L`Europa e l`immigrazione. Necessità e incertezza

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 I – Working Group : Immigration/Integration. I -­‐ Groupe de travail : Immigration/Intégration. I -­‐ Gruppo di lavoro : Immigrazione/Integrazione. L’Europa e l’immigrazione. Necessità e incertezza Xabier Aierdi – rapporteur (EAJ-­‐PNV) -­‐ Pays Basque Bruxelles, 11-­‐12/11/2010 4ème Congrès 4° Congresso 4th Congress 1
L’Europa e l’immigrazione. Necessità e incertezza
Xabier Aierdi
Il presente testo, che sarà sottoposto a tutte le successive revisioni eventualmente necessarie, si basa su una questione emersa nel corso di un seminario tenutosi il 3 giugno a Bilbao (Europa e inmigración. Necesidad e incertidumbre -­‐ “L’Europa e l’immigrazione. Bisogno e incertezza”). Il testo affronta non tanto i meccanismi della migrazione o gli aspetti tecnici relativi ai parametri rispetto ai quali i flussi possono essere in fase di accelerazione o decelerazione, ma si concentra piuttosto su che cosa si può fare di fronte al bisogno dell’Europa di immigrazione e sull’incertezza che tale bisogno porta con sé all’interno della società europea. I flussi migratori hanno avuto luogo in momenti designati e persino politicamente pianificati per impedire gli spostamenti. In breve, in uno scenario di grande incertezza, emerge l'esigenza di stabilire esattamente quale tipo di politica sull'immigrazione sia ragionevole per l'UE, come possa essere messa a punto e che aspetto avrà il modello di integrazione socioculturale che ne risulterà. Zygmunt Bauman vede l’Europa come un’avventura non ancora finita (e auspicabilmente infinita), ma l'immigrazione deve senza dubbio avere un posto in tale avventura. Sulla base di questa convinzione, non faremo particolare riferimento ai documenti dell’UE pieni di “desiderabilità” successivamente e regolarmente contraddetti dalle politiche dei singoli stati. Tali documenti forniscono un orizzonte normativo, ma le effettive politiche non sembrano seguire la stessa direzione. Sono piuttosto caratterizzate dall’ossessione per la sicurezza e il controllo dell’immigrazione irregolare. Questo tipo di immigrazione costituisce una logica escrescenza nell'attuale struttura della migrazione che deve essere regolarmente e sistematicamente incorporata nel sistema attraverso inevitabili processi di regolarizzazione1. La visione implacabile e la visione impeccabile dell’immigrazione I movimenti migratori hanno ripreso vigore nel corso degli ultimi vent’anni ed eminenti teorici ed esperti sostengono che stiamo vivendo una "nuova era" della migrazione. I dati forniti dall’OCSE indicano che negli ultimi dieci anni circa 65 milioni di persone si sono trasferite in paesi sviluppati (principalmente nell'UE e negli USA). Solitamente questo aumento nei flussi migratori viene affrontato da due punti di vista nettamente distinti, che raramente coincidono e sono presumibilmente (sebbene non intrinsecamente) opposti. Uno tende a legittimare l’immigrazione a tutti i costi, mentre 1.
1
Sono stati attuati dei processi di regolarizzazione in Spagna, Italia e Belgio. Il più recente in Spagna ha avuto luogo nel 2005 ed è stato oggetto di pesanti critiche da parte degli altri Stati membri dell’UE. Recentemente il presidente Obama ha fatto riferimento alla regolarizzazione della popolazione irregolare degli USA, che secondo stime affidabili raggiunge i 15 milioni. Si presume che la cifra totale tra USA ed Europa si aggiri sui 20 milioni. “Quando le politiche di regolarizzazione non fanno parte di una politica più ampia sull’immigrazione, corrono il rischio di divenire un mezzo per risolvere a posteriori il problema di un’immigrazione illegale inizialmente tollerata, se non addirittura incoraggiata” (Marco Martiniello) [Ritradotto dallo spagnolo a causa dell’indisponibilità dell’originale] 2
l’altro si fonda sui sospetti che la società nutre nei confronti del fenomeno (atteggiamento di rifiuto).
La visione orientata all’accettazione considera i movimenti migratori come legittimi di per sé e mette in evidenza il fatto che si tratta di fenomeni antropologici universali e antichi riscontrabili in tutte le epoche e in tutti i luoghi e che prima di divenire paesi ospitanti di immigrati siamo stati paesi invianti di emigranti. Partendo da questi presupposti, tutte le forme di migrazione sono ritenute giustificate. Questo modo di guardare alla migrazione non è privo di buone intenzioni, ma assume una posizione di implicita superiorità morale in quanto può non tanto cercare di descrivere ciò che in realtà accade, ma piuttosto di promuovere un’accettazione indiscussa dell’immigrazione. Viene presentata come una posizione morale, ma è pesantemente impregnata di ideologia. Senza definire le condizioni nelle quali l'immigrazione è stata accettata in contesti storici specifici, questo ricorso all'implicita integrazione di aspetti morali diviene un modo per cercare un appiglio per contrastare il secondo punto di vista.
Questo secondo punto di vista, vale a dire la “tesi dei sospetti”, si fonda più chiaramente su motivazioni ideologiche, o è comunque associato ad esse. Si aspetta sempre che le più fosche previsioni si avverino (è quello che ne fornisce la raison d’être) poiché è incapace persino di accettare che l’immigrazione possa avere luogo con parametri di ragionevole normalità o che le popolazioni straniere possano essere integrate nelle società ospitanti in una maniera equilibrata (seppure instabile). Coloro che hanno questa visione tendono a trascurare i contributi strutturali apportati dall’immigrazione e a sopravvalutare le differenze culturali, che ritengono insuperabili.
I sostenitori del primo punto di vista tendono a essere eccessivamente pedagogici e alquanto moralisti, inserendo elementi di desiderabilità sociale nei loro argomenti a favore dell'accettazione illimitata degli immigrati, mentre i fautori della seconda tesi possiedono la loro particolare idea di realismo e si vedono come pieni di buonsenso. Come tali, si considerano i portavoce del modo di sentire della società, percepito come in generale contrario all'insediamento temporaneo o permanente degli immigrati stranieri. Il primo punto di vista può essere definito la visione "impeccabile" dell'immigrazione, mentre il secondo la visione "implacabile". La visione implacabile si basa su quattro idee fondamentali:
• ci sono già troppi immigrati;
• tolgono posti di lavoro alla gente del luogo;
• fanno aumentare il tasso di criminalità;
• la loro integrazione culturale è impossibile. Anche la visione impeccabile si basa su quattro idee fondamentali: • il numero degli immigrati non è mai un problema;
• l’unico problema significativo relativo all’occupazione è lo sfruttamento;
• l’unico crimine rilevante è la xenofobia;
• tutti gli usi ed i costumi culturali sono rispettabili e accettabili. 3
Le diverse combinazioni di queste idee fondamentali danno origine a discorsi sociali e politici diversi (i primi solitamente contrari all'immigrazione) che confluiscono direttamente l'uno nell'altro, creando diverse reazioni.
L’interazione tra stati d’animo e opinioni costituisce frequentemente un ostacolo che può impedire di affrontare la migrazione con la necessaria cautela e chiarezza. Al di là delle nostre posizioni personali, del nostro gradimento o non gradimento rispetto all'insediamento di immigrati stranieri in un territorio che riteniamo di nostra proprietà, esiste un'intera serie di domande non risposte che derivano da una situazione relativamente inaspettata: come è possibile che un’economia post-­‐fordista, in cui l’industria è in netto declino e le strutture e i meccanismi di integrazione sono di conseguenza deboli, negli ultimi decenni abbia attratto un numero così elevato di immigrati? Si avverte un certo disagio teorico quando diviene chiaro che non siamo riusciti a comprendere come abbiano potuto avere luogo tali imponenti flussi migratori in un’epoca storica che, sulla carta, non pare certamente la più adatta a produrre migrazioni. Una nuova era di migrazione
Prima di discutere come affrontare l’immigrazione in Europa in termini politici, come definire quali elementi sono coinvolti e quali idee è possibile proporre per una politica europea comune, dobbiamo stabilire i fattori che indicano che ci troviamo in una nuova era di migrazione. Eminenti autori hanno suggerito che una delle caratteristiche principali, se non addirittura quella dominante, di questi nuovi flussi è l’attenzione pubblica che ricevono. L’immigrazione è una questione di opinione pubblica, piuttosto che un adeguamento sociale o culturale collegato al lavoro. Torneremo più avanti su questa idea, dal momento che influenza considerevolmente sia il modo in cui vengono percepiti gli immigrati che quello con cui essi si insediano.
2.
2.1. Di quanti migranti stiamo parlando? Numerose analisi affermano che l’attuale portata dell’immigrazione non è giudicabile attraverso il puro e semplice ordine di grandezza dei flussi migratori poiché una cifra di riferimento è stata stabilita nel 2005, quando la Population Division delle Nazioni Unite ha dichiarato che vi erano 191 milioni di persone residenti in un paese (una nazione) diverso da quello di cui erano cittadini.
Sembrano esservi più potenziali candidati che non effettivi migranti, ma l'imponente quantità di barriere istituite nelle politiche sull'immigrazione dei paesi ospitanti non è affatto un fattore trascurabile. In effetti, molte persone sono classificate come migranti a causa di artefatti statistici e/o cambiamenti intervenuti nelle frontiere politiche piuttosto che non di effettivi processi migratori (ad es. tutti i residenti non classificati come cittadini dei nuovi stati creati a seguito dello scioglimento dell’URSS). In ogni caso, si può stimare che circa il 3% della popolazione mondiale vive in paesi diversi da quelli di cui ha la cittadinanza. Oggi il numero totale dei migranti internazionali è calcolato tra i 190 e i 220 milioni. Le definizioni su cui si basano le misurazioni sono determinanti in tutte le questioni riguardanti i numeri dei migranti. Secondo lo Human Development Report 2009, 4
pubblicato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) con il titolo Superare le barriere: mobilità e sviluppo umano, “In genere le discussioni sulla migrazione partono dalla prospettiva di flussi che vanno dai paesi in via di sviluppo verso i paesi ricchi dell’Europa del Nord America e dell’Australasia. Tuttavia la maggior parte degli spostamenti a livello mondiale non avviene tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati; non avviene neppure tra paesi. La stragrande maggioranza delle persone che si spostano lo fa all’interno del proprio paese”. Sulla base di questa definizione, l’UNDP stima che nel mondo vi siano 740 milioni di migranti interni, vale a dire quasi quattro volte il numero di persone che migrano da un paese a un altro e che sono classificate come “immigrati”. Lo stesso rapporto indica che solo il 37% dei flussi migratori internazionali va dai paesi in via di sviluppo ai paesi sviluppati: la maggior parte avviene tra paesi con livelli di sviluppo simili. Il 60% dei migranti si sposta tra paesi in via di sviluppo o tra paesi sviluppati. Il rimanente 3% si sposta da paesi sviluppati a paesi in via di sviluppo2.
2.2. In termini più strutturali, le migrazioni sono caratterizzate dai seguenti elementi:
2.2.1.
sono divenute più diversificate e globalizzate: il numero dei paesi invianti e ospitanti è in aumento, così come il numero delle rotte migratorie, seppure in una “globalizzazione marcata da frontiere". Questa diversificazione è stata resa possibile dalla riduzione delle distanze che la globalizzazione dei trasporti, delle comunicazioni e delle informazioni ha comportato.
2.2.2.
Calo della domanda solvibile di immigrati. Siamo passati da un’epoca in cui la domanda di immigrati eccedeva l’offerta di manodopera disponibile a un’altra in cui la domanda solvibile di immigrati nei paesi ospitanti si è ridotta a causa dei cambiamenti e delle innovazioni nei sistemi di produzione dei paesi al centro del sistema. Questa sovraspecializzazione funzionale presente nel centro conduce a una migrazione con bassi livelli di specializzazione basata sulla manodopera intensiva 2
Alcuni esperti ritengono che considerate le asimmetrie economiche e di sviluppo del mondo, questa cifra dovrebbe aumentare, ma solo quelli che effettivamente possono migrare lo fanno, non tutti quelli che lo vorrebbero. Secondo il Rapporto dell’UNDP “Una chiara ragione per la quale non ci sono maggiori spostamenti dai paesi in via di sviluppo verso i paesi sviluppati è che i trasferimenti sono costosi, e quelli su lunghe distanze ancora più costosi rispetto a intraprendere dei viaggi brevi. Il maggiore costo degli spostamenti internazionali non deriva soltanto dai costi di trasporto, ma anche dalle restrizioni imposte dalle politiche sull’attraversamento dei confini internazionali, superabili solo da coloro che possiedono sufficienti risorse, competenze ricercate nel nuovo paese ospitante o che sono disposti a correre dei rischi molto elevati. Quasi la metà di tutti i migranti internazionali si sposta all’interno della propria regione di origine e circa il 40% si trasferisce in un paese confinante. La vicinanza tra paesi di origine e di destinazione, tuttavia, non è semplicemente geografica: quasi 6 migranti su 10 si trasferiscono in un paese in cui la religione principale è la stessa del loro paese di origine e 4 su 10 in un paese in cui predomina la loro lingua”(pag. 24). 5
(sottospecializzazione). Per parafrasare Arango, nel passato era la domanda a essere illimitata, ma ora è l’offerta.
2.2.3.
Contraddizione tra retorica e realtà. Gli stati sono intrappolati tra le dichiarazioni ufficiali secondo le quali esiste una domanda di manodopera specializzata e la realtà dell’inserimento nei loro mercati del lavoro di manodopera intensiva, non specializzata e a basso costo. Questo approccio schizofrenico è stato riassunto nell’affermazione del presidente Sarkozy che ha dichiarato che auspicava di passare dall’“immigrazione subita” del passato all’“immigrazione scelta”. La retorica politica cerca di non entrare in conflitto con la società all’interno della quale opera, ma curiosamente è questa stessa società che, attraverso processi sociali che pongono dei limiti alla domanda, sceglie l’immigrazione di cui ha bisogno, ovvero quella che corrisponde in modo esatto alle sue reali esigenze. Gli adeguamenti disfunzionali tendono ad essere minimi. Si impiega spesso il termine “effetto chiamata”, come se l’arrivo di immigrati fosse un fenomeno autonomo slegato dalla logica economica o dal bisogno di manodopera delle società ospitanti. In effetti è un “effetto bisogno” quello che si trova al cuore del processo. 2.2.4.
La conseguente rivalutazione dei meccanismi sociali. Una volta era possibile soddisfare le esigenze locali in un modo ora presentato come ideale, vale a dire mediante contratti stipulati presso il luogo di origine. Ma oggi la rivoluzione dei trasporti e le politiche di limitazione degli accessi fanno sì che tali necessità siano soddisfatte tramite dei meccanismi sociali, adeguando le esigenze locali di manodopera attraverso migranti delocalizzabili. Esiste una tendenza a considerale il livello di un paese (stati, politiche per il settore pubblico) come l’unico livello attivo nelle politiche sull’immigrazione, ma si potrebbe affermare che ogni società è in parte responsabile di stabilire le proprie rotte migratorie sulla base della storia, dei legami culturali, dell’affinità linguistica, dei rapporti coloniali, dell’idoneità funzionale ecc. Ma è la società nel suo senso più ampio (datori di lavoro, famiglie ecc.) che aiuta ad articolare, mantenere e ripartire i flussi migratori. I flussi non sono una valanga incontrollata, né si può considerare la loro regolamentazione in termini "idraulici".
In realtà, più le istituzioni si chiudono strettamente, maggiore è il ruolo svolto da quel sistema esperto implicito che è la società stessa, in quanto ogni società possiede un potenziale di integrazione al quale si adatta il tipo preferito/scelto di immigrato. Parafrasando M. Laparra, il potenziale di integrazione di una popolazione immigrante di un territorio è legato prima di tutto alla sua struttura economica e demografica, con la funzione che svolge all’interno delle dinamiche dei flussi migratori internazionali (la quale, a sua volta, è collegata alla sua posizione nelle suddivisione internazionale del lavoro) e con la capacità delle sue istituzioni di garantire un'accoglienza adeguata ai nuovi residenti. Le caratteristiche del mercato 6
del lavoro e del modello di stato sociale costituiscono anch’esse fattori determinanti per il potenziale di integrazione.
2.2.5.
La crescente eterogeneità culturale e la crisi del paradigma monoculturale. Un altro fattore estremamente significativo è rappresentato dalla crescente eterogeneità culturale caratteristica dei recenti flussi migratori. Ciò ha coinciso in termini temporali con una riconsiderazione della prospettiva “monoculturale” in termini culturali e pratici.
L’epoca moderna è caratterizzata da quello che un numero sempre maggiore di analisti chiama “nazionalismo metodologico”, un modo di pensare secondo il quale tutto quanto si trova all’interno di determinate frontiere fisiche/statali/politiche dovrebbe essere considerato un’unica cultura, un’unica nazione, un’unica identità e uno stesso senso di appartenenza, come in un’azienda agricola in cui si pratichi la monocoltura. Questo punto di vista è diventato più difficile da sostenere. Tutti gli stati aspirano ad avere un carattere nazionale e tutte le nazioni un carattere statale, ma la natura multiculturale della realtà esige un cambio di indirizzo, in quanto questo atteggiamento include, come minimo, culture statali, minoranze nazionali e società di immigrati.
Una tale situazione conduce inesorabilmente a una crisi, o almeno a un radicale ripensamento, dell'integrazione. Fenomeni quali la transnazionalità culturale e la possibilità concreta di vivere contemporaneamente in mondi culturali diversi rendono inevitabilmente necessario ripensare o adattare le strutture culturali basate sull’assimilazione sulle quali si fondano in ultima analisi tutte le politiche sull’integrazione e l’immigrazione.
Di fronte a questa situazione, l’UE parla di “integrazione nei due sensi”. Dobbiamo superare la pura retorica e chiarire esattamente quanta assimilazione e quanta differenza è opportuno consentire in specifiche aree di integrazione.
Dati sull’immigrazione in Europa
3. Alcuni dati sull’immigrazione in Europa. I dati Eurostat indicano la presenza nel 2008 nell’UE di quasi 30.700.000 cittadini stranieri (vale a dire persone che vivono in paesi diversi da quelli di cui sono cittadini). Di questi, 19,5 milioni provenivano da paesi terzi e 11,3 milioni erano migranti interni dell’UE. Equivalgono al 6,2% dell’attuale popolazione dell’UE.
7
A= B+C
Popolazione straniera% Popolazione totale
Immigranti
Lussemburgo
484
206
42,6
Lettonia
2.71
415
18,3
Estonia
1.341
229
17,1
Cipro
789
125
15,9
Irlanda
4.401
554
12,6
Spagna
45.283
5.262
11,6
Austria
8.319
835
10
Belgio
10.667
971
9,1
Germania
82.218
7.255
8,8
Grecia
11.214
906
8,1
Regno Unito
61.179
4.021
6,6
EU 27
497.649
30.776
6,2
Francia
63.983
3.674
5,8
Italia
59.619
3.433
5,8
Svezia
9.183
524
5,7
Danimarca
5.476
298
5,5
Paesi Bassi
16.405
688
4,2
Portogallo
10.618
446
4,2
Malta
410
15
3,8
Slovenia
2.010
69
3,4
Repubblica Ceca
10.381
348
3,3
Finlandia
5.300
133
2,5
Ungheria
10.045
177
1,8
Lituania
3.366
43
1,3
Slovacchia
5.401
41
0,8
Bulgaria
7.640
24
0,3
Polonia
38.116
58
0,2
Romania
21.529
26
0,1
B
C
% UE % Non UE
36,6
6,0
0,4
18,0
0,6
16,5
10,3
5,6
8,9
3,7
4,7
7,0
3,5
6,6
6,2
2,9
3,1
5,8
1,4
6,7
2,6
3,9
2,3
3,9
2,0
3,7
1,6
4,2
2,6
3,1
1,7
3,7
1,6
2,6
1,1
3,1
1,9
1,7
0,2
3,2
1,3
2,1
0,9
1,6
1,0
0,8
0,1
1,2
0,5
0,3
0,1
0,3
0,1
0,1
0,0
0,1
UE
85,9
1,9
3,5
64,8
70,8
40,2
34,7
67,9
34,7
17,4
40,2
36,7
27,2
34,9
46,0
31,2
26,0
38,2
53,3
5,8
37,9
35,3
57,1
7,0
63,4
16,7
43,1
23,1
Non UETotale
14,1
98,3
96,5
35,2
29,2
59,8
65,3
32,1
65,3
82,6
59,8
63,3
72,8
65,1
54,2
68,8
74,2
61,8
46,7
94,2
62,1
64,7
42,9
93,0
36,6
87,5
56,9
76,9
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
Tabella 1. La popolazione degli immigrati stranieri nell’UE, suddivisa ed elencata in ordine decrescente in base alla percentuale di immigrati. 2008
Le percentuali più alte di immigrati stranieri si osservano in Lussemburgo (42,6%), Lettonia (18,3%), Estonia (17,1%) e Cipro (15,9%). Queste cifre possono tuttavia essere fuorvianti: la significatività in termini percentuali non corrisponde necessariamente a una significatività in termini assoluti. In questi paesi vive circa un milione di immigrati, ma, come già accennato, molti di essi sono stati classificati come tali dopo il cambiamento di nazionalità di parte della popolazione della Lettonia e dell’Estonia a seguito della conquista dell'indipendenza. In Lussemburgo, d’altro canto, l’86% degli immigrati proviene dall'interno dell'UE e solo il 14% da paesi terzi.
In effetti, cinque Stati membri raccolgono quasi il 77% degli immigrati che vivono nell’UE: Germania (23.6%), Spagna (17.1%), Regno Unito (13.1%), Francia (11.9%) e Italia (11.2%). Il restante 23% è distribuito tra gli altri 22 Stati membri. In altri termini, cinque paesi che complessivamente rappresentano quasi il 63% della popolazione totale dell’UE ospitano il 77% della popolazione di immigrati. Per di più, il 79% di tutti gli immigrati provenienti da paesi terzi e il 75% degli immigrati UE vivono in questi paesi.
8
24,3
No UE
UE
Total
0%
16,2
22,3
18,7
23,6
17,1
10%
20%
30%
Alemania [23,6%]
Francia [11,9%]
12,4
14,3
13,1
40%
50%
España [17,1%]
Italia [11,2%] 12,3
11,4
11,9
60%
12,8
22,0
8,3
25,1
11,2
70%
23,2
80%
90%
100%
Reino Unido [13,1%]
22 Países restantes [20,0%]
Paesi terzi
Germania (23,6%)
Spagna (17,1%)
Regno Unito (13,1%)
UE
Francia (11,9%)
Italia (11,2%)
Restanti 22 Stati membri (20,0%)
Totale
Grafico 1. Distribuzione della popolazione totale e della popolazione di immigrati (provenienti dall’UE e da paesi terzi) nei principali paesi ospitanti. 2008
Non è il caso di farsi sommergere dalle statistiche, ma è utile disporre di alcuni dati sulla composizione interna della popolazione di immigrati suddivisa in base all’appartenenza o meno all’UE, in quanto questo comporta ripercussioni significative sui paragrafi che seguono. Ad esempio, consideriamo la scarsa reputazione e l’espulsione subita dai rumeni in alcuni paesi ospitanti, nonostante la loro condizione di cittadini dell’UE a pieno diritto, o i frequenti riferimenti agli “idraulici polacchi” nel contesto della riluttanza ad accettare migranti UE non specializzati in Francia e nel Regno Unito. Questi aspetti sono essenziali per la gestione pubblica della diversità, la proposta di modificare il concetto dominante di cittadinanza e la costituzione di una nuova forma di cittadinanza non legata alla nazionalità. In altri termini, possiamo essere scontenti dell’arrivo di immigrati stranieri, ma alcuni di essi (quelli provenienti dagli Stati membri dell’UE) godono della cittadinanza europea e di alcuni diritti politici, tra cui la libertà di circolazione. Possono anche essere respinti dalla società, ma in termini politici non possono venire espulsi, anche se vanno a incidere sull’occupazione locale. Attualmente l’UE è l’unica grande regione del mondo in cui la migrazione interna è libera e senza limitazioni.
Tuttavia, all’interno dell’UE troviamo: •
•
invianti puri di migranti (vari paesi dell’Europa orientale); riceventi di elevate quantità di lavoratori con basso livello di specializzazione e non specializzati (i paesi meridionali); 9
•
•
paesi in cui il numero degli immigrati specializzati supera quello dei non specializzati (ad es. il Regno Unito); paesi che hanno chiuso le porte all’immigrazione se non per i casi di ricongiungimento familiare (ad es. Danimarca); paesi che ricevono più richiedenti asilo che immigrati (ad es. Svezia). •
Dopo questa breve panoramica, è giunto il momento di prendere in esame le principali sfide che l’Europa deve affrontare in termini di immigrazione, alcune delle quali soltanto sono sotto il suo controllo. Ma l’Europa deve in qualche modo decidere in che misura l’immigrazione è un bisogno e in quale altra rappresenta unicamente una fonte di incertezza. Se queste due questioni sono inscindibilmente legate tra loro, allora sta all’Europa e non ai suoi Stati membri riconsiderare se valga la pena o meno di predisporre una politica comune al di là delle norme già in vigore (che a livello dell'UE, come norme, sono impeccabili) e di affrontare i suoi problemi in modo diretto. Il bisogno di immigrazione
3. A che cosa serve l’immigrazione? È facile cadere nella tentazione di iniziare vituperando l’attuale struttura dell’immigrazione nelle varie parti del mondo sulla base del fatto che la tanto sbandierata libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali non si applica alle persone (o, in una visuale più strumentale, alla manodopera). Ma lasciando da parte gli aspetti morali, in che misura le limitazioni applicate sono ragionevoli o sensate? Che costi opportunità comportano? Questo doppio standard di fatto non dovrebbe impedirci di analizzare le questioni di base sulle quali l’Europa in quanto ente politico dovrà riflettere in modo congiunto.
L’opzione che più ha più probabilità di essere adottata nel breve termine è quella a livello di stato, in quanto la politica sull'immigrazione tocca i componenti fondamentali della sovranità nazionale (ad intra3 e ad extra) e il potere di definire che cosa sia nazionale e che cosa no. Ne risulta una resistenza passiva da parte degli Stati membri al procedere della Commissione, che a sua volta: a) impedisce l’europeizzazione della politica sull’immigrazione, in quanto la cessione di un certo grado di sovranità non è neppure messa in discussione;
b) incoraggia il coordinamento tra gli stati nella gestione dei confini e nella creazione dei mezzi per impedire l’immigrazione irregolare piuttosto che non l’attuazione di politiche sull’immigrazione condivise e proattive o di quella che può essere considerata la “logica Schengen” per i cittadini dei paesi terzi. Schengen potrebbe rappresentare per la gestione delle migrazioni l’equivalente di quanto l’euro è stato per la politica. 3
La recente normativa promulgata dalla Corte Costituzionale spagnola riguardante lo Statuto dell'Autonomia della Catalogna lo ha reso chiaro non accettando l’autodefinizione della Catalogna come territorio nazionale per il ricevimento di immigrati. È improbabile che la politica sull’immigrazione, e pertanto la politica sulla cittadinanza, venga delegata dallo Stato. 10
Alcuni ritengono che sebbene il Trattato di Lisbona4, il “Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo” lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia del Consiglio europeo basato sul programma di Stoccolma siano maggiormente focalizzati sul controllo dell’immigrazione irregolare, tuttavia facciano anche vaghi riferimenti alla creazione delle basi per un quadro comune condiviso relativo all’ammissione degli immigrati5.
L’Europa deve affrontare almeno tre sfide fondamentali sul fronte economico e dell’occupazione: l’invecchiamento della popolazione, la struttura del suo mercato del lavoro e il mantenimento dello stato sociale. Questi tre elementi vanno tutti trattati, senza retaggi culturali e politici, come materie di studio che hanno ripercussioni economiche dirette e indirette, dove l’immigrazione può mitigare il problema, ma non risolverlo. Tuttavia, l’effetto placebo ottenuto è significativo, pertanto il dibattito non può essere posposto all’infinito.
Gli aspetti culturali e politici che interessano questa analisi imparziale riguardano la popolazione di immigrati preferenzialmente ammessa (immigrazione preferita), le loro caratteristiche culturali e la loro integrazione come cittadini. Le società e l’opinione pubblica o pubblicata si collocano in un punto indefinito di questo arco. Esaminiamo la questione passo dopo passo.
3.1. L’invecchiamento della popolazione e il contributo degli immigrati. Si discute spesso in che misura l’immigrazione sia in grado di invertire, o almeno rallentare, l’aumentare dell’età media della popolazione europea. L’opinione prevalente, sostenuta da prove empiriche, è che l’immigrazione non può invertire il processo nei paesi sviluppati, ma può contribuire a rallentarlo in due modi: 1) inserendo persone giovani nel mondo del lavoro; 2) incrementando il tasso di natalità, almeno all’inizio.
Alcuni anni fa, la Population Division delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto sulla migrazione sostitutiva6 nel quale, in termini generali, si affermava che nei prossimi 50 anni le popolazioni di numerosi paesi sviluppati diminuiranno e invecchieranno a causa della transizione demografica, vale a dire del variare delle dimensioni della popolazione di mano in mano che sia il tasso di mortalità che il tasso di natalità diminuiranno. 4
Il Trattato afferma che “L’Unione sviluppa una politica comune dell’immigrazione intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l'equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto rafforzato dell'immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani" (Art. 79.1) 5
Il parere esplorativo emesso dalla sezione occupazione, affari sociali e cittadinanza sull’“Integrazione dei lavoratori immigrati” riporta che “Da quando, dieci anni or sono, l’UE ha intrapreso il cammino che porterà a una politica comune sull’immigrazione, la maggiore difficoltà è stata rappresentata dalla stesura della legislazione che governa l’ingresso di nuovi immigrati, in quanto le legislazioni di ognuno degli Stati membri presentano approcci molto diversi”. 6
Questo termine si riferisce alla migrazione internazionale necessaria a un paese per evitare il calo e l’invecchiamento della sua popolazione. 11
Secondo le previsioni riportate nel rapporto, sono state fatte delle scoperte sorprendenti: l’UE avrebbe bisogno di quasi 50 milioni di persone in più per mantenere le dimensioni attuali della sua popolazione, di quasi 80 milioni per tenere stabile l’attuale popolazione in età lavorativa e di 674 milioni per conservare lo stesso rapporto tra popolazione attiva e non attiva. Come disse un analista sconosciuto, le previsioni sono difficili, soprattutto quelle riguardo al futuro. Ma, lasciando da parte le previsioni, dobbiamo attenerci all'idea che se il rapporto ha ragione, allora senza immigrazione la popolazione calerà sicuramente e sarà impossibile, in particolare, mantenere invariate le dimensioni della popolazione attiva. L’Europa deve decidere se vuole vivere come una vecchia aristocratica caduta in disgrazia, ignorando i problemi economici collaterali che tale vita comporterebbe. Da una parte occorre considerare fin dove l’economicismo debba rappresentare l’area o una delle aree strategiche in cui trovare una soluzione a questi problemi (e l’immigrazione non è altro che la scusa per farlo). Poiché, come riporta la Population Division delle Nazioni Unite, “Le nuove sfide introdotte dal calo e dall’invecchiamento delle popolazioni richiederà dei riesami obiettivi, approfonditi ed esaustivi di molte politiche e programmi economici, sociali e politici attuali . Tali riesami dovranno comprendere una prospettiva a lungo termine. Le tematiche fondamentali da affrontare in questi riesami dovrebbero includere: (a) le età pensionistiche appropriate; (b) i livelli, le tipologie e la natura delle prestazioni pensionistiche e sanitarie per gli anziani; (c) la partecipazione della forza lavoro; (d) l’entità stabilita dei contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro per assicurare le prestazioni pensionistiche e sanitarie agli anziani; (e) politiche e programmi relativi alla migrazione internazionale, in particolare alla migrazione di sostituzione e all'integrazione di elevati numeri di migranti recenti e dei loro discendenti". D’altro canto, riservare un posto serio nell’agenda politica a questi problemi non ha dato luogo a grandi ripetizioni. Considerate le attuali tendenze demografiche, ciò costituisce oggetto di preoccupazione, in quanto lo stato sociale: 1) si fonda sulla solidarietà intergenerazionale; 2) è sostenibile solo nella misura in cui viene mantenuto un rapporto contributori-­‐beneficiari adeguato. Sebbene la praticabilità finanziaria del sistema dello stato sociale dipenda da numerosi e diversi fattori (l'età alla quale i lavoratori entrano nel mercato del lavoro e ne escono, la percentuale delle donne che lavorano, il tasso di disoccupazione, le dimensioni dell'economia informale, la produttività e i livelli di specializzazione della popolazione in età lavorativa), l’invecchiamento della popolazione è destinato nel futuro a condizionare pesantemente l’organizzazione sociale. Qual è il ruolo dell’immigrazione in questo processo? •
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Ringiovanisce la popolazione nel breve termine, ma non nel lungo termine, a meno che il flusso migratorio non rimanga costantemente elevato. Ha inoltre un grosso impatto iniziale sulle dimensioni della popolazione in età lavorativa, ma questo effetto svanisce nel lungo termine. Non è in grado di 12
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invertire la tendenza verso l’invecchiamento, ma ne attenua in parte gli effetti negativi in alcune situazioni. Il suo effetto può essere considerevole sulle dimensioni della popolazione, ma sui tassi di invecchiamento è molto più modesto. In altre aree legate alla fertilità e ad altre caratteristiche demografiche, l’evidenza empirica mostra che, con leggere variazioni, le popolazioni di immigrati tendono dopo qualche tempo ad allinearsi ai tassi di fertilità locali. Nella peggiore delle ipotesi, le differenze più significative gradualmente si riducono. Infine, gli immigrati tendono a contribuire in modo ragionevole al tasso di natalità, più a causa della loro giovinezza che di reali differenze di fertilità. In breve, l’immigrazione non rappresenta una soluzione per la tendenza all’invecchiamento delle società sviluppate, ma può offrire un contributo positivo ad alcuni degli aspetti più preoccupanti. Occuparsi del problema dell’invecchiamento significa adottare un’intera serie di misure complementari, che non dovrebbero escludere l’accettazione nei prossimi decenni di un numero ragionevolmente elevato di immigrati stranieri , anche solo allo scopo di mantenere le dimensioni attuali della popolazione UE o di mantenere stabile la percentuale di popolazione attualmente in età lavorativa. Se questo significhi 50 o 80 milioni di persone, è tutto da discutere. La quantità è e dovrebbe essere oggetto di dibattito, ma non il bisogno. Il confronto non dovrebbe basarsi su certezze, ma essere flessibile e aperto, in modo che le necessarie discussioni e decisioni (per alcune delle quali non sono più giustificabili indugi) possano avere luogo. 3.2. Manodopera non delocalizzabile. In un processo di integrazione considerato “con il paraocchi”, in quanto rifiuta di ammettere in termini di aspetti sociali e culturali e cittadinanza ciò di cui ha bisogno in termini di manodopera, sembrava impensabile che nei primi anni novanta questi processi migratori potessero aumentare. Ma in un certo senso il quadro di integrazione industriale che ritenevamo avrebbe costituito la base per la riuscita degli inserimenti ha lasciato il posto ad altri quadri la cui ragione d’essere va ricercata nei crescenti bisogni delle classi medie, che sono divenute i principali contraenti, per lo meno nell’Europa meridionale. In che misura l’Europa meridionale fa presagire la futura struttura dell’Europa nel suo complesso? Può essere opinabile, ma l'idea è quella di individuare delle soluzioni sociali a fronte del fallimento o dell'incapacità delle misure istituzionali nel fornire un aiuto in tutte le aree dell’assistenza, tra cui i servizi domestici e la cura dei bambini, nel contesto della grande e inedita rivoluzione della fine del XX secolo: l’inserimento delle donne in vari settori del mercato del lavoro. Questa rivoluzione ha prodotto cambiamenti di vasta portata nella famiglia come istituzione e in assenza di politiche dei poteri pubblici che aiutino a conciliare la vita familiare e il lavoro e a ripartire i lavori domestici, o di misure proattive per dare nuovo impulso al tasso di 13
natalità, le famiglie non sono riuscite a gestire tutti i compiti svolti nel passato, vale a dire a prendersi cura dei propri membri.
Questi lavori vengono sempre più spesso svolti da immigrati, talvolta con conseguenze indesiderabili, come il crearsi di reti transfrontaliere di affetti, di disuguaglianza e di un indebolimento delle strutture familiari nei paesi invianti7. Inoltre, il contesto occupazionale in questione è sempre più incerto e non è chiaro se l’insicurezza generi l’immigrazione o se l’immigrazione favorisca l’insicurezza. Negli anni a venire si dovranno analizzare in modo approfondito le relative interrelazioni. Questa situazione riguarda in particolare le donne, il che spiega in parte la crescente quota di immigrati donne. Sebbene dopo i processi di ricongiungimento familiare il risultato sia solitamente una distribuzione più o meno omogenea dei sessi nell’immigrazione (ad eccezione di alcuni specifici luoghi di origine in Africa e di alcuni paesi asiatici come il Pakistan), in una percentuale significativa dei processi di immigrazione sono le donne ad aprire la strada, dal momento che, tra le altre ragioni, il mercato del lavoro è infinitamente più adatto al loro contributo.
Questo fenomeno di insicurezza è iniziale e a breve termine nel contesto di processi di lunga durata, ma si sta gradualmente consolidando nell’UE (come messo in evidenza dai tagli senza precedenti nello stato sociale) ed era stato predetto oltre dieci anni fa dal sociologo Ulrick Beck, che sosteneva che l’Occidente sarebbe stato “brasilianizzato”, nel senso del “… diffondersi del lavoro temporaneo e precario, della discontinuità e dell’informalità nelle società occidentali che fino ad ora hanno rappresentato i bastioni della piena occupazione. La struttura sociale nel cuore dell’Occidente sta dunque iniziando a somigliare al mosaico del Sud, caratterizzato dalla diversità, dalla mancanza di chiarezza e dall'insicurezza nel lavoro e nella vita delle persone”8. Indipendentemente dal fatto che questo processo sia visto in una luce 7
Questo fenomeno è più tipico del sud, ma indica o fa presagire nuove strutture migratorie poiché, come già accennato, una percentuale significativa dei flussi in questione si dirige in primo luogo verso i paesi meridionali. 8
“La conseguenza imprevista dell’utopia neoliberale del libero mercato è una brasilianizzazione dell’Occidente. Infatti i trend già visibili nella società mondiale – alto tasso di disoccupazione nei paesi europei, il cosiddetto miracolo dei posti di lavoro negli Stati Uniti, la transizione da una società fondata sul lavoro a una società fondata sulle conoscenze – non comportano soltanto un cambiamento del contenuto del lavoro. Altrettanto notevole è la nuova somiglianza tra la forma che il lavoro retribuito stesso sta assumendo nel cosiddetto primo mondo e nel cosiddetto terzo mondo; il diffondersi del lavoro temporaneo e precario, della discontinuità e dell’informalità nelle società occidentali che fino ad ora hanno rappresentato i bastioni della piena occupazione. La struttura sociale nel cuore dell'Occidente sta dunque iniziando a somigliare al mosaico del Sud, caratterizzato dalla diversità, dalla mancanza di chiarezza e dall’insicurezza nel lavoro e nella vita delle persone. […] Il risultato è che quanto più i rapporti di lavoro sono “deregolamentati” e “flessibilizzati”, quanto più velocemente la società del lavoro si trasforma in una società del rischio incalcolabile sia in termini di vita dei singoli che a livello statale e politico, e tanto più importante diventa cogliere l’economia politica del rischio nelle sue conseguenze contraddittorie per l’economia, la politica e la società.. In ogni caso, un trend futuro è chiaro. Per la maggior parte delle persone, anche negli strati medi apparentemente prosperi, la stessa esistenza di base e il mondo della vita saranno segnati da un’insicurezza endemica”. Ulrick Beck, The Brave New World of Work (Edizione inglese, Cambridge University Press, Cambridge, 2000). 14
più o meno ottimistica o catastrofica, è più probabile che l’Occidente venga brasilianizzato che non che il Brasile venga occidentalizzato in termini di garanzia del posto di lavoro dal punto di vista normativo. Tutti questi fenomeni apparentemente scollegati tra loro indicano che nelle nostre società non vi è solo un’esigenza di immigrati specializzati, ma anche un’enorme quantità di lavoro non delocalizzabile da svolgere. Si tratta di lavoro che non viene più svolto dalle donne locali, bensì da altre. L’interazione tra mercato del lavoro, invecchiamento e immigrazione va ben oltre considerazioni di carattere demografico e relative al mercato del lavoro: il livello di sviluppo dei servizi pubblici destinati alla cura degli anziani è basso e attualmente gli immigrati soddisfano gran parte della domanda di assistenza da parte di questa fascia della popolazione. Non si prevede che tale domanda vada calando e gli immigrati sono destinati a divenire una risorsa essenziale per le famiglie più benestanti e ristrette di quanto attualmente sia la norma, per compensare le carenze dello stato sociale nella cura degli anziani.
Indipendentemente dalle diverse forme di stato sociale che esistono nell’UE e dai punti di forza e debolezza di ciascuno, l’attuale struttura di migrazione in Europa è economicamente inefficiente poiché, oltre a presentare altre carenze, incoraggia lo sviluppo di mercati del lavoro ad hoc legati a processi sporadici in settori dinamici, con vaste sacche di lavoro irregolare, che successivamente divengono disfunzionali. Tuttavia, la soluzione non consiste nel chiudere le frontiere, ma va piuttosto ricercata attraverso un’attenta analisi delle necessità di manodopera a medio e lungo termine. Inoltre, l’aumento della produttività non ha effetto sui settori dell'economia maggiormente aperti agli immigrati. Nel medio termine vi sono due compiti essenziali da svolgere: calcolare il volume del lavoro non delocalizzabile e calcolare che percentuale della manodopera specializzata di immigrati necessaria può essere soddisfatta da quelli già insediati. 3.3. La praticabilità dello stato sociale. Secondo i maggiori esperti, sulla praticabilità dello stato sociale non influisce solo il dibattito politico e ideologico che si può supporre abbia luogo in Europa e in realtà in tutto il mondo riguardo a di che cosa si può o non si può fare a meno (dibattito, almeno in parte, indipendente dai processi che stiamo trattando), ma anche i processi già citati di cambiamento dell'occupazione, l’invecchiamento della popolazione e le nuove strutture familiari. Un elemento implicito nel funzionamento dello stato sociale è il ruolo invisibile svolto dalle famiglie come garanti della sua stessa esistenza. Lo stato sociale regola altre aree che a loro volta ne garantiscono lo "stato di salute” e l’inserimento degli immigrati è un altro fattore che contribuisce a ciò. Questa visione degli immigrati unicamente come fornitori di manodopera viene talvolta accusata di strumentalizzare gli immigrati interessati, ma solo strumentalizzandoli li si può inserire nella struttura occupazionale, e dunque nella struttura sociale, delle società nelle quali si insediano.
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Gli aspetti sociali, politici e culturali dell’immigrazione: l’immigrazione come incertezza
4. L’ambiente sociopolitico. Come già menzionato, molti degli accordi stilati sull’immigrazione si sono tradotti in una gara tra gli stati per vedere chi riusciva a essere il più intransigente sulla questione. Alcune delle modifiche apportate alla legislazione hanno cercato di rendere più severe le politiche sulla migrazione, di imporre condizioni più restrittive sul ricongiungimento familiare, la residenza ecc. Questo rigore contrasta con l’attuale incorporazione attraverso canali regolari o irregolari di immigrati nelle società europee, creando una visione distorta della migrazione: secondo la legge, la posizione assunta è una dimostrazione di forza, ma di fatto la situazione è assai diversa. L’immigrazione irregolare si colloca nel mezzo, riportandoci al punto di partenza. La dimostrazione di forza deriva in parte dalla competizione tanto tra gli stati quanto all’interno di essi. L’accesa competizione tra gli stati e la diversità dei rispettivi interessi (paesi invianti, paesi ospitanti, malintesi, animosità, debolezza del senso di identità paneuropea, differenze di mentalità e delle politiche sull’immigrazione dei diversi stati ed eventi passati) ostacolano l’emergere delle giuste condizioni per una politica comune. Occorre rivedere questa struttura affinché la cooperazione tra gli Stati membri dell’UE, al di là del semplice controllo delle frontiere e dei flussi di immigrazione irregolare, si accompagni inizialmente a un processo di cessione verso l’alto e proattiva della sovranità.
La risposta sociale a questa idea di rigore sviluppata dai governi è talvolta reale e talaltra una pura invenzione. Dal punto di vista sociale, occorre tracciare una distinzione tra discorsi e atteggiamenti da una parte ed effettivo comportamento dall’altra. I discorsi sociali, e le convinzioni condivise, sono soltanto parole. In alcuni casi combaciano perfettamente con i fatti, mentre in altri non è così, ma , come sanno bene i sociologi, comportano sempre degli effetti sul piano sociale: impongono dei quadri di interpretazione. Questi discorsi possono assumere diverse sfumature, ma di fondo sono suddivisibili in due tipi:
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quelli in cui predominano gli elementi ideologici, rendendo l’agire molto difficoltoso in quanto i loro sostenitori sono in genere riluttanti ad accettare l’immigrazione e non disposti a cambiare, restando fermi sulle proprie posizioni qualunque siano le circostanze e le strutture in essere in un dato momento. Si può pertanto ritenere che denotino un’accentuata xenofobia e discriminazione di classe e possono persino rasentare la discriminazione di classe su base razziale o la discriminazione razziale basata sulla classe; •
quelli che dipendono dalle circostanze in atto, quando una fetta più o meno considerevole della società viene toccata sul piano strutturale dall’arrivo di immigrati. Il risultato è una xenofobia situazionale con vari gradi di intensità, che può facilmente sfociare in slogan come “Prima gli inglesi”, che manifestano una preferenza a favore dei cittadini locali. Coloro che aderiscono a questi discorsi tendono ad essere individui con uno status 16
incerto, che si percepiscono come sostituibili e si trovano sul confine di forme più o meno gravi di vulnerabilità ed esclusione.
Dietro a questi atteggiamenti si celano numerosi elementi che hanno una base antropologica: 1) Nessun gruppo etnico, nazionale o statale è disposto a condividere con altri gruppi un territorio che considera suo.
2) I rapporti di inclusione/esclusione con altri gruppi si creano sulla base di criteri mutevoli, sebbene il gruppo li ritenga obiettivi e immutabili. 3) All’interno del gruppo si stabiliscono dei legami morali attraverso i quali ogni individuo è tenuto ad essere fedele al resto del proprio gruppo e si dissocia esternamente dai membri di altri gruppi.
4) Inconsciamente, i membri del gruppo ritengono che le frontiere morali definiscano le frontiere effettive: “Devo fedeltà alla mia gente e a nessun altro”.
5) Questo processo coincide con la “comunità immaginata”, vale a dire la comunità alla quale gli individui si considerano legati anche quando sanno che non incontreranno mai di persona i suoi membri. Si tratta di una comunità perché gli individui se ne sentono parte ed è immaginata perché si basa sulla convinzione che anche le persone che essi non conoscono siano “la loro gente”. Questa convinzione assume varie forme differenti, a seconda di ciò che le persone pensano della società e di come la immaginano: la situazione del mercato del lavoro nazionale come raffigurato dai sindacati e dai politici, l'idea che gli stranieri approfittino del “nostro” sistema assistenziale e di welfare duramente conquistato ecc. 6) In sintesi, la cittadinanza politica basata sulla nazionalità è sempre accompagnata dalla solidarietà sociale tra membri dello stesso gruppo.
Non è affatto facile razionalizzare tali criteri, e non dovrebbero venire chiamati in causa o strumentalizzati dai politici in tempi di crisi. Questo può essere solo un pio desiderio, ma esistono comunque alcune norme operative che dovrebbero valere:
• è difficile prendere le distanze da atteggiamenti e opinioni per agire senza una qualche autorizzazione politica che incoraggi ad abbattere i muri del contenimento sociale;
• se tale autorizzazione viene accordata, le rimanenti parti politiche hanno l’obbligo di predisporre una “zona di contenimento” per evitare aree di impunità;
• diversamente appare chiaro che:
o è estremamente difficile competere con i partiti xenofobi, in quanto la loro stessa comparsa tende a trascinare altri partiti su posizioni criptoxenofobe o addirittura apertamente xenofobe;
o una volta varcata questa linea, le confrontazioni democratiche si trasformano in plebisciti sulla democrazia.
5. Riconsiderare la cittadinanza. Realisticamente, l’immigrazione e la sua regolamentazione saranno difficilmente accettate senza riconsiderare il principio di 17
sovranità e, per associazione, quello di cittadinanza. Più restrittive divengono le norme dell’UE e minore è la possibilità di regolamentare l’immigrazione attraverso “carte verdi” o altri mezzi. La cittadinanza come legame ideale tra gli stati e i cittadini dell’Europa dovrebbe lasciare il posto alla residenza. Questo permetterebbe una varietà di situazioni, che a loro volta consentirebbero di gestire l’immigrazione in un modo molto più ragionevole, così che tutti i soggetti coinvolti si trovino in una condizione migliore: le società ospitanti potrebbero gestire i flussi migratori con una serie variabile di misure, gli immigrati sarebbero più tutelati nei confronti della legge e potrebbero venire tassati fino dall’inizio (permettendo loro di divenire partecipanti attivi allo sviluppo congiunto) e ci sarebbe minore incertezza nelle società ospitanti.
La certezza, nel senso di sentire che ogni cosa è al posto giusto, può essere raggiunta solo quando le autorità politiche dell’UE avranno un concetto secolare di cittadinanza. Se venisse stabilito un legame tra cittadinanza e residenza, la questione dell’immigrazione e della sua intrinseca pluralità dovrebbe essere presa sul serio. Determinare quale forma dovrebbe assumere questa cittadinanza ridefinita si presenta come un compito gravoso, ma il primo passo dovrebbe consistere nell’accettare tutti gli altri cittadini dell’UE come cittadini dell’Unione e quindi proseguire nell’accettare i cittadini di paesi terzi. Secondo Martiniello, l’Unione Europea “è allo stesso tempo in una situazione post-­‐migrazione. Vi sono milioni di immigrati che hanno messo radici qui e questa dinamica è destinata a continuare nel futuro9”. Martiniello vede i livelli di cittadinanza europea in questo ordine, secondo una gerarchia di diritti: • cittadini di uno Stato membro residenti nel paese di cui sono cittadini;
• cittadini di uno Stato membro residenti in un altro Stato membro dell’UE;
• “denizen” (cittadini di un paese terzo che risiedono legalmente in uno Stato membro dell’UE);
• “margizen” (cittadini di un paese terzo che risiedono irregolarmente in uno Stato membro dell’UE).
Il processo di riconoscimento ed equiparazione di questi diversi livelli di cittadinanza è estremamente difficile, in quanto ogni Stato membro desidera imporre il proprio modello sul resto dell'UE. Può essere realizzato solo su una base di “fatto compiuto” come risultato di misure parziali intraprese singolarmente dagli Stati membri o semplicemente riconoscendo il bisogno di immigrazione in Europa. Questa seconda opzione non è affatto ideale, ma se non altro è realistica e pragmatica. Ancora una volta, l’immigrazione può offrire la scusa che occorre per ripensare a questioni interne relative all’unificazione dell’Europa.
6. Immigrazione e pluralità interna. Ad intra, l’immigrazione serve a evidenziare che una pluralità culturale e di identità non nasce solo dall’insediamento di immigrati: tutti gli Stati membri che non hanno completamente nazionalizzato il loro territorio in una cultura omogenea comprendono delle minoranze etniche più o 9
Nota del Traduttore: citazione ritradotta dallo spagnolo a causa dell’indisponibilità del testo originale. 18
meno politicizzate che all’interno dei propri territori di riferimento cercano di attuare lo stesso piano che lo Stato membro ha attuato a livello di stato. Quando gli immigrati arrivano in tali circostanze, confluiscono insieme un piano a livello statale, un piano delle minoranze nazionali e le aspirazioni delle società di immigrati stesse, sebbene con diversi gradi di legittimità delle loro richieste. Lo Stato cercherà di monopolizzare le politiche sulla cittadinanza, dal momento che non intende permettere a nessuno di mettere in discussione il principio di sovranità, nella maggior parte dei casi indipendentemente dalla sua retorica pluralista10. Ovunque ne abbia il potere, cercherà di assumere il controllo della politica sull’immigrazione, che viene vista come una politica sull’identità, in quanto rientrante di diritto nella propria sfera di autorità. Infine, le società di immigrati rivendicheranno diritti multietnici per trovare un posto ad alcune delle loro differenze nelle nuove società ospitanti.
L’emergere di una pluralità di identità, cultura e religione, e le relative conseguenze politiche, è chiaramente visibile in un’epoca in cui il multiculturalismo è stato adottato come concetto da numerosi gruppi culturali, giustificato sul piano teorico e invocato dai politici. Non è ovviamente semplice attuare delle politiche multiculturali, molto più soggette a creare conflitti che non le politiche basate sull’omogeneizzazione, ma l’UE dovrebbe ragionevolmente tendere a ciò. Una politica di multiculturalismo dovrebbe comprendere vari aspetti legati all’immigrazione e deve definire quanto segue:
1. Dovrebbero esserci delle trattative per l’immigrazione preferenziale? Una politica multiculturale dovrebbe tenere conto del fatto che l’immigrazione indotta da uno stato non è sempre considerata accettabile o adeguata dalle minoranze nazionali presenti all’interno di tale stato. Tali minoranze dovrebbero pertanto essere in grado di intervenire nella legislazione sull’immigrazione a livello statale e comunitario così da riuscire ad attuare le proprie politiche di assorbimento culturale. 2. L’immigrazione andrebbe quindi gestita tenendo conto almeno dei livelli europei, statali e delle minoranze nazionali e stabilendo le aree di competenza decisionale di ognuno.
3. A quale tipo di integrazione (assimilazione) culturale e religiosa si dovrebbe puntare? È ragionevole promuovere a livello comunitario e a livelli più locali almeno la conoscenza della lingua della società ospitante e delimitare (sebbene all’inizio senza un giudizio prematuro su punti specifici) le presumibili differenze che possono legittimamente essere richieste dalle società di immigrati11.
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Le minoranze nazionali sono gruppi culturali con un certo grado di continuità storica, senso di appartenenza e volontà politica che aspirano a una qualche forma di autogoverno nei propri territori. 11
L’eminente filosofo politico Will Kymlicka propone due principi complementari per diverse società di immigrati: protezione esterna (tutti i gruppi hanno il diritto di sviluppare i propri processi di socializzazione delle generazioni future) e l’impossibilità di stabilire delle restrizioni interne (qualsiasi membro, se lo desidera, ha il diritto di abbandonare il proprio gruppo). In caso di conflitto, prevale il secondo principio. 19
4. Sulla scorta del modello del Quebec, è consigliabile attivare dei processi di ragionevole adeguamento a livello giudiziario e istituzionale e di consenso sociale come unico modo per assicurare la compatibilità dei principi di parità e non discriminazione. Non esistono soluzioni semplici nelle società complesse. Conclusione
In conclusione, occorre sottolineare che qualsiasi modo realistico di trattare i temi legati all’immigrazione deve comprendere un'analisi di numerosi elementi di ampia portata, quali il punto di vista del nazionalismo metodologico, che conduce alla prospettiva di considerare il futuro delle società basate sullo stato come culturalmente e socialmente omogeneo, l’integrazione sociale che deve necessariamente prodursi attraverso lavoro, sebbene il contesto occupazionale sia sempre più insicuro, e la sostituzione dell‘economicismo esistente con legami che fino dall’inizio vadano oltre una solidarietà basata sulle frontiere.
Attualmente le condizioni necessarie per una politica comune dell’UE sull’immigrazione non esistono. Tale politica è di per sé un obiettivo auspicabile: anche solo affrontarla sarebbe un segno che finalmente viene dedicata una seria attenzione alle sfide di cui l’immigrazione è al contempo un epifenomeno e un fattore generatore. Quali misure specifiche si dovrebbero esattamente intraprendere costituiscono materia per un’ampia discussione e un consenso graduale. La presente relazione cerca di porre degli obiettivi realistici; di conseguenza il primo passo proposto è quello di affrontare seriamente le carenze sul piano economico e sociale attualmente esistenti nell’UE. I sospetti che possono essere nutriti riguardo all’integrazione culturale delle popolazioni straniere o all’effetto che possono produrre sulla coesione culturale delle società ospitanti non dovrebbero essere usati come scusa per non affrontare i gravi problemi materiali e strutturali a cui l’UE si trova di fronte. In termini generali, le misure adottate dovrebbero cercare di provvedere a quanto segue:
1. analizzare i legami tra immigrazione, mercato del lavoro nell’UE e cambiamenti sociali all’interno della società europea; 2. eliminare gli ostacoli che impediscono la circolazione dei cittadini dell’UE per ragioni di lavoro all’interno dell’UE e definire dei criteri comuni per l’ammissione e l’accesso al mercato del lavoro degli immigrati di paesi terzi; 3. sostituire le politiche bilaterali a livello statale con un concetto congiunto a livello europeo che vada oltre i diversi e contrastanti interessi nazionali che impediscono l’effettuazione di una diagnosi realistica e condivisa; 4. promuovere un modello di immigrazione e inserimento delle popolazioni straniere basato sul reciproco arricchimento delle società europee e dei paesi di origine; 5. controllare i meccanismi che favoriscono l’immigrazione irregolare, armonizzare i diritti degli immigrati irregolari e creare delle politiche proattive 20
che non facciano ricorso a migranti vulnerabili; armonizzare le politiche in materia di asilo; 6. suddividere secondo una graduatoria e sostenere i diversi ambiti di autorità sulla base dell’esistenza di diversi stati, di minoranze subnazionali, di gruppi di immigrati e di criteri di efficacia ed efficienza; 7. in sintesi, assicurare le tre aree target delle politiche sull’integrazione: ridistribuzione dell’economia come strumento per la parità, riconoscimento come mezzo per raggiungere il rispetto per la diversità culturale e rappresentanza politica allo scopo di approdare a una cittadinanza europea basata sulla residenza. Naturalmente tutte queste misure possiedono una consistente componente normativa, ma un'ancora maggiore dose di realismo. Sono misure che possono condurre all’incertezza, ma sono fondate sul bisogno. 21
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