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IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO:
GENESI, STRUTTURA, DINAMICA E SOSTENIBILITÀ
SCHEDA di Beppe Vandai
per RISORSE – Associazione per capire meglio l’economia –
Treviglio – V.le M. Merisio, 14 –
sulla traccia della
CONFERENZA del prof. R. ARTONI
– Treviglio, 16 marzo 2017 –
(I)
UN PO’ DI DEFINIZIONI E DI TEORIA
Il debito pubblico è una grandezza economica che si genera quando il fabbisogno
complessivo dello Stato (amministrazione dello Stato, delle amministrazioni locali
e degli enti di previdenza pubblici) non è del tutto coperto dalle entrate pubbliche
(tasse dirette e indirette, contributi previdenziali, vendite in conto capitale).
Le due grandezze che solitamente vengono prese in considerazione sono lo
STOCK DI DEBITO PREGRESSO ed il FLUSSO ANNUALE DI NUOVO
DEBITO. In anni recenti si usa parlare di “Debito Pubblico totale” (D.P.) e di
“Deficit di bilancio annuale” (D.B.A.). Ovviamente lo stock, il D.P., si è formato
nel tempo, anno dopo anno, dai corrispettivi flussi di D.B.A. Ad esempio, tra i
due noti limiti stabiliti nel contesto dell’Euro, quello del 3% (poi sensibilmente
abbassato con il Fiscal compact) si riferisce al FLUSSO ANNUALE di nuovo
debito, mentre quello del 60% riguarda lo STOCK COMPLESSIVO di debito
pubblico.
Il 3% ed il 60% sono grandezze che indicano il rapporto quantitativo del flusso o
dello stock con il Prodotto interno lordo (il famoso PIL). Il quale indica a sua
volta il FLUSSO DI REDDITO generato, in una nazione, in un determinato anno,
dai suoi residenti. Detto altrimenti, il PIL indica all’incirca la quantità di
VALORE AGGIUNTO uscito dall’attività economica in quel Paese. Ma da dove
esce questo reddito, ovvero valore aggiunto (+ imposte indirette e – sovvenzioni)?
Semplice, dall’attività lavorativa, dipendente o autonoma, o dal capitale investito
in attività produttive, o commerciali, o uscito da attivi di portafoglio, in un
determinato anno, nella nazione presa in considerazione.
1
Si dà una grande importanza ai due rapporti [ D.P./PIL e D.B.A./PIL ] perché
sono indicatori di come stanno le finanze di uno Stato, ma soprattutto come è la
dinamica nel tempo di questi rapporti. In definita, però, ora, la cosa che interessa
di più sono il peso e la sostenibilità o meno del rapporto D.P. in rapporto al PIL,
cioè quanto gli attori economici di una nazione riescono a guadagnare
nell’insieme. In altri tempi, piuttosto, si metteva in rapporto la spesa pubblica con
la prestazione economica di un’economia, cioè con la sua capacità di crescere. Ci
si domandava cioè: la spesa pubblica sta dando impulsi alla crescita, oppure no?
Fatte queste mie precisazioni, il prof. Artoni ha ben chiarito che due sono le
modalità di finanziamento dell’indebitamento netto di uno Stato:
a ) l’emissione di titoli obbligazionari, venduti al pubblico, o ad attori economici o
finanziari, siano essi del Paese stesso o stranieri,
b ) l’aumento dello stock di moneta nazionale (cioè della base monetaria emessa
dalla Banca centrale di un Paese).
Va aggiunta poi, una terza variante, ( c ) cioè il mix di ( a ) e di ( b ), ovvero
l’acquisto di obbligazioni da parte della Banca centrale di uno Stato. Lo scopo
dell’operazione, praticata in tempi ormai lontani, era quello di calmierare i tassi di
interesse dei titoli di Stato, cioè di far sì che il peso del debito non schiacciasse
troppo le spalle dei contribuenti di un Paese.
In ogni caso, sia la combinazione ( c ) che la fonte ( b ) sono vietate dal Trattato di
Maastricht. Uno strappo alla regola iniziò però con Trichet, nell’estate del 2011 e
si allargò con il Quantitative Easing di Draghi. Le due operazioni in fondo cadono
quasi nella rubrica ( c ). Formalmente, però non violano i Trattati dell’€-Zona
poiché i titoli vengono comprati sul mercato secondario, e non al momento della
loro emissione.
Passando poi ad analizzare quali sono i fattori di formazione dell’indebitamento
netto di uno Stato, il prof. Artoni ha aggiunto che due sono le fonti, più o meno
perenni, del deficit netto di bilancio:
a ) la differenza tra le uscite e le entrate, solitamente simbolizzate nei manuali di
macroeconomia così: “G – T”, laddove “G” sta per le spese statali e “T” sta per la
tassazione in senso lato;
b ) la spesa per interessi che matura in continuità per il debito pubblico pregresso,
spesso simbolizzata con “r” (dall’inglese rate, cioè tasso, qui, ovviamente
d’interesse). Questo r va moltiplicato, come nella slide apposta, per Bt – 1, laddove
“B” sta per borrowing (indebitamento) e “t – 1” simbolizza il tempo passato.
Artoni ha tenuto a precisare che l’indebitamento statale netto è altamente
endogeno. È infatti fortemente condizionato dal dover assolvere funzioni centrali
per la vita di una nazione, funzioni che non si possono ridurre o cambiare
rapidamente, funzioni che, anche volendone mutare il peso relativo, sempre
assumono la forma di strutture.
In teoria, è invece relativamente più facile mutare il peso dei tassi d’interesse, se
la congiuntura internazionale lo permette e se la Banca centrale ha le mani libere
per intervenire a monetizzare, almeno in parte, il debito.
2
Detto questo, il professore ci ha spiegato che tre sono le forze che determinano
la dinamica del flusso dell’indebitamento pubblico:
a ) lo scarto gt – tt; ovvero la differenza tra uscite ed entrate in un dato anno;
maggiore è la differenza, maggiore sarà la tendenza ad accumulare più debito;
b ) il tasso d’interesse (simbolizzato dal nostro “r”);
c ) la crescita annuale del PIL (simbolizzata spesso con “n”).
Sull’ indebitamento annuale, per farlo scendere, o addirittura per azzerarlo, una
forza agisce sicuramente in senso positivo: la crescita del PIL. Le altre due, se gt
è maggiore di tt,, e chiaramente se il tasso d’interesse non è nullo, agiscono
invece in modo negativo. Ovvio che l’osservazione va relativizzata; infatti, se il
tasso d’interesse scende, o anche se gt – tt diminuisce, allora si hanno comunque
delle ‘buone notizie’ sul fronte del deficit pubblico. Viceversa, se la forza
positiva, la crescita, non si fa sentire, o se addirittura si tramuta in decrescita, il
deficit annuale aumenterà.
In certe situazioni, la crescita, cioè n, può essere talmente forte da far sì che,
nonostante il tasso medio d’interesse sui titoli pubblici, non si abbia deficit. La
crescita compensa cioè le “falle” di bilancio provenienti dalla necessità di servire
il debito pregresso. Come può accadere questo? Semplice. La crescita aumenta le
entrate fiscali, sotto forma di imposte dirette e indirette, ma anche in termini di
contributi per il welfare. Insomma, per rallentare l’indebitamento, non
necessariamente si deve essere una formica; se si è una lepre che va di buona lena,
allora si risolve il problema… in modo atletico ed elegante.
Ultima annotazione preliminare: se si vuole tenere sotto controllo il Debito
Pubblico totale è innanzitutto necessario impedire che si aggiunga allo stock
pregresso di Debito un ulteriore Deficit di Bilancio Annuale. Per raggiungere
questo obiettivo si deve formare un avanzo primario annuale che sia pari
almeno alla spesa per interessi di quell’anno. Con “avanzo primario annuale” si
intende la differenza positiva tra entrate ed uscite di quell’anno, senza aver ancora
conteggiato la spesa per servire, in quell’anno, il debito pregresso. È logico, se ad
esempio, in un dato anno, la spesa per interessi è del 3,5% del PIL, la differenza tt
– gt dovrà essere pari al 3,5% del PIL. Così si tappa la falla, per quell’anno.
Ma come si ottiene l’avanzo primario? O puntando al contenimento delle spese,
oppure aumentando il carico fiscale, oppure affidandosi alla crescita, ovvero ad un
mix di questi elementi. La questione degli avanzi primari e del modo per ottenerli
è cruciale. Un esempio positivo di disciplina, anche se a volte ottenuto in modo
autolesionista, è il nostro Paese, che dal 1991 fa segnare avanzi primari degni di
nota, mediamente del 2% del PIL. Solo nel 2009, nell’anno più brutto della crisi
finanziaria mondiale, si ebbe un disavanzo primario di –0,6%. Eppure, tutti questi
sforzi fiscali, di contenimento delle uscite e di aumento delle entrate, non hanno
sortito tutti i risultati sperati poiché o i tassi d’interesse erano troppo onerosi, o
perché la crescita economica era asfittica, o per una combinazione di entrambi i
fattori. Un paese che invece non riesce a formare avanzi primari consistenti è la
Grecia, torturata dalla Troika che cerca di imporre, con misure draconiane, livelli
di austerità irrealistici, che anzi strozzano qualsiasi conato di crescita.
3
( II )
UN POCO DI STORIA
Immagine 1
Rapporto debito/PIL 1885-­‐2015
180,0
160,0
140,0
120,0
100,0
80,0
60,0
40,0
20,0
2013
2010
2007
2004
2001
1998
1995
1992
1989
1986
1983
1980
1977
1974
1971
1968
1965
1962
1959
1956
1953
1950
1944
1941
1938
1935
1932
1929
1926
1923
1920
1917
1914
1912
1909
1906
1903
1900
1897
1894
1891
1888
1885
0,0
Dal grafico riportato qui sopra, il prof. Artoni ha sottolineato e spiegato queste
fasi:
1 ) La spettacolare discesa del rapporto D.P./PIL dell’epoca giolittiana. In poco
più di un decennio il rapporto scese dal 120% a quasi il 60%. Il motivo? La
crescita economica, senza ombra di dubbio. La spesa pubblica non fu affatto
drasticamente ridotta. Semplicemente, un forte decollo industriale generò una
forte crescita del reddito nazionale. Il denominatore aumentò, mentre il
numeratore cresceva in modo contenuto.
2 ) Le due fasi belliche, soprattutto la prima, fecero impennare il rapporto
D.P./PIL. È sempre così, in qualsiasi Stato. Alle spese pre-belliche e belliche lo
Stato fa fronte aumentando fortemente l’indebitamento, con i suoi cittadini e
all’estero. Da notare che nel corso della Prima guerra mondiale l’Italia si indebitò
moltissimo con gli USA. Ma questi si dimostrarono un egemone benevolo,
condonandoci in buona sostanza il debito nel 1923. Spettacolare la caduta, quasi
verticale, dal 140% a meno del 60%.
3 ) In tempi più recenti si ebbero tre crisi, di impatto e natura differenti, che vale
la pena sottolineare:
4
3.1 ) L’ascesa del rapporto D.P./PIL, per nulla macroscopica, ma interessante, dal
1963 al 1965. Che accadde? Eravamo in pieno boom economico, ma vedendo
salire l’inflazione, si ebbe una marcata fuga di capitali. Per bloccarla, l’allora
governatore della Banca d’Italia Guido Carli aumentò bruscamente e
marcatamente il tasso di sconto. Di conseguenza, i tassi d’interesse ebbero un
forte rialzo. La manovra di Carli era congegnata per raffreddare la congiuntura,
cioè l’inflazione, e non lasciar deprezzare la nostra moneta. Così la fuga di
capitali si sarebbe fermata. Lo stretta monetaria implicava giocoforza che la
crescita rallentasse. Così, pur non avendo aumentato la spesa pubblica, il rapporto
D.P./PIL peggiorò, seppure in una misura, ai nostri occhi, piuttosto risibile.
3.2 ) L’aumento più macroscopico del rapporto D.P./PIL si verificò tra il 1981 ed
il 1993, quando passò dal 60% al 120%. Una cosa mai vista in un periodo di pace.
La ragione, diversa da quella precedente, va vista in un forte aumento dei tassi
d’interesse. *Il prof. Artoni ha sottolineato soprattutto che ciò dipese dalla
cosiddetta Reaganomics, cioè dalla politica economica americana, tesa a tutti i
costi ad un aumento artificiale del valore del $. Tutti i Paesi dovettero bene o male
seguire. ** [Nota mia: In Italia, a questo si aggiunse – ma su questo punto il
relatore non si è sbilanciato, anche dopo una mia esplicita domanda – l’arcinoto
“divorzio” Banca d’Italia / Ministero del Tesoro, in base al quale, dal 1981 in
poi, la nostra Banca centrale decise, di comune accordo con i governi, di non
procedere più agli acquisti dei titoli di Stato alla fonte, cioè sul mercato primario.
L’acquisto avveniva solo quello secondario. Minore era anche la pressione sulle
banche ad acquistare il nostro D.P.
In quegli anni, si registrò un deficit di bilancio medio dell’11%. Come scrive il
prof. Ignazio Musu, nel suo libro “Il debito pubblico”, Il Mulino 2012 (terza
edizione), a pag. 88, per due terzi l’impennata del debito è da addebitare
all’aumento degli interessi, per un terzo per il fabbisogno di spesa corrente e di
investimenti da parte dello Stato.]
3.3 ) L’altro caso paradigmatico scelto dal prof. Artoni è stato quello della crisi
recente. Dal 2008, ma ancor più con la crisi del 2011, con l’imposizione o autoimposizione dell’austerità al nostro Paese, il rapporto D.P./PIL è cresciuto
fortemente (da circa il 105% al 133%) per la compressione dell’attività
economica, cioè, soprattutto perché il denominatore del rapporto è diminuito. La
dinamica recente non è spiegabile in altro modo.
4 ) L’unica fase in cui il rapporto D.P./PIL crebbe sensibilmente, nonostante una
solida crescita e bassi tassi d’ interesse, fu il periodo 1965–1975. In quella fase il
nostro welfare si ampliò. Le voci principali: l’aumento della spesa pensionistica,
per la sanità e per la scuola.
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( III )
IL QUADRO FISCALE ITALIANO
Il prof. Artoni ci ha poi offerto un quadro comparatistico per meglio caratterizzare
la natura, le dimensioni e le funzioni del D.P. italiano. Procediamo con ordine.
DIMENSIONI A CONFRONTO
DEBITO PUBBLICO IN ALCUNI PAESI ( % sul pil)
Immagine 2
C’è una sola vera eccezione, un Paese che “buca” il quadro generale: il Giappone.
La crescita del D.P. sul PIL è la conseguenza della crisi giapponese seguita ad una
enorme bolla speculativa, ai salvataggi delle banche, ai tentativi di rianimare
un’economia tendente alla stagnazione e alla deflazione.
Gli altri Paesi non mostrano invece grandi differenze. Infatti i dato tedesco è
“truccato”. Non vi è compreso l’indebitamento della KfW, il corrispettivo della
nostra Cassa Depositi e Prestiti. La KfW, un ente statale, concede infatti crediti ai
cittadini, alle imprese, a progetti infrastrutturali e di sviluppo di vario tipo. Il
volume del suo indebitamento sul mercato è di circa 600 mrd. di €, corrispondente
all’incirca al 20% del PIL tedesco. Dobbiamo perciò aggiungerlo al 71,2%,
ottenendo cioè, a spanne, un 91,2%.
Messa in riga la Germania, che ha sempre un’ Extrawurst (una salsiccia in più) e
considerato che, senza le politiche di austerità imposte all’Italia, il rapporto
D.P./PIL italiano sarebbe press’a poco del 105%, anche il debito pubblico italiano
sraebbe in linea con quello degli altri Paesi industrializzati.
Ulteriore osservazione del prof. Artoni: nello sviluppo dei dati delle tre colonne si
nota il salto del 2008/2009, dovuto a due fattori: *la recessione (la riduzione del
PIL, cioè del valore che sta al denominatore del rapporto D.P./PIL) e **in molti
casi la trasformazione di debito privato in pubblico, conseguente soprattutto al
salvataggio delle banche.
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IL CONTESTO IN CUI INSERIRE IL DEBITO PUBBLICO
IMPORTANTI SALDI FINANZIARI
Immagine 3
OSSERVAZIONI SULLA SECONDA RIGA (che indica di che entità è il ricorso
al mercato dei titoli, per rifinanziare il debito). I dati dicono quanta parte del D.P.
era in scadenza nel 2015.
Il valore più alto, in quell’anno, fu quello degli USA. Tra i Paesi presi in
considerazione, solo la Germania ‘fa gara a sé’ con il suo bassissimo 1,7%, un
indice del fatto che il Paese sta riducendo il suo D.P. totale. Gli altri Paesi ebbero
in scadenza cifre varianti da circa il 9% al circa il 15%. Il fabbisogno italiano, per
il debito in scadenza si aggirò attorno ai 220 mrd. di €.
SULLA TERZA RIGA ( sui saldi primari, cioè sulla differenza gt – tt , esclusa la
spesa per interessi ).
Da anni gli unici due Paesi ‘virtuosi’ sono l’Italia e la Germania. [ Nota mia: il
nostro sforzo è molto più doloroso perché ottenuto in un contesto recessivo, mentre
quello tedesco va contestualizzato nel quadro espansivo del neo-mercantilismo di questo
Paese. Qui non abbiamo i dati della Grecia, un Paese allo stremo, da cui si pretende di
seguire la stessa percorsa dalla Germania e dall’Italia. Perché? Chiedere al dott.
Stranamore. ].
SULLA QUARTA RIGA (l’indebitamento lordo delle famiglie). Il dato è per noi
confortante e significativo. Questo tipo di risultato andrebbe sempre aggiunto al
volume dell’indebitamento pubblico per giudicare la capacità di ‘tenuta
finanziaria’ di un Paese e nelle trattative europee. [ Nota mia: nella tabella non ci
7
sono i dati di Spagna, Olanda e Grecia, tutti ben superiori a quello del quintetto
presentatoci. ]
SULLA QUINTA RIGA (debito pubblico detenuto all’estero). Una prima
precisazione: nelle cifre sono comprese sia le quote di D.P. acquistato da stranieri
residenti all’estero che da connazionali residenti nel Paese, ma che hanno capitali
all’estero; i dati non sono scomponibili.
La percentuale di D.P. detenuta all’estero è importante in quanto è un possibile
elemento di ricatto o di condizionamento di un Paese fortemente indebitato.
Circa l’Italia: la quota attuale di ‘componente estera’ era nel 2015 di circa il 38%
del totale. Si era marcatamente ridotta dopo il 2010/2011, quando molte banche
estere e molti fondi pensione stranieri ebbero paura della nostra crisi finanziaria.
Partendo da una quota simile a quella francese, nel 2011/2012 il D.P. si dunque è
ampiamente ri-nazionalizzato. Questo ci rende dunque più liberi.
*
*
*
LA SPESA PUBBLICA: LIVELLO e COMPOSIZIONE
Immagine 4
8
Immagine 5
LA TABELLA che ho numerato con Immagine 4 ci dà una prima, importante
informazione. I Paesi anglosassoni confermano di avere una spesa pubblica meno
onerosa dei Paesi dell’Europa continentale. Hanno sempre lasciato più spazio
all’iniziativa del privato cittadino. Servizi fondamentali come scuola,
assicurazione e sanitaria e previdenziale sono affidati molto di più alla spesa
privata.
[ Nota mia: c’è però un’anomalia recente, nell’ Europa continentale: la Germania. Con
la metà degli anni novanta, ed un’accelerazione a ridosso dell’adozione dell’Euro, la
spesa pubblica tedesca si è molto alleggerita grazie alla riduzione del cuneo fiscale (vedi
riforma pensionistica), alla riduzione delle prestazioni sociali con la cosiddetta Agenda
2010 e con il pacchetto di misure Hartz. Mentre in passato la Germania ebbe a lungo un
rapporto Spesa pubblica/PIL all’incirca del 50%, ora si è in parte anglo-americanizzata.
Come leggere questo dato? In un sol modo: il Paese è stato gestito e viene gestito come
un’azienda che concorre con le altre per occupare crescenti fette di mercato. E ci sta
riuscendo, vedi gli enormi surplus commerciali. ]
Particolarmente onerosa la spesa pubblica francese. [ Nota mia: a questo Paese
dobbiamo però essere tutti grati. Se la Francia avesse ridotto bruscamente e
drasticamente la sua spesa pubblica, come suggerito spesso dal dott. Stranamore,, la
domanda aggregata in tutt’Europa sarebbe calata molto di più e la recessione in cui
siamo caduti, sarebbe stata molto più pesante. ]
LA TABELLA che ho numerato con Immagine 5 va letta così: la PRIMA
COLONNA, che rende conto delle spese correnti, va SOMMATA ALLA SESTA
COLONNA, che ci segnala l’incidenza delle spese in conto capitale. Il risultato
combacia, o quasi, con i DATI dell’ Immagine 4.
LE COLONNE 2, 3 e 5, sommate, danno quasi il DATO della COLONNA 1 (ne
sono importanti voci interne). La COLONNA 7 ci segnala quanto della
COLONNA 6 è stato speso per investimenti.
[ Nota mia: USA e GB hanno una struttura di spesa pubblica da parecchi decenni
piuttosto contenuta nella voce “prestazioni sociali” (spesa sanitaria, trasferimenti per la
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spesa pensionistica, spese per la disoccupazione, ecc.). Ma la Germania e la Svezia,
negli ultimi decenni, di nuovo si sono de-socialdemocraticizzate. Hanno deciso di
comportarsi come aziende, di essere più competitivi come Paesi, per abbattere i costi dei
loro prodotti, conquistando così maggiori fette di mercato all’estero e comprimendo la
domanda interna. Leggi alle voci “neo-mercantilismo” e “beggar-thy-neighbour”
(affama il tuo vicino). Per di più la Germania è il fanalino di coda nelle spese per
investimenti pubblici, addirittura leggermente al di sotto dell’Italia, Paese costretto a
tirare la cinghia. Qui, leggere alla voce “Schwarze Null” (pareggio di bilancio) nel
manuale del dott. Stranamore. ]
La spesa sociale rimane alta invece in Francia ed Italia.
Il prof. Artoni ha fatto notare come la nostra spesa per interessi sia sensibilmente
maggiore che negli altri Paesi più industrializzati, tranne che per gli USA. Nel
2016, però, la spesa per interessi, grazie alle scelte di Draghi, si è ridotto a poco
più del 3% del PIL.
*
*
*
Un dato assai interessante, fornitoci dal prof. Artoni riguarda l’INCIDENZA
TOTALE DELLA SPESA SOCIALE SUL PIL nei Paesi che stiamo
confrontando. Eccovi la tabella relativa:
Immagine 6
Potremmo dire: gira e rigira la spesa per il welfare è simile nei Paesi più
industrializzati. Le differenze sono nel differente peso che assumono la gestione
privata o quella pubblica.
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In fondo, la quota che le spese sociali hanno sul PIL non si discosta molto da Pese
a Paese. Italia, Germania, Svezia e Regno Unito fanno registrare valori quasi
uguali. Fuoriescono dalla ‘linea maggioritaria’ gli USA e la Francia.
Le grandi differenze tra la spesa sociale pubblica e quella privata sono queste:
a ) la prima è universalistica e più egualitaria, mentre la seconda rispecchia di più
le differenze di reddito,
b ) soprattutto riguardo alla sanità, la prima è più economica ed è in teoria più
efficiente perché può risparmiare costi, grazie ad economie di scala; per la
seconda vale il contrario; il rapporto qualità/prezzo depone generalmente a favore
della prima. Vedi USA. Il nostro sistema sanitario, a parte le zone ‘sinistrate’ è
sempre uno dei migliori, come ci dicono gli studi delle organizzazioni
internazionali.
Secondo il prof. Artoni la spesa sociale non andrebbe assolutamente ridotta. È
giusto che stia ai livelli attuali per adempiere alle funzioni che lo Stato si è
assunto dal secondo dopoguerra in poi.
LA PRESSIONE FISCALE
Immagine 7
Il prof. Artoni ci ha mostrato la tabella di cui sopra, senza addentrarsi nei dettagli
e nella loro interpretazione. Ha semplicemente fatto notare di nuovo la linea che
divide i Paesi anglosassoni dagli altri. Dove lo stato sociale si regge di più sulla
spesa pubblica, ovviamente, il carico fiscale è maggiore.
Circa il nostro Paese ha rilevato due cose:
a ) il peso delle imposte dirette è mal ripartito. Da noi, l’IRPEF incide ben più che
altrove ed inizia a ‘colpire’ molto in basso. Sarebbe auspicabile un ampliamento
della no tax area (cioè la zona in franchigia). Il nostro problema sta nell’ampiezza
dell’evasione e l’elusione;
11
b ) l’evasione è massiccia soprattutto perché il nostro tessuto produttivo e dei
servizi è molto frammentato; abbiamo una miriade di piccole o piccolissime
imprese, difficili da monitorare; non si è mai riusciti, finora, a trovare un sistema
per distribuire più equamente il carico fiscale.
Non è nemmeno corretto imputare la cosa ad una particolare ‘furbizia’ italica. In
Danimarca, ad esempio, il gettito fiscale deriva per il 95% da quanto denunciano
le imprese e le banche sui redditi da lavoro e da capitale. Il gettito fiscale dal
lavoro autonomo vale il restante 5%. Si stima però che l’evasione, in questo
settore, sia del 50%, nonostante l’ ‘etica protestante’.
( IV )
PERCHÉ IL PEGGIORAMENTO IN ITALIA
DEL RAPPORTO D.P. / PIL ?
Immagine 8
Se i conti pubblici italiani da 25 anni sono sempre stati sotto controllo, se la spesa
pubblica nel suo complesso è in linea con i parametri internazionali, se l’Italia ha
sempre fatto registrare dal 1991 un avanzo primario, allora perché il rapporto
D.P./PIL è passato dal 2010 ad oggi dal 105% a quasi il 135%? La risposta del
prof. Artoni è netta: perché è stata strozzata la crescita; e questo non è avvenuto a
caso. La decrescita è figlia legittima dell’austerità impostaci (come scrivono gli
economisti, per via “delle politiche economiche pro-cicliche”).
Fino al 2007 la nostra crescita era bene o male in linea con quella dei nostri
partner-concorrenti. Poi il tracollo, per una fortissima restrizione del mercato
interno e della domanda aggregata. E ben sappiamo che questo ha significato la
riduzione della produzione manifatturiera, la chiusura di decine di migliaia di
attività, la crescita della disoccupazione. In questo scenario, era ovvio che
12
contemporaneamente le entrate fiscali scendessero, facendo aumentare il valore al
numeratore del rapporto D.P. (infatti, la differenza G – T aumentava soprattutto
perché T diminuiva). Non solo, il denominatore, il PIL diminuiva.
Il lettore è invitato a studiarsi nel suo insieme tutta la tabella dell’ Immagine 8 e a
soffermarsi in particolar modo sulla SECONDA RIGA. L’attenzione va
focalizzata soprattutto sul SECONDO RIQUADRO, per poi fare un raffronto con
gli altri DATI DELLA SECONDA COLONNA.
[ Nota mia: insomma, il principale responsabile dei nostri guai è di nuovo il dott.
Stranamore. Segnarselo per bene. ]
(V)
E IL COSTO DEL LAVORO ?
Il prof. Artoni non ha eluso questo problema. Ci ha fornito alcuni dati elaborati da
Eurostat (l’ufficio statistico europeo). Vedi qui sotto:
Immagine 9
La colonnina arancione visualizza i differenti livelli salariali medi di vari Paesi.
La colonnina blu l’incidenza dei contributi.
È evidente che il costo del lavoro in Italia non è affatto troppo alto, nemmeno
mettendolo in relazione con i livelli di produttività (cosa che nei grafici fornitici
non è analizzata). Chi imputa soprattutto al costo del lavoro la nostra cattiva
performance nella crescita è smentito dai dati. Chi ci consiglia (guardare a nord
delle Alpi) di diminuire i salari o il cuneo fiscale, cioè di fare ancora di più delle
13
politiche economiche pro-cicliche, ci sta consigliando di cadere di nuovo o ancora
di più in recessione.
*
*
*
Concludo la scheda riportando le SLIDE DI SINTESI della PRESENTAZIONE
del prof. ARTONI.
14
*
*
*
Treviglio, 20 / 03 / 2017
Beppe Vandai
per
RISORSE – Associazione per capire meglio l’economia – Treviglio
http://www.risorse-associazione.it
e
VOLTA LA CARTA!! e. V. – Heidelberg
http://voltalacartaheidelberg.blogspot.it
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