le parole degli altri: forme del dire nel pensiero cinese

NOESIS - BERGAMO
INCONTRI DI FILOSOFIA
LA PAROLA
Marcello Ghilardi
2014 - 2015
LE PAROLE DEGLI ALTRI: FORME DEL
DIRE NEL PENSIERO CINESE
Hegel vede riflessa la differenza tra Oriente ed Occidente nella scrittura. La scrittura cinese è
scrittura “geroglifica” (ideografica), legata alla materialità del segno. In essa significante e
significato fanno tutt’uno. Manca di determinatezza oggettiva. La lingua alfabetica, quella
occidentale, è più filosofica. Separa il corpo materiale della scrittura dal significato invisibile.
Permette la costituzione di un’identità spirituale. E’ il “cos’è” di Socrate, l’ uscire dall’individuale
per cogliere l’universale. Le parole “house, maison, casa” vanno oltre la materialità del segno. La
lingua alfabetica, conclude Hegel, è più formale, più intelligente, insomma è superiore.
Quando discutiamo, commenta Aristotele, esigiamo un significato; il dire è sempre dire qualcosa
(legein ti). Per l’oracolo di Delfi la parola è un dare segni.
Come per il mondo cinese. Yan zhe you yan, “nel parlare c’è parola”, si può dire senza dire
qualcosa di determinato. La parola si dice tao (via, così come in taiwan paese di mezzo), ciò che si
accompagna al processo naturale delle cose.
“Il tao che può essere detto non è la via autentica”. Il nome che può essere pronunciato non è il
nome autentico. Il dicibile non è l’autentico. C’è un regime del dire che non è definizione, ma si
accompagna al fluire della realtà. La parola tao allude non irrigidisce. Il tao è infinito, mai
delimitato. A differenza del pensiero occidentale alla ricerca del senso, il pensiero cinese è in
comunione con la realtà in movimento. Il pensiero occidentale cerca il fondamento, la stabilità; il
pensiero cinese sta al di qua della distinzione, è sfondo vitale all’origine.
“Il grande quadrato non ha angoli…la grande immagine non ha forma…” sono modi di dire
l’indeterminato, un dire che è parola vitale, come se fosse la prima volta.
Yen hu yen “parlare senza parole”: il discorso non ha bisogno di parole. Si può non aver parlato
in tutta la vita eppure non essere mai stati senza parole. Solo chi ha qualcosa da dire può stare in
silenzio e lasciar trasparire parole efficaci.
La parola cinese indica più che definisce. Ci dispone nella processualità del vivere. Lascia
l’indifferenziato al fondo delle forme, l’indicibile da custodire. Alla disgiunzione degli opposti, al
dilemma vero falso, la parola cinese tiene insieme, comprende, senza cadere nel relativismo o
nell’opportunismo.
Lo stesso Hegel invita a non confondere verità ed esattezza. L’esattezza è per gli impiegati del
pensiero. La verità è frutto della proposizione speculativa, ma la proposizione del giudizio
irrigidisce, non rende giustizia del movimento vitale.
La parola filosofica oggi deve dirsi e disdirsi, emergere e immergersi. Far filosofia è andare oltre
e coinvolgere il soggetto interrogante, anche se spesso questi si sottrae sedando la propria
domanda con qualsiasi risposta. Far filosofia è confrontarsi con l’alterità.
C’è ancora oblio del corpo nella cultura occidentale. Si dice: “non conta il corpo della lettera,
ma lo spirito”. Eppure la fede cristiana parla di risurrezione dei corpi. “In principio era la parola” e
“il logos si è fatto carne “ è detto nel Vangelo di Giovanni.
Occorre ricuperare la parola mostrata dalla cultura cinese. Già l’esperienza del tradurre ci mette
a contatto con una parola che non equivale al pensiero. Babele non è una maledizione ma un dono,
il dono della pluralità, della parola che non esaurisce e che si staglia sullo sfondo del vivere e del
morire. E’ ricuperare la disseminazione di senso e di sensi. La relazione con l’altro nella parola è
lo specchio di ciò che io sono. Incontrare l’altro non per ciò che mi può dare ma per ciò che mi
permette di essere.
E’ il linguaggio dell’amore: gli amanti che si guardano e parlottano, il bambino che risponde
alla mamma con lallazioni. Questa parola è senza pretese, mai definitiva; parola dell’intimità con la
vita, anche quando sfugge. E’ parola in accordo con l’esperienza, in una tensione che apre, vissuta
nella relazione dei parlanti, in unità con la vita.
Calvino in Le città invisibili conclude con il dialogo tra Marco Polo e l’imperatore. Kublai Kan
chiede: “A quale futuro ci spingono i venti propizi?” Marco Polo risponde: “ Non saprei tracciare
la rotta…A volte mi basta uno scorcio, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti
per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo pezzo la città perfetta. La città cui tende il mio
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A cura di Mauro Malighetti
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Marcello Ghilardi
2014 - 2015
LE PAROLE DEGLI ALTRI: FORME DEL
DIRE NEL PENSIERO CINESE
viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, eppure tu non devi smettere di cercarla. Forse
mentre parliamo sta affiorando…”
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A cura di Mauro Malighetti