UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE FACOLTA’ DI PSICOLOGIA Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche Curriculum Psicobiologico ___________________________________ LA CRONICITA’ NEI DISTURBI ALIMENTARI Laureanda ILARIA VACCHER Relatore Prof.ssa ELISABETTA PASCOLO-FABRICI Correlatore Dott. GIAN LUIGI LUXARDI ___________________________________ ANNO ACCADEMICO 2005-2006 Alla mia nonna Nives INDICE Introduzione Capitolo 1 Cos’è la cronicità. Capitolo 2 Come si affronta la cronicità in psichiatria. Capitolo 3 Classificazione e cause dei disturbi alimentari. Capitolo 4 Il cronicizzarsi dei disturbi alimentari. Capitolo 5 Curare la cronicità nei disturbi alimentari. Capitolo 6 Come si affrontano i disturbi alimentari e la cronicità in un Centro Disturbi Alimentari. Conclusioni Bibliografia Introduzione Il corso del disturbo alimentare (Linee Guida dell’American Psychiatric Association, 2006), è molto variabile, e non ci sono buone prospettive di guarigione per i malati che non accedono alla cura medica convenzionale. In molti pazienti il corso della malattia diventa cronico e può durare spesso più di una decade, a volte anche tutta la vita. La percentuale di nuovi casi di cronicità nei disturbi alimentari ogni anno è del 30%. Naturalmente di anno in anno i pazienti cronici si sommano, cosicché questo problema diventa di portata sempre maggiore. Questo lavoro è un tentativo di riunire in un’unica sede le diverse ricerche per fare chiarezza e cercare di definire questo fenomeno, capirne l’importanza, ed individuare un approccio terapeutico utile. Il primo capitolo è volto a considerare le diverse definizioni di cronicità in psichiatria, nel tentativo di metterle in relazione tra loro e di capire le cause che portano ad essa, con particolare attenzione verso le teorie che riguardano gli aspetti terapeutici, istituzionali, e biopsicosociali. Il secondo capitolo mira ad approfondire l’argomento della cronicità in psichiatria ed in particolare gli approcci e le modalità attraverso cui questa viene trattata nella “nuova” psichiatria, quella psichiatria che non considera più i manicomi come unico modo di cura e contenimento della schizofrenia, ma che si sviluppa invece attraverso un piano di prevenzione, cura e riabilitazione atto a far recuperare al malato le sue capacità. Nel terzo capitolo si entra nel vivo della questione definendo i disturbi alimentari e presentandone i criteri diagnostici, la natura, e i fattori predisponenti, scatenanti e perpetuanti che contribuiscono alla cronicizzazione del disturbo. Il quarto capitolo è volto a definire cos’è la cronicità nei disturbi alimentari e a considerare le cause e i fattori che contribuiscono nello sviluppo di quest’ultima. Sempre in questo capitolo vengono prese in considerazione anche epidemiologia, mortalità, corso del disturbo e studi d’esito. Il quinto capitolo presenta due diversi approcci alla cura della cronicità nei disturbi alimentari, e in particolare l’approccio psicoterapeutico di Maurizio Viaro, che parte dal presupposto che 2 esiste un nesso tra il disagio della paziente nelle relazioni famigliari e la sintomatologia; e l’approccio di Michael Strober che parte dal presupposto che per la cura della cronicità sia fondamentale prima di tutto instaurare un rapporto di fiducia con la paziente ed operare successivamente a piccoli passi. Il sesto ed ultimo capitolo, mira a descrivere l’approccio terapeutico del Centro Disturbi Alimentari di San Vito al Tagliamento –sede del mio tirocinio– con particolare attenzione al programma d’intervento rivolto ai disturbi alimentari ed in specifico alla cronicità di questi ultimi. 3 Capitolo 1 COS’È LA CRONICITÀ Il termine “cronicità” deriva dal sostantivo “cronico”. La sua etimologia è da ricercarsi nel greco !"#$#%,, parola che ci indica che il suo significato originario e più profondo ha a che fare con il tempo. Uno dei primi ad interessarsi a questo concetto fu Karl Jaspers nella sua opera “psicopatologia generale” del 1913, riedita definitivamente nel 1964. Egli sosteneva che la psicosi cronica, presenta stati lucidi, orientati, tranquilli ed uniformi, e che le forme morbose si sviluppano lentamente o sono residuo dei processi acuti tumultuosi, in uno stato che non è più considerato passibile di guarigione. A questa definizione egli contrapponeva la definizione di psicosi acuta che comprende la presenza di manifestazioni morbose tumultuose, ovvero un’intensa modificazione del comportamento esterno, come ad esempio: eccitazione, depressione, confusione, o irrequietezza; e un rapido aumento della violenza dei sintomi, in un processo ancora passibile di guarigione. Secondo questo punto di vista, la durata delle psicosi non ha importanza, poichè anche alcune psicosi che durano da anni, sono chiamate ancora acute, in contrasto con il linguaggio della medicina somatica. Ad oggi il concetto di malattia cronica individua una malattia caratterizzata da un lungo decorso, senza sostanziali prospettive di guarigione, che porta con sé un’alterazione delle funzioni fisiche, emotive, intellettuali, sociali, spirituali, ed in alcuni casi anche inabilità parziale o completa. Nel corso del tempo sono state elaborate diverse teorie per cercare di dare una spiegazione alla cronicità e per cercare di indagarne le cause. La tendenza alla cronicità sembra essere il risultato di una serie di condizioni legate: ! Alla persona, alla sua personalità premorbosa e agli eventi della vita a cui il soggetto è sottoposto. ! All’assetto emotivo familiare e al contesto culturale ed economico; ! Alla malattia in sé. Considerando dunque la cronicità come psicopatologia. 4 ! Al modo e tempo degli interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi attuati per contrastare la cronicità stessa. Un modello recente utile ad integrare le cause di cronicità legate alla persona e alla malattia in sè è quello biopsicosociale (G. Ba e M. Peserico 2000), che tende appunto ad integrare la prospettiva psicosociale con quella biologica al fine di spiegare l’esordio, il decorso e l’esito del disturbo psichico utilizzando quattro elementi: vulnerabilità, stress, adattamento, e competenza. Secondo questo modello un evento stressante d’intensità tale da superare le capacità d’adattamento della persona, unito ad una sua specifica vulnerabilità individuale, può essere la conseguenza ed anche la causa di un episodio morboso. L’area di vulnerabilità può essere costituita, per esempio, dall’incapacità di soddisfare i propri bisogni o di corrispondere alle aspettative altrui, oppure può trattarsi di una limitazione della sfera emotiva o cognitiva. Su queste aree agirebbe lo stress come evento in grado di far precipitare un disturbo psichico. Per quanto riguarda la componente terapeutica nella costituzione della malattia cronica, molto si è detto. Alcuni sostengono che la cronicità sia istituzionale, cioè il risultato di un’autentica spoliazione ed espropriazione operata ai danni della personalità da parte della martellante monotonia dell’istituzione (P.E. Turci, 1984). In questa prospettiva, dunque, il paziente è considerato cronico, quando è presente un alto numero di recidive, oppure quando il soggetto utilizza frequentemente i servizi psichiatrici. Sempre rispetto alla componente terapeutica della cronicità, Spivak (1987) sostiene che essa è il risultato di un processo bidirezionale che si sviluppa nel tempo tra l’individuo e il suo enturage. La mancanza di capacità sociali porta l’individuo a scontrarsi con ripetuti fallimenti, sia nella vita personale sia in quella di relazione. Questa situazione porta ad un’ulteriore riduzione delle capacità sociali che, a sua volta, espone il soggetto ad altri fallimenti. Questo processo prende quindi la forma di una spirale viziosa e l’individuo regredisce progressivamente e gravemente, divenendo sempre più impermeabile ad ogni tipo di cambiamento. Dunque secondo Spivak non si può parlare di cronicità ma di processi cronici. Ossia: “La cronicità non è una caratteristica della persona, ma si sviluppa e si mantiene per la coesistenza della mancanza di abilità da un lato, e la persistenza di relazioni disfunzionali tra la persona e l’ambiente, dall’altro. Le disfunzioni del comportamento diventano croniche attraverso stadi successivi, durante i quali sia la persona sia gli altri significativi interagiscono tra loro in modi che non sono né accettabili né reciprocamente soddisfacenti. Man mano che tali fallimenti si ripetono, i pensieri, i comportamenti e le aspettative si deteriorano e si irrigidiscono da ambo le parti. Ne consegue 5 l’isolamento e la contrazione sia dello spazio vitale sia dell’articolazione sociale dell’individuo.” Sembra dunque che si possa affermare che le aspettative di miglioramento o viceversa di deterioramento, coltivate dagli utenti, dal personale dei servizi e dalle famiglie, siano fattori molto potenti nell’influenzare l’efficacia dei trattamenti. (Paola Carrozza, 2005). Concludendo questa sezione possiamo dire che tutte le componenti che sono state qui esposte hanno una parte fondamentale e coesistono nella costituzione della malattia cronica. 6 Capitolo 2 COME SI AFFRONTA LA CRONICITÀ IN PSICHIATRIA La cronicità è sempre stata un problema aperto per la psichiatria. Storicamente possiamo trovare due approcci psichiatrici distinti alla malattia cronica (D. B. Meneguolo, 2001): Il primo tipo di approccio psichiatrico alla cronicità è quello manicomiale, inteso come gestione di una cronicità irreparabile, custodialismo, controllo sociale della devianza, o nel migliore dei casi inteso semplicemente come assistenzialismo. Il secondo tipo di approccio è quello che emerse quando la psichiatria iniziò a liberarsi dei manicomi ed incominciò ad elaborare un sistema terapeutico diffuso nel territorio e di più ampia veduta. Questo secondo tipo di approccio ha come principale priorità la prevenzione, che si può affrontare attraverso tre livelli distinti (G. Ba e M. Peserico 2000): 1. Prevenzione primaria: si identificano situazioni di vita che possono favorire l’insorgere del disturbo; 2. Prevenzione secondaria: si cura il disturbo con tutti gli strumenti indispensabili (ambulatori, centri, ricoveri); 3. Prevenzione terziaria: in questa fase rientrano tutti gli interventi messi in atto dopo la risoluzione della fase acuta del disturbo al fine di evitare la cronicizzazione e l’incapacità sociale del paziente. In questa fase si colloca il processo riabilitativo. Ci sono diversi modelli e approcci alla riabilitazione, ma nella prassi clinica il progetto riabilitativo è descritto come la successione di tre diverse fasi, in particolare: ! Presa in carico e strutturazione del processo riabilitativo, che consiste nella fase iniziale dei primi colloqui, in cui si raccolgono i dati che riguardano la storia personale anamnestica e psicopatologica in base alla quale si decide il percorso riabilitativo dello specifico paziente. ! Attuazione del progetto; 7 ! Verifica del progetto terapeutico ed eventuale riformulazione degli obiettivi riabilitativi. In tutto questo processo è necessario tenere sempre presenti i fattori predittivi della malattia cronica. Tra quelli individuali si possono annoverare la debolezza dell’Io del soggetto, la non compliance al trattamento, scarsi contatti sociali, ospedalizzazione continuativa per molti anni, ed alta emotività espressa familiare. Tra i fattori relazionali che riguardano la terapia, evidenziamo intempestività o inadeguatezza dell’intervento, ipostimolazione o al contrario iperstimolazione. Per quelli che riguardano la riabilitazione troviamo ancora intempestività, ma anche una modalità d’intervento non personalizzata e non modulata nel tempo secondo le necessità del soggetto, rigidità del setting, reciproca sconnessione ed infine uso inadeguato della terapia farmacologica. Un altro fattore cronicizzante si può individuare nei fallimenti da parte dell’operatore nel promuovere un cambiamento nel paziente cronico. Nel caso in cui questo sistema fallisca e la cronicità diventi una realtà, saranno necessarie a questo punto cure e competenze particolari, e continui e stretti contatti con la Struttura Sanitaria. Alcuni spunti interessanti vengono da considerazioni espresse su disturbi non psichiatrici, infatti come leggo nell’articolo “la malattia cronica”, pubblicato nel sito “talassemici Torino”, l’unica cosa che si può fare per il paziente cronico è tentare di mantenerlo in buone condizioni di salute attraverso, se necessario, continui interventi, ricoveri e day hospital. Durante la terapia bisogna tenere presente che la malattia ha grande importanza nella vita sociale del paziente e di tutta la sua famiglia, nei suoi progetti a breve e lungo termine e nelle sue aspirazioni. Indicazioni che sembrano dunque fondamentali per consentire al paziente di mantenere una vita dignitosa sono una buona comunicazione famigliare, un sereno rapporto di coppia, uno stato socio-economico soddisfacente, l’aiuto di parenti ed amici, supporto psicosociale, associazionismo, un buon rapporto con l’equipe terapeutica, una buona accettazione della malattia, e partecipazione attiva alla vita sociale. 8 Capitolo 3 CLASSIFICAZIONE E CAUSE DEI DISTURBI ALIMENTARI 3.1 Cosa sono i disturbi alimentari Secondo le definizioni del manuale diagnostico e statistico per i disturbi mentali, il DSM-IV, i disturbi alimentari (DA) sono Anoressia Nervosa (AN) e Bulimia Nervosa (BN). Spesso però non è possibile una classificazione sicura del paziente in una specifica sindrome, poiché sono presenti contemporaneamente sintomi tipici di anoressia e bulimia, quindi si aggiunge un’altra categoria, quella dei disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati (NAS), che tra gli altri include il diffuso Binge Eating Disorder (BED) o disturbo da alimentazione incontrollata. L’anoressia nervosa (Biscontin, Mascherin, Talon, 1998) è un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato da una restrizione dell’alimentazione dovuta ad un’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme corporee, che si esprime in un’estrema paura di ingrassare e in una continua ricerca di magrezza. L’anoressia è presente in eguale misura in tutte le classi sociali, è più frequente nei paesi industrializzati, e coinvolge prevalentemente il sesso femminile. L’età di insorgenza del disturbo è compresa tra i 12 e i 25 anni, con frequenza maggiore nelle ragazze tra i 13 e i 16 anni. Il principale sintomo dell’anoressia nervosa è il rifiuto di mantenere il peso corporeo entro i livelli di normalità, infatti, il verificarsi di un marcato dimagrimento può essere il primo segnale indicatore del disturbo. Nelle donne questa perdita di peso è accompagnata dalla scomparsa delle mestruazioni (amenorrea). Tipicamente l’anoressia inizia con l’intenzione di cominciare una dieta per cercare di perdere qualche chilo, migliorare il proprio aspetto fisico, correggere le proprie abitudini alimentari o per combattere qualche piccolo problema come ad esempio l’acne, a questo si accompagna spesso l’aumento dell’attività fisica. In questa fase l’attenzione della persona è concentrata sul proprio peso e compare un forte desiderio di magrezza, inoltre le ragazze anoressiche non ritengono di aver problemi, ma sono convinte di stare bene e considerano il proprio comportamento logico e coerente. Un po’ alla volta l’iniziale attenzione al cibo tende a farsi sempre più rigida e cresce la paura di perdere il controllo e di ingrassare, che sfocerà in un continuo rimuginio sull’idea del cibo e in comportamenti estremi finalizzati alla perdita di peso, come ad esempio l’eliminazione di gran parte degli alimenti perché ritenuti pericolosi o ipercalorici. La maggior parte delle ragazze 9 anoressiche a questo punto sperimenta una fame intensa contro la quale investe una parte sempre maggiore delle proprie energie per tentare di mantenerla sotto controllo; questa fame può essere considerata un sintomo da digiuno. I sintomi da digiuno consistono in meccanismi biologici di protezione dell’organismo deprivato dal cibo, e, oltre alla fame, comprendono anche un aumento delle preoccupazioni riguardanti l’alimentazione, e modificazioni importanti sul piano emotivo che possono portare con sé anche disturbi psichiatrici. Questa compulsione al cibo a volte può sfociare in vere e proprie abbuffate che consistono nell’ingestione di una quantità esagerata di cibo, anche se spesso non è esagerata oggettivamente, ma soltanto rispetto ai parametri della paziente. Dopo l’abbuffata la ragazza sviluppa forti sensi di colpa che la portano ad attuare condotte di eliminazione quali vomito, abuso di lassativi o diuretici oppure restrizione alimentare ed attività fisica esagerata. In quest’ultimo caso l’anoressia è di tipo restrittivo, e si riscontra una tendenza più marcata a negare la malattia, oltre che caratteristiche di tipo ossessivo; mentre, nel caso in cui la paziente presenti condotte di eliminazione, l’anoressia viene classificata di tipo bulimico, e presenta manifestazione più evidenti della sofferenza, con la presenza di sintomi depressivi, irritabilità e in alcuni casi comportamenti impulsivi come autolesioni e fughe. In questo quadro è importante tenere presente anche le complicazioni di tipo medico che possono esserci nell’anoressia, ovvero: complicanze cardio-vascolari, gastrointestinali, neurologiche, a livello osseo, e dermatologico, nonchè alterazioni ematiche e dell’equilibrio idro-elettrolitico. Nella tabella sottostante sono elencati i criteri diagnostici del DSM-IV per l’anoressia nervosa. a) Rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l’età e la statura; b) Intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso; c) Alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso. d) Nelle femmine dopo il menarca, amenorrea. Sottotipi ! Con restrizioni: non presenta abbuffate o condotte di eliminazione. ! Con abbuffate/condotte di eliminazione: presenta regolarmente questi aspetti. 10 La bulimia nervosa è un disturbo simile all’anoressia nervosa, poiché in entrambe le patologie le caratteristiche principali sono una paura morbosa e pervasiva del peso elevato, e un’influenza eccessiva del peso e della forma corporea nella stima di sè. L’età d’esordio è compresa tra i 12 e i 25 anni, con un picco verso i 18-19 anni. Anche la bulimia, come l’anoressia, è maggiormente diffusa tra le donne che vivono in paesi industrializzati, ed ha uguale incidenza tra le diverse classi sociali. Il comportamento più caratteristico della bulimia è l’abbuffata, un episodio in cui vengono assunte molto rapidamente enormi quantità di cibo, mescolando anche cibi con sapori molto diversi, a questo comportamento si accompagna, di norma, la sensazione di perdere il controllo. Questi episodi avvengono solitamente in segreto e le motivazioni sono diverse, infatti, può essere che l’abbuffata sia scatenata dall’assunzione di un cibo proibito, da uno stato emotivo particolare, oppure che venga adirittura programmata. Durante questo episodio si alternano emozioni molto diverse. Inizialmente si ha un senso di sollievo per aver interrotto la restrizione della dieta, in seguito irrompono i sensi di colpa per aver ceduto all’impulso, accompagnati da una forte ansia per il sospetto di aver provocato un aumento del peso. A questo punto vengono attuati comportamenti con l’intenzione di compensare l’eccessiva ingestione di alimenti, ed ha così inizio il circolo vizioso della bulimia, che alterna abbuffate a condotte di eliminazione in uno stato di continui sensi di colpa, vergogna e insoddisfazione personale. I metodi di compenso possono essere diversi, e vanno dalla restrizione alimentare, accompagnata ad un eccessivo esercizio fisico, al vomito autoindotto, all’uso di lassativi o diuretici. È necessario precisare, però, che tutti questi metodi non sono così efficaci come si pensa, infatti, sia attraverso il vomito, sia attraverso l’uso di lassativi e diuretici non si impedisce l’assimilazione dei nutrienti del cibo. Proprio per questo motivo nei soggetti bulimici il peso non è al di sotto della normalità. Questa è una caratteristica utile a differenziare anoressia e bulimia. Nella forma in cui il controllo del peso avviene attraverso comportamenti eliminativi, si parla di bulimia di tipo purgativo, questi soggetti presentano più spesso depressione, ansia e comportamenti impulsivi. Una seconda forma di bulimia è quella non purgativa, che presenta, invece, metodi di compenso come il digiuno e l’attività fisica. Questi soggetti presentano maggiori caratteristiche ossessive. In questo quadro è importante tenere presente anche le complicazioni di tipo medico che possono esserci, e che sono legate soprattutto al vomito, e all’uso di lassativi e diuretici. Queste complicanze sono a carico del cavo oro-faringeo, del tratto gastro-esofageo, dell’equilibrio elettrolitico, oltre che odontoiatriche. 11 Nella seguente tabella sono elencati i criteri diagnostici del DSM-IV per la bulimia nervosa. a) Ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, enteroclismi o altri farmaci. Digiuno o esercizio fisico eccessivo. b) Le abbuffate e le condotte compensatorie si verificano entrambe in media almeno due volte la settimana, per tre mesi. c) I livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso corporei. d) L’alterazione non si manifesta esclusivamente nel corso di episodi di Anoressia Nervosa. Sottotipi ! Con condotte d’eliminazione (Purgativa): il soggetto presenta regolarmente vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici, enteroclismi. ! Senza condotte d’eliminazione (Non purgativa): il soggetto utilizza regolarmente altri comportamenti compensatori inappropriati quali il digiuno o l’esercizio fisico eccessivo, ma non presenta regolarmente condotte d’eliminazione. Per quanto riguarda i disturbi non altrimenti specificati, rimando alla classificazione del DSM-IV nella tabella sottostante. a) Tutti i criteri dell’Anoressia sono soddisfatti, ma in presenza di regolare ciclo mestruale. b) Tutti i criteri dell’Anoressia sono soddisfatti e, nonostante la significativa perdita di peso, il peso attuale risulta nei limiti della norma. c) Tutti i criteri della Bulimia sono soddisfatti, tranne il fatto che abbuffate e condotte compensatorie hanno frequenza inferiore a due episodi per settimana, per tre mesi. d) Un soggetto di peso normale che si dedica regolarmente ad inappropriate condotte compensatorie dopo aver ingerito piccole quantità di cibo. e) Il soggetto ripetutamente mastica e sputa, senza deglutirle, grandi quantità di cibo. f) Disturbo da alimentazione incontrollata: ricorrenti episodi di abbuffate in assenza delle regolari condotte compensatorie inappropriate tipiche della Bulimia Nervosa. 12 Un approfondimento è necessario per quanto riguarda il disturbo da alimentazione incontrollata, che sembra costituire circa il 30% dei casi di obesità. Anche questo disturbo, come la bulimia, è caratterizzato dalla presenza di abbuffate frequenti, con sensazione pervasiva di perdita del controllo, seguita da forti sensi di colpa. A differenza della bulimia, però, le abbuffate non sono accompagnate da strategie per compensare l’ingestione del cibo. L’eccesso alimentare non sembra legato ad una pressione biologica proveniente dall’organismo, ma sembra piuttosto consistere in una difficoltà a controllare l’impulso ad alimentarsi. Le abbuffate possono essere scatenate da alterazioni dell’umore, oppure dalla ricerca della sensazione di disinibizione caratteristica del mangiare senza controllo. Anche in questo quadro è importante tenere presente le complicazioni di tipo medico, che possono essere: diabete, ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, malattia coronaria, alterazioni della funzione respiratoria, e tumori. 13 3.2 Cause dei disturbi alimentari Ad oggi la riflessione sulle cause dei disturbi alimentari non è univoca. Sono presenti (Ostuzzi, Luxardi, 2003) diverse scuole di pensiero che enfatizzano diversi fattori, il modello più diffuso e accreditato è quello multifattoriale che si rifà ad un’ottica biologica, psicologica e sociale, il quale afferma che non esiste un’unica causa, ma una concomitanza di fattori che possono interagire e quindi definire lo sviluppo ed il perpetuarsi del disturbo. Questo concetto è stato introdotto da Garner e Garfinkel nel 1982. Secondo questa teoria le cause del disturbo alimentare sono attribuite a fattori predisponenti, scatenanti e di mantenimento. Fattori Predisponenti Fattori Scatenanti Vulnerabilità Socio-culturali Disturbo Alimentare Difficoltà psicologiche ed ambientali Rinforzo positivo da parte dell’ambiente Dieta restrittiva Sintomi da digiuno Familiari Individuali Fattori di Mantenimento Adattato da: Ostuzzi, Luxardi 2003 I fattori predisponenti (Ostuzzi e Luxardi, 2003) sono quegli elementi che determinano la vulnerabilità biologica e psicologica del disturbo e possono essere caratteristiche individuali, famigliari e socio-culturali. Possiamo dunque considerare tra questi fattori: età adolescenziale, idealizzazione della magrezza, perfezionismo, pensiero dicotomico, presenza di modesto sovrappeso, ossessività, ansia e depressione. Queste ultime due caratteristiche possono essere anche una conseguenza della malnutrizione precedente all’instaurarsi del disturbo alimentare. Per quando riguarda le caratteristiche famigliari tanto si è detto, ma ad oggi non è più riconosciuta come valida l’ipotesi che ci possa essere una famiglia tipica che predispone al disturbo alimentare, invece, probabilmente, le famiglie che prestano particolare attenzione all’aspetto fisico, influenzano i loro figli in questo senso, ma non si può dire che questa inclinazione sia, da 14 sola, la causa del disturbo alimentare. Per quanto riguarda i fattori socio-culturali è necessario sottolineare che i disturbi alimentari sono diffusi maggiormente nelle aree di cultura occidentale, quindi si pensa che i mezzi di comunicazione abbiano una componente importante nel formare l’ideale di donna magra come donna di successo, ricca, attraente, e vincente. Questo ideale può influenzare parecchio le persone più vulnerabili e in cerca di identità come possono essere, ad esempio, le adolescenti. Richard Gordon (1991) suggerisce, a questo proposito, che ogni tentativo di comprensione dell’anoressia e della bulimia si debba collocare in una prospettiva culturale, considerando il disturbo come etnico. Gordon fa qui riferimento al disturbo etnico teorizzato da Devereux (1955), e caratterizzato cioè da un modello cognitivo-comportamentale deviante che, per le sue dinamiche, viene ad essere un’espressione delle contraddizioni cruciali e dell’ansia di fondo di una particolare parte della società umana, in un particolare momento storico. I fattori scatenanti (Ostuzzi, Luxardi, 2003) sono, appunto, quei fattori che determinano o favoriscono l’instaurarsi vero e proprio del disturbo alimentare in presenza dei fattori predisponenti. Un fattore scatenante può essere, molto spesso, l’intraprendere una dieta dimagrante anche in condizioni di modesto sovrappeso. Ci possono essere anche diversi altri fattori più o meno gravi, quali un lutto importante, una violenza, o semplicemente un cambio di residenza o un viaggio. Si tratta, comunque, sempre di eventi che tendono ad accrescere le difficoltà che una giovane incontra sul piano delle capacità di relazione e della propria autonomia ed autostima. I fattori di mantenimento sono quegli elementi che contribuiscono a rinforzare e perpetuare la condizione patologica innestata dai fattori scatenanti e promossa dai fattori predisponenti. Questi elementi sono inizialmente gli aspetti legati al pensiero, ovvero le idee sul peso e sulle forme corporee, che portano la persona a vedere come unica necessità la magrezza, e che spesso sono anche rinforzati dall’esterno. Con il passare del tempo (Keys, 1950) il rinforzo esterno diminuisce e il fattore di mantenimento principale diventano i sintomi del digiuno. Si viene a creare, quindi, una vera e propria sindrome da digiuno, con sintomi e segni che coinvolgono aspetti organici, comportamentali e psichici, in particolare: ! Disturbi legati al ritmo del sonno e alla bassa temperatura corporea; ! Sintomi digestivi: nausea, senso di pienezza gastrica, e tensione addominale, che spesso sono portati dal paziente come causa del rifiuto del cibo; ! Esagerata preoccupazione per il cibo; 15 ! Instaurarsi di rituali riguardanti il cibo e l’alimentazione; ! Depressione, ansia, irritabilità, e rabbia, che possono sfociare in episodi psicotici e addirittura in cambiamenti di personalità; ! Isolamento sociale, poiché nel frequentare gli amici il paziente spesso è messo davanti al suo problema; ! Modificazioni cognitive, quali diminuita capacità di concentrazione, e di pensiero astratto e apatia. È importante sottolineare che tutti questi sintomi sono strettamente legati al digiuno e non sono permanenti. Il fattore principale di mantenimento, nella bulimia, è il vomito autoindotto, che sia psicologicamente che fisiologicamente tende a facilitare successive abbuffate. Altro importante fattore di mantenimento è l’atteggiamento iperprotettivo dei famigliari del paziente con disturbo alimentare, che pur essendo normale, rinforza i problemi di autonomia della ragazza. In questo senso il disturbo alimentare può dunque rappresentare un vantaggio, permettendo l’evitamento di situazioni che altrimenti creerebbero ansia. Il concetto è approfondito nella figura seguente. Fattori familiari Evitamento dei conflitti, invischiamento, alte aspettative, attenzione a dieta e forme corporee, criticismo, scarsa autonomia. Il disturbo alimentare (cibo e corpo) diventa il centro della vita familiare Fattori individuali Deficit di autostima, autonomia, perfezionismo, paura di crescere. DCA Fattori culturali Valorizzazione della magrezza, falsi valori, diet industry, elevate performance. Mantenimento del disturbo Il nucleo familiare si isola e si chiude in sè Ipercontrollo della figlia e ipercoinvolgimento emotivo Adattato da: Ostuzzi, Luxardi 2003 16 Una comorbilità psichiatrica può rappresentare un importante fattore di mantenimento. Z.Cooper (1998, Handbook of Eating Disorders and Obesity) evidenzia che non è ben chiaro se depressione e disturbi di personalità siano cause o conseguenze del disturbo alimentare stesso. In ogni modo sono fattori molto importanti, poiché possono ridurre l’efficacia del trattamento. Larsson e Hellzen (2004) in uno studio sui pattern di personalità nei pazienti affetti da disturbo alimentare, trovano che la depressione maggiore interessa dal 25% all’80% dei pazienti con disturbo alimentare, inoltre la percentuale più elevata di disturbi di personalità riscontrata, specialmente in bulimia, è quella che riguarda il disturbo borderline, con il 63% delle pazienti affette da questo disturbo, mentre tra le anoressiche il disturbo di personalità più diffuso sembra essere quello ossessivo-compulsivo. I risultati mostrano inoltre che altri disturbi di personalità sono risultati essere particolarmente frequenti, e in particolare i disturbi paranoide, schizoide, schizotipico, istrionico, evitante e dipendente; si evidenzia anche un’associazione tipica di disturbi, ovvero l’associazione tra il disturbo evitante, borderline e ossessivo-compulsivo. 17 Capitolo 4 IL CRONICIZZARSI DEI DISTURBI ALIMENTARI 4.1 Il concetto di cronicità La cronicità nei disturbi alimentari è un concetto che sinora non è stato definito chiaramente. Strober (2004) afferma che la cronicità rappresenta l’intrattabilità della malattia, la permanenza del disturbo alimentare nonostante ripetuti e diversi trattamenti. Allo stesso tempo sottolinea che questo è un concetto ingannevole, infatti non ci sono criteri per giudicare se davvero ci sia un’intrattabilità del disturbo, o per dire quali siano le caratteristiche precise di gravità medica e morbilità psicologica che definiscono un disturbo cronico. Strober ipotizza dunque che la cronicità, in questo campo, si possa definire nel momento in cui il paziente supera il limite oltre al quale la probabilità di remissione dal disturbo è dubbia. Per sostenere questa sua tesi porta come esempio dei dati di una sua ricerca del 1997, che indicano che, tra i pazienti che dopo 5 anni sono ancora affetti dalla malattia, il 67% si rimette nei successivi 5 anni. I pazienti che non si rimettono entro questi 10 anni, invece, hanno solo il 14% di probabilità di guarire nei successivi 5 anni. Più comunemente la cronicità è considerata come il fallimento delle strategie terapeutiche messe in atto per far fronte ai fattori di mantenimento del disturbo alimentare, infatti, secondo questa teoria, è proprio sui fattori di mantenimento (Ostuzzi, Luxardi, 2003) che si deve lavorare nelle situazioni gravi e di lunga durata e nei casi di cronicità; infatti, non conoscendo la causa diretta del disturbo alimentare la terapia dovrà andare a modificare e a ridurre proprio questi elementi che mantengono il disturbo. 4.2 Epidemiologia La valutazione dell’incidenza e della prevalenza dei disturbi alimentari varia di molto al variare dei metodi di valutazione e di campionamento (linee guida dell’American Psychiatric Association, 2006). Secondo le ultime stime, la prevalenza per quanto riguarda l’anoressia nervosa nelle donne sembra oscillare tra il 0,3% e il 3,7%. Per quanto riguarda la prevalenza di 18 bulimia nervosa nelle donne, invece, le cifre vanno dall’1% al 4,2%. Il rapporto di prevalenza dei disturbi alimentari tra uomo e donna varia da 1:6 a 1:10. Globalmente si può dire che (Ostuzzi, Luxardi, 2003) il 70% dei casi di anoressia e bulimia ottiene una remissione del quadro clinico, la gran parte si risolve nei primi tre anni dall’esordio, una parte minore nei successivi tre anni. Il 30% dei pazienti cronicizza, e si trova in una situazione stabile o di continui miglioramenti e peggioramenti. Una parte di questi pazienti morirà, ma questo destino non è segnato, perché può capitare che anche pazienti malati da diversi decenni possano guarire. 4.3 Mortalità Il tasso annuo di mortalità dei pazienti con disturbo alimentare è dello 0.5%, nella popolazione superiore ai 25 anni diventa del 12%, è chiaro dunque che questo tasso è totalmente a carico delle pazienti croniche. In particolare, secondo uno studio di Herzog e colleghi (2000), in bulimia la mortalità è pressoché assente, mentre in anoressia ha una percentuale rilevante; inoltre la mortalità di un paziente con disturbo alimentare è 9,6 volte maggiore rispetto a quella di un individuo sano, e il tasso di suicidio è 58,1 volte rispetto a quello di un individuo sano. Le morti sono più frequenti nei pazienti con storia di comportamenti purgativi e condotte di eliminazione e con presenza di disturbi nell’asse I. Le cause di morte si possono individuare nelle conseguenze della denutrizione e del vomito oppure nel suicidio. 4.4 Corso del disturbo e fattori predittivi In questa sezione raccoglierò una serie di studi d’esito condotti in questi anni su anoressia e bulimia, allo scopo di comprendere più da vicino l’andamento di questo disturbo. Uno studio d’esito del 2001 di Ben-Tovim et al. sulle condizioni di 216 pazienti con disturbi alimentari, diagnosticati secondo il DSM-IIIR, riscontra che, dopo 5 anni di trattamento, il 74% dei pazienti con diagnosi di bulimia nervosa, il 78% dei pazienti con diagnosi EDNOS e il 56% dei pazienti con diagnosi di anoressia nervosa, non aveva più un disturbo alimentare. Due pazienti con anoressia nervosa e due EDNOS invece morirono, in questi 5 anni, a causa del disturbo alimentare. 19 Si rileva inoltre che l’esito dei pazienti con anoressia nervosa poteva essere predetto dall’intensità e dalla quantità, ma non dalla durata dei sintomi iniziali. Per i pazienti con bulimia nervosa l’esito poteva essere predetto, invece, in base alle iniziali attitudini correlate al peso e in base all’alterazione del funzionamento psicosociale. Non sono stati individuati fattori per predire l’esito dei pazienti con diagnosi EDNOS. Per quanto riguarda l’anoressia, Steinhausen (1998, Handbook of Eating Disorders and Obesity) sostiene che c’è una grossa variabilità nei risultati degli studi di esito, e mettendoli tutti a confronto considera che in media più del 43% delle anoressiche recupera, il 36% migliora, il 20% sviluppa cronicità, e il 5% muore. Per quanto riguarda i fattori prognostici, tra quelli positivi Steinhausen individua: età d’esordio precoce, personalità isterica, relazione famigliare senza conflitti genitori-figlio, breve intervallo tra sviluppo dei sintomi e inizio del trattamento, breve durata dei ricoveri, alto livello sociale e di istruzione, dieta ed esercizio fisico eccessivo. Tra i fattori prognostici negativi possiamo individuare invece vomito, bulimia, grande perdita di peso, cronicità e problemi clinici precedenti al disturbo alimentare. Nell’agosto 2002 lo stesso Steinhausen ha pubblicato un articolo a proposito dell’esito dell’anoressia nel XX secolo, in cui emerge che dopo 10 anni una media di 73,2% dei pazienti recupera, 8,5 % presenta un miglioramento, il 13,7% cronicizza e il 9,4% muore. Rispetto alla review precedente ci sono piccole diversità anche per quanto riguarda i fattori prognostici. Tra quelli positivi possiamo elencare breve durata dei sintomi, buon rapporto con la famiglia, e personalità isterica. Tra quelli negativi possiamo invece considerare vomito, bulimia e metodi di compenso, problemi clinici precedenti al disturbo alimentare, cronicità e personalità ossessivo-compulsiva. E’ interessante sottolineare che in questo studio non risultano rilevanti fattori che invece sembravano importanti nel confronto precedente, quali: età d’esordio, durata dei ricoveri, livello sociale e livello d’istruzione, presenza o meno di dieta ed esercizio fisico, e quantità della perdita di peso. Uno studio recente, pubblicato quest’anno da Fichter, analizza 103 pazienti con diagnosi di anoressia nervosa con follow-up a 2 anni, a 6 anni, e a 12 anni. Dal test EDI emerge un miglioramento globale durante la terapia, un declino nei due anni successivi alla fine della terapia ed un ulteriore miglioramento e stabilizzazione nei successivi 3-12 anni. Per quanto riguarda il BMI all’ultimo follow-up, il 37% dei pazienti non riesce a raggiungere un BMI di 18, mentre il 20 67% ci riesce. Per quanto riguarda invece l’esito diagnostico dopo 12 anni, il 52,4% non riceve più alcuna diagnosi di disturbo alimentare, il 19% continua ad avere una diagnosi di anoressia, il 9,5% dei pazienti sviluppa bulimia nervosa, 19% sviluppa un disturbo EDNOS. Il 7,7% dei pazienti muore durante questi 12 anni. Da questo studio emerge inoltre che l’impulsività, la severità dei sintomi, e la cronicità sono fattori importanti per predire l’esito dell’anoressia nervosa. Per quanto riguarda la bulimia nervosa, uno studio del 1992 di Keller, Herzog e coll. riporta che il recupero da questo disturbo è lento e con molte ricadute, infatti dopo tre anni e mezzo solo il 69% delle pazienti era guarita, quindi ben 1/3 rimaneva in condizione di cronicità; inoltre la probabilità di ricaduta era del 63% entro 78 settimane dalla presunta guarigione. La probabilità di guarire nuovamente è a questo punto del 50%. Sottolineo che la guarigione era considerata tale dopo 8 settimane di remissione dai sintomi, forse per questo il tasso di ricadute è così alto. E’ stato osservato che le pazienti croniche hanno mantenuto la sintomatologia, senza alcun minimo miglioramento, lungo i tre anni e mezzo dei follow-up. Questo studio individua come fattori predittivi positivi sintomatologia alimentare non troppo severa e migliore stima di sé, corrispondenti ad un punteggio minore di 10 nel test EDI (Eating Disorders Inventory). Inoltre anche un fattore psicosociale quale maggiori amicizie strette può fare in modo che il recupero sia più veloce. Sempre a proposito di bulimia nervosa, Gorge Hsu (1998, Handbook of Eating Disorders and Obesity), prendendo in considerazione tutti i più importanti studi precedenti, afferma che negli studi a breve termine circa il 75% dei pazienti dopo un anno non presenta più sintomi bulimici. Negli studi a termine intermedio circa la metà dei pazienti si può dire guarita al punto di followup di due anni o più, inoltre il 20% presenta cronicità e il 30% viene classificato in una sottosindrome. Per gli studi a lungo termine non sembrano essere invece ancora chiari i risultati. Riassumendo si può dire che, con la terapia cognitivo-comportamentale, il 50% dei pazienti rimane asintomatico da 2 a 10 anni dall’esordio, mentre c’è un gruppo del 20% che cronicizza, e il 30% che evolve in altre sindromi. La mortalità sembra essere maggiore rispetto a quella di una persona senza bulimia, anche se non di molto. Si nota inoltre che la comorbilità con disturbi dell’asse I non influisce sull’esito del disturbo. Mentre vi influiscono positivamente una minor severità del disturbo iniziale e quindi minor 21 durata della malattia, e come nuovo fattore rispetto allo studio di Keller assenza di disturbi di personalità di asse II, e assenza di problemi di alcolismo in famiglia. 22 Capitolo 5 CURARE LA CRONICITÀ NEI DISTURBI ALIMENTARI Come si legge nelle linee guida dell’American Psychiatric Association (2006), l’anoressia e la bulimia nervosa tendono naturalmente alla cronicità, quindi i trattamenti hanno effetti di breve durata e hanno importanza clinica limitata, per questo motivo, anche i pazienti con i quali è terminato il trattamento, è buona abitudine che siano seguiti tramite follow-up e strategie di prevenzione della ricaduta. La cura dei pazienti affetti da disturbo alimentare cronico è una sfida, e spesso sono necessarie modifiche negli obiettivi del trattamento perché il paziente possa trarne beneficio. Ad esempio, gli obiettivi dell’intervento psicologico possono essere ottenuti attraverso passi piccoli e progressivi. Durante la cura di questo tipo di pazienti la comunicazione tra i diversi specialisti è fondamentale, e per prevenire il ricovero sono molto importanti frequenti contatti con il paziente. I pazienti con anoressia nervosa cronica spesso non sono in grado di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l’età e la statura e possono presentare depressione cronica, ossessività e ritiro sociale. In questo caso il trattamento può richiedere l’intervento di altri esperti, ma anche ospedalizzazioni ripetute, o parziali, cura residenziale, terapia individuale o di gruppo, altre terapie sociali, ma anche terapia farmacologica. Durante le ospedalizzazioni, le aspettative per un guadagno di peso dovrebbero essere più modeste, si dovrebbe portare il paziente ad un peso sicuro, compatibile con la sua vita, l’obiettivo del trattamento potrà dunque essere l’indirizzamento ad un giusto stile di vita Anche i pazienti con una storia di malattia di 20 - 30 anni possono trarre benefici dal trattamento, in questo caso il medico dovrà far leva soprattutto sulle risorse emotive del paziente e non più sulle risorse della famiglia, gli obiettivi possono essere relativi al riconoscimento da parte del paziente che il disturbo alimentare è costato molti anni di vita, a questo punto si può aiutare il paziente a migliorare il resto della sua vita. Alcuni pazienti cronici possono avere un’esatta immagine del proprio corpo e riconoscere dunque di essere troppo magri, ma, nonostante questo, 23 hanno ancora bisogno di aiuto per guadagnare il peso necessario a star bene e non cedere all’abitudine del disturbo alimentare. Analizzo ora due diversi tipi di approccio alla cura del disturbo alimentare cronico. Nel 1990 Maurizio Viaro analizza gli aspetti tecnici della conduzione della seduta nel trattamento individuale dell’anoressia mentale cronica, partendo dal presupposto che esiste un nesso tra il disagio della paziente nelle relazioni famigliari e la sintomatologia. Lo scopo della seduta è quindi quello di migliorare la posizione della paziente nella dinamica famigliare. E’ necessario precisare che la terapia consiste essenzialmente in uno scambio d’informazioni tra terapeuta e paziente, mentre interpretazione ed effetti di questo scambio avvengono in un contesto più ampio che include i famigliari. Questa sequenza interattiva può essere chiamata più semplicemente sequenza terapeutica. L’inizio di ogni seduta costituisce il punto finale di una sequenza terapeutica, è necessario capire se e come la paziente ha usato, nelle sue relazioni esterne, le informazioni fornite nella seduta precedente, e se le sono state d’aiuto o meno; ogni differenza tra la seduta precedente e quella in atto costituisce il bilancio emotivo settimanale. Sempre a questo scopo sarà necessario ricostruire insieme alla paziente gli avvenimenti della settimana. Un’ulteriore parte della seduta terapeutica sarà quella di ricostruire, in collaborazione con la paziente, la parte nascosta della sequenza, che rappresenta gli scambi diretti tra i membri della famiglia in assenza della paziente. Le congetture della paziente in proposito rifletteranno il suo modo di vedere le relazioni tra gli altri membri della famiglia, non rappresenteranno probabilmente il reale svolgersi delle cose, ma avranno una certa attinenza con la realtà. La parte successiva della sequenza, è anche quella conclusiva. Il terapeuta, a questo punto, espliciterà la propria ricostruzione dell’intera sequenza, riportando le informazioni scambiate nella seduta precedente, ed evidenziando come la paziente le ha utilizzate nell’interazione con i famigliari, come questi hanno reagito, e il possibile significato di queste reazioni; inoltre, tenterà di connettere lo stato emotivo che la paziente aveva all’inizio della seduta con gli eventi dell’ultima settimana. Il terapeuta può anche esplicitare chiaramente disaccordo rispetto alle ipotesi della paziente riguardo ai diversi aspetti della sequenza terapeutica, e in particolar modo della parte nascosta della sequenza. Sarà opportuno poi discutere tutte queste conclusioni con la paziente e osservare le sue reazioni. Nel ricostruire la sequenza il terapeuta non solo deve 24 ridefinire il significato delle esperienze della paziente, ma deve anche suggerire differenti alternative di comportamento, non significa che con questo egli dovrà persuadere la paziente della correttezza delle proprie supposizioni circa il suo rapporto con persone che egli non conosce, ma può invece esplicitare e far esplicitare alla paziente le aspettative circa le possibili reazioni degli altri e sollecitarla a controllare la validità delle previsioni effettuate. La sospensione delle sedute avverrà quando il terapeuta non sarà più in grado di fornire suggerimenti alla paziente per quanto riguarda le sue relazioni esterne, e, come ogni terapia, dovrà terminare anche se si riscontra che la paziente non ne trae alcun beneficio. E’ necessario sottolineare che la relazione terapeutica è una relazione particolare in quanto deve esercitare per contratto una precisa influenza sulle relazioni tra il paziente e la sua famiglia, senza agire direttamente su quest’ultima. Proprio per questo motivo è una relazione strumentale e gerarchicamente subordinata alle altre relazioni della paziente. Un approccio diverso per la cura della cronicità è quello presentato da Michael Strober in un articolo del 2004. Nel suo lavoro Strober parte dal presupposto che a causa dell’egosintonicità dell’anoressia e della difficile situazione a livello fisico, emozionale e psichiatrico che le pazienti presentano, il terapeuta dovrà usare un approccio diverso da quello che usa in tutti gli altri casi. Egli evidenzia il fatto che proprio uno dei motivi per i quali si sviluppa l’anoressia è quello di non saper affrontare la paura e l’angoscia che genera il mondo esterno, per questo una paziente anoressica sarà ben protetta da qualsiasi tipo di intrusione, infatti le pazienti hanno imparato a rifugiarsi nella ritualità del comportamento anoressico per fuggire tutto ciò che crea loro ansia e vivono quindi in questo sottile equilibrio in cui si sentono sicure solo se dimostrano di poter controllare il loro corpo. Qualsiasi cosa loro sentano come minacciosa di questo equilibrio può facilmente portare ad un aumento di tali comportamenti. Spesso anche i tentativi di terapia sono vissuti come minacciosi e questo rischia di sortire proprio l’effetto opposto a quello voluto. Molto spesso le pazienti non saprebbero nemmeno immaginarsi quale sarebbe la loro vita senza anoressia e anche in questo la paura gioca un ruolo cruciale nel farle ridurre ancor di più l’alimentazione e di conseguenza il peso. Strober sottolinea il rischio di sentirsi irritati, annoiati, impotenti e frustrati davanti a questo tipo di pazienti, e suggerisce di riconoscere queste emozioni e cercare di affrontarle. Sostiene inoltre, anche a questo proposito, la necessità di continui confronti con gli altri membri dell’equipe terapeutica per considerare questi aspetti del rapporto terapeutico. 25 Per tutti i motivi sopraelencati Strober elabora una serie di punti che il terapeuta dovrebbe seguire per tentare di affrontare questi problemi: ! Assicurare alla paziente che l’aumento di peso non è affatto l’obiettivo principale del trattamento e che ogni passo in quel campo sarà preventivamente negoziato con lei per evitare di scatenare panico e regressione. ! Assicurare che si capiscono e si conoscono tutte le contraddizioni della malattia, la funzione protettiva, e l’handicap che questa porta con sé, i motivi, e come queste caratteristiche siano rese più difficili da abbandonare a causa del temperamento stesso della paziente. Assicurare inoltre che non si mira affatto a cambiare questo stato. ! Incoraggiare la paziente a mantenere un’attività sociale, anche se minima; ad esempio con la famiglia e con gli amici, con gruppi di supporto e comunità religiose, oppure semplicemente frequentando i locali preferiti. Il terapeuta dovrà decidere bene la frequenza di questi incontri per cercare di evitare che le persone in questione sentano troppo il peso della paziente e della sua malattia sulle loro spalle. ! Incoraggiare hobbies, attività intellettuali, e attività che danno la possibilità di sperimentare piacere o abilità e che allo stesso tempo stimolino l’attività cognitiva della paziente. ! Richiedere regolari esami clinici per tenere sottocontrollo le condizioni fisiche della paziente, per sapere come comportarsi da questo punto di vista e per poter anche prendere decisioni in proposito; in questo è consigliato l’aiuto di un medico vicino all’equipe terapeutica. ! Esplorare la possibilità di aumentare l’alimentazione, sottolineando che questo non significa aumentare il peso. Spesso, infatti, arrivare ad assumere 1200 kcal al giorno non comporta alcun aumento di peso. Questo passo va comunque effettuato a suo tempo, quando la paziente diventa fiduciosa e sicura nel rapporto con il terapeuta. A questo scopo potranno essere utili anche confronti con altri pazienti cronici. E’ necessario sottolineare che spesso queste decisioni vengono prese subito dopo ad una crisi medica, quando la paura della morte e del deterioramento delle condizioni fisiche è ancora vicina e forte. Si consiglia di sviluppare, a questo scopo, un piano di collaborazione con un nutrizionista che possa aiutare ad incrementare il cibo passo dopo passo. 26 ! Incontrare anche i famigliari e le persone vicine alla paziente per aiutarli ad affrontare, nel migliore dei modi, questa situazione e per dar loro informazioni circa la psicopatologia dell’anoressia nervosa. 27 Capitolo 6 COME SI AFFRONTANO I DISTURBI ALIMENTARI E LA CRONICITÀ IN UN CENTRO DISTURBI ALIMENTARI Il centro disturbi alimentari (CDA) di San Vito al Tagliamento è parte del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda per i Servizi Sanitari n. 6 “Friuli Occidentale”. Il centro si occupa della cura dei disturbi del comportamento alimentare con particolare attenzione anche per problemi non psichiatrici quali l’eccesso ponderale. Il programma d’intervento si caratterizza per la multidisciplinarietà e per la collaborazione fra più figure professionali che affrontano i molteplici aspetti del disturbo alimentare integrando le proprie competenze in un lavoro d’equipe. Il gruppo di lavoro prevede le figure di psicologo, medico internista, psichiatra a consulenza, dietista e pedagogista. Il CDA offre una pluralità di interventi che vengono attivati in relazione alle necessità della persona che li richiede. In generale, nel percorso del trattamento, possono essere individuate tre tappe: colloquio di accoglimento, valutazione ed intervento. Il colloquio di accoglimento rappresenta il primo contatto con il centro ed ha la funzione di raccogliere alcuni dati sul problema e di fornire alla persona una serie di informazioni sul funzionamento del centro. La successiva fase di valutazione si sviluppa in qualche incontro con psicologo, medico e dietista, ed ha lo scopo di effettuare un’attenta valutazione medica e psicologica del problema, in modo da formulare una diagnosi. Sulla base delle informazioni raccolte nelle fasi precedenti, il caso viene dunque discusso all’interno dell’equipe in cui sarà individuato il trattamento necessario. Se nella valutazione vengono riscontrate condizioni mediche gravi, si procede al più presto con un ricovero ospedaliero, altrimenti si procede programmando dei trattamenti ambulatoriali. La decisione del ricovero viene presa dal Primario del reparto di Medicina su proposta del Centro Disturbi Alimentari. Durante il ricovero vengono effettuati gli accertamenti e gli interventi terapeutici necessari, ad esempio riabilitazione nutrizionale per mezzo di un trattamento infusivo per via endovenosa, sostituito poi gradualmente dall’alimentazione per via naturale; contemporaneamente si inizia un intervento di sostegno psicologico sia per la paziente, sia per la famiglia. Il trattamento di ricovero, proprio per le sue caratteristiche di intervento d’urgenza, di 28 norma non va oltre la durata di quindici giorni. In alcune situazioni si può ricorrere al trattamento di Day Hospital programmando un ciclo di ricoveri giornalieri. In questo diagramma (adattato da: Luxardi, 2006) si evidenziano i percorsi terapeutici messi in atto al CDA. Valutazione Sì Condizioni mediche gravi Ricovero ospedaliero No Trattamenti ambulatoriali integrati Esito favorevole Dimissione Esito sfavorevole. Stallo terapeutico. Ricovero riabilitativo in clinica o comunità. Gestione cronicità. 30% Com’è evidente dal grafico, una volta terminato il ricovero si riprende la strada consueta dei trattamenti ambulatoriali integrati, che consistono in interventi di diverso tipo: Interventi informativi: hanno lo scopo di rendere più consapevole il paziente circa le caratteristiche del suo disturbo. Sono realizzati all’interno del rapporto individuale con medico, dietista o pedagogista, oppure in situazioni di gruppo attraverso corsi strutturati della durata di quattro-sei incontri. Interventi sulla motivazione: sono finalizzati ad accrescere la determinazione del paziente ad impegnarsi nella cura e perseguire un cambiamento della sua vita. Di norma questo trattamento richiede due-tre incontri e può essere svolto in forma individuale o di gruppo. In ogni caso l’intervento motivazionale non può essere considerato concluso con l’inizio del trattamento, ma va ripreso costantemente ogni qual volta ci siano delle difficoltà da parte del paziente. 29 Riabilitazione nutrizionale: è finalizzata al recupero ponderale e, per quanto riguarda l’anoressia, al superamento dei sintomi da digiuno, mentre per quanto riguarda la bulimia, alla risoluzione del circolo vizioso restrizione-abbuffate-vomito. Al CDA si utilizza un metodo di automonitoraggio quotidiano, precisamente un diario alimentare, che consiste nel mettere in relazione l’alimentazione quotidiana con i propri stati emotivi ed aiuta a creare una maggior consapevolezza delle proprie reazioni automatiche agli eventi stressanti. Prevede l’intervento di dietista e psicologo. Questo intervento è molto importante e spesso propedeutico ad un intervento psicoterapeutico. Intervento psicologico-psicoterapeutico: mira a modificare la visione di se stessi e le soluzioni individuate fino a quel momento per conseguire un adattamento della propria situazione di vita. Per poter iniziare questo tipo di trattamento è necessario che i maggiori conflitti con il cibo siano risolti (dalla riabilitazione nutrizionale). Interventi di gruppo: sono utili per la maggior parte dei disturbi alimentari e differenziati a seconda del disturbo stesso. Sono di diversi tipi e con diversi scopi. Psicoeducativi, di assertività, di auto-aiuto, oltre a quelli già nominati prima informativi o motivazionali. Interventi per i genitori: sono diversi, come ad esempio gruppi di auto-aiuto, corsi informativi, e terapia famigliare. Terapia farmacologica: è spesso utile soprattutto nella bulimia (terapia serotoninergica), ma anche nelle patologie che presentano morbilità con disturbi psichiatrici quali ansia e depressione. E’ d’obbligo sottolineare che la terapia farmacologica non può essere l’unico trattamento. Se i trattamenti ambulatoriali hanno successo il paziente viene dimesso, ma rimane in contatto con il centro per successivi follow-up, utili a monitorare la situazione anche dopo la fine della terapia e come tentativo di prevenzione della ricaduta. Se il trattamento sopra esplicitato non ottiene successo si instaura una situazione di stallo terapeutico, a questo punto potrebbe essere utile un ricovero riabilitativo in clinica o comunità, cui seguirebbe nuovamente il trattamento ambulatoriale. Se la situazione non accenna a cambiare si va verso l’instaurazione di una condizione cronica. Quando si arriva a questo punto, dopo che tutti i precedenti tentativi di cura sono falliti, considerando anche la limitatezza delle risorse della struttura pubblica, è necessario individuare un trattamento che possa garantire le necessità della paziente e sia al tempo stesso caratterizzato 30 da economicità, poiché si protrarrà probabilmente per molto tempo. Il trattamento in questione deve fornire le prestazioni essenziali sul piano dell’assistenza medica e psicologica, in modo da garantire alla paziente la migliore qualità di vita possibile. Nello stesso tempo bisogna tener presente che un intervento troppo orientato al cambiamento, rivolto ad una persona che non ha accettato l’idea di cambiare, e che probabilmente non possiede un modello mentale di come potrebbe essere la sua vita senza il disturbo alimentare, rischia di tradursi in un braccio di ferro tra l’accanimento terapeutico e le difese della paziente. Il trattamento del paziente cronico si svilupperà dunque secondo i seguenti punti: Sarà seguito dal punto di vista clinico attraverso analisi di laboratorio, per monitorare continuamente la sua condizione fisica. Questo compito che può essere svolto anche dal medico di base. L’importanza di questo intervento è fondamentale, poiché è stato osservato un forte aumento della mortalità dopo i 25 anni. Sarà anche utile mantenere un minimo intervento nutrizionale per seguire da vicino la paziente nel vivo del suo disturbo alimentare. Inoltre si dovrà portare avanti un intervento di tipo motivazionale, ma che miri innanzitutto a costruire una buona relazione tra un operatore del centro e il paziente. Questo rapporto non dovrà essere per forza un rapporto terapeutico nel senso tradizionale del termine, bensì un rapporto di fiducia solido che miri a dare un buon sostegno psicologico (che può essere sia individuale, sia di gruppo) e a massimizzare il benessere del paziente con una grande attenzione nel cogliere ogni minimo segnale di cambiamento, all’arrivo del quale sarà necessario adoperarsi con grande impegno per sfruttare ogni minima apertura del paziente verso un miglioramento del suo stato. L’intervento motivazionale si muove su due livelli: cognitivo, ovvero volto a considerare vantaggi e svantaggi, e relazionale, ovvero volto ad instaurare un rapporto di fiducia con l’operatore. Precisando questo concetto con le parole di Luxardi (In: Psicoterapia cognitiva del disturbo da alimentazione incontrollata. Vinai, Todisco. In pubblicazione): “Il paziente va aiutato ad individuare quegli aspetti del suo disturbo che, seppure in maniera disfunzionale, gli permettono un adattamento nelle condizioni di stress e ad identificare possibili comportamenti alternativi. La motivazione al cambiamento inizia a delinearsi quando si percepisce che i costi del comportamento problematico sono maggiori dei vantaggi. L’operatore deve sostenere il paziente in questa nuova visione delle cose, con interventi atti a rinforzane le ragioni. Possono essere utili 31 le tecniche della bilancia cognitiva, in cui vantaggi e svantaggi vengono raffrontati, e quella della lettera dal futuro, che consente alla persona di confrontarsi con le conseguenze del suo disturbo. Se il processo motivazionale procede in modo proficuo vi è uno “sbilanciamento” verso il cambiamento. Non possiamo considerarlo un passo definitivo, poiché il sistema di mantenimento del disturbo è ancora disponibile e conserva le sue potenzialità adattive. Si tratta di una finestra di opportunità che resta aperta per un certo tempo. Se viene sfruttata per passare alla fase dell’azione si può avviare il processo di cambiamento. In caso contrario si ha una regressione alla fase della contemplazione”. Strategie specifiche utili nel rapporto col paziente sono: ! Alleanza terapeutica forte. ! Esame degli obiettivi e attese del paziente e dei familiari rispetto alla cura. ! Fare compromessi. ! Ricerca dei motivi degli insuccessi dei precedenti trattamenti e ricerca di nuovi approcci. ! Approccio con più figure professionali. ! Evitare ogni imposizione rispetto alla terapia. ! Evitare interventi punitivi. ! Trattamento obbligatorio solo come salvavita. ! Ogni intervento mirato al miglioramento della qualità della vita. Nell’intervento diretto al paziente cronico è importante considerare anche la sua famiglia ed è di altrettanta importanza una riflessione sull’equipe stessa. Nel rapporto con la famiglia è utile lavorare per costruire obiettivi credibili, spesso, infatti, le alte aspettative dei famigliari creano una grande conflittualità che può essere ridotta moderando quest’ultime, inoltre sarà utile tentare un approccio terapeutico alla famiglia se non è stato sperimentato in precedenza. In casi più difficili, in cui il paziente è molto invischiato con la famiglia, sarà forse necessario tentare un allontanamento da essa. Anche per quanto riguarda l’equipe sarà necessario ridimensionare le aspettative, e nel contempo, mantenere un’apertura verso un possibile cambiamento. Sarà inoltre necessario evitare di assumere atteggiamenti simmetrici, ovvero non prendere in considerazione la prospettiva del paziente, prediligendo invece un approccio metacomplementare, ovvero 32 considerare la prospettiva del paziente, e riservandosi possibilità di disaccordo e discussione. L’equipe dovrà anche esplorare la possibilità di ridiscutere le strategie terapeutiche, considerando anche percorsi terapeutici alternativi. Citando Jose Bleger (1971) è utile ricordarsi che “ogni organizzazione tende a mantenere la stessa struttura del problema che deve affrontare e per la quale è stata creata. Così un ospedale finisce per avere in sé tante organizzazioni, le stesse caratteristiche degli ammalati”. Di conseguenza è necessario che ci sia una continua riflessione e supervisione dell’equipe affinché il sistema curante non diventi un sistema di mantenimento del sintomo. Concludendo, è necessario sottolineare ancora una volta, che è di grande importanza che gli operatori e la famiglia tengano sempre presente che, in ogni momento, anche dopo molti anni, è possibile la risoluzione del Disturbo Alimentare (Russel, 2000). 33 Conclusioni In conclusione si può dunque dire che un approccio valido e lungimirante nei confronti della malattia cronica potrebbe essere proprio quello presentato da Ba e Peserico, che si basa su di un modello biopsicosociale ed è volto anzitutto alla prevenzione. A questo scopo sarà utile indagare sempre meglio i fattori predittivi delle diverse malattie che possono cronicizzarsi. I suggerimenti provenienti dall’esperienza dei Talassemici sicuramente ci aiutano a riflettere sugli obblighi che abbiamo nei confronti del paziente perché, anche se affetto da una malattia al momento non curabile, possa vivere una vita serena e il più possibile entro i canoni della normalità. Per quanto riguarda i disturbi alimentari più da vicino, alla luce degli studi d’esito, possiamo dire che la cronicità è un aspetto che coinvolge gli operatori di questo campo sempre più da vicino, per questo sarà utile essere preparati a questo fenomeno. Lo studio di Strober, a questo proposito, mette in evidenza diversi problemi che si possono incontrare nella cura di pazienti anoressiche e bulimiche croniche. Il suo approccio è sicuramente valido e utile per confrontarsi con questo tipo di pazienti, infatti egli suggerisce di costruire innanzi tutto un forte rapporto di fiducia, sul quale poi costruire passo dopo passo la motivazione della paziente, ed in seguito, nel momento in cui anche la paziente lo desidera, elaborare una strategia terapeutica efficace e metterla in atto. Nel chiudere questo lavoro posso solo augurarmi che in futuro saranno compiute ricerche più accurate per quanto riguarda la cronicità in anoressia e bulimia. I disturbi alimentari sono dei disturbi in un certo senso nuovi, e c’è bisogno ancora di molti studi per cercare di capirne sempre meglio le cause, per poter così individuare trattamenti sempre più efficaci. 34 Bibliografia Introduzione ! American Psychiatric Association. Practice guideline for the treatment of patients with eating disorders. III edition, June 2006. Disponibile nel sito web dell’APA: www.psych.org. Capitolo 1 ! Devoto, Oli. Dizionario della Lingua italiana. 1995. ! Karl Jaspers. Psicopatologia generale. 1964. ! G. Ba e M. Peserico. La riabilitazione in psichiatria. In: Manuale di Psichiatria e Psicologia Clinica. G. Invernizzi. II edizione. Mc Graw Hill ed. 2000. ! P.E. Turci. Vecchia psichiatria, nuova psichiatria e cronicità. Psichiatria Generale e dell’età evolutiva. 1984. ! M. Spivak. Introduzione alla riabilitazione sociale. Teoria, tecnologia e metodi di intervento. 1987. ! Paola Carrozza. Principi di riabilitazione psichiatrica. Per un sistema di servizi orientato alla guarigione. Franco Angeli Ed. 2005. Capitolo 2 ! D. B. Meneguolo. La cronicità in psichiatria. Confronto con gli operatori della “Cooperativa Nuova Idea” di Abano Terme. Tesi. Università di Trieste. 2001. ! G. Ba e M. Peserico. La riabilitazione in psichiatria. In: Manuale di Psichiatria e Psicologia Clinica. G. Invernizzi. II Edizione. Mc Graw Hill ed. 2000. ! La malattia cronica. Articolo pubblicato nel sito web: www.talassemicitorino.it. Capitolo 3 ! American Psychiatric Association. DSM-IV: Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. III Edizione Italiana. 1998. 35 ! Biscontin, Mascherin, Talon. In: G.L. Luxardi, M. Moro. Fame di conoscenza: manuale d’informazione sui disturbi del comportamento alimentare. Pubblicato dall’Azienda Per I Servizi Sanitari N.6 “Friuli Occidentale”.1998. ! R. Ostuzzi, G.L.Luxardi. Figlie in lotta con il cibo: un aiuto per i genitori, le ragazze, gli insegnanti e gli amici. 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Ringrazio inoltre Tutti coloro che lavorano al centro per i disturbi alimentari di San Vito al Tagliamento per la preziosa collaborazione, per la simpatia e l’amicizia con cui mi hanno accolto, sostenuto, aiutato, e sopportato durante il tirocinio, e successivamente. Dott.sa Falcetta per avermi aiutato nella ricerca del materiale bibliografico. Mamma, Papà, Sorellissima, Nonni Emma, Nives, Evelino, Irene. Gli amici, tutti gli amici con cui ho condiviso emozioni e vita. Grazie perché senza di voi probabilmente ora non sarei quella che sono. Un ricordo particolare per il mio nonno Mario e per i miei nonni-zii Giovanni, Toni e Rina che sono sempre con me, nei miei pensieri e nel mio cuore. Semplicemente Grazie, Ilaria.