UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL PIEMONTE ORIENTALE “AMEDEO AVOGADRO” SEDE DI NOVARA FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA MASTER DI 1° LIVELLO IN CURE PALLIATIVE per Medici e Infermieri ANNO ACCADEMICO 2003/2004 TESI FINALE “RUOLO E RAPPORTI TRA CAREGIVER FORMALE E CAREGIVER INFORMALE NEL PERCORSO COMUNE DI MALATTIA, CON IL MALATO IN FASE ULTIMA DI VITA” RELATORE: DOTT. MAURO ARZESE CORRELATORE: DDSI CPSE SALVATORE BELLINCERI CANDIDATA: CPSE MARIA CAMERA DEDICA A TUTTI QUELLI CHE SANNO STARE SEDUTI IN SILENZIO CON I LORO SIMILI, NON SAPENDO CHE COSA DIRE MA SAPENDO CHE DEVONO “ESSERCI” E, POSSONO PORTARE NUOVA VITA IN UN CUORE MORENTE. A TUTTI QUELLI CHE NON HANNO PAURA DI STRINGERE UNA MANO CON GRATITUDINE, VERSARE LACRIME NEL DOLORE,.... ACCOMPAGNARE E..... LASCIAR ANDARE.......... A TUTTI QUELLI CHE SI SENTONO “VINTI” E RIESCONO COMUNQUE A SUPERARE LIMITI PARALIZZANTI. A TUTTI QUELLI CHE SANNO PERDONARE. (Henri J.M. Nouwen, Out of Solitude) A TUTTI I MIEI PAZIENTI, ALCUNI VIVI, LA MAGGIOR PARTE MORTI, CHE MI HANNO INSEGNATO MOLTO DI QUELLO CHE SO SULL’INFERMIERISTICA, SUI RAPPORTI UMANI E SUL SUPPORTO EMOTIVO. Grazie INTRODUZIONE Pag. 2 IL PUNTO DI PARTENZA Pag. 3 MIERISTICO Pag. 5 LEADERSHIP EMPOWERING: I MODELLI Pag. 5 DELLE CURE PALLIATIVE? Pag. 6 L’EMPOWERMENT E LE CURE PALLIATIVE Pag. 14 EMPOWERMENT E ORGANIZZAZIONE Pag. 15 EMPOWERMENT E RISORSE Pag OBIETTIVO GLI STRUMENTI OPERATIVI COMPETENZE DEL COORDINATORE INFER- QUALE STILE DI LEADERSHIP PER UN COORDINATORE INFERMIERIATICO NELL’AMBITO 16 QUALI RISORSE PER UN’EQUIPE DI CURE PALLIATIVE? Pag. 17 DALLE RISORSE TECNICHE ALLE RISORSE UMANE Pag. 19 I TEMPI DEL COORDINAMENTO Pag. 24 I RUOLI E I RISCHI DEL COORDINAMENTO Pag. 25 DARE VALORE ALLE PERSONE: VALUTARE Pag. 26 IL COORDINATORE INFERMIERISTICO E LA VALUTAZIONE Pag. 27 CONCLUSIONI Pag. 29 BIBLIOGRAFIA Pag. 30 C. Piccardo “Empowerment” Strategie di sviluppo organizzativo centrate sulla persona, R. Cortina Ed., 1995; M. Manetti, A. Piermari, N. Rania, A. Zumino “I processi di gestione delle risorse nelle organizzazioni di cura” Facoltà di scienze della Formazione-Università di Genova- Master di Coordinamento, 2004; S. Capello “Leadership empowering e stile di coordinamento” Master in management infermieristico per le funzioni di coordinamento- Facoltà di Medicina e Chirurgia di Genova, 2004; S. Cappello “Risorse, valutazione” 4° Modulo Master in Management infermieristico per le funzioni di coordinamento, Genova, 2004; L. Ribaldi “L’apprendimento organizzativo” Master in management infermieristico per le funzioni di coordinamentoFacoltà di Medicina e Chirurgia di Genova, 2004; www.avianorossi.it “La dinamica di gruppo”, Relazione presentata all’iniziativa di aggiornamento: Giornate di studio Collegio IPASVI di Pescara,25/10/1995; www.avianorossi.it “Valorizzazione delle funzioni del caposala per una migliore organizzazione dell’assistenza”, intervento presentato alla tavola rotonda organizzata da Coordinamento Nazionale dei Caposala (CNC)-Regione Umbria, 14/3/2003 30 INTRODUZIONE L’assistenza al paziente terminale e le cure palliative sono diventati sempre più temi attuali di discussione. Di fatto, la morte e l’assistenza al paziente che muore rappresentano uno degli argomenti che ha, da sempre, occupato spazio nella pratica, nella formazione e nella letteratura infermieristica. Chi è coinvolto nell’assistenza al malato oncologico, nel periodo terminale della propria esistenza, vive un’esperienza umana e professionale di grande intensità. Quale attenzione viene rivolta a queste persone: medici, infermieri, terapisti, psicologi, familiari e volontari? Quale attenzione è riservata alla famiglia di un paziente in fase ultima di vita? Chi e come garantisce che queste persone conservino la vitalità del proprio ruolo di caregiver senza cadere vittime di emozioni, stress e burnout? Lungo il percorso, questo mio lavoro sarà interrotto da racconti di casi; non situazioni cliniche, bensì situazioni assistenziali difficili, che hanno portato a scelte complesse, in cui è stato in particolare il paziente a insegnare, o che hanno messo in luce carenze organizzativo-strutturali. Il racconto rispecchia una duplice esigenza: quella di mettere in comune esperienze e vissuti, ma anche di rispecchiare, rispettare e sfruttare la ricchezza qualitativa della realtà, predefinite, che per non farne sembra riconducibile occasione di a riflessione regole e di apprendimento. Con il racconto si rende visibile il paziente e le sue sofferenze, si suggeriscono ipotesi, documentandole, si rendono vive le storie del quotidiano che finirebbero per perdersi, per finire dimenticate, per rimanere patrimonio di pochi.1 PARTE PRIMA: IL PAZIENTE IN FASE ULTIMA DI VITA 1.1 DEFINIZIONE. La malattia è una delle situazioni più frustranti della vita, ha sempre un riflesso acuto sulla personalità: la mette in crisi e la rivela nella sua autenticità, spogliata da tutte le maschere. La persona malata è coinvolta in tutto il suo essere, la sua identità, il suo ruolo sociale, il mondo affettivo, la sua progettualità. Una patologia oncologica colpisce non solo il corpo ma anche la psiche e l’universo esperienziale delle persone, non lasciando indenne tutto il sistema di relazioni sociali e familiari dell’individuo. Da subito, il soggetto è chiamato a porsi domande sulla propria vita, sul significato della stessa, sui progetti a medio e lungo termine e sulle relazioni che intrattiene con gli altri e con il mondo. (1) La malattia è un evento in quanto colpisce improvvisamente, che prorompe nel quotidiano e fa uscire il corpo dal silenzio. Tutti siamo a conoscenza che la vita non è infinita, ma viviamo come se così fosse. La malattia apre un varco al sentimento di finitudine, introduce domande sull’esito della (1) Note: Susan Sontag, “La malattia come metafora” malattia, sul tempo che rimane da vivere, sul senso da attribuire alla vita che resta. La dimensione temporale con l’evento malattia si modifica. Il tempo presente è il tempo della terapia ed è vissuto come un “non-tempo”, organizzato e scandito dai cicli di chemioterapia, dai colloqui con i curanti, dagli esiti dei controlli clinici; il tempo prima della malattia è denso di obiettivi e progetti spesso non realizzati che alimentano rimpianti e autoaccuse. Il tempo futuro sembra ipotecato dalla malattia e dal suo decorso. L’esperienza di accompagnamento con pazienti oncologici fa intravedere, talvolta, un passato biografico ingombrante, caratterizzato da complesse situazioni familiari, lutti, episodi di vita che hanno messo a dura prova le capacità e le risorse di queste persone. Il cancro, allora, viene percepito come l’atto finale di un percorso di vita complesso e può essere vissuto come una punizione per qualcosa che si pensa di aver fatto di male come una colpa che angustia. 3 1.2 CHI E’ IL MALATO TERMINALE? Per malato terminale s’intende ogni persona malata, senza speranza di vita residua, colui verso il quale la terapia medica non offre più alcuna possibilità di guarigione o di remissione. La fase terminale della malattia è dunque quella fase avanzata in cui la prospettiva finale è rappresentata dalla morte. La fase terminale ha inizio nel momento in cui il paziente non risponde più ai trattamenti attivi intesi a prolungare la vita, per il quale le cure oncologiche specifiche lasciano il posto ai trattamenti palliativi. (2) Tale periodo non riguarda solo le ultime ore di vita, ma è impossibile collocare in una dimensione temporale la situazione di irreversibilità clinica che può coprire varie settimane e talora mesi. In taluni casi può coincidere con la diagnosi. La malattia terminale è un processo che evolve gradualmente, non un evento statico. Per il malato vengono a crearsi nuovi bisogni, nuove abitudini, un nuovo stile di vita ed essendo questi bisogni di natura diversa, è necessario e corretto affrontarli attraverso un approccio multidisciplinare, utilizzando specifiche competenze e figure diverse, che si prefiggono l’obiettivo comune di apportare un miglioramento della qualità di vita residua del paziente e un accompagnamento dignitoso. Il mondo del malato terminale ruota intorno al bisogno, espresso o non espresso, di sapere che non verrà abbandonato soprattutto nel tempo ultimo della sua esistenza. 4 (2) Note: “Palliativo” deriva dal latino “Pallium” Mantello. 1.3 CHE COSA SONO LE CURE PALLIATIVE? Le Cure Palliative, secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della sanità (OMS), costituiscono una serie di interventi terapeutici ed assistenziali finalizzati alla “cura attiva, totale, di malati la cui malattia di base non risponde più a trattamenti specifici”. Fondamentale è il controllo del dolore e degli altri sintomi, e in generale dei problemi psicologici, sociali e spirituali. Le Cure palliative si caratterizzano per: la globalità dell’intervento terapeutico che, non si limita al controllo dei sintomi fisici, ma si estende al supporto psicologico, relazionale, sociale e spirituale; la valorizzazione delle risorse del paziente e della sua famiglia oltre che del tessuto sociale in cui sono inseriti; la molteplicità delle figure professionale e non professionali che sono coinvolte nel piano di cura; il pieno rispetto dell’autonomia e dei valori della persona malata; il pieno inserimento e la forte integrazione nella rete dei servizi sanitari e sociali; 5 l’intensità dell’assistenza globale che deve essere in grado di dare risposte specifiche, tempestive, efficaci ed adeguate al mutare dei bisogni del malato; la continuità della cura fino all’ultimo istante di vita; la qualità delle prestazioni erogate. Complesso di cure quindi finalizzate a sostenere il paziente nella fase ultima del decorso della sua malattia. Obiettivo primario di questo approccio terapeutico è di mantenere il più possibile elevata la qualità di vita residua, il livello di dignità e decoro della persona malata. In altre parole le Cure Palliative si prefiggono lo scopo di umanizzare la relazione terapeutica. Umanizzare significa considerare e tenere insieme le dimensioni e le esigenze della persona. Riconoscendo che anche se paziente e in grande sofferenza, l’uomo è protagonista della propria vita e della propria morte. Con le Cure Palliative è avvenuto il passaggio, nel campo medico-sanitario, dal modello bio-medico, centrato sulla malattia, a quello psico-sociale centrato sulla persona. 6 1.4 PER QUALI PAZIENTI LE CURE PALLIATIVE SONO UNA RISPOSTA APPROPRIATA ? Stimare il fabbisogno di Cure Palliative non è cosa facile. Per fare ciò si possono utilizzare diverse fonti di dati in parte provenienti da statistiche correnti, in parte presenti nella letteratura scientifica sull’argomento. Più precisamente, è possibile utilizzare: - la mortalità specifica per causa, per stimare il numero di pazienti che sono deceduti dopo aver attraversato una fase terminale di malattia caratterizzata da una compromissione della qualità di vita; - i risultati di studi prospettici e retrospettivi che hanno stimato la prevalenza dei problemi dei pazienti nei loro ultimi mesi di vita; - i dati di utilizzo dei servizi, in primo luogo, quelli di Cure Palliative laddove esistono. La fase terminale di malattia è stata stimata nella sua incidenza e durata solo per i pazienti oncologici. La maggior parte degli studi sono stati condotti in Inghilterra e Stati Uniti,e il trasferimento dei dati potrebbe rivelarsi non appropriato. 7 La compromissione della qualità di vita durante la fase terminale del paziente oncologico è studiata in studi retrospettivi (condotti intervistando il caregiver principale del paziente deceduto) e in studi prospettici ( condotti su coorti di pazienti seguiti dai servizi). L’approccio retrospettivo permette di studiare campioni rappresentativi dei deceduti per tumore, ma sconta il limite della difficoltà a “ricordare” da parte del caregiver. L’approccio prospettico su coorti di pazienti seguiti dai servizi di Cure Palliative è più preciso nella valutazione della compromissione della qualità di vita, ma è basato su campioni non rappresentativi dell’insieme dei deceduti. I dati riferiti all’utilizzo dei servizi scontano il limite dell’impossibilità di includere nella valutazione i bisogni non soddisfatti dai servizi esistenti: si fa riferimento ai pazienti che avrebbero potuto ricevere beneficio da interventi specifici di cure palliative, ma che non sono stati presi in carico in modo appropriato. Tutte le tre fonti citate possono essere utili al fine di riuscire a stimare il fabbisogno di cure palliative nei pazienti oncologici. Studi condotti in diversi paesi sono concordi nello stimare quanto segue: il 90% dei deceduti per tumore necessita di interventi di cure palliative, a diverso livello di complessità; la durata media della fase terminale è stimata in circa 90 giorni; il 15-25% beneficerebbe di ricoveri in strutture tipo Hospice. 8 2. LA MORTE (L’ESPERIENZA DEL VIVERE E DEL MORIRE). La morte non è un evento particolarmente situabile all’inizio o alla fine dell’esistere, ma è sempre presente come anticipazione dell’evento. “....Dal momento che la morte non è comprensibile se non come possibilità, tale comprensione si dà appunto come l’anticipazione emotiva di essa, cioè come angoscia. Essa implica la consapevolezza della propria finitudine e della strutturale impossibilità, per chi vive autenticamente, del suo velamento. Al contrario comprensione di un’oscurità cui apparteniamo da sempre, che ci ha partoriti e che ci richiama verso di sè, ciò da cui veniamo e ciò verso cui, come alla propria origine, tendiamo....”. (3) Le idee attuali sulla morte e le relative immagini sociali hanno creato modelli di rappresentazioni collettive che nulla hanno a vedere con quanto l’umanità ha sperimentato negli anni passati. In passato la morte era un evento noto a tutti che accadeva generalmente in casa alla presenza dei figli e dei nipoti piccoli: era un normale avvenimento della realtà e dell’esistenza che non richiedeva spiegazioni, giustificazioni o nascondimenti. Morte e vita erano considerati eventi ugualmente sacri, cioè tolti dall’arbitrio dell’uomo e ricomponibili solo a livello di una visione superiore, la vita e la morte quali fasi di passaggio verso l’eternità. Il tema della morte per il “mistero” che coinvolge e la complessità dei problemi che propone, richiede riferimenti culturali che superano i confini della clinica strettamente intesa. La morte è un personaggio scomodo e la si vorrebbe dimenticare dato che non riguarda solo il singolo uomo, ma che inevitabilmente, prima o dopo riguarderà l’Umanità stessa. Nelle società tradizionali la morte non rappresenta la fine definitiva ed irreversibile dell’individuo ma soltanto un cambiamento di stato, preludio alla rinascita e al miglioramento oppure la continuazione della vita stessa in un’altra dimensione, in un mondo parallelo. Nella visione delle società moderne la morte è considerata un fatto tragico perchè intesa come la fine dell’esistenza individuale; è l’antitesi della vita stessa nonchè interruzione di un processo produttivo. Per l’uomo moderno la morte è sempre più indice di “fallimento” e pertanto è inaccettabile. La negazione della morte oggi è l’ultimo tentativo disperato del malessere di una società efficientista. Per i curanti in genere la morte rappresenta l’insuccesso di cui vergognarsi e per questo motivo viene allontanata. La conseguenza pratica è quindi la fuga di fronte all’uomo che muore; essa si concretizza o con l’accanimento nella cura della malattia o con il diradarsi degli incontri interpersonali. Freud ha affermato che l’inconscio non riconosce la propria morte perchè si considera immortale:” E’ davvero impossibile immaginare la propria morte; ogniqualvolta proviamo a farlo, ci accorgiamo che in realtà siamo presenti solo e sempre come spettatori”. Da tempo si parla del diritto alla vita e solo da poco si chiede che anche morire con dignità e serenità sia riconosciuto come un diritto del malato. Bisogna in ultimo ricordare che ciò che oggi più di tutto spaventa, soprattutto i familiari, non è tanto la morte in sè, quanto tutto ciò che la precede con tutte le sofferenze che una persona deve subire prima di spegnersi. Mansell Pattison definisce diversi tipi di morte: la morte sociale: cioè il rito e la separazione del paziente dagli altri. Può accadere giorni o settimane prima della fine, se il paziente viene lasciato solo a morire; la morte psichica: la persona accetta la propria morte e si ritira in se stessa. Può essere accompagnata dal naturale indebolimento dello stato fisico e può precedere la fine; la morte biologica: l’organismo come entità umana non esiste più, non vi è coscienza nè consapevolezza; la morte fisiologica: gli organi vitali come cuore, polmoni e cervello non funzionano più. Il nostro compito di caregivers formali è quello di sincronizzare i diversi tipi di morte, facendoli convergere on modo ottimale. Possiamo raggiungere questo obiettivo aiutanto il paziente e i suoi familiari a comunicare apertamente perchè entrambi possano vivere la fase della terminalità nel modo più adatto a loro. 2.1 L’INTERVALLO TRA IL VIVERE E IL MORIRE. Secondo il pensiero di Elisabeth Kubler-Ross Tutti noi viviamo proiettando una traiettoria nel futuro; prevediamo cioè un lasso di tempo all’interno del quale programmiamo le nostre attività e pianifichiamo la nostra vita. Improvvisamente possiamo trovarci di fronte alla crisi: la crisi della presa di coscienza della morte. Per una malattia o per un incidente la nostra ipotetica traiettoria muta di colpo. Scopriamo che moriremo nell’arco di pochi giorni, di settimane, di mesi, o anche di anni. La prospettiva della nostra vita si è ristretta; ogni attività deve essere riorganizzata. Non possiamo programmare ciò che è solo ipotetico: dobbiamo confrontarci con ciò che è attuale. L’intervallo tra il vivere e il morire è proprio quello che sta tra la crisi della presa di coscienza della morte e il momento della morte stessa. (Fig. 1) Fig. 1 Crisi della presa di coscienza della morte Potenziale traiettoria di morte Momento della morte Traiettoria reale di morte INTERVALLO DEL VIVERE-MORIRE Elisabeth Kubler-Ross in On Death and Dying (Sulla morte e sul morire), sua opera fondamentale, ha delineato le sue osservazioni sul processo della morte coordinandolo in una serie di fasi o stadi: ha cioè intuito che il morente, in risposta al suo morire, attraversa in modo tipico, anche se non consequenziale, una serie di fasi o reazioni psicologichecomportamentali. Tutto ha inizio con il concetto di “verità” da rivelare al malato e/o ai familiari. E. Kubler Ross afferma che per raggiungere l’ultima fase, quella di accettazione, è necessario superare la “congiura del silenzio”. La rivelazione della verità al malato non è un punto di partenza, ma di arrivo. E’ una scelta che investe l’intero gruppo assistenziale e familiare che è preparato a sostenerla e che conosce le implicazioni psicologiche per il paziente e per chi lo assiste. Il 7 Maggio 2004, durante una visita domiciliare con il Dott. Peruselli (Resp. UOCP di Biella) ad un paziente affetto da Carcinoma epatico, in fase ultima di vita, la moglie ci confida: ” Il peso più grosso che devo sostenere con mio marito è quello di far finta che tutto vada bene: le gambe gonfie si sgonfieranno, e così la pancia. Non posso farcela, temo che lui possa leggermi sul viso ciò che le mie parole non dicono....”. Dire la verità significa impegnarsi ad una coerenza individuale e collettiva e ad una disponibilità sicuramente maggiori che se si optasse per “la congiura del silenzio”. Secondo la kubler Ross la prima fase del paziente che conosce la verità sulla sua malattia ( e dei familiari) è quella del RIFIUTO che si concretizza con la frase: “no, non a me” . La fase successiva è quella della RABBIA: “ perchè a me?” I familiari attraversano lo stesso stadio: “Dio, perchè?” E’ una fase molto difficile sia per la famiglia, sia per l’equipe assistenziale in quanto il malato è collerico, insoddisfatto, insulta e minaccia. Il terzo stadio è più tranquillo; è quello della CONTRATTAZIONE, (della vendita dell’anima al diavolo) . Il paziente ha accettato che “sta accadendo a lui” e che la sua ira non cambierà la sorte; richiede più tempo per “risolvere i suoi problemi”. Per esempio, chiede di vivere fino alla comunione del nipote, al matrimonio del figlio e, raggiunto questo obiettivo, propone nuove contrattazioni. Lo stadio o fase successiva è quella della DISPERAZIONE. Coincide generalmente con la ricomparsa dei sintomi e/o con il rapido decadimento dello stato generale di salute (che richiedono spesso trattamento un infruttuoso), nuovo o ricovero spesso ed con lo un nuovo sgretolarsi dell’organizzazione familiare non più in grado di sostenere un onere così gravoso soprattutto se non sostenuta da Servizi esterni (UOCP, ADI, Hospice). Il malato chiede che gli vengano risparmiati prelievi, indagini radiologiche; è impegnato in un compito più vasto: prepararsi a morire e ad analizzare quelle cose da lui in precedenza sottovalutate. E’ silenzioso ed il suo silenzio va rispettato: basta la presenza. La speranza non va comunque mai troncata: si affronta il “qui e ora”. Se il paziente ne ha il tempo raggiunge la fase dell’ACCETTAZIONE. Non è uno stadio felice, ma d’intensa sensazione da condividere con la famiglia o con le persone care. Il malato è contento di non essere solo. (Fig. 2) Le cinque fasi sopra riportate non sono da considerarsi in sequenza cronologica e ordinata; tali fasi possono avere invece una durata variabile e si possono sovrapporre in tutto o in parte per evolversi in modi e forme spesso differenziate. Fig.2 LA CARTA DEI DIRITTI DEI MORENTI Ho il diritto di essere trattato come un uomo vivente finchè non sia morto. Ho il diritto di conservare un senso di speranza qualunque cosa accada. Ho il diritto di essere curato da coloro che possono conservare un senso di speranza qualunque cosa accada. Ho il diritto di esprimere a mio modo i miei sentimenti e le mie emozioni per l’avvicinarsi della mia morte. Ho il diritto di partecipare alle decisioni riguardanti la mia assistenza. Ho il diritto di attendermi continue attenzioni mediche ed infermieristiche finchè l’obiettivo di cura non debba essere mutato nell’obiettivo del conforto. Ho il diritto a non morire da solo. Note: CARTA DEI DIRITTI DEL MORENTE (da R.L. mcIntyre, Medical Decision-Making and Patients’ Rights-Ethical and Legal Issues, in A.R. Somers e D.R. Fabian, The geriatric Imperative: An Introduction to Gerontology and clinical Geriatrics, Appleton-Century-Crofts, New York 1981, p.73.) 3. Aspetti psicologici del malato terminale. I malati oncologici in fase avanzata di malattia si confrontano con la natura progressiva della patologia e con il conseguente deterioramento delle funzioni fisiologiche. L’individuo è in crisi, ha paura perchè nella nostra educazione e cultura si sfugge all’argomento morte e bisogna allora rimuovere questo tabù con determinazione e coraggio. Per il malato in fase ultima di vita la nozione del tempo non è suddivisa in passato, presente e futuro, ma è concentrata su un tempo unico, il presente. Per lui vivere è trovarsi nel presente e il presente resta tale anche quando si è certi che entro breve non ci sarà più futuro. Non c’è più tempo e il tempo diventa tempo per sè e a sè. La vita del malato terminale possiede un’intensità che non possiamo immaginare. La sua sensibilità è altissima. Sembra che possa leggere nel nostro cuore. Intuisce l’angoscia e la paura di chi gli è vicino, capisce quello che gli si cerca di nascondere. Pare che la sua comprensione non sia più filtrata dagli schermi abituali dell’educazione e delle relazioni sociali. In genere c’è una diminuzione degli interessi e delle preoccupazioni, ci sono brevi periodi di limitata attenzione e lunghi periodi di quieta vigilanza o sonno leggero, alternati a brevi momenti di attività o a manifestazioni di disagio o di necessità. Sensazione di fallimento e oscuro senso di consapevolezza fanno parte di ogni malattia deteriorante, sia che uno sappia o no di star morendo. I maggiori problemi del malato sono: la paura di un silenzioso isolamento a causa di mancanza di comunicazione con i familiari e operatori sanitari, la paura di dolori insopportabili, la paura di perdere la capacità di comprendere e di essere privato di tutti i poteri decisionali. Nell’ammalato grave, in modo particolare quello alla fine della vita, emergono invasivamente quelli che vengono chiamati “fantasmi infantili”: intesi come ricordi, “vissuti”, delle fantasie e delle situazioni infantili appunto per cui l’ammalato tende ad assumere molti degli atteggiamenti propri di un bambino. Poichè la sofferenza è sgradevole e il pensiero della fine è pauroso, tutto ciò viene vissuto come “ingiusto”. “...il paziente terminale entra in un silenzio interiore. Il silenzio è uno ma le strade per comprenderlo sono infinite ed ognuna ha lo stesso carattere di unicità dell’essere a cui appartiene. Il silenzio di una persona non è quello di un’altra e, all’interno della stessa persona, ci sono tanti gradi di silenzio, tuttavia nessuno di questi è paragonabile al silenzio della sua morte: ogni grado di silenzio in vita introduce ed appena educa al silenzio in morte. Un grido così grande che implora aiuto, grazia, amore e speranza di vita, non può essere taciuto: nessun suono di linguaggio verbale può esprimere la sofferenza ch’esso contiene. Laddove un urlo della voce si perderebbe nel nulla, fra la confusione dei suoi mille echi, un grido tacito invece apre l’orizzonte umano agli spazi della trascendenza....” (4) In verità il morire spesso comincia proprio appena fatta la prima diagnosi . Talvolta però il suo significato non si palesa finchè la progressione metastatica o il progredire della malattia non obbligano il paziente a dipendere fisicamente e socialmente da qualcun altro. La malattia terminale mette la persona morente alla mercè di altre persone. Il malato alla fine della vita è quindi un a persona che soffre per funzioni lese, per segni e sintomi (dolore, fatigue, dispnea, cachessia, ecc.), per problemi psicologici e sociali direttamente o indirettamente connessi alla patologia di base. La perdita di ogni speranza e il senso di isolamento rappresentano l’aspetto peggiore della sofferenza di questi pazienti. Il confronto con la realtà produce nell’ammalato alla fine della vita un’ansia legata ad un’esperienza difficile da condividere e che, da un certo punto in poi, deve affrontare da solo. Il malato che sta per morire spesso “sente” quando la morte è vicina e la sente indipendentemente dalla gravità del male, dalla prognosi formulata dai medici, da quanto gli viene detto. Colui che è vicino alla morte percepisce che la fine sta arrivando osservando se stesso, osservando le persone intorno a lui. NOTE: R. Sala, “Di fronte al morente”. Aspetti filosofico-Antropologici.” In Elio Sgreccia, Antonio G. Spagnolo, Maria Luisa Di Pietro, “L’assistenza al morente”. Aspetti socio-culturali, medico-assistenziali e pastorali”, Ed. Vita e Pensiero, Pubblicazioni dell’Università Cattolica, del sacro Cuore, Milano, 1994 Il 9 Gennaio 1987 a casa del Sig. Pietro, affetto da microcitoma multiplo polmonare con metastasi epatiche, in fase terminale, nel sollevare la tapparella della finestra per dar luce alla stanza, lui mi si rivolge dicendo: “ Tieni su la tapparella. Oggi c’è il sole, lascia che io possa goderne un pò. Oggi è l’ultimo volta che vedo il sole ”. Il Sig. Pietro muore il 10 Gennaio 1987 alle ore 05.30. Il paziente terminale si trova ad affrontare la riattivazione di problemi non risolti prima e che riguardano i rapporti con gli altri, giungendo a rotture nelle relazioni affettive. Una malattia mortale è deleteria per le eventuali vocazioni, per le ambizioni scolastiche, per i normali rapporti tra la coppia e tra i genitori e i figli, per la stabilità finanziaria e per il modo stesso di vivere. Una malattia prolungata mette in crisi i sistemi di assistenza sociale dentro e fuori la famiglia e comprende anche la riduzione delle risorse finanziarie e l’incrinamento del rapporto paziente-famiglia. I pazienti oncologici in fase avanzata di malattia devono confrontarsi con la natura progressiva della patologia e con il conseguente deterioramento delle funzioni fisiologiche. Le modificazioni corporee, la comparsa e l’aggravarsi dei sintomi, la diminuzione e la perdita dell’autosufficienza si accompagnano a numerosi cambiamenti che incidono pesantemente sull’equilibrio psicologico non solo della persona, ma di tutta la famiglia. Tutto il corpo viene compromesso dalla malattia neoplastica sia in relazione alla localizzazione della stessa ed alla sua espansione, sia per i trattamenti ai quali viene sottoposto. In ogni caso il malato ha l’impressione di perdere ogni potere e ogni controllo sul proprio corpo. Il paziente passa alla “consegna” del proprio corpo a tanti curanti diversi (medici, infermieri, fisioterapisti, ecc.) come se fosse solo un oggetto, l’oggetto malato che è sempre più difficile riconoscere come sè. Si sentono vinti, quasi come se il diritto alla speranza di vivere non avesse più senso. (5) NOTE: G. Morasso , F. Cianfraglia, F. De Falco, M. Tamburini, C. Borreani, V. Fontana “La risposta psicologica del paziente all’esperienza “cancro”: analisi della fase avanzata di malattia”, Masson, Milano 1989. “...L’isolamento esistenziale è sperimentato dall’uomo che è vicino a morire con un senso di allontanamento dai vivi. Il poter comunicare con il mondo sociale, dà al morente la sensazione di condividere con un altro essere umano il suo isolamento esistenziale. In questo modo il morente può esprimere anche la paura della morte che si delinea sempre più forte con il progredire della malattia e l’avvicinarsi della fine. La paura della morte porta all’isolamento sociale perchè fa nascere una certa distanza fra noi e quei malati che sono “minacciati” di morte. Il malato è e sarà sempre solo, come solo è l’uomo nel momento della finale accettazione della sua morte. Il silenzio prende il sopravento, e con il silenzio la solitudine e la paura, spesso non verbalizzata, non solo della morte ma anche della durezza del morire....” (6) NOTE: E. Seravalli, “Solitudine del malato terminale” in G. Morasso, G. Invernizzi, “Di fronte all’esperienza di morte: il paziente e i suoi terapeuti”, Masson, Milano 1989. 4. “PRENDERE IN CARICO” 0 “PRENDERSI CURA”? Chi si occupa del malato oncologico in fase ultima di vita? Per troppo tempo si è usato in maniera quasi automatica e superficiale il modo di dire: “prendere in carico”, termine sul quale è invece necessario fermarsi a riflettere. Se da una parte infatti tale espressione rimanda all’assunzione per intero, con autorevolezza e competenza, di un “fardello” anche gravoso, quale è un malato in fase ultima di vita, dall’altro segna una delimitazione precisa rispetto a quei pazienti terminali che per vari motivi (non esistenza di UOCP e/o Hospice, Servizi ADI, ecc.) non è stato possibile “prendere in carico” e che pertanto sono rimasti sostanzialmente “a carico” delle famiglie o in appoggio a Case di riposo. Il concetto di “prendersi cura” è invece profondamente diverso, poichè delinea un “tutoring” ad intensità variabile (dalla più “leggera” alla più “pesante”), nell’ambito di una responsabilizzazione di più ampio respiro di ciascun servizio, sia rispetto ai singoli che alla comunità nel suo complesso: si tratta infatti di un intervento professionale da parte di equipe multi-disciplinari a tutto campo, che va dalla lettura attenta della comunità attraverso ben precise “mappe di rischio” (quanti casi di neoplasie/per abitanti, la composizione dei nuclei familiari di una determinata zona e/o quartiere, quali le risorse), alla “facilitazione” di contatti tra la famiglia e le associazioni di volontariato, le ONLUS, la Lega Tumori, fino all’assunzione di responsabilità dirette, talvolta anche molto onerose, del servizio pubblico nel suo complesso (ad esempio per mantenere al domicilio malati con una prognosi di sopravvivenza inferiore ai 90 giorni, in condizioni di grave dipendenza). Da quanto sopra riportato si evince la grande diversità tra il “prendere in carico” attraverso uno o più ricoveri ospedalieri in Unità operative la cui tipologia non rispecchia l’ottica delle Cure Palliative di fine vita e, il “prendersi cura” vero e proprio delle Cure Palliative che davvero può cambiare tanta parte del nostro modo di lavorare nella comunità. Quanto fin qui affermato deve tradursi nella necessità che ciascun Servizio, sia esso UOCP, Hospice, ADI, sappia individuare, raccogliere e valorizzare l’esperienza e la disponibilità di tutte le risorse formali ed informali che ruotano intorno a ciascun paziente neoplastico in fase terminale di malattia, ma anche quelle ancora soltanto potenziali, e perciò da stimolare, far nascere e crescere. Senza voler nascondere le ormai note esigenze di contenere la spesa sanitaria, credo che oggi si possa tentare di utilizzare le innegabili “criticità” per ripensare la relazione con le famiglie ed i caregivers, il cui ruolo deve essere valorizzato, riconosciuto e concretamente sostenuto con azioni concertate e condivise a partire dal nostro Welfare. Nei confronti della famiglia il Servizio pubblico può e deve diventare interlocutore privilegiato, sia nella definizione concordata dei singoli programmi assistenziali, che in veste di “soggetto esperto” a cui affidare semplicemente una funzione di garante rispetto all’uso di risorse private, o all’interno dei percorsi, talvolta molto complessi, di assistenza, cura e accompagnamento. E’ proprio in quest’ottica che si rende più che mai necessario, in ambito palliativo, ribadire il seguente concetto: la persona malata in fase terminale di malattia è inscindibile dal proprio ambiente di vita, di affetti e relazioni; per questo ogni programma a lei rivolto non può che tenerne in debito conto, mirando anzitutto ad individuare e valorizzare le risorse, le specificità e le valenze disponibili. 4.1 IL CAREGIVER: FORMALE E INFORMALE. Letteralmente, dall’inglese, è “COLUI CHE PRESTA LE CURE”. Si possono distinguere: il “caregiver” informale o primario, che in genere è il coniuge, il figlio/a, un genitore, più raramente un altro familiare; il “caregiver” formale è costituito invece dall’equipe multi-disciplinare di Cure Palliative, dall’Infermiere del Servizio Domiciliare, dell’UOCP, dallo psicologo, dall’algologo, dal fisioterapista. In Italia i caregivers informali sono: - 22,5% della popolazione con oltre 14 anni; - le donne aiutano più degli uomini: 28,7% contro il 21,8%; - la percentuale di caregivers è maggiore nel Nord e in particolare nel Nord-est: 27,9% e 37,2%; - la percentuale di caregivers scende al diminuire del grado di istruzione, più per gli uomini che per le donne: 26,6% dei diplomati e 12% di quelli senza titolo di studio per gli uomini, 31,1% e 23,2% per le donne; - se gli uomini lavorano la percentuale di caregivers e ol 19,1%, se la donne lavorano è il 26,5%.(*) Il caregiver, sia esso informale che formale, ha un ruolo nodale nella storia della malattia, a partire dal suo esordio fino agli ultimi istanti di vita. Quando l’onere dell’assistenza ricade in maggior misura sul familiare, si parla di “seconda vittima” del cancro, per mettere in risalto il grado di coinvolgimento e di stress a cui viene sottoposto. Ambedue le vittime della malattia, il malato e il familiare che lo accudisce, hanno bisogno di aiuto. Mentre per il malato questo risulta evidente, per il familiare spesso bisogna superare la sua possibile incapacità a manifestare questo bisogno. *NOTE: Dati tratti dall’indagine Multiscopo sulle famiglie condotta dall’ISTAT nel 1998. L’aiuto di cui ha bisogno una famiglia al cui interno vi è un malato terminale può essere di diverso tipo: PRIMARIO O CONCRETO, per quanto riguarda l’organizzazione delle cure a casa, della vita, nella risoluzione dei problemi pratici inerenti il controllo dei sintomi ad esempio, nell’agire in modo competente nei confronti dell’ammalato; PSICOLOGICO, necessario per affrontare tematiche importanti che emergono sempre nell’accudimento di una persona alla fine della vita ( la sedazione terminale, la morte, l’eutanasia) e che, se ignorate, porterebbero il caregiver ad un “catastrofico” esaurimento. 4.2 IL CAREGIVER FORMALE. Ancora oggi per gli operatori sanitari, siano essi infermieri che medici, non è facile concepire la morte al di là dell’evento biologico. Essa invece costituisce una realtà che riguarda l’intera persona e tutta la famiglia. Il superamento di questo ostacolo rappresenta il passo decisivo per poter aver cura di una persona sofferente e per comprendere come ogni malato ha il diritto di morire nel modo più sereno e dignitoso possibile, con un sostegno terapeutico e, se lo desidera, possibilmente in un contesto familiare. Assistere un malato in fase ultima di vita significa, dal punto di vista infermieristico, aiutarlo a restare sino alla fine, per se stesso e per i suoi, un uomo o una donna vivente, cioè un essere umano capace di un desiderio che bisogna capire e soddisfare, di una dignità che è necessario rispettare. Di fronte al malato terminale l’operatore sanitario può trovare nuovi scopi, nuove gratificazioni, nuovi ruoli solo se, calato in una nuova atmosfera culturale, si rende conto che “curare” (to cure) non vuol dire sempre guarire, ma “prendersi cura di” (to usando care), anche l’arma terapeutica dell’ascolto, dell’attenzione, della solidarietà, inquadrando il paziente nella sua unicità, con i diritti personali inviolabili. Tanto più il paziente affetto da malattia terminale procede nel suo cammino, tanto meno ha bisogno di una visione organicistica e settoriale fortemente medicalizzata. Il processo terapeutico-assistenziale si modifica: l’intervento farmacologico assume un ruolo meno rilevante e relegato solo al contenimento dei sintomi (dolore, dispnea, ecc.), mentre diviene relazionale. preminente Ambedue i l’aspetto momenti comunicativo- terapeutici sono indispensabili, mai separabili ed hanno uguale dignità. Come non è etico affrontare un problema medico e/o farmacologico, senza l’aggiornamento costante e senza tener conto dell’evidenza scientifica (EBM), così non è pensabile improvvisare una competenza infermieristica nei delicati meccanismi relazionali. che regolano i processi comunicativi e 4.3 LA RELAZIONE INFERMIERE-MALATO TERMINALE. I professionisti della salute, a qualsiasi livello, devono essere adeguatamente formati affinchè, possano essere in grado, non solo di affrontare i problemi clinici per aiutare il corpo, ma a far fronte all’approccio umano verso l’essere nella sua totalità. Ogni malato porta nella relazione con il curante la sua storia attuale di malattia ma anche il proprio sistema di riferimento culturale e valoriale, sia come ogni infermiere si trova coinvolto sia come operatore con un ruolo terapeuticoassistenziale, sia come individuo con il proprio bagaglio di esperienze personali. L’assistenza ad un malato alla fine della vita è un’arte. Si tratta di costruire una squadra vincente che non sbagli una porta. La sfida non è segnare dei punti contro la malattia e la morte, ma con entrambe. Le funzioni dell’infermiere sono finalizzate in gran parte all’identificazione e alla soddisfazione dei bisogni del paziente, bisogni che interessano diverse aree: l’area fisiologica: - bisogno di maggiore controllo dei sintomi; - bisogno di migliorare e ripristinare dell’alimentazione, del sonno; - bisogno di far fronte alla cura della persona; la qualità l’area emotiva: - bisogno di rassicurazione; - bisogno di informazione sulla malattia e sul suo decorso; - bisogno di non morire solo; l’area sociale: - bisogno di comunicare con i familiari e le persone care riguardo alla malattia; - bisogno di occupare la giornata in modo soddisfacente; - bisogno di assistenza per le necessità pratiche. Lavorare con i malati terminali, parlare con loro e capirli provoca intensi sentimenti personali, fa sorgere alcune delle più profonde paure: paura dell’estinguersi paura dell’essere impotenti paura di essere abbandonati paura di essere sfigurati e non più riconoscersi paura di perdere la propria dignità Essere professionisti significa saper stare accanto al malato e parlare con lui. La comunicazione con il malato alla fine della vita implica, da parte dell’operatore, la disponibilità ad ascoltare ed eventualmente ad accogliere le sofferenze non solo del singolo malato ma, molto spesso, le sofferenze di un’intera famiglia. Ogni morte ci ricorda la nostra morte. Freud ha affermato che l’inconscio non riconosce la propria morte perchè si considera immortale: “E’ davvero impossibile immaginare la propria morte; ogniqualvolta proviamo a farlo, ci accorgiamo che in realtà siamo presenti solo come spettatori “. Questa osservazione di Freud ci dice che noi abbiamo paura del mistero della morte. D’altra parte, osservazioni più recenti suggeriscono che l’angoscia della morte non riguarda la morte fisica, ma i sentimenti primordiali di abbandono e di impotenza. La paura del mistero della morte è la paura del mistero dell’annientamento dell’Io, dell’essere, dell’identità. Improvvisamente si è consapevoli che la nostra nonesistenza è possibile. La necessità di avvicinarsi al malato non più soltanto con lo sguardo oggettivante della scienza medica, ma con uno sguardo che consenta di cogliere gli aspetti soggettivi della consapevolezza di malattia significa mettere in discussione e ridefinire il proprio ruolo di curante. Questo rapporto quotidiano con la sofferenza, con la morte, crea nell’operatore ansia legata a conflitti esterni ed interni; conflitti legati all’ambiente di lavoro, non organizzato in maniera ideale, situazioni particolari in cui l’operatore deve scegliere una determinata condotta rispettando i valori della vita e della salute dell’uomo, i parenti che “scaricano” le loro angosce sugli infermieri considerandoli responsabili delle condizioni di salute e delle sofferenze dei propri cari. I professionisti della salute devono avere il coraggio e la volontà di riconoscere che i desideri del malato hanno la priorità per permettere al paziente di usufruire del basilare diritto di scegliere l’assistenza che desidera e dargli la possibilità di porsi in rapporto con la sua morte imminente in modo ricco di significato (etica dell’autodeterminazione). Il contatto con la malattia e la sofferenza è sempre caratterizzato da ostacoli emotivi, dovuti in parte alle innumerevoli proiezioni che vengono messe in atto dagli operatori nei confronti dei propri pazienti. La sofferenza e la morte esprimono in qualche modo il fallimento della propria opera. La disorganizzazione, la difficoltà nella comunicazione all’interno dell’equipe e dell’istituzione, il non ascolto da parte dei dirigenti, il contatto permanente e prolungato con i malati sofferenti o moribondi comporta negli operatori l’insorgere di uno stato d’animo di depressione. “Quando nel 1981, subito dopo il Diploma, fui assegnata al reparto di Ematologia del Prof. Marmont, dell’Ospedale S.Martino di Genova, mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Il primo contatto l’ebbi con i pazienti in camera sterile, per lo più bambini trapiantati di Midollo osseo, glabri e un pò avvizziti. Il contatto con loro avveniva attraverso una paratia di plastica dove infilavo le mani dentro dei guanti. Solo così potevo toccarli. Quando parlavo con loro il mio fiato sulla plastica si condensava, appannava tutto e rendeva le immagini sfuocate. Loro erano in isolamento e noi, isolati da loro. Pesavo la loro pipì, le loro feci e calcolavo tutto il giorno le entrate e le uscite; tutto ruotava intorno all’andamento degli esami clinici. Ogni settimana moriva qualcuno. Dopo un anno chiesi il trasferimento e andai a lavorare in reparto. Lì il dolore era diluito e il contatto umano più ravvicinato: potevo anche sedermi sul loro letto e tenere tra le mie la loro mano. Il più delle volte avevamo una mascherina sul viso. Restavano fuori solo gli occhi, lo specchio dell’anima. A quante mute domande non ho saputo rispondere! Dopo 23 anni ho chiesto il trasferimento. Adesso lavoro al Servizio di Day Hospital sempre dell’U.O. di Ematologia: ho dovuto farlo per sopravvivere”. (Testimonianza di Gianna Zappaterra Infermiera Professionale presso l’Azienda Ospedaliera S.Martino di Genova). 4.4 DALLO STRESS AL BURN-OUT. L’infermiere in continuo contatto con malati gravi, terminali, va incontro a stress psichico che si manifesta in diversi modi. A volte è un’indefinibile scontentezza di se stessi, disamore per il proprio lavoro, la sensazione di non soddisfare il paziente e di non essere partecipe all’equipe assistenziale. Altri segni possono essere moti di ribellione, aggressività verso pazienti e colleghi. E’ particolarmente importante che, all’interno dell’equipe assistenziale, vi siano delle figure che sia sul piano professionale che sul piano psicologico si prendano cura dell’infermiere in “crisi”, che può necessitare di ripetuti colloqui, di supporto psicologico, di incoraggiamento, di conferme e anche di chiarimento sul suo campo di attività e responsabilità. L’assistenza ai malati di cancro in fase ultima di vita richiede sempre nuova forza e fiducia, senza togliere valore alla formazione e all’esperienza. Le carenze dei servizi e una cattiva gestione, insufficienti appoggi e consigli al personale sanitario, una cattiva comunicazione, direttive troppo minuziose e un sovraccarico di lavoro consumano la riserva di energie e contribuiscono al fenomeno del burn-out. Freudenberg (1974) utilizza per la prima volta in ambito socio sanitario il termine burn-out (scoppiato, bruciato), usato sino allora nel giornalismo sportivo anglosassone per descrivere il brusco calo di rendimento di un atleta, dovuto al venire meno dei stimoli motivazionali. Maslach lo definisce una sindrome di esaurimento psichico ed emotivo che provoca un atteggiamento “negativo” nei confronti di se stessi e dell’immagine del proprio lavoro e una perdita di sentimenti nei confronti del paziente. I caregivers formali percepiscono questa situazione come una distanza incolmabile tra la quantità di richieste che giungono dagli utenti/clienti (sia interni che esterni), e le risorse disponibili (individuali e organizzative) per rispondere positivamente a tali richieste. Manifestazioni tipiche di questo stato di esaurimento sono: mal di testa mal di stomaco/sintomi gastrointestinali rigidità nucale insonnia e stanchezza mal di schiena uso di farmaci cambiamenti nelle abitudini alimentari difficoltà a prendere decisioni incapacità di ascoltare gli altri propensione alla collera tendenza ad essere suscettibili e irritabili utilizzo di un linguaggio denigratorio evitamento del coinvolgimento limitando la quantità e la qualità dei propri interventi professionali fino a fuggire dalle richieste di aiuto e sottovalutare i problemi dell’utente caduta dell’autostima e della fiducia nelle proprie capacità personali e professionali un modo di fare duro e ostinato che può rendere pesante l’atmosfera all’interno dell’equipe assistenziale. Tale fenomeno di sovraccarico, detto anche burn-out, può essere evitato: conoscendo e accettando i propri limiti; migliorando l’ascolto dei propri bisogni; avendo spazi di approfondimento comuni (riunioni, supervisioni, scambi, letture) – l’equipe come “nicchia” di reciproco sostegno; richiedendo e accettando aiuto avendo spazi di divertimento e relax avendo in generale “cura di sè”. L’accompagnamento comprensione, alla amore, morte non condivisione, è fatto ma solo anche di di frustrazione, stanchezza, rabbia, ambivalenza e odio. Permettere alla persona malata di affrontare l’angoscia di morte, quando questa è ormai prossima, significa identificarsi con “empatia” nella sua condizione, per aiutarla ad esprimere i suoi sentimenti e le sue emozioni, per guidarla a scoprire ed accettare la “sua” verità, cioè quell’unica verità che in quel momento essa è in grado di comprendere, affrontare ed elaborare. Il lutto non è un “lavoro” da iniziare dopo la morte. Deve cominciare prima, nella fase in cui la consapevolezza dell’inguaribilità della malattia si sostituisce all’atteggiamento mentale della lotta per la guarigione. L’obiettivo finale è radicalmente cambiato, il traguardo non è più la vittoria contro una patologia, ma un percorso dove gli ostacoli aumenteranno progressivamente rendendo la marcia ogni volta più faticosa e dolorosa. La finalità non è vincere, ma partecipare offrendo il massimo di assistenza e di conforto alla persona, sia essa assistita a domicilio, in ospedale o in Hospice, permettendole di capire la nuova situazione che l’impossibilità si di è venuta vincere la a creare, gara, di accettare rassicurandola e confermandole che non sarà mai abbandonata e che verrà invece privilegiata la qualità della vita residua. Aiutare la persona ammalata ad elaborare il lutto delle sue “perdite” è parte integrante del “fare” infermieristico. Dalla Lettera di San Paolo ai Corinti: “ Mentre il nostro uomo esteriore se ne va in rovina, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno “. Può diventare difficile stabilire un contatto con l’uomo interiore, ma esso, anche se apparentemente non visibile o di difficile accesso, continua ad esistere ad di là della malattia e, a prepararsi per raggiungere il traguardo finale. () NOTE: Amanda Castello, “Il ruolo del personale non finisce con la morte del paziente”, in “Nursing Oggi”, periodico trimestrale di cultura infermieristica, Lauri Edizioni, n.1, gennaiomarzo 1999, anno IV. 4.5 LA COMUNICAZIONE CON IL MALATO ONCOLOGICO IN FASE ULTIMA DI VITA. In alcune culture medici, personale infermieristico o familiari credono che la rivelazione totale della verità sia pregiudizievole per il paziente; in altre culture si suppone che si debba preferire una comunicazione che metta in luce la verità. Dare cattive notizie è un compito comunicativo complesso tenuto conto del grado di comprensione del paziente, del soddisfacimento delle cure e del livello di speranza residuo. Un’insoddisfacente informazione spesso compromette il rapporto curanti-paziente e/o famiglia. Una comunicazione difficile, a qualsiasi stadio della malattia, determina: mancato coinvolgimento del paziente; inadeguata fornitura di informazioni al paziente e alla famiglia; sconforto dei curanti, soprattutto per quanto riguarda la prognosi. Sarebbe opportuno optare per una valutazione individuale dei bisogni e delle aspettative. Il malato, d’altra parte, ha il diritto di sapere, già al momento della diagnosi, tutto ciò che lo riguarda per superare l’ansia dell’incognito e per poter avere la possibilità di gestire, adattare e riorganizzare la propria vita in rapporto alla gravità della malattia stessa. Il problema della comunicazione si fa più difficile col paziente in fase ultima di vita. I punti essenziali di cui bisogna tener conto nella comunicazione col paziente terminale sono: L’informazione, la comunicazione, il tempo, il supporto psicoterapeutico. Quando si parla di INFORMAZIONE ( in-formazione) non si intende la comunicazione, perchè l’informazione può avvenire anche in termini di asetticità emotiva, con distacco emozionale. La COMUNICAZIONE comporta invece uno scambio tra due persone e implica un certo coinvolgimento emozionale dell’uno e dell’altro. E’ un elemento indispensabile perchè permette di affrontare tutto quel bagaglio relativo all’affettività, è qualcosa che deve essere fatto tenendo conto che esistono dei movimenti e degli scambi emozionali da una parte e dall’altra. Ci sono però nella comunicazione degli elementi perturbanti dei quali tener conto e che sono definiti da Cosnier come “rumori contestuali”. Esistono diversi tipi di rumore: “rumore tecnico”: è un rumore proveniente dall’ambiente, che è importante eliminare per creare un certo tipo di facilitazione allo svolgimento delle manovre terapeutiche. “rumore semantico”: quando il curante, sia esso medico o infermiere, parla con il suo paziente usa un codice per cui la comunicazione è chiara per lo stesso operatore sanitario, ma è equivoca per il paziente che la riceve. “rumore pragmatico”: nella comunicazione non si guarda tanto quello che si dice, quanto piuttosto a quello che si vuole fare. “rumore cronologico”: il tempo in cui vive il malato neoplastico viene chiamato “extratime” proprio perchè vengono perduti, dopo l’annuncio della malattia, certi parametri temporali in cui vive l’uomo normalmente. Questo “extratime” fa sì che il cancro venga vissuto dal paziente come una specie di “orologio marcatempo”, che scandisce i ritmi della sua vita. Quando noi parliamo del dire o non dire la verità nella comunicazione, dovremo spostare il problema non sul fatto di dire o non dire, ma sulla qualità e sul tipo di comunicazione che si stabilisce con il paziente, nell’intento di valutare quanto egli vuole sapere e può tollerare di sapere. Ogni campo comunicativo è determinato da un complesso interrelato che include: un soggetto emittente (colui che produce il messaggio); il significato che esso attribuisce a ciò che dice; un messaggio ( ciò che si vuole trasmettere); un contesto, in cui il messaggio è inserito (l’ambiente, ad es.); un canale, cioè un mezzo fisico-ambientale che rende possibile la trasmissione del messaggio ( la voce, il corpo, ad es.); un ricevente il significato che questi attribuisce al messaggio. Occorre inoltre considerare che qualsiasi espressione/messaggio è atto a venire interpretato in vari modi dal ricevente a seconda dello schema interpretativo che esso presceglie in quel dato momento e in quelle circostanze. Un medico che informa il paziente, ma non verifica se effettivamente c’è stata comprensione, non comunica realmente. Anche la distanza o la vicinanza corporea dal paziente con cui intratteniamo un dialogo, distanza interpersonale distinta in: zona intima, zona personale, zona sociale, zona pubblica (Hall 1966), così come la nostra postura (posizione del corpo) nei suoi confronti, sono esplicative della nostra familiarità o del nostro disagio. Le espressioni del volto e la gestualità rappresentano le aree più importanti sul piano espressivocomunicativo. M. Balint ha riconosciuto nell’incontro tra curante e paziente un desiderio più importante di quello del conoscere la verità sulla propria malattia: il bisogno di essere ascoltato, riconosciuto e creduto nelle proprie sofferenze. Ma il paziente, quando nell’incontro con il suo curante può descrivere la sua malattia, esprime una verità che è legata strettamente al suo modo di immaginarla e che spesso è impregnata di fantasie di distruzione e di morte. Queste fantasie sono proprio ciò che il medico non vuole ascoltare, e risponde di conseguenza al malato filtrando la comunicazione attraverso la griglia della logica e della razionalizzazione. La comunicazione si inaridisce a poco a poco e si trasforma in un’informazione asettica emotivamente, in un discorso tra sordi dove ognuno è bloccato nella comunicazione dai propri fantasmi e dalle proprie paure; fantasmi aleggianti attorno più al “non dire” che “dire la verità”. Dire tutto o non dire niente sono due facce dello stesso problema; cruciale è conoscere che cosa il paziente desidera veramente sapere e quanto è in grado di sopportare della sua diagnosi infausta (comunicazione a piccoli passi). Se non vengono valutati e riconosciuti i bisogni concreti e psicologici del paziente non può essere attuata una valida e corretta comunicazione con il malato alla fine della vita. Alcuni pazienti non vogliono realmente sapere e il loro bisogno va compreso e rispettato. Questa volontà deve essere tuttavia cautamente verificata attraverso l’ascolto empatico, la chiarificazione e l’interazione supportiva con la persona nella sua totalità, come soggetto portatore di una storia sulla quale si è innestato un evento “critico”. Spesso medici e infermieri sono colti di sorpresa da particolari domande che qualche volta i malati pongono e alle quali spesso, se non si è ricevuto una formazione specifica, si risponde in modo evasivo e con un certo imbarazzo. Dire la verità significa assumersi le proprie responsabilità di curanti, significa essere capaci di dire cise spiacevoli con molta delicatezza. 4.5 IL GRIEF COUNSELLING. 5. IL CAREGIVER INFORMALE: RUOLO DELLA FAMIGLIA NEL PERCORSO DI MALATTIA. (Nessun uomo è un’isola) “La famiglia di Padron ‘Toni era disposta come le dita della mano. Prima veniva lui il dito grosso, cioè il padrone, il capo della famoglia; poi suo figlio Bastianazzo grande e grosso ma che filava dritto sotto le direttive del padre. Poi veniva la Longa, moglie di Bastianazzo, che da buona massaia, tesseva, salava le acciughe, e faceva figli. Infine i nipoti: ‘Toni, il maggiore, un bighellone di 20 anni che ogni tanto li buscava dal nonno; luca che aveva più giudizio del grande; Mena chiamata anche S.Agata perchè stava sempre al telaio; Alessi, un moccioso tutto suo nonno; e Lia (Rosalia) ancora ne carne ne pesce. Alla domenica quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, sembrava una processione”. “Il nonno, Padron ‘Toni, morirà solo tra le bianche lenzuola, all’ospedale, senza aver potuto fare ritorno alla vecchia “casa del nespolo”. (Brano tratto da “I Malavoglia di G. Verga) Nel nostro paese, oggi più di ieri, la famiglia costituisce il capitale sociale primario della società per almeno due ordini di motivi: 1) perchè è a partire dalla famiglia che si genera la coesione del tessuto sociale nella sfera del lavoro, della partecipazione civica, dell’impegno pro-sociale, e non viceversa; 2) la famiglia diventa sempre più decisiva agli effetti “dell’ assistenza “ e dell’accudimento delle singole persone, perchè il benessere degli individuo dipende sempre di più dal loro capitale sociale familiare. Questo si concretizza, in modo particolare, quando un componente della famiglia è malato in fase ultima di vita, quando le cure attive lasciano il posto alle cure palliative. Tale assistenza, definita informale, fornita prevalentemente da familiari, è in maggior misura sulle “spalle” di persone a loro volta anziane. Nell’attuale contesto culturale e considerando le attuali risposte delle istituzioni ai bisogni di chi è affetto da una patologia neoplastica terminale ( distribuzione a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale di Hospice e Centri di Cure Palliative; in Piemonte sono stati attivati 4 Hospice su 12 previsti), si può quantificare in un terzo la popolazione che diventerà fornitrice di assistenza – caregiver- per coniugi, genitori, suoceri, ecc. Parte dei caregiver dovrà, e già deve, conciliare tale attività con il lavoro; una minoranza inoltre è costretta ad effettuare attività complesse (dal punto di vista assistenziale) che richiedono o richiederebbero training, ausili tecnici e consigli professionali. Fornire assistenza – caregiving- è un impegno spesso complesso e talora profondamente gravoso. Le possibili motivazioni alla scelta di diventare caregiver possono essere di natura sociale o di carattere altruistico piuttosto che egoistico: per lo più la motivazione affonda nell’obbligo, nel sentimento di responsabilità, per assecondare il desiderio della persona malata, perchè non vi sono Servizi ai quali appoggiarsi. Una famiglia, al cui interno vi è un malato in fase ultima di vita, subisce un cambiamento di velocità nel vivere quotidiano, sconvolgendo il prevedibile ed introducendo in modo accelerato elementi emotivi e traumatici che ingenerano uno stato di confusione, di crisi. Bisogna comunque riconoscere che: LA FAMIGLIA è il naturale terreno di risposta ai bisogni; è il luogo fisico ed emozionale in cui i bisogni dell’individuo, mediati tra le esigenze del singolo e le esigenze degli altri membri, trovano il principale terreno di soddisfazione (Famiglia autopoietica); LA FAMIGLIA ha una propria cultura di risposta ai bisogni che “l’expertise” professionale non può ignorare; L’AUTODETERMINAZIONE del singolo e della famiglia va riconosciuta e sostenuta; il ruolo dei CURANTI deve essere di integrazione rispetto alle risorse esistenti; la trasmissione di CONOSCENZE e COMPETENZE gioca un ruolo indispensabile al fine di creare un rapporto di collaborazione e non dipendenza della famiglia, primo passo per la restituzione della maggior autonomia compatibile con la situazione di crisi; intorno al malato si costruisce una rete di “HELPERS” professionali e non che condividono il percorso comune di malattia (pluralizzazione delle forme familiari). 5.1 RISORSE CENTRALI: CHI FA, CHE COSA. Le relazioni familiari sono legami vincolanti e con poca libertà, un continuo scambio pratico, emozionale e affettivo. Si può contare su: IL CONIUGE I FIGLI (a) FRATRIA NIPOTI DONNE (tra i 45 e i 64 anni)* Chi si prende cura: 1) IL CONIUGE è la prima e principale fonte di aiuto per l’altro ( sia nelle coppie sposate –98%- che nelle unioni libere-2%-) ASPETTATIVE DIVERSE NELLA CURA I MASCHI SONO CURATI DA MOGLIE E PARENTI LE FEMMINE DALL’AMBIENTE SOCIALE 2) nella cura le donne sono più brave: la donna svolge le attività proprie della sfera femminile come l’assistenza e l’accudimento; l’uomo tutte le attività che il senso comune considera proprie della sfera maschile, quali l’espletamento delle pratiche burocratiche e lo svolgimento di lavori extra-domestici 3) nelle donne aumenta considerevolmente la tensione emotiva e la depressione 3) la cura intragenerazionale è più faticosa di quella intergenerazionale. *NOTE: Dati tratti da l’indagine Multiscopo sulle famiglie condotta dall’ISTAT nel 1998 Se ci sono figli: A) i genitori, specie se anziani, si aspettano in genere una più aperta comunicazione e manifestazioni di affetto e premura; B) le madri hanno maggiori aspettative di essere aiutate dai figli ( se adulti); se tali aspettative vengono disattese le madri subiscono un più forte senso di fallimento; C) se il figlio sente di aver subito ingiustizie, la relazione con il genitore malato sarà ostile; D) i figli curano sì, ma non gradiscono cambiamenti nell’organizzazione familiare o del lavoro; E) la loro disponibilità è maggiore se esiste una vicinanza abitativa, se la loro abitazione è sufficientemente grande per accoglierli, e se sono di sesso femminile. Se ci sono fratelli: avere dei fratelli è fonte di sicurezza e benessere per la persona malata; funzione della condivisione dei ricordi; rapporto di intimità con i fratelli, in particolare con la sorella; se il rapporto tra fratelli è conflittuale genera ancor più depressione (fig.3). Fig.3 STILI DI ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’ FAMILIARE STILE CHI LO INCARNA CARATTERISTICA ROUTINARIO DONNE CAREGIVER CHE ASSISTE QUOTIDIANAMENTE (oltre le 14 ore al giorno) BACK-UP(*) DONNE E MASCHI CURA CIRCOSCRITTA A SPECIFICHE ARRE DI AIUTO SPORADICO DONNE AIUTO LIEVE DISIMPEGNATO MASCHI NON PARTECIPA 5.2 CHE COSA SUCCEDE AL CAREGIVER INFORMALE? Le preoccupazioni maggiori e più frequenti dei familiari dei pazienti terminali, quelle che più ingenerano ansia, riguardano la capacità di assistere in maniera continuativa, di essere adeguati alle nuove necessità che il progredire della malattia determina, sia per quanto riguarda i bisogni fisici, sia per quanto riguarda fronteggiare sintomi come il dolore, la fatigue, l’anoressia, la dispnea, i cambiamenti dell’umore, della personalità, la confusione. I familiari manifestano la necessità di “sapere di più” non tanto sulla malattia ma, principalmente sulla prognosi (Quanto gli resta da vivere?), sull’evolversi dei sintomi e sul loro controllo, su “cosa li aspetta”. L’assistenza al malato in fase ultima di vita richiede un investimento grandissimo di energia ( in modo particolare psichica): la forza vitale del caregiver scende in campo a contrastare direttamente la malattia, appesantita dal dolore, dalla frustrazione e dal senso di impotenza e inadeguatezza. Il lavoro di chi cura un malato terminale non ha al suo interno fonti di ricarica: non vi è miglioramento, la dipendenza dal caregiver diventa sempre più stretta, i rapporti familiari diventano sempre più tesi, i problemi pratici si moltiplicano e il caregiver segnala la perdita della propria energia dicendo: “Non ce la faccio più, mi sto ammalando anch’io “. Ad un certo punto del percorso di malattia il caregiver informale: mette in discussione la motivazione: “Perchè fare?” amplifica il problema delle scelte: “Che cosa è meglio fare?” ha sensi di colpa I sensi di colpa sono dovuti ad una vastissima gamma di sentimenti e di emozioni: paura, preoccupazione, risentimento, sfiducia nelle cure e nei curanti, timore di non essere adeguati o di aver fatto degli errori. Così mi racconta Cinzia il 07 Gennaio 2004 dopo aver accompagnato la mamma, affetta da neoplasia mammaria con metastasi multiple e in fase ultima di vita, presso il Pronto Soccorso dell’ospedale dove io lavoro, con vomito incoercibile da più giorni : “Ho assecondato il suo desiderio di rimanere a casa, anche perchè l’oncologo che la segue mi aveva detto che non sarebbe arrivata all’Epifania. Credo di aver sbagliato tutto: è da tre giorni che vomita e non mangia e io non sò cosa fare. Spero che venga ricoverata. Già il vederla con la flebo attaccata mi fa star meglio”. A volte il familiare si sente in colpa per il disagio che prova di fronte al suo caro, si scopre a desiderarne la morte come fine di una condizione drammatica, non più sostenibile. Si sente in colpa quando il malato si comporta “male”, quando non mangia. Si sente in colpa quando lo deve affidare ad altri, se alla fine deve ricoverarlo, se pensa di non aver fatto o tentato tutto il possibile. A volte nascono sensazioni di rabbia o di ribellione. E’ importante che il familiare comprenda che queste emozioni contrastanti sono possibili, comprensibili, comuni e che solo con la consapevolezza, si possono superare. La coscienza dei propri limiti e delle cose importanti e positive che si sono fatte per il proprio caro, è la chiave di lettura del difficile compito di caregiver. 5.3 CHI AIUTA IL CAREGIVER INFORMALE? (Ruolo e rapporti tra famiglia e curanti) Per definire come, e attraverso quali percorsi e scelte debba compiersi l’integrazione tra curanti e famiglia per la costruzione di una “rete di servizi di/per le cure palliative” è necessario prendere in considerazione alcune variabili: Chi è l’elemento fragile e qual’è la sua posizione all’interno del nucleo (madre, padre, figlio, nonno....). Chi ha un ruolo centrale su quelle che sono le quattro categorie principali di problemi che l’assistenza al malato terminale comporta: il carico di lavoro; il coinvolgimento psicologico; i cambiamenti di ruolo; i cambiamenti economici. Chi è il familiare “leader” ossia il familiare prioritariamente implicato come portatore di cure, e quali sono le sue aree di maggiore difficoltà. Egli è il più predisposto a sviluppare problemi di salute, sperimentare frustrazione e isolamento quindi è insieme al paziente il “sorvegliato speciale”. Connessione esistente con parenti diretti e non, e non conviventi. Possibilità o meno di attingere a fonti di aiuto esterne quali amici, vicini di casa (condizione questa particolarmente critica nelle grandi città), volontari. Chi aiuta chi aiuta: - il medico di famiglia promotore e gestore dell’assistenza a casa con attività di collegamento e coordinamento al fine della continuità assistenziale Ospedale-Territorio (presenza di un data base comune). Ruolo nodale di direzione assertiva soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento che, su obiettivi e compiti specifici più figure professionali sono elegibili a esperti pur mantenendo la rete relazionale orientata al paziente - l’assistente domiciliare (ADEST); - l’assistente sociale per quanto riguarda la riorganizzazione interna dei ruoli secondo un approccio sistemico-relazionale (Teoria generale dei sistemi sec. Ludwig von Bertalanffy); - l’infermiere professionale del Servizio di assistenza domiciliare; - l’equipe di Cure Palliative (laddove istituita); - il fisioterapista; - il sacerdote; - gruppi di auto-aiuto indicati per il miglioramento delle capacità di coping, permettendo una valida elaborazione del lutto nelle fasi terminali. Tutti insieme possono: INFORMARE sul CAMBIAMENTO: riduzione e/o perdita di alcune capacità fisiche (alzarsi, andare in bagno da solo, alimentarsi autonomamente), intellettive, di iniziativa, di decisione, di instabilità emotiva, depressione: “Piange per niente. In alcuni momenti si arrabbia ed è aggressivo. Non sa più cosa vuole”. EDUCARE ALLA GESTIONE del CAMBIAMENTO sfruttando ad esempio le capacità residue del malato. AIUTARE ad ENTRARE in CONTATTO migliorando ad esempio l’ambiente ai fini della comunicazione: non parlare con altri in sua presenza come se non ci fosse, utilizzando spesso sottintesi e mezze frasi; migliorando le capacità di ascolto del caregiver: pazienza, interesse, calma, rassicurazione; stimolare e richiamare i ricordi; dare la possibilità di risolvere questioni in sospeso; cercare il contatto fisico, mantenere il contatto visivo. AIUTARE ad AFFRONTARE i COMPORTAMENTI PROBLEMATICI: come l’agressività e la rabbia spesso scatenate dalla paura e dalla frustrazione per la perdita di controllo della situazione. AIUTARE nei PROBLEMI PRATICI: attività di tutoring per l’esecuzione di attività semplici ( l’esecuzione di una peretta ad. es., di un lavaggio vescicale). DARE SOSTEGNO: al caregiver nella gestione delle proprie reazioni emotive al fine di ottenere: - miglior benessere di chi presta le cure; - aumento dell’impegno nella relazione assistenziale; - riduzione degli accessi in DEA e dei ricoveri in ospedale. INSEGNARE a PRENDERSI CURA DI SE, per POTERSI PRENDERE CURA dell’ALTRO: un’assistenza così gravosa sia emotivamente che fisicamente fa sì che il caregiver si dimentichi di prendersi cura di se stesso. E’ importante che: ritagli un pò di tempo per sè eviti di isolarsi cerchi di conoscere, accettare e non giudicare i propri sentimenti chieda aiuto cerchi aspetti positivi in ciò che sta facendo INSEGNARE a CONFRONTARSI con la MORTE: il lutto è la reazione dei vivi alla morte, rappresenta il tentativo di far rivivere il morto nella interiorità della coscienza e negli affetti dei sopravvissuti; è il processo di separazione da una persona precisa, portatrice di un nome e di una storia, collegata a luoghi, attività, fatti, date. Per questo motivo parlare del lutto, o meglio della perdita e della separazione come esperienza fisica e psichica, sociale, etica, intorno alla quale elaborare nuovi rituali che corrispondono alla realtà socioculturale contemporanea, rappresenta una istanza essenziale di un programma di assistenza al morente Fig.4 I SENTIMENTI LA MALATTIA IL PAZIENTE L’ESPERIENZA DI VITA DEL CAREGIVER L’ASSISTENZA GLI ALTRI IL CONIUGE E LA FAMIGLIA IL COPING LA VITA, LA SALUTE DEL CAREGIVER La realtà multi-dimensionale emersa, e sintetizzata nelle otto sfere di temi, ha messo in evidenza il grande impatto che la malattia ha sulla vita del caregiver. La carenza e, talvolta, l’assenza di supporti esterni comportano l’istituzionalizzazione forzata, e quindi la perdita della persona malata ancor prima della sua morte. 5.4 QUANDO LA FAMIGLIA SCOPPIA: LO STRESS DEL CAREGIVER. Frequentemente il familiare che svolge in prima persona l’accudimento a casa di un malato terminale di cancro va incontro ad uno scadimento del proprio stato di salute psicofisico(stress del caregiver). Northouse ha identificato 3 problemi centrali della famiglia nelle varie fasi del percorso di malattia, che se non affrontati possono condurre a stress: 1) l’esclusione da parte dei curanti dei sentimenti provocati dalla diagnosi: i familiari si definiscono “esausti”; 2) frustrazione nel tentativo di comunicare con i membri dello staff curante e con altri; 3) difficoltà a gestire la tensione emotiva con sviluppo di ansia, depressione, astenia, insonnia ed altri disturbi organici quali: ipertensione, dolore toracico, ecc. *NOTE: Northouse L. ,”The impact of cancer on the family: an overview. Int J Psychiatry Med 1984; 215-42. DEFINIZIONE DI STRESS Hans Selye, nel 1936, definì lo stress una reazione biologica aspecifica dell’organismo come conseguenza di un agente stressante (stressor). Ogni risposta dell’organismo allo stress attraversa tre fasi: ALLARME: che comporta modificazioni di carattere biochimico e ormonale; ADATTAMENTO: l’organismo per adeguarsi alla nuova situazione si organizza in senso difensivo; ESAURIMENTO: in cui avviene il crollo delle difese e l’incapacità di adattarsi ulteriormente. Si distinguono due tipi di stress: uno benigno, adattivo e non dannoso; l’altro disadattivo che non porta all’omeostasi. Se il soggetto è in grado di adottare una strategia adeguata, si potrà avere un miglioramento della performance (eustress); in caso contrario si avrà un peggioramento distress con la comparsa sia di sintomi di tipo psicologico quali nervosismo, tensione, depressione, irritabilità, sia disturbi fisici quali disturbi digestivi, difficoltà respiratorie, alterazioni del ritmo cardiaco, mal di testa, nausea, debolezza e altro. Cassileth, nel 1985, ha condotto uno studio su 201 soggetti con differenti patologie neoplastiche e in diverse fasi di trattamento. Ai pazienti e al familiare significativo (caregiver leader) ha somministrato tre scale di autocompilazione: la Spielberg State Anxiety Scale (SSAS) per la valutazione dello stato di ansia, correlato a specifiche condizioni di malattia; la Profile of Mood State (PMS) per la misurazione del disturbo dell’umore; e la Mental Health Index (MHI) per la misurazione globale della salute mentale, selezionando gli indici di alcune sottoscale: ansia, depressione, perdita di controllo comportamentale/emotivo, rapporti affettivi in generale. Il confronto tra i dati dei pazienti e dei caregivers, nelle diverse fasi di trattamento della malattia ha evidenziato una stretta correlazione tra gli indici psicologici dei malati e quelli dei loro familiari, soprattutto se questi erano curati a casa. E’ emerso inoltre l’aggravarsi del disagio nei soggetti (e nei familiari) in fase terminale, rispetto ai pazienti in trattamento chemioterapico e ad altri, in remissione, seguiti in follow-up (Fig. 5). Differenti gruppi di ricerca hanno messo in evidenza l’incidenza delle reazioni e della comunicazione familiare sull’adattamento alla patologia da parte del malato e dell’intero nucleo familiare. Soprattutto nelle fasi avanzate o terminali della malattia, quando il disagio psicologico e i sentimenti di disperazione e impotenza sono acuti, il rischio di costruire patterns relazionali disadattivi è molto alto e il suo esito incide sfavorevolmente sul benessere psicologico di tutti i membri interagenti. E’ anche vero che in alcuni casi, all’opposto, la “morte annunciata” induce ad una riflessione sul senso della vita e sui valori più importanti ad essa connessi, tale da portare ad un rafforzamento dei legami familiari. Fig. 5 CONDIZIONE PSICOLOGICA DI PAZIENTI E FAMILIARI NELLE VARIE FASI DI MALATTIA (Cassleth, Cancer, 1985) Pz.in Follow-up N° ANSIA* Pazienti Familiari MEDIA Paz. in tratt. Chemio/Rxterapico (DS) MEDIA (DS) MEDIA (DS) ANOVA 37.1 36.2 12.9 11.4 42.0 44.9 11.6 12.6 0.05 0.0002 194 195 34.6 33.0 DISTURBI* Dell’UMORE Pazienti 193 Familiari 195 10.7 5.8 29.7 29.8 17.3 11.6 31.1 25.9 33.4 35.8 34.7 40.2 0.01 0.0001 INDICE DI SALUTE MENTALE** Pazienti Familiari 181.0 180.4 26.8 23.5 171.4 173.4 27.7 25.8 154.6 149.3 29.2 33.9 0.001 <0.0001 189 190 11.2 9.7 Paz. in trattamento Palliativo LEGENDA: *Punteggi più alti indicano ansia più elevata e> disturbo dell’umore ** Punteggi più alti indicano un miglior stato di salute mentale DS= Deviazione Satandard ANOVA= analisi della varianza Viene confermato, anche da questi dati, che il distress emozionale non solo si riflette circolarmente tra paziente e coniuge, ma aumenta progressivamente con l’avanzare della patologia e l’avvicinarsi della morte. 5.5 L’utlizzo della Scala di J.G. GREENE per la valutazione dello stress del caregiver informale. (Relatives’ stress scale) 5.6 SOSTENERE CHI CURA. “E’ arrivato il tempo in cui porre attenzione alla problematica di curare chi cura partendo dal punto di voista dei soggetti curanti, anche a fronte di un’emergente domanda di riconoscimento del ruolo sociale di chi è impegnato nella cura informale”. (Patrizia Taccani Convegno “Sostenere chi cura” AUSER –Roma 25/26-9-2001)