Atti del seminario - Ordine Professionale degli Assistenti Sociali

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Presa in carico della persona e della famiglia immigrata 1
Elena spinelli
Il significato della “presa in carico” rimanda al compito di assumersi la responsabilità professionale
della gestione delle situazioni di cui ci si occupa in quanto operatori sociali .
In un articolo sull’ “operatore leggero” la Olivetti Manoukian2 evidenziava come “il sostantivo
usato spesso nel campo degli interventi nel sociale, la presa in carico appunto, può rimandare al
fatto che quel che viene preso in carico è l’utente stesso che figura quindi come un peso, un peso
molto grosso […] e gli operatori rischiano di farsi tentare dall’idea di potersi effettivamente
assumere l’enorme peso di poter risolvere i problemi, di avere la responsabilità di raggiungere
quello che la società ha in un certo senso distrutto […] di conseguenza si ha paura appunto del
“carico”».
Ciò può accadere anche relativemente all’intervento sociale con gli immigrati in una società più
attenta alla sicurezza3 che alla solidarietà dove sta diventando più difficile sostenere la legittimità
dei diritti degli immigrati e il loro riconoscimento. Il problema di fondo sembra oggi non solo
quello di giustificare i diritti, quanto quello di proteggerli in una situazione in cui le risorse
economiche e sociali sono sempre più limitate e i servizi si sentono sotto assedio. Nel contesto
dell’assistenza agli immigrati la convinzione che gli italiani debbano venire prima nell’attribuzione
dei benefici e nel godimento dei diritti, cioè la precedenza ai cittadini è un “valore” piuttosto diffuso
che va oltre gli ambienti xenofobici.
Un processo di inclusione degli immigrati non è necessariamente vissuto dagli autoctoni
positivamente «non è facilmente accettabile da parte dei locali, che potevano sentirsi detentori di un
privilegio esclusivo in quanto legato alla nazionalità. Non a caso i movimenti xenofobi e antiimmigrati emersi nei diversi Paesi di immigrazione, con maggiore o minore forza, in tutte le epoche
si sono sempre riferiti a questa riduzione dei privilegi nell’ambito delle politiche sociali». 4
Nella crisi economica odierna inoltre si presenta una «razionalizzazione» (Castel)5 della questione
sociale, ad esempio alla disgrazia di essere disoccupati si aggiunge il sentimento di ingiustizia di
non essere trattati come gli altri, gli autoctoni, a causa del colore della propria pelle o della
pronuncia del proprio nome, di essere cioè degli immigrati a cui si pensa di negare il diritto alla
cassa integrazione anche se si è in Italia e lavora in fabbrica da 20 anni, come è stato proposto.
1
Testo pubblicato(2010). in : “con i nuovi vicini” Il servizio sociale ele famiglie immigrati( cura di) lluis peris cancio-Sinnos
F. Olivetti manoukian (2005) L’operatore sociale leggero in Re/immaginare il lavoro sociale –
In: Re/immaginare il lavoro sociale -Geki di Animazione sociale
3
. “pacchetto sicurezza” Legge n. 94 del 15luglio 2009 : Introduzione del reato di ingresso e/o soggiorno illegale
4
M. I Macioti E. Pugliese, L’esperienza migratoria editori Laterza 2003 pag. 104
5
R.Castel/ M.Boucher: Le travail social au risk de la pacification sociale? –in Actualités sociales hebdomadaires .
october 2009 — n° 2627
2
1
Parallelamente gli italiani disoccupati attribuiscono la loro situazione alla presenza degli immigrati.
Quando una società degenera, alcuni diritti che pensiamo naturali vengono messi in discussione, ed
è ciò che sta succedendo per gli immigrati in un clima xenofobo di guerra tra le fasce della
popolazione più povere e a rischio di povertà ed esclusione, con « il pericolo che la xenofobia, cioè
la paura dello straniero, diventi stabile e cominci ad avere una funzione anti-immigrati con una
riabilitazione del razzismo come reazione legittima a comportamenti devianti e a minacce reali o
presunte. Ma qualora nell’immaginario collettivo il razzismo cessasse di apparire una pratica
censurabile per assumere i connotati di un nuovo diritto allora davvero varcheremmo una soglia
cruciale, al di là della quale potrebbero innescarsi processi non più governabili» 6 si cita appunto
l’appello
È in questa difficile situazione che si intravede per gli operatori la necessità di un continuo
interrogare le pratiche rendendosi consapevoli del senso che queste possono avere a partire dal fatto
che «gli operatori sono anche soggetti parlanti a nome dell’immaginario sociale collettivo.
Nonostante le buone intenzioni restano all’interno di una società che esercita una pressione su di
loro. Il loro lavoro è fatto di quotidianità quindi di stereotipi, di routine, di significati collettivi può
essere influenzato in vari modi»
7
e può diventare difficile proseguire quel lavoro di inclusione
messo in atto in molte realtà territoriali, con risultati interessanti di convivenza nella prospettiva di
costruire una nuova società multiculturale. Viene suggerito «che il lavoro sociale si pensi dentro un
contesto, che i servizi diventino centri di lettura dei problemi del territorio come luogo di governo
diffuso delle disuguaglianze nella ricostruzione di una regolazione sociale, un lavoro che è legato
alla non sottovalutazione della importanza delle istituzioni e alla legittimazione sociale degli
operatori che possano svolgere un ruolo di primo piano contro il razzismo nei contesti in cui sono
attivi con una accresciuta coscienza e una comprensione analitica del razzismo»8.
Come ci suggerisce la Olivetti Manoukian « la presa in carico può anche rimandare ad una
accezione diversa: essere carico (essere gravato), ma anche essere entusiasmato, perchè forti
dimensioni ideologiche, motivazionali, animano il lavoro sociale»9 e un operatore può diventare
leggero «nella misura in cui riesce ad allegerire i problemi perché li vede, li guarda, con un sguardo
più competente, che permetta di vedere intrecci, di fare spazio ad ipotesi avvincenti audaci a come
affrontarli non intrappolato dal vincolo cieco del dilemma della povertà delle risorse»10.
6
Appello «contro il nuovo razzismo di massa», maggio2008 di storici, giuristi, antropologi, sociologi, filosofi, operatori
culturali che da tempo si occupano di razzismo.
7
olivetti manoukian, d’angella, floris « per un lavoro sociale creativo » (2005) Geki di Animazione Sociale
8
Lena Dominelli (1997) Anti-racist social work ed Jo Campling Mac Millan
9
F. . Olivetti manoukian (2005) L’operatore sociale leggero in Re/immaginare il lavoro sociale –opera citata
10
ibidem
2
È partendo da questi presupposti che di seguito si propongono alcuni approfondimenti
dell’intervento di servizio sociale con la popolazione immigrata11.
L’utenza straniera
L’immigrazione in Italia per motivi demografici, economici e sociali è un fenomeno strutturale e
duraturo, cambia quindi il punto di vista della lettura in una prospettiva di stabilizzazione nel Paese
di una parte crescente di stranieri non più come evento transitorio.
Nel 2009 i cittadini stranieri residenti in Italia sono circa 4. 300. 000 il 6, 5%(residenti)12 di cui
50% sono donne. Lo sviluppo del fenomeno delle donne migranti come protagoniste dei processi
migratori è ormai messo in evidenza da molti studi che riguardano vari aspetti della vita delle
migranti: l’inserimento in settori del mercato del lavoro che perpetuano e rafforzano l’immagine
della donna come madre/curante/casalinga; il vivere con ansia e sensi di colpa le relazioni affettive;
la separazione dai propri cari lontani in quella che è stata definita la genitorialità transnazionale.
Nel 2009 i minori presenti erano 862. 453. Nel 2008 sono nati da genitori stranieri 72. 472 bambini,
il 12% sul totale delle nascite in Italia.
Nell’anno scolastico 2008/2009 gli alunni figli di genitori stranieri sono 628. 937, il 7% degli
iscritti; 4 su 10 sono nati in Italia. Per costoro la lingua italiana, spesso invocata come motivo di
separazione dagli alunni italiani13 non costituisce un ostacolo. La questione dell’integrazione degli
immigrati di seconda generazione è diversa da quella dei genitori con difficoltà identitarie indotte
da situazioni di meticciato. Sono giovani che in genere parlano bene la nostra lingua, frequentano le
scuole italiane, hanno vissuto la maggior parte della loro vita in Italia, spesso vi sono anche nati, ma
va ricordato che un figlio di immigrati è prima di tutto un bambino con un percorso personale e
familiare che si inserisce in una “genealogia” che non è cominciata con l’arrivo in Italia e
l’adolescenza è un dei momenti di particolare vulnerabilità in presenza di domanda di filiazione e di
appartenenza14.
Sempre nel 2008 sono venuti in Italia 40. 000 minori a seguito di ricongiungimento familiare.
Fornire un sostegno psico-sociale al momento del ricongiungimento richiede una riflessione su altri
modelli familiari e sulle separazioni, in particolare sugli elementi culturali e storici sul tema della
separazione in Italia che sono molto diversi dalla separazione nel contesto della migrazione.
11
Tali tematiche sono sviluppate in vari scritti dell’autrice tra cui il libro :Immigrazione e Servizio sociale . Conoscenze
e competenze dell’asssistente sociale- ed. Carocci (2005).
12
Il 53% di origine europea da paesicomunitari; il 22, 4% sono africani, il 15, 8% asiatici e l’8, 1% dalle Americhe. Le
popolazioni maggiormente presenti sono:romeni (800 mila), albanesi (440 mila), marocchini (400mila), cinesi (170
mila), ucraini (150 mila).
13
Direttive Ministro dell’istruzione 2009 obbligo di avere non più del 30% di alunni « stranieri » in classe,
14
Ida Finzi. Op. cit.
3
La difficoltà di riunificare la famiglia in Italia, data la politica di immigrazione che di fatto non dà
sostegni per il ricongiungimento familiare, e la grande importanza che hanno le rimesse per il
benessere della famiglia nel Paese di origine, comportano lunghe separazioni anche per la difficoltà
di affrontare il viaggio nel proprio Paese.
Il diritto alla vita familiare è considerato come un diritto universale ma l’incorporazione negli
ordinamenti giuridici dei Paesi europei, nei quali è passato attraverso diversi cambiamenti, lo rende
lungi dall’essere assoluto. È per altro la legge che definisce a quale modello di famiglia si fa
riferimento e quali sono i componenti che possono ricongiungersi. Di fatto usa la definizione di
“famiglia” per limitare l’immigrazione. È da tener presente che i vari paesi membri della Comunità
Europea hanno in proposito norme diverse tra loro.
Molti sono i cambiamenti conseguenti alla presenza in Italia di famiglie ricongiunte, oltre alle
normali tensioni fra individui vissuti per un periodo più o meno lungo in contesti diversi e che si
ritrovano a convivere. Essi sono chiamati a compiere un lavoro di riadattamento per vivere insieme,
per vivere con persone che il tempo e la distanza ha trasformato e reso non più intimi. Nel
ricongiungimento possono sorgere problemi legati al tipo di immagine che i figli avevano dei
genitori spesso mitizzata messa in discussione nel momento in cui il figlio si rende conto delle
condizioni di vita reali del genitore nel Paese di immigrazione. Molto presente è la preoccupazione
nei genitori di non essere più un vero riferimento, un reale modello per i figli, poiché si è in una
situazione "tra".La difficoltà nel trasmettere elementi identitari della società di origine, molto
importante per il minore, può creare fratture generazionali più o meno forti. È stato detto(A.
Ciola)15 che la famiglia migrante, i suoi membri, i suoi componenti, sono sottoposti alle esigenze,
alle aspettative della società di origine e a quelle della società di arrivo, quindi all'oscillazione fra il
qui e il là, ma la famiglia in e nella migrazione non è né la famiglia di là, né la famiglia di qua. È
una nuova esperienza in cui è presente un protagonismo delle donne che si esprime nella gestione
cruciale di rilevanti funzioni di mediazione culturale all’interno della famiglia, e dunque sotto il
profilo della conservazione e “rivisitazione” di abitudini e valori che richiamano la cultura del
gruppo di appartenenza, ma anche nei rapporti con le società ospitanti, per la promozione di
processi di integrazione e reciproco incontro.
Processi di inclusione
La politica di integrazione diventa una parte integrante e imprescindibile della politica migratoria16e
quindi dell’intervento di servizio sociale. La competenza interculturale viene ritenuta da vari autori
15
Amilcar Ciola :Stare qui stando la-. Rivista Terapia Familiare 1997 fascicolo 54 ed Franco Angeli
Già presente nel Documento programmatico sulla Politica dell’immigrazione 1998 (D. L. 25/98 n. 286) in cui Per
integrazione si intende“un processo di non discriminazione e di inclusione delle differenze, quindi di contaminazione e
16
4
di servizio sociale una dimensione assolutamente essenziale di un nuovo modello europeo di
professione a carattere sociale. La necessità di una maggiore attenzione alle specificità culturali e
alla diversità intraculturale oltre che tra culture di cui sono portatori gli/le immigrati/e è
conseguente alla messa in discussione della impostazione “assimilazionista” basata su una richiesta
di adeguamento da parte dell’immigrante a comportamenti, modelli culturali e stili di vita della
società di arrivo, trascurando la fase di passaggio dalla società di origine dell’immigrato a quella di
arrivo.
Il primo suggerimento all’operatore è di non dimenticare che l’immigrato/a è anche un emigrato/a,
che sta affrontando quello che è stato definito un «trauma migratorio concetto che consente di
definire gli effetti a breve e a lungo termine dello sradicamento causato dalla migrazione e dalla
perdita dei riferimenti culturali, e i meccanismi difensivi che possono essere attivati per far fronte
alla sofferenza»17.
La prima conseguenza dell’emigrazione è che la persona passa da un luogo in cui possedeva una
identità sociale, una storia, legami affettivi solidi ad un altro in cui essa svanisce totalmente, un
luogo in cui diventa «nessuno»18. L’immigrante affronta un processo psicologico che deve
elaborare la perdita o meglio la separazione di tutto quello che ha costituito il mondo oggettuale
inanimato o affettivo e relazionale fino a quel momento… Persone amate, rapporti sociali, luoghi,
odori, sapori, lingua, valori, cultura vengono a mancare in poche ore. Nel frattempo è impegnato nel
nuovo Paese. Una grande energia psichica è necessaria per affrontare questo doppio compito.
Nella maggior parte delle comunità il progetto migratorio iniziale è quello di un ritorno in tempi più
o meno brevi al Paese di origine, il modello migratorio concreto risulta invece più complesso e
talvolta molto diverso da quello iniziale. La decisione di un trasferimento definitivo diventa una
scelta consapevole formulata in molti casi man mano che il processo migratorio si consolida, per
altro se i migranti decidono di restare in Italia è anche per le difficili condizioni nei loro Paesi.
L’emigrazione è una esperienza dolorosa e difficile anche in presenza di un miglioramento delle
condizioni di vita, e a lungo permane il sogno nell’immaginario del migrante del ritorno in patria.
Ciò comporta una difficoltà a rappresentarsi gli esiti a lungo termine della propria decisione se non
per quanto riguarda la speranza di condizioni migliori, ma dove lì o qui? L’attaccamento al Paese di
origine e il mito del ritorno è sempre presente negli emigrati di prima generazione19.
di nuove forme di rapporti e comportamenti nel costante tentativo di tenere insieme principi universali e
particolarismi”. .
17
Ida Finzi . (2005) Adolescenti tra due culture: quale consulenza psicologica. Relazioneconvegno
Adolescenza e migrazione Roma
18
Samia Kouider :Donne immigrate mussulmane:realtà e stereotipi in Islam e Islamismo, ne parlano le donne.
Atti seminario Milano 1997
19
Elena spinelli (2005) Immigrazione e servizio sociale . ed carocci
5
Afferma Sayad nel libro La doppia assenza: «Ogni studio dei fenomeni migratori che dimentichi le
condizioni di origine degli emigrati si condanna a offrire del fenomeno migratorio solo una visione
al contempo parziale ed etnocentrica: da una parte, come se la sua esistenza cominciasse nel
momento in cui arriva (in Francia), è l’immigrante e lui solo, e non l’emigrante ad essere preso in
considerazione; dall’altra parte, la problematica esplicita e implicita è sempre quella
dell’adattamento alla società di “accoglienza”»20.
La storia dell’immigrato ha un “prima dell’Italia”, la verbalizzazione di un tempo precedente, di un
arrivo, di un prima appunto è uno degli elementi fondamentali nel riconoscimento della differenza.
Domande quali: «da dove viene, da quanto tempo è qui, cosa fa qui, cosa faceva lì, chi sta ancora lì,
che risposta aveva a questi problemi lì…» diventano indispensabili per una capacità di ascolto
anche emotiva dell’uomo o donna straniero che si ha di fronte. È la base di una relazione di aiuto
con la popolazione immigrata non dimenticando che la categoria “migranti” nasconde una
consistente varietà di persone, non tanto per le differenti provenienze, ma perchè ognuno costruisce
i propri riferimenti di senso in modo originale, ha una sua storia prima “lì” e una sua storia “qui”.
“Migranti” può essere uno stereotipo se ci scordiamo di vedere le differenze di nazionalità, di area
di origine rurale o urbana, di religione, di età, di sesso, (immigrazione femminile o maschile) di
occupazione qui e nel loro Paese, di status socioeconomico nel loro Paese, di livello di istruzione, di
influenza della famiglia estesa, di differenze tra la prima e la seconda generazione di immigrati.
Non riconoscere le differenze è come preparare la strada al razzismo21.
Un nuovo ascolto
Naturalmente esistono situazioni di emergenza e la difficoltà di trovare risorse. Ma serve anche e
forse primariamente comprendere la situazione dello straniero, sapere ascoltare.
Nella relazione professionale con l’immigrato/a sono state messe in discussione conoscenze e
competenze degli operatori sociali compromettendo a volte la capacità di fornire un effettivo aiuto e
la possibilità di instaurare quel rapporto di fiducia indispensabile perché si avvii un processo di
aiuto professionale. Che cosa accade lì dove la barriera linguistica/culturale può non solo impedire
la comprensione ma anche l’avvio di quel processo che dovrebbe rafforzare l’autonomia delle
persone e le loro capacità di gestire la loro vita?
Si amplifica nell’incontro con la persona immigrata il rischio di una distinzione fra i bisogni
definiti dall’operatore e i bisogni percepiti dai diretti interessati che peraltro possono avere
difficoltà di vario tipo ad esprimerli, in primis linguistica ma non solo22.
20
Abdelmalek Sayad La doppia assenza. –Raffaello Cortina Editore 2002
Marie Rose Moro(2005) Bambini di qui venuti da altrove – ed franco Angeli
22
E. spinelli (2006) Una competenza culturale per un “nuovo” ascolto. in Composizioni sociali
21
6
La resistenza ad “ascoltare” informazioni che mettono in discussione i propri valori, la incredulità
rispetto a fatti sconosciuti, la battaglia che si deve affrontare contro i propri pregiudizi, il dover
accettare la competenza di altri con differenti conoscenze, può interferire con la categoria
dell’ascolto, della comprensione del disagio, della percezione del livello di sofferenza della persona
immigrata.
È il punto di vista dei diretti interessati, fondamentale tanto per la valutazione professionale della
situazione presa in esame quanto per il processo d’aiuto, che può essere non compreso, rifiutato
dall’assistente sociale o non cercato. Ne può conseguire una rinuncia alla competenza professionale
dell’assesment, inteso come capacità valutativa dei bisogni dell’individuo che chiede aiuto, in
favore di una valutazione intesa quasi esclusivamente come controllo del diritto d’accesso alle
risorse23.
La consapevolezza da parte degli operatori di essere portatori di una precisa cultura istituzionale e
di una cultura di servizio che si esprimono attraverso le regole di accesso, le modalità di erogazione
delle prestazioni e di controllo dell’adempimento delle stesse, aiuta a cogliere quanto la valutazione
delle singole situazioni sia determinata piuttosto che dalle situazioni stesse, dal grado di
adeguamento al modello proposto. Sapere che non esistono erogazioni nei servizi che non siano
influenzate dalla propria cultura e dalle tradizioni aiuta a confrontarsi con l’“altro’’.
C’è una grande varietà di risposte nella gente all’esperienza di percepirsi o percepire altri come
differenti, negarle può essere un problema, cosa che facciamo se diciamo ad esempio “siamo tutti
uguali come persone umane”. Secondo Lorenz24 la competenza del servizio sociale con la
popolazione immigrata è fondata sulla abilità di sostenere l’“ambiguità”di dare spazio alle
differenze sapendo che esiste un problema di mutua comprensione che non può essere affrontato
nella forma forte autoritaria che «impone un criterio universale di ciò che è giusto
e di ciò che è sbagliato se necessario con la forza ed elimina cio che è ambiguo, difende
l’assimilazione e la conformità con la cultura dominante, indigena, per tutti gi immigrati non
palesamente con scopi di controllo ma “per il loro bene”»25. Neanche può essere trattata nella forma
più debole senza pregiudizi razziali in cui «l’altra persona può essere compresa solo perché le
persone sono persone, ciò che le persone sono si conosce solo guardando a se stessi»26.
Sostiene l’autore che i due approci, quello autoritario e quello senza pregiudizi, «negano all’altra
persona il diritto di definire la sua stessa identità, le negano il diritto all’autenticità e all’azione e
23
ibidem
WalterLorenz (2010) Globalizzazione e servizio sociale in Europa ed. Carocci faber p. 140
25
ibidem
26
ibidem
24
7
perciò configurano insiemi di relazioni fortemente assimetrici»27 che pongono il problema del
potere.
Potere e decentramento culturale
Il potere può essere definito come la capacità di produrre gli effetti desiderati in altri.
Il senso di impotenza nell’utente può essere rafforzato in un incontro crossculturale più
velocemente e frequentemente di quello che uno si aspetta . Osservazioni apparentemente innocue
come una frase «Signora, ma 5 figli!», detta da una operatrice di un consultorio ad una donna
immigrata alla sua quinta gravidanza che per la prima volta si recava al servizio convinta da una
connazionale, ha avuto come esito che la signora si è alzata, se ne è andata e non è più tornata.
Significati specifici possono essere attribuiti all’essere differenti: che qualcosa è sbagliato o
qualcosa manca nella propria situazione, il tutto accompagnato da sentimenti quali: imbarazzo,
umiliazione, delusione, sentirsi stupidi. Sono importanti strategie che permettono alle persone di
sentirsi competenti, strategie di empowerment dell’immigrato/a.
Elaine Pinderughes, analizzando nell’ambito delle professioni d’aiuto l’influenza delle identità
culturali nelle relazioni interpersonali tra persone con diverse origini28, sostiene che non possono
essere trascurati i rapporti di potere che operano all’interno delle culture e tra essi. L’autrice
enfatizza il ruolo primario del potere nelle dinamiche della comunicazione interculturali ed esamina
come il potere e la mancanza di potere, inerenti nei ruoli del professionista e dell’utente influenzano
la relazione d’aiuto in un contesto interculturale.
Per gli utenti come per gli operatori, la cultura determina cosa percepiscono come problema, come
lo esprimono, chi può intervenire per aiutare, quali tipi di soluzioni possono essere presi in
considerazione; va tenuto presente che le diverse culture portano gli individui ad agire in modi
diversi e che quindi queste condotte vanno decodificate.
Ignorare l’influenza sul professionista delle sue origini etniche, culturali, fa si che i bisogni e i
problemi identificati come significativi da chi ne ha il potere, vengono assunti a norma per capire ed
erogare interventi. La possibilità di esplorare le proprie appartenenze culturali e di divenirne
consapevoli è ciò che consente agli operatori di aprirsi alla relazione con donne e uomini stranieri.
Ciò su cui concordano i vari autori nel servizio sociale è la richiesta all’operatore di considerare il
proprio punto di vista come uno tra gli altri, e non come ciò che è ovvio, normale, incontestabile.
27
28
ibidem
E. Pinderhughes (1989)Understandind Race, Ethnicity and Power –The Free Press. New York
8
Ciò richiede una abilità di pensare in modo flessibile e di riconoscere che il proprio modo di
pensare e di comportarsi non è necessariamente l’unico valido. Per non reagire nel modo più ovvio
all’impatto con culture diverse proponendo come unico modello di comportamento l’assimilazione
alla nostra cultura può aiutare il concetto di «decentramento culturale la capacità cioè di sospendere
il giudizio intorno agli elementi culturali che emergono, di prendere coscienza di quali siano i nostri
riferimenti e di non anteporli alla conoscenza e comprensione dell’altro, di aprire uno spazio per la
narrazione e l’espressione dei riferimenti culturali altrui, di percepire quali siano le nostre
controattitudini culturali nei confronti dei nostri interlocutori»29 non dimenticando che la cultura
non va intesa come una identità statica sottratta alla storicità dei rapporti sociali.
Welfare e immigrazione : i diritti
Il modo con cui viene affrontata l’esperienza migratoria è influenzato dalle caratteristiche
soggettive dell’immigrato/a, ma concorrono anche e soprattutto le condizioni specifiche
dell’immigrazione e quindi il modo in cui sono accolti gli immigrati. A partire dai migranti come
soggetti di una domanda di diritti e non oggetto di una missione umanitaria delle società di arrivo, il
rapporto tra welfare e immigrati come utenti diventa centrale.
Vi sono due scorciatoie pericolose: 1) collocare automaticamente gli immigrati nell’area della
povertà non prestando attenzione ai processi di inclusione ed esclusione; 2) ritenere che gli
immigrati rappresentino, proprio per le loro condizioni di precarietà e povertà un costo particolare
sul sistema del welfare e in generale sull’economia dei Paesi di arrivo. Questa visione finisce per
imporsi, esagerando in genere sia la portata della povertà degli immigrati sia il carattere estremo
della medesima e poca attenzione viene data ai processi di inserimento30.
Molti sono i nodi da affrontare rispetto ai diritti degli immigrati : questi hanno a che fare con la
cittadinanza nazionale, ma anche con le rivendicazioni dei diritti universali collegati alle società
post-nazionali propri del processo di globalizzazione, quindi con quella condizione di appartenenza
parziale, identificata da alcuni sociologi come motivazione delle limitazioni poste all’accesso da
parte degli immigrati ai diritti sociali e quindi al welfare del Paese dove risiedono.
29
Ida Finzi . (2005) Adolescenti tra due culture: quale consulenza psicologica. Relazione convegno
Adolescenza e migrazione Roma
30
M. I Macioti E. Pugliese : opera citata
9
L’intreccio complesso tra i due processi, lo sviluppo del welfare e i flussi migratori, mette in gioco
grandi dibattiti:
1) La questione della cittadinanza.
I diritti sociali come il lavoro, l’assistenza sanitaria, la casa, l’istruzione, i servizi sociali, che
secondo il sociologo Marshall si riconoscono all’individuo in quanto cittadino di un certo Stato,
possono essere in discussione per gli stranieri immigrati proprio in quanto non cittadini dello Stato
in cui risiedono. Oggi, da fattore di progresso, uguaglianza e di inclusione, la cittadinanza sta
trasformandosi in privilegio di status, in fattore di esclusione e di discriminazione, in primo luogo
rispetto agli immigrati. Si tratta di una questione complessa in un periodo storico in cui gli Stati
nazionali e la cittadinanza sono erosi dai processi di globalizzazione e per quanto riguarda l’Italia
dal processo di unificazione europea. Va ricordato peraltro che in Italia vige ancora lo jus sanguinis,
cioè la titolarità del diritto di cittadinanza per nascita, cioè se figli o discendenti di cittadini italiani,
differentemente dai Paesi europei in cui vige lo jus solis cioè la cittadinanza giuridica di un
determinato Paese per il fatto di esservi nati o residenti.
Nel contesto di questo processo complesso, la cittadinanza in se stessa crea ulteriori disuguaglianze
con la designazione di non membri e connessi status di parziale appartenenza. Per la componente
dell’immigrazione extraeuropea odierna, proveniente essenzialmente dal Terzo Mondo, l’entità dei
diritti sociali è più limitata per definizione, in quanto molti dei diritti riguardano solo i cittadini
comunitari31. Di fatto ci sono due tipi di immigranti in Europa: quelli dei Paesi europei che si
recano in altri Paesi europei grazie alla libera circolazione, e quelli che arrivano da Paesi
extraeuropei. Questo porta a due modelli di inclusione sociale: uno per gli stranieri europei con
estensione dei diritti di cittadinanza come effetto naturale e l’altro che riguarda gli stranieri
extraeuropei ed è diverso da Paese a Paese.
2) La questione delle disuguaglianze nell’accesso al welfare: la stratificazine civica.
La condizione sociale degli immigrati deriva sia dal tipo di politica di ingresso e di accesso alla
residenza legale, sia dal tipo di politica sociale nei loro confronti. La studiosa Lidia Morris pone
l’attenzione alla creazione di nuove disuguaglianze attraverso una varietà di esclusioni e la presenza
di status di appartenenza parziale che è all’origine del sistema di stratificazione dei diritti,
«“stratificazione civica” di crescente complessità con un accesso differenziato alla distribuzione
convenzionale delle risorse tra cittadini, semi-cittadini e stranieri.
31
M. I Macioti E. Pugliese-(2003) L’esperienza migratoria – Edizioni Laterza
10
Ne consegue una classificazione dei migranti in differenti posizioni attraverso un processo di
inclusione ed esclusione, a partire dal loro status legale (regolare con permesso di soggiorno, con
carta di soggiorno, irregolare, richiedente asilo, rifugiato)»32.
«Le frontiere non sono l’unico luogo in cui gli Stati esercitano il controllo sui processi immigratori.
Gli Stati non solo vigilano sull’accesso ma controllano anche la distribuzione dei beni collettivi nel
territorio, fermo restando che ambedue queste funzioni sono condizionate in parte dagli obblighi
internazionali»33.
È nel quotidiano lavoro con gli immigrati che molti colloqui nei servizi sociali e sociosanitari
iniziano con domande relative al permesso di soggiorno, se l’immigrato ne è in possesso, di quale
permesso si tratta, quando scade, piuttosto che dall’ascolto della domanda di aiuto di cui
l’immigrato/a è portatore.
«Se è lo status di immigrato a determinare a quali benefici si ha diritto, le istituzioni preposte alla
loro fornitura possono legittimamente svolgere indagini e quindi esercitare una sorveglianza»34 e gli
operatori sociali possono trovarsi ad esplicare questa funzione di controllo nella fornitura delle
prestazioni di welfare.
I diritti non sono evidenti e assoluti, perchè associati al controllo delle prestazioni, e gli immigrati
sono immeritevoli per la sola "colpa", ora penale per la legge 94, di non essere in regola con il
permesso di soggiorno.
La titolarità del permesso di soggiorno e la capacità di osservare le improbabili norme che ne
regolano il rinnovo, diventano i requisiti fondamentali d’accesso ai servizi sociali del sistema di
welfare. Differentemente dal caso in cui a cadere al di sotto della soglia minima di reddito siano
cittadini italiani – situazione che garantirebbe il diritto ad interventi di natura assistenziale – ove a
trovarsi in difficoltà è il lavoratore straniero in fase di soggiorno precario, lo Stato è legittimato a
imporne il rimpatrio, non essendo tenuto a sobbarcarsi l’onere del mantenimento di una persona non
appartenente alla comunità, non cittadino, che non può auto-mantenersi. Se viene promulgata una
legge, o emanata una circolare più restrittiva, che rende più difficile restare in una condizione di
regolarità o che impone nuove condizioni e nuova documentazione per l’accesso a un beneficio, gli
immigrati possono perdere un diritto gia acquisito.
È bene ricordare che anche nella legislazione attuale gli immigrati "regolari" hanno gli stessi diritti
degli italiani, ma in realtà la questione è complessa ed è appunto ben evidenziata dalla
«stratificazione civica» dei diritti.
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L. Morris-Le politiche migratorie in Europa :un campo di battaglia per i diritti. in La Critica sociologica . 2002/2003
L. Morris ibidem
ibidem
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3) La questione delle politiche di protezione sociale e di come vengono effettivamente
implementate.
Sia la costruzione del welfare sia i flussi migratori e le modalità di inserimento o di persistente
marginalità degli immigrati nelle società ospiti sono processi dinamici, sottoposti a condizioni
istituzionali, economiche, sociali e culturali differenti nel tempo e nello spazio. La questione delle
politiche di protezione sociali e di come vengono effettivamente implementate è centrale.
La legge 40 del 1998 dettava per la prima volta una disciplina sistematica della materia,
considerando lo straniero immigrato regolare come soggetto di obblighi e diritti più complessivi e
non come un semplice fornitore di manodopera e/o come soggetto potenzialmente pericoloso per la
sicurezza pubblica, come era nelle precedenti leggi (L. 943/86, L. 39/90, L. 489/95).
La successiva legge, L. 189/2002, con una concezione diversa considera l’immigrato
essenzialmente come strumento di produzione, forza lavoro, da cui conseguono una serie di
limitazioni tra cui quelle relative ai tempi del permesso, (un anno invece dei due della L. 40/98)
della disoccupazione (sei mesi invece di dodici) e differenze nelle condizioni del ricongiungimento
familiare. La richiesta nominativa reintrodotta dalla legge come unico meccanismo di incontro tra
domanda e offerta di lavoro rende più difficile il mantenimento della condizione legale del
soggiorno.
La L. 94/2009 sembra imporre agli operatori anche la segnalazione per l’espulsione di coloro che
hanno perso il soggiorno, per esempio una donna che ha lavorato per anni come badante a tempo
pieno, si è poi ammalata e conseguentemente ha perso il lavoro, casa e reddito e il permesso di
soggiorno, quindi qualsiasi diritto di assistenza. È a questo che si sono opposti operatori del
Servizio Sanitario Nazionale con il Non segnaliamo day, vincendo un’importante battaglia non
permettendo che venisse introdotto l’obbligo di segnalazione degli immigrati che richiedevano
assistenza sanitaria, come previsto in un primo momento nella proposta di legge.
Nella pratica quotidiana del lavoro sociale non basta essere convinti che l’attuazione dei diritti è
auspicabile, è necessario che ci siano le condizioni per la realizzazione della loro attuazione e
quindi la esigibilità degli stessi da parte degli interessati. Ciò richiede non solo leggi che sanciscano
i diritti ma anche la loro conseguente implementazione e quindi lo studio delle condizioni, dei
mezzi e delle situazioni in cui questo o quel diritto sociale possa essere realizzato. Questo è stato ed
è uno dei problemi nella realtà italiana.
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Ma i diritti sono in realtà soggetti ad una negoziazione politica all’interno di un quadro burocratico
di controlli in cui il formale sistema di erogazione delle prestazioni è permeato di pratiche
informali: una
ASL
ASL
prevede riabilitazione anche per stranieri irregolari con tesserino
STP,
un’altra
no; un Municipio prevede l’erogazione dell’assegno di maternità con permesso di soggiorno
altri chiedono la carta di soggiorno. L'accesso e la fruibilità dei servizi sanitari e sociali, previsti
dalle leggi italiane, sono spesso compromessi da un lato dalla mancanza di informazione e/o di
consapevolezza dei propri diritti da parte degli immigrati/e, e dall'altro frequentemente dalla scarsa
e lacunosa informazione degli operatori sulla normativa vigente che regola le diverse possibilità e
modalità di accesso alle prestazioni per stranieri.
La non conoscenza della normativa relativa all’immigrazione, la differente applicazione della stessa
nelle diverse regioni e spesso nelle diverse
ASL
della stessa città ha aumentato la discrezionalità
dell’operatore che viene ad avere aumentati spazi di potere in presenza di difficoltà di comprensione
da parte dello/a straniero/a, che peraltro manca di riferimenti culturali sull’organizzazione del
welfare italiano35.
Perchè questa situazione non si trasformi in discriminazione istituzionale36, cioè quella forma di
esclusione dai diritti di cui gli operatori non si sentono responsabili perchè "non dipende da loro" ma
dalle norme, o dalla burocrazia , sono necessarie prassi attive di implementazione delle leggi da
parte degli operatori. Con il termine discriminazione istituzionale si intende l’effetto discriminatorio
prodotto da procedure amministrative la cui applicazione comporta l’accentuarsi di condizioni di
evidente disuguaglianza sociale per alcune categorie di cittadini, in genere appartenenti a gruppi
deboli. La discriminazione istituzionale ha due specifiche caratteristiche: la presenza di procedure
burocratiche e amministrative che producono ineguaglianze e l’assenza o la scarsa rilevanza della
volontà cosciente degli individui che la praticano.37
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Elena spinelli: immigrazione e servizio sociale –opera citata
Con il termine discriminazione istituzionale si intende l’effetto discriminatorio prodotto da procedure
amministrative la cui applicazione comporta l’accentuarsi di condizioni di evidente disuguaglianza
sociale per alcune categorie di cittadini, in genere appartenenti a gruppi deboli. La discriminazione
istituzionale ha due specifiche caratteristiche: la presenza di procedure burocratiche e amministrative che
producono ineguaglianze e l’assenza o la scarsa rilevanza della volontà cosciente degli individui che la
praticano.
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37
Elena Spinelli:.opera citat
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Vari sono gli esempi : rifiutare l’iscrizione al SSN di immigrati regolari perchè non hanno la
residenza nel territorio della ASL dove di fatto vivono,non tenendo in considerazione che è un loro
diritto e quindi va implemenato come è stato poi fatto grazie a quesiti posti da operatori di ASL di
Roma agli uffici competenti regionali che hanno indicato il domicilio in alternativa alla residenza ;
o rifiutare di far fare la richesta del sussidio previsto per la maternità a immigrate che hanno il
permesso di soggiorno di 6 mesi perchè il sussidio arriva quando il permesso di soggiorno è
scaduto,prassi contestata da alcune assistenti sociali sulla base del diritto che non poteva essere
perso per la inefficienza della burocrazia su cui invece intervenire.
Sembra importante per gli operatori darsi tempo per la riflessione sulle scelte amminastrative e
organizzative sapendo che possono essere rivisitate non avvallando passivamente prassi non più
personalizzate di uso delle risorse.
Un esempio è la scelta dell’affidamento familiare invece
dell’istituto per figli di donne immigrate che lavorano a pieno tempo o ancora le case-famiglia per
madri con figli in cui si è passati da una organizzazione che permetteva alle madri di cucinare, ad
una con i pasti precotti forniti da una qualche cooperativa. Non poter cucinare può avere un valore
affettivo e simbolico per le madri immigrate tale da rifiutare la risorsa offerta come è successo più
volte. Si tratta di riconoscere agli utenti immigrati quel potere di influenzare le scelte organizzative,
adeguando le prestazioni ai loro bisogni, avviando un processo riorganizzativo
che
non
necessariamente rappresenta un costo maggiore.
Per quanto riguarda i diritti sociali e l’accesso ai servizi, diventa importante non solo intervenire
perchè circolino le informazioni sui diritti, ma anche produrre e diffondere conoscenze sulle criticità
dell’accesso utilizzando il criterio di ragionevolezza o irragionevolezza della «stratificazione
civica» per una eventuale prassi di contrasto ad un sistema di ingiustizia sociale.L’intervento sociale
non può non avere un peso politico se si interviene per l’inclusione di fasce della popolazione
escluse o marginali38, significa far parte di un progetto politico di una società di cui solo se si è
attori coscienti si garantirà la partecipazione degli utenti: nel caso specifico gli immigrati nei
progetti che li riguardano.
Il lavoro sociale comporta pensare, capire e confrontarsi anche in modo critico con il potere nella
società e quindi nelle organizzazioni in cui si opera e nelle relazioni professionali che si stabiliscono
per promuovere una maggiore giustizia sociale ed economica.
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F:olivetti Manoukian opera citata
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