L`ansia: qualche domanda e qualche risposta

L'ANSIA
QUALCHE DOMANDA E QUALCHE RISPOSTA
GIOVANNI IANNUZZO
Succede spesso che i miei pazienti mi pongano domande su argomenti psichiatrici.
Le domande più frequenti riguardano l’ansia: la sua natura, le sue manifestazioni
cliniche, l’efficacia delle terapie. Ho pensato di selezionare alcune delle domande
abituali per tentare di fornire risposte quanto più possibile esaurienti.
L'ansia, in tutte le sue forme, è una delle cause più frequenti per le quali ci si rivolge
prima al medico di base, poi ( e spesso solo per caso …) allo psichiatra. Sebbene come
tipo di disturbo non sia sicuramente ‘grave’, esso provoca nel paziente sensazioni
estremamente sgradevoli, lo fa vivere in uno stato di costante attesa angosciosa, quando
non - per forme particolari che questo disturbo assume- limita in misura notevole le sue
potenzialità. Una mia paziente, giovanissima, per anni non era potuta uscire più di casa,
per i suoi attacchi di panico. Non aveva potuto prendere la patente, aveva limitato in
maniera drastica la sua vita sociale e lavorativa. Come si vede l'ansia non è poi cosa da
poco. Eppure è anche un disturbo che spesso si sottovaluta: lo si affronta con
rassicurazioni, si pensa spesso che sia dovuto ad un capriccio del paziente, e non ad una
malattia reale. Quando poi si scoprono - perché prescritti dal medico o perché suggeriti
dall'amico (cosa non rara: si tratta infatti di un disturbo frequentissimo) gli psicofarmaci,
si rischia di entrare nella spirale della dipendenza, cosa spesso inevitabile quando gli
ansiolitici sono assunti senza controllo specialistico.
Da qui una serie di facili mitologie sui pericoli insiti nell'uso degli psicofarmaci.
Insomma, problemi e mitologie. Parliamone: di ansia, delle sue forme e manifestazioni,
delle terapie oggi disponibile contro questo disturbo.
Che cos'è l'ansia?
L'ansia (patologica, ovviamente) è un insieme di reazioni emotive, che si manifesta con
delle caratteristiche tipiche, che riguardano sia la sfera psichica sia quella fisica. Dal
punto di vista psichico il paziente è irrequieto, impaziente, in apprensione, qualunque
stimolo esterno lo può mettere in allarme. Si affatica per nulla, si distrae, ha rilevanti
disturbi della memoria, non dorme la notte e, se dorme, dorme male e magari fa anche
sogni angoscianti o addirittura degli incubi.
A questi penosi sintomi psicologici si accompagna una serie di disturbi strettamente
fisici: ha la sensazione di soffocare, non riesce a respirare bene, si sente la gola ‘stretta’.
Sente il cuore che batte forte (cardiopalma) o che ha dei ‘tuffi’, “come se perdesse un
colpo di tanto in tanto” (extrasistoli). E' irrequieto anche sul piano motorio, non riesce a
star fermo; suda, ha tremori, ha senso di vertigine, che si accompagna quasi
inevitabilmente alla paura di svenire o di morire. Talvolta lamenta anche mal di testa.
Uno degli apparati che maggiormente risente dell'ansia è quello gastrointestinale: il
paziente non ha fame, o, al contrario, ha una fame ‘da lupo’. Può avere nausea, talvolta
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presenta vomito mattutino. Sente un ‘vuoto alla bocca dello stomaco’ – quella zona
addominale che anatomicamente si chiama epigastrio, mentre il sintomo viene definito
aura gastrica. Ha molto spesso sintomi a carico del colon, con evacuazioni frequenti e
abbondanti. Non raramente ha un bisogno frequente di andare in bagno ad urinare. Tutti
questi disturbi possono essere presenti contemporaneamente o separatamente ed alcuni
possono essere più intensi di altri.
Quali sono le origini dell'ansia?
Sull'ansia esistono ovviamente molte teorie. Quella psicoanalitica, la più antica,
sottolinea che l'ansia è la manifestazione esterna di un conflitto all'interno del sistema
psichico, per cui essa è un segnale dell'esistenza di una dissonanza, in genere tra l'Io, la
parte cosciente e controllata della mente, e la parte inconscia che è invece depositaria di
istinti e pulsioni assolutamente primitive e irrazionali. Quando questi due tipi di
contenuto (quello dell'inconscio e quello dell’Io) vengono in conflitto, il soggetto avverte
il conflitto attraverso l'ansia. E’ una teoria affascinante, ma di teorie affascinanti ve ne
sono tante. Esiste, per esempio, un modello ‘relazionale’ che sostiene che l'ansia è un
segnale di disagio all'interno di un sistema di relazioni (familiari, interindividuali,
sociali). Allora, quando qualcosa non funziona all'interno della comunicazione (sia essa
la comunicazione all'interno di una coppia, di una famiglia, di un sistema anche più
ampio) si manifesta l'ansia, che ha la funzione di messaggero di questo sistema
disturbato. Il soggetto, insomma, esprime con l'ansia qualcosa - di cui lui stesso è entro
certi limiti inconsapevole - che va decodificato per riportare il sistema alle sue condizioni
originarie ( e ideali) di equilibrio.
Di particolare interesse è quello che viene chiamato il ‘modello cognitivo’ dell'ansia, che
fornisce forse la spiegazione più esaustiva del come e del perché si scateni l'ansia in un
soggetto. Lo spiegheremo pertanto più in dettaglio. Questa lettura dell’ansia si origina
dalla constatazione che ogni persona ha una propria modalità di risposta emozionale ed
affettiva ad uno stimolo. Questo significa che di fronte allo stesso stimolo non tutti i
soggetti rispondono nello stesso modo: la modalità della risposta dipende dalle
aspettative, dalla personalità del paziente, dalle sue esperienze precedenti. Un soggetto,
cioè, attribuisce un significato assolutamente individuale a uno stimolo che, in un'altra
persona, può provocare una reazione del tutto opposta. Questa viene chiamata
‘valutazione cognitiva’. Nel caso dell'ansia, è evidente che la persona attribuisce ad uno
stimolo il significato di una minaccia soggettiva (indipendentemente dal valore reale
dello stimolo stesso, e dalla sua effettiva minacciosità). Il contenuto fondamentale di
questa reazione sembra poter essere relativo alla controllabilità o meno di un evento: più
un evento appare incontrollabile, più la persona (più quella persona) è preparata alla
reazione d’ansia. Questo scatena un’attivazione emozionale, che può essere rappresentata
come un percorso a due vie. La prima porta all’esperienza soggettiva, estremamente
sgradevole, dell'ansia (il sentirsi in ansia); la seconda (attraverso una mediazione
cerebrale che implica soprattutto il sistema limbico e poi l'ipotalamo) attiva il sistema
neurovegetativo e neuroendocrino, producendo tutti i sintomi somatici che sono tipici
dell'ansia. E' un modello (peraltro dimostrato sperimentalmente) che consente di capire
perché l’ansia sia un fattore così variabile e la risposta ad uno stesso stimolo causi in
persone diverse reazioni talmente differenti. Da un punto di vista strettamente biologico,
l'ansia appare correlata a particolari sistemi cerebrali di regolazione. Detto in termini
molto semplici, sembrano esistere nel cervello dei sistemi neurochimici che controllano
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l'ansia in maniera molto complessa, anche attraverso la secrezione di sostanze endogene
che sarebbero in qualche modo degli ‘ansiolitici’ naturali o sostanze che al contrario
incrementano l'ansia. E’ all'interno di questi meccanismi di regolazione neurochimica
che andrebbe cercata l'origine fondamentale dell'ansia. Il che non è affatto in disaccordo,
una volta tanto, con la teoria cognitiva dell'ansia; esiste questo complesso meccanismo di
risposta a stimoli esterni, che si trasformano poi in stimoli interni per la mediazione di
sostanze specifiche; i sistemi di regolazione interna, pertanto, potrebbero essere
modificati da risposte emotive causate a loro volta da stimoli esterni. L’'ansia così trova
una spiegazione, ma questo modo di valutare l'ansia stessa da conferma di un’enorme
flessibilità neuropsicologica, in base alla quale il nostro cervello risponde alle interazioni
tra individuo e ambiente, le reinterpreta e le traduce il linguaggio neurochimico.
L'ansia si presenta sempre nello stesso modo?
No, tant'è che in psichiatria si distinguono diversi quadri clinici, tutti caratterizzati dalla
presenza in varia misura dell'ansia, ma con caratteristiche molto diverse. Quando l'ansia
si presenta nel modo che abbiamo descritto più sopra si parla di ‘disturbo d'ansia
generalizzata’, nel senso che tutta l'esistenza dell'individuo è permeata da questo stato
emotivo e da questi stati d'animo., Ma questo è solo un modo nel quale l'ansia si
presenta. Un tipico stato d'ansia è, per esempio, l’agorafobia [ dal greco: paura delle
piazze, degli spazi aperti]. Il paziente con questo disturbo ha’'paura’: paura di trovarsi da
solo per strada, di andare in luoghi affollati o chiusi, di attraversare piazze grandi, o
semplicemente di uscire da solo. Non guida, anche se prima guidava, non prende più il
treno o l'aereo, non esce più da solo. Ha paura che gli succeda qualcosa, che possa
svenire, o addirittura morire. Se esce da solo (e in certi stati non molto gravi succede)
segue solo percorsi particolari costellati da precisi punti di riferimenti, luoghi nei quali se
stesse male potrebbe trovare aiuto. Non si discosterà da quei percorsi tracciati dalla sua
paura per nulla al mondo. Spesso associato a questo disturbo ce n'è un altro, il Disturbo
da Attacchi di Panico: il paziente, sia che abbia la sua agorafobia sia anche che non
l'abbia, è preso improvvisamente dal panico, in apparenza senza alcuna causa scatenante.
Avverte una intensa paura, ha una sensazione di morte imminente e presenta tutta una
serie di sintomi fisici tipici dell'ansia: palpitazioni, senso di soffocamento, tremore,
vertigini, sudorazione profusa, paura di perdere i sensi. In genere questi pazienti si
rivolgono immediatamente al medico, o vanno al pronto soccorso per sincerarsi di non
avere avuto un attacco cardiaco. Molto spesso iniziano a sottoporsi ad esami clinici
anche complessi, ed entrano nella spirale di una medicalizzazione continua.
Il DAP può, o meno, essere associato all'agorafobia, che complica, ovviamente la
situazione. Abbastanza spesso, dopo il primo attacco di panico, il paziente tende
accuratamente ad evitare tutte le situazioni (del tutto casuali) che erano connesse
all'attacco stesso: se era in una strada molto grande, eviterà con cura tutte le strade con
quelle caratteristiche. Se stava guidando eviterà di guidare o almeno di guidare da solo,
se era al cinema, si rifiuterà caparbiamente di andare al cinema,. Ed è inutile tentare di
convincerlo: tutte queste situazioni, infatti, gli scatenano una ‘ansia anticipatoria’, che
non riesce assolutamente a controllare.
La paura è una caratteristica degli stati di ansia (che si potrebbe classicamente definire
‘paura di avere paura’), e spesso si manifesta, comunque, con caratteristiche molto
delimitate, quelle che chiamiamo ‘fobie specifiche’. Si tratta di paure assolutamente
irragionevoli; ne esistono decine, tutte identificate con un termine che trae abitualmente
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origine dalla parola greca che indica l’oggetto di cui si ha paura: allora, abbiamo la paura
degli spazi chiusi (claustrofobia), la paura delle altezze (acrofobia), la paura degli
animali (zoofobia), la paura dei cani (cinofobia), e chi più ne ha più ne metta (in fondo
esistono centinaia di cose di cui si può, a ben pensarci, avere paura). Un particolare tipo
di fobia è la ‘fobia sociale’, cioè la paura irrazionale di tutte quelle situazioni che ci
mettono a contatto con gli altri. Si ha una paura irragionevole di ciò che gli altri possano
pensare di noi, del giudizio altrui, insomma. Rimarco il termine irragionevole. Il paziente
con questo disturbo ha una grande paura di essere criticato, e pertanto eviterà tutte quelle
situazioni nelle quali potrebbe perdere la stima degli altri. Questi sono i principali quadri
clinici che definiamo ‘ansia’.
Ne esistono altri?
Esistono numerosi altri disturbi d’ansia, anche perché, come dicevamo, l’ansia è una
condizione che, lungo un range che va dalla normalità alla patologia anche grave è
estremamente diffuse. Esiste però almeno un altro quadro clinico fortemente
caratterizzato da ansia patologica: si tratta del DOC (acronimo di Disturbo Ossessivo
Compulsivo). Il Disturbo Ossessivo Compulsivo sino a poco tempo fa veniva
considerato un classico disturbo d'ansia, mentre ora si reputa che abbia una origine ed un
meccanismo più complesso, sebbene la sua manifestazione fondamentale, sul piano dei
sintomi, sia proprio l'ansia. Il paziente che ha questo disturbo avverte dei pensieri del
tutto irrazionali, ma che gli creano una importante quota di ansia: sono pensieri che
riguardano la paura e la tentazione di fare qualcosa di errato, criminoso o osceno, che in
realtà il paziente non farebbe mai. Anzi, spesso questi pazienti sono delle persone di
grande utilità sociale: puliti, correttissimi, coscienziosi e attenti sono delle vere e proprie
‘colonne’ della società. Vivono però perseguitati da questi pensieri ossessivi, continui
che non riescono a scacciare dalla mente, o meglio riescono a farlo solo se compiono dei
‘riti’ veri e propri, ovvero delle azioni che si svolgono (si devono svolgere!) sempre nella
stessa maniera: lavarsi le mani un certo numero di volte, e sempre quel numero di volte o
un multiplo esatto di quel numero di volte; fare un'azione anche banale in un certo modo
stereotipato – per esempio chiudere la porta un certo numero di volte, etc. Il sintomo,
quindi, è caratterizzato da una idea ossessiva, e da un rito che ne controbilancia gli
effetti, e che non può non essere evitato perché in quel caso il paziente avverte un’ansia
intensissima, intollerabile. Talvolta questa sindrome è così grave da limitare in modo
significativo le capacità lavorative, relazionali, intellettuali di questi pazienti: costretti a
perdere un’enorme quantità di tempo per sistemare la sedia a tavola in un certo modo,
lavarsi le mani un certo numero di volte e a fare, insomma, una serie di altre azioni
compulsive e passano gran parte del loro tempo a compiere questi riti ‘esorcistici’, dei
quali non possono fare a meno, perché altrimenti la loro ansia assumerebbe proporzioni
dirompenti. Del DOC sono state proposte diverse interpretazione, compresa quella
psiconalitica (Freud si occupò specificamente di questo disturbo), In realtà oggi
sappiamo che si tratta di un disturbo psichiatrico con una precisa origine biologica. Le
componenti psicologiche possono riguardare casomai il livello di adattamento sociale e
relazionale del soggetto con DOC e la sua capacità di gestire e controllare le proprie
ossessioni e compulsioni..
Che significa quando si ha ‘paura di impazzire’?
E' un tipico sintomo ansioso, in qualche modo l'equivalente della paura di svenire, o di
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perdere il controllo delle proprie azioni. Come sintomo è estremamente frequente e non
sempre dipende solo da cattiva informazione. Spesso infatti si pensa che tra di disturbi
mentali esista un specie di continuum che va dalle forme di lieve disagio, alle forme più
gravi di malattia mentale. In realtà questo non è vero, ma anche persone che sanno
questo perfettamente sono preda di questa paura.
Che cos'è il “disturbo da attacchi di panico”?
Il disturbo da attacchi di panico (DAP) è un disturbo che si manifesta con una
sintomatologia, talvolta imponente e al tempo stesso di tipo cognitivo e
psicofisicologico. Esso occupa un posto importante nella gerarchia dei disturbi
psichiatrici ed ha una storia particolarmente complessa, che ha portato a diverse fasi
interpretative della natura del disturbo. In realtà per molto tempo esso è stato visto
esclusivamente nei suoi aspetti psicologici e psico - dinamici dalla psichiatria ad
orientamento dinamico, nei suoi aspetti puramente somatici (specialmente cardiologici)
dai medici internisti, escludendo o minimizzando così gli aspetti più propriamente
cognitivi. In effetti è abbastanza recente la collocazione del DAP nel contesto più
consono: quello di una specifica entità nosologica che si presenta con delle caratteristiche
tipiche non solo dal punto di vista sintomatologico, ma anche da quello della sua storia
naturale, compresi alcuni aspetti relativi alla familiarità, alla risposta ai farmaci e ai
correlati biologici. In effetti, la distinzione del disturbo da attacchi di panico da altre
sindromi ansiose apparirebbe difficile sulla scorta dei soli dati clinici, e i confini tra una
sindrome e l'altra sono spesso in effetti abbastanza sfumati. Le differenze fra il DAP e
altre sindromi ansiose diventano chiare se il Disturbo da Panico viene valutatato alla luce
delle specifiche caratteristiche biologiche che la condizionano. Per esempio, si sa che si
tratta di un disturbo con una certa ‘familiarità’, nel senso che i figli di genitori affetti
entrambi da questo disturbo potranno a loro volta svilupparlo, mentre questa percentuale
scende al 42 per cento se è un solo genitore a presentarlo. Questo non significa che sia un
disturbo ‘ereditario’, bisogna tenere presente che un bambino che vive in un ambiente
dove questo disturbo è presente potrà anche apprenderlo. L'età di esordio è in genere
giovanile - adolescenziale. Sindromi che insorgono più precocemente, come la fobia
scolare, o l'ansia di separazione o la claustrofobia, possono rappresentare modalità
attenuate della stessa malattia.
Il disturbo da attacco di panico è una malattia psicologica, legata insomma a
conflitti e fatti inconsci, insomma come l'ansia?
In realtà sembra essere vero esattamente il contrario, e cioè che si tratta di un disturbo
con una base chiaramente organica. I risultati di una serie di esperimenti e di test (test di
soppressione al desametasone, tracciati EEG nel sonno, larga incidenza di prolasso della
valvola mitrale, differenti risposte alla terapia farmacologica ). Infine, si è visto che è
possibile scatenare un attacco di panico in pazienti che presentano un disturbo da attacchi
di panico con l'infusione di sostanze particolare, come il lattato di sodio in forma
racemica. Un effetto simile sembra comunque sortire anche l'iperventilazione, anche se
esso risente di una variabilità individuale, o l'inalazione di anidride carbonica al 5%. Gli
effetti scatenanti dell'infusione endovenosa di lattato di sodio furono spiegati già da Carr
e Sheehan nel 1984 con l'ipotesi di un abbassamento rapido del PH interneurale in quelle
zone del cervello che rappresentano la zone di regolazione dei chemiorecettori centrali.
Queste caratteristiche degli attacchi di panico, sostanzialmente slegate da motivazione
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psicodinamiche, ma afferenti con precisione all'area del biologico, hanno consentito un
approccio clinico diverso. Tale approccio è fondato sullo studio di modelli animali, nei
quali potere riprodurre le manifestazioni della sindrome in questione.
Si tratta peraltro di un approccio storico, che ha trovato il primo grande mentore in
Pavlov con i suoi studi sui riflessi condizionati; semplicemente invertendo la sequenza di
stimolo e risposta, si produceva un quadro assai simile nelle sue modalità comportamenti
al quadro esteriore della 'nevrosi ansiosa'. Simili esperimenti furono ripetuti con successo
su scimmie. Ma ha un senso studiare un fenomeno mentale tipicamente umano sugli
animali? I modelli di ricerca animali nel campo della psichiatria e della psicologia clinica
trovano oggi una applicazione certa e rispondono ad un razionale che, anche se pone in
secondo piano le eventuali componenti psicodinamiche, può essere giustificato in chiave
strettamente etologica. Basti qui ricordare i tentativi di produrre disturbi dell'affettività o
comportamenti simili alla “follia” nelle scimmie.
E' ovvio che questi tentativi appaiono tanto più giustificati quanto più il DAP sembra
afferire all'area del biologico, distanziandosi dall'area esclusivamente psicologica nella
quale era stato per decenni confinato. Si è visto infatti che i modelli animali consentono
lo studio in laboratorio dei sintomi del DAP e forniscono delle chiavi di lettura etologico
- comportamentali utili per la costruzione di più raffinati modelli esplicativi. In genere gli
esperimenti hanno utilizzato dei primati, per la complessità del loro comportamento
affettivo individuale e di gruppo che in qualche modo è quello che più si avvicina al
comportamento umano. In una ricerca classica, del sodio lattato fu somministrato a delle
scimmie (Macaca Radiata). Il comportamento degli animali fu poi valutato da un
osservatore che non conosceva a quali animali fosse stata somministrata la sostanza
attiva e a quali una soluzione controllo di destrosio. La somministrazione di lattato
produsse degli episodi di breve durata di agitazione e risposte di iperattività motoria,
normalmente evocate da condizioni stressanti o comunque di limitazione per gli animali.
Si vide anche che il pretrattamento di questi animali con imipramina (un classico
antidepressivo appartenente alla famiglia chimica dei cosiddetti “triciclici”) bloccava il
comportamento “psicopatologico” degli animali. L’imipramina per anni è stato
considerato un farmaco di prima scelta per la cura dei pazienti affetti da DAP.
Quali sono le terapie dell'ansia?
Oggi esistono ottimi rimedi terapeutici per l’ansia. Anzitutto diverse classi di farmaci che
agiscono sul sistema nervoso centrale, per cos’ dire sulle “fonti fisiche” dell'ansia – cioè
sulle sostanze che sono implicate nell’insorgenza dei vari quadri clinici e sulle loro
interazioni.. I farmaci più famosi sono le benzodiazepine, che comunque non hanno in
genere effetti risolutivi, ma sostanzialmente solo sintomatici. I farmaci più efficaci
appartengono alla cosiddetti antidepressivi, cosiddetti perché, inventati per la
depressione, si è visto che curano, e molto bene, sino alla completa guarigione, i
disordini ansiosi, anche quelli più severi. La ricerca farmacologica è riuscita a
minimizzarne gli effetti collaterali e a renderli sempre più sicuri e tollerabili. L’unico
inconveniente che presentano è il “tempo di latenza”, il periodo cioè che deve
intercorrere fra l’inizio della terapia e i primi effetti terapeutici: in genere si tratta di un
periodo di circa un mese. Questa lentezza d’azione degli antidepressivi viene comunque
compensata dall’associazione con farmaci ansiolitici, che vengono in genere usati come
‘sintomatici’ sino a quando l’antidepressivo non inizia a funzionare bene. Poi vengono
sospesi. Le terapie antidepressive comunque devono poi proseguire per periodi di tempo
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variabili, ma abbastanza lunghi (almeno da sei mesi a due anni). Studi clinici dimostrano
peraltro che terapie prolungate rendono meno probabili eventuali ricadute. I farmaci
vanno ovviamente assunti sotto stretto controllo medico specialistico.
Poi naturalmente esistono le psicoterapie, da quelle comportamentali (efficaci per le
fobie, o il disturbo ossessivo compulsivo, per esempio) a quelle di tipo cognitivo o
cognitivo-comportamentale e tante altre ancora. Le psicoterapie – se ben fatte - sono
molto efficaci, specialmente nei casi in cui la sintomatologia ansiosa è, come accade
spesso, legata a situazioni esistenziali, problemi relazionali, difficoltà di adattamento.
Dall’ansia insomma si guarisce. Basta seguire le indicazioni giuste che possiamo così
sintetizzare:
1. Non sopravvalutarla (in fondo l’ansia è una reazione di adattamento), ma
nemmeno sottovalutarla. Le sindromi ansiose possono condizionare la vita
quotidiana in modo anche severo.
2. Rivolgersi, allora, senza pregiudizi, ad uno psichiatra per una terapia
farmacologica o per un terapia combinata farmacologica e psicoterapica. Evitare
assolutamente. Nella scelta dello specialista bisogna ricordare che l’ansia, in tutte
le sue forme, è un disturbo psichiatrico e che quindi lo specialista giusto per
questo disturbo è lo psichiatra. Il problema è che spesso la parola stessa
‘psichiatra’ viene associata alla follia o comunque a gravi malattie mentali, e
quindi si preferisce rivolgersi al altri specialisti definiti in maniera più soft (il
neurologo) o ad altre figure professionali (lo psicologo) e questo può creare dei
problemi diagnostici o terapeutici. Ad incoraggiare questi errori c’è anche la
diffusa convinzione che l’ansia sia una ‘malattia nervosa’ o un ‘esaurimento
nervoso’, e quindi rivolgersi al neurologo sembra la scelta più adeguata. Ancora,
spesso il paziente preferisce credere che i suoi sintomi siano puri fatti
“psicologici” ed ecco allora la scelta di rivolgersi subito allo psicologo. Si tratta di
un errore dovuto sia a convinzioni culturali sia – e forse ancora più
frequentemente – a “difese psicologiche”: la persona che ha un disturbo d’ansia
non riesce ad accettare il fatto di avere un vero e proprio disagio mentale, per
quanto lieve possa essere.
3. Non autogestire in alcun modo i farmaci, magari per consiglio di un amico o per
sentito dire. Non tutti i farmaci per l’ansia (sia ansiolitici sia antidepressivi) sono
“equivalenti”. Sarà lo specialista a capire qual é il farmaco giusto, qual é la
posologia più adeguata e per quanto tempo dovrà essere assunta. Il vostro
psichiatra sarà anche il “regista” di un’eventuale psicoterapia: sarà lui a
proporvela, o direttamente come terapeuta o inviandovi ad altri professionisti –
psicologi clinici o psicoterapeuti - che seguano comunque un indirizzo tecnico
adeguato al vostro personale bisogno di una psicoterapia.
Si tratta, come vedete, di poche regole elementari. Eppure seguirle o non seguirle fa
spesso la differenza fra una rapida guarigione o persino la cronicizzazione dell’ansia.
© Giovanni Iannuzzo, maggio 2008
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