APPUNTI DELLE LEZIONI DI FILOSOFIA POLITICA

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CITTADINANZA CRITICA E FILOSOFIA PUBBLICA
INTRODUZIONE
Che cosa vuol dire filosofia? Ci sono tre momenti cruciali della filosofia della
politica. Che cosa facciamo quando “facciamo filosofia?” Useremo delle figure, la
prima di queste è Socrate. Al centro dell’Apologia di Socrate e del Critone c’è il
rapporto tra filosofia e politica o polis. Nessun processo come quello di Socrate, a
parte quello di Gesù, è impresso così fortemente nel pensiero occidentale. Di questi
processi noi disponiamo di resoconti di apostoli, quindi c’è una visione di parte.
Platone fa una drammaturgia della filosofia nei dialoghi platonici, nei suoi testi
interagiscono dei personaggi, i suoi testi sono delle commedie e Socrate è il
protagonista del teatro filosofico. Noi ci misuriamo con argomenti. Socrate non ha
lasciato niente di scritto, quindi egli vive in ciò che Platone dice.
Sfondo dell’Apologia di Socrate
Socrate viene portato davanti al tribunale con due accuse:
- la prima è un’accusa di empietà;
- la seconda è un’accusa di insegnamento che corrompe i giovani.
Queste accuse furono rese possibili da uno stato di animosità di alcuni personaggi.
Nel 399 a.C., anno del processo, ad Atene si è appena instaurata la democrazia. Atene
si sente debole e si chiude in se stessa. Gli accusatori di Socrate, Anito, Meleto e
Licone, sono di parte democratica, della fazione dei democratici.
Nell’Atene del periodo, i processi si celebrarono senza pubblico ministero,
ogni cittadino ateniese poteva portare un altro in processo, e dovevano far valere le
proprie ragioni. I tribunali sono giurie popolari, i loro componenti venivano
selezionati per sorteggio tra i volontari, a queste giurie potevano accedere i cittadini
(maschi) e le decisioni erano prese a scrutinio segreto e non per alzata di mano.
Socrate si aspettava di essere condannato ma non si aspettava di esserlo con così
pochi voti di scarto.
Apologia di Socrate e Critone
Nella Apologia e nel Critone si parla della relazione tra pratica filosofica e
maggioranze politiche. Socrate non appartiene a nessun partito in una città in cui
bisogna schierarsi perché fortemente faziosa. In questi due testi Socrate esamina cosa
lo unisce e cosa lo divide dai suoi cittadini. Si deve sapere essere estranei al luogo
che più si sente di appartenere.
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L’atteggiamento di Socrate oscilla tra appartenenza e distacco. Ci si chiede se sia
possibile una forma di vita che unisca e rispetti la filosofia politica. Queste due tesi
(appartenenza e distacco) ci mette in risalto un allentamento della filosofia dalla
politica, è un allontanamento radicale? Senza ritorno? Non ci sono risposte? Questo
segna, per alcuni, l’uscita della filosofia dalla politica e dalla città, dalla polis facendo
perdere ai cittadini la possibilità e l’occasione di rinnovarsi.
Filosofia (Socrate) ↔
↔ Città (Atene)
Se la città perde qualcosa perdendo la filosofia, anche la filosofia perde
qualcosa uscendo dalla città, è un rapporto di reciprocità. La città perde la filosofia,
cioè la capacità (e la possibilità) di porsi delle domande, di interrogarsi su se stessa,
di misurarsi criticamente. Nell’allontanamento della filosofia dalla città, che la
condanna di Socrate sigla, entrambe perdono qualcosa.
L’Apologia (che vuol dire difesa) è il testo del divorzio tra città e filosofia, esse non
si parlano, l’una non intende le ragioni dell’altra.
Socrate rifiuta due alternative:
- rimanere ad Atene senza filosofare;
- andare in esilio.
Se Socrate rifiuta tutto questo, significa che ritiene che la filosofia possa essere
praticata solo nella polis tra i cittadini di essa, fuori dalla città la filosofia diventerà
fase contemplativa e la politica senza filosofia diventerà gioco di forze contrapposte.
Per un verso la filosofia è una iniziazione ai misteri ma contemporaneamente essa è
discorso nella piazza (agorà). L’ambiguità della filosofia è esasperata dalla figura di
Socrate.
L’amore, l’eros per l’argomento vuol dire qualcosa di preciso: noi prendiamo
l’argomento e lo seguiamo fin dove ci porta, questo vuol dire che non possiamo
partire da tesi predefinite o preconfezionate. Questo è l’eros dell’argomento.
Una delle critiche più frequenti all’atteggiamento di Socrate verso Atene è questa: la
condanna di Socrate era giusta perché egli metteva in forse le certezze della città (tesi
di un libro di Stone, un americano).
Socrate rifiuta cariche pubbliche, rifiuta di parlare in Assemblea pubblica; egli
ha molti amici aristocratici e generalmente ha disprezzo per “i molti” (dal greco “oi
polloi”), per le maggioranze, per i sensi e luoghi comuni. Bisogna chiedersi:
a) il suo rifiuto di osservare delle forme convenzionali lo rendevano veramente
antipolitico cioè antipolis?
b) la sua critica radicale per la democrazia ateniese lo rendeva veramente
antidemocratico?
Socrate non accetta i dettami del potere costituito come standard di giustizia, però
nello stesso tempo non suggerisce un’alternativa. La visione socratica della politica è
sicuramente democratica, non solo nel senso che non doveva essere il demos (il
popolo) a governare ma nel senso che la filosofia di Socrate è democratica perché
ciascuno e chiunque (compresi i non ateniesi) deve essere in grado di imparare, di
accedere alla conoscenza necessaria per diventare un buon cittadino.
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Per democraticità socratica si deve intendere che ciascuno deve essere in grado di
raggiungere l’eccellenza se messo nelle condizioni per farlo e questo è una
democraticità più profonda.
Le teorie democratiche aristocratiche sostengono che soltanto una parte dei
cittadini è in possesso delle competenze e del carattere per governare. È necessaria la
continua verifica delle proprie conoscenze, potenzialmente chiunque può essere un
aristos, il progetto è quello di separare virtù aristocratiche dalla classe di
appartenenza, è un progetto ambizioso.
Socrate considerava la sua pratica filosofica come una pratica, un’attività di
servizio alla polis (più politica di così non potrebbe esserci); egli ritiene che la sua
attività sia ben più apprezzabile del servizio militare prestato nell’esercito ateniese
perché è in gioco un pericolo maggiore, più minaccioso di quello militare: cioè, il
pericolo che gli ateniesi vivano sotto gli standard della polis, sotto le potenzialità
della città causando una perdita.
Socrate fa confusione, volutamente e in senso positivo, riguardo tutti i confini che gli
ateniesi considerano assodati e certi, tutto ciò che il senso comune considera
assodato. Socrate parla in qualsiasi luogo tranne nei luoghi convenzionali e non ci
sono orari. Socrate fa volutamente confusione relativamente alle demarcazioni
accettate dalla città; egli sollecita una serie di domande:
→ qual è il significato della filosofia e della politica?
→ chi si può impegnare nella discussione filosofica nella politica?
La risposta alla seconda domanda è chiunque sappia stare nel gioco delle domande e
delle risposte (la forma dialogica).
Il dialogo è una particolarità del modo di esprimersi di Platone. Perché questa
modalità è interessante per la filosofia e per la politica? Cosa voleva dire Socrate
utilizzando il dialogo come metro? Attraverso lo schema dialogico Socrate sfida
Atene sulla possibilità di una diversa modalità di decisione pubblica, un paradigma
come scambio politico. Socrate, quindi, sfida la città ad essere all’altezza. Quando si
dice che Socrate sfida la città come paradigma della decisione pubblica significa che
essendoci l’amore per l’argomento, egli sfida la polis ad uscire dalle parti, dalle
fazioni, dalla maggioranza e invita a salire sul tram dell’argomento e andare dove
l’argomento ci porta. Però, il gusto di fare domande può portare dove non si vuole,
questo è il rischio.
Socrate tende a sospendere i confini delle convinzioni degli ateniesi, in
particolare i confini degli spazi pubblici convenzionali e degli spazi privati, questo
implica che la pratica filosofica coincide con la produzione di spazi pubblici non
convenzionali. Bisogna attivare spazi pubblici in quei luoghi dove gli spazi pubblici
non sono convenzionali: un banchetto di nozze è uno spazio pubblico non
convenzionale perché non ci si aspetta il rispetto delle regole del dialogo, della
comunicazione retorica.
La pratica filosofica socratica cerca di attivare spazi pubblici non convenzionali dove
filosofare, questo dà fastidio ai nemici di Socrate ed è fastidioso soprattutto per quei
ateniesi che non sono più all’altezza degli standard fondativi della loro città. Perché
Socrate fa tutto questo? Perché egli vuole ridare significato all’essere concittadini
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(cittadini insieme) di Atene e cerca di sviluppare questo discorso lungo una linea così
rappresentata:
a) quelli che siamo stati → b) quelli che siamo → c) quelli che dobbiamo essere
Il punto a) “quelli che siamo stati”, indica quali sono i criteri e gli standard a
cui Atene si ispirò per far nascere la sua gloria, indica le premesse e le promesse che
sono a fondamenta dell’origine della polis ateniese.
È una linea classica perché è presente anche nell’Orazione funebre di Pericle e nel
discorso del Gettysburg di Lincoln (discorso che chiude la carneficina della guerra
civile). In questi tre discorsi (Apologia, Orazione funebre e Gettysburg) è presente, è
all’opera una linea, una catena simile che è quella di cui sopra. Ad esempio Lincoln
sostiene che i vivi devono continuare quello che non è stato concluso dai morti, da
coloro che non ci sono più. Socrate sostiene che gli ateniesi di oggi devono provare di
essere all’altezza dei loro padri fondatori, degli standard di Atene e che gli odierni
invece non sono più in grado di esserlo.
L’imputato rivolge verso la giuria le accuse che gli sono state rivolte, tra cui
quella di empietà (cioè mettere in discussione gli dei creando confusione) che Socrate
respinge dicendo che sono gli accusatori e la giuria ad essersi macchiati di tale reato,
che sono loro ad essere empi degli ideali di Atene. La giuria tradisce gli ideali nel
momento stesso in cui pretende fedeltà acritica assoluta non lasciando spazio alla
discussione pubblica. Gli oppositori di Socrate vogliono diffondere un
comportamento di obbedienza passiva, questo va contro la vera cittadinanza, solo un
patriottismo (una appartenenza, una cittadinanza) critico è degno di Atene. Dunque,
sono gli accusatori di Socrate e non lui che stanno mettendo in forse le fondamenta
della democrazia ateniese, in particolare processandolo.
Il progetto di Socrate è molto più radicale di quello di Pericle perché va oltre
alle premesse e alle promesse fondative di Atene, egli vuole anche costringere i
cittadini come di quegli ideali sia necessario approntare una drastica revisione.
Socrate, durante il processo, evoca una figura cruciale dell’epoca eroica, quella di
Achille. Achille il guerriero è l’immagine centrale dell’Eliade, è l’immagine che
attira di più i cittadini perché è la più nota, famosa e suggestiva per loro. Il recupero
di Achille vuol dire “areté”, due cose: originariamente coraggio, derivativamente
virtù: è la virtù cruciale del guerriero, il coraggio di Achille è il coraggio di chi non
arretra mai, di chi non teme la morte, è il coraggio di chi è forte della sua posizione.
Socrate usa la parola “areté” per connotare l’attività filosofica, la stessa parola viene
spostata da Socrate all’attività filosofica e ai rischi che questa comporta. In sostanza
potremmo dire che Socrate tende a proporre l’attività filosofica come quello che
potremmo chiamare «eroismo moralizzato»:
- perché eroismo? Perché di eroismo trattasi nello stesso senso di quello di
Achille, cioè esporsi e non temere di farlo, non temere di morire, cercare
l’eccellenza nel confronto con l’altro;
- perché moralizzato? Perché, a differenza di Achille, Socrate dichiara di patire
in giustizia piuttosto di farla, subisce senza reagire.
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Nel rifiuto di evadere, di allontanarsi sano e salvo vediamo un’idea eroica ma anche
la disponibilità ad accettare i costi di questa esposizione.
In che senso la filosofia e la politica sono due attività analoghe per Socrate?
La filosofia e la politica per Socrate si assomigliano sotto tre aspetti:
 1° aspetto: sia la filosofia sia la politica sono attività che mettono in luce la
nostra parzialità, la nostra incompletezza, il nostro bisogno della presenza di
altri; sia per fare filosofia sia per fare politica noi non possiamo essere soli,
abbiamo bisogno di altri per colmare la nostra incompletezza.
 2° aspetto: sia la filosofia sia la politica hanno bisogno che ci sia una comunità
di ascolto, che ci siano parole condivise, che si usino gli stessi termini per
attribuire a loro lo stesso significato; filosofia e politica hanno bisogno della
condivisione di un vocabolario comune.
 3° aspetto: sia la filosofia sia la politica hanno bisogno di una pluralità di voci,
per pluralità non si intende pluralismo, l’idea di pluralità è più radicale perché
implica che ciascuno di noi è portatore di un punto di vista singolare, separato
e distinto, ciascuno di noi è portatore di una visione particolare e diversa sul
mondo. Senza pluralità non c’è né filosofia né politica. Questa della pluralità è
un’idea destabilizzante, ad esempio perché può portare a non governare.
Sia i democratici sia gli aristocratici tendevano a ridurre la pluralità perché dava
fastidio, tutto doveva essere pre-confezionato, anche le idee.
Le analogie filosofia-politica erano usate contro i tiranni, in particolare contro la
tirannia delle maggioranze, dei sensi comuni. Le voci che non possono essere
contenute in schemi prefabbricati danno fastidio.
APOLOGIA DI SOCRATE
Platone aveva assistito al processo di Socrate, ma l’Apologia non è un
resoconto del processo, piuttosto quella di Platone è una ricostruzione o costruzione
filosofica. Platone parla in due sensi: 1° come discepolo di Socrate; 2° come filosofo.
La sua testimonianza, quindi, non è e non vuole essere neutrale, Platone è dalla parte
di Socrate e della filosofia parlando a loro favore.
Come puro riferimento, l’Apologia si può dividere in tre parti:
a
 1 parte: Socrate pronuncia la sua autodifesa;
a
 2 parte: Socrate commenta la sua condanna;
a
 3 parte: Socrate prende congedo dai suoi concittadini.
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PRIMA PARTE: SOCRATE PRONUNCIA LA SUA AUTODIFESA
La prima parte, considerata la vera e propria Apologia, viene pronunciata da
Socrate dopo che gli accusatori hanno esposto le loro ragioni davanti al Tribunale
popolare.
I. – Ufficio dell’Oratore è dire le verità. Anzitutto il problema che Socrate ha è
il presentarsi e il ridefinirsi per cancellare l’immagine che i suoi accusatori hanno
creato agli occhi dei cittadini, sono stati talmente bravi che egli stesso si è
dimenticato di sapere chi è; i cittadini così sono diventati pregiudizievoli nei suoi
confronti:
«Io non so proprio, o Ateniesi, quale effetto abbiano prodotto su di voi i miei accusatori.
Quanto a me, mentre li ascoltavo, divenivo quasi dimentico di me stesso: tale era il fascino della
loro eloquenza! […] Essi dissero che dovevate stare bene in guardia per non lasciarvi trarre in
inganno da me, essendo io un astuto parlatore».
Socrate deve così combattere l’immagine ingannevole che hanno creato attorno a lui
e prevenire l’accusa che quello che sta dicendo è l’ennesima prova di essere un abile,
un astuto oratore.
Analizzando l’apertura dell’Apologia possiamo distinguere due livelli:
a) 1° livello: l’aspetto centrale dell’apertura ha a che fare con il linguaggio, in
particolare con il modo di dire le cose:
«Costoro dunque, ed amo ripeterlo ancora, poco o nulla hanno detto di vero; ma da me non
udrete che la verità. E per Giove, o Ateniesi, io non parlerò a voi con linguaggio ornato intessuto di
frasi e di parole belle ed eleganti, come sono usi fare costoro. Io vi parlerò invece così,
semplicemente, come le espressioni si presenteranno a me, ma improntate tutte, ne sono certo, a
giustizia: non aspettatevi dunque altro da me. […] Io mi esprimo con quelle stesse parole che sono
solito usare sia nella pubblica piazza […] dove molti di voi mi hanno potuto ascoltare, sia altrove».
b) 2° livello: sempre riguardo al linguaggio, al modo di esprimersi questo
secondo livello (collegato direttamente al primo) ha a che fare con una polemica
implicita che Socrate mette in atto contro i sofisti (erano dei filosofi che ritenevano di
insegnare a pagamento le tecniche della buona argomentazione della buona retorica).
In sostanza, Socrate combatte l’idea che sia sufficiente avere una buona
retorica per dire cose giuste. Socrate, inoltre, tende a sostenere la diversità tra
l’argomentazione strumentale (oratoria formale) tendente a prevalere necessariamente
sull’altro indifferentemente dalla verità dei contenuti (cultura sofistica) e
l’argomentazione (oratoria filosofica), rivolta alla ricerca della verità, che pone
l’attenzione sulla concretezza dei fatti e sul rigore logico dei concetti:
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«Vi prego dunque, e mi pare bene a ragione, che lasciate che io mi esprima alla mia
maniera, buona o cattiva che sia. La sola cosa cui dovete badare, e badare molto scrupolosamente,
è di vedere se io dica cose giuste o no. Questo, infatti, è l’ufficio proprio del giudice; quello
dell’oratore è di dire la verità».
Nell’Apologia (come in generale nei dialoghi socratici) sono contrapposti
l’atteggiamento di Socrate e la cultura sofistica. Quest’ultima viene presentata come
un falso sapere, come una tecnica dell’inganno: la retorica valorizza ed esalta gli
effetti persuasivi che la parola sa produrre, e insegna una virtù politica che consiste
nel saper dominare con la forza della parola, con l’arte dei lunghi discorsi, le
assemblee e i tribunali della città. A questa arte si contrappone l’esercizio socratico
del dialogo, in cui il gioco delle domande e delle risposte sollecita ogni interlocutore
a partecipare attivamente all’elaborazione della verità; una verità che nasce dal
sincero confrontarsi dei dialoganti, dal loro scavare nella propria anima alla ricerca di
ciò in cui consiste il sommo bene per il cittadino e per lo stato.
Socrate, nonostante questo, viene accusato anche di sofismo (che è la tecnica che
permette di sopraffare l’altro indipendentemente dall’avere ragione, utilizzando una
buona retorica).
Il modo in cui si parla è importante per dividere la retorica sofistica dal
discorso socratico. La distinzione tra dire cose opportune e dire la verità è una
distinzione etica, nel momento in cui l’unica cosa è di far valere il nostro argomento
consideriamo il nostro avversario come uno da battere.
«Pensate che è la prima volta che mi presento davanti a un tribunale, ed ho ben
settant’anni; sono dunque inesperto del linguaggio forense come un forestiero, voi certo mi
scusereste se parlassi con l’accento e lo stile cui sono stato educato».
Socrate si dichiara come qualcuno che non parla il linguaggio dei suoi accusatori, del
tribunale, questo che significato ha? Perché il filosofo è un outsider? Perché il
filosofo è qualcuno che ci costringe ad avere uno sguardo distaccato sulle nostre
pratiche familiari, a guardare cosa ci è più familiare con occhi da straniero, come se
venissimo da fuori. C’è un altro caso simile le “Lettere persiane”. Perché questo?
Perché noi interpretiamo come dati quelli che in realtà sono esiti, noi siamo immersi
nella nostra realtà e non vediamo alcune cose.
Socrate pone la questione del “chi sono io?” e del “chi siete voi?” cioè pone la
questione di quale sia la pratica filosofica e di quale sia la pratica politica e in
particolare del processo che si sta svolgendo.
Gli accusatori sono incapaci e corrotti perché si sono allontanati dalle regole a cui
dovrebbero ispirarsi e non riescono nemmeno a correggere la loro condotta, il loro
comportamento. Socrate non vuole portare ogni ateniese a diventare filosofo ma
vuole rinnovare i cittadini portando la loro attenzione su quanto c’è di problematico
nelle pratiche convenzionali nell’agire politico. Socrate ci vuole dire che sotto
processo non è lui ma la democrazia ateniese, mettendo sotto processo Socrate, Atene
mette sotto processo se stessa.
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Socrate attiva nel tribunale uno spazio pubblico che prima non c’era, sta
attivando uno spazio di discorso, sta cercando di richiamare l’attenzione e
destabilizzare la giuria dicendo ad essa quello che non si aspetta, crea nuovi standard
di ascolto e discussione.
Socrate simula la sua ignoranza sui meccanismi giuridici in realtà conosce bene il
parlare forense e lo conosce talmente bene che smonta la macchina tradizionale e la
ricompone come vuole, infatti Socrate sta processando i suoi accusatori usando una
tecnica discorsiva tradizionale: è un modo per Socrate di accusare gli ateniesi di non
essere all’altezza.
Da un punto di vista formale Socrate sa usare un discorso giudiziario ma non lo vuole
utilizzare nei canali convenzionali, vuole liberare il campo dall’idea che gli
ascoltatori si sono fatti di lui, cioè sgomberare il campo da trucchi retorici. Socrate
vuole fare del processo un’arte del mimare e una parodia. Tutto questo non ha degli
esiti del tutto innocui, questo ci dice che Socrate potrebbe cavarsela e non essere
condannato a morte ma non vuole, sarebbe in grado di usare arti retoriche di
comunicazione in maniera migliore dei suoi accusatori ma non vuole perché pensa di
utilizzare il processo come spazio in cui mostrare quanto Atene si sia allontanata
dalla sua capacità di valutare se stessa ed è disposto a morire per vedere quanto si
sono allontanati da là, vuole vedere se lo condanneranno e questo sarà l’indice
dell’allontanamento della città dagli ideali ateniesi.
Socrate preferisce perdere il processo perché usa il processo come spazio per
accertare le sue relazioni, i suoi rapporti con Atene, con la città. Socrate sarebbe
capace di difendersi con le tecniche appropriate ma non vuole.
II. – Due specie di accusatori: gli antichi e i recenti. Piano della difesa.
Socrate per ridefinire la sua immagine definisce il suo modo di fare filosofia, lo fa
contro vecchi e nuovi accusatori, entrambi hanno costruito una immagine falsa.
Mentre per l’ultima categoria, gli accusatori recenti, ci sono persone in carne ed ossa,
per i primi (gli antichi accusatori) Socrate dovrà combattere contro le ombre, perché
questi “non hanno volto” ma solo voce. Le vecchie accusa dicevano che Socrate era
un saggio che speculava in modo improprio sulle cose divine, veniva accusato di
possedere un’abile retorica, era un manipolatore, insistono sull’accusa di empietà:
Socrate avrebbe calpestato ciò che la città considera sacro. Socrate, durante il
processo, piuttosto di limitare gli accusatori li estende con quelli del passato, con i
vecchi accusatori. Perché questa strategia di estensione, obiettivamente
controproducente per ottenere una vittoria nel processo? Perché egli vuole liquidare il
conto tra città e filosofia, vuole dimostrare che quello dei politicanti (e non politici)
verso i filosofi è un cliché, è un pregiudizio, pregiudizio ormai impresso e stampato
nella mente dei cittadini.
Socrate definisce la sua posizione di filosofo, parte innanzitutto da cosa non è:
1°) non è un cosmologo (cioè persona che si occupa di cose divine, di astri → III.
– Socrate non si è mai occupato di ricerche naturalistiche, pag. 8);
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IV. – Socrate non conosce, come i sofisti, l’arte di “educare” gli uomini.
2°) non è un sofista (i sofisti sono tecnici dell’argomentazione convincente, sono
insegnanti di retorica che si fanno pagare per insegnare).
Socrate non è un sofista perché il suo insegnamento è gratuito, egli dichiara che il suo
sapere non è in vendita e non è commerciabile. Il sapere deve essere gratuito.
Il fatto di commercializzare il sapere testimonia che la città si è allontanata dai suoi
grandi ideali e non è in grado di trasferire le conoscenze in modo gratuito. Il sapere
per Socrate deve essere trasmesso gratuitamente e pubblicamente in tutti i luoghi
possibili e immaginabili. Socrate, dunque, nega non solo di aver mai preso denaro,
ma di aver mai istruito alcuno.
Perché l’insegnamento di Socrate si presta ad essere frainteso e attaccato?
V. – La sapienza di Socrate rivelata dall’Oracolo di Delfo. Che tipo di
conoscenza e sapere è quello di Socrate? Si tratta di una saggezza che riguarda la
condizione umana e dunque Socrate guarda ai mortali e non agli Dei, non agli
immortali, si rivolge invece agli uomini e alle donne. La sua filosofia parla di uomini
non di Dei. La sua sapienza è una sapienza che dà coscienza di sé piuttosto che
conoscenza di cose: la sapienza che Socrate proclama non è la sapienza gonfia di
presunzione, ma la sapienza edificata nell’umiltà, che si genera dalla coscienza dei
limiti posti all’uomo. Ed è da qui che nasce l’odio per Socrate perché smascherò
coloro che si reputavano sapienti ma che sapienti non erano. Chi ha ispirato questa
saggezza, questa sapienza in Socrate?
«Ad attribuirmi una tale sapienza non sono io, ma uno che per voi è degno di fede: il Dio di
Delfo. Voi conoscevate certamente Cherefonte. […] Ebbene, costui, essendosi recato una volta a
Delfo, interrogò il Dio (l’Oracolo) per sapere se vi fosse alcuno più sapiente di me. La Pitia
(l’Oracolo) rispose che nessuno era più sapiente. Ho raccontato tutto questo perché possiate
osservare come sia nata la calunnia».
Socrate di fronte alle parole dell’Oracolo non si comporta come un credente, egli si
predispone semmai di cercare di confutare il responso dell’Oracolo, Socrate ha, verso
questo responso di Apollo (che personifica la Sapienza), un atteggiamento di rifiuto,
inizia così a girare per la città per smentire ciò che l’Oracolo ha sostenuto perché egli
non crede affatto di essere l’uomo più sapiente della terra, cercando di capire il senso
delle parole dell’Oracolo.
VI, VII, VIII. Socrate indaga presso i politici, i poeti, gli artisti il senso
dell’Oracolo. Socrate, quindi, procede andando in giro ad esaminare tre categorie di
persone che passano per sapienti: i politici, i poeti, gli artisti. Presso ogni categoria
egli indaga sulle loro conoscenze e sull’opinione che hanno della loro saggezza.
 Politici: «[…] mi parve che quest’uomo apparisse sapiente a molti, e soprattutto a se
stesso, ma che in realtà non lo era affatto; e cercai anche di dimostrarglielo. Naturalmente
venni in odio a lui e a molti altri che erano con lui presenti. Mentre mi allontanavo pensavo
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così fra me: «Sono io più sapiente di costui, giacché nessuno di noi due sa nulla di buono; ma
costui crede di sapere mentre non sa; io almeno non so, ma non credo di sapere. Ed è proprio
per questa piccola differenza che io sembro di essere più sapiente, perché non credo di
sapere quello che non so».».
 Poeti: «[…] pigliando in mano i loro poemi chiedevo loro che me li spiegassero: si
verificava che intorno agli argomenti da loro trattati ne ragionavano molto meglio quelli che
erano presenti che non gli stessi autori. Dovetti quindi concludere che i poeti non per
sapienza poetavano, ma per disposizione naturale, quasi da Dio ispirati, come gli indovini e i
profeti, i quali dicono molte cose belle, ma non sanno nulla di ciò che dicono. E mi dovetti
accorgere anche che essi, sentendosi dotati di talento, finivano col reputarsi sapienti anche in
altre cose senza che lo fossero affatto».
Per Socrate la poesia non appartiene alla vita meditativa della mente, non è ricerca
sistematica della verità, non impegno e responsabilità morale. Perciò Socrate la
condanna.
 Artisti: «[…] anche i valenti artisti mi parve che cadessero nello stesso errore dei poeti,
poiché ciascuno di loro, per il fatto che eccelleva nella sua arte, si reputava sapiente in cose
di maggior momento (affari politici); e questa loro stoltezza finiva con l’oscurare quella loro
sapienza».
La conclusione di questa ricognizione presso queste categorie di persone è questa: gli
uomini sono ignoranti in proporzione inversa alla loro reputazione e al loro senso di
importanza. Più uno pretende di sapere più dichiara la sua ignoranza. Gli uomini sono
tanto più saggi quanto più dichiarano di essere ignoranti.
VI. – Il vero senso dell’oracolo. Per giustificare l’Oracolo Socrate iniziò ad
interrogare se stesso. Si può sostenere che il senso dell’Oracolo sta nel fatto che
Socrate è chiamato da Apollo a dimostrare i limiti della saggezza umana, come
mortali non possiamo conoscere tutto, come mortali il nostro sapere sarà sempre
parziale.
«Ogni qual volta ho mostrato l’ignoranza altrui, si è voluto credere che sapiente mi
reputassi io. No, Ateniesi, sapiente è solo Dio che per mezzo di quell’oracolo ci ha voluto dire che
la sapienza umana vale poco o nulla. Egli ha voluto dire: «O uomini, sapientissimo fra di voi è
colui che, come Socrate, sa che la propria sapienza è nulla».
Da questo pellegrinare in giro per la città per indagare, per ricerca la verità, esce la
pratica filosofica di Socrate, in questo pellegrinare Socrate, in qualsiasi luogo
avvenga, esibisce l’idea cruciale: l’idea dialogica della filosofia con la politica, la
filosofia va a braccetto con la politica.
Perché non si può fare filosofia da soli? Perché la filosofia ha bisogno di una
pluralità di visioni, di punti di vista; perché la filosofia, a suo avviso, non può
coincidere con la presentazione di tesi preconfezionate; perché la filosofia non può
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essere chiusa in teoremi, in schemi. La filosofia è domandare e domandarsi,
dialogando con gli altri noi di fatto riconosciamo la nostra ignoranza, riconosciamo i
limiti della nostra conoscenza e ci predisponiamo a ricevere risposte che però non
saranno definitive ma saranno ulteriormente sottoposte a confutazione. Filosofare per
Socrate è porsi delle domande e cercare le risposte.
Proprio perché la filosofia ha bisogno degli altri, Socrate ritiene che la filosofia sia
un’impresa umana, sia un modo con cui diamo un senso alla nostra permanenza nel
mondo, diamo un senso a noi stessi. Se è così, noi capiamo perché la filosofia nasca
come filosofia politica con Socrate, quella pratica di cui definisce i contorni, così è
immediatamente filosofia politica mondana che vive dentro la polis, nelle vie e nelle
piazze della polis.
Quando Socrate dice che lui è al servizio di Dio significa che la filosofia è un
dono che Apollo ha fatto ad Atene: ragionare insieme sulle proprie pratiche di vita.
La reazione di molti ateniesi, però, è diversa; essi pensano che la filosofia non sia al
servizio della polis e, anzi, se si immischia delle cose politiche, delle cose pubbliche
essa diventa una piaga che fa nascere un pericolo, che destabilizza la democrazia,
mentre per Socrate la filosofia è politica o non è filosofia. Per i suoi accusatori la
filosofia politica è un ossimoro (cioè mettere insieme due termini contrapposti e
inconciliabili). Se la filosofia è politica vuol dire che la città sta mettendo in dubbio i
valori della città. Questo potrebbe spiegare perché molti hanno in antipatia Socrate.
X. – L’odio contro Socrate si accresce perché i suoi discepoli lo imitano nella
ricerca. Certi ateniesi sono preoccupati del fatto che molti giovani seguano Socrate,
in particolare i figli dei più ricchi della città. Questi giovani imitano il maestro
andando in giro a smascherare i falsi sapienti.
«I giovani che s’accompagnano a me spontaneamente si compiacciono di ascoltare gli
uomini da me esaminati, e a loro volta, imitando me, si provano anch’essi ad esaminare altri, e ne
trovano molti che credono di sapere ma non sanno. Avviene allora che questi esaminati se la
pigliano con me anziché con se stessi, e vanno dicendo che v’è un certo Socrate che corrompe i
giovani. E se qualcuno domanda che cosa egli fa e che cosa insegna per corrompere i giovani,
allora, per non sembrare impacciati, dicono quel che si è soliti dire contro tutti i filosofi (= contro
chi ama il sapere): che egli insegna le segrete cose del cielo e della terra, insegna a non credere
agli Dei e a fare diritto il torto».
Qui Socrate trasmette uno stile, non dei contenuti, trasmette una postura, questo stile
diffidente, questa postura che vuole smontare i capisaldi è quello che dà più fastidio.
Socrate spiega questo fastidio con l’anti-intellettualismo dei politicanti.
XI. – Contro i nuovi accusatori. Socrate finita la sua difesa contro gli antichi
accusatori inizia la sua difesa nei confronti di quelli recenti e subito vuole chiamare
in causa Meleto (che è quello che si è esposto di più) per confrontarsi come si
confronta con chiunque altro. L’accusa nei confronti di Socrate suona così: «Socrate
è colpevole di corrompere i giovani, di non credere agli Dei ai quali crede la città,
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ma in nuove divinità demoniache». Come filosofi questa accusa va sottoposta ad
analisi e verifica.
XII. – Meleto non sa che cosa sia educazione dei giovani. Dal confronto che
Socrate ha con Meleto emerge quanto segue. Meleto si dimostra scarso nel confronto
perché procede con una tesi predeterminata, preconfezionata che non è capace di
difendere e argomentare. Quello che emerge è che Meleto accusa Socrate di essere
l’unico responsabile in tutta Atene della corruzione dei giovani che invece sarebbero
tutelati dalle istituzioni, dalle leggi, dai giudici e dagli altri cittadini secondo Meleto.
«S.: Allora tutti gli Ateniesi, a quanto pare, sono capaci di rendere migliori i giovani,
eccetto me. Solo io li corrompo. È questo che dici? M.: Esattamente. S.: Che sciagurato uomo sono
io per te! Penso che possiamo dire altrettanto dei cavalli: tutti li migliorano e uno solo li guasta».
Socrate fa riferimento ai cavalli. Come spiegare questo riferimento ai cavalli?
Addestrare i cavalli è come insegnare ai giovani perché? Perché bisogna mettere in
campo un’arte che solo pochi hanno, in Atene Socrate è l’unico che si pone verso i
giovani come un maestro, con un modo particolare di fare le cose.
È con l’arte di domandare e domandarsi che Socrate si espone all’accusa, Socrate non
costringe ma asseconda l’allievo e lui lo segue. È l’unico maestro e quindi è proprio
per questo che rischia, Socrate non dice cosa il giovane deve investigare (questo lo
decide il giovane stesso) ma come investigare, Socrate dà forma e basta, non dà
contenuti. Socrate insegna come porsi le domande e non quali domande fare. Non
sono forse i giovani ateniesi già corrotti da una città che non è più come quella di un
tempo che fu? O non è forse la decadenza della città a corrompere con i sofisti che
vendono le tecniche di retorica? Se i giovani sono già corrotti allora Socrate può solo
migliorali, ed è l’unico saggio mentre quelli che sembrano saggi sono i veri
corruttori. Perché Socrate non può corrompere deliberatamente qualcuno? Perché
corrompendo qualcuno con cui si convive si corromperebbe se stesso: tutto quello
che migliora la qualità della vita pubblica migliora noi stessi, tutto ciò che la peggiora
danneggia noi stessi, la nostra vita. Socrate sostiene nella sua difesa che se ha
corrotto qualcuno lo ha fatto involontariamente.
XV. – L’accusa di Meleto è una palese contraddizione. La seconda parte
dell’accusa-confronto con Meleto è quella che riguarda il modo con cui Socrate
corrompe i giovani: questo avviene diffondendo incredulità negli Dei della polis e
credenza nei demoni, ma Socrate smentisce inconfutabilmente tale accusa.
«S.: Ma se credo in cose demoniache, è ben necessario che creda nei demoni; non ti pare?
E i demoni non sono Dei o figli di Dei? Si o no? M.: Si, certamente. S.: Allora se, come tu affermi,
io credo nei demoni, e i demoni sono Dei, ecco che tu proponi un enimma per prenderti gioco di
noi. Infatti, tu prima affermi che io non credo negli Dei, poi invece che credo negli Dei dal
momento che credo nei demoni. E se poi i demoni sono figli spurii di Dei, partoriti da ninfe o da
altre che siano, chi oserebbe affermare che ci siano figli di Dei, e Dei no?».
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Cosa fa Socrate? Egli cerca di esplicitare la contraddizione implicita nell’accusa di
Meleto: Socrate ha buon gioco nello smentire che non credere negli Dei significhi
essere ateo, ma Socrate lascia perdere questo punto perché si rende conto che tutte le
sue proteste sono inutili, quello che lo condannerà non sono delle tematiche precise,
delle prove certe ma solo i pregiudizi verso di lui.
«E voi sapete bene, per averlo io dianzi ricordato, quanto odio ed inimicizia tale accusa mi
ha procurato. E quest’odio mi perderà, se pur mi potrà perdere; non certo Meleto o Anito, ma la
calunnia e la malvagità dei molti, che hanno già perduto, e perderanno ancora, altri valenti
uomini; né sarò certo io l’ultimo».
Socrate valuta con pessimismo la possibilità di persuadere con buoni argomenti la
giuria perché vittima di un pregiudizio, di un risentimento dei molti (gli oi polloi) nei
suoi confronti: «la verità è che io mi attirerò l’odio della moltitudine». Socrate
afferma che non sarà l’ultimo a morire vittima di questo risentimento.
Implicazioni di questa prima parte della difesa
XVII – Socrate non abbandonerà mai la sua missione. Socrate sostiene che
essendo stato Apollo ad attivare in lui l’indagine razionale sulla città (e questo deve
essere considerato come un dono che Apollo ha voluto fare alla città), smettere di
filosofare significherebbe venire meno al compito che Dio gli ha assegnato.
«Ed ora che Dio mi ha assegnato un posto di combattimento che è quello di vivere
filosofando, esaminando me e gli altri, sarebbe veramente cosa grave se io, per paura della morte o
d’altro, disertassi il campo. Allora sì che mi si dovrebbe tradurre davanti ai giudici per non avere
creduto negli Dei, disubbidendo all’oracolo, temendo la morte e reputandomi sapiente senza
esserlo.»
Il compito, il posto che gli è stato assegnato non lo può rifiutare, rifiutare la filosofia
significherebbe per Socrate essere empio, cioè venire meno al comando che Dio gli
ha dato.
«Così io continuerò a comportarmi con chiunque mi avvenga di incontrarmi, giovane o
vecchio, cittadino o forestiero, ma più con voi miei concittadini che mi siete più vicini per nascita.
Giacché, seppiatelo bene, è questo che mi ha comandato Dio, e credo che nessun bene maggiore
abbia la vostra città che questo mio zelo a servire Dio, sollecitando voi, giovani e vecchi, a non
prendervi cura né del corpo né delle ricchezze più che dell’anima perché divenga quanto migliore
possibile, giacché non dalla ricchezza deriva la virtù, ma dalla virtù la ricchezza e ogni altro bene
ai cittadini e alla città. O Ateniesi: state pur certi che io non muterò la mia condotta.
Per Socrate rinunciare alla filosofia significa essere colpevoli. Questo è un
rovesciamento, da parte di Socrate, della accusa in autodifesa.
XVIII – È interesse degli Ateniesi risparmiare Socrate. Perché la filosofia di
Socrate si pone come servizio, come patriottismo? Perché Socrate va in giro a
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mostrare come le istituzioni di Atene non siano all’altezza dei vecchi gloriosi ideali:
se Atene bandisce o uccide Socrate bandirà e ucciderà se stessa più che Socrate.
«Sappiate dunque che se condannate a morte me, che così vi parlo per il vostro bene, più
che a me recherete danno a voi stessi. O Ateniesi, io non intendo difendermi per me stesso, ma per
voi, perché, condannandomi, non abbiate a peccare contro Dio, disprezzando il dono che Egli vi ha
mandato. Questo è infatti l’ufficio a cui Dio mi ha destinato nella città, perché, standovi addosso
tutto il giorno, abbia a stimolarvi, ad esortarvi, a correggervi».
Qui vediamo che Socrate usa delle metafore per rovesciare l’accusa, in particolare la
metafora del tafano o del moscone: il tafano (o il moscone) quando vola intorno a
qualcuno dà fastidio per il suo ronzio, così come Socrate dà fastidio alla città per il
suo filosofare e dà fastidio perché richiama agli standard di eccellenza a cui i cittadini
dovrebbero ispirarsi, l’essere fastidioso è il compito di Socrate. Liberandosi del
moscone (di Socrate) la città dimostra che essa è corrotta, che ha perso la via maestra
dei valori; accettando il moscone la città testimonia di essere all’altezza delle sue
premesse e promesse.
Socrate cita il suo discorso di autodifesa sapendo già che sarà condannato. Egli
pensa che gli ateniesi vogliano liberarsi di lui perché egli è un distruttore di certezze
perché mette in questione i confini convenzionali dello spazio pubblico - spazio
privato, perché non parla alle assemblee ma ad uno ad uno, ad ogni singola persona
dove capita, non accetta spazi convenzionali, la sua pratica filosofica non è definibile
come pubblica o privata ma è entrambe le cose.
XIX – Perché Socrate si è astenuto dal partecipare alla vita politica.
«Una cosa può sembrarvi strana, ed è che io mi affanni tanto a dare consigli in privato e
non osi invece pubblicamente, in cospetto del popolo, dare consigli alla città».
Socrate rifiuta di essere politico nei modi previsti convenzionalmente per tre ragioni:
 1a ragione: Socrate è motivato da Dio a comportarsi così ed in questo egli è
guidato da una voce interna che ascolta.
«È una voce che sento dentro di me fin da fanciullo e tutte le volte che l’avverto mi distoglie da
ciò che sto per fare, ma non mi sollecita mai a fare qualche cosa. È essa che s’oppone a ciò ch’io
m’immischi nella vita politica; e credo bene, a ragione.
 2a ragione: se Socrate avesse fatto politica convenzionalmente sarebbe già
morto da un pezzo perché in politica nessuno può scegliere di opporsi alla
moltitudine e alle corruzioni politiche.
«Seppiatelo bene, o Ateniesi, se io mi fossi già da tempo dato alla vita politica, già da tempo
sarei morto: non vi è infatti nessuno che possa evitare la morte per poco che egli per generoso
impulso contrasti a voi o a qualsivoglia altra assemblea, e tenti di impedire nella città ingiustizie e
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illegalità. Chi combatte per la giustizia, anche se non riuscirà a preservarsi a lungo dalla morte, è
necessario che conduca una vita di privato cittadino, lontano dai pubblici uffici».
XX – Socrate conferma con esempi la sua dirittura di carattere.
«Ascoltate quel che m’avvenne, perché possiate da voi stessi constatare come io non sia
uomo da cedere contro giustizia a nessuno per paura della morte. Io non ho mai tenuto nella città,
o Ateniesi, nessuna Magistratura: fui solamente membro del Consiglio. Avvenne che la mia tribù
Antiochide si trovasse a tenere la Pritania quando voi volevate sottoporre a giudizio tutti insieme i
dieci strateghi che non avevano recuperato i naufraghi e i morti della battaglia navale. Ciò era
illegale, e voi stessi in seguito l'avete riconosciuto. Tuttavia, allora, io solo dei Pritani mi opposi
perché non fosse violata la legge; e votai contro. E già gli oratori erano pronti ad accusarmi, a
farmi arrestare, e voi stessi li incoraggiavate con i vostri schiamazzi. Ciononostante, io stimai che
era mio dovere affrontare il pericolo standomene dalla parte della legge e della giustizia piuttosto
che associarmi a voi nell'ingiustizia per timore del carcere e della morte.
Ciò avvenne al tempo in cui la città si reggeva ancora a democrazia. Allorché vi si stabilì
l'oligarchia, i Trenta tiranni mi mandarono a chiamare insieme con altri quattro e ci ordinarono di
andare ad arrestare a Salamina Leonte il Salaminio perché fosse messo a morte. In tale circostanza
io dimostrai, non con parole ma con fatti, che della morte non m'importa proprio un bel nulla ; ma
ciò che maggiormente m'importa è di non commettere cosa ingiusta ed empia. Né quel governo, per
quanto violento fosse, riuscì ad incutermi tanta paura da farmi commettere un delitto. Infatti, i
quattro miei compagni andarono a Salamina e condussero via Leonte; io invece me n'andai a casa.
E forse avrei pagato con la vita un tale gesto se quel governo non fosse stato rovesciato di lì a
poco.
Ed ora, credete voi che io avrei vissuto questi miei lunghi anni se mi fossi dato alla politica,
sostenendo, come si conviene a un uomo onesto, la giustizia e ponendola al di sopra di tutto?
Tutt’altro, o Ateniesi! Né io né alcun altro ci sarebbe riuscito. E tutta la mia vita, sia nelle funzioni
pubbliche che per caso ho esercitato che nelle mie private faccende, testimonia che mi sono sempre
mostrato tale da non concedere mai a nessuno cosa alcuna contraria alla giustizia chiunque egli
fosse».
Qui, è un punto in cui il filosofo (ma non solo, anche qualsiasi cittadino sia capace di
pensare da sé) viene posizionato come qualcuno che non deve farsi trascinare dalle
maggioranze politiche, qualsiasi esse siano, anche quelle che ci possono essere più
vicine come ideali. Che cosa deve fare un cittadino critico nel caso di corruzione?
Farsi trascinare di qui o di là oppure prendere le distanze anche quando questo è
pericoloso? Lo stare saldi a rischio della vita cui Socrate richiama l’attenzione
consiste nella capacità di difendere la legalità, la giustizia, le leggi sempre e
comunque. In questo modo bisogna comportarsi anche quando al potere c’è la parte
politica verso cui abbiamo più simpatia. Come è possibile comportarsi così? È
possibile farlo solo chiamandosi fuori da ogni schieramento politico, da ogni
alleanza, movendosi in uno spazio ambiguo che non è né privato né pubblico. Socrate
è riuscito a muoversi in questa zona grigia non bene definita e definibile finora, ma
ora non gli è più possibile.
 3a ragione: la terza ragione ha a che fare con la relazione filosofia – politica
(città), abbiamo detto che questo è un rapporto biunivoco: il punto essenziale
in questa relazione è quello di trovare un equilibrio. Socrate non è d’accordo
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col fatto che i filosofi facciano politica perché non vuole che la filosofia diventi
tirannia sulla città, così come la città (politica) non deve diventare tirannia sulla
filosofia. C’è affinità tra filosofia e politica ma questo non significa che ci deve
essere sovrapposizione tra di esse, bensì è necessario un equilibrio.
XXI – Socrate non è stato maestro di nessuno e non ha quindi corrotto i suoi
concittadini. Socrate non ha allievi se per allievi intendiamo coloro che prendono
lezioni privatamente e a pagamento perché Socrate non vende il sapere e filosofa
ovunque e con chiunque esso sia pubblicamente, al di là della condizione umana,
sociale, economica.
«Io poi non fui mai maestro di nessuno: se qualcuno, giovane o vecchio, ha desiderato di
ascoltarmi quando parlavo e attendevo ad esplicare la mia missione, io non glielo ho mai impedito.
Non sono stato di quelli che parlano solo con chi li paga e allontanano chi non paga; ma a ricchi e
a poveri indifferentemente io ho concesso di interrogarmi e di interloquire, se hanno voluto, su ciò
che m’avveniva di dire. È se poi alcuni di questi siano divenuti onesti e altri no non si può certo
dare colpa a me, giacché io non ho mai promesso a nessuno di insegnare né ho mai insegnato
dottrina alcuna. E se v’è qualcuno che dice di avere privatamente appreso o udito da me cosa che
altri non hanno udito né appreso, sappiate che costui mente».
Siccome in senso stretto Socrate non è un insegnante, egli non può essere
responsabile dei suoi giovani, ma può essere una guida della città, infatti, sono tutti i
cittadini ateniesi i suoi allievi.
Con questo discorso Socrate chiude la prima parte del processo, dell’Apologia
(=difesa), ed ora affida la sua causa ai giurati e al suo Dio (Apollo); può essere che i
due giudizi non coincidano, può essere che non ci sia una soluzione buona, ma queste
incertezze dipendono dal processo che si sta celebrando: qui si sta celebrando un
processo alla filosofia e il verdetto che si attende sarà un verdetto sul posto e sullo
spazio che la filosofia può avere nella polis.
In questo processo prima del verdetto c’è stato spazio perché Socrate potesse
difendere la filosofia sottolineando i suoi benefici e affermando che Atene è l’unico
posto in cui può filosofare, il coraggio con cui ha difeso la filosofia è lo stesso
coraggio di Achille.
Affinità Socrate – Achille
Socrate evoca Achille come figura che colpisce l’attenzione degli ascoltatori
perché è un qualcuno che sa tenere una posizione “costi quel che costi”, Achille è un
persona che accetta il suo destino qualsiasi esso sia: non si devono fare calcoli sulla
sopravvivenza e la convenienza ma vivere sulle proprie convinzioni. Socrate si
rivolge all’epoca eroica per definire il filosofo.
«Se a questo punto qualcuno mi dicesse: - Ma non ti vergogni, o Socrate, d’esserti dato
un’occupazione tale per la quale ora ti sei messo a rischio di morire? – io così risponderei a buon
diritto: - Hai torto, amico, se stimi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto la vita e la
morte. Egli nelle sue azioni deve unicamente considerare se ciò che fa sia giusto o ingiusto e se si
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comporta da uomo onesto o da malvagio. Secondo il tuo ragionamento, sarebbero da stimare poco
quei semidei e tutti gli altri che sono morti davanti a Troia, e particolarmente il figlio di Tetide
(Achille), il quale preferì affrontare la morte piuttosto che il disonore. Quando infatti la madre, che
era Dea, disse così a lui che ardeva di uccidere Ettore: «O figlio, se tu vendicherai la morte del tuo
amico Patroclo e ucciderai Ettore, anche tu morrai dopo di lui, poiché tale è il corso del destino»,
egli tenne in così poco conto il pericolo e la morte, piuttosto che vivere da vile e non vendicare
l’amico, che rispose così: «Possa io subito morire dopo avere inflitto il castigo al colpevole,
anziché rimanere qui a ludibrio presso le ricurve navi, inutile peso alla terra». Credi tu forse, o
amico, che egli si sia curato della morte e del pericolo?
Questa è la verità, o Ateniesi: ovunque un uomo si sia posto, giudicando questo il suo meglio, o
dovunque sia stato posto da colui che lo comanda, ivi egli deve restare, qualunque sia il pericolo
da affrontare, non tenendo in alcun conto né la morte né altro in confronto della vergogna».
Perché, quindi, Socrate fa riferimento ad Achille per descriversi? Perché
evidentemente la mitologia è la narrativa culturale a cui i greci si ispiravano. Con la
narrativa culturale ci si riferisce a dei personaggi che tutti conoscono e hanno ben
chiaro le loro caratteristiche e cosa rappresentano nella propria mente.
Achille è un piantagrane dell’epoca eroica e Socrate è un piantagrane nella città. Il
punto, per Socrate, è quello di citare un personaggio ben presente nella mente di chi
lo ascolta e nell’immaginario collettivo per posizionarsi, la sua scelta sembra una
scelta convenzionale che tutti avrebbero fatto.
Perché, dunque Socrate sceglie Achille e inoltre quale Achille? Socrate vuole
che i suoi concittadini vedano e capiscano come si deve vivere e non sopravvivere:
abbandonare un impegno è da vigliacchi, però questa giustificazione sulla scelta di
Socrate per Achille è un po’ poco per il nostro discorso, allora cosa ci dice tutto
questo? Come Achille, per vendicare l’amico Patroclo, vuole affrettare il momento
del duello con Ettore anche se questo vuol dire avvicinarsi alla morte (non per mano
di Ettore), così Socrate vuole affrettare e sottoporsi al verdetto della giuria anche se
questo non gli sarà favorevole. Socrate vuole dimostrare agli ateniesi che la filosofia
è un prolungamento della tradizione eroica, questo richiamo è sia un richiamo ma è
anche un modo per mettere in discussione. L’atteggiamento di Socrate è provocatorio
nei confronti di coloro che posseggono il sapere.
Nel libro I dell’Eliade, l’atteggiamento di Agamennone, sprezzante nei
confronti delle richieste, provoca le ire di Apollo che diffonde un’epidemia;
Agamennone rappresenta la virilità furbesca e arrogante che non accetta di essere
limitata neppure dalle cose sacre. Si convoca un’assemblea per decidere, Achille
sostiene che Agamennone deve restituire la schiava al padre ma dopo il suo rifiuto
Achille si ritira dalla battaglia (senza di lui sarà difficile vincere la guerra). Cosa sta
facendo Achille contrapponendosi ad Agamennone? Sta facendo quello che fa
Socrate con la città: quelli che parlano e poi si comportano in maniera diversa non
sono degni di governare. Questo ci fa vedere un Achille non guerriero ma pubblico
che parla in un’assemblea, proprio perché esiste un’immagine convenzionale di
Achille egli può diventare un veicolo eccezionale per ribaltare le convenzioni.
Il conflitto tra Agamennone e Achille è il conflitto tra il popolo di Atene e Socrate,
Achille è portato in assemblea da una crisi della città come Socrate è portato in
giudizio da una crisi della vita pubblica e politica.
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Importante: la relazione che Achille ha con l’epoca eroica è parallela con la
relazione che Socrate ha con la città, perché Achille è la figura principale dell’epoca
eroica come Socrate è il miglior interprete della tradizione di Atene ed entrambi sono
i migliori drastici critici di quella stessa tradizione che loro rappresentano. Entrambi
sono due figure che rispondono alle aspettative in maniera convenzionali ma nello
stesso tempo sanno mettere in discussione, sanno destabilizzare l’ambiente.
Nel libro IX dell’Eliade viene mandata da Agamennone una ambasceria con
dei doni preziosi, per convincere Achille a rientrare in battaglia ma egli rifiuta, non
gli interessano i doni. Così facendo, Achille non risponde alle aspettative, così
facendo Achille rifiuta di chiudere una controversia nel modo prestabilito, nel modo
convenzionale previsto dalla tradizione; in questo modo Achille si chiama fuori dalla
tradizione cui fino in fondo appartiene e di cui ne è il miglior interprete.
Rifiutando i doni è chiaro che Achille cerca un’alternativa ad un mondo che non lo
soddisfa più, si sta alienando da un mondo che gli appartiene, il mondo guerriero.
Così, l’uomo eroico per eccellenza sta cominciando a dubitare del valore
dell’eroismo, il miglior esempio dell’epoca eroica sta diventando critico dell’epoca
eroica. Colui che è più rappresentativo della guerra di Troia è diventato anche colui
che è più lontano da essa.
Questo paradosso è lo stesso paradosso di Socrate, perché? Perché colui che è la
figura più interna, più rappresentativa diventa la figura più esterna, più marginale, più
critica. Tutto questo accomuna Socrate e Achille, questo paradosso è molto chiaro a
chi ascoltava Socrate.
Ultimo punto della loro somiglianza. Achille è sospeso tra gli Dei e l’umano
(in quanto è figlio di un dio e di un genitore umano) così come la filosofia socratica:
da una parte il genitore umano, la città, dall’altra il genitore divino, Apollo che lo
porta alla filosofia. Questa sospensione li rende capaci di farli essere dentro e fuori
contemporaneamente, difensori e critici contemporaneamente di una tradizione. I
cittadini ateniesi non capiscono che Socrate sta cercando di salvare la città come
Achille cercò di salvare la spedizione.
SECONDA PARTE: SOCRATE COMMENTA LA SUA CONDANNA
Considerazioni sui voti di condanna
XXV – Socrate fa alcune riflessioni sulla sentenza. Socrate fu condannato per
30 voti. Cosa vuol dire questo margine così stretto rispetto alle aspettative di
condanna? Questo verdetto smentisce o no il comportamento tenuto da Socrate nel
tribunale? Se Socrate avesse partecipato alla vita pubblica, il verdetto sarebbe stato
diverso? Socrate ha esagerato o no con la corruzione degli ateniesi? È troppo
pessimista o realista della corruzione di Atene?
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Per Socrate questo verdetto è un verdetto di compromesso perché non è netto,
esso prova che vi siano delle fazioni nella città.
«Per molte ragioni non provo sdegno alcuno per voi, o Ateniesi, se mi avete giudicato
colpevole, tanto più che me l'aspettavo; anzi mi meraviglio non poco del numero dei voti riscossi
dall'una e dall'altra parte poiché non mi aspettavo certo che vi sarebbe stata una sì piccola
differenza: pensavo invero che ve ne sarebbe stata una molto maggiore. Quindi, a quel che risulta,
bastava uno spostamento di trenta voti perché io sfuggissi alla condanna. Ma anche così sono
egualmente sfuggito a Melèto».
Cosa testimonia questa maggioranza ristretta? Che esiste un notevole margine di
persone che non ha votato per la condanna di Socrate dunque il suo discorso ha avuto
successo. Socrate ha peccato per eccesso di ottimismo?
Relazioni generali tra filosofia e politica in questo verdetto. Forse Socrate
avrebbe potuto convincere anche queste 30 persone. Si può ritenere che la pratica
filosofica di Socrate fosse troppo sprezzante per la vita della città? Il ragionamento
sul verdetto cambia se si privilegia il punto di vista di Socrate e della filosofia o se si
privilegia quello della città e della politica. Socrate da delle valutazioni sulla
corruzione di Atene che lascia aperto un margine alla critica. Non c’è mai una
risposta definitiva alle domande ma solo risposte aperte.
XXVI – La pena che Socrate si assegna: essere mantenuto nel Pritaneo. La
legge ateniese lascia al condannato di proporre una pena alternativa a quella
inflittagli. Socrate propone di essere mantenuto a vita nel Pritaneo (destinato ai
benefattori della città) e da lì continuare a svolgere l’attività di servizio alla città che
aveva sin dall’ora svolto.
«Quale pena io merito dunque, o Ateniesi, per essermi comportato in tal modo? Non pena,
ma premio, o Ateniesi, se debbo assegnarmi quel che in verità merito; e un premio che mi sia
appropriato. E che cosa è appropriato a un povero e pur benefico uomo, il quale ha bisogno di non
dovere attendere ad altro che ad esortarvi al bene? Nulla gli si addice più che di essere mantenuto
nel Pritaneo, molto di più che se alcuno di voi avesse vinto col cavallo o con la quadriga nei giochi
olimpici: poiché quello che vi fa apparire felici, io invece faccio che lo siate davvero; quello inoltre
non ha bisogno d'essere mantenuto, io sì. Se devo dunque assegnarmi quel che merito, questo mi
assegno: essere mantenuto nel Pritaneo».
Socrate ridefinisce il suo ruolo dentro la città, ruolo di servizio che fa ripensare i
cittadini e critica la visione ristretta dei cittadini che si fonda su ciò che si possiede.
Per Socrate serve un premio per questo ruolo di servizio.
È una strategia di rovesciamento ironico ad opera di Socrate che parla in un
contesto di discorso dedicato a una pena alternativa. Non ci sono, per Socrate,
alternative a questo suo riconoscimento. L’esilio è l’alternativa che meno
prenderebbe in pensiero. Come potrebbe infatti Socrate spendere la vita viaggiando
come un sofista? Come potrebbe accettare poi di rimanere nella polis senza
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filosofare? Pritaneo o la morte: o la città riconosce il servizio critico di Socrate
oppure si libera di lui.
L’estraneità tra filosofia e città si radicalizza. Con il Pritaneo la città accetta che la
filosofia trovi casa entro le mura, con la morte non accetta nulla.
Cosa succederà nel momento in cui Socrate morirà? Con la morte di Socrate di
segnalerà il definitivo allontanamento tra città e filosofia? Molti, i giovani benestanti,
radicalizzeranno sempre di più le loro posizioni critiche che diverranno sempre più
nette nei confronti della città. Spiriti critici in Atene avevano visto la possibilità con
Socrate di parlare liberamente entro le mura, un segno che la critica era possibile, che
potevano restare entro le leggi della città. Con questa condanna la critica di questi
liberi pensatori si farà più antagonistica e liberale. La città tenderà a tollerare meno
l’antagonismo di questi spiriti liberi.
Avremo posizioni sempre più separate: è la critica dei giovani che vedevano in
Socrate un segno della vitalità di Atene contrapposta alla conservazione di Atene, al
congelamento dello status quo. O si è dentro la città (ovvero essere senza riserve dalla
parte dello status quo) o si è fuori (ovvero essere ostili senza riserve allo status quo).
Socrate stava nel mezzo, aveva cioè una posizione ambigua, sospesa tra le altre due e
con la sua condanna questa zona intermedia viene a trovarsi disabitata. Sopprimendo
Socrate, Atene perde l’occasione per diventare quella che potrebbe essere per
confrontarsi con i suoi standard. D’altra parte anche la filosofia perde qualcosa
ovvero la possibilità di essere filosofia socratica che si fa nelle strade, filosofia
dialogica che non pretende di insegnare delle regole predeterminate. Continuando a
spiegare la posizione intermedia tra deferenza radicale e critica radicale, tra dentro e
fuori, Socrate tende a mantenere il filo che relaziona la città con la filosofia.
Ma che cosa vuole dire tenere questa posizione intermedia? Semplicemente mostrare
un’appartenenza senza riserve e, in contemporanea, una estraneità radicale. Socrate
ritiene che i suoi standard critici siano derivati e derivabili da quello che è oggetto
della sua critica. La critica non è mai, per Socrate, estraneità sociale. Per criticare la
città bisogna esserne un suo membro.
Significato di posizione intermedia: insider critico, outsider che appartiene. E
queste posizioni portano a delle conseguenze:
a) la critica sembra una posizione curiosa perché sembra che in parte contesti e in
parte affermi le regole, i principi, le premesse e le promesse della città di
Atene.
La critica contemporanea tra il dentro e il fuori crea una posizione che afferma
dati della tradizione e ne contesta altri. Non è un rifiuto radicale né una posizione
rivoluzionaria. Non vuole sovvertire per intero il contesto disposto a criticare.
Il critico è come un funambolo che cammina sulla corda sospesa tra il dentro e il
fuori delle regole e delle tradizioni. Non sta né troppo dentro né troppo fuori.
Troppo dentro: deferenza cieca non compatibile con la città che cerca di
migliorare se stessa. “Non vedo nulla perché sono completamente immerso”.
Troppo fuori: se ci allontaniamo troppo dai concittadini, non saremo capaci di
persuadere e quel che diremo risulterà irrilevante.
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Posizione intermedia: riconoscimento del valore di un contesto e intenzione di
criticarlo anche completamente.
b) Quando si dice posizione intermedia è come dire che tra la critica e la città ci
deve essere una relazione di reciprocità.
Il critico assume una responsabilità nei confronti dei cittadini: se questi ultimi
sbagliano, egli non li abbandona ma ha un atteggiamento di persuasione perché
cerca di cambiare interlocutore.
Dal punto di vista dei cittadini, la città e i cittadini devono essere disponibili a
guardarsi anche con occhi filosofici (filosofia = politica).
La critica deve essere vista come risorsa e non come minaccia: se si vede come
una minaccia, minori infatti sono le opportunità di essere all’altezza dei limiti.
Reciprocità: tratta gli altri come vorresti essere trattato tu stesso. Dare e avere
circolano. Non bisogna usare unità di misura diverse.
c) Socrate non smette di sottolineare la radice politica di quel che sta dicendo, la
radice del suo filosofare radicato soprattutto nella polis e in Atene. Una
filosofia mondana ma non solitaria.
Socrate risulta essere molto critico riguardo questa tradizione, ritiene infatti che la
filosofia può essere praticata in spazi relazionali: per la sua forma dialogica ha
bisogno della pluralità di punti di vista sul mondo. Rifiuta così di parlare
nell’Agorà.
Pluralità: ciascuno di noi deve essere preso individualmente come uno ed è
portatore di un punto di vista sul mondo.
Considerazioni che portano Socrate a rifiutare l’idea di rinunciare ad Atene e di
filosofare altrove
Solo nella sua città e coi suoi concittadini la filosofia può cercare d’avere voce
nel mondo e definirsi pratica mondana, non solitaria e contemplativa.
«Ma dovrei essere davvero preso da una cieca brama di vivere, o Ateniesi, se fossi così
irragionevole da non comprendere che se voi, nonostante concittadini miei, non siete riusciti a
tollerare la mia compagnia e i miei discorsi, divenuti tanto gravi ed odiosi da liberarvene, non
riusciranno certo a tollerarli gli altri. E quale vita menerei io a quest'età, passando da una città
all'altra, sempre d'ogni parte cacciato via? Perché so bene che dovunque andrò io terrò gli stessi
discorsi e i giovani, come succede qui, mi ascolteranno. E se provassi ad allontanarli da me, loro
stessi mi farebbero bandire dalla città, intercedendo presso gli anziani; se invece li richiamassi a
me, mi caccerebbero via i loro padri e parenti preoccupati per i loro figli».
Se si seguisse una linea socratica, un filosofo che si mettesse fuori dalla città e in
solitudine si condannerebbe a essere completamente futile e inutile. Ecco perché
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Socrate si rifiuta di stare fuori da Atene. Solo come cittadino d’Atene Socrate può
essere un filosofo.
Socrate lavora sul nesso “essere ateniese e praticare filosofia”. Non è un cieco
sostenitore dello status quo ma neanche un critico radicale.
La sua posizione è sospesa tra il dentro e il fuori (funambolica). Se Socrate è
qualcuno che sta dentro la città, che vuole filosofare dentro la città, come si pone nei
confronti di questa appartenenza? Il critico, come viene definito da Socrate, è uno
straniero parziale: conosce i percorsi della città ma non si fa mai intrappolare.
Utilizza le sue conoscenze per persuadere coloro che le condividono con lui per
vederle criticamente.
Parziale: rifiuta la posizione radicale. Posizione dunque ambigua in senso non
svalutativo, che deriva dal fatto che si vuole rimanere sospesi tra il dentro e il fuori.
Posizione che vuole mantenere una presa con chi condivide qualche cosa, anche se
non tutto.
Origine etimologica del termine teoria
Theoros erano due cose:
a) un ambasciatore che veniva mandato ad osservare i festival sacri di una città
straniera;
Come ambasciatori, i teorici erano spettatori membri di un pubblico che assisteva ad
eventi che si svolgevano su una scena e messi in condizione di guardare, e valutare,
un evento per portarne un commento nella loro città.
b) un inviato all’oracolo di Delfi.
Come inviato, il teorico diventava intermediario tra la città e il divino, doveva tornare
a riportare ciò che l’oracolo gli aveva trasmesso (come del resto faceva
l’ambasciatore).
Movimento avanti-indietro: entrambi andavano e vedevano qualcosa. Poi tornavano
nella loro città per raccontare quel che avevano visto.
Essere teorici non significa essere separati dal mondo, non significa essere
estranei, disinteressati alle pratiche, né essere passivi. Nella posizione socratica, lo
spettatore è attivo, coinvolto da qualcuno che può anche non essere un attore. Socrate
infatti non si racconta come attore, quel che dice di sé, ci porta a vederlo come uno
spettatore. Questo chiamarsi fuori del critico è proprio di chi vuol rimanere dentro,
ma non rimanervi sorbito (possibilità di funambolismo).
Socrate compie l’operazione caratteristica del critico: richiama alla mente
Achille e giunge a connotare il significato della pratica filosofica come sito
intermedio tra il dentro e il fuori, tra la deferenza e la rivoluzione. Come il guerriero
omerico ha tenuto la sua posizione, così Socrate dimostra di tenere la sua.
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