I SAGGI DI LEXIA

Direttori
Ugo V
Università degli Studi di Torino
Guido F
Università degli Studi di Torino
Massimo L
Università degli Studi di Torino
I SAGGI DI LEXIA
Aprire una collana di libri specializzata in una disciplina che si vuole
scientifica, soprattutto se essa appartiene a quella zona intermedia
della nostra enciclopedia dei saperi — non radicata in teoremi o esperimenti, ma neppure costruita per opinioni soggettive — che sono
le scienze umane, è un gesto ambizioso. Vi potrebbe corrispondere
il debito di una definizione della disciplina, del suo oggetto, dei suoi
metodi. Ciò in particolar modo per una disciplina come la nostra:
essa infatti, fin dal suo nome (semiotica o semiologia) è stata intesa in
modi assai diversi se non contrapposti nel secolo della sua esistenza
moderna: più vicina alla linguistica o alla filosofia, alla critica culturale
o alle diverse scienze sociali (sociologia, antropologia, psicologia). C’è
chi, come Greimas sulla traccia di Hjelmslev, ha preteso di definirne
in maniera rigorosa e perfino assiomatica (interdefinita) principi e
concetti, seguendo requisiti riservati normalmente solo alle discipline
logico–matematiche; chi, come in fondo lo stesso Saussure, ne ha
intuito la vocazione alla ricerca empirica sulle leggi di funzionamento
dei diversi fenomeni di comunicazione e significazione nella vita sociale; chi, come l’ultimo Eco sulla traccia di Peirce, l’ha pensata piuttosto
come una ricerca filosofica sul senso e le sue condizioni di possibilità;
altri, da Barthes in poi, ne hanno valutato la possibilità di smascheramento dell’ideologia e delle strutture di potere. . . Noi rifiutiamo un
passo così ambizioso. Ci riferiremo piuttosto a un concetto espresso da
Umberto Eco all’inizio del suo lavoro di ricerca: il “campo semiotico”,
cioè quel vastissimo ambito culturale, insieme di testi e discorsi, di
attività interpretative e di pratiche codificate, di linguaggi e di generi,
di fenomeni comunicativi e di effetti di senso, di tecniche espressive
e inventari di contenuti, di messaggi, riscritture e deformazioni che
insieme costituiscono il mondo sensato (e dunque sempre sociale
anche quando è naturale) in cui viviamo, o per dirla nei termini di
Lotman, la nostra semiosfera. La semiotica costituisce il tentativo paradossale (perché autoriferito) e sempre parziale, di ritrovare l’ordine
(o gli ordini) che rendono leggibile, sensato, facile, quasi “naturale”
per chi ci vive dentro, questo coacervo di azioni e oggetti. Di fatto,
quando conversiamo, leggiamo un libro, agiamo politicamente, ci
divertiamo a uno spettacolo, noi siamo perfettamente in grado non
solo di decodificare quel che accade, ma anche di connetterlo a valori,
significati, gusti, altre forme espressive. Insomma siamo competenti e
siamo anche capaci di confrontare la nostra competenza con quella altrui, interagendo in modo opportuno. È questa competenza condivisa
o confrontabile l’oggetto della semiotica.
I suoi metodi sono di fatto diversi, certamente non riducibili oggi a
una sterile assiomatica, ma in parte anche sviluppati grazie ai tentativi
di formalizzazione dell’École de Paris. Essi funzionano un po’ secondo
la metafora wittgensteiniana della cassetta degli attrezzi: è bene che ci
siano cacciavite, martello, forbici ecc.: sta alla competenza pragmatica
del ricercatore selezionare caso per caso lo strumento opportuno per
l’operazione da compiere.
Questa collana presenterà soprattutto ricerche empiriche, analisi
di casi, lascerà volentieri spazio al nuovo, sia nelle persone degli autori che degli argomenti di studio. Questo è sempre una condizione
dello sviluppo scientifico, che ha come prerequisito il cambiamento
e il rinnovamento. Lo è a maggior ragione per una collana legata al
mondo universitario, irrigidito da troppo tempo nel nostro Paese da
un blocco sostanziale che non dà luogo ai giovani di emergere e di
prendere il posto che meritano.
Ugo Volli
Ugo Volli
Alla periferia del senso
Esplorazioni semiotiche
Copyright © MMXVI
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[email protected]
via Quarto Negroni, 
 Ariccia (RM)
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: luglio 
Indice

Introduzione
Parte I
Ai margini della teoria

Capitolo I
Il simbolo: plusvalore semiotico

Capitolo II
Tempo esterno e tempo interno ai testi

Capitolo III
L’analisi semiotica come ricerca empirica sul testo

Capitolo IV
Senso e marcatura

Capitolo V
Il soggetto. Riflessione e trascendenza di una maschera

Capitolo VI
Verità plurale

Capitolo VII
Quale ecologia della comunicazione?

Capitolo VIII
Per una biografia sociale dei testi

Capitolo IX
Culture e strategie della memoria

Indice


Capitolo X
Le pertinenze dell’impertinenza
Parte II
Testualità eccentriche

Capitolo I
L’ineffabile e l’apparizione

Capitolo II
Ordine dal caos, ovvero metafisica e semiotica dell’agentività

Capitolo III
L’immaginario delle origini. Uno strumento per la semiotica della
cultura

Capitolo IV
Al di là del principio di significazione. La teoria semiotica alla
prova dei sogni di Freud

Capitolo V
«Il logos è un potente signore»

Capitolo VI
Previsione, profezia, senso
Parte III
Generi anomali

Capitolo I
Il testo della città

Capitolo II
Pertinenza semiotica e tipologia delle pratiche urbane

Capitolo III
La comunicazione della salute, fra paradigmi medici e mondo della
vita
Indice

Capitolo IV
Seduzione spettrale

Capitolo V
False icone. Per un’analisi semiotica del fotogiornalismo

Bibliografia

Introduzione
.
Che cos’è il senso? Il senso, voglio dire, nell’accezione di ciò che
sarebbe contenuto e veicolato nei testi, nelle pratiche e nei segni e li
renderebbe per l’appunto sensati: il senso per cui qualche cosa “ha
senso” (oppure in inglese lo fa: something makes sense); il senso pensato
come più profondo, generale e originario anche se meno articolato
del mero significato di un’espressione, che certamente dipende dalle
lingue e dalle culture; il senso distinto anche dal referente, dalla cosa
indicata da un nome, e pure e dal modo per catturarlo (questo è il Sinn
o “senso” com’è definito da Frege e sai suoi eredi, un’accezione da cui
l’interrogativo che voglio porre qui è ben distinto). Nella tradizione
linguistica si è talvolta autorevolmente affermato che il senso esiste, ma
non se ne può dire nulla (così Bloomfield, citato in Greimas Courtés
(), ad vocem “Effets du sens”).
E però non è chiaro se il senso così inteso davvero c’è, cioè se innanzitutto vi sia veramente una cosa come il senso, adeguata alla categorizzazione esclusivamente negativa che ne ho dato finora. Che nelle
lingue indoeuropee si ritrovi spesso una parola come senso, Sinn, sense,
ecc., collegata etimologicamente alla percezione sensoriale dell’esperienza invece che alla dimensione espressiva del segno (com’è invece
il caso del suo forse o quasi sinonimo significato, participio passato
del verbo significate, che è signum facere), non implica necessariamente che esista davvero un’entità corrispondente a questa espressione.
Essa potrebbe essere uno di quei numerosi elementi linguistici che,
pur avendo la forma del sostantivo e non dell’aggettivo e del sincategorematico, ci aiutano sì a comunicare, ma non necessariamente
descrivono un’entità precisa. È per esempio il caso di “coincidenza”,
“colore”, “spirito”, “coscienza”, “nulla”, “identità”, “cultura”, di cui
è certamente non banale indicare una cosa che vi corrisponda, anche se vi sono dei processi o delle condizioni che sono utilmente


Introduzione
descritti da tali parole e se certamente vi sono state filosofie che si
affannarono a cercare di postulare o costruire o ritrovare la cosa che
vi corrisponderebbe.
“Senso” potrebbe forse indicare una certa qualità dell’esperienza,
un certo modo in cui noi ci sentiamo a casa nel mondo e siamo
in grado di comprendere (“dare senso”) i dettagli che incontriamo:
un oggetto, un’espressione sulla faccia di qualcuno, un fatto storico.
Potrebbe essere più opportuno pensare dunque il senso non come
un sostantivo, qualcosa che per l’appunto c’è o non c’è, ma come
un aggettivo, una qualità, che può essere più o meno presente, più
o meno accentuata, può più o meno confondersi con altre qualità o
risultare un loro effetto — così come il dolce che sentiamo in bocca
non è il frutto della partecipazione degli oggetti di una qualche essenza
astratta dolcezza o addirittura della presenza di un qualche singolo elemento concreto che costituisca “il dolce”, ma è l’effetto che sostanze
chimiche molto diverse, come il saccarosio, il destrosio, la saccarina e
l’aspartame, che non hanno per nulla una costituzione chimica analoga e non contengono una stessa sostanza, ma grazie a certi dettagli
della loro struttura chimica riescono ugualmente a eccitare i recettori
delle cellule che costituiscono il nostro apparato sensoriale del gusto
deputato a riconoscere i cibi ricchi di carboidrati.
L’esperienza di base da cui prenderebbe le mosse la definizione del
senso non sarebbe relativa a un qualcosa che si “afferri” di cui senso sarebbe il nome, ma il fatto di trovare sensato qualcosa, di comprenderla —
sia questa cosa compresa un artefatto linguistico (una certa espressione
o frase) o comunicativo (un atto o una cosa cui potremmo assegnare la
qualità di testo), o perfino una cosa o una situazione del mondo. Senza
nascondersi, naturalmente, che la nozione di comprensione è a sua
volta altamente problematica e fortemente discussa.
Bisogna prendere atto però che la nozione di senso nella tradizione semiotica — almeno in quella strutturalista/greimasiana — ha
occupato un posto centrale, sebbene poco analizzato. Vengono chiamati “effetti di senso” quelle conseguenze cognitive e passionali che
i testi producono, al di là di quel che affermano esplicitamente; è
detto “percorso generativo del senso” la ricostruzione della costituzione per piani e trasformazioni successive che la semiotica generativa
ipotizza costituisca la narrazione e attraverso di essa tutto ciò che
è testo, cioè un frammento della realtà cui si può attribuire, se non
Introduzione

un significato preciso, almeno un “senso”. Del resto nella tradizione
fenomenologica da cui la semiotica prende molto, si parla di “donazione di senso”(Sinngebung) da parte del soggetto coinvolto in un atto
intenzionale a questo o quell’oggetto o al mondo nel suo complesso,
che diventa con questo atto “sensato” e interpretabile e in fondo in
questa relazione si determinano come oggetto e come mondo. Il che
naturalmente pone molti problemi sulla corrispondenza fra questo
senso “donato” e gli altri sensi donati da altri soggetti (l’intersoggettività del senso) e anche con la struttura intrinseca della realtà, quella che
è l’oggetto della scienza (la sua oggettività).
Non è questo il problema che intendo pormi qui, né ho l’obiettivo
qui di discutere né in maniera storica né in via teorica il problema che
potremmo chiamare parafrasando Odgen e Richards (che si ponevano
il problema più limitato del significato) quale sia e se vi sia un “senso
del senso”. È possibile che qualunque considerazione empirica (fatta
esclusione dunque delle analisi trascendentali o fondazionali come
quella di Husserl) debba partire dal fatto che il mondo appare sensato
e che gli oggetti, le persone le relazioni che vi si ritrovano normalmente sembrano aver senso e che questa fiducia fondamentale è fra le
caratteristiche necessarie di ciò che consideriamo uno stato mentale
normale. Chi non condivide la percezione del carattere sensato della
realtà e delle relazioni fra individui certamente è escluso dalla normale
vita sociale e nella nostra società è considerato un folle, un “malato di
mente”; il che significa che una certa presa del senso è fra i requisiti
condivisi di una condizione umana normale.
Certo, questa presa ovvia e scontata può essere sospesa da un esercizio filosofico di epoché. Esso viene ben prima di Husserl, ma risale
a Platone, (Teeteto d: «È proprio del filosofo questo che tu provi,
di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare
che questo») e ad Aristotele («Infatti gli uomini hanno cominciato a
filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da
principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici,
in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi
sempre maggiori” Metafisica, b–a), essendo la meraviglia esattamente l’incertezza sul senso. Un’esperienza del resto che, in maniera
più radicale e immediata, si può ritrovare anche nella vita quotidiana,
anche solo dall’assunzione di sostanze (letteralmente) “stupefacenti”,
o nelle diverse forme dello spaesamento, della nevrosi, della follia.

Introduzione
Ma la semiotica non si occupa istituzionalmente di queste condizioni
radicali; quanto alla meraviglia della filosofia essa deve notare che una
scelta del genere non può che essere parziale: l’interrogazione teorica,
il ti esti socratico come il dubbio cartesiano e l’epoché fenomenologica sono mosse che presuppongono la capacità comunicativa e magari
anche linguistica e dunque l’esercizio del senso, perfino nella forma
alta del logos, della razionalità autoconsapevole. La strategia di togliere
la presupposizione di senso da questo o quell’aspetto o oggetto della
realtà per quanto fondamentale, al fine di interrogarne la natura e la
costituzione, può illuminare la natura di ciò che è interrogato, ma non
dell’interrogare stesso, cioè della domanda stessa di senso.
Vale la pena, prima di procedere oltre nel ragionamento, di richiamare alcuni legami linguistici, che danno degli indizi non forse su che
cosa sia il senso, ma sulle parentele che la lingua (o almeno buona
parte delle lingue europee) gli attribuiscono e che dunque vigono nella percezione collettiva della nostra cultura. Una di queste parentele,
già citata sopra, associa il senso ai sensi, cioè alla percezione, alla dimensione sensibile dell’essere umano. Così per esempio Quintiliano
nel De istitutione oratoria .VIII,  dice che la parola sensus si applicava
all’inizio alle sensazione del corpo ma poi si è stabilito l’uso ut mente
concepta sensus vocaremus. È evidentemente un’estensione metaforica
che proietta le proprietà di un oggetto fisico, soprattutto di un processo corporeo sul campo intellettuale, come spiegano Lakoff & Johnson
(). Ma la parentela può dire di più. Questa vicinanza può essere
letta per esempio come una lessicalizzazione previa della sentenza di
origine aristotelica per cui nihil in intellectu quod non prius in sensibus
(Tommaso d’Acquino De veritate, q.  a.  arg. ). Il senso sarebbe
dunque il rimando alla stabilità del mondo che è caratteristica dell’esperienza della percezione. Ma le neuroscienze hanno chiarito bene
bene che questa stabilità (per esempio il fatto di percepire cose costanti
e non stimoli variabili quando muoviamo gli occhi o un oggetto si
sposta davanti a noi) è il frutto finale di una catena di elaborazioni del
sistema nervoso centrale e non di un rapporto immediato con la cosa,
di un suo fantasma che ci entri nell’occhio come pensavano ancora i
filosofi greci.
Una seconda parentela mette in relazione senso e direzione, come
nell’italiano “senso unico”; è un’interessante intuizione, che può richiamare la nozione fenomenologica di intenzionalità (il senso sarebbe
Introduzione

sempre senso di qualcosa, atto teso verso un oggetto preciso. O in maniera più stimolante dal punto di vista semiotico, si può pensare che
la direzionalità sia una caratteristica essenzialmente narrativa. Sono
le storie, almeno nella dimensione dell’esperienza umana, a dare una
direzione precisa, un ordine alla confusione e alla complessità del mondo. Quest’ordine sequenziale fu già sottolineato da Aristotele nella
Poetica b (dove si afferma che l’inizio è ciò rispetto a cui nulla
può venire prima, la fine è ciò cui nulla può seguire). Esso è realizzato
ponendo all’inizio l’unione del soggetto con l’oggetto di valore sul
piano dell’enunciato come sfida per il soggetto e allo stesso tempo
sul piano dell’enunciazione come motivo di interesse per il lettore.
Esso costituisce insieme la direzione della storia e il suo senso. Poiché
una delle tesi più significative della semiotica contemporanea è che il
senso in ogni testo ha sempre una natura fondamentalmente narrativa,
il rapporto linguistico fra senso e narrazione appare particolarmente
stimolante. Forse ha senso ciò che si può iscrivere in una qualche
storia, che può essere oggetto di valore, aiutante, oppositore, che può
insomma assumere una qualche funzione attanziale ed è dunque da
ciò “direzionato”. Forse proprio per questo è ragionevole parlare di
effetti di senso, quando il testo stesso diventa strumento per ottenere
qualche risultato non banale, che sia sul piano delle passioni, della
persuasione, della percezione della realtà. E altrettanto ragionevole
sembra parlare di “percorso generativo del senso” per quel meccanismo stratificato che si può ipotizzare come la serie dei passi che
portano a una narrazione compiuta.
.
Il percorso analitico svolto finora mi è servito a problematizzare la
nozione di senso, a mostrarne la complessità e entro certi limiti la gradualità. Su questa base è possibile suggerire, come fa il titolo di questo
libro, che se ci fosse un senso che sussiste come una cosa, questa cosa
sarebbe sfumata, non precisamente delimitata; se fosse una qualità, questa qualità sarebbe intensiva, costruita come un insieme fuzzy intorno a
una serie di prototipi, non secondo la logica binaria che è caratteristica
dello strutturalismo originario e dei suoi tratti pertinenti; dunque che si
possa pensare il senso con un “centro” e una periferia, o meglio molte

Introduzione
periferie gerarchizzate, distinte o variamente intrecciate fra loro. Questa
supposizione porta a pensare che le periferie del senso sono luoghi
(testuali, culturali, sociali) in cui il senso non è pienamente compiuto o
distinto o socialmente condiviso. Luoghi di speciale interesse, almeno
per l’autore degli studi che seguono, su cui vale la pena di soffermarsi
non solo per la loro intrinseca importanza sociale, ma anche per la loro
incerta condizione di senso. La questione può essere affrontata anche a
partire dallo stato della teoria semiotica. È chiaro che nella sua storia e
innanzitutto nel corso degli ultimi cinquant’anni la semiotica ha sviluppato una serie di strumenti che permettono di cogliere il funzionamento
del senso. Fra essi innanzitutto la nozione di segno con i suoi diversi
componenti (significante e significato, espressione e contenuto, forma
sostanza e materia, interpretante interprete e oggetto) e poi ancora la
teoria narrativa, sia nel senso greimasiano che in quello genettiano ed
echiano, la teoria delle immagini con la distinzione fra livello plastico e
figurativo, quella dei vari livelli del linguaggio cinematografico, i criteri
di analisi degli oggetti e così via. Tutto questo patrimonio metodologico
non è poca cosa, perché permette di studiare in maniera intersoggettivamente verificabile e standardizzata numerosi tipi di testi. Ormai
l’analisi di un quadro, di una scena da film, di una pubblicità, almeno
a un livello non particolarmente originale e approfondito, fanno parte delle competenze richieste a uno studente di semiotica del primo
triennio universitario. D’altro canto questi metodi, sorti per analizzare il
senso dei testi più comuni, a loro volta individuano uno spazio centrale
del senso, quello che si lascia cogliere con tali metodi standard.
Questa teoria, lo ripeto, è certamente utile, ma lascia anche insoddisfatti, perché molti oggetti e situazioni che noi consideriamo comunemente sensati non sono analizzabili facilmente usando questi sistemi
e dunque restano alla periferia del senso, cui deve corrispondere una
volontà di estensione periferica della teoria semiotica. Nella mia storia
di studioso, questo problema è sempre stato presente, dalle antiche ricerche sulla divinazione astrologica, sul silenzio, sul teatro, fino a quelle
più recenti testimoniate negli scritti che seguono.
Questi scritti sono stati più o meno tutti preparati negli ultimi cinque
anni per convegni, numeri monografici di riviste, occasioni di dibattito
scientifico. Ma appartengono certamente a un percorso comune, ne
. I capitoli che seguono sono apparsi in versioni precedenti come testi autonomi in
Introduzione

costituiscono delle tappe. In essi emerge l’insoddisfazione per la metodologia semiotica corrente, non nel senso di una posizione distruttiva e
della volontà di rovesciarla, ma dell’intenzione di ampliarne i confini,
di verificarne delle alternative su singoli punti, di usarla comunque come una “cassetta per gli attrezzi”, secondo la metafora di Wittgenstein,
e non come una monolitica teoria da prendere o lasciare in blocco.
Emergono anche degli interessi costanti per la semiotica del discorso
religioso, in particolare nella cultura ebraica e nella filosofia classica,
per i problemi relativi alla rappresentazione, per quelle forme di interazione in cui il senso è ottenuto in forme diverse da quelle previste
dalla classica teoria della comunicazione, come nel caso delle città e
dell’abbigliamento, per gli effetti dei media, per problemi classicamente
filosofici, come quelli del soggetto, della verità, dell’azione, ripensati
però come problemi semiotici.
diversi luoghi. Tutti questi testi sono stati rielaborati per questa pubblicazione in volume.
Essi sono stati tutti pubblicati senza cederne i diritti d’autore. In particolare “Il simbolo:
plusvalore semiotico” è il frutto di una relazione a un convegno sul simbolo della Fondazione
Pistoletto ed è stato poi pubblicato in Massimo Melotti (a cura di) Sul simbolo, Luca Sossella
Editore, Roma . “Tempi interni tempi esterni” è la revisione di uno scritto pubblicato ne
Festschrift in onore di Gianfranco Bettetini, La realtà dell’immaginario, pubblicato nel 
a cura di Gianfranco Casetti, Armando Fumagalli e Fausto Colombo dall’editore Vita e
Pensiero. “L’analisi semiotica come ricerca empirica sul testo” è uscita sulla rivista Cosmo
nel . “Senso e marcature” in Isabella Pezzini, Lucio Spaziante, (a cura di) Corpi mediali,
Pisa, Edizioni ETS; “Previsione, profezia, senso” in Ieri, oggi, domani — Studi sulla previsione
nelle scienze umane, a cura di Gian Marco De Maria, Aracne, Roma, ; “Il soggetto —
Riflessione e trascendenza di una maschera” in Massimo, Leone, Isabella Pezzini (a cura
di) Semiotica della soggettività, Aracne, Roma; “L’ineffabile e l’apparizione”, in Lexia –;
“Il logos è un potente signore”, in Spazio filosofico, vol. /; “La comunicazione della
salute, fra paradigmi medici e mondo della vita”. Bioetica, Anno XX n. ; “ L’immaginario
delle origini” Lexia / “Al di là delle culture, le strategie della memoria”, in Lexia /
“Pertinenza semiotica e tipologia delle pratiche urbane”, in VS –; “Il testo della città
— problemi metodologici e teorici”, in Lexia /; “Ordine dal caos, ovvero metafisica e
semiotica dell’agentività” in Lexia /; Per una biografia sociale dei testi”, in Ana Claudia
de Oliveira.(a cura di) As interações sensíveis: Ensaios de sóciossemiótica a partir da obra de Eric
Landowski, Sao Paulo:Edicao de Letras e cores. “Quale ecologia della comunicazione?”, in
Claudio Bisoni, Veronica Innocenti (a cura di), Media Mutations, Mucchi Editore, Modena;
“Al di là del principio di significazione — La teoria narrativa alla prova dei sogni di Freud”,
in Anna Maria Lorusso, Claudio Paolucci, Patrizia Violi (a cura di), Narratività — problemi,
analisi, prospettive, Bononia University Press, Bologna; “Seduzione spettrale”, in Gian Marco
De Maria, Antonio Santangelo (a cura di), La TV o l’uomo immaginario Aracne, Roma. “False
icone. Per un’analisi semiotica del fotogiornalismo”, in Vincenza del Marco, Isabella Pezzini,
(a cura di) La fotografia, oggetto teorico e pratica sociale, Edizioni Nuova Cultura, Roma; “Le
pertinenze dell’impertinenza” in Giulia Ceriani e Eric Landowski (a cura di) Impertinenze, et
al./Edizioni, Milano.