «la lettre volée» il suo titolo The Purloined Letter, che usa una parola rara […] to purloin, […], anglo-francese, composta […] dal prefisso pur […] e dalla parola dell'antico francese: loing, loigner, longer. Nel primo elemento riconosceremo il latino pro, in quanto si distingue da ante perché suppone un dietro, davanti a cui esso si pone per eventualmente garantirlo o per porsene come garante […]. Il secondo, vecchia parola francese loigner […] vuol dire […] lungo: si tratta dunque di mettere da parte, o, per ricorrere ad una locuzione familiare francese che gioca sui due sensi, di mettre à gauche10. DERRIDA (1975, pp. 41-42). Cfr. PALOMBI (2009, pp. 44-47). 10 LACAN (1955-1966, p. 26). 8 9 «La riproduzione interdetta» 133 La glossa lacaniana evidenzia una lettera che non è propriamente sottratta ma piuttosto posta di riserva, conservata in vista del futuro: una traduzione che adombra gli obiettivi teorici della speculazione lacaniana sul testo di Poe per mostrare il suo ineluttabile destino. Si tratta della tesi che si trova alla conclusione del testo originario, successivamente integrato negli Scritti da un’Ouverture e da una Suite, nel quale leggiamo «la formula stessa […] della comunicazione intersoggettiva: in cui l'emittente […] riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita. Così, ciò che vuol dire “la lettera rubata”, cioè “giacente”, è che una lettera arriva sempre a destinazione»11. La lettera arriverebbe sempre perché essa non è tanto o solo un oggetto materiale quanto una posizione, una relazione indipendente dal suo contenuto, del quale, infatti, il racconto ci tiene all’oscuro. La sua esistenza è determinata da una relazione tra soggetti e infatti, se il ministro la distruggesse segretamente, renderebbe davvero invincibile il suo potere di ricatto. Lacan intende dimostrare «il potere del significante» in quanto «il vero protagonista del racconto» sarebbe la lettera che dirige il traffico di tutti i personaggi della storia12. In un'altra occasione commentando alcune pagine del terzo seminario, dedicati alla «pace della sera», avevamo dato una motivazione clinica del primato del significante come struttura soggettiva a protezione dal delirio ermeneutico che caratterizza la paranoia13. In quei brani del suo terzo seminario Lacan sostiene una simile tesi anche grazie a una sorta di strana mereologia di sapore fenomenologico. Infatti, leggiamo che la materialità del significante […] è singolare in più di un punto, il primo dei quali è di non supportare né sopportare punto la partizione. Fate una lettera a pezzettini, resta la lettera che è, e in tutt'altro senso da ciò di cui la Gestalttheorie può render conto con il larvato vitalismo della sua nozione di tutto14. LACAN (1966, p. 38, corsivo nostro). CHEMAMA, VANDERMERSCH (1998, p. 187). 13 PALOMBI (2011). 14 LACAN (1966, p. 21 e n. 1). 11 12 134 Fabrizio Palombi È importante ricordare in merito che Derrida, quasi vent’anni dopo, richiamerà questa posizione interpretandola come una sorta di radicalizzazione dell’interpretazione idealista della fenomenologia husserliana15. In questa sede, ispirandoci al tema derridiano della scrittura e al tentativo deleuziano di interpretare il barocco alla luce dell’algoritmo della piega16, vorremmo proporre una sorta d’interpretazione ologrammatica della lettera. Ricordiamo sommariamente che l’olografia è una nota tecnica di registrazione realizzata con particolari tipi di laser in grado di riprodurre illusoriamente la tridimensionalità di un oggetto della quale ci interessa particolarmente la proprietà dell’invarianza di scala che motiva anche la sua etimologia. La parola è un neologismo composto dai termini greci holos e grafè e possiede un significato che si potrebbe rendere con la locuzione “scrittura dell’intero” poiché, a differenza dalle tradizionali fotografie, ogni porzione di un ologramma possiede tutte le informazioni dell’immagine intera. Si potrebbe dire che in «un ologramma […] il tutto […] si rispecchia nelle singole parti frammentarie» poiché il «tutto sta nella parte che sta nel tutto»17. A una prima ricerca non risulta che Lacan abbia mai manifestato particolare interesse sull’argomento ma comunque pare coerente con la sua interpretazione ottica della soggettività che in questa sede abbiamo già avuto modo d’esaminare. Inoltre ricordiamo che lo psicoanalista francese si è impegnato in alcune riflessioni sulla cosiddetta «olofrase» che possiede alcune significative analogie con la proprietà dell’ologramma18. Per comprendere il guadagno dal punto di vista psicoanalitico bisogna integrare l’ologrammaticità della lettera con la natura immaginaria del trauma.19 In questo modo potremmo immaginare ogni singolo atto dell’automatismo di ripetizione, come qualcosa che riproduce un intero, una scena primaria della vita del soggetto della quale non coglie completamente il valore e che il soggetto è condannato a riprodurre. Dobbiamo pensare tale scena originaria come qualcosa che non è mai esistito, nel senso della semplice presenza, per porre la riproduzione come DERRIDA (1991, p. 165), cfr. PALOMBI (2012). DELEUZE (1988). 17 CARMAGNOLA (2007, p. 93). 18 Cfr. LACAN (1964, p. 233). 19 PALOMBI (2009, pp. 40-41). 15 16 «La riproduzione interdetta» 135 originaria e il soggetto come riproduttore di qualcosa di fondamentale di se stesso che è destinata a sfuggirgli. 5. Criptoermeneutica lacaniana La tesi di Derrida è diversa e, da alcuni punti di vista opposta, in quanto sostiene «non che la lettera non arrivi mai a destinazione, ma [che] fa parte della sua struttura il potervi anche non arrivare»20. Per dimostrare questa tesi Derrida usa diverse argomentazioni tra le quali la più celebre è fondata sull’analisi critica della cosiddetta “parola piena”. Si tratta di un concetto, caratteristico della prima fase della riflessione lacaniana, usato per distinguere la parola, pronunciata nel contesto analitico dal paziente per liberarsi dalle identificazioni immaginarie, da quella vuota, sorta di chiacchiera nel senso heideggeriano, che lascia il soggetto prigioniero dei propri riflessi speculari. La locuzione non compare mai in questa forma nel testo di Lacan sebbene siano presenti espressioni semanticamente vicine quali «discorso pieno di significazione»21 e riferimenti al cosiddetto “discorso di Roma”22. La parola piena dovrebbe dimostrare l’incapacità lacaniana di liberarsi del dominio del significato, dell’ermeneutica del senso e, di conseguenza, della cosiddetta metafisica della presenza. Queste considerazioni sostengono la critica radicale alla lettura lacaniana del testo di Poe. Derrida ritiene che «nel determinare il posto della mancanza» Lacan intenda proporre una sorta di “decifrazione ermeneutica” nonostante i suoi tentativi di “denegazione” non sarebbero in grado d’occultare il “significato ultimo” di questa criptoermeneutica lacaniana, il quale sarebbe da individuare nel «legame tra Femminilità e Verità» che Lacan, a quattordici anni di distanza, ripropone ancora.23 Derrida ritiene che nel momento in cui il Seminario, come Dupin, trova la lettera […] fra le gambe della donna, la decifrazione dell'enigma è ancorata alla verità. Il senso della novella, […] “la lettera rubata”, cioè “giacente” […] arriva sempre a destinazione […], è scoperto. In quanto scoperta di DERRIDA (1975, p. 59); cfr. VERGANI (2000, p. 112). LACAN (1966, pp. 15, 21). 22 LACAN (1956). 23 DERRIDA (1975, pp. 55-56). 20 21 136 Fabrizio Palombi un voler-dire (la verità), in quanto ermeneutica, la decifrazione […] arriva anch'essa a destinazione24. In questo modo si giunge a sostenere che «la verità della lettera rubata è la verità, il suo senso è il senso e che la dinamica di “velamento” e di “svelamento” consente di armonizzare «l'intero Seminario con il discorso heideggeriano sulla verità»25. Derrida è consapevole che le sue obiezioni potrebbero essere facilmente respinte ricordando che il testo citato appartiene a una fase del pensiero di Lacan che data agli anni Cinquanta e che non potrebbe valere per la successiva complessa evoluzione. Infatti, Derrida fa riferimento al “discorso di Roma” (1956) accoppiandolo con La direzione della cura (1961) come fulcro della sua operazione di lettura filosofica e giustificando il proprio anacronismo nel seguente modo: un certo tipo di enunciazioni sulla verità si è presentato […] sotto forma di sistema […]. Siccome il Seminario, insieme ad alcuni altri saggi cui farò riferimento […] fa parte di tale sistema […] occorre definirlo se si vuol capire la lettura della Lettera rubata. Si può e si deve farlo anche se, dopo il 1966, in un campo teorico trasformato, il discorso lacaniano sulla verità […] si prestasse a un certo numero di aggiustamenti26. Derrida sostiene un’interpretazione generale del pensiero di Lacan come sistema, che verrà in seguito fatta propria anche dalla Roudinesco, e che dovrebbe legittimare la propria lettura del Seminario su La lettera rubata. In questo modo egli può usare un brano estrapolato da un altro testo di Lacan, titolato appunto Parole vide et parole pleine dans la realisation psychanalytique du sujet, nel quale si sostiene che «il discorso rappresenta l'esistenza della comunicazione; anche se nega l'evidenza, afferma che la parola costituisce la verità […] anche se è destinato ad ingannare, specula sulla fede nella testimonianza»27. In questo modo Derrida intende svelare che nella lettura lacaniana «la circolazione sarà sempre quella della verità: verso la verità. DERRIDA (1975, pp. 59-60). Ivi, pp. 51-52. 26 Ibidem (corsivo nostro). 27 LACAN (1966, p. 245) citato in D ERRIDA (1975, pp. 95-96). 24 25 «La riproduzione interdetta» 137 Causa ed effetto del circolo, causa sui, tragitto proprio e destino della lettera»28. Il filosofo francese evidenzia in particolare un passo del discorso lacaniano nel quale «la parola piena» viene definita «per la sua identità con ciò di cui parla»29 per sostenere che «la parola […] dell'esegeta si riempirebbe nel momento in cui assume e si fa carico dei “principi di comprensione” del messaggio dell'altro […] in quanto esso “veicola” una “parola piena”»30. Questo sistema soddisferebbe una definizione rigorosa di «circolo ermeneutico» in quanto «l’autenticità» diverrebbe il «polo di adeguazione e di riappropriazione circolare per il processo ideale dell'analisi»31. Giunto a questo punto Derrida ha gioco facile nel proporre una compromettente citazione lacaniana nella quale un certo tipo di circolo viene esplicitamente usato e invocato. Si tratta di un brano nel quale lo psicoanalista francese sostiene che la lettera può subire una deviazione, perché ha un tragitto che le è proprio […]. Il significante si mantiene unicamente in uno spostamento paragonabile a quello delle pubblicità luminose […] in ragione del suo funzionamento alternante […] che esige che esso lasci il suo posto […] a patto di […] farvi ritorno circolarmente32. Nella modernità e nella postmodernità anche i messaggi pubblicitari, le luci e le regole gestaltiche che li animano, vengono interpretati da principi ermeneutici che non devono più decifrare la volontà divina ma quella del mercato che ne ha preso il posto. In questo modo la psicoanalisi sembrerebbe perdere gran parte di quella sua funzione critica che Lacan aveva rivendicato nella sua ambiziosa sfida nei confronti della psicologia dell’Io. Inoltre, Derrida rileva che il Seminario di Lacan, pronunciato nel 1955 ebbe nel 1966 il suo posto all'inizio degli Ecrits, secondo un ordine, non […] cronologico, […]. Forse dovrebbe organizzare una certa scena degli Ecrits. […]. A chi vorrà limitare la portata degli interrogativi sollevati in questa sede, nulla DERRIDA (1975, p. 133, n. 31). LACAN (1966, p. 373). 30 DERRIDA (1975, p. 100). 31 Ivi, p. 101. 32 LACAN (1966, pp. 26-27) citato in D ERRIDA (1975, p. 49). 28 29 138 Fabrizio Palombi impedisce di contenerli al posto attribuito a questo Seminario dal suo autore: un posto d'ingresso33. Il combinato disposto di queste due tesi è una sorta di attacco frontale contro la psicoanalisi lacaniana che sembrerebbe da alcuni punti di vista liquidata come espressione della tradizione fallologocentrica 34 che in seguito sarà attenuato senza tuttavia abbandonare mai completamente le sue riserve nei confronti di Lacan 35. Condividiamo se non la sistematicità del discorso lacaniano almeno una caratteristica organicità, ma riteniamo che Derrida non valuti appieno la portata della lettura retroattiva che lo psicoanalista francese applichi ai suoi testi da lui stesso evidenziata nella sua seconda tesi. La lettura après-coup, di origine freudiana e condivisa sia dallo psicoanalista sia dal filosofo francese, modifica retroattivamente il valore del discorso e quindi anche della funzione della “parola piena”. A questo proposito è importante segnalare che Lacan propone un’efficace replica a queste accuse già nel diciottesimo Seminario, intitolato Di un discorso che non sarebbe quello del sembiante, che si può articolare nei seguenti tre punti: a) distinzione del discorso filosofico da quello analitico già proposta nel seminario precedente, b) inefficacia della riduzione della psicoanalisi lacaniana al logocentrismo in opposizione a “una mitica archiscrittura” e c) smarcamento «della nozione di ‘parola piena’ dalla formulazione logocentrica» derridiana. Lacan sottolinea che la pienezza della parola non riguarda la sua originarietà, in seguito decaduta, indebolita o svuotata, ma che dipende dall’oggetto piccolo “a” quale «presentificazione impossibile del mitico oggetto del primo soddisfacimento»36. 6. Cornici e abissi Se questa nota critica di Derrida non ci sembra efficace, invece riteniamo assai interessante un’altra sua argomentazione nella quale, con effetto chiasmatico, viene messa in campo una sorta d’interpretazione DERRIDA (1975, p. 126, n. 7, corsivi dell’autore). DERRIDA (1975, p. 137, n. 39). 35 DERRIDA (1991) e (2003). 36 COSENZA (2008, pp. 276-277). 33 34 «La riproduzione interdetta» 139 ottica (almeno a noi piace pensarla così) de La lettera rubata nella quale giocano un ruolo fondamentale i concetti di “cornice” e di “messa in abisso”. Derrida ritiene che vi sia «una cornice invisibile ma strutturalmente irriducibile intorno alla narrazione» i cui limiti sono difficilmente individuabili37. Il filosofo usa il termine francese cadre che, come sua consuetudine teoretica, possiede un’interessante polisemia in quanto può significare “cornice” ma anche «quadro […] nell'accezione cinematografica e fotografica».38 Lacan non si accorgerebbe dell’importanza di tale cornice e la ritaglierebbe senza preoccuparsi degli effetti della sua operazione per «ricostruire la scena del significante in significato […], il testo in discorso».39 Nel primo capitolo del libro di Derrida, titolato «pretesti furtivi», viene analizzato un brano de L’interpretazione dei sogni dove Freud commenta la celebre favola di Andersen intitolata I vestiti nuovi dell’Imperatore40. Nelle ultime righe di questo capitolo preliminare Derrida individua nel commento freudiano uno strumento teorico fondamentale che sarà successivamente applicato sul seminario di Lacan. Si tratta della messa a nudo della messa a nudo, […] proposta da Freud, la messa a nudo del motivo della nudità […] motivo […] travestito […] dalla fiaba di Andersen […] in una scrittura che […] non appartiene più allo spazio della verità decidibile. Secondo una struttura abissale5 […] la scena analitica, messa a nudo […] viene prodotta […] in una scena di scrittura che denuda […] il senso dominante […] e la verità del re41. Il baricentro di questa citazione si trova nell’aggettivo abissale che viene precisamente esaminato dal traduttore italiano in relazione alla «mise en abîme, l'inclusione in abisso […]. L'espressione è di origine araldica: si dice in abisso o “in cuore” quando lo scudo, oltre alle altre figure principali, porta nel suo centro un'altra figura o un piccolo scudo, che ha la caratteristica di riprodurre il disegno dell'intero scudo, e quindi anche del piccolo scudo e così via, ad infinitum».42 L’abissalità serve a Derrida per sostenere, contro Lacan, che DERRIDA (1975, pp. 38-39, corsivo nostro). ZAMBON (1978, p. 127, n. 10). 39 DERRIDA (1975, p. 39). 40 Ivi, p. 18 e FREUD (1899, p. 227). 41 DERRIDA (1975, pp. 20-21, corsivo nostro). 42 ZAMBON (1978, p. 125, n. 5). 37 38 140 Fabrizio Palombi La lettera rubata […] non comincia né con i drammi triangolari, né con la narrazione che li mette in scena […]. Con essi perciò non termina nemmeno. La lettera rubata mette in scena un narratore e un regista […] il quale - finto dalla Lettera rubata - finge con La lettera rubata di raccontare il “dramma reale” della lettera rubata, ecc. Altrettanti supplementi che “abissano” […] il triangolo narrato43. Tale dinamica mette in crisi la possibilità di organizzare in modo stabile la struttura del racconto, come abbiamo inizialmente proposto anche noi, seguendo la reiterazione dell’algoritmo saussuriano rovesciato di Lacan. Nello stesso modo diventa impossibile discretizzare le ripetizioni, i passaggi di testimone da significante a significato, collocandole nella successione che abbiamo presentato precedentemente. Le ripetizioni qui sembrano, da un lato, inabissarsi in un regresso all’infinito e, dall’altro, sovrapporsi, come fotogrammi di una pellicola sovraesposta sulla quale la stessa immagine compare con i contorni moltiplicati e sfocati. In proposito si deve anche tenere «presente, in rapporto ai molteplici giochi di Derrida, che il verbo abîmer vuol dire [anche] guastare, rovinare»44. Secondo Derrida tale «scena di scrittura» e i suoi «limiti […] abissati» impongono una «interminabile deriva» alla «unità» de La lettera rubata di cui il Seminario di Lacan non terrebbe «minimamente conto»45. Per cercare di tematizzare le paradossali e inconfessate complicità teoriche tra i due Jacques ci sembra interessante segnalare, come ricorda anche il traduttore italiano, che il modo più semplice per realizzare la “messa in abisso” è quella di prendere due specchi piani e di disporli parallelamente: si crea così una scia di riflessi in cui gli oggetti sono riprodotti su scala sempre inferiore che costituisce una fuga all'infinito, poiché l'oggetto si rimpicciolisce fino ad assumere dimensioni impercettibili. Ci sembra sia possibile vedere, in questo punto del testo di Derrida, un’autoapplicazione della messa in abisso derridiana allo stesso testo derridiano perché con malizia potremmo rintracciarvi la passione lacaniana per gli specchi sviluppata nelle diverse varianti del dispositivo ottico. DERRIDA (1975, p. 36). ZAMBON (1978, p. 125, n. 5). 45 DERRIDA (1975, p. 107). 43 44 «La riproduzione interdetta» 141 7. Conclusione: la riproduzione interdetta Siamo convinti che al di là delle vicende personali che hanno diviso i due studiosi le loro ricerche si illuminano e chiariscono reciprocamente con una struttura chiasmatica che lo stesso Derrida ha messo in luce (1991). Come tenere insieme Lacan e Derrida allo scopo di approfondire e chiarire il problema della ripetizione? Nella coazione a ripetere il soggetto riproduce qualcosa che gli sfugge perché è interdetto da una dinamica inconscia. Qualcosa che è invisibile perché troppo evidente come accade ne Il perturbante46 ma soprattutto in alcuni momenti della fase dello specchio lacaniana. Qualcosa che è, sotto alcuni punti di vista, non completamente controllabile e definibile. Sembrerebbe possibile individuare il cuore sfuggente della ripetizione in una dialettica tra identità e differenza in quanto la ripetizione è il riprodursi di un identico che non può essere tale: se lo fosse temporalmente, spazialmente o logicamente, non sarebbe una riproduzione ma l’originale. Questa argomentazione ossimorica indica che se qualcosa non fosse identico a qualcosa d’altro non potremmo parlare di ripetizione, ma nemmeno se lo fosse totalmente. Per questo, seguendo anche Lacan e Derrida, proviamo a pensare la ripetizione come originaria poiché risolve le aporie che nascono dal pensare la ripetizione come una riproduzione dell’origine. In un modo suggestivo vorremo concludere il contributo riferendoci a un celebre quadro di René Magritte intitolato La riproduzione interdetta (1937) che pare metta in scena con grande efficacia quanto abbiamo provato faticosamente ad argomentare. Questa famosa opera d’arte, conservata al Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, sorprende lo spettatore mostrando un individuo che contempla, riflessa in uno specchio surreale, le proprie spalle. Si tratta di una sorta di specchio rovesciato, di anti-specchio, che, come nel celebre quadro di Velasquez studiato da Foucault o nelle anamorfosi catottriche valorizzate dai surrealisti e da Lacan, non si limita a duplicare la realtà in modo neutrale ma produce un “quadro” diverso, nel quale soggetto e oggetto, interno ed esterno producono un estimo47 cortocircuito. 46 47 FREUD (1919). PALOMBI (2008) 142 Fabrizio Palombi Nel quadro ritroviamo anche Poe perché il libro appoggiato sulla mensola, riflesso correttamente, mostra la copertina di una sua opera, tradotta da Baudelaire (1858) e intitolata The Narrative of Arthur Gordon Pym (1838). La riproduzione interdetta sembra possa essere applicata alla coazione a ripetere dove un’intera scena viene riprodotta dettagliatamente perdendo però alcuni elementi essenziali come quello del volto. Ponendo alle spalle dell’individuo un altro specchio di questo tipo potremmo riprodurre una messa in abisso oppure pensare che La riproduzione interdetta sia la cornice di un’altra messa in abisso. Abstract Hermeneutic was considered as a koiné, a common language which allows the communication between philosophy, science, religion and art within the boundary of sense. My paper analyzes Jacques Derrida's attempt to force this barrier of meaning examining one of his most famous books titled The factor of truth. Edgar Alan Poe, Sigmund Freud and Jacques Lacan are the main theoretical references used by the French philosopher to face the challenge that my paper will deal with and try to reconstruct from a historical and logical point of view, underlining the importance of psychoanalytic repetition. The focus of the paper's argumentation is represented by a comparison between Lacanian and Derridian strategies of criticizing hermeneutic and its circular dynamic. Bibliografia F. BONICALZI (2011, a cura di), Pensare la pace. Il legame imprendibile, JacaBook, Milano. M. CARDOT ET AL. (1991, a cura di), Lacan avec les philosophes, Albin Michel, Paris. F.CARMAGNOLA (2007), Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di ágalma, Mimesis, Milano. R. CHEMAMA, B. VANDERMERSCH, (1998), Dictionnaire de la Psychanalyse, Larousse-Bordas, Paris, trad. it. Dizionario di psicanalisi, Gremese, Roma, 2004. «La riproduzione interdetta» 143 D. 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