Una camera magmatica è una zona nella crosta terrestre

INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) presenta Vulcani in podcast.
Con il supporto tecnico di Italian Podcast Network.
Salve a tutti, sono Sonia Topazio, l’addetto stampa dell’Istituto Nazionale di Geofisica e
Vulcanologia.
Bentornati ad un nuovo episodio del nostro podcast sui vulcani italiani.
In questo audio parleremo dei Campi Flegrei, in compagnia di grandi esperti del settore.
Vi ricordo che questa trasmissione audio è liberamente scaricabile attraverso I-tunes, il canale
Freerumble dell’INGV, Italian Podcast Network, Culturabile.
I Campi Flegrei, le cui sponde vengono bagnate dalle acque del Golfo di Pozzuoli, sono stati narrati
da Dante, da Virgilio, e da altri grandi poeti.
Storia e leggenda si uniscono nei viaggi del Gran Tour di Wagner, Goethe, Stendhal che vedevano
nelle cavità vulcaniche un mondo magico.
Questa terra magnifica che pur compromessa da una cementificazione selvaggia è ancora
straordinariamente bella e dal paesaggio variabile nel quale si alternano laghi e spiagge sinuose,
isolette, ripidi promontori ed ondulate colline vulcaniche, il giallo del tufo, il colore del mare il
verde della vegetazione, le fumarole, i vapori, le sorgenti termali zampillanti, testimoniano che
questa è una terra geologicamente giovane. Ed è proprio della geologia dei Campi Flegrei che
andremo ad approfondire questo podcast audio con i vulcanologi Mauro Di Vito, Monica Piochi e
Massimo Russo, ricercatori della Sezione napoletana dell’INGV, già Osservatorio Vesuviano.
Prego, diamo la parola a Mauro Di Vito, che da anni lavora sui vulcani napoletani, le loro eruzione
e il loro impatto sulla vita dell’uomo.
I Campi Flegrei sono un campo vulcanico che comprende decine di centri eruttivi prodotti da
eruzioni esplosive ed effusive che copre un’area di oltre 200 chilometri quadrati.
Essi si sviluppano nella parte centrale del Graben della Piana Campana, tra il Lago Patria a nord e la
valle del Sebeto ad est.
I Campi Flegrei rappresentano una parte del distretto vulcanico flegreo che comprende anche il
campo vulcanico dell’Isola d’Ischia e l’Isola di Procida.
Il sistema vulcanico dei Campi Flegrei è stato dominato da due eruzioni principali, l’eruzione
dell’Ignimbrite Campana avvenuta 40 mila anni fa e quella del Tufo Giallo Napoletano avvenuta 15
mila anni fa.
L’attività vulcanica nei Campi Flegrei è iniziata sicuramente prima di 80 mila anni fa, che è l’età
delle rocce più antiche affioranti, visibili lungo la falese del Monte di Procida e a Napoli.
Nel periodo che precede l’eruzione dell’ Ignimbrite Campana si sono formati vari centri eruttivi che
hanno prodotto eruzioni sia effusive che esplosive parzialmente visibili nella città di Napoli, a
Monte di Procida e al nord della piana di Quarto.
Questi resti di vecchi vulcani sono rappresentati dalle lave di San Martino, dai coni di tufo e di
cenere di Miliscola e Vita Fumo a monte di Procida, dai duomi lavici di Cuma e Punta Marmolite,
rispettivamente a Pozzuoli e Quarto e dai tufi di Corso Vittorio Emanuale, Capodimonte e Monte
Echia a Napoli. Monte Echia in particolare è il luogo del primo insediamento grego nella città di
Napoli.
Le numerose eruzioni esplosive di questo periodo hanno prodotto estese colte di rocce piroclastiche,
alcune delle quali distribuite anche sugli Appennini.
L’eruzione dell’Ignimbrite Campana è la più grossa eruzione esplosiva avvenuta nell’area
Mediterranea negli ultimi 200 mila anni.
Durante l’eruzione furono emessi almeno 200 km cubi di magma e si depositarono ceneri
vulcaniche su un’area vastissima, estesa ad est fino in Russia.
L’eruzione nelle prime fasi generò una colonna eruttiva alta fino a 40 Km che fu spostata dai venti
in coda verso est, dalla quale si accumulò al suolo uno spesso deposito di pomici e di ceneri a
caduta. Successivamente si generarono correnti piroclastiche che sono miscele di gas, ceneri e
frammenti di magma incandescente che scorrono al suolo ad elevata velocità e furono in grado di
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superare i rilievi di oltre 1000 metri e di scorrere sul mare. Queste correnti hanno prodotto tufi che
ricoprono l’intera Piana Campana e i rilievi circostanti, noti come tufo grigio campano.
La gran parte della piana, precedentemente sommersa, diventò terra emersa grazie all’accumulo di
questa spessa coltre di tufi. La camera magmatica che alimentò l’eruzione era localizzata tra sei e
otto km di profondità e il suo parziale svuotamento aveva portato alla formazione della caldera dei
Campi Flegrei, la struttura che ancora oggi determina la forma principale del Campi Flegrei, questa
grossa depressione. La caldera venne poi invasa dal mare e parzialmente colmata per la messa in
posto di centinaia di metri di sedimenti marini e rocce laviche e tufacee prodotte da centri eruttivi
localizzati esclusivamente nella struttura calderica.
L’eruzione del tufo giallo napoletano avvenuta 15 mila anni fa è la seconda per volume emessa
nella caldera, calcolata in circa 50 km cubi. A questa eruzione è associata un nuovo collasso
calderico, i cui margini ricadono all’interno della precedente, generata dell’eruzione dell’
Ignimbrite Campana. Il margine visibile di tale collasso calderico è rappresentato solamente dal
versante occidentale ad alto angolo della collina di Posillipo, poi parzialmente modificato ad opera
dell’erosione operata dal mare che invase la nuova caldera subito dopo il collasso.
Il tufo giallo napoletano è costituito da depositi tufacei giallastri, edificati nelle zone prossimali per
un processo di trasformazione della particelle di vetro in zeoliti.
Il tufo cosi edificato costituisce l’ossatura di quasi tutta la città di Napoli ed è stato ampiamente
utilizzato come materiale da costruzione sin dall’epoca greca. Il tufo nelle aree distali verso la Piana
Campana e gli Appennini passa a depositi di ceneriti disciolti di color grigio chiaro distribuiti su
un’area vastissima. L’attività vulcanica successiva avvenne esclusivamente all’interno della nuova
caldera con oltre 70 eruzioni, quasi tutte esplosive, che hanno formato numerosi edifici vulcanici. Il
vulcanismo si è concentrato principalmente in epoche di attività intense e frequente, alternati a
periodi di quiescenza misurata variabile da centinaia a migliaia di anni.
L’eruzione del monto Nuovo del 1538 d.C. rappresenta l’ultimo momento eruttivo della Caldera,
l’unico avvenuto in epoca storica e ben descritto nei documenti coevi. Solo due delle eruzioni
avvenute negli ultimi 15000 mila anni sono state di energia elevata e il loro deposito hanno
ricoperto aeree molto ampie fino ai contrafforti Appenninici. Si tratta dell’eruzione pliniana di
Agnano Pomici Principali e Agnano Montespina, mentre sono invece prevalenti gli eventi eruttivi di
magnitudo media e bassa.
La loro variabilità si manifesta con diversa dispersione reale dei depositi e diversi volumi di magma
emesso dai singoli eventi che solo durante le eruzioni pliniane hanno superato il kilometro cubo.
Le eruzioni esplosive sono generalmente dominate da esplosioni fratomagmatiche, dovute cioè
all’interazione tra magma e acqua esterna, alternate a fasi dominate solo da esplosioni magmatiche
di energia variabile. Durante gli eventi fratomagmatici sono state generate correnti piroclastiche che
hanno prodotto depositi con una distribuzione areale, in funzione della magnitudo dell’eruzione e
della localizzazione del centro eruttivo. Depositi a caduta di particelle sono stati generati invece
dalle fasi magmatiche dell’eruzione e in relazione alle direzioni dominanti dei venti all’altezza
raggiunta delle colonne eruttive i prodotti si sono dispersi in gran parte verso est durante le eruzioni
pliniane e sub pliniane e in direzioni variabili, ma prevalentemente verso nord-est durante l’eruzioni
di energia bassa e media. L’assetto geologico della caldera flegrea, determinatosi dopo l’eruzione
del tufo giallo napoletano ha permesso lo sviluppo di due diverse zone eruttive. La più importante
localizzata nella parte centro-settentrionale della caldera ed è caratterizzata dalla presenza di decine
di bocche eruttive. Essa si sviluppa tra le aree di Pianura e Soccava ad oriente, la piana di San Vito
ad occidente e i rilievi lavici e tufacei di Accademia e di Nisida a meridione. La seconda area
caratterizzata da un minore accadimento di eventi si sviluppa nella parte occidentale della caldera
tra Capo Miseno, Baia, i fondi di Baia, Averna e Monte Nuovo. Questa caldera è caratterizzata
anche da significativi fenomeni di deformazione del suolo che hanno portato a partire da almeno
10500 anni fa ad un innalzamento complessivo di oltre 100 metri della sua parte centrale,
corrispondente a buona parte del territorio comunale di Pozzuoli. L’ultima eruzione quella del
Monte Nuovo del 1538 è avvenuta dopo un periodo di quiescenza durato oltre 3500 anni. Questa
eruzione è stata proceduta da un intenso sollevamento del suolo e da sismicità molto frequente ed
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intensa, che hanno avuto le loro fasi culminanti pochi giorni prima dell’evento eruttivo. Episodi di
lento sollevamento e abbassamento del suolo, il noto fenomeno di bradisismo, caratterizzano anche
la dinamica recente della Caldera. Le due più importanti crisi recenti sono avvenute tra il 1969 e il
‘72 e tra il 1982 e l’84. Esse sono state accompagnate da centinaia di terremoti e sollevamento del
suolo di circa tre metri e mezzo, fenomeni che hanno notevolmente danneggiato l’abitato di
Pozzuoli. La diffusa attività fumarolica e idrotermale, l’eruzione storica del Monte Nuovo e le
recenti crisi bradisismiche sono i principali fenomeni vulcanici che testimoniano che il sistema
magmatico dell’area è ancora attivo. Le recenti crisi bradisismiche hanno determinato la necessità
di realizzare azioni di Protezione Civile finalizzate alla gestione di una lunga crisi sismica fino alla
preparazione di un piano di emergenza per affrontare una possibile ed imminente eruzione
vulcanica. Nel corso del bradisismo avvenuto nel 1969-72 i gravi danni subiti nel centro storico di
Pozzuoli hanno portato le Autorità a disporre l’evacuazione di 3000 abitanti verso il nuovo quartiere
di Rione Toiano, sempre nel Comune di Pozzuoli. Nel 1982-84, gli sciami sismici, le deformazioni
del suolo e la valutazione della vulnerabilità degli immobili hanno portato a una nuova evacuazione,
questa volta di 30000 persone, provenienti da Pozzuoli, poi definitivamente ricollocati in un nuovo
quartiere di Monte Ruscello, realizzato sempre nella parte nord occidentale del Comune di
Pozzuoli.
Inoltre, il protrarsi della crisi ha indotto la comunità scientifica e le autorità di Protezione Civile a
elaborare ulteriori piani per la gestione dell’emergenza nel caso di ripresa dell’attività eruttiva nella
Caldera dove vivono circa 350000 mila persone.
Musica
Monica Piochi ricostruisce il funzionamento dei vulcani napoletani attraverso lo studio delle rocce
in affioramento e nel sottosuolo.
La vulcanologa Monia Piochi: Il vulcanismo dei Campi Flegrei ha prodotto depositi di pomici,
scorie, ceneri, ossidiane e poche lave, con moderati gradi di arricchimento in potassio e uno spettro
composizionale continuo che varia da trachi-basalto a trachite e fonolite.
Le rocce trachi-basaltiche e quelle latitiche rappresentano i magmi meno evoluti, cioè quelli che
hanno composizione ricche in magnesio e povere di silicio. Le rocce trachitiche e fonolitiche invece
sono rappresentative di magmi estremamente evoluti, poveri in magnesio, ricchi in silicio e in
potassio, oltre che di elementi minori incompatibili presenti nel fuso in parti per milioni, del tipo
rubidio, zirconio, niobio, lantanio.
Le rocce meno evolute sono il prodotto di poche eruzioni a bassa intensità esplosiva, mentre le
rocce trachi-fonolitiche, derivanti da vulcanismo di intensità e magnitudo molto variabili, sono il
litotipo dominante, anche in termini volumetrici. Si stima che il volume totale di magma trachifonolitico eruttato sia superiore ai 300 km3; l’equivalente di qualche miliardo di tir. La maggior
parte di questo volume fu eruttato nel corso di due eventi catastrofici avvenuti 39.000 e 15.000 anni
fa: sono l’eruzione dell’Ignimbrite Campana, che ha prodotto 300 km3 di magma e quella del Tufo
Giallo Napoletano che ne ha prodotto 50. Questi volumi dono eccezionali se comparati ai 5 km3
prodotti dall’eruzione vesuviana di Pompei. Gli altri eventi vulcanici flegrei, molti dei quali più
recenti di 15.000 anni, hanno eruttato volumi di magma generalmente inferiori a 0.5 km3.
Guardando nel dettaglio le pomici, le scorie, e le ceneri, si vede che queste sono costituite da una
prevalente matrice vetrosa, che rappresenta il liquido magmatico raffreddato rapidamente; un vero
esemplare naturale di Murano! Tale matrice presenta quantità fino al 70-80% di vuoti, anche
chiamati vescicole e che sono una sorta di effervescenza prodotta dalle specie gassose presenti nel
fuso: tra queste l’acqua è la più abbondante e seguono poi in ordine di abbondanza decrescente
l’anidride carbonica, il cloro, il fluoro e lo zolfo. Le lave e le ossidiane si differenziano per il più
basso grado di vescicolazione che raggiunge valori prossimi a zero nelle ossidiane e le lave hanno
un contenuto generalmente più elevato di cristalli. Il clinopirosseno diopsidico, che si riconosce per
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l’aspetto prismatico ed il colore verde bottiglia, è il cristallo dominante nelle rocce meno evolute
dove si associa ai cristalli trasparenti di plagioclasio e ai rari cristalli tondeggianti, giallo-verde di
olivina. Il pirosseno si subordina al plagioclasio e al sanidino, anch’esso semi trasparente nelle
rocce trachitiche e fonolotiche. La magnetite nera e la biotite, unica fase cristallina idrata, quella che
ci si attacca ai piedi quando passeggiamo sulle spiagge locali, sono minerali accessori in tutte le
rocce; al solo microscopio si possono poi osservare l’apatite e solo occasionalmente cristalli di
titanite, rara sodalite e nefelina, e, in contrasto con la natura potassica delle rocce, il quarzo.
La petrologia indica che i processi che sono avvenuti nei magmi flegrei sono gli stessi che si
osservano nel Vesuvio e nei sistemi vulcanici di tutto il mondo: la cristallizzazione e il
degassamento magmatici, a cui si associano l’assimilazione crostale, il mescolamento di magmi o di
componenti magmatici, sia in camere magmatiche sia nel corso della risalita lungo le fratture. La
composizione ricca in silice della maggior parte delle rocce vulcaniche flegree indica che i magmi
hanno generalmente stazionato per tempi piuttosto prolungati nella crosta terrestre e che la risalita
di magmi meno evoluti da livelli profondi avviene solo occasionalmente, in particolari condizioni,
ovvero dove le faglie crostali consentono l’agevole ascesa di tali fusi. Ad esempio, la più grande
camera magmatica trachi-fonolitca flegrea, cioè quella che ha alimentato l’eruzione dell’Ignimbrite
Campana, richiese varie migliaia di anni per formarsi, in base a studi della serie radioattiva
dell’uranio.
In prima battuta si può dire che l’associazione mineralogica osservata nelle rocce è il risultato del
raffreddamento e della decompressione che il magma ha subito dal momento della sua formazione,
alla superficie, cioè nelle zone crostali estremamente fratturate in cui il magma si è accumulato o è
semplicemente transitato. La separazione dei cristalli che progressivamente si formano dal liquido,
impoverisce quest’ultimo degli elementi che sono entrati a far parte delle fasi cristalline e determina
quindi le composizioni via via diverse fino ai termini più evoluti. Il vetro della matrice è, quindi, il
liquido magmatico residuo e la sua composizione è normalmente comparabile o più evoluta della
roccia in toto, in funzione del contenuto in cristalli della stessa. La presenza delle vescicole è,
d’altro canto, indicativa dell’essoluzione dei volatili a causa della diminuita solubilità nel fuso; tra
questi l’anidride carbonica è la prima ad abbandonare il liquido per entrare nella fase gassosa, a
causa della sua minore solubilità rispetto ad esempio a quella della più abbondante acqua.
Se si guarda poi nel dettaglio, si rileva la maggiore complessità dei processi evolutivi del magma.
Infatti, nella maggior parte dei depositi flegrei si riconoscono generazioni diverse di minerali che
coesistono in rocce in cui la composizione suggerirebbe una paragenesi di altro tipo. In questi casi il
vetro residuale può anche essere eterogeneo alla scala microscopica, con porzioni a grado diverso di
evoluzione. La composizione isotopica degli elementi, e tra i più utilizzati sono lo stronzio, il
nodimio, il piombo e l’ossigeno, aiuta notevolmente a riconoscere i processi più complessi e infatti
nelle diverse unità eruttive flegree e nelle fasi sia amorfe che cristalline in essi contenuti, tale
composizione è estremamente variabile. Queste caratteristiche petrologiche sono relazionate
all’ingestione parziale o totale delle rocce crostali con cui il magma viene in contatto nel corso del
suo percorso verso la superficie o anche a causa del mescolamento di magmi che hanno subito
storie evolutive diverse.
L’assimilazione crostale dei magmi meno evoluti si verifica nel basamento crostale, è il caso
esemplare dato dall’eruzione di Minopoli 2, e ciò cancella le caratteristiche dei magmi primari. Da
ciò deriva l’incertezza sulla genesi dei magmi flegrei, che è sicuramente nel mantello sottostante la
Campania, forse di tipo intra-placca e metasomatizzato da componenti di subduzione data l’affinità
potassica, l’elevato contenuto di elementi litofili e terre rare, le anomalie positive di piombo e
negative di tantalio e niobio delle rocce.
La risalita dei magmi dai serbatoi profondi e il mescolamento di questi con i magmi residenti nelle
camere superficiali è tra i possibili e più frequenti meccanismi, non solo che si sono verificati nei
magmi flegrei, ma anche di innesco delle eruzioni. E’ il caso delle eruzioni dell’Ignimbrite
Campana, del Tufo Giallo Napoletano, ma anche di molte di quelle avvenute in tempi più recenti:
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ad esempio l’eruzione di Averno 2 e di Agnano Monte Spina. In particolare, negli ultimi 15.000
anni, sono stati individuati tre diversi tipi di magma nel sottosuolo flegreo: questi sarebbero il
residuo trachitico del Tufo Giallo Napoletano, il magma di Minopoli 2 e una trachite eruttata 4.000
anni fa circa, nel corso dell’eruzione di Astroni 6. Questi magmi verosimilmente stazionavano in
porzioni crostali diverse e hanno interagito tra loro nel corso della risalita verso la superficie.
A questo punto la domanda da porsi per comprendere quale possa essere l’attuale geometria del
sistema magmatico flegreo è: dove esattamente si sono localizzati i magmi e i relativi serbatoi
magmatici? Ed inoltre, che temperatura e contenuti in volatili avevano?
Un’adeguata risposta può essere trovata studiando microscopiche goccioline di liquido e bollicine di
gas magmatici che casualmente rimangono intrappolate all’interno del cristallo nel corso della sua
crescita. Si possono infatti ricavare le composizioni e le temperature di omogeneizzazione del fuso.
In particolare, il contenuto di acqua e CO2 dipende dalla solubilità di tali gas nel fuso silicatico, ed è
funzione della temperatura e della pressione. Le goccioline di fuso trachi-basaltico e latitico, cioè le
goccioline rappresentative dei magmi meno evoluti, ricche in CO2 e con temperature di 1100°C,
presenti nelle olivine e in pochi cristalli di pirosseno poco evoluto in rocce eruttate 10.000 anni fa
circa, sono state intrappolate a profondità variabili tra 100 e 250 MegaPascal, ovvero a più di 4 km
di profondità nel sottosuolo. Le profondità massime di intrappolamento delle goccioline meno
evolute e quindi di cristallizzazione registrate ai Flegrei sono 8 km, contrariamente ai vicini vulcani
di Procida, Ischia e Vesuvio dove le profondità sono anche superiori ai 13 km. I fusi trachitici, la
cui temperatura invece oscilla tra 870 e 1080°C, e quelli fonolitici che hanno temperature basse fino
a 800°C, sono stati invece intrappolati in cristalli più evoluti di pirosseno a profondità inferiore a
150 Mega Pascal in generale, ma più spesso inferiori a 100 MegaPascal, e quelli estremamente
evoluti, sono intrappolati in cristalli di feldspato a profondità inferiori a 100 MegaPascal. Questi
magmi, molto evoluti, hanno perso completamente l’anidride carbonica a causa del degassamento.
Il loro contenuto in volatili è dato principalmente dall’acqua che può arrivare fino al 6% in peso, nel
caso dell’Ignimbrite Campana, dal cloro e anche, in alcuni casi, dallo zolfo. I magmi di eruzioni del
periodo recente, tipo l’eruzione di Solfatara e di Astroni, hanno stazionato a profondità inferiori a
60 MegaPascal. In qualche caso, ad esempio nel caso dell’eruzione di Agnano Monte Spina, il
corpo magmatico, in condizioni pre eruttive è stato alimentato da anidride carbonica giunta
dall’esterno, cioè da un serbatoio probabilmente più profondo.
Le condizioni chimico-fisiche dei magmi e dei serbatoi magmatici flegrei sembrano quindi essere
grossomodo ricorrenti. Ed allora dobbiamo chiedere e cercare di capire se i magmi o fusi in
condizioni di eruttabilità sono presenti oggi nel sottosuolo flegreo e che tempi impiegherebbe un
magma per arrivare in superficie.
Il serbatoio più profondo, a 8 km, dove stazionano i magmi trachi-basaltici e latitici che evolvono
anche per assimilazione crostale, è verosimilmente ancora attivo; infatti esso coincide con una
discontinuità sismica associata alla presenza di fuso. Le indagini sismiche invece non individuano, a
profondità minori di otto km, sacche di fuso più grandi di 1 km3. Il metodo cioè non risolve volumi
di magma trachitico paragonabili a quello dell’eruzione più recente di Monte Nuovo, cioè 0,1 km3,
se questo è presente in forma di dicchi lunghi e larghi qualche centinaia di metri. Tali dicchi, quindi,
potrebbero in realtà esistere nel sottosuolo flegreo e forse diradarsi dal serbatoio profondo verso la
superficie. A supporto di tale ipotesi ci sono queste informazioni: la presenza delle rocce termometamorfiche individuate a profondità di 3000 m durante i sondaggi esplorativi effettuati dall’Agip,
l’elevato gradiente geotermico compatibile con temperature magmatiche già a profondità di 6 km e
l’equilibrio tra le temperature misurate e quelle di formazione dei minerali idrotermali nella zona
più prossima alla Solfatara.
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Inoltre la presenza di magma nel sottosuolo flegrego, sarebbe suggerita anche dal degassamento
osservato alla superficie, un degassamento caratterizzato da anidride carbonica e da oltre che acqua
e altri tipi di volatili e tra questi abbiamo l’elio, che ha valori isotopici comparabili a quello
misurato nelle inclusioni fluide dei cristalli, tra questi volatili manca l’HCL, che sulla base degli
studi petrologici rimarrebbe concentrato nel magma in evoluzione formando le brine.
Infine, il cenno ai tempi di risalita del magma. Questi possono essere dedotti dalla conoscenza dei
tempi di crescita dei cristalli e dall’applicazione di questa conoscenza ai cristalli di ultima
formazione che si riconoscono nella matrice vetrosa, ovvero i microliti. Queste conoscenze insieme
alle descrizioni del fenomeno effettuate dagli osservatori dell’epoca, suggeriscono che il magma
eruttato nel 1538 a Monte Nuovo, una volta raggiunte le condizioni di unrest della camera
magmatica, impiegò qualche decina di giorni per attraversare i 4-5 km di crosta da dove stazionava.
Musica
Voce della presentatrice: L’esperto Massimo Russo che sta lavorando come autore su un nuovo
volume sui minerali dei Campi Flegrei
Massimo Russo: Lo studio dei minerali dei Campi Flegrei ha mostrato negli autori passati scarso
interesse se paragonato con quelli del Somma-Vesuvio. Gli Autori principali sono stati Arcangelo
Scacchi e suo figlio Eugenio alla fine del 1800, Zambonini agli inizi del 1900 e Antonio
Parascandola fino alla metà degli anni cinquanta del secolo scorso.
Attualmente per i Campi Flegrei sono note poco più di 100 specie e tra queste 6 sono località tipo,
cioè trovate per la prima volta al mondo in quest’area. Nessuno esclusivo di quest’area: Marialite,
Nacholite, Alum-(K), Dimorphina, Voltaite, Misenite.
Mentre per altre due: Calciobetafite, ora screditata dopo la revisione del gruppo di pirocloro e
Nocerite, ora uguale alla fluoborite.
Gli autori che più hanno contribuito allo studio di quest’area sono stati Arcangelo Scacchi e
Antonio Parascandola. Il primo per quanto riguarda più in generale i Campi Flegrei, mentre
Parascandola per quanto riguarda i minerali della breccia museo dell’Isola di Procida e per la
Solfatara di Pozzuoli.
Per quanto riguarda i minerali possiamo considerare quelli relativi all’eruzione fortemente esplosiva
dell’ Ignimbrite Campana, detta anche del Tufo Grigio Campano, emessa circa 39.000 anni fa, e
quelli successivi a tale evento.
Tra i prodotti dell’Ignimbrite Campana spicca il Piperno, si tratta di una roccia costituito da
materiale piroclastico con scorie nere schiacciate molto utilizzato a Napoli per le antiche costruzioni
di lustro, esempio il porticato della facoltà di geologia.
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In questo materiale è stato rinvenuto un minerale che per lunghi anni è stato problematico, la
cosiddetta breislakite scoperta da Breislak stesso nel 1801. Tale specie fu successivamente confusa
con altri minerali come il ferro, la bissolite, il pirosseno, l’orneblenda, l’iperstene, la fayalite e
l’ilvaite. Solo nel 1969 una ricercatrice dell’Università di Roma, Federico, individuando nella
composizione chimica il boro, risolse il problema indicandola uguale alla vonsenite, si tratta di un
borato di ferro e magnesio. Sempre nel piperno fu individuato per la prima volta al mondo la
marialite descritta compiutamente da Vom Rath nel 1866 a cui diede il nome della moglie Maria
Rosa (si tratta di un silico-alluminato di sodio e calcio).
Altro prodotto relativo all’ Ignimbrite Campana è una breccia d’esplosione denominata Breccia
Museo descritta per la prima volta da De Lorenzo nel 1904 ed era denominata così per la grande
varietà di litotipi presenti in essa.
Questa breccia è presente soprattutto nella zona di Monte di Procida - Torregaveta e all’Isola di
Procida. I minerali sono molto simili a quelli che si rinvengono al Monte Somma: come analcime,
magnetite, marialite, titanite, zircone, zirconolite. Mentre unici per la Campania, al momento sono
la clinozoisite, la liottite e la mordenite
L’esplosione dell’ Ignimbrite Campana con i suoi prodotti ha coperto l’intera Regione e nel suo
viaggio diciamo, raggiunse i contrafforti dell’Appennino campano strappando e avviluppando i
blocchi carbonatici che incontrava. Questa ignimbrite che viaggiava ad alta velocità, era calda e
soprattutto ricca in acido floridrico, la conseguenza fu la formazione di numerosi minerali
interessanti quali la nocerite ora, come abbiamo detto prima la fluoborite, la fluorite ed altri studiati
essenzialmente da Arcangelo Scacchi e Zambonini. Questi prodotti furono rinvenuti essenzialmente
nel salernitano e nel casertano.
Successivamente all’ Ignimbrite Campana possiamo indicare per la ricchezza di minerali le aree
fumaroliche dei Campi Flegrei: Solfatara di Pozzuoli, Pisciarelli di Agnano, Mofete, Grotta dello
Zolfo.
Alla Solfatara di Pozzuoli i gas di tipo idrotermale sublimano minerali sulle fumarole a più alta
temperatura, 145-164°C, come clorammonio, realgar e dimorfina, quest’ultimo scoperto per la
prima volta al mondo da Arcangelo Scacchi nel 1849. Mentre a temperature di più o meno di
100°C dove abbonda lo zolfo, l’acido solforico che si forma dall’idrogeno solforato con l’acqua,
attacca la roccia lasciando un residuo insolubile, essenzialmente di opale, e la formazione
successiva di incrostazioni cristalline di solfati idrati, alcuni di questi scoperti per la prima volta al
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mondo alla Solfatara come l’allume potassico, ora definito alum-(K)) e la voltaite, la nacholite nelle
Stufe di Nerone e la misenite della Grotta dello Zolfo.
Lo studio di questi minerali e di altri in fase di caratterizzazione sta continuando grazie alla
collaborazione tra l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, sezione di Napoli, Osservatorio
Vesuviano – il Gruppo Mineralogico Geologico Napoletano e il Dipartimento di Chimica
Strutturale e Stereochimica Inorganica dell’Università di Milano, ora dipartimento di chimica.
Musica
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Podcast Network e dal sito di Culturabile.
Pochi secondi di musica in chiusura.
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