RULES Research Unit Law and Economics Studies Paper No. 2014‐14 Title Transazione e arbitrato nel diritto pubblico By Lorenzo Cuocolo (ed.) Giulia Bellotto Michela De Santis Davide Paris INDICE PARTE I Il potere transattivo della pubblica amministrazione di Giulia Bellotto 1. Un’introduzione definitoria. – 2. La transazione nelle norme dell’ordinamento. – 3. I caratteri della transazione della p.a.. – 3.1. I pareri; 4.– Conclusioni; i vincoli di buon andamento e imparzialità della p.a. ex art. 97 Cost. PARTE II L’arbitrato nel Codice dei contratti pubblici di Michela De Santis 1. Introduzione. – 2. Arbitrabilità: l’art. 6 della L. 205/2000. – 3. Una storia infinita. – 4. La convenzione d’arbitrato. – 5. Il rapporto con l’arbitrato di diritto comune. – 6. Arbitrato amministrato e arbitrato libero. – 7. Nomina degli arbitri e fase introduttiva del procedimento. – 8. La sede. – 9. L’istruzione probatoria. – 10. Il segretario arbitrale. – 11. Il lodo e le impugnazioni. — 12. I costi dell’arbitrato. PARTE III L’accordo bonario ex art. 240 Codice degli appalti: la transazione nelle forme dell’arbitrato di Davide Paris 1. La ratio dell’istituto e la sua attuale disciplina. – 2. I principali nodi interpretativi, le distorsioni dell’istituto nella prassi e i possibili rimedi. PARTE I Il potere transattivo della pubblica amministrazione di Giulia Bellotto SOMMARIO: 1. Un’introduzione definitoria. – 2. La transazione nelle norme dell’ordinamento. – 3. I caratteri della transazione della p.a. – 3.1. I pareri. – 4. Conclusioni; i vincoli di buon andamento e imparzialità della p.a. ex art. 97 Cost. 1. Un’introduzione definitoria Il concetto di transazione anche quando ci si muove sul territorio delle p.a. non prescinde dalla definizione (e dalla ratio) che dà il Codice civile. L’art. 1965 c.c. che apre il Capo XXV dedicato alla transazione, la descrive come «il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro». Queste poche righe già individuano per sommi capi i caratteri salienti della transazione (amplius infra), ovvero la convergenza delle volontà delle parti (privato e p.a.), il conflitto delle rispettive posizioni e pretese e, infine, la volontà di trovare una soluzione condivisa mediante mutue concessioni. Caratteri questi tutti rinvenibili nella definizione civilistica che dottrina e giurisprudenza amministrativa e contabile1 hanno rielaborato adattondoli alle peculiarità pubblicistiche. Alla transazione di diritto pubblico sono estesi i caratteri generali della transazione sopra citata, con una regola indiscussa: al sacrificio di uno dei desiderata della p.a. corrisponde sempre un sacrificio anche da parte del privato, sua “controparte” in senso atecnico. Mai viceversa. Onde, tale regola «può nascondere [sì] una – parziale ma pur sempre contraria al pubblico interesse – “resa” della Amministrazione, laddove vi sia una rilevante differenza tra l’aliquid datum e l’aliquid retentum»2, ma mai la resa della sola p.a. a vantaggio esclusivo del privato. Diversamente, infatti, ne sarebbero lesi due fondamentali principi (e vincoli) dell’agire amministrativo: il buon andamento e l’imparzialità ex art. 97 Cost. e 1 l. 241/1990. Buon andamento poiché con la propria“resa” parziale, la p.a. rifugge dal primario interesse pubblico che deve sempre Sono infatti della Corte dei conti le parole per cui “di norma anche gli enti pubblici possono transigere le controversie delle quali siano parte ex art 1965 c.c.” (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009). 2 L. PENASA, L’arbitrato irrituale nelle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa, in Dir. Proc. Amm., 4, 2010, 1270 e ss.. 1 perseguire; imparzialità perché cedendo alle pretese di un privato e potenzialmente non a quelle di un altro, pone in essere un’illegittima discriminazione. Ciò premesso (come verrà specificato in appresso) «La dottrina e giurisprudenza meno recente ritenevano che potessero essere oggetto di transazione esclusivamente le obbligazioni nate nell’ambito dell’attività di diritto privato della P.A. Tuttavia, un ripensamento dottrinale e giurisprudenziale sulla natura delle obbligazioni pubbliche ha posto il problema in termini diversi, notando che l’ordinamento positivo può prevedere sia regimi giuridici differenziati per le obbligazioni pubbliche rispetto a quelle di diritto privato sia un regime giuridico unitario e che quest’ultimo è quello vigente nel nostro ordinamento. Pertanto, quale che sia la fonte dell’obbligazione, e quindi anche se essa nasce da legge o da provvedimento amministrativo, non mutano le regole giuridiche che ad esse presiedono. Ne consegue che possono essere oggetto di transazione anche le obbligazioni pubbliche, purché naturalmente siano già venute ad esistenza con la emanazione del provvedimento amministrativo o dell’atto dichiarativo in ipotesi di obbligazioni ex leges»3. E infatti, come ricorda la Corte dei conti4, solo a partire dal 1936, dottrina (Guicciardi5) ha ritenuto possibile una transazione in ordine ai «rapporti di diritto pubblico», nei casi in cui si prevedeva un sacrificio (in particolare l’esborso di una somma di denaro) della p.a. a fronte della rinuncia all’impugnazione di un atto amministrativo da parte di un privato. La transazione era tuttavia concepita non come un contratto ma, in generale, come un atto amministrativo unilaterale, che richiedeva l’accettazione (non la mera conoscenza) del cittadino quale condizione di efficacia. L’elaborazione dottrinale successiva6 ha riconosciuto che nei casi di accordo – non più volontà amministrativa unilaterale - tra p.a. e privato, si ravvisa un vero e proprio contratto di transazione ex artt. 1965 e ss. c.c. Da qui la teorizzazione di un’attività amministrativa spesso già prassi. 2. La transazione nelle norme dell’ordinamento L’ammissibilità delle transazioni della p.a. nel nostro ordinamento si rinviene in una molteplicità di disposizioni che più che ammetterla in generale, ne regolamentano e procedimentalizzano l’esecuzione, in senso sostanziale, o ne individuano i soggetti competenti. Esempio del primo tipo di disposizione è l’art. 14 r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 contenente le «disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato»; esso prevede infatti che «Deve essere sentito il parere del Consiglio di Stato prima di approvare gli atti di transazione diretti a prevenire od a troncare contestazioni giudiziarie qualunque sia l'oggetto della controversia, quando ciò che l'amministrazione dà o abbandona sia determinato o 3 Parere Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n. 26/pareri/2008. 4 Ma altresì Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2011, n, 4083. 5 E. GUICCIARDI, La transazione degli enti pubblici, in Arch. Dir. Pubbl., 1936, 207 e ss. 6 Ex multis, V. MIELE, La transazione nei rapporti amministrativi, in Scritti giuridici, Milano, 1987, II. determinabile in somma eccedente le lire 20.000.000 [rectius € 10.329,13]» e «Deve essere sentito il Consiglio di Stato anche per le transazioni di minore importo, quando l'amministrazione non si uniformi per esse all'avviso espresso dall'avvocatura erariale», che tra le sue funzioni annovera quella di predisporre «transazioni d'accordo con le Amministrazioni interessate o esprime[re] parere sugli atti di transazione redatti dalle Amministrazioni» (art. 13 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611). Sono invece esempi del secondo tipo l’art. 16 d.lgs. 165/2001 che attribuisce ai dirigenti di uffici dirigenziali generali il compito e il potere di promuovere e resistere alle liti, nonché «di conciliare e di transigere» (comma 1, lett. f)), e l’art. 7 d.p.r. 748/1972 per cui «ai dirigenti generali preposti alle direzioni generali e agli uffici centrali equiparati spetta in particolare, nell'ambito della competenza dei predetti uffici, di … f) concludere ed approvare le transazioni relative a lavori e forniture e servizi da essi gestiti, quando ciò che si chiede di promettere, di abbandonare o di pagare non superi 120 milioni di lire concorrendo a formare tale somma le transazioni che fossero precedentemente intervenute sullo stesso oggetto o per l'esecuzione dello stesso contratto» e art. 9 dello stesso d.p.r. per cui «Ai funzionari con qualifica di primo dirigente preposti alle divisioni ed agli uffici centrali equiparati spetta in particolare nell'ambito della competenza del proprio ufficio, di … c) concludere ed approvare le transazioni relative a lavori e forniture e servizi da essi gestite, quando ciò che si chiede di promettere, di abbandonare o di pagare non superi 30 milioni di lire, concorrendo a formare tale somma le transazioni che fossero precedentemente intervenute sullo stesso oggetto o per l'esecuzione dello stesso contratto». Ferme queste disposizioni, copertura generalizzata all’esercizio del potere transattivo della p.a. si rinviene nella legge fondamentale di questa (l. 241/1990); infatti, ai sensi del suo art. 11 , comma 1, «l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse [vale a dire, nel pieno rispetto dei principi ex art. 97 Cost. sopra ricordati – n.d.r.], accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo». In aderenza all’art. 97 Cost., il successivo comma 4 bis prevede infatti che «A garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi nelle ipotesi previste al comma l, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento». E infatti se le transazioni presentano i caratteri ex art. 1965 c.c. sopra sintetizzati, al contempo bilanciati da dette garanzie costituzionali, non c’è ragione per cui l’ordinamento non vi esprima il proprio favor. Onde «Al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma 1, il responsabile del procedimento può predisporre un calendario di incontri cui invita, separatamente o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali contro interessati» (art. 11 cit., comma 1 bis, introdotto con d.l. 163/1995). 3. I caratteri della transazione della p.a. I caratteri della transazione della p.a. non divergono da quelli del generale istituto civilistico ex art. 1965 c.c., ovvero la convergenza delle volontà delle parti, il conflitto delle rispettive posizioni e pretese e, infine, la volontà di trovare una soluzione condivisa mediante mutue concessioni. Tuttavia la giurisprudenza di fronte ai singoli casi che di volta in volta è stata chiamata ad esaminare ha più compiutamente definito detti caratteri alla luce delle peculiarità proprie del diritto amministrativo. Anzitutto, quanto al concetto di conflitto tra parti, «ai fini dell’ammissibilità della transazione è necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico) che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata»7. Vale a dire «affinché una transazione sia validamente conclusa è necessario” che ab origine “essa abbia ad oggetto una res dubia e cioè che cada su un rapporto giuridico avente, almeno nella opinione delle parti, carattere di incertezza»8. Infatti, «premessa necessaria per addivenire alla transazione è l’esistenza di un controversia giuridica (mentre non è sufficiente l’esistenza di un semplice conflitto economico, tratto comune di qualsiasi contratto oneroso) e cioè l’affermazione di un diritto, che si esterna nella pretesa e la contestazione della sussistenza e della misura del diritto (art. 1965 cod. civ.). In altri termini, è necessaria la prospettazione esternata di configgenti posizioni giuridiche in ordine alla situazione in contestazione.»9. Ciò fermo, è naturale conseguenza che «nell’intento di far cessare la situazione di dubbio venutasi a creare tra loro, i contraenti si facciano delle concessioni reciproche; oggetto della transazione, peraltro, non è il rapporto o la situazione giuridica cui si riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite cui questa ha dato luogo o può dar luogo, e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni»10. Proprio in dette “reciproche concessioni” sta il proprium – e altresì le problematiche – dell’istituto della transazione, sia pubblica sia civilistica in senso stretto. Le problematiche sono presto dette e sono quelle sopra ricordate: rispetto del vincolo del perseguimento dell’interesse pubblico e par condicio. Per ciò, «L’ordinamento si è cautelato innanzi a questa possibilità non già sbarrando il passo a questo negozio, ma prescrivendo dei pareri … volti a controllare l’adeguatezza del suo contenuto» (amplius infra)11 Inoltre, altro carattere della transazione pubblica ribadito più volte in via giurisprudenziale è che questa «è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art 1965, co 2 cc) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’ nulla, infatti, la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009. Ibidem. 9 Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n. 26/pareri/2008. 10 Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009. 11 L. PENASA, cit. 7 8 transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite sono sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge» 12, tant’è che nel caso sottopostole (transazioni su obbligazioni nascenti dall’irrogazione di sanzioni amministrative), la Corte dei conti ebbe cura di precisare che «il potere punitivo dell’amministrazione e le misure afflittive che ne sono l’espressione appartengono al novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori»13. Quanto invece ai caratteri differenziali rispetto alla transazione ex artt. 1965 e ss. c.c., va rilevato anzitutto che il comma 4 dell’art. 11 l. 241/1990 prevede che «Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l'amministrazione recede unilateralmente dall'accordo, salvo l'obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato». È pertanto evidente che nella transazione di diritto pubblico non si applica integralmente la disciplina civilistica sulla transazione, non trovando attuazione la regola cardine dell’art. 1969 c.c. 14 che esclude l’annullabilità per errore di diritto. Un tale errore infatti «rende illegittima la formazione della volontà dell’Amministrazione che, essendo assoggettata al consueto regime amministrativo, non può non essere suscettibile di annullamento»15. Trattasi dell’esercizio di un potere amministrativo come tale funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico. Infine, sempre con riferimento alle divergenze della transazione della p.a. rispetto la disciplina civilistica, la giurisprudenza, questa volta amministrativa, premessa «la peculiarità di una transazione posta in essere dalla P.A., se non altro per il possibile rischio di un immediato esborso di denaro pubblico», ha trovato in detta peculiarità il modo di «giustificare talune deviazioni dal paradigma tipico del codice civile»16. In specie, «fa riferimento … alla necessità che la transazione assum[a] la forma scritta ad substantiam (Cass. I, 6.6.2002, n. 8192) quando, invece, ai sensi dell’art. 1967 c.c., la forma scritta è imposta solamente ad probationem»17. A latere di detta precisazione, formale, il Consiglio di Stato ha altresì espresso la «necessità che la transazione sia preceduta da una congrua motivazione, nella quale siano esaminati e valutati i rischi connaturati a simile fattispecie, legati ad esempio alla Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009. Pertanto nell’esercizio dei poteri autoritativi con riferimento all’obbligazione tributaria, la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009, concluse che «non possa invocarsi la transazione per definire una controversia giudiziale in cui si contrapponga la legittima pretesa di un’amministrazione pubblica di esigere il pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie irrogate e l’atteggiamento resistente del privato che ha violato norme specifiche (nel caso una legge regionale). Potrebbe semmai ipotizzarsi una proposta di accordo che investa modalità e tempi di pagamento del debito con esclusivo contenuto dilatorio, ma è senz’altro da escludere l’ammissibilità di pattuizioni, in corso di giudizio, che comportino una decurtazione del quantum dovuto e, quindi, una riduzione dell’entità delle sanzioni inflitte con l’ulteriore possibilità di coniugare il profilo dilatorio con quello remissorio.». 14 «La transazione non può essere annullata per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia tra le parti». 15 G. GRECO, Contratti e accordi della Pubblica Amministrazione con funzione transattiva, in Dir. Amm., 2005, 223 e ss. 16 Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2011, n. 4083. 17 Ibidem. 12 13 prevedibile durata ed al prevedibile (o imprevedibile) esito di un contenzioso già pendente»18. L’onere di motivazione qui ricordato è naturale precipitato degli obblighi di cui all’art. 97 Cost. che nella motivazione hanno riscontro. Tuttavia, non nell’onere di motivazione si circoscrivono i doveri dei funzionari della p.a. che in prima persona attivano, conducono e (talvolta) concludono una transazione. Infatti il principio d’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali ex art. 1 comma 1 l. 20/1994, «non preclude l’esame dell’attività illegittima che abbia prodotto un danno erariale in violazione dei principi di economicità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa (Corte conti, sezione Campania, n. 104/2011)»19. Principi, peraltro, che oltre a essere insiti in quello costituzionale di buon andamento ex art. 97 Cost., oggi acquistano maggiore importanza stante la crisi finanziaria e le esigenze di spending review dello Stato (ma anche delle Regioni e degli enti locali). Il che è forse più chiaro nelle parole della giurisprudenza contabile meneghina20, per cui se è vero che «La scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto della stessa spetta all’Amministrazione nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali è sottratta al sindacato giurisdizionale, anche di responsabilità (art. 1, co. 1, l. 14 gennaio 1994, n. 20)», tuttavia «il vaglio delle scelte di merito degli amministratori [non] è consentito, [se non] limitatamente alla rispondenza delle stesse a criteri di razionalità e congruità rilevabili dalla comune esperienza amministrativa al fine di stabilire se la scelta risponda ai criteri di prudente apprezzamento ai quali deve ispirarsi sempre l’azione amministrativa». Infatti «Uno degli elementi che l’ente deve considerare è la convenienza economica della transazione in relazione all’incertezza del giudizio. Ovviamente non si tratta di incertezza assoluta, ma relativa che deve essere valutata in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa ed alla presenza di eventuali orientamenti giurisprudenziali»21. A margine, va altresì ricordato che «una transazione operata dall’amministrazione non inibisce al giudice contabile di pronunciarsi sul risarcimento, salva la possibilità di tener conto in sede esecutiva di quanto versato per rifondere il danno»22. Ibidem. Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della Campania, 29 febbraio 2012, n. 250. 20 Parere Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n. 26/pareri/2008. 21 A superare l’incertezza dell’amministrazione quanto alla convenienza economica di una transazione sovviene il corpus di pareri sopra ricordato (artt. 14 r.d. 2440/1923 e 13 r.d. 1611/1933). Pareri che l’ordinamento imputa a soggetti istituzionali, ovvero Consiglio di Stato e Avvocatura di Stato. Ciò invece non è previsto per gli enti territoriali, i quali possono comunque chiedere un parere anche a un avvocato del libero foro o all’Avvocatura comunale. Tuttavia, non va dimenticato che il sindacato del giudice contabile si estende anche «nei confronti dell’avvocato che, svolgendo un’attività non prevista dal mandato ricevuto, abbia - con la stipula di una transazione nell’interesse dell’amministrazione esercitato poteri e funzioni assimilabili a quelli di cui sono titolari i soggetti incardinati nella p.a.” stante che “La sottoposizione di un soggetto privato alla giurisdizione della corte dei conti si determina ogni qualvolta fra il soggetto e l’ente pubblico si stabilisce un rapporto di servizio, cioè una relazione funzionale generata da un atto autoritativo o convenzionale o addirittura di fatto, tale da configurare l’azione del privato come svolta nell’adempimento di compiti affidati o pattuiti (o volontariamente assunti) per il raggiungimento di una finalità pubblica» (Corte dei conti, Sez. giurisdizionale della Campania, 29 febbraio 2012, n. 250). 22 Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’appello, 17 luglio 2007, n. 204/A. 18 19 3.1. I pareri Breve chiosa merita l’attività consultiva svolta dal Consiglio di Stato e dall’Avvocatura di Stato in materia di transazione pubblica. Si è detto che la transazione, in ragione del fatto che in essa le parti si fanno mutue concessioni, «può nascondere una – parziale ma pur sempre contraria al pubblico interesse – “resa” della Amministrazione»23. Perciò, «L’ordinamento si è cautelato innanzi a questa possibilità non già sbarrando il passo a questo negozio, ma prescrivendo dei pareri … volti a controllare l’adeguatezza del suo contenuto»24. Il parere del Consiglio di Stato è deputato al controllo della «legalità delle scelte dell’amministrazione, avendo le medesime finalità di garanzia sia in sede consultiva che giurisdizionale a tutela imparziale e oggettiva dell’ordinamento giuridico». Invece quello dell’Avvocatura di Stato, in quanto «proprio dell’organo di assistenza e consulenza tecnico-legale» mira a dare «consigli all’amministrazione, in ordine alle transazioni, ma anche alle introduzioni o all’abbandono di liti giudiziarie e si tratta di attività svolta nell’interesse dell’apparato amministrativo» 25. Va inoltre «ricordato che per le amministrazioni centrali è prescritto un iter procedimentale articolato, con parere obbligatorio ma non vincolante dell’Avvocatura dello Stato e del Consiglio di Stato»26 ex artt. 14 r.d. 2440/1923 e 13 r.d. 1611/1933. Invece «Per gli enti territoriali non è previsto alcun particolare iter procedimentale e, salvo una diversa disciplina contenuta nei regolamenti di autonomia, l’organo dell’ente al quale è attribuito la competenza a stipulare il contratto ne è anche legittimato. Naturalmente l’ente può ricorrere in relazione alla questione da risolvere a parere facoltativi e, ove l’ente sia dotato di una propria Avvocatura sarebbe opportuno che la stessa fosse investita della questione in analogia e negli stessi termini previsti dal citato art. 14 della legge di Contabilità di Stato»27. Infatti quanto alle transazioni poste in essere dagli enti territoriale è censurabile perché «improntato a superficialità e negligenza, il comportamento di alcuni amministratori di un ente pubblico che hanno stipulato una transazione sulla base di un parere, generico ed apodittico, mentre sarebbe stata necessaria un’approfondita analisi, all’uopo chiedendo il parere di un organo a ciò deputato dall’ordinamento quale l’avvocatura generale dello stato»28. 4. Conclusioni; i vincoli di buon andamento e imparzialità della p.a. ex art. 97 Cost. L. PENASA, cit. Ibidem. 25 Consiglio di Stato, Sez. I, 21 dicembre 2011, n. 5248. 26 Parere Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n. 26/pareri/2008. 27 Ibidem. 28 Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, 13 dicembre 2005, n. 2921. 23 24 Quanto sopra, specie alla luce delle parole della giurisprudenza amministrativa e contabile, può essere risolto in un unico comune denominatore: buon andamento della p.a. I caratteri e le regole di fondo della transazione della p.a. vi sono tutte riconducibili, per cui essa anche nell’esercizio “anomalo” del proprio potere deve avere come meta il buon andamento. Infatti l’attività della p.a. è comunque sempre «finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell’interesse intestato all’ente. In questi termini l’attività dell’ente pubblico è finalizzata al criterio di corretta azione amministrativa». Pertanto transazioni e «negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l’esercizio del potere dell’Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell’interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell’azione amministrativa. … In altre parole, l’assetto di interessi raggiunto con l’accordo dovrà comunque soddisfare l’interesse pubblico oltre ad essere quello di maggior convenienza per il privato.»29. Qualora nel corso di una transazione i principi ex art. 97 Cost. fossero persi di vista, si assisterebbe alla lesione non solo di profili sostanziali del diritto, ma anche delle garanzie processuali. E ciò perché dette garanzie trovano copertura costituzionale nel combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost. in termini di garanzia di controllo giurisdizionale pieno30 Lampante quindi l’importanza di tutto ciò, espresso dalla giurisprudenza e a cui questa, nei casi dubbi, deve ritornare. Parere Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n. 26/pareri/2008. 30 Cfr. Corte cost. 409/1988. 29 PARTE II L’arbitrato nel Codice dei contratti pubblici di Michela De Santis SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Arbitrabilità: l’art. 6 della L. 205/2000. – 3. Una storia infinita. – 4. La convenzione d’arbitrato. – 5. Il rapporto con l’arbitrato di diritto comune. – 6. Arbitrato amministrato e arbitrato libero. – 7. Nomina degli arbitri e fase introduttiva del procedimento. – 8. La sede. – 9. L’istruzione probatoria. – 10. Il segretario arbitrale. – 11. Il lodo e le impugnazioni. – 12. I costi dell’arbitrato. 1. Introduzione. Il Codice dei contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e fornitore (adottato con d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, d’ora in poi Codice dei contratti pubblici o c.c.p.), tra i modi extragiudiziali di risoluzione delle controversie, dopo la transazione e l’accordo bonario, ammette anche (e ancora) il ricorso all’arbitrato. Infatti, nonostante una serie di tentativi del legislatore di rimuovere tale metodo di risoluzione delle controversie in subiecta materia per i troppi limiti che aveva via via mostrato nel corso degli anni 31, ma anche per una generale diffidenza – tutta italiana – verso l’arbitrato, quest’ultimo è ancora presente nel Codice dei contratti pubblici tra i metodi alternativi di risoluzione delle controversie 32. Il più recente tentativo di soppressione dell’arbitrato in materia di opere pubbliche è quello della Legge Finanziaria del 2008 (L. del 24 dicembre 2007, n. 244) con cui il legislatore aveva vietato tout court l’ arbitrato in considerazione dei «pesanti rilievi» che nella relazione annuale 2006 erano stati mossi all’arbitrato da parte dell’ Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. L’art. 3, comma 19, infatti stabiliva che «è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, di inserire clausole compromissorie in tutti i loro contratti aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi ovvero, relativamente ai medesimo contratti, di sottoscrivere compromessi. Le clausole compromissorie ovvero i compromessi comunque sottoscritti sono nulli e la loro sottoscrizione costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale per i responsabili dei relativi procedimenti». Per commenti al divieto di arbitrato introdotto dalla Legge Finanziaria 2008, v. B. CAPPONI, La legge finanziaria per il 2008 e il divieto di arbitrato, in Rass. forense, 2008, p. 73 ss.; P. PISELLI, La soppressione dell’ arbitrato e la modifica dell’ accordo bonario: problemi interpretativi, in Riv. trim. app., 2008, p. 340 ss. Tuttavia, le numerose critiche rivolte, comprensibilmente, alla disposizione suggerirono al legislatore di differirne il termine di efficacia. Dopo una serie di reiterati differimenti, ma soprattutto dopo il richiamo dell’Europa (Direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, che invitava a «dettare disposizioni razionalizzarci dell’ arbitrato» nell’ottica di migliorare l’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione di appalti), il legislatore italiano è tornato sui suoi passi e, se la soppressione definitiva dell’ arbitrato era stata da ultimo fissata per il 30 aprile 2010, il 27 aprile 2010 è entrato in vigore il D.lgs. del 20 marzo 2010, n. 53 che ha ripristinato l’arbitrato abrogando gli artt. 19, 20 e 21, quindi facendo rivivere l’art. 241 c.p.c. 32 In generale, sull’arbitrato nel diritto amministrativo dagli albori ad oggi, si vedano E. CAPACCIOLI, L’arbitrato nel diritto amministrativo, I, Le fonti, Padova, 1957; A. CIANFLONE, L’appalto di opere pubbliche, 8ed., Milano, 1988; G. CAIA, Arbitrati e modelli di arbitrati nel diritto amministrativo, I presupposti e le tendenze, 31 Il presente contributo analizza lo strumento arbitrale, quindi gli artt. 241, 242 e 243 del Codice dei contratti pubblici, iniziando dal tema dell’arbitrabilità — dopo l’entrata in vigore della L. 205/2000 — e ripercorrendo le tappe principali del procedimento, dalla costituzione del tribunale arbitrale sino all’emanazione del lodo e alla sua eventuale impugnazione, evidenziandone le differenze rispetto all’arbitrato di diritto comune e non senza cenni all’ultima modifica intervenuta con “Legge Anticorruzione” (L. 6 novembre 2012, n. 190) della quale si cercheranno di comprendere la portata e le conseguenze applicative. Occorre però, ancor prima, interrogarsi sulla natura dell’arbitrato e ciò anche ripercorrendo brevemente quella che ben può essere definita la “storia infinita” dell’arbitrato in materia di contratti pubblici. 2. Arbitrabilità: l’art. 6 della L. 205/2000. Se prima della summenzionata legge, molti dubbi circondavano il tema dell’arbitrabilità, i.e. ammissibilità dell’arbitrato, delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo 33, l’intervento del legislatore è stato sotto questo aspetto risolutivo. L’art. 6 della L. del 21 luglio 2000, n. 205 afferma, senza possibilità di fraintendimenti, che «le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto». Viene precisato che deve trattarsi di un arbitrato «rituale», e così di natura giurisdizionale, e «di diritto», quindi è esclusa ogni possibilità di un arbitrato di equità 34. Del resto, alla medesima conclusione si poteva giungere a partire da una lettura non reticente dell’art. 806 c.p.c., ovverosia dalla lettura di quell’articolo del codice di rito che fissa il (l’unico) limite posto dall’ordinamento italiano all’arbitrabilità delle controversie, e cioè la «disponibilità» dei diritti oggetto della lite. Infatti, sebbene molto spesso si abbia la percezione che non sia così, non vi sono altre limitazioni. E dal momento che non può essere considerato indisponibile l’interesse pubblico a Milano, 1989; E. PICOZZA, I lavori pubblici, in G. SANTANIELLO (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, vol. X, Padova, 190, p. 469 ss; G. RECCHIA, Arbitrati di diritto comune ed amministrazioni pubbliche, in Dir. proc. amm., 1998, p. 7 ss.; E. FAZZALARI, Una vicenda singolare: l’arbitrato in materia di opere pubbliche, in Riv. arb., 1998, p. 813 ss.; C. PUNZI, L’arbitrato per la risoluzione delle controversie negli appalti di opere pubbliche, in AA. VV., L’appalto tra pubblico e privato, Milano, 2001, p. 87 ss. Sulle vicende più recenti, per tutti: C. PUNZI, Vicende recenti e meno recenti in tema di arbitrato delle controversie negli appalti di opere pubbliche, in Riv. dir. proc. civ., 2010, p. 753 ss.; E. ODORISIO, Arbitrato rituale e lavori pubblici, Milano, 2011. 33 Si veda, oltre alla dottrina della nota precedente, sullo specifico tema dell’arbitrabilità delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva: S. CASSESE, L’arbitrato nel diritto amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, p. 324 ss.; C. SELVAGGI, L’arbitrato nelle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa, in Riv. arb., 1992, p. 447 ss.; V. DOMENICHELLI, Le prospettive dell’arbitrato nei rapporti amministrativi (tra marginalità, obbligatorietà e consensualità), in Dir. proc. amm., 1998, p. 241 ss. Sia consentito di richiamare, sia pure risalente , E. FAZZALARI, L’ arbitrato nell’ attività della regione, in Riv. dir. proc. , 1974, p. 369 ss. 34 Così, C. CONSOLO, La giurisdizione del giudice amministrativo si giustappone a quella del giudice «ordinario» e ne imita il processo, in Giust. civ., 2000, p. 533 ss., p. 536. risolvere una controversia vertente su diritti soggettivi in via alternativa a quella ordinaria (statale), non si può che concludere nel senso che «le controversie concernenti diritti soggettivi [disponibili] devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato» 35. La legge del 2000 ha risolto definitivamente i dubbi, anche dei più reticenti. Qualche problema potrebbe eventualmente ancora porsi con riguardo all’impugnazione (e all’exequatur) del lodo e al rispetto delle regole sul riparto di giurisdizione. Si tratta tuttavia di un problema «di mera tecnica processuale (quindi indifferente ai rapporti fra diritto sostanziale e processo»)36. Infatti, applicando le regole sul riparto di giurisdizione, oltre che la logica, il giudice dell’impugnazione del lodo arbitrabile — assimilabile a tutti gli effetti a una sentenza di primo grado — dovrebbe essere il Consiglio di Stato 37. Tuttavia, la lettera della legge 38, ma anche la dottrina maggioritaria 39, vanno nel senso di ritenere competente a ricevere l’impugnazione del lodo la Corte d’appello, quantomeno con riferimento alla fase “necessaria” dell’impugnazione del lodo, cioè a quella rescindente, non essendovi dubbi che «l’annullamento del lodo attiene a profili del tutto estrinseci alla giurisdizione amministrativa» (40). Si veda, F. P. LUISO, Arbitrato ex art. 6 L. 205/2000 e giurisdizione, su judicium.it. Così, F. P. LUISO, Arbitrato ex art. 6, cit, § 6. V. infra nota 10. 37 Così P. DE LISE, Verso L’arbitrato nel diritto amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, pp. 11961197, lo stesso argomento veniva utilizzato dall’Autore, prima della L. 205/2000, per sostenere l’inammissibilità dell’arbitrato nelle materie di giurisdizione esclusiva, quindi affermare che confluendo l’arbitrato «nell’alveo della giurisdizione ordinaria, attraverso i mezzi di impugnazione del lodo. Ammettere un tale giudizio, infatti, significherebbe alterare il riparto tra le giurisdizioni e negare la stessa ragione dell’esistenza del giudice amministrativo», mentre oggi (ID., in V. CERULLI IRELLI (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2000, p. 192) per lo stesso Autore afferma «sembra doversi ammettere che l’impugnativa del lodo, nelle materie in questione, debba essere proposta dinanzi al Consiglio di Stato», al fine di non «modificare, con l’impugnazione del lodo, le regole sul riparto di giurisdizione». In giurisprudenza, nello stesso senso, Cons. di Stato, sez. V, 19 giugno 2003, n. 3655. 38 D. lgs. 163/2006 e d.lgs. 53/2010, V. art. 241, comma 15-bis, c.c.p. 39 A ROMANO TASSONE, in B. SASSANI, R. VILLATA (a cura di), Il processo davanti al giudice amministrativo, Torino, 2001, p. 400 ss.; F. CARINGELLA, in R. GAROFOLI, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000, n. 205, Milano 2000, p. 699; G. VERDE, Ancora su arbitri e Pubblica Amministrazione (in occasione della L. 21 luglio 2000 n. 205, art. 6), in Riv. arb., 2000, p. 389 ss.; C. CONSOLO, La giurisdizione del giudice amministrativo, cit., p. 537; ID., Il processo civile fra snellezza e civilizzazione, in Corr. giur., 2000, p. 1267. 40 F. P. LUISO, Arbitrato ex art. 6, cit., § 5, il quale scrive anche che «è perfettamente indifferente, da questo punto di vista, che la decisione sull’impugnazione del lodo sia affidata al giudice ordinario o a quello amministrativo. Non vi è dubbio, infatti, che la tutela ottenibile nell’una o nell’altra sede è la stessa: ciò è tanto più vero oggi, dopo che la L. 205/2000 ha fornito il giudice amministrativo di tutti gli strumenti idonei a gestire controversie in materia di diritti soggettivi. Quand’anche si dovessero attribuire al giudice amministrativo le funzioni, che secondo il c.p.c. il giudice ordinario svolge in correlazione con l’arbitrato, si tratterebbe solo di adattare le norme del codice di rito al diverso organo giurisdizionale: senza che, peraltro, ciò comporti difficoltà di rilievo. Una qualunque scelta del legislatore sarebbe quindi perfettamente neutra: un po’come stabilire se è il semaforo verde che dà via libera e quello rosso che obbliga a fermarsi, o viceversa» e conclude, molto chiaramente, «[c]osì stando le cose, mi sembra che il problema divenga solo quello di stabilire se, nel silenzio serbato dal legislatore, prevalgano le norme del c.p.c. che, in relazione all’arbitrato - a qualunque arbitrato – affidano una serie di interventi al giudice ordinario, oppure se prevalga l’attrazione – ratione materiae – dipendente dalla istituzione di una giurisdizione esclusiva»; così anche, F. CARINGELLA, op. cit., p. 697. 35 36 Più delicata – sempre tenuto conto che si tratta di un problema «di mera tecnica processuale» per cui «ogni soluzione può andar bene» 41 – è la questione che attiene la fase rescissoria che si apre nell’ipotesi in cui il lodo venga annullato: è la Corte d’appello competente anche per questa seconda eventuale fase? Il dato normativo, quindi la scelta del legislatore (che ha individuato nella Corte d’appello il giudice dell’impugnazione del lodo) e la mancanza di argomenti che dimostrino l’incompatibilità di tale previsione normativa col sistema, nonché la considerazione che «l’arbitrato … è esterno alla giurisdizione in tutte le sue articolazioni, e la corte di appello è, allo stato, il giudice “naturale” dell’impugnazione del lodo», suggeriscono una risposta affermativa 42. Così, come saggiamente affermato, col richiamo ad illustre dottrina in materia di arbitrato (Giovanni Verde) «il passaggio della controversia – mediante l’impugnazione del lodo – dalla giurisdizione esclusiva a quella ordinaria non [ha] niente di scandaloso, essendo ostacolato solo dal preconcetto che non siano consentiti patti sulla giurisdizione» 43. 3. Una storia infinita. L’arbitrato in materia di contratti pubblici è un istituto che è stato ripetutamente oggetto di modifiche legislative che hanno dato vita a quella che può essere denominata la “storia infinita dell’arbitrato nei contratti pubblici”. Si è passati da un estremo all’altro: da situazioni di grande favore in cui l’arbitrato era addirittura divenuto obbligatorio, a situazioni di totale disfavore in cui se ne è paventata soppressione. Come anticipato nell’introduzione, al di là dello “speciale” settore dei contratti in materia di contratti pubblici, in generale il legislatore italiano vede con una certa diffidenza l’istituto arbitrale: nonostante negli anni più recenti si sia tentato di promuovere l’istituto arbitrale, in Italia manca quella “cultura arbitrale” che è essenziale per la sua diffusione ed efficacia 44. A ciò si aggiunga che solo con l’ultima riforma (di cui al d.lgs. del 2 febbraio 2006, n. 40) si è giunti ad equiparare gli effetti del lodo a quelli di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (ex art. 624-bis c.p.c.), quindi a distinguere il lodo rituale, i cui effetti sono equiparabili a quelli di una sentenza propriamente giurisdizionale, da quello irrituale che ha natura meramente contrattuale. E a questo proposito, non può essere poi taciuto il fatto che solo l’Italia ammette un «arbitrato» la cui natura è meramente contrattuale, quello irrituale. V. supra, nota 5 e nota precedente. Così, F. P. LUISO, cit., § 6, il quale richiama F. PUGLIESE, Poteri del collegio arbitrale e provvedimenti amministrativi, in Aa.Vv.. Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, p. 537; A. ROMANO TASSONE, cit., p. 401. In senso affermativo anche G. VERDE, Ancora su arbitri, cit., p. 389; R. VILLATA, Conclusioni al termine del convegno, in AA.VV., Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, 1999, p. 171. Contra, che quindi ritengono che il rescissorio sia di competenza del giudice amministrativo: C. SELVAGGI, Giurisdizione esclusiva ed arbitrato, in Riv. arb., 1999, cit., p. 616 ss.; C. CONSOLO, L’ oscillante ruolo dell’arbitrato al crescere della giurisdizione esclusiva e nelle controversie sulle opere pubbliche (fra semi-obbligatorietà ed esigenze di più salde garanzie), in Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, 1999, p. 151 ss.; ID., La giurisdizione, cit, p. 537. 43 F. P. LUISO, Arbitrato ex art. 6, cit., § 6. 44 Scrive di «cultura arbitrale», E. FAZZALARI, La cultura dell’arbitrato, in Riv. arb., 1991, p. 5 ss. 41 42 L’arbitrato è inoltre visto come un mezzo costoso di risoluzione delle controversie e in tempi di crisi economica questo dato assume, anche e proprio al momento della scelta della giustizia cui affidarsi (ordinaria o arbitrale), particolare importanza. Se poi si pensa che ad essere soccombenti, negli arbitrati in materia di contratti pubblici, sono spesso e volentieri le Pubbliche Amministrazioni, è evidente come tale dato vada ancor di più tenuto in considerazione in una qualsivoglia valutazione di opportunità. Ancora, non si può non prender atto che in Italia la corruzione è un fenomeno «sistemico» 45, e che questo fenomeno ha raggiunto, nel particolare settore degli appalti pubblici, indici di frequenza, diffusione ed intensità elevatissimi. E in questo scenario l’arbitrato potrebbe rappresentare uno strumento pericoloso per il particolare “legame” tra parti e arbitri che lo caratterizza, quindi costituire un mezzo di commissioni illecite (non a caso il governo, con il disegno di legge “anticorruzione”, è intervenuto anche in questa materia). Al di là di queste considerazioni, l’arbitrato rappresenta un modo di risoluzione delle controversie in materia di contratti pubblici da più di centocinquanta anni. Infatti già a partire dalla L. 20 marzo 1865, n. 2248, con cui venne abolito il contenzioso amministrativo e le controversie relative ai diritti soggettivi attribuite alla giurisdizione dei giudici ordinari, le amministrazioni potevano sottrarre tali controversie alla cognizione di giudici statali e deferirle ad arbitri, e si avvalsero ampiamente di tale facoltà 46. Anche nei Capitolati generali del 1889 e del 1895 era presente l’arbitrato. Nel Capitolato generale del 1889, che prevedeva un arbitrato a sette arbitri – arbitri che, tuttavia, a differenza di ciò che vorrebbe l’arbitrato, che ha tra le sue principali qualità quella di poter scegliere giudici “su misura” della controversia, non erano nominati dalle parti ma erano, ex lege, i sette membri effettivi più anziani del Consiglio superiore dei lavori pubblici – non solo se ne affermava l’obbligatorietà ma si precisava altresì che gli articoli del Capitolato relativi all’arbitrato «costitui[vano] per l’amministrazione patti essenziali del contratto, senza i quali essa non sarebbe divenuta alla stipulazione dello stesso». Nel Capitolato del 1895 veniva ancora affermata l’obbligatorietà dell’arbitrato ma venivano modificati il numero di arbitri (da sette a cinque) e le modalità di scelta degli stessi. Tuttavia si era ancora ben lontani dall’attribuire una qualsivoglia facoltà di scelta alle parti (o, meglio, all’appaltatore) giacché due arbitri venivano nominati dal presidente del Consiglio di Stato, due dal Presidente del Coniglio Superiore dei lavori pubblici e uno dal presidente della Corte d’Appello di Roma, con un evidente squilibrio, all’interno del collegio arbitrale, a favore della parte pubblica. L’intento del legislatore di quegli anni era evidentemente quello di sottrarre le controversie in materia di contratti pubblici alla competenza dei giudici ordinari, precostituiti per legge, per deferirle a giudici asseritamente più tecnici e forse più 45 Così anche il Presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, nel suo discorso in occasione dell’ inaugurazione dell’anno giudiziario 2013. 46 Sul dibattito di quegli anni (dal 1865 al 1889) intorno all’arbitrato, si veda G. RECCHIA, Arbitrati di diritto comune ed amministrazioni pubbliche, cit., p. 7 ss. «amici» 47. Tuttavia, così disciplinato l’arbitrato aveva evidentemente superato i suoi limiti: non si trattava più (e solo) di arbitrato obbligatorio ma di una vera e propria giurisdizione speciale perché, come ha chiarito in più occasioni la giurisprudenza, il discrimine tra queste due fattispecie sta proprio nel fatto che nell’arbitrato obbligatorio i giudicanti sono nominati dalle parti mentre nelle giurisdizioni speciali questi sono nominati da soggetti terzi individuati ex lege, venendo infatti a mancare una delle principali caratteristiche dell’arbitrato 48. Solo il Capitolato del 1962 riconoscerà alle parti il potere di nomina degli arbitri, sia pure non di tutti i membri del collegio arbitrale, ma soprattutto affermerà la facoltatività dell’arbitrato, attribuendo l’art. 47 alla parte attrice (generalmente l’impresa appaltatrice) la facoltà di escludere la giurisdizione ordinaria e alla parte convenuta (generalmente l’amministrazione) la facoltà di evitare l’arbitrato notificando entro un termine di trenta giorni la c.d. “declinatoria” che obbligava la parte attrice a rivolgere la sua domanda al giudice ordinario. Del resto, con l’entrata in vigore della Costituzione, era stato definitivamente sancito il divieto di costituzione di giurisdizioni speciali e affermato il principio per cui solo le parti possono decidere di sottrarsi alla giurisdizione dei giudici statali per rivolgersi altri soggetti, non potendo la legge autoritariamente imporre loro una tale scelta. E se il rapporto tra l’arbitrato e la volontà delle parti (a far arbitrare la controversia tra loro insorta) ha sempre rappresentato l’aspetto più problematico nella disciplina dell’arbitrato nei contratti pubblici, sotto questo profilo il Capitolato del 1962 andava esente da censure di incostituzionalità ammettendo l’art. 47 la facoltà, accordata ad entrambe le parti, di derogare alla competenza arbitrale. Dopo il Capitolato del 1962, la L. 10 dicembre 1981, n. 741, contenente norme per l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione di opere pubbliche, reintroduceva un arbitrato “di fatto” obbligatorio fissando la regola per cui «la competenza arbitrale può essere esclusa solo con l’apposita clausola inserita nel bando o invito di gare, oppure nel contratto in caso di trattativa privata» 49. Così, la Corte costituzionale, con Così C. PUNZI, Vicende recenti e meno recenti., cit., p. 753 ss, p. 754, il quale prosegue affermando che con questo sistema «sotto le apparenze di un arbitrato imposto ex lege, si introduceva un vero e proprio giudice speciale» e richiama Mortara e il celebre caso del Palazzo di Giustizia di Roma. Su questo caso, quindi sui vizi del Capitolato del 1895, v. E. ODORISIO, Arbitrato rituale e lavori pubblici, cit., p. 61 ss. 48 Si tratta tuttavia di una distinzione risalente e superata e non vi era uniformità nell’individuazione del criterio in base al quale distinguere arbitrato obbligatorio e giurisdizione speciale. V. Cass. Civ., S.U., 20 luglio 1951, n. 2030, in Giur. compl. cass. civ., 1951, III, 1, p. 760 ss., con nota di M. ELIA, Arbitrato obbligatorio e giurisdizione speciale; Cass. civ., S.U., 21 ottobre 1961, n. 2311, in Mass. giur. lav., 1962, p. 116 ss., con nota di G. PETRACCONE, L’arbitrato nelle controversie del lavoro. In dottrina, in questo senso P. CALAMANDREI, Contributo alla teoria dell’arbitraggio necessario nel diritto pubblico, in Giur. it., 1924, p. 259 ss.; ID., Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, in Arch. giur., 1921, p. 224 ss., p. 231, nota 2; N. JAEGER, Arbitrati obbligatori e sollecitudine nei giudizi, in Foro it., 1931, 1, p. 1111 ss. La dottrina, a partire dagli anni Sessanta, non distingue più tra arbitrato obbligatorio e giurisdizione speciale ma solo tra arbitrato obbligatorio e arbitrato volontario essendo venuto meno il presupposto della prima distinzione e cioè l’obbligatorietà. V. infra. 49 Cfr. E. FAZZALARI, Contro l’arbitrato obbligatorio, nota a Cass. civ., S.U. 10 febbraio 1992, n. 1458, in Riv. arb., 1993, p. 211 ss.; E. ODORISIO, Solo la concorde volontà dei contraenti consente di evitare la giurisdizione statale, in Guida al dir., 1996, p. 102 ss. Altri hanno invece parlato di «clausola arbitrale di tipo inverso»: F. D. ANGELI, L’arbitrato convenzionale ed imposto, facoltativo ed inverso, Torino, 1996, p. 109; G. BASILICO, La risoluzione arbitrale di controversie in materia di pubblici appalti: dagli arbitrati obbligatori agli arbitrati amministrati, in Giust. civ., 2000, II, p. 37 ss., p. 40. 47 sentenza 9 maggio 1996, n. 152, dichiarava l’incostituzionalità della disposizione, rilevando che questa attribuiva alla sola amministrazione (e non ad entrambe le parti, come nel Capitolato del 1962) la facoltà di scelta, scelta alla quale le controparte doveva necessariamente adeguarsi se intendeva partecipare alla gara. Si susseguirono poi, nel giro di pochi anni, tre leggi con tre discipline tanto diverse: la Legge Merloni, la Legge Merloni bis e la Legge Merloni ter. La prima, del 1994, che veniva dopo il periodo dei costosissimi e poco trasparenti arbitrati-a-cinque del Capitolato del 1962, vietava tout court l’arbitrato nei contratti pubblici 50; la seconda, nel 1995, andando in senso esattamente opposto, ridisegnava l’arbitrato affermandone (sia pur indirettamente) l’obbligatorietà 51; infine, la Merloni ter del 1998 tornava a proporre un arbitrato volontario che aveva tutte le sembianze di un arbitrato di diritto comune obbligatoriamente amministrato, e cioè gestito da un’istituzione arbitrale che era individuata ex lege nella Camera arbitrale per i lavori pubblici, la cui attività era disciplinata dall’art. 151 del d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 52. Con la creazione della Camera arbitrale per i lavori pubblici, il legislatore ha costituito un’istituzione arbitrale, autonoma e del tutto svincolata dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, conferendole i poteri e compiti tipici di un organismo arbitrale (la formazione e tenuta dell’Albo degli arbitri, la redazione del codice deontologico degli arbitri, gli adempimenti per la costituzione e il funzionamento del tribunale arbitrale, la determinazione del compenso degli arbitri). La Camera arbitrale aveva poi l’importante ruolo di “appointing authority” poiché, in base all’art. 150, comma 3, del d.P.R. 554/1999, nominava il terzo arbitro con funzioni di presidente del collegio, privando le parti di tale potere, a garanzia dell’imparzialità del tribunale arbitrale. Tuttavia, qualche anno dopo l’introduzione della norma da ultimo citata, una sentenza del Consiglio di Stato ne ha dichiarato l’illegittimità e pronunciato l’annullamento, ritenendo la norma irrispettosa del principio volontaristico su cui si Cfr. C. PUNZI, Vicende recenti, cit., p. 757, «dove qualche componente, designato per le funzioni ufficiali ricoperte, considerava la nomina ad arbitrato l’unica occasione delle sua vita, da sfruttare nel miglior modo possibile». Così anche F. D’ANGELI, L’arbitrato convenzionale, cit., p. 132; S. NAPOLITANO, L’arbitrato nelle opere pubbliche, in Riv. amm. app., 1997, p. 332 ss.; G. VERDE, Arbitrato e pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1996, p. 215 ss. 51 È stato definito obbligatorio da una parte della dottrina in quanto si affermava che «la definizione della controversia è attribuita ad un arbitrato». Cfr. G. BASILICO, La risoluzione arbitrale, cit., p. 42; contra, nel senso che il legislatore con la Merloni bis avrebbe soltanto inteso ripristinare l’istituto dell’arbitrato e che il rinvio al c.p.c. consentiva di ritenere che l’indicativo «è attribuita» significa «può essere attribuita» così ammettendo la volontarietà dell’arbitrato, E. CANNADA BARTOLI, L’arbitrato nella l. 2 giugno 1995, n. 216 sui lavori pubblici, in Riv. arb., 1996, p. 463, p. 466; E. ODORISIO, Solo la concorde volontà, cit., 103; ; ID., La risoluzione delle controversie negli appalti di opere pubbliche: dall’arbitrato obbligatorio al divieto di arbitrato. Brevi note alla sentenza n. 152/96 della Corte Costituzionale, in Riv. trim. app., 1996, p. 365; F. DANOVI, La pregiudizialità nell’arbitrato rituale, Padova, 1999, p. 159, nota 93; G. VERDE, Arbitrato e pubblica amministrazione, cit., p. 224. V. anche Circolare del Ministero dei lavori pubblici del 7 ottobre 1996, n. 4488/UL, in Corr. giur., 1997, p. 276. 52 Decreto con cui è stato emanato il Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni. Sul fatto che si trattasse di un arbitrato «obbligatoriamente» amministrato, si veda D. BORGHESI, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici: dall’ arbitrato obbligatorio all’ arbitrato obbligatoriamente amministrato, in Corr. giur., 2001, 5, p. 682 ss.; A. BUONFRATE, Appalti pubblici: l’arbitrato amministrato dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici e il nuovo sistema di risoluzione alternativa delle controversie, in Giur. it., 2001, p. 877 ss.; F.P. LUISO, La Camera arbitrale per i lavori pubblici, in Riv. arb., 2000, p. 419 ss. 50 fonda e si deve fondare l’istituto arbitrale, che deve essere rispettato non solo al momento della scelta della strada arbitrale in luogo di quella statale ma anche al momento della scelta degli arbitri 53. Nel 2006 il Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163), nell’attuare un riordino sistematico in subiecta materia, così ottemperando agli obblighi europei 54, agli artt. 241 e ss. ha confermato l’arbitrato, affermandone la generale esperibilità nell’ambito della contrattualistica pubblica come alternativa alla tutela dei diritti apprestata dal giudice ordinario. Infatti, fermo restando il limite dell’arbitrabilità dei soli casi devoluti alla giurisdizione ordinaria, ed esclusa quindi l’arbitrabilità degli interessi legittimi (di competenza del giudice amministrativo), l’alternatività tra le due forme di giustizia era affermata. Tuttavia, ad un anno dall’entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici, la Legge Finanziaria 2008 (L. del 24 dicembre 2007, n. 244) paventava nuovamente un divieto assoluto di arbitrato per le pubbliche amministrazioni, quindi l’eliminazione dell’art. 241 del Codice dei contratti pubblici, per giungere ai giorni nostri, quindi al d.lgs. del 20 marzo 2010, n. 53, che, ancora su impulso dell’Europa (55), nuovamente lo ripristina. Ma non è finita. La “Legge Anticorruzione” del 2012 (L. del 6 novembre 2012, n. 190, conversione del “DDL Anticorruzione”) è infatti nuovamente intervenuta sulla disciplina degli artt. 241 ss. c.c.p. apportando notevoli modifiche che non sembrano però andare nella direzione, come già il decreto legislativo del 2010, di garantire un buon successo dell’arbitrato nel settore in esame. 4. La convenzione d’arbitrato. L’art. 241, dopo l’ultimo intervento ad opera della L. 190/2012, afferma che «le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle derivanti dal mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’art. 240, possono essere deferiti ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione. L’inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito o il ricorso all’arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli». Cons. di Stato, IV, 17 ottobre 2003, n. 6335. Rectius, le Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE di coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, che hanno spinto il legislatore italiano alla costituzione della c.d. commissione De Lise che ponesse in essere un’attività di coordinamento e di semplificazione della materia dei contratti pubblici, e di redazione di un testo unico che disciplinasse i contratti pubblici in modo sistematico. 55 Il d.lgs. 53/2010 è stato emanato in attuazione dell’art. 44 della Legge Delega 7 luglio 2009, n. 88, che ha delegato al Governo l’attuazione della direttiva 2007/66, concernente il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, sfociata nel d.lgs. del 20 marzo 2010, n. 53. 53 54 Iniziando dal tema della volontarietà dell’arbitrato, non vi sono dubbi che la norma sopraccitata, ed in particolare l’espressione «possono», vada nel senso di una nonobbligatorietà dell’arbitrato. Non solo. Se il legislatore del 2010, accogliendo l’auspicio della Corte costituzionale di esaltare la volontarietà dell’arbitrato, ha introdotto l’obbligo per la stazione appaltante di indicare «fin dal bando di gara» se il contratto conterrà una convenzione d’arbitro a pena di nullità dello stesso, oltre al divieto di compromesso, il legislatore del 2012 è andato ancora oltre affermando, accanto a queste due previsioni, la necessarietà di una preventiva motivata «autorizzazione all’arbitrato» da parte dell’organo di governo dell’amministrazione, in mancanza della quale la clausola compromissoria è nulla. L’intento del legislatore, con tale eccesso di formalismo, è quello di garantire la massima trasparenza e l’effettiva volontarietà dell’arbitrato dell’aggiudicatario, quindi evitare che quest’ultimo “subisca” l’arbitrato; al tempo stesso, il legislatore intende controllare la pubblica amministrazione nell’uso dell’arbitrato, quindi contenerne i costi, dopo gli eccessi parcellari dell’esperienza arbitrale degli anni passati. Ma al di là delle intenzioni, la diffidenza del legislatore con questa norma è di palmare evidenza. Viene poi confermato, come accennato, che la stazione appaltante è tenuta ad indicare nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero nell’invito «se il contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria», che «l’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non é inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione» e, da ultimo, che «è vietato in ogni caso il compromesso». Schematizzando, sono tre le prescrizioni che devono essere seguite per “imporre” l’arbitrato (assumiamo, alla società appaltatrice) come strumento di risoluzione delle controversie: la prima che consiste appunto nella «autorizzazione all’arbitrato» dall’organo di governo dell’amministrazione; la seconda, per cui l’amministrazione deve indicare sin dal bando di gara (o invito) se il contratto che si andrà a stipulare conterrà o meno la clausola compromissoria; la terza che consiste nel divieto di arbitrato a lite insorta. A corollario della seconda prescrizione, la società aggiudicataria può «ricusare» la clausola compromissoria, e cioè non accettare l’arbitrato come mezzo di risoluzione delle controversie, con la conseguenza pratica che il contratto d’appalto, in conformità alla volontà dell’aggiudicatario diffidente nei confronti dell’arbitrato, non conterrà alcuna clausola compromissoria. Tale «ricusazione» deve avvenire mediante comunicazione all’amministrazione committente entro il termine di venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. Per quanto riguarda le modalità con cui deve essere effettuata tale comunicazione, l’art. 241, comma 1-bis, c.c.p., non impone all’aggiudicatario una particolare modalità e, di conseguenza, deve ritenersi ammissibile ogni forma di comunicazione. Per quanto concerne il dies a quo, la norma fa riferimento al momento della «conoscenza dell’aggiudicazione» senza precisare se si tratti dell’aggiudicazione provvisoria (art. 11, comma 4, c.c.p.), o di quella definitiva (art. 11, comma 5, c.c.p.). Diversi elementi fanno ritenere che l’aggiudicazione a cui fa riferimento il comma 1-bis sia quella provvisoria 56. In ogni caso, afferma il legislatore del 2010, mostrando tutta la sua diffidenza nei confronti dell’arbitrato, «è vietato il compromesso» così inspiegabilmente proibendo alle parti, a lite insorta e in mancanza di una preventiva clausola compromissoria, di deferire la controversia ad arbitri. È evidente la limitazione all’arbitrato derivante da tale imperativo. Nulla, tuttavia, vieta alle parti, dopo la conclusione del contratto ma prima dell’insorgere della controversia, di stipulare un patto commissorio57. Infatti, secondo l’impostazione tradizionale58, la distinzione tra compromesso e clausola compromissoria sta proprio nel fatto che mentre il compromesso riguarda le controversie già insorte, la clausola compromissoria riguarda quelle future. Pertanto il divieto di compromesso di cui al Codice dei contratti pubblici non può che essere interpretato nel senso che è proibito alle parti il ricorso all’arbitrato solo a lite insorta, senza ulteriori limitazioni. In ogni momento, purché prima della lite, le parti possono accordarsi per un arbitrato, arbitrato che, secondo i criteri direttivi della legge delega, che ha commissionato la normativa de qua, rappresenta pur sempre l’«ordinario rimedio alternativo al giudizio civile»59. È possibile poi circoscrivere ancor di più il divieto se si accetta la originale ricostruzione per cui il nostro sistema prevedrebbe tre tipi diversi di accordi d’arbitrato: la clausola compromissoria, di cui all’808 c.p.c., mediante la quale le parti deferiscono ad arbitri le controversie «nascenti dal contratto» siano esse già insorte o future; il compromesso, di cui all’art. 808 c.p.c., con cui le parti deferiscono ad arbitri la risoluzione di controversie già insorte di origine non contrattuale; infine la convenzione d’arbitrato «in materia non contrattuale», di cui all’art. 808-bis c.p.c., mediante la quale le parti deferiscono ad arbitrato «controversie future relative a … rapporti non contrattuali». Stando a questa ricostruzione, sarebbe possibile anche un accordo d’arbitrato (in atto separato dal contratto principale) anche per le controversie contrattuali già insorte 60. G. B. DE LUCA, La disciplina arbitrale nei contratti pubblici, Tesi di dottorato, Luiss Guido Carli, A.C. 2012/2013, il quale osserva che «quando il D. Lgs. n. 53 del 2010 ha voluto riferirsi all’aggiudicazione definitiva, l’ [ha] espressamente precisato. In questo senso, si vedano, infatti, le seguenti disposizioni: art. 1, comma 1, lettera c) (relativo all’ art. 11, comma 10, e comma 10 ter, c.c.p.); art. 2, comma 1, lettere b) e d) [relativo all’ art. 79, comma 5, lettera a), e comma 5 bis, c.c.p.]; art. 8, comma 1, lettera c) (relativo all’ art. 245, comma 2, e comma 2 ter, c.c.p.); artt. 9, 10 e 11 (che hanno introdotto gli artt. 245-bis, 245-ter e 245-quater c.c.p.)». 57 E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, in C. PUNZI, Disegno sistematico dell’ arbitrato, 2a ed. Padova, p. 180. 58 S. LA CHINA, L’arbitrato. IL sistema e l’ esperienza, Milano, 2011, p. 33 ss.; G. VERDE, La convenzione d’’arbitrato, in G. VERDE (a cura di), Diritto dell’ arbitrato, Torino, 2005, p. 71 ss.; ID., Lineamenti di diritto dell’ arbitrato, Tornino, 2006, p. 51 ss. 59 Legge Delega del 7 luglio 2009, n. 883. V. supra nota 25. 60 G. RUFFINI, Patto compromissorio, in Riv. arb., 2005, p. 711 ss., p. 718; ID., in C. CONSOLO (diretto da), Codice di procedura civile commentato, Milano, 2010, III, p. 180; C. PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, Torino, 2010, III, p. 180 ss. Si tratta tuttavia di una ricostruzione non largamente accettata, pertanto appare arduo interpretare il divieto de quo alla stregua di detta interpretazione, anche considerando la ratio legis (sebbene anche quest’ultima di difficile individuazione e/o comprensione). 56 Pur senza voler aderire a questa seconda lettura, si faticano a comprendere le ragioni di tale divieto e di una simile deroga rispetto alla disciplina di diritto comune che ammette l’arbitrato sia che questo nasca da una clausola compromissoria inserita in un contratto volta a disciplinare le future controversie che da questo dovessero sorgere (art. 807 c.p.c.) sia che questo derivi da un compromesso stipulato a lite già insorta (art. 808 c.p.c.). Ma soprattutto, come correttamente osservato, è paradossale il fatto che si vieti il compromesso e, al tempo stesso, si ammetta che una controversia (a lite insorta) possa essere risolta con una transazione (art. 239 c.c.p.) 61. Al di là delle tante considerazioni che si possono fare attorno a tale divieto, questa è stata la scelta del legislatore del 2010, poi confermata da quello del 2012, a garanzia e presidio della effettiva volontarietà dell’arbitrato come strumento di tutela dei diritti. 5. Il rapporto con l’arbitrato di diritto comune. L’arbitrato delineato dall’art. 241 c.c.p. come strumento e procedura di risoluzione della controversie, che qui si commenta, è indubbiamente qualcosa di diverso dall’arbitrato «comune» disciplinato dal codice di procedura civile negli artt. 806 e ss. Questa affermazione potrebbe apparire banale: l’arbitrato in materia di contratti pubblici è diverso da quello di diritto comune semplicemente perché sono diversi gli ambienti in cui i due strumenti di risoluzione delle controversie operano, quello del diritto amministrativo il primo e quello del diritto privato il secondo. L’arbitrato è poi considerato, almeno sotto certi aspetti, una forma di giustizia «privata», ragione per cui si incontrano alcune difficoltà ad inserirlo nello spazio del diritto pubblico. Tuttavia, smentita la tesi che assumeva una assoluta incompatibilità (non solo terminologica o per categorie) dell’istituto arbitrale con l’ambiente pubblicistico in ragione della sua origine privatistica, le difficoltà che si incontrano nell’inserire l’arbitrato nei rapporti di diritto pubblico possono ben essere superate. L’arbitrato di cui all’art. 241 del Codice dei contratti pubblici è dunque un arbitrato con sue caratteristiche proprie e ciò è emerso già a partire dalla analisi disciplina della convenzione arbitrale per il cui inserimento, nei contratti pubblici, sono previsti una serie di precisi adempimenti in deroga a quanto previsto dall’art. 808 c.p.c. V’è allora da chiedersi, analogamente a ciò che ci si chiede per le altre discipline «speciali» di diritto dell’arbitrato, come quello «societario», se la disciplina di cui agli artt. 241 ss. del Codice dei contratti pubblici, integrata con quella codicistica, sia l’unica applicabile ai giudizi arbitrali in materia di contratti pubblici o se le parti sono libere di scegliere tra due modelli di arbitrato, quello di cui al codice di rito e quello di cui al Codice dei contratti pubblici 62. Per rispondere, è sufficiente leggere l’art. 241 c.c.p. che, al suo secondo comma, afferma che «ai giudizi arbitrali si applicano le disposizioni del codice di procedura A. BORELLA, Transazione, accordo bonario e arbitrato (tra ripensamenti e contraddizioni del legislatore), in Riv. trim. app., p. 589 ss. 62 Lo stesso problema si è posto con riferimento all’arbitrato societario di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, dove si distinguono la tesi dell’esclusività dell’arbitrato societario e quella del «doppio binario». 61 civile, salvo quanto disposto dal presente codice» così, già il tenore letterale di questa disposizione (e non di quella di cui al d.lgs. 5/2003) parrebbe escludere una coesistenza di due arbitrati. Alla medesima conclusione si giunge, secondo autorevole dottrina, se si interpretano gli artt. 241 ss. del Codice dei contratti pubblici risalendo alla ratio del legislatore, il quale, nel dettare la disciplina contenuta nel Codice dei contratti pubblici, evidentemente non pensava ad una disciplina che affiancasse quella del codice di rito ma che la sostituisse 63. Dunque, l’unico arbitrato cui si può ricorrere in materia di contratti pubblici è quello del Codice dei contratti pubblici descritto dagli artt. 241 e ss. e la relativa disciplina è solo in parte quella codicistica, essendo necessario sostituirla e/o integrarla con quella di cui appunto agli artt. 241 e ss. del Codice dei contratti pubblici Potrebbero allora sorgere dubbi di costituzionalità attorno a un arbitrato «speciale» e «unico» in ragione del fatto che le parti che decidono di fare ricorso all’arbitrato devono necessariamente seguire le norme di cui al Codice dei contratti pubblici, non potendo adottare il modello del codice di rito. Ma in realtà tali dubbi rimangono privi di reale fondamento poiché la nostra Costituzione non contiene alcun diritto «all’arbitrato così come previsto e disciplinato nel codice di rito» 64. Se così fosse, infatti, occorrerebbe, come correttamente osservato, riconoscere la copertura costituzionale a tutte le norme codicistiche che pongono al centro la volontà delle parti 65. Dato che ciò non è possibile 66, la valutazione circa la legittimità costituzionale di una norma che in qualche modo contragga la volontà delle parti come riconosciuta dal codice di rito va fatta caso per caso e alla luce del generale principio di ragionevolezza 67, come confermato dalla Corte costituzionale 68. 6. Arbitrato amministrato e arbitrato libero. L’arbitrato previsto dal Codice dei contratti pubblici come strumento di risoluzione delle controversie, ex art. 241 ss. c.c.p., prevede, in realtà due diversi tipi di arbitrato, come del resto il nostro codice di rito, quello ad hoc o libero e quello amministrato. La differenza però rispetto al codice di rito è che mentre quest’ultimo lascia libere le Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 182. Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici, cit., p. 493. Contra, quella dottrina che ha fatto discendere dal diritto costituzionale all’arbitrato, il divieto per il legislatore non solo di impedire il ricorso all’arbitrato ma anche di imporre determinate modalità di svolgimento dell’arbitrato. Cfr. F.P. LUISO, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, in Riv. arb., 2000, p. 411 ss., p. 420; A. BERLINGUER, Scelta degli arbitri e autonomia delle parti tra diritto comune e disciplina delle opere pubbliche, cit., 531 ss.; D. BORGHESI, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici: dall’arbitrato obbligatorio all’ arbitrato obbligatoriamente amministrato, in Corr. giur., 2001, p. 683 ss. Si veda anche Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 ottobre 2003, n. 6335. 65 Così E. ODORISIO Arbitrato rituale e «lavori pubblici, cit., p. 496-497. Cfr. G. RUFFINI, Profili incostituzionali della nuova disciplina dell’arbitrato negli appalti pubblici, in L’appalto fra pubblico e privato, in Atti del 12º Seminario (Milano, 16 dicembre 2000), Milano, 2001, p. 161 ss. 66 TAR Lazio, sez. III, 7 giugno 2002, n. 5302. 67 F.P. LUISO, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 420; G. RUFFINI, Profili costituzionali, cit., p. 165; G. VERDE, L’ arbitrato e la legislazione ordinaria, cit., p. 32; A. BRIGUGLIO, Gli arbitrati obbligatori e gli arbitrati di legge, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2003, p. 86 ss., p. 94; C. CAVALLINI, Profili costituzionali della tutela arbitrale, in Riv. dir. proc., 2003, p. 809. 68 Corte cost., 13 febbraio 2005, n. 33; più recentemente, Corte cost., 8 giugno 2005, n. 221 63 64 parti di scegliere l’uno o l’altro, il Codice dei contratti pubblici, al verificarsi di una condizione («in caso di mancato accordo per la nomina del terzo arbitro»), obbliga le parti ad una determinata modalità, e cioè a quella amministrata. Ma prima di prendere posizione su un siffatto “obbligo”, tratteggiamo le linee dell’uno e dell’altro arbitrato o, meglio, delle due diverse modalità di arbitrato. Nell’arbitrato libero le parti e gli arbitri gestiscono il procedimento in totale libertà sfruttando appieno l’art. 816-bis c.p.c., quindi la libertà di «stabilire le norme che gli arbitri debbono osservare nel procedimento», senza nessun ausilio esterno. E nel caso in cui sorgano difficoltà di natura procedurale, queste saranno risolte o di comune accordo dalle parti stesse ovvero in subordine dagli arbitri (che fisseranno, ad esempio, la sede del procedimento) o dal giudice ordinario (il quale, ad esempio, designerà l’arbitro non nominato dalla parte reticente o si pronuncerà sull’istanza di ricusazione). Nell’arbitrato amministrato invece tali regole sono contenute nel regolamento arbitrale dell’istituzione cui le parti fanno rinvio nella convenzione arbitrale (divenendo il regolamento parte integrante dell’accordo arbitrale) e a cui decidono di affidare l’arbitrato 69. In pratica, le parti affidano l’organizzazione dell’intero arbitrato ad un ente a ciò deputato e al suo regolamento, regolamento cui gli arbitri, come le parti, dovranno attenersi. Mentre tra le parti e gli arbitri si instaura, come nell’arbitrato libero, un contratto «d’arbitrato», tra le parti e l’istituzione arbitrale si conclude un contratto «di amministrazione d’arbitrato» 70, contratto in virtù del quale l’istituzione svolgerà tutte quelle attività che sono tipiche di una cancelleria di un tribunale 71, fungendo ad esempio, da sede per il deposito del lodo e curando la trasmissione degli atti, ma anche attività di rilevanza sostanziale, come la verifica prima facie della validità della clausola arbitrale, la scelta degli arbitri eventualmente non nominati dalle parti, il controllo circa la loro indipendenza e imparzialità, e, in generale, tutte quelle attività volte a garantire l’inizio e il sereno proseguimento dell’arbitrato 72. I vantaggi della forma amministrata sono evidenti: si evita il ricorso all’autorità giudiziaria in tutte quelle (ricorrenti) situazioni d’impasse del procedimento arbitrale, garantendo una maggiore speditezza e una maggiore sicurezza del risultato arbitrale. Ciò detto, non si dovrebbero ravvedere particolari criticità nell’imporre, nell’ambito di un arbitrato in materia di contratti pubblici, la più sicura modalità amministrata, anche ammettendo che in subiecta materia questa assuma caratteristiche particolari. E. F. RICCI, Note sull’arbitrato «amministrato», in Riv. dir. proc., 2002, p. 1 ss., p. 3; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova disciplina dell’ arbitrato amministrato, in Riv trim. dir. e proc. civ., 2008, p. 993 ss. 70 Nessun rapporto sorge invece tra arbitri e istituzioni per il sol fatto dell’ iscrizione all’albo. In particolare, è da escludere che con l’istanza di iscrizione all’albo della camera arbitrali gli arbitri si siano «impegn[ati] [ad] accettare le nomine che gli verranno conferite, salvo giustificato rifiuto». Cfr. G. MIRABELLI, Contratti nell’arbitrato, in Rass. arb., 1990, p. 3 ss., p. 25; E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 200, il quale osserva come gli stessi artt. 241 ss. non contengano alcun obbligo di accettazione e che tale libertà appare opportuna alla luce delle «rigorose incompatibilità che discendono dall’assunzione dell’incarico di arbitro, ai sensi dell’art. 242, comma 9». 71 A. M. BERNINI, L’arbitrato amministrato: il modello della Camera di commercio internazionale, Padova, 1996, p. 128 72 E. F. RICCI, Note sull’arbitrato «amministrato», cit., pp. 4-7. 69 Infatti, nel Codice dei contratti pubblici, l’istituzione è scelta ex lege, e non dalle parti e si tratterebbe di un arbitrato «obbligatoriamente amministrato» quindi come tale, a detta di alcuni, incostituzionale perché limitativo della volontà delle parti nella scelta degli arbitri e perché, così congegnato – il fatto che l’accordo o meno delle parti sulla nomina del terzo arbitro sia determinante nell’opzione tra la forma libera e amministrata – è contrario al principio di ragionevolezza 73. In realtà però il legislatore non limita la volontà e libertà delle parti poiché non sottrae loro la possibilità di nominare il terzo arbitro ma si limita a prevedere un meccanismo in grado di garantire l’operatività, quindi l’efficacia, della convenzione arbitrale, non molto diversamente da quanto accade nell’arbitrato di diritto comune con l’art. 810 c.p.c. in forza del quale interviene, per la stessa ragione e con i medesimi poteri, il presidente del tribunale. Prova ne sia che la maggior parte dei regolamenti arbitrali – anche questi limitando in un certo senso il potere delle parti, specie negli arbitrati più complessi come quelli multiparti – prevedono l’intervento dell’istituzione in fase di costituzione del tribunale arbitrale. Lo stesso legislatore, nell’arbitrato societario, a garanzia della (più importante, in arbitrato) indipendenza degli arbitri, ha sacrificato ex lege la (meno importante in un contemperamento di interessi) libertà delle parti imponendo loro che «in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri» deve essere conferito dallo statuto «a soggetto estraneo alla società» (art. 34, d.lgs. 5/2003). Non vi sono poi valide ragioni per dubitare della ragionevolezza di meccanismo che “a certe condizioni” impone la forma amministrata avendo semplicemente il legislatore deciso di preferire l’arbitrato amministrato per i suoi numerosi vantaggi quindi ammetterne la percorribilità anche su volontà di una sola delle parti la quale, per vedersi accontentata, deve limitarsi a rifiutare l’accordo con l’altra parte per la nomina del terzo arbitro 74. Ulteriori problemi, secondo alcuni, sorgerebbero in ordine alla reale indipendenza e imparzialità dell’istituzione arbitrale – che, comunque sia, non ha alcun potere giudicante – per la sua «vicinanza» alla parte pubblica. Tale critica è stata mossa alla Camera arbitrale per i contratti pubblici che, ai sensi dell’art. 242 c.c.p., è l’istituzione deputata ex lege all’amministrazione del procedimento arbitrale quando «le parti non trovino un accordo sulla nomina del presidente». A detta di coloro che asseriscono la mancata indipendenza e imparzialità della Camera arbitrale per i contratti pubblici, questa non sarebbe imparziale e indipendente perché operante in seno ad un’autorità – l’Autorità di vigilanza – alla quale è affidata la protezione di interessi pubblici. Ragione per cui la Camera arbitrale «[è] portata a nominare come terzo chi appare più sensibile» a tali interessi 75. Ciò, sempre per costoro, è sufficiente per assumerne la sua non-indipendenza e non imparzialità. Per i riferimenti, v. E. ODORISIO, Arbitrato rituale e lavori pubblici, cit. p. 312 ss., p. 352 ss. Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 202, il quale afferma che, al massimo, si può «discutere l’opportunità di tale scelta da un punto di vista di politica legislativa, [ma] non si può certo ritenere che si tratti di un sistema irragionevole». 75 Così, v. F.P. LUISO, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 423; ID., Il Consiglio di Stato interviene sull’arbitrato per i lavori pubblici, in Riv. arb., 2003, p. 752 ss., p. 756; nonché la stessa sentenza n. 6335 del Consiglio di Stato e nota 34. 73 74 Tale impostazione è stata disattesa dal legislatore, il quale ha confermato la presenza di detta istituzione nei procedimenti arbitrali in materia di contratti pubblici. Del resto, come correttamente affermato, è vero che l’Autorità di vigilanza cura un interesse pubblico, ma è altresì vero che rientra nel novero delle cc.dd. “autorità amministrative indipendenti”76. Anche la Corte costituzionale ha confermato tale impostazione affermando che l’istituzione della Autorità di vigilanza risponde «all’esigenza di avere un’autorità indipendente, un nuovo organismo collegiale di alta qualificazione, chiamato ad operare in piena autonomia rispetto agli apparati dell’esecutivo ed agli organi di amministrazione» 77. Inoltre, dal fatto che l’Autorità curi un interesse pubblico non si può automaticamente ricavare che questo coincida con l’interesse perseguito dalla stazione appaltante: infatti mentre l’interesse dell’Autorità è quello di garantire la competenza, l’indipendenza e l’imparzialità del tribunale arbitrale, quello della stazione appaltante è vincere l’arbitrato 78. Pertanto non ci pare corretto affermare che il procedimento di cui all’art. 241 c.c.p. è nella forma ad hoc, mentre quello decritto dall’art. 243 c.c.p. è nella forma amministrata, a meno che non ci si intenda su cosa esattamente significhi (e implichi un) arbitrato «amministrato». Infatti anche l’art. 241 c.c.p. prevede la presenza nel procedimento della Camera arbitrale, laddove si afferma, al comma 9, che il lodo «diviene efficace con il suo deposito presso la camera arbitrale per i contatti pubblici». Dunque, sebbene ridotto rispetto a quello previsto dall’art. 243 c.c.p., l’intervento della Camera arbitrale è determinante anche nell’arbitrato di cui all’art. 241 c.c.p. Se accettiamo la distinzione fatta supra, non vi sono dubbi che quello descritto all’art. 243 c.c.p. vi rientri appieno, svolgendo la Camera arbitrale per i contratti pubblici le attività tipiche delle istituzioni arbitrali (quali, ad esempio, la predisposizione di un albo di arbitri o la determinazione degli onorari), ma potrebbe rientrarvi anche quello di cui all’art. 241 c.c.p. In quest’ultimo caso l’attività cui è deputata l’istituzione nel procedimento arbitrale apparirebbe solo più ridotta (ma non assente) o, come autorevolemente affermato, «del tutto marginale» 79. 7. Nomina degli arbitri e fase introduttiva del procedimento L’arbitrato prenderà avvio con la nomina degli arbitri. Il Codice dei contratti pubblici, a differenza di quanto accade nella disciplina di diritto comune che – non dimenticando che il numero degli arbitri influisce non di poco sui costi dell’arbitrato – lascia ampia libertà alle parti anche nella scelta del numero degli arbitri (purché dispari), afferma che «il collegio è composto da tre membri». Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e lavori pubblici, cit. p. 50, dove una serie di riferimenti in nota 151. Corte Cost., 7 novembre 1995, n. 482. 78 Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici», cit. p. 581. Contra F.P. LUISO, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 423. 79 Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., 190. Il quale, con un ragionamento convincente, giunge alla conclusione che si instaura un rapporto contrattuale con la Camera arbitrale per i contratti pubblici anche nell’ arbitrato di cui all’art. 241. 76 77 A seguire, l’art. 241 c.c.p. indica le modalità di nomina stabilendo che «ciascuna delle parti, nella domanda di arbitrato o nell’atto di resistenza alla domanda, nomina l’arbitri di propria competenza tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce». Nell’ipotesi di arbitrato ai sensi dell’art. 243 c.c.p., «la domanda di arbitrato, l’atto di resistenza ed eventuali controdeduzioni, vanno trasmesse alla Camera arbitrale ai fini della nomina del terzo arbitro». Queste norme hanno un linguaggio unico nel suo genere, infatti non si rinvengono nel codice di rito “domande di arbitrato”, “atti di resistenza” e (generiche) “controdeduzioni”, che vengono invece dal D.M. 398/2000. L’interpretazione della dottrina di dette espressioni ha condotto tuttavia a ritenere che: le “domande d’arbitrato” coincidono con gli atti con i quali si «dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale» ex art. 669 octies, comma 5, c.p.c.; che gli «att[i] di resistenza», sebbene non ve ne sia traccia nel codice di rito, trovano la loro disciplina nell’art. 810 c.p.c. dedicato alla «nomina degli arbitri» per cui il convenuto, nell’atto di resistenza, «potrebbe limitarsi a nominare il proprio arbitro, senza che la mancata presa di posizione in ordine alle pretese ex adverso avanzate, possa comportare alcuna preclusione» 80; infine, con riguardo alle «controdeduzioni», devi ritenersi legittimo che l’attore, dopo la notifica dell’atto di resistenza, notifichi un ulteriore atto al convenuto con controdeduzioni (81). Venendo, poi, alla nomina del terzo del terzo arbitro, l’art. 241, comma 5, c.c.p., afferma che «il presidente del collegio arbitrale é scelto dalle parti, o su loro mandato dagli arbitri di parte». Come anticipato, e come afferma il comma 12 della norma in commento, «in caso di mancato accordo per la nomina del terzo arbitro, ad iniziativa della parte più diligente, provvede la camera arbitrale». Gli arbitri, nell’arbitrato libero di cui all’art. 241 c.c.p., vengono individuati dalle parti «tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce», che se per alcuni si tratta di una mera esortazione (82), per altri la carenza di «particolare esperienza» potrebbe addirittura essere motivo di ricusazione ex art. 815, comma 1, n. 1, c.p.c., ai sensi del quale l’arbitro può essere ricusato «se non ha le qualifiche espressamente convenute dalle parti» (83), ma non di impugnazione essendo la formula «soggetti di particolare esperienza» troppo generica per essere oggetto di un sindacato. Vi sono poi una serie di casi di incompatibilità, alcuni dei quali introdotti col d.lgs. 53/2010, affermando, l’art. 241, comma 6, c.c.p. che «in aggiunta ai casi di ricusazione degli arbitri previsti dall’articolo 815 del codice di procedura civile, non possono essere nominati arbitri coloro che abbiano compilato il progetto o dato Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici», cit. p. 582. Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici», cit. p. 583. 82 V. A. DAPAS, in A. DAPAS, L. VIOLA (a cura di), L’arbitrato nel nuovo codice dei contratti pubblici, Milano, 2007, p. 114; anche N. MATASSA, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, in L. CARBONE, F. CARINGELLA e G. DE MARZO (a cura di), L’attuazione della legge quadro sui lavori pubblici, Milano, 2000, p. 70 ss, p. 723. 83 Così P. CARBONE, Prime considerazioni sulla disciplina del contenzioso contenuta nel d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in Riv. trim. app., 2006, p. 815 ss; spec. p. 833. 80 81 parere su di esso, ovvero diretto, sorvegliato o collaudato i lavori, i servizi, le forniture cui si riferiscono le controversie, né coloro che in qualsiasi modo abbiano espresso un giudizio o parere sull’oggetto delle controversie stesse». Col d.lgs. 53/2010 infatti anche gli arbitri “di parte” non possono aver avuto alcun coinvolgimento nella materia del contendere. Si tratta tuttavia non di motivi di incapacità – per cui la parte potrebbe impugnare il lodo se questo «è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro» ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 3 c.p.c. – ma di un ulteriore motivo di ricusazione in aggiunta a quelli di cui all’art. 815 c.p.c. (84). Per quanto riguarda il presidente del collegio arbitrale, questo, ai sensi dell’art. 241, comma 5, c.c.p., introdotto dal d.lgs. 53/2010, deve essere scelto dalle parti o, su loro mandato, dagli arbitri di parte «tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce, muniti di precipui requisiti di indipendenza, e comunque tra coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo, ad eccezione delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico» con la precisazione che «la nomina del presidente del collegio effettuata in violazione del presente articolo determina la nullità del lodo ai sensi dell’articolo 829, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile». Con l’introduzione di questa norma, il legislatore del 2010 non ha tanto voluto (ri)affermare la necessarietà dell’indipendenza del presidente del tribunale, perché questi, come gli arbitri “di parte”, non di meno e non di più, deve essere indipendente e la sua indipendenza è garantita e tutelata dall’art. 815 c.p.c. – tanto che, sotto questo profilo, la norma risulta addirittura ridondante – ma imporre che questi sia scelto «tra coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo [quindi in quelli liberi]» 85. Soprattutto, il legislatore ha inteso sanzionare con la «nullità» il lodo pronunciato in spregio a tali prescrizioni, ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 3, c.p.c. quindi ritenuto il lodo «pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell’art. 812 [i.e., perché incapace]». La ratio della grave sanzione della nullità, introdotta dal legislatore del 2010, è di difficile comprensione, non potendo essere individuata nell’esigenza di garantire l’indipendenza e l’imparzialità del presidente del tribunale arbitrale, che deve valere in generale e per qualsiasi arbitro. Se poi si considera che la parte vittoriosa nell’arbitrato, inconsapevole che l’arbitro nominato si trovasse nella situazione dell’art. 241 c.c.p., potrebbe subire tale nullità, si fatica ancor di più a definire ragionevole la scelta del legislatore. Si fatica altresì a comprendere la differenza di Così G. RUFFINI, J. POLINARI, Sub art. 815, in C. CONSOLO, F.P. LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, cit., p. 5828 ss.; giunge alla medesima conclusione, E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 218. 85 L’eccezione («delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico») alla regola riguarda gli avvocati di Stato per i quali l’esercizio della difesa costituisce l’adempimento di un dovere d’ufficio. Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 221, nt. 88. 84 trattamento rispetto alla forma amministrata in cui la sopraccitata norma non trova applicazione ma per la quale è previsto che «durante il periodo di appartenenza all’albo gli arbitri non possono espletare incarichi professionali in favore delle parti dei giudizi arbitrali da essi decisi, ivi compreso l’incarico di arbitro di parte» e che la violazione di tale norma costituisce (solamente) motivo di ricusazione dell’arbitro, e non di nullità del lodo. La diversità di disciplina è tanto evidente quanto irragionevole 86 . La Legge Anticorruzione (L. 190/2012) è intervenuta in tema di nomine ad arbitri. Il legislatore ha ritenuto che le garanzie introdotte da d.lgs. 53/2010 («precipui requisiti di indipendenza», il non aver esercitato «nell’ultimo triennio … le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo», il non coinvolgimento nella materia del contendere anche degli arbitri di parte, un compenso massimo per l’intero collegio arbitrale, incluso il segretario, di centomila euro – su cui v. infra –) non fossero sufficienti. Così viene ulteriormente stabilito che «la nomina degli arbitri per la risoluzione delle controversie nelle quali è parte una pubblica amministrazione avviene nel rispetto dei principi di pubblicità e di rotazione e secondo le modalità previste dai commi 22, 23 e 24», dove l’art. 22 prescrive che «qualora la controversia si svolga tra due pubbliche amministrazioni, gli arbitri di parte sono individuati esclusivamente tra dirigenti pubblici», l’art. 23 che «qualora la controversia abbia luogo tra una pubblica amministrazione e un privato, l’arbitro individuato dalla pubblica amministrazione è scelto preferibilmente tra i dirigenti pubblici» e l’art. 24 che «la pubblica amministrazione stabilisce, a pena di nullità della nomina, l’importo massimo spettante al dirigente pubblico per l’attività arbitrale. L’eventuale differenza tra l’importo spettante agli arbitri nominati e l’importo massimo stabilito per il dirigente è acquisita al bilancio della pubblica amministrazione che ha indetto la gara». In base alla nuova disciplina, dunque, la pubblica amministrazione deve nominare come arbitro un dirigente pubblico. Ciò ci sembra andare in senso esattamente contrario rispetto al principio di indipendenza e a quello di rotazione, principi, in particolare quello di indipendenza, che dovrebbero, non solo essere rispettati ma anche, guidare il legislatore nel dettare una disciplina sulla nomina degli arbitri. Al di là delle valutazioni, il quadro che se ne trae è quello di nomine da parte della pubblica amministrazione dirette a dirigenti pubblici, con compensi più bassi di quelli degli altri arbitri e con un appropriazione da parte della pubblica amministrazione della differenza. 8. La sede dell’arbitrato. La «sede» dell’arbitrato è un concetto giuridico di grande importanza nel procedimento arbitrale. Infatti dalla determinazione della sede derivano una serie di rilevanti conseguenze: prima fra tutte, la sede costituisce il principale criterio di individuazione del giudice competente per l’omologazione del lodo, ai sensi dell’art. 86 Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 223. 825 c.p.c., nonché per la sua impugnazione tanto per nullità, ai sensi dell’art. 828 c.p.c., quanto per revocazione ed opposizione di terzo, ai sensi dell’art. 831 c.p.c. Non solo. La sede dell’arbitrato costituisce il principale criterio di attribuzione della competenza territoriale ai giudici statali d’ausilio al procedimento arbitrale, i quali garantiscono l’inizio e il proseguimento del procedimento arbitrale quando si verifichino situazioni d’impasse intervenendo in caso di richiesta di nomina e/o sostituzione dell’arbitro, ex art. 810 c.p.c., di determinazione del compenso degli arbitri, ex art. 814 c.p.c., di ricusazione, ex art. 815 c.p.c., di proroga del termine per il deposito del lodo, ex art. 820, comma 3, lett. b), c.p.c. Da qui l’importanza della sede dell’arbitrato e di una attenta valutazione nella sua determinazione ad opera delle parti 87. Non prevedendo il Codice dei contratti pubblici una regola speciale per quanto concerne la sede dell’arbitrato, nella forma libera di cui all’art. 241 c.c.p. trovano applicazione le norme di cui al codice di rito, quindi l’art. 816 c.p.c. che afferma lasciando ampia libertà alle parti — come deve essere nell’arbitrato — che sono le stesse parti a determinare la sede dell’arbitrato «nel territorio della Repubblica», «altrimenti provvedono gli arbitri nella loro prima riunione». Nel caso in cui poi la sede non sia né indicata dalle parti né fissata dagli arbitri viene stabilito che questa «è nel luogo in cui è stata stipulata la convenzione d’arbitrato. Se tale luogo non si trova nel territorio nazionale, la sede è a Roma». Diverso è il discorso per l’arbitrato amministrato di cui all’art. 243 c.c.p. Infatti, per questo tipo di arbitrato, il Codice dei contratti detta una norma ad hoc dal seguente tenore letterale: «le parti determinano la sede del collegio arbitrale, anche presso uno dei luoghi in cui sono situate le sezioni regionali dell’Osservatorio; se non vi é alcuna indicazione della sede del collegio arbitrale, ovvero se non vi é accordo fra le parti, questa deve intendersi stabilita presso la sede della camera arbitrale». Dunque anche nel Codice dei contratti pubblici le parti sono lasciate libere nella determinazione della sede dell’arbitrato amministrato. Tuttavia, diversa è la regola suppletiva poiché viene stabilito che, in caso di mancata determinazione della sede ad opera delle parti «questa deve intendersi stabilita presso la sede della Camera Arbitrale [cioè, a Roma]» e non nel luogo in cui è stipulata la convenzione arbitrale. La norma precisa che le parti determinano la sede del collegio «anche presso uno dei luoghi in cui sono situate le sezioni regionali dell’Osservatorio [dei lavori pubblici]», puntualizzazione che rievoca disciplina contenuta nell’art. 150, comma 4, d.P.R. 554/1999, in forza del quale le parti erano libere di individuare la sede dell’arbitrato «in uno dei luoghi in cui sono situate le sezioni regionali dell’Osservatorio dei lavori pubblici». La formulazione attuale, con l’aggiunta dell’avverbio «anche», lascia le parti libere di fissare la sede anche dove non siano situate sezioni regionali dell’Osservatorio, diversamente dal passato. La sede dell’arbitrato, come nell’arbitrato di diritto comune, può essere determinata (e modificata) in ogni momento del procedimento, quindi non necessariamente Sul concetto di sede nell’arbitrato di diritto comune, v. E. PICOZZA, Sub art. 816 c.p.c., in C. CONSOLO, M. V. BENEDETTELLI, L. G. RADICATI DI BROZOLO (a cura di), Commentario breve al dritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, Padova, 2010, p. 166 ss. 87 prima dell’inizio del procedimento. Da ciò ne consegue che, all’inizio del procedimento, si potrebbe non conoscere l’ufficio dell’Avvocatura dello stato presso cui notificare la domanda d’arbitrato. Per risolvere tale problema, si deve ricorrere alla disciplina di diritto comune, quindi all’art. 816, comma 2, c.p.c., in forza del quale la sede è quella in cui è stata stipulata la convenzione arbitrale 88. 9. L’istruzione probatoria L’art. 241, comma 8, c.c.p., unica disposizione sull’istruzione probatoria, afferma che «nei giudizi arbitrali regolati dal presente codice sono ammissibili tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, con esclusione del giuramento in tutte le sue forme». Tale disposizione, apparentemente chiara, pone tuttavia una questione: se il legislatore abbia inteso riferirsi a tutti i mezzi di prova ammessi, in generale, dal codice di rito, oppure se si riferisca ai soli mezzi di prova ammessi in arbitrato (assumendo che vi sia una differenza tra i mezzi ammissibili nell’uno e nell’altro procedimento)89. Deve, tuttavia, ritenersi preferibile la prima soluzione. Del resto, il Codice dei contratti pubblici quando rinvia alle norme del codice di rito, fa riferimento a quelle che regolano, nello specifico, l’arbitrato, a partire dal comma 2, dell’art. 241, c.c.p. a norma del quale «ai giudizi arbitrali si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, salvo quanto disposto dal presente codice » 90. Con la disposizione in esame il legislatore ha inteso limitare la libertà delle parti sotto il profilo probatorio: infatti mentre nell’arbitrato di diritto comune le parti sono libere di escludere o limitare l’ammissibilità di un determinato mezzo di prova, ex art. 816-bis c.p.c., nell’arbitrato in materia di contratti pubblici le parti non godono di tale facoltà. 10. Il segretario arbitrale. Nel Codice dei contratti pubblici, nelle norme in esame, si ritrova la figura del «segretario del collegio arbitrale». Tale figura non è invece presente nel codice di rito ancorché sia ampiamente nota alla prassi. Si tratta di una figura che svolge un’attività «d’ausilio» a quella degli arbitri. Essendo, quest’ultima, un’attività di prestazione d’opera intellettuale, si deve concludere nel senso che anche l’attività del segretario arbitrale rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2232 c.c. e che, quindi, questi non è che un prestatore d’opera dell’arbitro, al quale risponde della sua attività. Nessun rapporto si instaura tra parti e segretario (91). Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici», cit., p. 612. Sul tema si veda, almeno per i riferimenti essenziali, E. F. RICCI, La prova nell’arbitrato rituale, Milano, 1974; G. RUFFINI, V. TRIPALDI, Sub art. 816 ter, in C. CONSOLO, F.P. LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, cit., p. 1828 ss. 90 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., pp. 229-230. 91 In questo senso, anche la giurisprudenza: v. Cass. 26 maggio 2004, n. 10141, in Foro it., 2005, I, p. 782 ss, che afferma che è solo con gli arbitri che s’instaura il «rapporto di prestazione d’opera intellettuale del segretario, rapporto del tutto estraneo a quello instaurato tra le parti litiganti e gli 88 89 Nel caso di arbitrato amministrato, molto spesso le attività del segretario arbitrale sono svolte dall’istituzione arbitrale, attraverso i suoi organi o personale interni all’istituzione, in conformità a quanto fissato nel regolamento arbitrale, dunque rientrano nell’oggetto del contratto di amministrazione d’arbitrato (92). Così le parti, accettando il regolamento dell’istituzione, accettano anche che sia quest’ultima a svolgere le attività del segretario arbitrale. Nell’arbitrato libero invece sono gli arbitri a decidere se avvalersi di un segretario, consapevoli che la loro decisione influirà sui costi dell’arbitrato (che sono a carico delle parti). Prima del d.lgs. 53/2010, nel Codice dei contratti pubblici, il segretario era una figura necessaria nell’arbitrato amministrato, infatti in base al vecchio art. 243, comma 7, c.c.p., «il presidente del tribunale arbitrale nomina[va] il segretario» scegliendolo all’interno dell’albo della Camera arbitrale. Ciò comportava maggiori costi dell’arbitrato che il legislatore giustificava alla luce della complessità che caratterizza le controversie in materia di contratti pubblici. La violazione di tale “obbligo” non comportava tuttavia la nullità del lodo ma costituiva motivo per l’esercizio di un’azione di responsabilità ex art. 813-ter c.p.c. nei confronti dell’arbitro che mancava di nominare il segretario. Il d.lgs. 53/2010 ha eliminato questo “obbligo” trasformandolo in una mera “facoltà” giustificata da una reale necessità, quindi uniformando la disciplina arbitrale in materia di contratti pubblici a quella di diritto comune, e riducendo i costi dell’arbitrato. Infatti, il nuovo art. 243, comma 7, afferma che «il presidente del collegio arbitrale nomina, se necessario, il segretario, scegliendolo nell’elenco di cui all’articolo 242, comma 10». Nell’arbitrato libero, anche prima della riforma del 2010, non vi era alcun obbligo di nomina del segretario arbitrale, tuttavia dato che il vecchio art. 241, comma 10, c.c.p., stabiliva che spettava al «segretario» depositare il lodo presso la Camera arbitrale, si riteneva necessaria la nomina del segretario arbitrale anche nell’arbitrato libero (93). Oggi il problema non si pone più dal momento che il legislatore ha reso facoltativa la nomina del segretario anche nell’arbitrato amministrato e previsto che non è più il segretario a provvedere al deposito del lodo ma il collegio arbitrale. arbitri», con nota di R. CAPONI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di procedimento di liquidazione delle spese e dell’onorario arbitrali (art. 814 c.p.c.). V. anche Cass. 8 settembre 2004, n. 18058, in Riv. arb., 2005, p. 83 ss., con nota di F. AULETTA, La tutela giurisdizionale dei diritti del segretario dell’ arbitrato. In dottrina, v. E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit, p. 231 ss.; F. TIZI, I costi del processo arbitrale, in Giusto proc. civ., p. 590 ss.; ID, Sulla liquidazione dei compensi arbitrali negli arbitrati in materia di pubblici appalti, in Riv. arb., 2007, p. 267 ss. 92 Cfr. A.M. BERNINI, L’arbitrato amministrato, cit., p. 393; R. CAPONI, L’ arbitrato amministrato dalle Camere di commercio in Italia, in Riv. arb., 2000, p. 677; E. F. RICCI, Note sull’ arbitrato «amministrato», cit., p. 6. 93 V. A. DAPAS, L’arbitrato nel nuovo codice dei contratti pubblici, cit., p. 157. 11. Il lodo e le impugnazioni. Il codice di rito, con l’art. 820 c.p.c., stabilisce che lodo deve essere pronunciato dagli arbitri «nel termine di duecentoquaranta giorni dall’accettazione della nomina», termine per il calcolo del quale, ha chiarito la Suprema Corte, non trova applicazione l’istituto della sospensione feriale dei termini94. Lo stesso codice di rito afferma che «il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria». Tale norma è stata introdotta con la riforma del 2006, riforma che ha tentato di chiarire la natura e gli effetti del lodo alla luce dei tanti dubbi emersi. Diversamente il Codice dei contratti pubblici non contiene un termine speciale per il deposito del lodo, dunque trova applicazione il sopraccitato art. 820 c.p.c., ma, in deroga a quest’ultimo, afferma che il lodo diviene efficace «con il suo deposito presso la Camera arbitrale per i contratti pubblici». Sotto questo secondo aspetto, si pone dunque un problema «di coordinamento» con la disciplina di diritto comune in base alla quale il lodo è produttivo dei suoi effetti dal diverso momento della sua ultima «sottoscrizione»95. Ante riforma del 2010, il comma 9 dell’art. 241 c.c.p. si limitava ad affermare che «il lodo si ha per pronunziato con il suo deposito presso la camera arbitrale per i contratti pubblici» da qui l’evidente volontà del legislatore di dettare una disciplina differente e speciale rispetto a quella del codice di rito di cui all’art. 824-bis c.p.c. e da quella precedentemente sancita dall’art. 823 c.p.c. Così, si doveva ritenere che il lodo in materia di contratti pubblici fosse produttivo dei medesimi effetti di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria, quindi dei medesimi effetti che nel sistema di diritto comune si producono al momento della sottoscrizione, nel diverso momento del suo deposito presso la Camera arbitrale96. Sino a quel momento gli arbitri mantenevano il proprio potere decisorio, quindi erano liberi di modificare la loro decisione 97 ed era da tale momento che decorreva il termine annuale di cui all’art. 828 c.p.c. per l’impugnazione del 98. Al mancato deposito conseguiva la «inesistenza» del lodo arbitrale 99. Cass. 8 ottobre 2008, n. 24886, in Riv. arb., 2008, p. 223 ss., con nota di F. UNGARETTI DELL’IMMAGINE, La sospensione feriale non si applica all’arbitrato. 95 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 235. 96 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 236; M. CORSINI, L’arbitrato, cit., p. 3836; I. LOMBARDINI, Il nuovo assetto dell’arbitrato negli appalti di opere pubbliche, Milano, 2007, cit., p. 266. 94 Nello stesso senso, rispetto all’identica previsione contenuta nell’art. 9, comma 1, D.M. 298/2000, v, P. BIAVATI, Gli arbitrati nei lavori pubblici: la procedura, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 2002, p. 31 ss., p. 47; D. BORGHESI, Il regolamento di procedura della Camera Arbitrale per i lavori pubblici, in Corr. giur., 2001, p. 944 ss., G. VERDE, Le funzioni «paragiurisdizionali» della Camera Arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 167. 97 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 238; R. CAPONI, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, p. 149; F. P. LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2009, I., p. 185; C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, 2007, I, p. 453, testo e nota 28. 98 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 238; LOMBARDINI, Il nuovo assetto dell’arbitrato negli appalti di opere pubbliche, cit., p. 273. 99 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 238; M. GIORGETTI, Il difetto di potestas iudicandi degli arbitri rituali, in Riv. arb., 1999, p. 460 ss.; P. L. NELA, Il lodo rituale reso da arbitri «usurpatori» e l’insegnamento della Corte di cassazione sulla natura della questione di patto commissorio, in Giur. it., 2006, p. 883 ss. Il legislatore del 2010 ha confermato tale impostazione, e cioè che il lodo «diviene efficace», i.e. è produttivo degli effetti di cui all’art. 824-bis c.p.c., solo al momento del suo deposito presso la Camera arbitrale (nuovo art. 241, comma 9, c.c.p.) e che è da tale momento che decorre il termine lungo per proporre impugnazione (art. 241, comma 15-bis, c.c.p.). Tuttavia non si è limitato a tale statuizione. Infatti, leggendo l’intero nuovo art. 241, comma 9, c.c.p., questo afferma sì, che il lodo «diviene efficace con il suo deposito presso la camera arbitrale per i contratti pubblici» ma afferma anche che il lodo «si ha per pronunciato con la sua ultima sottoscrizione». Dunque, oltre al momento del deposito, rileva anche il momento della sottoscrizione. Come autorevolmente affermato, il senso di tale disposizione è quello che, sebbene il lodo in materia di contratti pubblici, produca i suoi effetti solo al momento del deposito presso la Camera arbitrale per i lavori pubblici, al fine del rispetto del termine per la pronuncia, e solo a tal fine, rileva il diverso e precedente momento dell’ultima sottoscrizione così gli eventuali tempi supplementari necessari per l’attività di deposito non sono computati nel termine stringente per la pronuncia della decisione arbitrale 100. Come accennato il precedenza, al deposito non deve più provvedere il segretario del collegio arbitrale, la cui nomina è divenuta facoltativa, ma è «a cura del collegio arbitrale», ex art. 241, comma 10, c.c.p., che non vuol dire che se gli arbitri hanno deciso di avvalersi di un segretario, non sia questo a provvedere al deposito su incarico degli arbitri. La Camera arbitrale, secondo la nuova formulazione della norma, effettuato il deposito deve restituire alla parte l’originale del lodo «con attestazione dell’avvenuto deposito» ai fini della richiesta di exequatur ai sensi dell’art. 825 c.p.c. Oltre al deposito, un altro momento importante del (concluso) procedimento arbitrale, è la «comunicazione» del lodo. Nell’arbitrato di diritto comune, ai sensi dell’art. 824 c.p.c., «gli arbitri danno comunicazione del lodo a ciascuna parte mediante conseguenza di un originale, o di una copia attestata conforme dagli stessi arbitri, anche con spedizione in plico raccomandato, entro dieci giorni dalla sottoscrizione del lodo». Il Codice di contratti pubblici tace su questo punto. Infatti gli artt. 241 e ss. c.c.p. non dispongono nulla a riguardo. Il Codice fa tuttavia menzione della «comunicazione del lodo» all’art. 243, comma 8, c.c.p. in cui, in tema di costi dell’arbitrato, viene affermato che «il corrispettivo a saldo per la decisione della controversia è versato dalle parti … nel termine di trenta giorni dalla comunicazione del lodo». Ci domanda allora se questa comunicazione sia la medesima di quella di cui all’art. 824 c.p.c. quindi se quest’ultima disposizione trovi applicazione anche nel Codice dei contratti pubblici. La risposta sembra essere affermativa infatti, sebbene la comunicazione del lodo sia un’attività che rientra tra quelle cui è deputata l’istituzione arbitrale che amministra il procedimento, l’art. 243 c.c.p. non menziona tale attività tra quelle a carico della Camera arbitrale e sarebbe una «forzatura eccessiva della lettera della legge» imporre 100 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 239. all’organismo arbitrale un tale obbligo101. Appare dunque più ragionevole l’applicazione dell’art. 824 c.p.c. per cui sono gli arbitri che devono comunicare alle parti il lodo e l’avvenuto deposito, secondo le modalità ivi prescritte. Infine, la disciplina del lodo è completata da una serie di norme sui mezzi di impugnazione, di cui si è già fatto cenno. Prima del d.lgs. 53/2010, il Codice dei contratti pubblici non conteneva norme specifiche sull’impugnazione del lodo quindi doveva ritenersi applicabile la normativa di diritto comune di cui agli artt. 827 ss. del codice di rito con l’unica differenza che il termine lungo (di un anno) per l’esercizio dell’impugnazione, di cui all’art. 828 c.p.c., decorreva non già dall’ultima sottoscrizione ma dal deposito del lodo presso la Camera arbitrale per i lavori pubblici. Il d.lgs. 53/2010 ha in introdotto due disposizioni (rectius, due novi commi) in materia di impugnazione di nullità del lodo: il comma 15-bis e il comma 15-ter dell’art. 241 c.c.p. Nel primo viene chiarito che «il lodo è impugnabile, oltre che per motivi di nullità, anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia» così derogando alla disciplina di diritto comune in cui vale regola, introdotta dalla riforma del 2006 – nell’ottica di ridurre i motivi e casi di impugnazione e, per questa via, garantire una maggiore efficacia al risultato arbitrale – per cui l’impugnazione per violazione di regole di diritto è ammessa solo «se espressamente disposta dalle parti o dalla legge» (art. 829, comma 3, c.p.c.). Dunque, il Codice dei contratti pubblici rappresenta una delle ipotesi d’eccezione evocate dall’art. 829 c.p.c. e con l’introduzione di tale eccezione il legislatore ha mostrato tutta la sua reticenza nei confronti dell’arbitrato riaprendo, tale ulteriore motivo di impugnazione, la strada a un controllo “senza limiti” sul lodo da parte del giudici dello Stato – quegli stessi giudici che le parti avevano volutamente evitato scegliendo la strada arbitrale in luogo di quella statale – quindi riducendo la sua stabilità. Le parti possono tuttavia rinunciare all’impugnazione, infatti il tenore letterale del comma 15-bis non si oppone a questa conclusione 102. Quanto al termine per proporre impugnazione, il d.lgs. 53/2010 conferma che il lodo è impugnabile «nel termine di novanta giorni dalla notificazione» come nella disciplina di diritto comune cui già si faceva riferimento. Mentre il termine lungo viene ridotto rispetto a quello ordinario ex art. 828 c.p.c. (di un anno), e fissato in centottanta giorni, che decorrono, come anticipato sopra, dal deposito del lodo presso la Camera arbitrale per i lavori pubblici. Il comma 15-ter, di nuova introduzione, si occupa invece della sospensione dell’efficacia del lodo da parte della Corte d’appello adita per l’impugnazione e dello svolgimento del giudizio di impugnazione, con la previsione di un «rito abbreviato» quando la Corte sospenda l’efficacia del lodo. Infatti, analogamente a quanto previsto dal codice di rito dall’art. 830 c.p.c., in fase di impugnazione di nullità, e anche successivamente al momento della sua proposizione, «su istanza di parte la Corte d’appello può sospendere, con ordinanza, l’efficacia del lodo, se ricorrono gravi e 101 102 Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 247. Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 250. fondati motivi». La disposizione rinvia inoltre all’art. 351 c.p.c. dunque deve ammettersi che la Corte d’appello possa pronunciarsi sulla sospensione con decreto emesso inaudita altera parte. Come anticipato, il d.lgs. 53/2010 ha introdotto poi uno speciale procedimento (un rito abbreviato) nel caso in cui, una volta impugnato il lodo, ne sia sospesa l’efficacia del lodo così da accelerare una fase che, oltre a tenere le parti “in sospeso”, di fatto, vanifica il risultato dell’arbitrato il più delle volte volutamente scelto per la sua celerità 103 . 12. I costi dell’arbitrato. I costi dell’arbitrato rappresentano uno dei temi più importanti della disciplina del giudizio arbitrale. Ciò è ancor più vero nell’arbitrato in materia di contratti pubblici in cui è coinvolta una parte pubblica e la preoccupazione che il procedimento arbitrale possa comportare costi eccessivi, che vanno a gravare sulle risorse pubbliche, è maggiore. Le fonti normative non sono costituite solo dal Codice dei contratti pubblici, rinviando il legislatore (anche dopo la modifica del 2010) a una fonte esterna che è il D.M. 398/2000 e alle tariffe ivi allegate. Infatti l’art. 241, comma 12, c.c.p. stabilisce che «il collegio arbitrale determina nel lodo definitivo ovvero con separata ordinanza il valore della controversia e il compenso degli arbitri con i criteri stabiliti dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 dicembre 2000, n. 398, e applica le tariffe fissate in detto decreto» con la precisazione, volta a calmierare i costi dell’arbitrato, che «sono comunque vietati incrementi dei compensi massimi legati alla particolare complessità delle questioni trattate, alle specifiche competenze utilizzate e all’effettivo lavoro svolto». Il legislatore del 2010, nella sua opera razionalizzatrice dell’arbitrato, ha poi stabilito che «il compenso per il collegio arbitrale, comprensivo dell’eventuale compenso per il segretario, non può comunque superare l’importo di 100 mila euro», così ponendo un tetto massimo degli onorari e delle spese arbitrali. La Legge Anticorruzione è poi ancora intervenuta sulla materia dei costi dell’arbitrato, come descritto in precedenza, prevedendo compensi più bassi per gli arbitri-dirigenti pubblici v. supra § 7). La regola generale è quella contenuta nell’art. 814 c.p.c. che disciplina l’arbitrato di diritto comune, a norma della quale «gli arbitri hanno diritto al rimborso delle spese e 103 In base al nuovo art. 241, comma 15-ter, c.c.p. «quando sospende l’efficacia del lodo, o ne conferma la sospensione disposta dal presidente, il collegio [della Corte d’appello] verifica se il giudizio è in condizione di essere definito. In tal caso, fatte precisare le conclusioni, ordina la discussione orale nella stessa udienza o camera di consiglio, ovvero in una udienza da tenersi entro novanta giorni dall’ordinanza di sospensione; all’ udienza pronunzia sentenza a norma dell’ articolo 281-sexies del codice di procedura civile. Se ritiene indispensabili incombenti istruttori, il collegio provvede su di essi con la stessa ordinanza di sospensione e ne ordina l’assunzione in una udienza successiva di non oltre novanta giorni; quindi provvede ai sensi dei periodi precedenti». Sono diversi i procedimenti normativi a cui il presente «rito abbreviato», introdotto dal d.lgs. 53/2010, può essere accostato e ai quali si è ispirato il legislatore. Tra gli altri, l’abrogato rito abbreviato societario, di cui all’ art. 24 del d.lgs. 5/2003, nonché i vari riti abbreviati del giudizio amministrativo che si ritrovano nel nuovo codice del processo amministrativo. dell’onorario per l’opera prestata» e sono gli stessi arbitri a provvedere direttamente alla liquidazione delle spese e dell’onorario, liquidazione che le parti sono libere di non accettare e «in tal caso l’ammontare delle spese e dell’onorario è determinato con ordinanza [che è titolo esecutivo, a norma del comma successivo] dal presidente del tribunale … su ricorso degli arbitri e sentite le parti» 104. Sebbene non vi sia un espresso rinvio nelle norme del codice di rito dedicate all’arbitrato, trovano applicazione gli artt. 91 e ss. c.p.c. sull’allocazione tra le parti delle spese del procedimento arbitrale e degli altri costi (ivi compresi i costi sostenuti dalle parti per la difesa), così sono gli arbitri che, nel lodo, stabiliscono la ripartizione tra le parti dei propri onorari e delle spese del giudizio seguendo, generalmente, il principio della soccombenza. Si tratta infatti di un principio cardine del processo civile che, si ritiene, trovi applicazione anche nel processo arbitrale anzitutto perché il più delle volte sono le parti stesse, nei propri scritti difensivi, a chiedere la condanna della parte soccombente al pagamento degli onorari e di tutte le spese di giudizio 105. Ma anche nel caso in cui ciò non accada, dottrina e giurisprudenza ritengono che gli arbitri sono comunque tenuti a statuire sulla ripartizione delle spese dell’arbitrato (nonché di quelle per la difesa tecnica) seguendo gli artt. 90 e ss. del libro primo del codice di procedura civile e che il principio della soccombenza ha una portata precettiva generale e, per tale ragione, è riferibile anche al procedimento arbitrale 106. Nella pratica si è tuttavia affermata una diversa prassi secondo cui, in mancanza di un diverso accordo delle parti, ciascuna parte, firmataria della convenzione arbitrale, debba farsi carico delle proprie spese e della metà delle spese relative al funzionamento dell’arbitrato, ovvero, della metà dei costi da sostenere per il pagamento di compensi e spese di arbitri. Per quanto riguarda poi il corrispettivo del segretario arbitrale107, così come quello derivante da una eventuale consulenza tecnica d’ufficio108, si tratta di spese che rientrano in quelle del funzionamento dell’arbitrato, seguendone il relativo regime giuridico ex artt. 814 c.p.c. Nell’arbitrato amministrato, è l’istituzione arbitrale preposta all’amministrazione dell’arbitrato a liquidare gli onorari e le spese del giudizio arbitrale, comprensive dei costi dell’istituzione stessa, secondo il proprio tariffario (che le parti hanno accettato rinviando, nella convenzione arbitrale, al regolamento dell’istituzione di cui il tariffario è parte integrante). In questo modo, si dice, l’istituzione arbitrale, quindi Si veda, per tutti R. RUBINO SAMMARTANO, Costi, interessi e maggior danno, in M. RUBINO SAMMARTANO (diretto da), Arbitrato, ADR, conciliazione, Zanichelli, 2009, p. 777 ss.; G. VERDE, Gli arbitri, cit., 113 ss.; F. TIZI, I costi del processo arbitrale, cit., p. 578 ss.; 105 Così, R. RUBINO SAMMARTANO, Costi, interessi e maggior danno, cit., p. 803; G. VERDE, Gli arbitri, cit., p. 146. Cass., 20 febbraio 2004, n. 3383, in Dir. e Giur., 2004, p. 21, ritiene che al processo arbitrale possano applicarsi i principi giurisprudenziali in tema di regolamento delle spese, ogni qualvolta le parti abbiano concordato sull’applicazione all’arbitrato delle regole processuali civili. 106 Così G. RUFFINI, F. RAVIDÀ, Sub art. 814 c.p.c., in M. V. BENEDETTELLI, C. CONSOLO, L. G. RADICATI DI BROZOLO, Commentario breve, cit., p. 148, dove si richiama ampia dottrina e giurisprudenza. Si veda anche V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1964, p. 817. 107 V. Cass. civ. 12 giugno 2008, n. 15820, in Giust. civ., 2009, p. 1044 ss.; Cass. 16 maggio 2004, n. 10141, cit., p. 789. V. anche, in dottrina, F. TIZI, I costi dell’ arbitrato, cit. p. 590. 108 Così F. TIZI, I costi del processo arbitrale, cit., p. 590; Cfr. anche P. BERNARDINI, Arbitrato e consulenza tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 613 ss, spec p. 626. 104 l’arbitrato amministrato, impedendo l’autoliquidazione degli arbitri e sostituendosi ad essi, controlla i costi dell’arbitrato109. La dottrina è concorde nel ritenere che la determinazione ad opera dell’istituzione sia qualificabile come arbitraggio ex art. 1349 c.c.110. Quanto invece alla ripartizione tra le parti delle spese dell’arbitrato, la regola si può trovare nel regolamento arbitrale dell’istituzione prescelta. Se questi sono i «principi generali» in materia di costi dell’arbitrato di diritto comune e dell’arbitrato amministrato, il Codice dei contratti pubblici detta ulteriori regole che, talvolta, derogano alla disciplina di diritto comune. Nell’arbitrato libero di cui all’art. 241 c.c.p., è il collegio arbitrale a liquidare il compenso e le spese del giudizio arbitrale, applicando, come anticipato, le tariffe di cui al D.M. 398/2000. Prima del d.lgs. 53/2010, l’ordinanza di liquidazione del compenso, accettata dalle parti (perché comunque trovava applicazione la disciplina ordinaria di cui all’art. 814 c.p.c. per l’arbitrato di diritto comune)111, costituiva «titolo esecutivo». Il d.lgs. 53/2010 è intervenuto anche su questo aspetto del procedimento arbitrale, rimuovendo l’efficacia di titolo esecutivo del provvedimento di liquidazione del compenso e delle spese arbitrali e attribuendogli quella di «titolo per l’ingiunzione di cui all’articolo 633 del codice di procedura civile». Così gli arbitri sono privati di un titolo esecutivo – col quale, in precedenza, potevano, alternativamente al procedimento ex art. 814 c.p.c., intraprendere l’esecuzione forzata per ottenere il loro compenso-credito, fermo restando che le parti avrebbero potuto reagire con l’opposizione – ma potranno agire solamente per via del procedimento di cui all’art. 814 c.p.c. o in via monitoria 112. Lo stesso decreto del 2010 ha introdotto una specificazione, che ha risolto definitivamente i dubbi sull’applicazione, al procedimento arbitrale, degli artt. 91 ss. c.p.c., affermando il nuovo comma 12-bis che «salvo quanto previsto dall’articolo 92, secondo comma, del codice di procedura civile, il collegio arbitrale, se accoglie parzialmente la domanda, compensa le spese del giudizio in proporzione al rapporto tra il valore della domanda e quello dell’accoglimento». Nell’arbitrato amministrato di cui all’art. 243 c.c.p. è la Camera arbitrale a determinare il corrispettivo dovuto dalle parti, su proposta formulata degli arbitri, in base, anche qui, alle tariffe allegate al D.M. 398/2000. Come nell’arbitrato di diritto comune, la determinazione effettuata dalla Camera arbitrale è un atto di arbitraggio ex art. 1349 c.c., impugnabile nei limiti consentiti dalla norma codicistica innanzi al giudice ordinario, e non un provvedimento amministrativo impugnabile innanzi al giudice amministrativo, essendo, quello tra parti, arbitri e Camera arbitrale, un Così S. AZZALI, L’arbitrato amministrato e l’arbitrato ad hoc, in G. ALPA (a cura di), L’arbitrato: profili sostanziali, Torino, 1999, p. 50. 110 V. A. BRIGUGLIO, in A. BRIGUGLIO, E. FAZZALARI, M. MARENGO, La nuova disciplina dell’ arbitrato, cit., p. 88; R. CAPONI, L’ arbitrato amministrato dalle Camere di commercio in Italia, cit., p. 683; C. PUNZI, Disegno sistematico dell’ arbitrato, cit., p. 412; F. TIZI, I costi del processo arbitrale, cit., p. 585. 111 E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 267 112 Così, E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., pp. 267-268. 109 rapporto privatistico (che si articola in un contratto d’arbitrato da un alto e in un contratto di amministrazione d’arbitrato dall’altro) 113. D. BORGHESI, Il regolamento di procedura della Camera arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 951; M. CORSINI, L’ arbitrato, cit., p. 3833 ss.; F.P. LUISO, La Camera arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 423. Così anche Cass. 1 luglio 2008, n. 17930, in Riv. arb., 2008, p. 239 ss., che ha cassato Con. di Stato, 10 marzo 2005, n. 1008, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. 113 PARTE III L’accordo bonario ex art. 240 Codice degli appalti: la transazione nelle forme dell’arbitrato di Davide Paris SOMMARIO: 1. La ratio dell’istituto e la sua attuale disciplina. – 2. I principali nodi interpretativi, le distorsioni dell’istituto nella prassi e i possibili rimedi. 1. La ratio dell’istituto e la sua attuale disciplina L’accordo bonario previsto dall’art. 240 del d.lgs n. 163/2006 (cd. Codice degli appalti), è un istituto di carattere transattivo finalizzato principalmente a evitare, attraverso una rapida composizione stragiudiziale, il ricorso alla giustizia ordinaria o a quella arbitrale per le controversie che insorgono nella fase dell’esecuzione di un appalto di lavori pubblici. Esso trova il suo precedente più prossimo nell’art. 31-bis della legge n. 109/1994, che riconosceva tuttavia al responsabile del procedimento un ruolo centrale nella formulazione della proposta di accordo bonario, acquisita la relazione del direttore dei lavori e sentito l’affidatario. Il salto qualitativo si compie con la legge n. 166/2002, che sottrae al responsabile del procedimento, organo interno all’amministrazione, il compito di formulare la proposta di accordo bonario e lo affida a un’apposita commissione composta da tre membri, nominati il primo dal responsabile del procedimento, il secondo dall’impresa appaltatrice o concessionaria ed il terzo, di comune accordo, dai componenti già designati. Con ciò il legislatore ha inteso avvicinare quanto più possibile l’accordo bonario alle forme dell’arbitrato, pur mantenendo espressamente l’istituto sui binari dell’accordo transattivo, poiché decisiva rimane comunque la volontà della stazione appaltante e dell’appaltatore di accettare la proposta formulata dalla commissione114. In sostanza, la legge disciplina in maniera assai dettagliata le modalità con cui deve svolgersi l’obbligatorio tentativo di definizione bonaria della controversia, attraverso regole procedurali che, da una parte mirano a garantire le maggiori possibilità di successo alla soluzione transattiva quando questa non sia categoricamente esclusa da una delle parti, dall’altra tendono in ogni caso a garantire che le trattative in ordine alle concessioni reciproche siano contenute entro un tempo limitato, decorso il quale 114 Prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 166, invece, non essendo la proposta formulata da un soggetto in posizione di terzietà rispetto alle parti, bensì dal responsabile del procedimento, era coretto qualificare la procedura in esame come “una sorta di risoluzione in via amministrativa delle riserve” piuttosto che come un tentativo di conciliazione (così P. PISELLI, La risoluzione delle controversie con particolare riferimento all’accordo bonario, in Riv. trim. app., 1996, 222). si apre per la parte che ne abbia interesse la possibilità di adire gli arbitri o il giudice ordinario. L’istituto è infine confluito, con alcune modifiche, nell’art. 240 del Codice degli appalti ed è stato successivamente oggetto di alcuni ulteriori “ritocchi”, ad opera della l. n. 244/2007, del d.lgs. n. 53/2010 e del d.l. n. 70/2011115. Il comma 1 e il comma 22 delimitano il campo di applicazione dell’istituto: la procedura di accordo bonario trova applicazione essenzialmente nei contratti pubblici relativi a lavori nei settori ordinari, “affidati da amministrazioni aggiudicatrici ed enti aggiudicatori, ovvero dai concessionari”; i contratti di lavori relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi affidati a contraente generale sono stati invece espressamente esclusi dal d.l. 70/2011; nei contratti relativi a servizi e a forniture nei settori ordinari e nei contratti di lavori, servizi, forniture nei settori speciali le disposizioni di cui all’art. 240 si applicano “in quanto compatibili” e, in tal caso, le competenze del direttore dei lavori spettano al direttore dell’esecuzione del contratto. Il presupposto per l’attivazione della procedura di accordo bonario è rappresentato dall’iscrizione di riserve sui documenti contabili in grado di far variare l’importo dell’opera “in maniera significativa” e comunque non inferiore al 10% dell’importo contrattuale. Il responsabile del procedimento, che, come si è accennato, ha perso con la legge n. 166/2002 il ruolo centrale che inizialmente aveva nella definizione della proposta di accordo bonario, mantiene tuttavia un ruolo determinante nella fase di avvio della procedura stessa. Ricevuta la comunicazione da parte del direttore dei lavori dell’iscrizione di riserve per un ammontare superiore alla soglia del 10%, egli deve infatti: a) valutare l’ammissibilità e la non manifesta infondatezza delle riserve iscritte ai fini dell’effettivo raggiungimento del limite di valore116. Con ciò il responsabile del procedimento ha una decisiva responsabilità nello scegliere se attivare o meno la 115 Per una dettagliata ricostruzione dell’evoluzione legislativa dell’istituto, aggiornata alla legge finanziaria per il 2008, v. D. GIACOBBE, L’evoluzione legislativa in tema di accordo bonario nell’appalto di opere pubbliche, in Giust. civ., 2008, 7-8, 359 ss. 116 La valutazione sull’ammissibilità e non manifesta infondatezza delle riserve non era inizialmente prevista nell’art. 31 bis l. n. 109/1994 ed è stata introdotta dall’art. 149 del regolamento attuativo (D.P.R. n. 554/1999). In dottrina non si è mancato di sottolineare la problematicità dell’introduzione di questo requisito con fonte secondaria, in contraddizione con la disposizione legislativa che fa riferimento al mero raggiungimento della soglia del 10%, e si è proposta una lettura restrittiva della norma regolamentare affermando che, ai fini dell’avvio della procedura è necessario «avere riferimento alla sola valutazione economica delle riserve, prescindendo del tutto sia dalla loro ammissibilità, sia dalla loro fondatezza, che saranno oggetto di apprezzamento e considerazione ai fini del contenuto della proposta» (P. CARBONE, Brevi considerazioni sull’accordo bonario per la definizione delle controversie nell’esecuzione di opere pubbliche, in Riv. trim. app., 2000, 475). Ciò sul presupposto che «la ratio della disposizione è quella di risolvere – o quanto meno tentare di risolvere – le controversie in corso d’opera, evitando che esse possano rappresentare per le stazioni appaltanti delle pesanti sopravvenienze passive e veri e propri debiti occulti fuori bilancio» e tale finalità è meglio soddisfatta dall’immediata attivazione della procedura, indipendentemente da valutazioni sull’ammissibilità e sulla fondatezza, che verranno invece esaminate nella fase di merito (477). Il punto è stato poi risolto, in senso contrario, dal d.lgs. n. 163/2006, che ha attribuito rango legislativo alle disposizioni inizialmente introdotte con fonte regolamentare. procedura, ben potendo, anche in presenza di riserve per un ammontare superiore a quello stabilito come valore soglia, negare l’avvio della procedura qualora ritenga che le pretese dell’appaltatore siano pretestuosamente sollevate al solo fine di ottenere un determinato vantaggio economico, lucrando sulla necessità dell’amministrazione pubblica di non affrontare il rischio di una lunga sospensione dei lavori, oppure qualora ritenga che, accanto a pretese non manifestamente infondate di valore inferiore alla soglia, l’appaltatore ne abbia aggiunte altre prive di fondamento al solo scopo di raggiungere la soglia per l’attivazione della procedura di accordo bonario. Come meglio si dirà, peraltro, tale vaglio non sembra sinora aver dato prova di particolare efficacia nell’evitare un uso distorto del procedimento; b) promuovere la costituzione della commissione incaricata di formulare la proposta di accordo bonario entro 30 giorni dalla comunicazione del direttore dei lavori; più specificamente, il responsabile del procedimento, entro 10 giorni dal ricevimento della comunicazione del direttore dei lavori deve nominare il proprio componente e invitare la parte che ha iscritto le riserve a fare altrettanto. Il terzo componente è scelto di comune accordo dai due componenti già nominati, entro dieci giorni dalla nomina del secondo componente; c) acquisire la relazione riservata del direttore dei lavori e, ove costituito, dell’organo di collaudo, che vengono messe a disposizione della commissione. La legge stabilisce alcuni requisiti e cause ostative all’assunzione dell’incarico comuni a tutti e tre i membri: essi devono avere «competenza specifica in relazione all’oggetto del contratto» e non devono trovarsi in una delle situazioni previste dall’art. 51 c.p.c., che disciplina le cause di astensione del giudice, né in una situazione di incompatibilità ai sensi dell’art. 241, c. 6 Codice degli appalti, che, oltre a richiamare le cause di ricusazione degli arbitri previste dal codice di procedura civile (art. 815), esclude la nomina ad arbitro per «coloro che abbiano compilato il progetto o dato parere su di esso, ovvero diretto, sorvegliato o collaudato i lavori, i servizi, le forniture cui si riferiscono le controversie, né coloro che in qualsiasi modo abbiano espresso un giudizio o parere sull’oggetto delle controversie stesse». Inoltre requisiti specifici sono previsti per il componente nominato dal responsabile del procedimento e per il terzo nominato di comune accordo, il quale assume anche le funzioni di presidente della commissione. Quanto al primo la legge richiede che si tratti di un soggetto interno alla pubblica amministrazione: deve infatti essere nominato «nell’ambito dell'amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore o di altra pubblica amministrazione in caso di carenza dell’organico». Per quanto riguarda invece il presidente, la legge mira a garantirne la competenza e l’imparzialità, vincolando i due membri nominati a sceglierlo fra le seguenti categorie: - magistrati amministrativi o contabili; - avvocati dello Stato; - componenti del Consiglio superiore dei lavori pubblici; - dirigenti di prima fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che abbiano svolto le funzioni dirigenziali per almeno cinque anni; avvocati e tecnici in possesso del diploma di laurea in ingegneria ed architettura, iscritti ai rispettivi ordini professionali in possesso dei requisiti richiesti che l’art. 241, comma 5, Codice degli appalti richiede per la nomina a presidente del collegio arbitrale. Come è agevole notare, le modalità di nomina della commissione e i requisiti per farne parte avvicinano notevolmente l’istituto alla figura dell’arbitrato, alla cui disciplina in alcuni punti si fa rinvio. La commissione, che dispone della relazione riservata del direttore dei lavori e, ove costituito, dell’organo di collaudo, ha tempo 90 giorni, che decorrono dal momento della sua costituzione117, per formulare una proposta di accordo bonario, sulla quale le due parti si pronunciano entro trenta giorni dal ricevimento. Nell’intento di non irrigidire inutilmente la procedura, la legge non detta nessuna indicazione sulle modalità di lavoro della commissione, che rimane così libera di organizzare come meglio ritiene il proprio operato, fermo restando il termine dei 90 giorni118. Se l’accordo viene accettato, ne viene data comunicazione al responsabile del procedimento, che ne redige il verbale, sottoscritto dalle parti: all’accordo bonario accettato è espressamente riconosciuta la “natura di transazione” e sulla somma riconosciuta decorrono gli interessi al tasso legale a partire dal sessantesimo giorno dalla sottoscrizione. Se invece l’accordo non si perfeziona è possibile adire gli arbitri o il giudice ordinario, con la garanzia che “le dichiarazioni e gli atti del procedimento non sono vincolanti per le parti in caso di mancata sottoscrizione dell’accordo bonario”. L’art. 240 si preoccupa di dettare una minuziosa scansione temporale della procedura con l’obiettivo di evitare che uno strumento finalizzato a favorire una rapida composizione stragiudiziale delle controversie possa finire per determinare esso stesso un allungamento dei tempi di esecuzione dell’opera: nel complesso, la procedura non può protrarsi oltre i 150 giorni, risultanti dalla somma del termine per la costituzione della commissione (30 giorni), per la conclusione dei lavori della stessa (90 giorni) e per la valutazione della proposta da parte delle parti (30 giorni)119. Ancorché si tratti di termini aventi carattere ordinatorio, la legge ricollega al loro inutile decorso una serie di conseguenze finalizzate tanto a garantirne il rispetto attraverso la minaccia di una sanzione, quanto ad escluderne un effetto paralizzante sul corso dei lavori. Ciò è il frutto di progressivi interventi normativi che hanno risposto a una preoccupazione evidenziata anche dall’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, che a seguito di un monitoraggio della risoluzione bonaria delle controversie 117 Il termine di 90 giorni decorreva inizialmente dalla data di apposizione dell’ultima riserva: come sottolineato in dottrina (P. CARBONE, A. BELLETTI, L’accordo bonario dopo le modifiche apportate dalla legge 1° agosto2002, n. 166 all’art. 31 bis della legge quadro in materia di lavori pubblici, in Riv. trim. app., 2003, 63 s.) trattavasi di un termine irrealistico che, paradossalmente, poteva spirare ancor prima della costituzione della commissione. Opportunamente il d.lgs. n. 53/2010 ha fatto decorrere il termine dalla data di costituzione della commissione. 118 Cfr. P. CARBONE, A. BELLETTI, op. cit., 60. 119 Il procedimento può tuttavia protrarsi per un tempo più lungo qualora insorgano difficoltà nella costituzione della commissione; ad esempio quando non vi sia accordo sulla nomina del terzo componente e questo venga nominato dal presidente del tribunale competente su istanza della parte più diligente. nel vigore del precedente art. 31-bis l. 109/1994, aveva rilevato che, se i termini previsti dalla legge hanno carattere ordinatorio, «un superamento consistente dei medesimi svilisce la natura stessa dell’accordo bonario volto ad accelerare il contenzioso in materia di opere pubbliche attraverso un meccanismo di conciliazione avente natura negoziale che si contrappone alla risoluzione in via amministrativa»120. In particolare: - se il soggetto che ha formulato le riserve non provvede alla nomina del proprio componente entro 20 giorni dalla richiesta, la proposta di accordo bonario viene formulata dal responsabile del procedimento, anziché dalla commissione, entro il più breve termine di 60 giorni; - se non viene rispettato il termine di 10 giorni per la nomina di comune accordo del presidente della commissione, alla sua nomina provvede, su istanza della parte più diligente, il presidente del tribunale del luogo dove è stato stipulato il contratto; - se non viene rispettato il termine di 30 giorni per la costituzione della commissione a causa di ritardi negli adempimenti da parte del responsabile del procedimento, questi risponde sia sul piano disciplinare, sia a titolo di danno erariale121; - qualora sia la commissione a non rispettare il termine di 60 giorni per la formulazione della proposta, questa perde il diritto al compenso stabilito dal comma 10122; infine, se le parti non si pronunciano entro 30 giorni sulla proposta di accordo, ancorché non decadano dalla facoltà di accettare successivamente la medesima proposta, tuttavia è consentito l’accesso alla giustizia arbitrale o alla giustizia ordinaria, come nel caso di fallimento dell’accordo. La procedura così descritta è finalizzata a definire tutte le riserve sino a quel momento iscritte e, superando alcune incertezze della precedente formulazione123, il comma 2 chiarisce che è possibile reiterare la procedura una sola volta, quando riserve ulteriori e diverse da quelle già esaminate raggiungano il valore soglia. Accanto a questa procedura ordinaria, l’art. 240 prevede alcune varianti: - per gli appalti e le concessioni inferiori a 10 milioni la costituzione della commissione non è obbligatoria, bensì facoltativa: il responsabile del procedimento può scegliere se nominare la commissione (con facoltà di parteciparvi, quale componente nominato dalla stazione appaltante) oppure di formulare egli stesso la proposta di accordo bonario nel termine di 60 giorni; Cfr. Determinazione 5 dicembre 2001, n. 22. Nella stessa responsabilità incorre qualora non rispetti il termine di 60 giorni previsto per la formulazione della proposta, quando l’appaltatore non abbia nominato il proprio componente della commissione. 122 Ai sensi del comma 10, “i compensi spettanti a ciascun membro della commissione sono determinati dalle amministrazioni e dagli enti aggiudicatori nella misura massima di un terzo dei corrispettivi minimi previsti dalla tariffa allegata al decreto ministeriale 2 dicembre 2000, n. 398, oltre al rimborso delle spese documentate. Il compenso per la commissione non può comunque superare l’importo di 65 mila euro, da rivalutarsi ogni tre anni con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”. 123 Cfr. P. CARBONE, A. BELLETTI, op. cit., 31 ss. 120 121 - è riconosciuta alle parti la facoltà di riconoscere alla commissione il potere di assumere decisioni vincolanti per le stesse: chiaramente si esce in questo caso dallo schema della transazione, dando vita «a un sorta di arbitrato irrituale, ovvero di mandato a transigere»124; - infine, nei contratti di importo pari o superiore a 10 milioni, la procedura è sempre attivata dal responsabile del procedimento entro trenta giorni dal ricevimento del certificato di collaudo o di regolare esecuzione, «indipendentemente dall’importo economico delle riserve ancora da definirsi»: in sostanza, accanto alla possibilità di attivare la procedura di accordo bonario per un massimo di due volte nel corso dell’esecuzione dei lavori, a condizione che si raggiunga il valore soglia del 10% dell’importo dell’opera, l’accordo bonario si pone come passaggio obbligato al termine dell’esecuzione dei lavori, per cercare di definire tutte le controversie ancora aperte, indipendentemente dal loro valore. 2. I principali nodi interpretativi, le distorsioni dell’istituto nella prassi e i possibili rimedi Un primo problema interpretativo, che può considerarsi oggi arrivato a soluzione, è rappresentato dal carattere “riservato”, quindi sottratto al diritto di accesso da parte dell’appaltatore, della relazione del direttore dei lavori e, ove costituito, dell’organo di collaudo. Tali relazioni sono state espressamente qualificate come “riservate” dall’art. 31-bis della legge 109/1994 e dal regolamento attuativo emanato con D.P.R. n. 554/1999. Di tale qualifica non v’è tuttavia traccia nella legge n. 166/2002, mentre nuovamente il Codice degli appalti afferma il carattere riservato delle relazioni in esame. Nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, la questione ha dato luogo a una serie di pronunce contrastanti. Singolarmente, prima dell’entrata in vigore della legge n. 166 alcune sentenze avevano riconosciuto l’accesso alla relazione riservata, superando il dato testuale della legge e del regolamento di attuazione espressamente orientato in senso opposto125; al contrario, successivamente alla legge n. 166, che non qualificava più come riservata la relazione, il Consiglio di Stato si è espresso nel senso di escluderne l’accesso, anche in questo caso a dispetto della (mutata) lettera della legge126. Sul punto è infine intervenuta l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato127, che ha avallato quell’orientamento che considera “insignificante” il mancato richiamo da parte della legge n. 166 al carattere “riservato” della relazione: pertanto le relazioni del direttore dei lavori e dell’organo di collaudo erano riservate, lo sono rimaste nel vigore della legge n. 166 e lo sono a maggior ragione ora che la legge nuovamente le qualifica tali, poiché si tratta, afferma l’Adunanza plenaria, di documenti che hanno la P. CARBONE, A. BELLETTI, op. cit., 62. Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11 dicembre 1996, n. 1744; sez. IV, 10 dicembre 1998, n. 1771 e sez. IV, 27 aprile 1999, n. 743. 126 Cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 aprile 2005, n. 1916. 127 Cons. Stato, ad. plen, 13 settembre 2007, n. 11. 124 125 finalità «di offrire alla stazione appaltante il resoconto delle vicende relative all’esecuzione dei lavori appaltati» e che pertanto non rispondono all’interesse di entrambe le parti, bensì sono finalizzate all’ «esclusivo sostegno dell’amministrazione che si opponga alle richieste dell’appaltatore». Il carattere riservato delle relazioni in esame, quindi, si inquadra fra quei casi in cui la pubblica amministrazione può «negare l’accesso, per tutelare se stessa di fronte al privato che intenda accedere ad atti interni che riguardino la sfera delle libere valutazioni dell’amministrazione in ordine alla convenienza delle scelte da adottare». Per quel che qui maggiormente interessa, è utile sottolineare come, nella pronuncia citata, l’Adunanza plenaria sia conscia della necessità di esaminare la questione alla luce della novità introdotta dalla legge n. 166 e recepita dal Codice degli appalti, per cui la proposta di accordo bonario è formulata dall’apposita commissione e non più dal responsabile del procedimento. Non è infatti fuori luogo domandarsi se abbia senso mantenere il carattere riservato di tale relazione quando essa deve necessariamente essere acquisita dalla commissione, di cui fa parte un membro nominato dall’appaltatore stesso, ciò che fa sì che inevitabilmente il soggetto che ha formulato le riserve venga a conoscenza della relazione. Sul punto l’Adunanza plenaria rimarca tuttavia sottolinea che «la conoscenza indiretta che l’appaltatore possa eventualmente acquisire del contenuto delle relazioni tramite il proprio rappresentante in seno alla Commissione per l’accordo bonario, non equivale certo alla disponibilità materiale dei relativi documenti che caratterizza e qualifica il diritto di accesso». Venendo ad esaminare l’applicazione concreta che l’istituto dell’accordo bonario ha avuto nella prassi, occorre ricordare che un’indagine dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ha rilevato una diffusa applicazione distorta della procedura di accordo bonario, che ne snatura il carattere di strumento eccezionale rispetto all’ordinaria trattazione delle riserve al momento del collaudo finale128. In particolare, emergono dalle osservazioni dell’Autorità di vigilanza due possibili usi distorti dell’accordo bonario. In primo luogo, esso viene frequentemente utilizzato da parte dell’impresa appaltatrice come strumento ordinario per ottenere il soddisfacimento di pretese economiche ulteriori a quanto pattuito, facendo leva sulla necessità della stazione appaltante di evitare l’allungamento certo dei tempi di realizzazione dell’opera che consegue a un’azione giurisdizionale. Vengono così iscritte riserve per somme nettamente superiori ai costi effettivamente sostenuti in modo da poter dare avvio alla procedura, salvo poi “accontentarsi” in sede di accordo bonario di una cifra decisamente inferiore a quanto richiesto. A riprova di questo uso distorto, l’Autorità di vigilanza rileva che nella quasi totalità degli accordi esaminai nel periodo 19992004 l’importo riconosciuto è compreso fra un decimo e un terzo di quanto richiesto, che in molti accordi la stazione appaltante dichiara di procedere «soltanto per evitare che il contenzioso si prolunghi ulteriormente a danno dell’amministrazione» e che Cfr. Determinazione n. 5 del 30 maggio 2005. Più recentemente, in termini analoghi, v. l’audizione presso la Commissione II e VII della Camera dei deputati dell’Autorità di vigilanza su atto di governo n. 167, intervento del presidente Giampaolino, § 6, 11 febbraio 2010, in www.autoritalavoripubblici.it. 128 può infine stabilirsi una «stretta relazione tra il ricorso all’accordo bonario ed il forte ribasso (in genere superiore al 20%) offerto in sede di gara», al punto che l’accordo bonario diventa lo strumento per recuperare, almeno in parte, il ribasso offerto. Un secondo uso distorto dell’istituto consiste invece nel suo utilizzo per far fronte a cause impreviste e imprevedibili o errori o omissioni del progetto esecutivo che emergano nel corso dei lavori: in questo caso è frequente che si ricorra all’accordo bonario anziché allo strumento della variante in corso d’opera previsto dal Codice degli appalti per queste situazioni (art. 132). Per limitare le segnalate degenerazioni dell’istituto, non sembra essere percorribile altra strada che quella di valorizzare il controllo del responsabile del procedimento sull’ammissibilità e non manifesta infondatezza delle riserve iscritte ai fini dell’attivazione del procedimento di accordo bonario. Secondo l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, per “ammissibilità” deve intendersi «la iscrizione delle riserve secondo le modalità e nei termini prescritti dall’art. 165» del regolamento attuativo129. Centrale sotto questo aspetto è il controllo sulla tempestività dell’iscrizione della riserva, rispetto al quale giova ricordare due principi che emergono dall’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte di cassazione130: 1) «l’appaltatore, ove intenda contestare la contabilizzazione dei corrispettivi effettuata dall’amministrazione, ovvero avanzare pretese di maggiori compensi, indennizzi e risarcimenti, a qualsiasi titolo, è tenuto, … sotto la comminatoria della decadenza, ad iscrivere apposita riserva nel registro di contabilità, o in altri documenti esponendo, nel modo e nei termini indicati dalla legge, gli elementi atti ad individuare la sua pretesa nel titolo e nella somma, nonché a confermare la suddetta riserva all’atto della sottoscrizione del conto finale»; 2) l’onere di iscrivere la riserva «insorge quando emerga la concreta idoneità del fatto a produrre i suddetti pregiudizi o esborsi: e quindi anche con riferimento a quelle situazioni di non immediata portata onerosa, la potenzialità dannosa delle quali si presenti, peraltro, già dall’inizio obbiettivamente apprezzabile, secondo criteri di media diligenza e di buona fede dall’interessato, sicché possa ritenersi che questi disponga di dati sufficienti per segnalare alla parte committente il presumibile maggiore esborso che essa deve prepararsi ad affrontare, salvo poi a precisare l’entità di tale esborso nelle registrazioni successive o in sede di chiusura del conto finale». Quanto alla non manifesta infondatezza, si richiede invece «una sommaria valutazione dei presupposti di fatto e di diritto posti a fondamento delle riserve». Manifestamente infondata è in primo luogo, come già accennato, la pretesa di ricorrere all’accordo bonario anziché alla variante in corso d’opera, disciplinata ex art. 132 del Codice degli appalti. Ugualmente, nemmeno la variante in corso d’opera deve prendere il posto dell’accordo bonario: al riguardo l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici ha sottolineato l’illegittimità delle perizie di variante redatte al fine di recepire le richieste dell’impresa a seguito di definizione di accordo bonario sottoscritto dalle D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, oggi abrogato e sostituito dal D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, di cui v. l’art. 190. 130 Così Cass. civ., sez. VI, 13 settembre 2010, n. 19499, con ampi richiami alla propria giurisprudenza. 129 parti. In particolare, «non devono essere inserite nelle perizie di variante precedute dalla sottoscrizione di accordo bonario categorie di lavoro contemplanti specifiche lavorazioni e/o magisteri o sovrapprezzi in qualche modo riferiti alla quota parte di riserve e/o domande dell’impresa che risultano essere state respinte dalla stazione appaltante in sede di sottoscrizione dell’accordo bonario»131. Al di là di questi casi di uso improprio dello strumento dell’accordo bonario per finalità che non gli appartengono, il controllo sulla non manifesta infondatezza è estremamente importante per evitare che l’appaltatore possa disporre della facoltà di attivare la procedura anche in difetto del presupposto del raggiungimento della soglia del 10%, iscrivendo riserve del tutto pretestuose: se le pretese avanzate dall’appaltatore risultano prima facie del tutto prive di fondamento è doveroso da parte della stazione appaltante non dare corso alla procedura e definire le eventuali riserve non manifestamente infondate al termine dei lavori. Ciò porta a chiedersi a quale giudice possa ricorrere l’appaltatore quando il responsabile del procedimento non attivi d’ufficio la procedura di accordo bonario ritenendo inammissibili o manifestamente infondate le pretese espresse nelle riserve iscritte, oppure non risponda o risponda negativamente a un’istanza di accordo bonario proposta dell’appaltatore. Parte della dottrina ritiene che l’appaltatore, trovandosi in una situazione di interesse legittimo al rispetto da parte dell’amministrazione della disposizione che impone l’attivazione della procedura, dovrebbe impugnare il diniego di fronte al giudice amministrativo affinché ne dichiari l’illegittimità132. È certamente preferibile, tuttavia, anche in considerazione del fatto che il giudice amministrativo potrebbe solamente obbligare la pubblica amministrazione all’attivazione della procedura di accordo bonario, la tesi che afferma invece la possibilità di rivolgersi immediatamente all’autorità giudiziaria ordinaria o agli arbitri, equiparando la mancata attivazione della procedura con il fallimento del tentativo di accordo bonario133. Da quanto detto emerge come, pur se con le modifiche introdotte dalla l. n. 166/2002 la pubblica amministrazione è ormai “parte” più che “arbitro” nel procedimento di accordo bonario, il ruolo del responsabile del procedimento rimane tuttora centrale ed essenziale per garantire che l’istituto risponda effettivamente alle finalità che gli sono proprie. Occorre al riguardo ricordare che, in dottrina, si è da subito sottolineato come l’accordo bonario non sia finalizzato ad una mera Deliberazione 16 luglio 2002, n. 205. Cfr. R. DE NICTOLIS, Il nuovo contenzioso in materia di appalti pubblici, Milano, 2007, 30. 133 Cfr. P. CARBONE, op. cit., 481 s.; P. DE LISE, Commento all’art. 31 bis, l. Merloni, in Commento alla legge quadro sui lavori pubblici fino alla «Merloni ter», a cura di L. GIAMPAOLINO, M.A. SANDULLI, G. STANCANELLI, Milano, 1999, 529. In tema, seppur senza affrontare precisamente la questione qui segnalata, v. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2007, n. 5274, che configura il tentativo di accordo bonario ex art. 31 bis l. 109/1994 come un passaggio che deve precedere il ricorso al procedimento arbitrale, determinando «una causa di temporanea improcedibilità», ma a condizione che «sia rispettata la scansione temporale indicata dalla norma», e quindi a condizione che la pubblica amministrazione dia tempestivamente avvio al procedimento di accordo bonario; T.A.R. Reggio Calabria, 12 settembre 2008, n. 1211, che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo rispetto a un ricorso proposto per l’annullamento del silenzio rifiuto formatosi su un’istanza di avvio del procedimento di accordo bonario, poiché la posizione dell’impresa ricorrente deve qualificarsi come diritto soggettivo e non come interesse legittimo. 131 132 accelerazione dei tempi in materia di contenzioso, ma risponda anche all’esigenza di «una maggiore responsabilizzazione di tutti i soggetti che intervengono nell’iter per la realizzazione di un’opera o di un lavoro pubblico», richiedendo all’amministrazione “una presenza attiva nel contratto”, che consenta di tenere costantemente sotto controllo la spesa134. È a questa responsabilità attiva della pubblica amministrazione che occorre fare appello per evitare le distorsioni applicative dell’istituto che, purtroppo e come si è visto, risultano assai frequenti nella prassi; e ciò vale, è utile ricordarlo, non solo nella fase in cui insorgono le contestazioni espresse con le riserve, ma anche nelle fasi precedenti all’esecuzione del contratto, che possono essere determinanti per prevenire l’insorgere successivo di situazioni tali da rendere inevitabile il ricorso alla procedura di accordo bonario135. P. PISELLI, op. cit., 209 s. e 220. Cfr., a questo riguardo, la deliberazione n. 249 del 17 settembre 2003 dell’Autorità di vigilanza, che, al punto 8, afferma: «Tenuto conto che tra le cause principali che generano l’instaurarsi di controversie tra le Stazioni Appaltanti e i soggetti esecutori dei lavori, vi sono gli errori progettuali, conseguenti all’inadeguata valutazione dello stato di fatto, si richiama l’importanza dell’attività del Responsabile del Procedimento che, in sede di validazione del progetto esecutivo (art. 47 del DPR 554/99), in contraddittorio con le parti, verifica la conformità dello stesso alla normativa vigente e al documento preliminare della progettazione (redatto ai sensi dell'art. 15, comma 4 del DPR 554/99), accerta la completezza e l’esistenza di tutti gli elaborati (disegni, indagini, computi), nonché l’acquisizione di tutte le approvazioni ed autorizzazioni necessarie a consentire l’immediato inizio dei lavori (art. 47, comma 2 del DPR 554/99)». 134 135