Transazione e arbitrato nel diritto pubblico

RULES Research Unit Law and Economics Studies Paper No. 2014‐14 Title Transazione e arbitrato nel diritto pubblico By Lorenzo Cuocolo (ed.) Giulia Bellotto Michela De Santis Davide Paris INDICE
PARTE I
Il potere transattivo della pubblica amministrazione
di Giulia Bellotto
1. Un’introduzione definitoria. – 2. La transazione nelle norme dell’ordinamento. – 3.
I caratteri della transazione della p.a.. – 3.1. I pareri; 4.– Conclusioni; i vincoli di buon
andamento e imparzialità della p.a. ex art. 97 Cost.
PARTE II
L’arbitrato nel Codice dei contratti pubblici
di Michela De Santis
1. Introduzione. – 2. Arbitrabilità: l’art. 6 della L. 205/2000. – 3. Una storia infinita. –
4. La convenzione d’arbitrato. – 5. Il rapporto con l’arbitrato di diritto comune. – 6.
Arbitrato amministrato e arbitrato libero. – 7. Nomina degli arbitri e fase introduttiva
del procedimento. – 8. La sede. – 9. L’istruzione probatoria. – 10. Il segretario
arbitrale. – 11. Il lodo e le impugnazioni. — 12. I costi dell’arbitrato.
PARTE III
L’accordo bonario ex art. 240 Codice degli appalti: la transazione nelle forme
dell’arbitrato
di Davide Paris
1. La ratio dell’istituto e la sua attuale disciplina. – 2. I principali nodi interpretativi, le
distorsioni dell’istituto nella prassi e i possibili rimedi.
PARTE I
Il potere transattivo della pubblica amministrazione
di Giulia Bellotto
SOMMARIO: 1. Un’introduzione definitoria. – 2. La transazione nelle norme
dell’ordinamento. – 3. I caratteri della transazione della p.a. – 3.1. I pareri. – 4.
Conclusioni; i vincoli di buon andamento e imparzialità della p.a. ex art. 97
Cost.
1. Un’introduzione definitoria
Il concetto di transazione anche quando ci si muove sul territorio delle p.a. non
prescinde dalla definizione (e dalla ratio) che dà il Codice civile. L’art. 1965 c.c. che
apre il Capo XXV dedicato alla transazione, la descrive come «il contratto col quale le
parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o
prevengono una lite che può sorgere tra loro».
Queste poche righe già individuano per sommi capi i caratteri salienti della
transazione (amplius infra), ovvero la convergenza delle volontà delle parti (privato e
p.a.), il conflitto delle rispettive posizioni e pretese e, infine, la volontà di trovare una
soluzione condivisa mediante mutue concessioni. Caratteri questi tutti rinvenibili
nella definizione civilistica che dottrina e giurisprudenza amministrativa e contabile1
hanno rielaborato adattondoli alle peculiarità pubblicistiche.
Alla transazione di diritto pubblico sono estesi i caratteri generali della transazione
sopra citata, con una regola indiscussa: al sacrificio di uno dei desiderata della p.a.
corrisponde sempre un sacrificio anche da parte del privato, sua “controparte” in
senso atecnico.
Mai viceversa.
Onde, tale regola «può nascondere [sì] una – parziale ma pur sempre contraria al
pubblico interesse – “resa” della Amministrazione, laddove vi sia una rilevante
differenza tra l’aliquid datum e l’aliquid retentum»2, ma mai la resa della sola p.a. a
vantaggio esclusivo del privato. Diversamente, infatti, ne sarebbero lesi due
fondamentali principi (e vincoli) dell’agire amministrativo: il buon andamento e
l’imparzialità ex art. 97 Cost. e 1 l. 241/1990. Buon andamento poiché con la
propria“resa” parziale, la p.a. rifugge dal primario interesse pubblico che deve sempre
Sono infatti della Corte dei conti le parole per cui “di norma anche gli enti pubblici possono transigere le
controversie delle quali siano parte ex art 1965 c.c.” (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della
Lombardia, parere 1116/2009).
2 L. PENASA, L’arbitrato irrituale nelle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa, in Dir. Proc. Amm.,
4, 2010, 1270 e ss..
1
perseguire; imparzialità perché cedendo alle pretese di un privato e potenzialmente
non a quelle di un altro, pone in essere un’illegittima discriminazione.
Ciò premesso (come verrà specificato in appresso) «La dottrina e giurisprudenza
meno recente ritenevano che potessero essere oggetto di transazione esclusivamente
le obbligazioni nate nell’ambito dell’attività di diritto privato della P.A. Tuttavia, un
ripensamento dottrinale e giurisprudenziale sulla natura delle obbligazioni pubbliche
ha posto il problema in termini diversi, notando che l’ordinamento positivo può
prevedere sia regimi giuridici differenziati per le obbligazioni pubbliche rispetto a
quelle di diritto privato sia un regime giuridico unitario e che quest’ultimo è quello
vigente nel nostro ordinamento. Pertanto, quale che sia la fonte dell’obbligazione, e
quindi anche se essa nasce da legge o da provvedimento amministrativo, non mutano
le regole giuridiche che ad esse presiedono. Ne consegue che possono essere oggetto
di transazione anche le obbligazioni pubbliche, purché naturalmente siano già venute
ad esistenza con la emanazione del provvedimento amministrativo o dell’atto
dichiarativo in ipotesi di obbligazioni ex leges»3.
E infatti, come ricorda la Corte dei conti4, solo a partire dal 1936, dottrina
(Guicciardi5) ha ritenuto possibile una transazione in ordine ai «rapporti di diritto
pubblico», nei casi in cui si prevedeva un sacrificio (in particolare l’esborso di una
somma di denaro) della p.a. a fronte della rinuncia all’impugnazione di un atto
amministrativo da parte di un privato. La transazione era tuttavia concepita non
come un contratto ma, in generale, come un atto amministrativo unilaterale, che
richiedeva l’accettazione (non la mera conoscenza) del cittadino quale condizione di
efficacia.
L’elaborazione dottrinale successiva6 ha riconosciuto che nei casi di accordo – non più
volontà amministrativa unilaterale - tra p.a. e privato, si ravvisa un vero e proprio
contratto di transazione ex artt. 1965 e ss. c.c.
Da qui la teorizzazione di un’attività amministrativa spesso già prassi.
2. La transazione nelle norme dell’ordinamento
L’ammissibilità delle transazioni della p.a. nel nostro ordinamento si rinviene in una
molteplicità di disposizioni che più che ammetterla in generale, ne regolamentano e
procedimentalizzano l’esecuzione, in senso sostanziale, o ne individuano i soggetti
competenti. Esempio del primo tipo di disposizione è l’art. 14 r.d. 18 novembre
1923, n. 2440 contenente le «disposizioni sull'amministrazione del patrimonio e sulla
contabilità generale dello Stato»; esso prevede infatti che «Deve essere sentito il
parere del Consiglio di Stato prima di approvare gli atti di transazione diretti a
prevenire od a troncare contestazioni giudiziarie qualunque sia l'oggetto della
controversia, quando ciò che l'amministrazione dà o abbandona sia determinato o
3 Parere Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n.
26/pareri/2008.
4 Ma altresì Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2011, n, 4083.
5 E. GUICCIARDI, La transazione degli enti pubblici, in Arch. Dir. Pubbl., 1936, 207 e ss.
6 Ex multis, V. MIELE, La transazione nei rapporti amministrativi, in Scritti giuridici, Milano, 1987, II.
determinabile in somma eccedente le lire 20.000.000 [rectius € 10.329,13]» e «Deve
essere sentito il Consiglio di Stato anche per le transazioni di minore importo,
quando l'amministrazione non si uniformi per esse all'avviso espresso dall'avvocatura
erariale», che tra le sue funzioni annovera quella di predisporre «transazioni d'accordo
con le Amministrazioni interessate o esprime[re] parere sugli atti di transazione
redatti dalle Amministrazioni» (art. 13 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611).
Sono invece esempi del secondo tipo l’art. 16 d.lgs. 165/2001 che attribuisce ai
dirigenti di uffici dirigenziali generali il compito e il potere di promuovere e resistere
alle liti, nonché «di conciliare e di transigere» (comma 1, lett. f)), e l’art. 7 d.p.r.
748/1972 per cui «ai dirigenti generali preposti alle direzioni generali e agli uffici
centrali equiparati spetta in particolare, nell'ambito della competenza dei predetti
uffici, di … f) concludere ed approvare le transazioni relative a lavori e forniture e
servizi da essi gestiti, quando ciò che si chiede di promettere, di abbandonare o di
pagare non superi 120 milioni di lire concorrendo a formare tale somma le
transazioni che fossero precedentemente intervenute sullo stesso oggetto o per
l'esecuzione dello stesso contratto» e art. 9 dello stesso d.p.r. per cui «Ai funzionari
con qualifica di primo dirigente preposti alle divisioni ed agli uffici centrali equiparati
spetta in particolare nell'ambito della competenza del proprio ufficio, di … c)
concludere ed approvare le transazioni relative a lavori e forniture e servizi da essi
gestite, quando ciò che si chiede di promettere, di abbandonare o di pagare non
superi 30 milioni di lire, concorrendo a formare tale somma le transazioni che fossero
precedentemente intervenute sullo stesso oggetto o per l'esecuzione dello stesso
contratto».
Ferme queste disposizioni, copertura generalizzata all’esercizio del potere transattivo
della p.a. si rinviene nella legge fondamentale di questa (l. 241/1990); infatti, ai sensi
del suo art. 11 , comma 1, «l'amministrazione procedente può concludere, senza
pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico
interesse [vale a dire, nel pieno rispetto dei principi ex art. 97 Cost. sopra ricordati –
n.d.r.], accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del
provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo». In aderenza all’art. 97 Cost.,
il successivo comma 4 bis prevede infatti che «A garanzia dell'imparzialità e del buon
andamento dell'azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica
amministrazione conclude accordi nelle ipotesi previste al comma l, la stipulazione
dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che sarebbe competente
per l'adozione del provvedimento».
E infatti se le transazioni presentano i caratteri ex art. 1965 c.c. sopra sintetizzati, al
contempo bilanciati da dette garanzie costituzionali, non c’è ragione per cui
l’ordinamento non vi esprima il proprio favor. Onde «Al fine di favorire la
conclusione degli accordi di cui al comma 1, il responsabile del procedimento può
predisporre un calendario di incontri cui invita, separatamente o contestualmente, il
destinatario del provvedimento ed eventuali contro interessati» (art. 11 cit., comma 1
bis, introdotto con d.l. 163/1995).
3. I caratteri della transazione della p.a.
I caratteri della transazione della p.a. non divergono da quelli del generale istituto
civilistico ex art. 1965 c.c., ovvero la convergenza delle volontà delle parti, il conflitto
delle rispettive posizioni e pretese e, infine, la volontà di trovare una soluzione
condivisa mediante mutue concessioni.
Tuttavia la giurisprudenza di fronte ai singoli casi che di volta in volta è stata
chiamata ad esaminare ha più compiutamente definito detti caratteri alla luce delle
peculiarità proprie del diritto amministrativo.
Anzitutto, quanto al concetto di conflitto tra parti, «ai fini dell’ammissibilità della
transazione è necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non di un
semplice conflitto economico) che sussiste o può sorgere quando si contrappongono
pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente
fondata»7. Vale a dire «affinché una transazione sia validamente conclusa è
necessario” che ab origine “essa abbia ad oggetto una res dubia e cioè che cada su un
rapporto giuridico avente, almeno nella opinione delle parti, carattere di incertezza»8.
Infatti, «premessa necessaria per addivenire alla transazione è l’esistenza di un
controversia giuridica (mentre non è sufficiente l’esistenza di un semplice conflitto
economico, tratto comune di qualsiasi contratto oneroso) e cioè l’affermazione di un
diritto, che si esterna nella pretesa e la contestazione della sussistenza e della misura
del diritto (art. 1965 cod. civ.). In altri termini, è necessaria la prospettazione
esternata di configgenti posizioni giuridiche in ordine alla situazione in
contestazione.»9.
Ciò fermo, è naturale conseguenza che «nell’intento di far cessare la situazione di
dubbio venutasi a creare tra loro, i contraenti si facciano delle concessioni reciproche;
oggetto della transazione, peraltro, non è il rapporto o la situazione giuridica cui si
riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite cui questa ha dato luogo o può
dar luogo, e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche
concessioni»10. Proprio in dette “reciproche concessioni” sta il proprium – e altresì le
problematiche – dell’istituto della transazione, sia pubblica sia civilistica in senso
stretto. Le problematiche sono presto dette e sono quelle sopra ricordate: rispetto del
vincolo del perseguimento dell’interesse pubblico e par condicio. Per ciò,
«L’ordinamento si è cautelato innanzi a questa possibilità non già sbarrando il passo a
questo negozio, ma prescrivendo dei pareri … volti a controllare l’adeguatezza del
suo contenuto» (amplius infra)11
Inoltre, altro carattere della transazione pubblica ribadito più volte in via
giurisprudenziale è che questa «è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art
1965, co 2 cc) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti
hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’ nulla, infatti, la
Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009.
Ibidem.
9 Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n. 26/pareri/2008.
10 Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009.
11 L. PENASA, cit.
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transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite sono sottratti alla
disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge» 12, tant’è
che nel caso sottopostole (transazioni su obbligazioni nascenti dall’irrogazione di
sanzioni amministrative), la Corte dei conti ebbe cura di precisare che «il potere
punitivo dell’amministrazione e le misure afflittive che ne sono l’espressione
appartengono al novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è
escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria
degli interventi sanzionatori»13.
Quanto invece ai caratteri differenziali rispetto alla transazione ex artt. 1965 e ss. c.c.,
va rilevato anzitutto che il comma 4 dell’art. 11 l. 241/1990 prevede che «Per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse l'amministrazione recede unilateralmente
dall'accordo, salvo l'obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in
relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato».
È pertanto evidente che nella transazione di diritto pubblico non si applica
integralmente la disciplina civilistica sulla transazione, non trovando attuazione la
regola cardine dell’art. 1969 c.c. 14 che esclude l’annullabilità per errore di diritto. Un
tale errore infatti «rende illegittima la formazione della volontà dell’Amministrazione
che, essendo assoggettata al consueto regime amministrativo, non può non essere
suscettibile di annullamento»15. Trattasi dell’esercizio di un potere amministrativo
come tale funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico.
Infine, sempre con riferimento alle divergenze della transazione della p.a. rispetto la
disciplina civilistica, la giurisprudenza, questa volta amministrativa, premessa «la
peculiarità di una transazione posta in essere dalla P.A., se non altro per il possibile
rischio di un immediato esborso di denaro pubblico», ha trovato in detta peculiarità il
modo di «giustificare talune deviazioni dal paradigma tipico del codice civile»16. In
specie, «fa riferimento … alla necessità che la transazione assum[a] la forma scritta ad
substantiam (Cass. I, 6.6.2002, n. 8192) quando, invece, ai sensi dell’art. 1967 c.c., la
forma scritta è imposta solamente ad probationem»17.
A latere di detta precisazione, formale, il Consiglio di Stato ha altresì espresso la
«necessità che la transazione sia preceduta da una congrua motivazione, nella quale
siano esaminati e valutati i rischi connaturati a simile fattispecie, legati ad esempio alla
Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009.
Pertanto nell’esercizio dei poteri autoritativi con riferimento all’obbligazione tributaria, la Corte dei
conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 1116/2009, concluse che «non possa
invocarsi la transazione per definire una controversia giudiziale in cui si contrapponga la legittima
pretesa di un’amministrazione pubblica di esigere il pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie
irrogate e l’atteggiamento resistente del privato che ha violato norme specifiche (nel caso una legge
regionale). Potrebbe semmai ipotizzarsi una proposta di accordo che investa modalità e tempi di
pagamento del debito con esclusivo contenuto dilatorio, ma è senz’altro da escludere l’ammissibilità di
pattuizioni, in corso di giudizio, che comportino una decurtazione del quantum dovuto e, quindi, una
riduzione dell’entità delle sanzioni inflitte con l’ulteriore possibilità di coniugare il profilo dilatorio con
quello remissorio.».
14 «La transazione non può essere annullata per errore di diritto relativo alle questioni che sono state
oggetto di controversia tra le parti».
15 G. GRECO, Contratti e accordi della Pubblica Amministrazione con funzione transattiva, in Dir. Amm., 2005,
223 e ss.
16 Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2011, n. 4083.
17 Ibidem.
12
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prevedibile durata ed al prevedibile (o imprevedibile) esito di un contenzioso già
pendente»18. L’onere di motivazione qui ricordato è naturale precipitato degli obblighi
di cui all’art. 97 Cost. che nella motivazione hanno riscontro.
Tuttavia, non nell’onere di motivazione si circoscrivono i doveri dei funzionari della
p.a. che in prima persona attivano, conducono e (talvolta) concludono una
transazione. Infatti il principio d’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali ex
art. 1 comma 1 l. 20/1994, «non preclude l’esame dell’attività illegittima che abbia
prodotto un danno erariale in violazione dei principi di economicità, efficacia ed
efficienza dell’azione amministrativa (Corte conti, sezione Campania, n. 104/2011)»19.
Principi, peraltro, che oltre a essere insiti in quello costituzionale di buon andamento
ex art. 97 Cost., oggi acquistano maggiore importanza stante la crisi finanziaria e le
esigenze di spending review dello Stato (ma anche delle Regioni e degli enti locali).
Il che è forse più chiaro nelle parole della giurisprudenza contabile meneghina20, per
cui se è vero che «La scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione
e la concreta delimitazione dell’oggetto della stessa spetta all’Amministrazione
nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le
scelte discrezionali è sottratta al sindacato giurisdizionale, anche di responsabilità (art.
1, co. 1, l. 14 gennaio 1994, n. 20)», tuttavia «il vaglio delle scelte di merito degli
amministratori [non] è consentito, [se non] limitatamente alla rispondenza delle stesse
a criteri di razionalità e congruità rilevabili dalla comune esperienza amministrativa al
fine di stabilire se la scelta risponda ai criteri di prudente apprezzamento ai quali deve
ispirarsi sempre l’azione amministrativa». Infatti «Uno degli elementi che l’ente deve
considerare è la convenienza economica della transazione in relazione all’incertezza
del giudizio. Ovviamente non si tratta di incertezza assoluta, ma relativa che deve
essere valutata in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione
normativa ed alla presenza di eventuali orientamenti giurisprudenziali»21.
A margine, va altresì ricordato che «una transazione operata dall’amministrazione
non inibisce al giudice contabile di pronunciarsi sul risarcimento, salva la possibilità
di tener conto in sede esecutiva di quanto versato per rifondere il danno»22.
Ibidem.
Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della Campania, 29 febbraio 2012, n. 250.
20 Parere Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n.
26/pareri/2008.
21 A superare l’incertezza dell’amministrazione quanto alla convenienza economica di una transazione
sovviene il corpus di pareri sopra ricordato (artt. 14 r.d. 2440/1923 e 13 r.d. 1611/1933). Pareri che
l’ordinamento imputa a soggetti istituzionali, ovvero Consiglio di Stato e Avvocatura di Stato. Ciò
invece non è previsto per gli enti territoriali, i quali possono comunque chiedere un parere anche a un
avvocato del libero foro o all’Avvocatura comunale. Tuttavia, non va dimenticato che il sindacato del
giudice contabile si estende anche «nei confronti dell’avvocato che, svolgendo un’attività non prevista
dal mandato ricevuto, abbia - con la stipula di una transazione nell’interesse dell’amministrazione esercitato poteri e funzioni assimilabili a quelli di cui sono titolari i soggetti incardinati nella p.a.”
stante che “La sottoposizione di un soggetto privato alla giurisdizione della corte dei conti si
determina ogni qualvolta fra il soggetto e l’ente pubblico si stabilisce un rapporto di servizio, cioè una
relazione funzionale generata da un atto autoritativo o convenzionale o addirittura di fatto, tale da
configurare l’azione del privato come svolta nell’adempimento di compiti affidati o pattuiti (o
volontariamente assunti) per il raggiungimento di una finalità pubblica» (Corte dei conti, Sez.
giurisdizionale della Campania, 29 febbraio 2012, n. 250).
22 Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’appello, 17 luglio 2007, n. 204/A.
18
19
3.1. I pareri
Breve chiosa merita l’attività consultiva svolta dal Consiglio di Stato e
dall’Avvocatura di Stato in materia di transazione pubblica. Si è detto che la
transazione, in ragione del fatto che in essa le parti si fanno mutue concessioni, «può
nascondere una – parziale ma pur sempre contraria al pubblico interesse – “resa”
della Amministrazione»23. Perciò, «L’ordinamento si è cautelato innanzi a questa
possibilità non già sbarrando il passo a questo negozio, ma prescrivendo dei pareri …
volti a controllare l’adeguatezza del suo contenuto»24.
Il parere del Consiglio di Stato è deputato al controllo della «legalità delle scelte
dell’amministrazione, avendo le medesime finalità di garanzia sia in sede consultiva
che giurisdizionale a tutela imparziale e oggettiva dell’ordinamento giuridico». Invece
quello dell’Avvocatura di Stato, in quanto «proprio dell’organo di assistenza e
consulenza tecnico-legale» mira a dare «consigli all’amministrazione, in ordine alle
transazioni, ma anche alle introduzioni o all’abbandono di liti giudiziarie e si tratta di
attività svolta nell’interesse dell’apparato amministrativo» 25.
Va inoltre «ricordato che per le amministrazioni centrali è prescritto un iter
procedimentale articolato, con parere obbligatorio ma non vincolante
dell’Avvocatura dello Stato e del Consiglio di Stato»26 ex artt. 14 r.d. 2440/1923 e 13
r.d. 1611/1933. Invece «Per gli enti territoriali non è previsto alcun particolare iter
procedimentale e, salvo una diversa disciplina contenuta nei regolamenti di
autonomia, l’organo dell’ente al quale è attribuito la competenza a stipulare il
contratto ne è anche legittimato. Naturalmente l’ente può ricorrere in relazione alla
questione da risolvere a parere facoltativi e, ove l’ente sia dotato di una propria
Avvocatura sarebbe opportuno che la stessa fosse investita della questione in
analogia e negli stessi termini previsti dal citato art. 14 della legge di Contabilità di
Stato»27.
Infatti quanto alle transazioni poste in essere dagli enti territoriale è censurabile
perché «improntato a superficialità e negligenza, il comportamento di alcuni
amministratori di un ente pubblico che hanno stipulato una transazione sulla base di
un parere, generico ed apodittico, mentre sarebbe stata necessaria un’approfondita
analisi, all’uopo chiedendo il parere di un organo a ciò deputato dall’ordinamento
quale l’avvocatura generale dello stato»28.
4. Conclusioni; i vincoli di buon andamento e imparzialità della p.a. ex art. 97
Cost.
L. PENASA, cit.
Ibidem.
25 Consiglio di Stato, Sez. I, 21 dicembre 2011, n. 5248.
26 Parere Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n.
26/pareri/2008.
27 Ibidem.
28 Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, 13 dicembre 2005, n. 2921.
23
24
Quanto sopra, specie alla luce delle parole della giurisprudenza amministrativa e
contabile, può essere risolto in un unico comune denominatore: buon andamento
della p.a. I caratteri e le regole di fondo della transazione della p.a. vi sono tutte
riconducibili, per cui essa anche nell’esercizio “anomalo” del proprio potere deve
avere come meta il buon andamento. Infatti l’attività della p.a. è comunque sempre
«finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura
dell’interesse intestato all’ente. In questi termini l’attività dell’ente pubblico è
finalizzata al criterio di corretta azione amministrativa». Pertanto transazioni e
«negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l’esercizio del
potere dell’Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell’interesse
concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni
soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell’azione amministrativa. …
In altre parole, l’assetto di interessi raggiunto con l’accordo dovrà comunque
soddisfare l’interesse pubblico oltre ad essere quello di maggior convenienza per il
privato.»29.
Qualora nel corso di una transazione i principi ex art. 97 Cost. fossero persi di vista,
si assisterebbe alla lesione non solo di profili sostanziali del diritto, ma anche delle
garanzie processuali. E ciò perché dette garanzie trovano copertura costituzionale nel
combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost. in termini di garanzia di controllo
giurisdizionale pieno30
Lampante quindi l’importanza di tutto ciò, espresso dalla giurisprudenza e a cui
questa, nei casi dubbi, deve ritornare.
Parere Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia, deliberazione n.
26/pareri/2008.
30 Cfr. Corte cost. 409/1988.
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PARTE II
L’arbitrato nel Codice dei contratti pubblici
di Michela De Santis
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Arbitrabilità: l’art. 6 della L. 205/2000. – 3.
Una storia infinita. – 4. La convenzione d’arbitrato. – 5. Il rapporto con
l’arbitrato di diritto comune. – 6. Arbitrato amministrato e arbitrato libero. – 7.
Nomina degli arbitri e fase introduttiva del procedimento. – 8. La sede. – 9.
L’istruzione probatoria. – 10. Il segretario arbitrale. – 11. Il lodo e le
impugnazioni. – 12. I costi dell’arbitrato.
1.
Introduzione.
Il Codice dei contratti pubblici relativi ai lavori, servizi e fornitore (adottato con d.lgs.
12 aprile 2006, n. 163, d’ora in poi Codice dei contratti pubblici o c.c.p.), tra i modi
extragiudiziali di risoluzione delle controversie, dopo la transazione e l’accordo
bonario, ammette anche (e ancora) il ricorso all’arbitrato. Infatti, nonostante una serie
di tentativi del legislatore di rimuovere tale metodo di risoluzione delle controversie
in subiecta materia per i troppi limiti che aveva via via mostrato nel corso degli anni 31,
ma anche per una generale diffidenza – tutta italiana – verso l’arbitrato, quest’ultimo
è ancora presente nel Codice dei contratti pubblici tra i metodi alternativi di
risoluzione delle controversie 32.
Il più recente tentativo di soppressione dell’arbitrato in materia di opere pubbliche è quello della
Legge Finanziaria del 2008 (L. del 24 dicembre 2007, n. 244) con cui il legislatore aveva vietato tout
court l’ arbitrato in considerazione dei «pesanti rilievi» che nella relazione annuale 2006 erano stati
mossi all’arbitrato da parte dell’ Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture. L’art. 3, comma 19, infatti stabiliva che «è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui
all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, di inserire clausole compromissorie in tutti i loro
contratti aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi ovvero, relativamente ai medesimo contratti, di
sottoscrivere compromessi. Le clausole compromissorie ovvero i compromessi comunque sottoscritti
sono nulli e la loro sottoscrizione costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale per
i responsabili dei relativi procedimenti». Per commenti al divieto di arbitrato introdotto dalla Legge
Finanziaria 2008, v. B. CAPPONI, La legge finanziaria per il 2008 e il divieto di arbitrato, in Rass. forense, 2008,
p. 73 ss.; P. PISELLI, La soppressione dell’ arbitrato e la modifica dell’ accordo bonario: problemi interpretativi, in
Riv. trim. app., 2008, p. 340 ss. Tuttavia, le numerose critiche rivolte, comprensibilmente, alla
disposizione suggerirono al legislatore di differirne il termine di efficacia. Dopo una serie di reiterati
differimenti, ma soprattutto dopo il richiamo dell’Europa (Direttiva 2007/66/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, che invitava a «dettare disposizioni razionalizzarci dell’ arbitrato» nell’ottica di
migliorare l’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione di appalti), il legislatore
italiano è tornato sui suoi passi e, se la soppressione definitiva dell’ arbitrato era stata da ultimo fissata
per il 30 aprile 2010, il 27 aprile 2010 è entrato in vigore il D.lgs. del 20 marzo 2010, n. 53 che ha
ripristinato l’arbitrato abrogando gli artt. 19, 20 e 21, quindi facendo rivivere l’art. 241 c.p.c.
32 In generale, sull’arbitrato nel diritto amministrativo dagli albori ad oggi, si vedano E. CAPACCIOLI,
L’arbitrato nel diritto amministrativo, I, Le fonti, Padova, 1957; A. CIANFLONE, L’appalto di opere pubbliche,
8ed., Milano, 1988; G. CAIA, Arbitrati e modelli di arbitrati nel diritto amministrativo, I presupposti e le tendenze,
31
Il presente contributo analizza lo strumento arbitrale, quindi gli artt. 241, 242 e 243
del Codice dei contratti pubblici, iniziando dal tema dell’arbitrabilità — dopo
l’entrata in vigore della L. 205/2000 — e ripercorrendo le tappe principali del
procedimento, dalla costituzione del tribunale arbitrale sino all’emanazione del lodo e
alla sua eventuale impugnazione, evidenziandone le differenze rispetto all’arbitrato di
diritto comune e non senza cenni all’ultima modifica intervenuta con “Legge
Anticorruzione” (L. 6 novembre 2012, n. 190) della quale si cercheranno di
comprendere la portata e le conseguenze applicative.
Occorre però, ancor prima, interrogarsi sulla natura dell’arbitrato e ciò anche
ripercorrendo brevemente quella che ben può essere definita la “storia infinita”
dell’arbitrato in materia di contratti pubblici.
2.
Arbitrabilità: l’art. 6 della L. 205/2000.
Se prima della summenzionata legge, molti dubbi circondavano il tema
dell’arbitrabilità, i.e. ammissibilità dell’arbitrato, delle materie devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo 33, l’intervento del legislatore è stato
sotto questo aspetto risolutivo.
L’art. 6 della L. del 21 luglio 2000, n. 205 afferma, senza possibilità di
fraintendimenti, che «le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato
rituale di diritto». Viene precisato che deve trattarsi di un arbitrato «rituale», e così di
natura giurisdizionale, e «di diritto», quindi è esclusa ogni possibilità di un arbitrato di
equità 34.
Del resto, alla medesima conclusione si poteva giungere a partire da una lettura non
reticente dell’art. 806 c.p.c., ovverosia dalla lettura di quell’articolo del codice di rito
che fissa il (l’unico) limite posto dall’ordinamento italiano all’arbitrabilità delle
controversie, e cioè la «disponibilità» dei diritti oggetto della lite. Infatti, sebbene
molto spesso si abbia la percezione che non sia così, non vi sono altre limitazioni. E
dal momento che non può essere considerato indisponibile l’interesse pubblico a
Milano, 1989; E. PICOZZA, I lavori pubblici, in G. SANTANIELLO (diretto da), Trattato di diritto
amministrativo, vol. X, Padova, 190, p. 469 ss; G. RECCHIA, Arbitrati di diritto comune ed amministrazioni
pubbliche, in Dir. proc. amm., 1998, p. 7 ss.; E. FAZZALARI, Una vicenda singolare: l’arbitrato in materia di opere
pubbliche, in Riv. arb., 1998, p. 813 ss.; C. PUNZI, L’arbitrato per la risoluzione delle controversie negli appalti di
opere pubbliche, in AA. VV., L’appalto tra pubblico e privato, Milano, 2001, p. 87 ss. Sulle vicende più recenti,
per tutti: C. PUNZI, Vicende recenti e meno recenti in tema di arbitrato delle controversie negli appalti di opere
pubbliche, in Riv. dir. proc. civ., 2010, p. 753 ss.; E. ODORISIO, Arbitrato rituale e lavori pubblici, Milano,
2011.
33 Si veda, oltre alla dottrina della nota precedente, sullo specifico tema dell’arbitrabilità delle materie
devolute alla giurisdizione esclusiva: S. CASSESE, L’arbitrato nel diritto amministrativo, in Riv. trim. dir.
pubbl., 1996, p. 324 ss.; C. SELVAGGI, L’arbitrato nelle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa, in
Riv. arb., 1992, p. 447 ss.; V. DOMENICHELLI, Le prospettive dell’arbitrato nei rapporti amministrativi (tra
marginalità, obbligatorietà e consensualità), in Dir. proc. amm., 1998, p. 241 ss. Sia consentito di richiamare,
sia pure risalente , E. FAZZALARI, L’ arbitrato nell’ attività della regione, in Riv. dir. proc. , 1974, p. 369 ss.
34 Così, C. CONSOLO, La giurisdizione del giudice amministrativo si giustappone a quella del giudice «ordinario» e ne
imita il processo, in Giust. civ., 2000, p. 533 ss., p. 536.
risolvere una controversia vertente su diritti soggettivi in via alternativa a quella
ordinaria (statale), non si può che concludere nel senso che «le controversie
concernenti diritti soggettivi [disponibili] devoluti alla giurisdizione del giudice
amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato» 35.
La legge del 2000 ha risolto definitivamente i dubbi, anche dei più reticenti. Qualche
problema potrebbe eventualmente ancora porsi con riguardo all’impugnazione (e
all’exequatur) del lodo e al rispetto delle regole sul riparto di giurisdizione. Si tratta
tuttavia di un problema «di mera tecnica processuale (quindi indifferente ai rapporti
fra diritto sostanziale e processo»)36.
Infatti, applicando le regole sul riparto di giurisdizione, oltre che la logica, il giudice
dell’impugnazione del lodo arbitrabile — assimilabile a tutti gli effetti a una sentenza
di primo grado — dovrebbe essere il Consiglio di Stato 37. Tuttavia, la lettera della
legge 38, ma anche la dottrina maggioritaria 39, vanno nel senso di ritenere competente
a ricevere l’impugnazione del lodo la Corte d’appello, quantomeno con riferimento
alla fase “necessaria” dell’impugnazione del lodo, cioè a quella rescindente, non
essendovi dubbi che «l’annullamento del lodo attiene a profili del tutto estrinseci alla
giurisdizione amministrativa» (40).
Si veda, F. P. LUISO, Arbitrato ex art. 6 L. 205/2000 e giurisdizione, su judicium.it.
Così, F. P. LUISO, Arbitrato ex art. 6, cit, § 6. V. infra nota 10.
37 Così P. DE LISE, Verso L’arbitrato nel diritto amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, pp. 11961197, lo stesso argomento veniva utilizzato dall’Autore, prima della L. 205/2000, per sostenere
l’inammissibilità dell’arbitrato nelle materie di giurisdizione esclusiva, quindi affermare che confluendo
l’arbitrato «nell’alveo della giurisdizione ordinaria, attraverso i mezzi di impugnazione del lodo.
Ammettere un tale giudizio, infatti, significherebbe alterare il riparto tra le giurisdizioni e negare la
stessa ragione dell’esistenza del giudice amministrativo», mentre oggi (ID., in V. CERULLI IRELLI (a
cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2000, p. 192) per lo stesso Autore afferma «sembra
doversi ammettere che l’impugnativa del lodo, nelle materie in questione, debba essere proposta
dinanzi al Consiglio di Stato», al fine di non «modificare, con l’impugnazione del lodo, le regole sul
riparto di giurisdizione». In giurisprudenza, nello stesso senso, Cons. di Stato, sez. V, 19 giugno 2003,
n. 3655.
38 D. lgs. 163/2006 e d.lgs. 53/2010, V. art. 241, comma 15-bis, c.c.p.
39 A ROMANO TASSONE, in B. SASSANI, R. VILLATA (a cura di), Il processo davanti al giudice amministrativo,
Torino, 2001, p. 400 ss.; F. CARINGELLA, in R. GAROFOLI, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000, n. 205, Milano 2000, p. 699; G. VERDE, Ancora su arbitri e
Pubblica Amministrazione (in occasione della L. 21 luglio 2000 n. 205, art. 6), in Riv. arb., 2000, p. 389 ss.; C.
CONSOLO, La giurisdizione del giudice amministrativo, cit., p. 537; ID., Il processo civile fra snellezza e
civilizzazione, in Corr. giur., 2000, p. 1267.
40 F. P. LUISO, Arbitrato ex art. 6, cit., § 5, il quale scrive anche che «è perfettamente indifferente, da
questo punto di vista, che la decisione sull’impugnazione del lodo sia affidata al giudice ordinario o a
quello amministrativo. Non vi è dubbio, infatti, che la tutela ottenibile nell’una o nell’altra sede è la
stessa: ciò è tanto più vero oggi, dopo che la L. 205/2000 ha fornito il giudice amministrativo di tutti
gli strumenti idonei a gestire controversie in materia di diritti soggettivi. Quand’anche si dovessero
attribuire al giudice amministrativo le funzioni, che secondo il c.p.c. il giudice ordinario svolge in
correlazione con l’arbitrato, si tratterebbe solo di adattare le norme del codice di rito al diverso organo
giurisdizionale: senza che, peraltro, ciò comporti difficoltà di rilievo. Una qualunque scelta del
legislatore sarebbe quindi perfettamente neutra: un po’come stabilire se è il semaforo verde che dà via
libera e quello rosso che obbliga a fermarsi, o viceversa» e conclude, molto chiaramente, «[c]osì stando
le cose, mi sembra che il problema divenga solo quello di stabilire se, nel silenzio serbato dal
legislatore, prevalgano le norme del c.p.c. che, in relazione all’arbitrato - a qualunque arbitrato –
affidano una serie di interventi al giudice ordinario, oppure se prevalga l’attrazione – ratione materiae –
dipendente dalla istituzione di una giurisdizione esclusiva»; così anche, F. CARINGELLA, op. cit., p.
697.
35
36
Più delicata – sempre tenuto conto che si tratta di un problema «di mera tecnica
processuale» per cui «ogni soluzione può andar bene» 41 – è la questione che attiene la
fase rescissoria che si apre nell’ipotesi in cui il lodo venga annullato: è la Corte
d’appello competente anche per questa seconda eventuale fase? Il dato normativo,
quindi la scelta del legislatore (che ha individuato nella Corte d’appello il giudice
dell’impugnazione del lodo) e la mancanza di argomenti che dimostrino
l’incompatibilità di tale previsione normativa col sistema, nonché la considerazione
che «l’arbitrato … è esterno alla giurisdizione in tutte le sue articolazioni, e la corte di
appello è, allo stato, il giudice “naturale” dell’impugnazione del lodo», suggeriscono
una risposta affermativa 42. Così, come saggiamente affermato, col richiamo ad
illustre dottrina in materia di arbitrato (Giovanni Verde) «il passaggio della
controversia – mediante l’impugnazione del lodo – dalla giurisdizione esclusiva a
quella ordinaria non [ha] niente di scandaloso, essendo ostacolato solo dal
preconcetto che non siano consentiti patti sulla giurisdizione» 43.
3.
Una storia infinita.
L’arbitrato in materia di contratti pubblici è un istituto che è stato ripetutamente
oggetto di modifiche legislative che hanno dato vita a quella che può essere
denominata la “storia infinita dell’arbitrato nei contratti pubblici”.
Si è passati da un estremo all’altro: da situazioni di grande favore in cui l’arbitrato era
addirittura divenuto obbligatorio, a situazioni di totale disfavore in cui se ne è
paventata soppressione.
Come anticipato nell’introduzione, al di là dello “speciale” settore dei contratti in
materia di contratti pubblici, in generale il legislatore italiano vede con una certa
diffidenza l’istituto arbitrale: nonostante negli anni più recenti si sia tentato di
promuovere l’istituto arbitrale, in Italia manca quella “cultura arbitrale” che è
essenziale per la sua diffusione ed efficacia 44. A ciò si aggiunga che solo con l’ultima
riforma (di cui al d.lgs. del 2 febbraio 2006, n. 40) si è giunti ad equiparare gli effetti
del lodo a quelli di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (ex art. 624-bis
c.p.c.), quindi a distinguere il lodo rituale, i cui effetti sono equiparabili a quelli di una
sentenza propriamente giurisdizionale, da quello irrituale che ha natura meramente
contrattuale. E a questo proposito, non può essere poi taciuto il fatto che solo l’Italia
ammette un «arbitrato» la cui natura è meramente contrattuale, quello irrituale.
V. supra, nota 5 e nota precedente.
Così, F. P. LUISO, cit., § 6, il quale richiama F. PUGLIESE, Poteri del collegio arbitrale e provvedimenti
amministrativi, in Aa.Vv.. Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, p. 537; A. ROMANO TASSONE, cit.,
p. 401. In senso affermativo anche G. VERDE, Ancora su arbitri, cit., p. 389; R. VILLATA, Conclusioni al
termine del convegno, in AA.VV., Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, 1999, p. 171. Contra, che
quindi ritengono che il rescissorio sia di competenza del giudice amministrativo: C. SELVAGGI,
Giurisdizione esclusiva ed arbitrato, in Riv. arb., 1999, cit., p. 616 ss.; C. CONSOLO, L’ oscillante ruolo
dell’arbitrato al crescere della giurisdizione esclusiva e nelle controversie sulle opere pubbliche (fra semi-obbligatorietà ed
esigenze di più salde garanzie), in Arbitrato e pubblica amministrazione, Milano, 1999, p. 151 ss.; ID., La
giurisdizione, cit, p. 537.
43 F. P. LUISO, Arbitrato ex art. 6, cit., § 6.
44 Scrive di «cultura arbitrale», E. FAZZALARI, La cultura dell’arbitrato, in Riv. arb., 1991, p. 5 ss.
41
42
L’arbitrato è inoltre visto come un mezzo costoso di risoluzione delle controversie e in
tempi di crisi economica questo dato assume, anche e proprio al momento della
scelta della giustizia cui affidarsi (ordinaria o arbitrale), particolare importanza. Se poi
si pensa che ad essere soccombenti, negli arbitrati in materia di contratti pubblici,
sono spesso e volentieri le Pubbliche Amministrazioni, è evidente come tale dato
vada ancor di più tenuto in considerazione in una qualsivoglia valutazione di
opportunità.
Ancora, non si può non prender atto che in Italia la corruzione è un fenomeno
«sistemico» 45, e che questo fenomeno ha raggiunto, nel particolare settore degli
appalti pubblici, indici di frequenza, diffusione ed intensità elevatissimi. E in questo
scenario l’arbitrato potrebbe rappresentare uno strumento pericoloso per il
particolare “legame” tra parti e arbitri che lo caratterizza, quindi costituire un mezzo
di commissioni illecite (non a caso il governo, con il disegno di legge
“anticorruzione”, è intervenuto anche in questa materia).
Al di là di queste considerazioni, l’arbitrato rappresenta un modo di risoluzione delle
controversie in materia di contratti pubblici da più di centocinquanta anni. Infatti già
a partire dalla L. 20 marzo 1865, n. 2248, con cui venne abolito il contenzioso
amministrativo e le controversie relative ai diritti soggettivi attribuite alla
giurisdizione dei giudici ordinari, le amministrazioni potevano sottrarre tali
controversie alla cognizione di giudici statali e deferirle ad arbitri, e si avvalsero
ampiamente di tale facoltà 46.
Anche nei Capitolati generali del 1889 e del 1895 era presente l’arbitrato. Nel
Capitolato generale del 1889, che prevedeva un arbitrato a sette arbitri – arbitri che,
tuttavia, a differenza di ciò che vorrebbe l’arbitrato, che ha tra le sue principali qualità
quella di poter scegliere giudici “su misura” della controversia, non erano nominati
dalle parti ma erano, ex lege, i sette membri effettivi più anziani del Consiglio
superiore dei lavori pubblici – non solo se ne affermava l’obbligatorietà ma si
precisava altresì che gli articoli del Capitolato relativi all’arbitrato «costitui[vano] per
l’amministrazione patti essenziali del contratto, senza i quali essa non sarebbe
divenuta alla stipulazione dello stesso».
Nel Capitolato del 1895 veniva ancora affermata l’obbligatorietà dell’arbitrato ma
venivano modificati il numero di arbitri (da sette a cinque) e le modalità di scelta degli
stessi. Tuttavia si era ancora ben lontani dall’attribuire una qualsivoglia facoltà di
scelta alle parti (o, meglio, all’appaltatore) giacché due arbitri venivano nominati dal
presidente del Consiglio di Stato, due dal Presidente del Coniglio Superiore dei lavori
pubblici e uno dal presidente della Corte d’Appello di Roma, con un evidente
squilibrio, all’interno del collegio arbitrale, a favore della parte pubblica.
L’intento del legislatore di quegli anni era evidentemente quello di sottrarre le
controversie in materia di contratti pubblici alla competenza dei giudici ordinari,
precostituiti per legge, per deferirle a giudici asseritamente più tecnici e forse più
45 Così anche il Presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, nel suo discorso in occasione
dell’ inaugurazione dell’anno giudiziario 2013.
46 Sul dibattito di quegli anni (dal 1865 al 1889) intorno all’arbitrato, si veda G. RECCHIA, Arbitrati di
diritto comune ed amministrazioni pubbliche, cit., p. 7 ss.
«amici» 47. Tuttavia, così disciplinato l’arbitrato aveva evidentemente superato i suoi
limiti: non si trattava più (e solo) di arbitrato obbligatorio ma di una vera e propria
giurisdizione speciale perché, come ha chiarito in più occasioni la giurisprudenza, il
discrimine tra queste due fattispecie sta proprio nel fatto che nell’arbitrato
obbligatorio i giudicanti sono nominati dalle parti mentre nelle giurisdizioni speciali
questi sono nominati da soggetti terzi individuati ex lege, venendo infatti a mancare
una delle principali caratteristiche dell’arbitrato 48.
Solo il Capitolato del 1962 riconoscerà alle parti il potere di nomina degli arbitri, sia
pure non di tutti i membri del collegio arbitrale, ma soprattutto affermerà la
facoltatività dell’arbitrato, attribuendo l’art. 47 alla parte attrice (generalmente l’impresa
appaltatrice) la facoltà di escludere la giurisdizione ordinaria e alla parte convenuta
(generalmente l’amministrazione) la facoltà di evitare l’arbitrato notificando entro un
termine di trenta giorni la c.d. “declinatoria” che obbligava la parte attrice a rivolgere
la sua domanda al giudice ordinario. Del resto, con l’entrata in vigore della
Costituzione, era stato definitivamente sancito il divieto di costituzione di
giurisdizioni speciali e affermato il principio per cui solo le parti possono decidere di
sottrarsi alla giurisdizione dei giudici statali per rivolgersi altri soggetti, non potendo
la legge autoritariamente imporre loro una tale scelta. E se il rapporto tra l’arbitrato e
la volontà delle parti (a far arbitrare la controversia tra loro insorta) ha sempre
rappresentato l’aspetto più problematico nella disciplina dell’arbitrato nei contratti
pubblici, sotto questo profilo il Capitolato del 1962 andava esente da censure di
incostituzionalità ammettendo l’art. 47 la facoltà, accordata ad entrambe le parti, di
derogare alla competenza arbitrale.
Dopo il Capitolato del 1962, la L. 10 dicembre 1981, n. 741, contenente norme per
l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione di opere pubbliche, reintroduceva un
arbitrato “di fatto” obbligatorio fissando la regola per cui «la competenza arbitrale
può essere esclusa solo con l’apposita clausola inserita nel bando o invito di gare,
oppure nel contratto in caso di trattativa privata» 49. Così, la Corte costituzionale, con
Così C. PUNZI, Vicende recenti e meno recenti., cit., p. 753 ss, p. 754, il quale prosegue affermando che
con questo sistema «sotto le apparenze di un arbitrato imposto ex lege, si introduceva un vero e proprio
giudice speciale» e richiama Mortara e il celebre caso del Palazzo di Giustizia di Roma. Su questo caso,
quindi sui vizi del Capitolato del 1895, v. E. ODORISIO, Arbitrato rituale e lavori pubblici, cit., p. 61 ss.
48 Si tratta tuttavia di una distinzione risalente e superata e non vi era uniformità nell’individuazione
del criterio in base al quale distinguere arbitrato obbligatorio e giurisdizione speciale. V. Cass. Civ.,
S.U., 20 luglio 1951, n. 2030, in Giur. compl. cass. civ., 1951, III, 1, p. 760 ss., con nota di M. ELIA,
Arbitrato obbligatorio e giurisdizione speciale; Cass. civ., S.U., 21 ottobre 1961, n. 2311, in Mass. giur. lav.,
1962, p. 116 ss., con nota di G. PETRACCONE, L’arbitrato nelle controversie del lavoro. In dottrina, in questo
senso P. CALAMANDREI, Contributo alla teoria dell’arbitraggio necessario nel diritto pubblico, in Giur. it., 1924,
p. 259 ss.; ID., Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, in Arch. giur., 1921, p. 224 ss., p. 231,
nota 2; N. JAEGER, Arbitrati obbligatori e sollecitudine nei giudizi, in Foro it., 1931, 1, p. 1111 ss. La dottrina,
a partire dagli anni Sessanta, non distingue più tra arbitrato obbligatorio e giurisdizione speciale ma
solo tra arbitrato obbligatorio e arbitrato volontario essendo venuto meno il presupposto della prima
distinzione e cioè l’obbligatorietà. V. infra.
49 Cfr. E. FAZZALARI, Contro l’arbitrato obbligatorio, nota a Cass. civ., S.U. 10 febbraio 1992, n. 1458, in
Riv. arb., 1993, p. 211 ss.; E. ODORISIO, Solo la concorde volontà dei contraenti consente di evitare la giurisdizione
statale, in Guida al dir., 1996, p. 102 ss. Altri hanno invece parlato di «clausola arbitrale di tipo inverso»:
F. D. ANGELI, L’arbitrato convenzionale ed imposto, facoltativo ed inverso, Torino, 1996, p. 109; G. BASILICO,
La risoluzione arbitrale di controversie in materia di pubblici appalti: dagli arbitrati obbligatori agli arbitrati
amministrati, in Giust. civ., 2000, II, p. 37 ss., p. 40.
47
sentenza 9 maggio 1996, n. 152, dichiarava l’incostituzionalità della disposizione,
rilevando che questa attribuiva alla sola amministrazione (e non ad entrambe le parti,
come nel Capitolato del 1962) la facoltà di scelta, scelta alla quale le controparte
doveva necessariamente adeguarsi se intendeva partecipare alla gara.
Si susseguirono poi, nel giro di pochi anni, tre leggi con tre discipline tanto diverse: la
Legge Merloni, la Legge Merloni bis e la Legge Merloni ter. La prima, del 1994, che
veniva dopo il periodo dei costosissimi e poco trasparenti arbitrati-a-cinque del
Capitolato del 1962, vietava tout court l’arbitrato nei contratti pubblici 50; la seconda,
nel 1995, andando in senso esattamente opposto, ridisegnava l’arbitrato
affermandone (sia pur indirettamente) l’obbligatorietà 51; infine, la Merloni ter del
1998 tornava a proporre un arbitrato volontario che aveva tutte le sembianze di un
arbitrato di diritto comune obbligatoriamente amministrato, e cioè gestito da
un’istituzione arbitrale che era individuata ex lege nella Camera arbitrale per i lavori
pubblici, la cui attività era disciplinata dall’art. 151 del d.P.R. 21 dicembre 1999, n.
554 52. Con la creazione della Camera arbitrale per i lavori pubblici, il legislatore ha
costituito un’istituzione arbitrale, autonoma e del tutto svincolata dell’Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici, conferendole i poteri e compiti tipici di un organismo
arbitrale (la formazione e tenuta dell’Albo degli arbitri, la redazione del codice
deontologico degli arbitri, gli adempimenti per la costituzione e il funzionamento del
tribunale arbitrale, la determinazione del compenso degli arbitri). La Camera arbitrale
aveva poi l’importante ruolo di “appointing authority” poiché, in base all’art. 150,
comma 3, del d.P.R. 554/1999, nominava il terzo arbitro con funzioni di presidente
del collegio, privando le parti di tale potere, a garanzia dell’imparzialità del tribunale
arbitrale. Tuttavia, qualche anno dopo l’introduzione della norma da ultimo citata,
una sentenza del Consiglio di Stato ne ha dichiarato l’illegittimità e pronunciato
l’annullamento, ritenendo la norma irrispettosa del principio volontaristico su cui si
Cfr. C. PUNZI, Vicende recenti, cit., p. 757, «dove qualche componente, designato per le funzioni
ufficiali ricoperte, considerava la nomina ad arbitrato l’unica occasione delle sua vita, da sfruttare nel
miglior modo possibile». Così anche F. D’ANGELI, L’arbitrato convenzionale, cit., p. 132; S.
NAPOLITANO, L’arbitrato nelle opere pubbliche, in Riv. amm. app., 1997, p. 332 ss.; G. VERDE, Arbitrato e
pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1996, p. 215 ss.
51 È stato definito obbligatorio da una parte della dottrina in quanto si affermava che «la definizione
della controversia è attribuita ad un arbitrato». Cfr. G. BASILICO, La risoluzione arbitrale, cit., p. 42;
contra, nel senso che il legislatore con la Merloni bis avrebbe soltanto inteso ripristinare l’istituto
dell’arbitrato e che il rinvio al c.p.c. consentiva di ritenere che l’indicativo «è attribuita» significa «può
essere attribuita» così ammettendo la volontarietà dell’arbitrato, E. CANNADA BARTOLI, L’arbitrato nella
l. 2 giugno 1995, n. 216 sui lavori pubblici, in Riv. arb., 1996, p. 463, p. 466; E. ODORISIO, Solo la concorde
volontà, cit., 103; ; ID., La risoluzione delle controversie negli appalti di opere pubbliche: dall’arbitrato obbligatorio al
divieto di arbitrato. Brevi note alla sentenza n. 152/96 della Corte Costituzionale, in Riv. trim. app., 1996, p. 365;
F. DANOVI, La pregiudizialità nell’arbitrato rituale, Padova, 1999, p. 159, nota 93; G. VERDE, Arbitrato e
pubblica amministrazione, cit., p. 224. V. anche Circolare del Ministero dei lavori pubblici del 7 ottobre
1996, n. 4488/UL, in Corr. giur., 1997, p. 276.
52 Decreto con cui è stato emanato il Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori
pubblici 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni. Sul fatto che si trattasse di un
arbitrato «obbligatoriamente» amministrato, si veda D. BORGHESI, La Camera Arbitrale per i lavori
pubblici: dall’ arbitrato obbligatorio all’ arbitrato obbligatoriamente amministrato, in Corr. giur., 2001, 5, p. 682 ss.;
A. BUONFRATE, Appalti pubblici: l’arbitrato amministrato dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici e il nuovo
sistema di risoluzione alternativa delle controversie, in Giur. it., 2001, p. 877 ss.; F.P. LUISO, La Camera arbitrale
per i lavori pubblici, in Riv. arb., 2000, p. 419 ss.
50
fonda e si deve fondare l’istituto arbitrale, che deve essere rispettato non solo al
momento della scelta della strada arbitrale in luogo di quella statale ma anche al
momento della scelta degli arbitri 53.
Nel 2006 il Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163), nell’attuare un
riordino sistematico in subiecta materia, così ottemperando agli obblighi europei 54, agli
artt. 241 e ss. ha confermato l’arbitrato, affermandone la generale esperibilità
nell’ambito della contrattualistica pubblica come alternativa alla tutela dei diritti
apprestata dal giudice ordinario. Infatti, fermo restando il limite dell’arbitrabilità dei
soli casi devoluti alla giurisdizione ordinaria, ed esclusa quindi l’arbitrabilità degli
interessi legittimi (di competenza del giudice amministrativo), l’alternatività tra le due
forme di giustizia era affermata.
Tuttavia, ad un anno dall’entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici, la Legge
Finanziaria 2008 (L. del 24 dicembre 2007, n. 244) paventava nuovamente un divieto
assoluto di arbitrato per le pubbliche amministrazioni, quindi l’eliminazione dell’art.
241 del Codice dei contratti pubblici, per giungere ai giorni nostri, quindi al d.lgs. del
20 marzo 2010, n. 53, che, ancora su impulso dell’Europa (55), nuovamente lo
ripristina.
Ma non è finita. La “Legge Anticorruzione” del 2012 (L. del 6 novembre 2012, n.
190, conversione del “DDL Anticorruzione”) è infatti nuovamente intervenuta sulla
disciplina degli artt. 241 ss. c.c.p. apportando notevoli modifiche che non sembrano
però andare nella direzione, come già il decreto legislativo del 2010, di garantire un
buon successo dell’arbitrato nel settore in esame.
4.
La convenzione d’arbitrato.
L’art. 241, dopo l’ultimo intervento ad opera della L. 190/2012, afferma che «le
controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle
derivanti dal mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’art. 240,
possono essere deferiti ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell’organo
di governo dell’amministrazione. L’inclusione della clausola compromissoria, senza
preventiva autorizzazione, nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero,
per le procedure senza bando, nell’invito o il ricorso all’arbitrato, senza preventiva
autorizzazione, sono nulli».
Cons. di Stato, IV, 17 ottobre 2003, n. 6335.
Rectius, le Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE di coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, che hanno spinto il legislatore italiano alla
costituzione della c.d. commissione De Lise che ponesse in essere un’attività di coordinamento e di
semplificazione della materia dei contratti pubblici, e di redazione di un testo unico che disciplinasse i
contratti pubblici in modo sistematico.
55 Il d.lgs. 53/2010 è stato emanato in attuazione dell’art. 44 della Legge Delega 7 luglio 2009, n. 88,
che ha delegato al Governo l’attuazione della direttiva 2007/66, concernente il miglioramento
dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, sfociata nel
d.lgs. del 20 marzo 2010, n. 53.
53
54
Iniziando dal tema della volontarietà dell’arbitrato, non vi sono dubbi che la norma
sopraccitata, ed in particolare l’espressione «possono», vada nel senso di una nonobbligatorietà dell’arbitrato. Non solo. Se il legislatore del 2010, accogliendo
l’auspicio della Corte costituzionale di esaltare la volontarietà dell’arbitrato, ha
introdotto l’obbligo per la stazione appaltante di indicare «fin dal bando di gara» se il
contratto conterrà una convenzione d’arbitro a pena di nullità dello stesso, oltre al
divieto di compromesso, il legislatore del 2012 è andato ancora oltre affermando,
accanto a queste due previsioni, la necessarietà di una preventiva motivata
«autorizzazione all’arbitrato» da parte dell’organo di governo dell’amministrazione, in
mancanza della quale la clausola compromissoria è nulla.
L’intento del legislatore, con tale eccesso di formalismo, è quello di garantire la
massima trasparenza e l’effettiva volontarietà dell’arbitrato dell’aggiudicatario, quindi
evitare che quest’ultimo “subisca” l’arbitrato; al tempo stesso, il legislatore intende
controllare la pubblica amministrazione nell’uso dell’arbitrato, quindi contenerne i
costi, dopo gli eccessi parcellari dell’esperienza arbitrale degli anni passati. Ma al di là
delle intenzioni, la diffidenza del legislatore con questa norma è di palmare evidenza.
Viene poi confermato, come accennato, che la stazione appaltante è tenuta ad
indicare nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero nell’invito «se il
contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria», che «l’aggiudicatario può
ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non é inserita nel contratto,
comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza
dell’aggiudicazione» e, da ultimo, che «è vietato in ogni caso il compromesso».
Schematizzando, sono tre le prescrizioni che devono essere seguite per “imporre”
l’arbitrato (assumiamo, alla società appaltatrice) come strumento di risoluzione delle
controversie: la prima che consiste appunto nella «autorizzazione all’arbitrato»
dall’organo di governo dell’amministrazione; la seconda, per cui l’amministrazione
deve indicare sin dal bando di gara (o invito) se il contratto che si andrà a stipulare
conterrà o meno la clausola compromissoria; la terza che consiste nel divieto di
arbitrato a lite insorta.
A corollario della seconda prescrizione, la società aggiudicataria può «ricusare» la
clausola compromissoria, e cioè non accettare l’arbitrato come mezzo di risoluzione
delle controversie, con la conseguenza pratica che il contratto d’appalto, in
conformità alla volontà dell’aggiudicatario diffidente nei confronti dell’arbitrato, non
conterrà alcuna clausola compromissoria. Tale «ricusazione» deve avvenire mediante
comunicazione all’amministrazione committente entro il termine di venti giorni dalla
conoscenza dell’aggiudicazione. Per quanto riguarda le modalità con cui deve essere
effettuata tale comunicazione, l’art. 241, comma 1-bis, c.c.p., non impone
all’aggiudicatario una particolare modalità e, di conseguenza, deve ritenersi
ammissibile ogni forma di comunicazione. Per quanto concerne il dies a quo, la norma
fa riferimento al momento della «conoscenza dell’aggiudicazione» senza precisare se
si tratti dell’aggiudicazione provvisoria (art. 11, comma 4, c.c.p.), o di quella definitiva
(art. 11, comma 5, c.c.p.). Diversi elementi fanno ritenere che l’aggiudicazione a cui fa
riferimento il comma 1-bis sia quella provvisoria 56.
In ogni caso, afferma il legislatore del 2010, mostrando tutta la sua diffidenza nei
confronti dell’arbitrato, «è vietato il compromesso» così inspiegabilmente proibendo
alle parti, a lite insorta e in mancanza di una preventiva clausola compromissoria, di
deferire la controversia ad arbitri. È evidente la limitazione all’arbitrato derivante da
tale imperativo. Nulla, tuttavia, vieta alle parti, dopo la conclusione del contratto ma
prima dell’insorgere della controversia, di stipulare un patto commissorio57.
Infatti, secondo l’impostazione tradizionale58, la distinzione tra compromesso e
clausola compromissoria sta proprio nel fatto che mentre il compromesso riguarda le
controversie già insorte, la clausola compromissoria riguarda quelle future. Pertanto il
divieto di compromesso di cui al Codice dei contratti pubblici non può che essere
interpretato nel senso che è proibito alle parti il ricorso all’arbitrato solo a lite insorta,
senza ulteriori limitazioni. In ogni momento, purché prima della lite, le parti possono
accordarsi per un arbitrato, arbitrato che, secondo i criteri direttivi della legge delega,
che ha commissionato la normativa de qua, rappresenta pur sempre l’«ordinario
rimedio alternativo al giudizio civile»59.
È possibile poi circoscrivere ancor di più il divieto se si accetta la originale
ricostruzione per cui il nostro sistema prevedrebbe tre tipi diversi di accordi
d’arbitrato: la clausola compromissoria, di cui all’808 c.p.c., mediante la quale le parti
deferiscono ad arbitri le controversie «nascenti dal contratto» siano esse già insorte o
future; il compromesso, di cui all’art. 808 c.p.c., con cui le parti deferiscono ad arbitri
la risoluzione di controversie già insorte di origine non contrattuale; infine la
convenzione d’arbitrato «in materia non contrattuale», di cui all’art. 808-bis c.p.c.,
mediante la quale le parti deferiscono ad arbitrato «controversie future relative a …
rapporti non contrattuali». Stando a questa ricostruzione, sarebbe possibile anche un
accordo d’arbitrato (in atto separato dal contratto principale) anche per le
controversie contrattuali già insorte 60.
G. B. DE LUCA, La disciplina arbitrale nei contratti pubblici, Tesi di dottorato, Luiss Guido Carli, A.C.
2012/2013, il quale osserva che «quando il D. Lgs. n. 53 del 2010 ha voluto riferirsi all’aggiudicazione
definitiva, l’ [ha] espressamente precisato. In questo senso, si vedano, infatti, le seguenti disposizioni:
art. 1, comma 1, lettera c) (relativo all’ art. 11, comma 10, e comma 10 ter, c.c.p.); art. 2, comma 1,
lettere b) e d) [relativo all’ art. 79, comma 5, lettera a), e comma 5 bis, c.c.p.]; art. 8, comma 1, lettera c)
(relativo all’ art. 245, comma 2, e comma 2 ter, c.c.p.); artt. 9, 10 e 11 (che hanno introdotto gli artt.
245-bis, 245-ter e 245-quater c.c.p.)».
57 E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, in C. PUNZI, Disegno sistematico dell’ arbitrato, 2a
ed. Padova, p. 180.
58 S. LA CHINA, L’arbitrato. IL sistema e l’ esperienza, Milano, 2011, p. 33 ss.; G. VERDE, La convenzione
d’’arbitrato, in G. VERDE (a cura di), Diritto dell’ arbitrato, Torino, 2005, p. 71 ss.; ID., Lineamenti di diritto
dell’ arbitrato, Tornino, 2006, p. 51 ss.
59 Legge Delega del 7 luglio 2009, n. 883. V. supra nota 25.
60 G. RUFFINI, Patto compromissorio, in Riv. arb., 2005, p. 711 ss., p. 718; ID., in C. CONSOLO (diretto da),
Codice di procedura civile commentato, Milano, 2010, III, p. 180; C. PUNZI, Il processo civile. Sistema e
problematiche, Torino, 2010, III, p. 180 ss.
Si tratta tuttavia di una ricostruzione non largamente accettata, pertanto appare arduo interpretare il
divieto de quo alla stregua di detta interpretazione, anche considerando la ratio legis (sebbene anche
quest’ultima di difficile individuazione e/o comprensione).
56
Pur senza voler aderire a questa seconda lettura, si faticano a comprendere le ragioni
di tale divieto e di una simile deroga rispetto alla disciplina di diritto comune che
ammette l’arbitrato sia che questo nasca da una clausola compromissoria inserita in
un contratto volta a disciplinare le future controversie che da questo dovessero
sorgere (art. 807 c.p.c.) sia che questo derivi da un compromesso stipulato a lite già
insorta (art. 808 c.p.c.).
Ma soprattutto, come correttamente osservato, è paradossale il fatto che si vieti il
compromesso e, al tempo stesso, si ammetta che una controversia (a lite insorta)
possa essere risolta con una transazione (art. 239 c.c.p.) 61.
Al di là delle tante considerazioni che si possono fare attorno a tale divieto, questa è
stata la scelta del legislatore del 2010, poi confermata da quello del 2012, a garanzia e
presidio della effettiva volontarietà dell’arbitrato come strumento di tutela dei diritti.
5.
Il rapporto con l’arbitrato di diritto comune.
L’arbitrato delineato dall’art. 241 c.c.p. come strumento e procedura di risoluzione
della controversie, che qui si commenta, è indubbiamente qualcosa di diverso
dall’arbitrato «comune» disciplinato dal codice di procedura civile negli artt. 806 e ss.
Questa affermazione potrebbe apparire banale: l’arbitrato in materia di contratti
pubblici è diverso da quello di diritto comune semplicemente perché sono diversi gli
ambienti in cui i due strumenti di risoluzione delle controversie operano, quello del
diritto amministrativo il primo e quello del diritto privato il secondo.
L’arbitrato è poi considerato, almeno sotto certi aspetti, una forma di giustizia
«privata», ragione per cui si incontrano alcune difficoltà ad inserirlo nello spazio del
diritto pubblico. Tuttavia, smentita la tesi che assumeva una assoluta incompatibilità
(non solo terminologica o per categorie) dell’istituto arbitrale con l’ambiente
pubblicistico in ragione della sua origine privatistica, le difficoltà che si incontrano
nell’inserire l’arbitrato nei rapporti di diritto pubblico possono ben essere superate.
L’arbitrato di cui all’art. 241 del Codice dei contratti pubblici è dunque un arbitrato
con sue caratteristiche proprie e ciò è emerso già a partire dalla analisi disciplina della
convenzione arbitrale per il cui inserimento, nei contratti pubblici, sono previsti una
serie di precisi adempimenti in deroga a quanto previsto dall’art. 808 c.p.c. V’è allora
da chiedersi, analogamente a ciò che ci si chiede per le altre discipline «speciali» di
diritto dell’arbitrato, come quello «societario», se la disciplina di cui agli artt. 241 ss.
del Codice dei contratti pubblici, integrata con quella codicistica, sia l’unica
applicabile ai giudizi arbitrali in materia di contratti pubblici o se le parti sono libere
di scegliere tra due modelli di arbitrato, quello di cui al codice di rito e quello di cui al
Codice dei contratti pubblici 62.
Per rispondere, è sufficiente leggere l’art. 241 c.c.p. che, al suo secondo comma,
afferma che «ai giudizi arbitrali si applicano le disposizioni del codice di procedura
A. BORELLA, Transazione, accordo bonario e arbitrato (tra ripensamenti e contraddizioni del legislatore), in Riv.
trim. app., p. 589 ss.
62 Lo stesso problema si è posto con riferimento all’arbitrato societario di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003,
n. 5, dove si distinguono la tesi dell’esclusività dell’arbitrato societario e quella del «doppio binario».
61
civile, salvo quanto disposto dal presente codice» così, già il tenore letterale di questa
disposizione (e non di quella di cui al d.lgs. 5/2003) parrebbe escludere una
coesistenza di due arbitrati. Alla medesima conclusione si giunge, secondo autorevole
dottrina, se si interpretano gli artt. 241 ss. del Codice dei contratti pubblici risalendo
alla ratio del legislatore, il quale, nel dettare la disciplina contenuta nel Codice dei
contratti pubblici, evidentemente non pensava ad una disciplina che affiancasse
quella del codice di rito ma che la sostituisse 63.
Dunque, l’unico arbitrato cui si può ricorrere in materia di contratti pubblici è quello
del Codice dei contratti pubblici descritto dagli artt. 241 e ss. e la relativa disciplina è
solo in parte quella codicistica, essendo necessario sostituirla e/o integrarla con quella
di cui appunto agli artt. 241 e ss. del Codice dei contratti pubblici
Potrebbero allora sorgere dubbi di costituzionalità attorno a un arbitrato «speciale» e
«unico» in ragione del fatto che le parti che decidono di fare ricorso all’arbitrato
devono necessariamente seguire le norme di cui al Codice dei contratti pubblici, non
potendo adottare il modello del codice di rito. Ma in realtà tali dubbi rimangono privi
di reale fondamento poiché la nostra Costituzione non contiene alcun diritto
«all’arbitrato così come previsto e disciplinato nel codice di rito» 64. Se così fosse,
infatti, occorrerebbe, come correttamente osservato, riconoscere la copertura
costituzionale a tutte le norme codicistiche che pongono al centro la volontà delle
parti 65. Dato che ciò non è possibile 66, la valutazione circa la legittimità
costituzionale di una norma che in qualche modo contragga la volontà delle parti
come riconosciuta dal codice di rito va fatta caso per caso e alla luce del generale
principio di ragionevolezza 67, come confermato dalla Corte costituzionale 68.
6.
Arbitrato amministrato e arbitrato libero.
L’arbitrato previsto dal Codice dei contratti pubblici come strumento di risoluzione
delle controversie, ex art. 241 ss. c.c.p., prevede, in realtà due diversi tipi di arbitrato,
come del resto il nostro codice di rito, quello ad hoc o libero e quello amministrato. La
differenza però rispetto al codice di rito è che mentre quest’ultimo lascia libere le
Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 182.
Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici, cit., p. 493. Contra, quella dottrina che ha fatto
discendere dal diritto costituzionale all’arbitrato, il divieto per il legislatore non solo di impedire il
ricorso all’arbitrato ma anche di imporre determinate modalità di svolgimento dell’arbitrato. Cfr. F.P.
LUISO, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, in Riv. arb., 2000, p. 411 ss., p. 420; A. BERLINGUER,
Scelta degli arbitri e autonomia delle parti tra diritto comune e disciplina delle opere pubbliche, cit., 531 ss.; D.
BORGHESI, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici: dall’arbitrato obbligatorio all’ arbitrato obbligatoriamente
amministrato, in Corr. giur., 2001, p. 683 ss. Si veda anche Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 ottobre 2003, n.
6335.
65 Così E. ODORISIO Arbitrato rituale e «lavori pubblici, cit., p. 496-497. Cfr. G. RUFFINI, Profili
incostituzionali della nuova disciplina dell’arbitrato negli appalti pubblici, in L’appalto fra pubblico e privato, in Atti
del 12º Seminario (Milano, 16 dicembre 2000), Milano, 2001, p. 161 ss.
66 TAR Lazio, sez. III, 7 giugno 2002, n. 5302.
67 F.P. LUISO, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 420; G. RUFFINI, Profili costituzionali, cit., p.
165; G. VERDE, L’ arbitrato e la legislazione ordinaria, cit., p. 32; A. BRIGUGLIO, Gli arbitrati obbligatori e gli
arbitrati di legge, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2003, p. 86 ss., p. 94; C. CAVALLINI, Profili costituzionali della
tutela arbitrale, in Riv. dir. proc., 2003, p. 809.
68 Corte cost., 13 febbraio 2005, n. 33; più recentemente, Corte cost., 8 giugno 2005, n. 221
63
64
parti di scegliere l’uno o l’altro, il Codice dei contratti pubblici, al verificarsi di una
condizione («in caso di mancato accordo per la nomina del terzo arbitro»), obbliga le
parti ad una determinata modalità, e cioè a quella amministrata.
Ma prima di prendere posizione su un siffatto “obbligo”, tratteggiamo le linee
dell’uno e dell’altro arbitrato o, meglio, delle due diverse modalità di arbitrato.
Nell’arbitrato libero le parti e gli arbitri gestiscono il procedimento in totale libertà
sfruttando appieno l’art. 816-bis c.p.c., quindi la libertà di «stabilire le norme che gli
arbitri debbono osservare nel procedimento», senza nessun ausilio esterno. E nel
caso in cui sorgano difficoltà di natura procedurale, queste saranno risolte o di
comune accordo dalle parti stesse ovvero in subordine dagli arbitri (che fisseranno,
ad esempio, la sede del procedimento) o dal giudice ordinario (il quale, ad esempio,
designerà l’arbitro non nominato dalla parte reticente o si pronuncerà sull’istanza di
ricusazione).
Nell’arbitrato amministrato invece tali regole sono contenute nel regolamento
arbitrale dell’istituzione cui le parti fanno rinvio nella convenzione arbitrale
(divenendo il regolamento parte integrante dell’accordo arbitrale) e a cui decidono di
affidare l’arbitrato 69. In pratica, le parti affidano l’organizzazione dell’intero arbitrato
ad un ente a ciò deputato e al suo regolamento, regolamento cui gli arbitri, come le
parti, dovranno attenersi. Mentre tra le parti e gli arbitri si instaura, come
nell’arbitrato libero, un contratto «d’arbitrato», tra le parti e l’istituzione arbitrale si
conclude un contratto «di amministrazione d’arbitrato» 70, contratto in virtù del quale
l’istituzione svolgerà tutte quelle attività che sono tipiche di una cancelleria di un
tribunale 71, fungendo ad esempio, da sede per il deposito del lodo e curando la
trasmissione degli atti, ma anche attività di rilevanza sostanziale, come la verifica
prima facie della validità della clausola arbitrale, la scelta degli arbitri eventualmente
non nominati dalle parti, il controllo circa la loro indipendenza e imparzialità, e, in
generale, tutte quelle attività volte a garantire l’inizio e il sereno proseguimento
dell’arbitrato 72.
I vantaggi della forma amministrata sono evidenti: si evita il ricorso all’autorità
giudiziaria in tutte quelle (ricorrenti) situazioni d’impasse del procedimento arbitrale,
garantendo una maggiore speditezza e una maggiore sicurezza del risultato arbitrale.
Ciò detto, non si dovrebbero ravvedere particolari criticità nell’imporre, nell’ambito
di un arbitrato in materia di contratti pubblici, la più sicura modalità amministrata,
anche ammettendo che in subiecta materia questa assuma caratteristiche particolari.
E. F. RICCI, Note sull’arbitrato «amministrato», in Riv. dir. proc., 2002, p. 1 ss., p. 3; E. ZUCCONI GALLI
FONSECA, La nuova disciplina dell’ arbitrato amministrato, in Riv trim. dir. e proc. civ., 2008, p. 993 ss.
70 Nessun rapporto sorge invece tra arbitri e istituzioni per il sol fatto dell’ iscrizione all’albo. In
particolare, è da escludere che con l’istanza di iscrizione all’albo della camera arbitrali gli arbitri si siano
«impegn[ati] [ad] accettare le nomine che gli verranno conferite, salvo giustificato rifiuto». Cfr. G.
MIRABELLI, Contratti nell’arbitrato, in Rass. arb., 1990, p. 3 ss., p. 25; E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei
contratti pubblici, cit., p. 200, il quale osserva come gli stessi artt. 241 ss. non contengano alcun obbligo
di accettazione e che tale libertà appare opportuna alla luce delle «rigorose incompatibilità che
discendono dall’assunzione dell’incarico di arbitro, ai sensi dell’art. 242, comma 9».
71 A. M. BERNINI, L’arbitrato amministrato: il modello della Camera di commercio internazionale, Padova, 1996,
p. 128
72 E. F. RICCI, Note sull’arbitrato «amministrato», cit., pp. 4-7.
69
Infatti, nel Codice dei contratti pubblici, l’istituzione è scelta ex lege, e non dalle parti e
si tratterebbe di un arbitrato «obbligatoriamente amministrato» quindi come tale, a
detta di alcuni, incostituzionale perché limitativo della volontà delle parti nella scelta
degli arbitri e perché, così congegnato – il fatto che l’accordo o meno delle parti sulla
nomina del terzo arbitro sia determinante nell’opzione tra la forma libera e
amministrata – è contrario al principio di ragionevolezza 73.
In realtà però il legislatore non limita la volontà e libertà delle parti poiché non
sottrae loro la possibilità di nominare il terzo arbitro ma si limita a prevedere un
meccanismo in grado di garantire l’operatività, quindi l’efficacia, della convenzione
arbitrale, non molto diversamente da quanto accade nell’arbitrato di diritto comune
con l’art. 810 c.p.c. in forza del quale interviene, per la stessa ragione e con i
medesimi poteri, il presidente del tribunale. Prova ne sia che la maggior parte dei
regolamenti arbitrali – anche questi limitando in un certo senso il potere delle parti,
specie negli arbitrati più complessi come quelli multiparti – prevedono l’intervento
dell’istituzione in fase di costituzione del tribunale arbitrale. Lo stesso legislatore,
nell’arbitrato societario, a garanzia della (più importante, in arbitrato) indipendenza
degli arbitri, ha sacrificato ex lege la (meno importante in un contemperamento di
interessi) libertà delle parti imponendo loro che «in ogni caso, a pena di nullità, il
potere di nomina di tutti gli arbitri» deve essere conferito dallo statuto «a soggetto
estraneo alla società» (art. 34, d.lgs. 5/2003).
Non vi sono poi valide ragioni per dubitare della ragionevolezza di meccanismo che
“a certe condizioni” impone la forma amministrata avendo semplicemente il
legislatore deciso di preferire l’arbitrato amministrato per i suoi numerosi vantaggi
quindi ammetterne la percorribilità anche su volontà di una sola delle parti la quale,
per vedersi accontentata, deve limitarsi a rifiutare l’accordo con l’altra parte per la
nomina del terzo arbitro 74.
Ulteriori problemi, secondo alcuni, sorgerebbero in ordine alla reale indipendenza e
imparzialità dell’istituzione arbitrale – che, comunque sia, non ha alcun potere
giudicante – per la sua «vicinanza» alla parte pubblica. Tale critica è stata mossa alla
Camera arbitrale per i contratti pubblici che, ai sensi dell’art. 242 c.c.p., è l’istituzione
deputata ex lege all’amministrazione del procedimento arbitrale quando «le parti non
trovino un accordo sulla nomina del presidente». A detta di coloro che asseriscono la
mancata indipendenza e imparzialità della Camera arbitrale per i contratti pubblici,
questa non sarebbe imparziale e indipendente perché operante in seno ad un’autorità
– l’Autorità di vigilanza – alla quale è affidata la protezione di interessi pubblici.
Ragione per cui la Camera arbitrale «[è] portata a nominare come terzo chi appare più
sensibile» a tali interessi 75. Ciò, sempre per costoro, è sufficiente per assumerne la
sua non-indipendenza e non imparzialità.
Per i riferimenti, v. E. ODORISIO, Arbitrato rituale e lavori pubblici, cit. p. 312 ss., p. 352 ss.
Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 202, il quale afferma che, al
massimo, si può «discutere l’opportunità di tale scelta da un punto di vista di politica legislativa, [ma]
non si può certo ritenere che si tratti di un sistema irragionevole».
75 Così, v. F.P. LUISO, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 423; ID., Il Consiglio di Stato interviene
sull’arbitrato per i lavori pubblici, in Riv. arb., 2003, p. 752 ss., p. 756; nonché la stessa sentenza n. 6335 del
Consiglio di Stato e nota 34.
73
74
Tale impostazione è stata disattesa dal legislatore, il quale ha confermato la presenza
di detta istituzione nei procedimenti arbitrali in materia di contratti pubblici. Del
resto, come correttamente affermato, è vero che l’Autorità di vigilanza cura un
interesse pubblico, ma è altresì vero che rientra nel novero delle cc.dd. “autorità
amministrative indipendenti”76. Anche la Corte costituzionale ha confermato tale
impostazione affermando che l’istituzione della Autorità di vigilanza risponde
«all’esigenza di avere un’autorità indipendente, un nuovo organismo collegiale di alta
qualificazione, chiamato ad operare in piena autonomia rispetto agli apparati
dell’esecutivo ed agli organi di amministrazione» 77. Inoltre, dal fatto che l’Autorità
curi un interesse pubblico non si può automaticamente ricavare che questo coincida
con l’interesse perseguito dalla stazione appaltante: infatti mentre l’interesse
dell’Autorità è quello di garantire la competenza, l’indipendenza e l’imparzialità del
tribunale arbitrale, quello della stazione appaltante è vincere l’arbitrato 78.
Pertanto non ci pare corretto affermare che il procedimento di cui all’art. 241 c.c.p. è
nella forma ad hoc, mentre quello decritto dall’art. 243 c.c.p. è nella forma
amministrata, a meno che non ci si intenda su cosa esattamente significhi (e implichi
un) arbitrato «amministrato». Infatti anche l’art. 241 c.c.p. prevede la presenza nel
procedimento della Camera arbitrale, laddove si afferma, al comma 9, che il lodo
«diviene efficace con il suo deposito presso la camera arbitrale per i contatti
pubblici». Dunque, sebbene ridotto rispetto a quello previsto dall’art. 243 c.c.p.,
l’intervento della Camera arbitrale è determinante anche nell’arbitrato di cui all’art.
241 c.c.p.
Se accettiamo la distinzione fatta supra, non vi sono dubbi che quello descritto all’art.
243 c.c.p. vi rientri appieno, svolgendo la Camera arbitrale per i contratti pubblici le
attività tipiche delle istituzioni arbitrali (quali, ad esempio, la predisposizione di un
albo di arbitri o la determinazione degli onorari), ma potrebbe rientrarvi anche quello
di cui all’art. 241 c.c.p. In quest’ultimo caso l’attività cui è deputata l’istituzione nel
procedimento arbitrale apparirebbe solo più ridotta (ma non assente) o, come
autorevolemente affermato, «del tutto marginale» 79.
7.
Nomina degli arbitri e fase introduttiva del procedimento
L’arbitrato prenderà avvio con la nomina degli arbitri. Il Codice dei contratti pubblici,
a differenza di quanto accade nella disciplina di diritto comune che – non
dimenticando che il numero degli arbitri influisce non di poco sui costi dell’arbitrato
– lascia ampia libertà alle parti anche nella scelta del numero degli arbitri (purché
dispari), afferma che «il collegio è composto da tre membri».
Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e lavori pubblici, cit. p. 50, dove una serie di riferimenti in nota 151.
Corte Cost., 7 novembre 1995, n. 482.
78 Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici», cit. p. 581. Contra F.P. LUISO, La Camera
Arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 423.
79 Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., 190. Il quale, con un ragionamento
convincente, giunge alla conclusione che si instaura un rapporto contrattuale con la Camera arbitrale per
i contratti pubblici anche nell’ arbitrato di cui all’art. 241.
76
77
A seguire, l’art. 241 c.c.p. indica le modalità di nomina stabilendo che «ciascuna delle
parti, nella domanda di arbitrato o nell’atto di resistenza alla domanda, nomina
l’arbitri di propria competenza tra soggetti di particolare esperienza nella materia
oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce». Nell’ipotesi di arbitrato ai sensi
dell’art. 243 c.c.p., «la domanda di arbitrato, l’atto di resistenza ed eventuali
controdeduzioni, vanno trasmesse alla Camera arbitrale ai fini della nomina del terzo
arbitro».
Queste norme hanno un linguaggio unico nel suo genere, infatti non si rinvengono
nel codice di rito “domande di arbitrato”, “atti di resistenza” e (generiche)
“controdeduzioni”, che vengono invece dal D.M. 398/2000.
L’interpretazione della dottrina di dette espressioni ha condotto tuttavia a ritenere
che: le “domande d’arbitrato” coincidono con gli atti con i quali si «dichiara la
propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale» ex art. 669 octies, comma
5, c.p.c.; che gli «att[i] di resistenza», sebbene non ve ne sia traccia nel codice di rito,
trovano la loro disciplina nell’art. 810 c.p.c. dedicato alla «nomina degli arbitri» per
cui il convenuto, nell’atto di resistenza, «potrebbe limitarsi a nominare il proprio
arbitro, senza che la mancata presa di posizione in ordine alle pretese ex adverso
avanzate, possa comportare alcuna preclusione» 80; infine, con riguardo alle
«controdeduzioni», devi ritenersi legittimo che l’attore, dopo la notifica dell’atto di
resistenza, notifichi un ulteriore atto al convenuto con controdeduzioni (81).
Venendo, poi, alla nomina del terzo del terzo arbitro, l’art. 241, comma 5, c.c.p.,
afferma che «il presidente del collegio arbitrale é scelto dalle parti, o su loro mandato
dagli arbitri di parte». Come anticipato, e come afferma il comma 12 della norma in
commento, «in caso di mancato accordo per la nomina del terzo arbitro, ad iniziativa
della parte più diligente, provvede la camera arbitrale».
Gli arbitri, nell’arbitrato libero di cui all’art. 241 c.c.p., vengono individuati dalle parti
«tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui
l’arbitrato si riferisce», che se per alcuni si tratta di una mera esortazione (82), per altri
la carenza di «particolare esperienza» potrebbe addirittura essere motivo di
ricusazione ex art. 815, comma 1, n. 1, c.p.c., ai sensi del quale l’arbitro può essere
ricusato «se non ha le qualifiche espressamente convenute dalle parti» (83), ma non di
impugnazione essendo la formula «soggetti di particolare esperienza» troppo generica
per essere oggetto di un sindacato.
Vi sono poi una serie di casi di incompatibilità, alcuni dei quali introdotti col d.lgs.
53/2010, affermando, l’art. 241, comma 6, c.c.p. che «in aggiunta ai casi di
ricusazione degli arbitri previsti dall’articolo 815 del codice di procedura civile, non
possono essere nominati arbitri coloro che abbiano compilato il progetto o dato
Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici», cit. p. 582.
Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici», cit. p. 583.
82 V. A. DAPAS, in A. DAPAS, L. VIOLA (a cura di), L’arbitrato nel nuovo codice dei contratti pubblici, Milano,
2007, p. 114; anche N. MATASSA, La Camera Arbitrale per i lavori pubblici, in L. CARBONE, F.
CARINGELLA e G. DE MARZO (a cura di), L’attuazione della legge quadro sui lavori pubblici, Milano, 2000, p.
70 ss, p. 723.
83 Così P. CARBONE, Prime considerazioni sulla disciplina del contenzioso contenuta nel d.lgs. 12 aprile 2006, n.
163, in Riv. trim. app., 2006, p. 815 ss; spec. p. 833.
80
81
parere su di esso, ovvero diretto, sorvegliato o collaudato i lavori, i servizi, le
forniture cui si riferiscono le controversie, né coloro che in qualsiasi modo abbiano
espresso un giudizio o parere sull’oggetto delle controversie stesse». Col d.lgs.
53/2010 infatti anche gli arbitri “di parte” non possono aver avuto alcun
coinvolgimento nella materia del contendere. Si tratta tuttavia non di motivi di
incapacità – per cui la parte potrebbe impugnare il lodo se questo «è stato
pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro» ai sensi dell’art. 829, comma
1, n. 3 c.p.c. – ma di un ulteriore motivo di ricusazione in aggiunta a quelli di cui
all’art. 815 c.p.c. (84).
Per quanto riguarda il presidente del collegio arbitrale, questo, ai sensi dell’art. 241,
comma 5, c.c.p., introdotto dal d.lgs. 53/2010, deve essere scelto dalle parti o, su loro
mandato, dagli arbitri di parte «tra soggetti di particolare esperienza nella materia
oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce, muniti di precipui requisiti di
indipendenza, e comunque tra coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le
funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente
articolo, ad eccezione delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca
adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico» con la
precisazione che «la nomina del presidente del collegio effettuata in violazione del
presente articolo determina la nullità del lodo ai sensi dell’articolo 829, primo
comma, n. 3, del codice di procedura civile».
Con l’introduzione di questa norma, il legislatore del 2010 non ha tanto voluto
(ri)affermare la necessarietà dell’indipendenza del presidente del tribunale, perché
questi, come gli arbitri “di parte”, non di meno e non di più, deve essere
indipendente e la sua indipendenza è garantita e tutelata dall’art. 815 c.p.c. – tanto
che, sotto questo profilo, la norma risulta addirittura ridondante – ma imporre che
questi sia scelto «tra coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni
di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo
[quindi in quelli liberi]» 85. Soprattutto, il legislatore ha inteso sanzionare con la
«nullità» il lodo pronunciato in spregio a tali prescrizioni, ai sensi dell’art. 829, comma
1, n. 3, c.p.c. quindi ritenuto il lodo «pronunciato da chi non poteva essere nominato
arbitro a norma dell’art. 812 [i.e., perché incapace]».
La ratio della grave sanzione della nullità, introdotta dal legislatore del 2010, è di
difficile comprensione, non potendo essere individuata nell’esigenza di garantire
l’indipendenza e l’imparzialità del presidente del tribunale arbitrale, che deve valere in
generale e per qualsiasi arbitro. Se poi si considera che la parte vittoriosa
nell’arbitrato, inconsapevole che l’arbitro nominato si trovasse nella situazione
dell’art. 241 c.c.p., potrebbe subire tale nullità, si fatica ancor di più a definire
ragionevole la scelta del legislatore. Si fatica altresì a comprendere la differenza di
Così G. RUFFINI, J. POLINARI, Sub art. 815, in C. CONSOLO, F.P. LUISO (a cura di), Codice di procedura
civile commentato, cit., p. 5828 ss.; giunge alla medesima conclusione, E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice
dei contratti pubblici, cit., p. 218.
85 L’eccezione («delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d’ufficio
del difensore dipendente pubblico») alla regola riguarda gli avvocati di Stato per i quali l’esercizio della
difesa costituisce l’adempimento di un dovere d’ufficio. Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei
contratti pubblici, cit., p. 221, nt. 88.
84
trattamento rispetto alla forma amministrata in cui la sopraccitata norma non trova
applicazione ma per la quale è previsto che «durante il periodo di appartenenza
all’albo gli arbitri non possono espletare incarichi professionali in favore delle parti
dei giudizi arbitrali da essi decisi, ivi compreso l’incarico di arbitro di parte» e che la
violazione di tale norma costituisce (solamente) motivo di ricusazione dell’arbitro, e
non di nullità del lodo. La diversità di disciplina è tanto evidente quanto irragionevole
86
.
La Legge Anticorruzione (L. 190/2012) è intervenuta in tema di nomine ad arbitri. Il
legislatore ha ritenuto che le garanzie introdotte da d.lgs. 53/2010 («precipui requisiti
di indipendenza», il non aver esercitato «nell’ultimo triennio … le funzioni di arbitro
di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo», il non
coinvolgimento nella materia del contendere anche degli arbitri di parte, un
compenso massimo per l’intero collegio arbitrale, incluso il segretario, di centomila
euro – su cui v. infra –) non fossero sufficienti. Così viene ulteriormente stabilito che
«la nomina degli arbitri per la risoluzione delle controversie nelle quali è parte una
pubblica amministrazione avviene nel rispetto dei principi di pubblicità e di rotazione
e secondo le modalità previste dai commi 22, 23 e 24», dove l’art. 22 prescrive che
«qualora la controversia si svolga tra due pubbliche amministrazioni, gli arbitri di
parte sono individuati esclusivamente tra dirigenti pubblici», l’art. 23 che «qualora la
controversia abbia luogo tra una pubblica amministrazione e un privato, l’arbitro
individuato dalla pubblica amministrazione è scelto preferibilmente tra i dirigenti
pubblici» e l’art. 24 che «la pubblica amministrazione stabilisce, a pena di nullità della
nomina, l’importo massimo spettante al dirigente pubblico per l’attività arbitrale.
L’eventuale differenza tra l’importo spettante agli arbitri nominati e l’importo
massimo stabilito per il dirigente è acquisita al bilancio della pubblica
amministrazione che ha indetto la gara».
In base alla nuova disciplina, dunque, la pubblica amministrazione deve nominare
come arbitro un dirigente pubblico. Ciò ci sembra andare in senso esattamente
contrario rispetto al principio di indipendenza e a quello di rotazione, principi, in
particolare quello di indipendenza, che dovrebbero, non solo essere rispettati ma
anche, guidare il legislatore nel dettare una disciplina sulla nomina degli arbitri.
Al di là delle valutazioni, il quadro che se ne trae è quello di nomine da parte della
pubblica amministrazione dirette a dirigenti pubblici, con compensi più bassi di quelli
degli altri arbitri e con un appropriazione da parte della pubblica amministrazione
della differenza.
8.
La sede dell’arbitrato.
La «sede» dell’arbitrato è un concetto giuridico di grande importanza nel
procedimento arbitrale. Infatti dalla determinazione della sede derivano una serie di
rilevanti conseguenze: prima fra tutte, la sede costituisce il principale criterio di
individuazione del giudice competente per l’omologazione del lodo, ai sensi dell’art.
86
Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 223.
825 c.p.c., nonché per la sua impugnazione tanto per nullità, ai sensi dell’art. 828
c.p.c., quanto per revocazione ed opposizione di terzo, ai sensi dell’art. 831 c.p.c.
Non solo. La sede dell’arbitrato costituisce il principale criterio di attribuzione della
competenza territoriale ai giudici statali d’ausilio al procedimento arbitrale, i quali
garantiscono l’inizio e il proseguimento del procedimento arbitrale quando si
verifichino situazioni d’impasse intervenendo in caso di richiesta di nomina e/o
sostituzione dell’arbitro, ex art. 810 c.p.c., di determinazione del compenso degli
arbitri, ex art. 814 c.p.c., di ricusazione, ex art. 815 c.p.c., di proroga del termine per il
deposito del lodo, ex art. 820, comma 3, lett. b), c.p.c. Da qui l’importanza della sede
dell’arbitrato e di una attenta valutazione nella sua determinazione ad opera delle
parti 87.
Non prevedendo il Codice dei contratti pubblici una regola speciale per quanto
concerne la sede dell’arbitrato, nella forma libera di cui all’art. 241 c.c.p. trovano
applicazione le norme di cui al codice di rito, quindi l’art. 816 c.p.c. che afferma
lasciando ampia libertà alle parti — come deve essere nell’arbitrato — che sono le
stesse parti a determinare la sede dell’arbitrato «nel territorio della Repubblica»,
«altrimenti provvedono gli arbitri nella loro prima riunione». Nel caso in cui poi la
sede non sia né indicata dalle parti né fissata dagli arbitri viene stabilito che questa «è
nel luogo in cui è stata stipulata la convenzione d’arbitrato. Se tale luogo non si trova
nel territorio nazionale, la sede è a Roma».
Diverso è il discorso per l’arbitrato amministrato di cui all’art. 243 c.c.p. Infatti, per
questo tipo di arbitrato, il Codice dei contratti detta una norma ad hoc dal seguente
tenore letterale: «le parti determinano la sede del collegio arbitrale, anche presso uno
dei luoghi in cui sono situate le sezioni regionali dell’Osservatorio; se non vi é alcuna
indicazione della sede del collegio arbitrale, ovvero se non vi é accordo fra le parti,
questa deve intendersi stabilita presso la sede della camera arbitrale». Dunque anche
nel Codice dei contratti pubblici le parti sono lasciate libere nella determinazione
della sede dell’arbitrato amministrato. Tuttavia, diversa è la regola suppletiva poiché
viene stabilito che, in caso di mancata determinazione della sede ad opera delle parti
«questa deve intendersi stabilita presso la sede della Camera Arbitrale [cioè, a Roma]»
e non nel luogo in cui è stipulata la convenzione arbitrale.
La norma precisa che le parti determinano la sede del collegio «anche presso uno dei
luoghi in cui sono situate le sezioni regionali dell’Osservatorio [dei lavori pubblici]»,
puntualizzazione che rievoca disciplina contenuta nell’art. 150, comma 4, d.P.R.
554/1999, in forza del quale le parti erano libere di individuare la sede dell’arbitrato
«in uno dei luoghi in cui sono situate le sezioni regionali dell’Osservatorio dei lavori
pubblici». La formulazione attuale, con l’aggiunta dell’avverbio «anche», lascia le parti
libere di fissare la sede anche dove non siano situate sezioni regionali
dell’Osservatorio, diversamente dal passato.
La sede dell’arbitrato, come nell’arbitrato di diritto comune, può essere determinata
(e modificata) in ogni momento del procedimento, quindi non necessariamente
Sul concetto di sede nell’arbitrato di diritto comune, v. E. PICOZZA, Sub art. 816 c.p.c., in C.
CONSOLO, M. V. BENEDETTELLI, L. G. RADICATI DI BROZOLO (a cura di), Commentario breve al dritto
dell’arbitrato nazionale ed internazionale, Padova, 2010, p. 166 ss.
87
prima dell’inizio del procedimento. Da ciò ne consegue che, all’inizio del
procedimento, si potrebbe non conoscere l’ufficio dell’Avvocatura dello stato presso
cui notificare la domanda d’arbitrato. Per risolvere tale problema, si deve ricorrere
alla disciplina di diritto comune, quindi all’art. 816, comma 2, c.p.c., in forza del quale
la sede è quella in cui è stata stipulata la convenzione arbitrale 88.
9.
L’istruzione probatoria
L’art. 241, comma 8, c.c.p., unica disposizione sull’istruzione probatoria, afferma che
«nei giudizi arbitrali regolati dal presente codice sono ammissibili tutti i mezzi di
prova previsti dal codice di procedura civile, con esclusione del giuramento in tutte le
sue forme».
Tale disposizione, apparentemente chiara, pone tuttavia una questione: se il
legislatore abbia inteso riferirsi a tutti i mezzi di prova ammessi, in generale, dal
codice di rito, oppure se si riferisca ai soli mezzi di prova ammessi in arbitrato
(assumendo che vi sia una differenza tra i mezzi ammissibili nell’uno e nell’altro
procedimento)89. Deve, tuttavia, ritenersi preferibile la prima soluzione. Del resto, il
Codice dei contratti pubblici quando rinvia alle norme del codice di rito, fa
riferimento a quelle che regolano, nello specifico, l’arbitrato, a partire dal comma 2,
dell’art. 241, c.c.p. a norma del quale «ai giudizi arbitrali si applicano le disposizioni
del codice di procedura civile, salvo quanto disposto dal presente codice » 90.
Con la disposizione in esame il legislatore ha inteso limitare la libertà delle parti sotto
il profilo probatorio: infatti mentre nell’arbitrato di diritto comune le parti sono
libere di escludere o limitare l’ammissibilità di un determinato mezzo di prova, ex art.
816-bis c.p.c., nell’arbitrato in materia di contratti pubblici le parti non godono di tale
facoltà.
10.
Il segretario arbitrale.
Nel Codice dei contratti pubblici, nelle norme in esame, si ritrova la figura del
«segretario del collegio arbitrale». Tale figura non è invece presente nel codice di rito
ancorché sia ampiamente nota alla prassi.
Si tratta di una figura che svolge un’attività «d’ausilio» a quella degli arbitri. Essendo,
quest’ultima, un’attività di prestazione d’opera intellettuale, si deve concludere nel
senso che anche l’attività del segretario arbitrale rientra nell’ambito di applicazione
dell’art. 2232 c.c. e che, quindi, questi non è che un prestatore d’opera dell’arbitro, al
quale risponde della sua attività. Nessun rapporto si instaura tra parti e segretario (91).
Così E. ODORISIO, Arbitrato rituale e «lavori pubblici», cit., p. 612.
Sul tema si veda, almeno per i riferimenti essenziali, E. F. RICCI, La prova nell’arbitrato rituale, Milano,
1974; G. RUFFINI, V. TRIPALDI, Sub art. 816 ter, in C. CONSOLO, F.P. LUISO (a cura di), Codice di
procedura civile commentato, cit., p. 1828 ss.
90 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., pp. 229-230.
91 In questo senso, anche la giurisprudenza: v. Cass. 26 maggio 2004, n. 10141, in Foro it., 2005, I, p.
782 ss, che afferma che è solo con gli arbitri che s’instaura il «rapporto di prestazione d’opera
intellettuale del segretario, rapporto del tutto estraneo a quello instaurato tra le parti litiganti e gli
88
89
Nel caso di arbitrato amministrato, molto spesso le attività del segretario arbitrale
sono svolte dall’istituzione arbitrale, attraverso i suoi organi o personale interni
all’istituzione, in conformità a quanto fissato nel regolamento arbitrale, dunque
rientrano nell’oggetto del contratto di amministrazione d’arbitrato (92). Così le parti,
accettando il regolamento dell’istituzione, accettano anche che sia quest’ultima a
svolgere le attività del segretario arbitrale.
Nell’arbitrato libero invece sono gli arbitri a decidere se avvalersi di un segretario,
consapevoli che la loro decisione influirà sui costi dell’arbitrato (che sono a carico
delle parti).
Prima del d.lgs. 53/2010, nel Codice dei contratti pubblici, il segretario era una figura
necessaria nell’arbitrato amministrato, infatti in base al vecchio art. 243, comma 7,
c.c.p., «il presidente del tribunale arbitrale nomina[va] il segretario» scegliendolo
all’interno dell’albo della Camera arbitrale. Ciò comportava maggiori costi
dell’arbitrato che il legislatore giustificava alla luce della complessità che caratterizza
le controversie in materia di contratti pubblici. La violazione di tale “obbligo” non
comportava tuttavia la nullità del lodo ma costituiva motivo per l’esercizio di
un’azione di responsabilità ex art. 813-ter c.p.c. nei confronti dell’arbitro che mancava
di nominare il segretario.
Il d.lgs. 53/2010 ha eliminato questo “obbligo” trasformandolo in una mera
“facoltà” giustificata da una reale necessità, quindi uniformando la disciplina arbitrale
in materia di contratti pubblici a quella di diritto comune, e riducendo i costi
dell’arbitrato. Infatti, il nuovo art. 243, comma 7, afferma che «il presidente del
collegio arbitrale nomina, se necessario, il segretario, scegliendolo nell’elenco di cui
all’articolo 242, comma 10».
Nell’arbitrato libero, anche prima della riforma del 2010, non vi era alcun obbligo di
nomina del segretario arbitrale, tuttavia dato che il vecchio art. 241, comma 10, c.c.p.,
stabiliva che spettava al «segretario» depositare il lodo presso la Camera arbitrale, si
riteneva necessaria la nomina del segretario arbitrale anche nell’arbitrato libero (93).
Oggi il problema non si pone più dal momento che il legislatore ha reso facoltativa la
nomina del segretario anche nell’arbitrato amministrato e previsto che non è più il
segretario a provvedere al deposito del lodo ma il collegio arbitrale.
arbitri», con nota di R. CAPONI, Orientamenti giurisprudenziali in tema di procedimento di liquidazione delle spese
e dell’onorario arbitrali (art. 814 c.p.c.). V. anche Cass. 8 settembre 2004, n. 18058, in Riv. arb., 2005, p. 83
ss., con nota di F. AULETTA, La tutela giurisdizionale dei diritti del segretario dell’ arbitrato. In dottrina, v. E.
ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit, p. 231 ss.; F. TIZI, I costi del processo arbitrale, in
Giusto proc. civ., p. 590 ss.; ID, Sulla liquidazione dei compensi arbitrali negli arbitrati in materia di pubblici
appalti, in Riv. arb., 2007, p. 267 ss.
92 Cfr. A.M. BERNINI, L’arbitrato amministrato, cit., p. 393; R. CAPONI, L’ arbitrato amministrato dalle
Camere di commercio in Italia, in Riv. arb., 2000, p. 677; E. F. RICCI, Note sull’ arbitrato «amministrato», cit., p.
6.
93 V. A. DAPAS, L’arbitrato nel nuovo codice dei contratti pubblici, cit., p. 157.
11.
Il lodo e le impugnazioni.
Il codice di rito, con l’art. 820 c.p.c., stabilisce che lodo deve essere pronunciato dagli
arbitri «nel termine di duecentoquaranta giorni dall’accettazione della nomina»,
termine per il calcolo del quale, ha chiarito la Suprema Corte, non trova applicazione
l’istituto della sospensione feriale dei termini94.
Lo stesso codice di rito afferma che «il lodo ha dalla data della sua ultima
sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria». Tale
norma è stata introdotta con la riforma del 2006, riforma che ha tentato di chiarire la
natura e gli effetti del lodo alla luce dei tanti dubbi emersi.
Diversamente il Codice dei contratti pubblici non contiene un termine speciale per il
deposito del lodo, dunque trova applicazione il sopraccitato art. 820 c.p.c., ma, in
deroga a quest’ultimo, afferma che il lodo diviene efficace «con il suo deposito presso
la Camera arbitrale per i contratti pubblici». Sotto questo secondo aspetto, si pone
dunque un problema «di coordinamento» con la disciplina di diritto comune in base
alla quale il lodo è produttivo dei suoi effetti dal diverso momento della sua ultima
«sottoscrizione»95.
Ante riforma del 2010, il comma 9 dell’art. 241 c.c.p. si limitava ad affermare che «il
lodo si ha per pronunziato con il suo deposito presso la camera arbitrale per i
contratti pubblici» da qui l’evidente volontà del legislatore di dettare una disciplina
differente e speciale rispetto a quella del codice di rito di cui all’art. 824-bis c.p.c. e da
quella precedentemente sancita dall’art. 823 c.p.c. Così, si doveva ritenere che il lodo
in materia di contratti pubblici fosse produttivo dei medesimi effetti di una sentenza
pronunciata dall’autorità giudiziaria, quindi dei medesimi effetti che nel sistema di
diritto comune si producono al momento della sottoscrizione, nel diverso momento
del suo deposito presso la Camera arbitrale96. Sino a quel momento gli arbitri
mantenevano il proprio potere decisorio, quindi erano liberi di modificare la loro
decisione 97 ed era da tale momento che decorreva il termine annuale di cui all’art.
828 c.p.c. per l’impugnazione del 98. Al mancato deposito conseguiva la «inesistenza»
del lodo arbitrale 99.
Cass. 8 ottobre 2008, n. 24886, in Riv. arb., 2008, p. 223 ss., con nota di F. UNGARETTI
DELL’IMMAGINE, La sospensione feriale non si applica all’arbitrato.
95 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 235.
96 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 236; M. CORSINI, L’arbitrato, cit., p.
3836; I. LOMBARDINI, Il nuovo assetto dell’arbitrato negli appalti di opere pubbliche, Milano, 2007, cit., p. 266.
94
Nello stesso senso, rispetto all’identica previsione contenuta nell’art. 9, comma 1, D.M. 298/2000, v,
P. BIAVATI, Gli arbitrati nei lavori pubblici: la procedura, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 2002, p. 31 ss., p. 47;
D. BORGHESI, Il regolamento di procedura della Camera Arbitrale per i lavori pubblici, in Corr. giur., 2001, p.
944 ss., G. VERDE, Le funzioni «paragiurisdizionali» della Camera Arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 167.
97 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 238; R. CAPONI, L’efficacia del
giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, p. 149; F. P. LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2009, I., p. 185;
C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, 2007, I, p. 453, testo e nota 28.
98 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 238; LOMBARDINI, Il nuovo assetto
dell’arbitrato negli appalti di opere pubbliche, cit., p. 273.
99 Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 238; M. GIORGETTI, Il difetto di
potestas iudicandi degli arbitri rituali, in Riv. arb., 1999, p. 460 ss.; P. L. NELA, Il lodo rituale reso da arbitri
«usurpatori» e l’insegnamento della Corte di cassazione sulla natura della questione di patto commissorio, in Giur. it.,
2006, p. 883 ss.
Il legislatore del 2010 ha confermato tale impostazione, e cioè che il lodo «diviene
efficace», i.e. è produttivo degli effetti di cui all’art. 824-bis c.p.c., solo al momento del
suo deposito presso la Camera arbitrale (nuovo art. 241, comma 9, c.c.p.) e che è da
tale momento che decorre il termine lungo per proporre impugnazione (art. 241,
comma 15-bis, c.c.p.).
Tuttavia non si è limitato a tale statuizione. Infatti, leggendo l’intero nuovo art. 241,
comma 9, c.c.p., questo afferma sì, che il lodo «diviene efficace con il suo deposito
presso la camera arbitrale per i contratti pubblici» ma afferma anche che il lodo «si ha
per pronunciato con la sua ultima sottoscrizione». Dunque, oltre al momento del
deposito, rileva anche il momento della sottoscrizione. Come autorevolmente
affermato, il senso di tale disposizione è quello che, sebbene il lodo in materia di
contratti pubblici, produca i suoi effetti solo al momento del deposito presso la
Camera arbitrale per i lavori pubblici, al fine del rispetto del termine per la pronuncia,
e solo a tal fine, rileva il diverso e precedente momento dell’ultima sottoscrizione così
gli eventuali tempi supplementari necessari per l’attività di deposito non sono
computati nel termine stringente per la pronuncia della decisione arbitrale 100.
Come accennato il precedenza, al deposito non deve più provvedere il segretario del
collegio arbitrale, la cui nomina è divenuta facoltativa, ma è «a cura del collegio
arbitrale», ex art. 241, comma 10, c.c.p., che non vuol dire che se gli arbitri hanno
deciso di avvalersi di un segretario, non sia questo a provvedere al deposito su
incarico degli arbitri. La Camera arbitrale, secondo la nuova formulazione della
norma, effettuato il deposito deve restituire alla parte l’originale del lodo «con
attestazione dell’avvenuto deposito» ai fini della richiesta di exequatur ai sensi dell’art.
825 c.p.c.
Oltre al deposito, un altro momento importante del (concluso) procedimento
arbitrale, è la «comunicazione» del lodo. Nell’arbitrato di diritto comune, ai sensi
dell’art. 824 c.p.c., «gli arbitri danno comunicazione del lodo a ciascuna parte
mediante conseguenza di un originale, o di una copia attestata conforme dagli stessi
arbitri, anche con spedizione in plico raccomandato, entro dieci giorni dalla
sottoscrizione del lodo».
Il Codice di contratti pubblici tace su questo punto. Infatti gli artt. 241 e ss. c.c.p. non
dispongono nulla a riguardo. Il Codice fa tuttavia menzione della «comunicazione del
lodo» all’art. 243, comma 8, c.c.p. in cui, in tema di costi dell’arbitrato, viene
affermato che «il corrispettivo a saldo per la decisione della controversia è versato
dalle parti … nel termine di trenta giorni dalla comunicazione del lodo». Ci domanda
allora se questa comunicazione sia la medesima di quella di cui all’art. 824 c.p.c.
quindi se quest’ultima disposizione trovi applicazione anche nel Codice dei contratti
pubblici.
La risposta sembra essere affermativa infatti, sebbene la comunicazione del lodo sia
un’attività che rientra tra quelle cui è deputata l’istituzione arbitrale che amministra il
procedimento, l’art. 243 c.c.p. non menziona tale attività tra quelle a carico della
Camera arbitrale e sarebbe una «forzatura eccessiva della lettera della legge» imporre
100
Così E. ODORISIO, L’arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 239.
all’organismo arbitrale un tale obbligo101. Appare dunque più ragionevole
l’applicazione dell’art. 824 c.p.c. per cui sono gli arbitri che devono comunicare alle
parti il lodo e l’avvenuto deposito, secondo le modalità ivi prescritte.
Infine, la disciplina del lodo è completata da una serie di norme sui mezzi di
impugnazione, di cui si è già fatto cenno. Prima del d.lgs. 53/2010, il Codice dei
contratti pubblici non conteneva norme specifiche sull’impugnazione del lodo quindi
doveva ritenersi applicabile la normativa di diritto comune di cui agli artt. 827 ss. del
codice di rito con l’unica differenza che il termine lungo (di un anno) per l’esercizio
dell’impugnazione, di cui all’art. 828 c.p.c., decorreva non già dall’ultima
sottoscrizione ma dal deposito del lodo presso la Camera arbitrale per i lavori
pubblici.
Il d.lgs. 53/2010 ha in introdotto due disposizioni (rectius, due novi commi) in materia
di impugnazione di nullità del lodo: il comma 15-bis e il comma 15-ter dell’art. 241
c.c.p.
Nel primo viene chiarito che «il lodo è impugnabile, oltre che per motivi di nullità,
anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia» così
derogando alla disciplina di diritto comune in cui vale regola, introdotta dalla riforma
del 2006 – nell’ottica di ridurre i motivi e casi di impugnazione e, per questa via,
garantire una maggiore efficacia al risultato arbitrale – per cui l’impugnazione per
violazione di regole di diritto è ammessa solo «se espressamente disposta dalle parti o
dalla legge» (art. 829, comma 3, c.p.c.). Dunque, il Codice dei contratti pubblici
rappresenta una delle ipotesi d’eccezione evocate dall’art. 829 c.p.c. e con
l’introduzione di tale eccezione il legislatore ha mostrato tutta la sua reticenza nei
confronti dell’arbitrato riaprendo, tale ulteriore motivo di impugnazione, la strada a
un controllo “senza limiti” sul lodo da parte del giudici dello Stato – quegli stessi
giudici che le parti avevano volutamente evitato scegliendo la strada arbitrale in luogo
di quella statale – quindi riducendo la sua stabilità.
Le parti possono tuttavia rinunciare all’impugnazione, infatti il tenore letterale del
comma 15-bis non si oppone a questa conclusione 102.
Quanto al termine per proporre impugnazione, il d.lgs. 53/2010 conferma che il lodo
è impugnabile «nel termine di novanta giorni dalla notificazione» come nella
disciplina di diritto comune cui già si faceva riferimento. Mentre il termine lungo
viene ridotto rispetto a quello ordinario ex art. 828 c.p.c. (di un anno), e fissato in
centottanta giorni, che decorrono, come anticipato sopra, dal deposito del lodo
presso la Camera arbitrale per i lavori pubblici.
Il comma 15-ter, di nuova introduzione, si occupa invece della sospensione
dell’efficacia del lodo da parte della Corte d’appello adita per l’impugnazione e dello
svolgimento del giudizio di impugnazione, con la previsione di un «rito abbreviato»
quando la Corte sospenda l’efficacia del lodo. Infatti, analogamente a quanto previsto
dal codice di rito dall’art. 830 c.p.c., in fase di impugnazione di nullità, e anche
successivamente al momento della sua proposizione, «su istanza di parte la Corte
d’appello può sospendere, con ordinanza, l’efficacia del lodo, se ricorrono gravi e
101
102
Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 247.
Così E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 250.
fondati motivi». La disposizione rinvia inoltre all’art. 351 c.p.c. dunque deve
ammettersi che la Corte d’appello possa pronunciarsi sulla sospensione con decreto
emesso inaudita altera parte.
Come anticipato, il d.lgs. 53/2010 ha introdotto poi uno speciale procedimento (un
rito abbreviato) nel caso in cui, una volta impugnato il lodo, ne sia sospesa l’efficacia
del lodo così da accelerare una fase che, oltre a tenere le parti “in sospeso”, di fatto,
vanifica il risultato dell’arbitrato il più delle volte volutamente scelto per la sua celerità
103
.
12.
I costi dell’arbitrato.
I costi dell’arbitrato rappresentano uno dei temi più importanti della disciplina del
giudizio arbitrale. Ciò è ancor più vero nell’arbitrato in materia di contratti pubblici in
cui è coinvolta una parte pubblica e la preoccupazione che il procedimento arbitrale
possa comportare costi eccessivi, che vanno a gravare sulle risorse pubbliche, è
maggiore.
Le fonti normative non sono costituite solo dal Codice dei contratti pubblici,
rinviando il legislatore (anche dopo la modifica del 2010) a una fonte esterna che è il
D.M. 398/2000 e alle tariffe ivi allegate. Infatti l’art. 241, comma 12, c.c.p. stabilisce
che «il collegio arbitrale determina nel lodo definitivo ovvero con separata ordinanza
il valore della controversia e il compenso degli arbitri con i criteri stabiliti dal decreto
del Ministro dei lavori pubblici 2 dicembre 2000, n. 398, e applica le tariffe fissate in
detto decreto» con la precisazione, volta a calmierare i costi dell’arbitrato, che «sono
comunque vietati incrementi dei compensi massimi legati alla particolare complessità
delle questioni trattate, alle specifiche competenze utilizzate e all’effettivo lavoro
svolto».
Il legislatore del 2010, nella sua opera razionalizzatrice dell’arbitrato, ha poi stabilito
che «il compenso per il collegio arbitrale, comprensivo dell’eventuale compenso per il
segretario, non può comunque superare l’importo di 100 mila euro», così ponendo un
tetto massimo degli onorari e delle spese arbitrali. La Legge Anticorruzione è poi
ancora intervenuta sulla materia dei costi dell’arbitrato, come descritto in precedenza,
prevedendo compensi più bassi per gli arbitri-dirigenti pubblici v. supra § 7).
La regola generale è quella contenuta nell’art. 814 c.p.c. che disciplina l’arbitrato di
diritto comune, a norma della quale «gli arbitri hanno diritto al rimborso delle spese e
103 In base al nuovo art. 241, comma 15-ter, c.c.p. «quando sospende l’efficacia del lodo, o ne conferma
la sospensione disposta dal presidente, il collegio [della Corte d’appello] verifica se il giudizio è in
condizione di essere definito. In tal caso, fatte precisare le conclusioni, ordina la discussione orale nella
stessa udienza o camera di consiglio, ovvero in una udienza da tenersi entro novanta giorni
dall’ordinanza di sospensione; all’ udienza pronunzia sentenza a norma dell’ articolo 281-sexies del
codice di procedura civile. Se ritiene indispensabili incombenti istruttori, il collegio provvede su di essi
con la stessa ordinanza di sospensione e ne ordina l’assunzione in una udienza successiva di non oltre
novanta giorni; quindi provvede ai sensi dei periodi precedenti». Sono diversi i procedimenti normativi
a cui il presente «rito abbreviato», introdotto dal d.lgs. 53/2010, può essere accostato e ai quali si è
ispirato il legislatore. Tra gli altri, l’abrogato rito abbreviato societario, di cui all’ art. 24 del d.lgs.
5/2003, nonché i vari riti abbreviati del giudizio amministrativo che si ritrovano nel nuovo codice del
processo amministrativo.
dell’onorario per l’opera prestata» e sono gli stessi arbitri a provvedere direttamente
alla liquidazione delle spese e dell’onorario, liquidazione che le parti sono libere di
non accettare e «in tal caso l’ammontare delle spese e dell’onorario è determinato con
ordinanza [che è titolo esecutivo, a norma del comma successivo] dal presidente del
tribunale … su ricorso degli arbitri e sentite le parti» 104.
Sebbene non vi sia un espresso rinvio nelle norme del codice di rito dedicate
all’arbitrato, trovano applicazione gli artt. 91 e ss. c.p.c. sull’allocazione tra le parti
delle spese del procedimento arbitrale e degli altri costi (ivi compresi i costi sostenuti
dalle parti per la difesa), così sono gli arbitri che, nel lodo, stabiliscono la ripartizione
tra le parti dei propri onorari e delle spese del giudizio seguendo, generalmente, il
principio della soccombenza. Si tratta infatti di un principio cardine del processo
civile che, si ritiene, trovi applicazione anche nel processo arbitrale anzitutto perché il
più delle volte sono le parti stesse, nei propri scritti difensivi, a chiedere la condanna
della parte soccombente al pagamento degli onorari e di tutte le spese di giudizio 105.
Ma anche nel caso in cui ciò non accada, dottrina e giurisprudenza ritengono che gli
arbitri sono comunque tenuti a statuire sulla ripartizione delle spese dell’arbitrato
(nonché di quelle per la difesa tecnica) seguendo gli artt. 90 e ss. del libro primo del
codice di procedura civile e che il principio della soccombenza ha una portata
precettiva generale e, per tale ragione, è riferibile anche al procedimento arbitrale 106.
Nella pratica si è tuttavia affermata una diversa prassi secondo cui, in mancanza di un
diverso accordo delle parti, ciascuna parte, firmataria della convenzione arbitrale,
debba farsi carico delle proprie spese e della metà delle spese relative al
funzionamento dell’arbitrato, ovvero, della metà dei costi da sostenere per il
pagamento di compensi e spese di arbitri.
Per quanto riguarda poi il corrispettivo del segretario arbitrale107, così come quello
derivante da una eventuale consulenza tecnica d’ufficio108, si tratta di spese che
rientrano in quelle del funzionamento dell’arbitrato, seguendone il relativo regime
giuridico ex artt. 814 c.p.c.
Nell’arbitrato amministrato, è l’istituzione arbitrale preposta all’amministrazione
dell’arbitrato a liquidare gli onorari e le spese del giudizio arbitrale, comprensive dei
costi dell’istituzione stessa, secondo il proprio tariffario (che le parti hanno accettato
rinviando, nella convenzione arbitrale, al regolamento dell’istituzione di cui il
tariffario è parte integrante). In questo modo, si dice, l’istituzione arbitrale, quindi
Si veda, per tutti R. RUBINO SAMMARTANO, Costi, interessi e maggior danno, in M. RUBINO
SAMMARTANO (diretto da), Arbitrato, ADR, conciliazione, Zanichelli, 2009, p. 777 ss.; G. VERDE, Gli
arbitri, cit., 113 ss.; F. TIZI, I costi del processo arbitrale, cit., p. 578 ss.;
105 Così, R. RUBINO SAMMARTANO, Costi, interessi e maggior danno, cit., p. 803; G. VERDE, Gli arbitri, cit.,
p. 146. Cass., 20 febbraio 2004, n. 3383, in Dir. e Giur., 2004, p. 21, ritiene che al processo arbitrale
possano applicarsi i principi giurisprudenziali in tema di regolamento delle spese, ogni qualvolta le
parti abbiano concordato sull’applicazione all’arbitrato delle regole processuali civili.
106 Così G. RUFFINI, F. RAVIDÀ, Sub art. 814 c.p.c., in M. V. BENEDETTELLI, C. CONSOLO, L. G.
RADICATI DI BROZOLO, Commentario breve, cit., p. 148, dove si richiama ampia dottrina e
giurisprudenza. Si veda anche V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1964, p. 817.
107 V. Cass. civ. 12 giugno 2008, n. 15820, in Giust. civ., 2009, p. 1044 ss.; Cass. 16 maggio 2004, n.
10141, cit., p. 789. V. anche, in dottrina, F. TIZI, I costi dell’ arbitrato, cit. p. 590.
108 Così F. TIZI, I costi del processo arbitrale, cit., p. 590; Cfr. anche P. BERNARDINI, Arbitrato e consulenza
tecnica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 613 ss, spec p. 626.
104
l’arbitrato amministrato, impedendo l’autoliquidazione degli arbitri e sostituendosi ad
essi, controlla i costi dell’arbitrato109. La dottrina è concorde nel ritenere che la
determinazione ad opera dell’istituzione sia qualificabile come arbitraggio ex art. 1349
c.c.110. Quanto invece alla ripartizione tra le parti delle spese dell’arbitrato, la regola si
può trovare nel regolamento arbitrale dell’istituzione prescelta.
Se questi sono i «principi generali» in materia di costi dell’arbitrato di diritto comune
e dell’arbitrato amministrato, il Codice dei contratti pubblici detta ulteriori regole che,
talvolta, derogano alla disciplina di diritto comune.
Nell’arbitrato libero di cui all’art. 241 c.c.p., è il collegio arbitrale a liquidare il
compenso e le spese del giudizio arbitrale, applicando, come anticipato, le tariffe di
cui al D.M. 398/2000. Prima del d.lgs. 53/2010, l’ordinanza di liquidazione del
compenso, accettata dalle parti (perché comunque trovava applicazione la disciplina
ordinaria di cui all’art. 814 c.p.c. per l’arbitrato di diritto comune)111, costituiva «titolo
esecutivo». Il d.lgs. 53/2010 è intervenuto anche su questo aspetto del procedimento
arbitrale, rimuovendo l’efficacia di titolo esecutivo del provvedimento di liquidazione
del compenso e delle spese arbitrali e attribuendogli quella di «titolo per l’ingiunzione
di cui all’articolo 633 del codice di procedura civile». Così gli arbitri sono privati di un
titolo esecutivo – col quale, in precedenza, potevano, alternativamente al
procedimento ex art. 814 c.p.c., intraprendere l’esecuzione forzata per ottenere il loro
compenso-credito, fermo restando che le parti avrebbero potuto reagire con
l’opposizione – ma potranno agire solamente per via del procedimento di cui all’art.
814 c.p.c. o in via monitoria 112.
Lo stesso decreto del 2010 ha introdotto una specificazione, che ha risolto
definitivamente i dubbi sull’applicazione, al procedimento arbitrale, degli artt. 91 ss.
c.p.c., affermando il nuovo comma 12-bis che «salvo quanto previsto dall’articolo 92,
secondo comma, del codice di procedura civile, il collegio arbitrale, se accoglie
parzialmente la domanda, compensa le spese del giudizio in proporzione al rapporto
tra il valore della domanda e quello dell’accoglimento».
Nell’arbitrato amministrato di cui all’art. 243 c.c.p. è la Camera arbitrale a
determinare il corrispettivo dovuto dalle parti, su proposta formulata degli arbitri, in
base, anche qui, alle tariffe allegate al D.M. 398/2000. Come nell’arbitrato di diritto
comune, la determinazione effettuata dalla Camera arbitrale è un atto di arbitraggio ex
art. 1349 c.c., impugnabile nei limiti consentiti dalla norma codicistica innanzi al
giudice ordinario, e non un provvedimento amministrativo impugnabile innanzi al
giudice amministrativo, essendo, quello tra parti, arbitri e Camera arbitrale, un
Così S. AZZALI, L’arbitrato amministrato e l’arbitrato ad hoc, in G. ALPA (a cura di), L’arbitrato: profili
sostanziali, Torino, 1999, p. 50.
110 V. A. BRIGUGLIO, in A. BRIGUGLIO, E. FAZZALARI, M. MARENGO, La nuova disciplina dell’ arbitrato,
cit., p. 88; R. CAPONI, L’ arbitrato amministrato dalle Camere di commercio in Italia, cit., p. 683; C. PUNZI,
Disegno sistematico dell’ arbitrato, cit., p. 412; F. TIZI, I costi del processo arbitrale, cit., p. 585.
111 E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., p. 267
112 Così, E. ODORISIO, L’ arbitrato nel codice dei contratti pubblici, cit., pp. 267-268.
109
rapporto privatistico (che si articola in un contratto d’arbitrato da un alto e in un
contratto di amministrazione d’arbitrato dall’altro) 113.
D. BORGHESI, Il regolamento di procedura della Camera arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 951; M.
CORSINI, L’ arbitrato, cit., p. 3833 ss.; F.P. LUISO, La Camera arbitrale per i lavori pubblici, cit., p. 423. Così
anche Cass. 1 luglio 2008, n. 17930, in Riv. arb., 2008, p. 239 ss., che ha cassato Con. di Stato, 10
marzo 2005, n. 1008, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
113
PARTE III
L’accordo bonario ex art. 240 Codice degli appalti: la transazione
nelle forme dell’arbitrato
di Davide Paris
SOMMARIO: 1. La ratio dell’istituto e la sua attuale disciplina. – 2. I principali
nodi interpretativi, le distorsioni dell’istituto nella prassi e i possibili rimedi.
1. La ratio dell’istituto e la sua attuale disciplina
L’accordo bonario previsto dall’art. 240 del d.lgs n. 163/2006 (cd. Codice degli
appalti), è un istituto di carattere transattivo finalizzato principalmente a evitare,
attraverso una rapida composizione stragiudiziale, il ricorso alla giustizia ordinaria o a
quella arbitrale per le controversie che insorgono nella fase dell’esecuzione di un
appalto di lavori pubblici.
Esso trova il suo precedente più prossimo nell’art. 31-bis della legge n. 109/1994, che
riconosceva tuttavia al responsabile del procedimento un ruolo centrale nella
formulazione della proposta di accordo bonario, acquisita la relazione del direttore
dei lavori e sentito l’affidatario.
Il salto qualitativo si compie con la legge n. 166/2002, che sottrae al responsabile del
procedimento, organo interno all’amministrazione, il compito di formulare la
proposta di accordo bonario e lo affida a un’apposita commissione composta da tre
membri, nominati il primo dal responsabile del procedimento, il secondo dall’impresa
appaltatrice o concessionaria ed il terzo, di comune accordo, dai componenti già
designati. Con ciò il legislatore ha inteso avvicinare quanto più possibile l’accordo
bonario alle forme dell’arbitrato, pur mantenendo espressamente l’istituto sui binari
dell’accordo transattivo, poiché decisiva rimane comunque la volontà della stazione
appaltante e dell’appaltatore di accettare la proposta formulata dalla commissione114.
In sostanza, la legge disciplina in maniera assai dettagliata le modalità con cui deve
svolgersi l’obbligatorio tentativo di definizione bonaria della controversia, attraverso
regole procedurali che, da una parte mirano a garantire le maggiori possibilità di
successo alla soluzione transattiva quando questa non sia categoricamente esclusa da
una delle parti, dall’altra tendono in ogni caso a garantire che le trattative in ordine
alle concessioni reciproche siano contenute entro un tempo limitato, decorso il quale
114 Prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 166, invece, non essendo la proposta formulata da
un soggetto in posizione di terzietà rispetto alle parti, bensì dal responsabile del procedimento, era
coretto qualificare la procedura in esame come “una sorta di risoluzione in via amministrativa delle
riserve” piuttosto che come un tentativo di conciliazione (così P. PISELLI, La risoluzione delle controversie
con particolare riferimento all’accordo bonario, in Riv. trim. app., 1996, 222).
si apre per la parte che ne abbia interesse la possibilità di adire gli arbitri o il giudice
ordinario.
L’istituto è infine confluito, con alcune modifiche, nell’art. 240 del Codice degli
appalti ed è stato successivamente oggetto di alcuni ulteriori “ritocchi”, ad opera della
l. n. 244/2007, del d.lgs. n. 53/2010 e del d.l. n. 70/2011115.
Il comma 1 e il comma 22 delimitano il campo di applicazione dell’istituto:
la procedura di accordo bonario trova applicazione essenzialmente nei
contratti pubblici relativi a lavori nei settori ordinari, “affidati da amministrazioni
aggiudicatrici ed enti aggiudicatori, ovvero dai concessionari”;
i contratti di lavori relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti
produttivi affidati a contraente generale sono stati invece espressamente esclusi dal
d.l. 70/2011;
nei contratti relativi a servizi e a forniture nei settori ordinari e nei contratti di
lavori, servizi, forniture nei settori speciali le disposizioni di cui all’art. 240 si
applicano “in quanto compatibili” e, in tal caso, le competenze del direttore dei lavori
spettano al direttore dell’esecuzione del contratto.
Il presupposto per l’attivazione della procedura di accordo bonario è rappresentato
dall’iscrizione di riserve sui documenti contabili in grado di far variare l’importo
dell’opera “in maniera significativa” e comunque non inferiore al 10% dell’importo
contrattuale. Il responsabile del procedimento, che, come si è accennato, ha perso
con la legge n. 166/2002 il ruolo centrale che inizialmente aveva nella definizione
della proposta di accordo bonario, mantiene tuttavia un ruolo determinante nella fase
di avvio della procedura stessa. Ricevuta la comunicazione da parte del direttore dei
lavori dell’iscrizione di riserve per un ammontare superiore alla soglia del 10%, egli
deve infatti:
a) valutare l’ammissibilità e la non manifesta infondatezza delle riserve iscritte ai fini
dell’effettivo raggiungimento del limite di valore116. Con ciò il responsabile del
procedimento ha una decisiva responsabilità nello scegliere se attivare o meno la
115 Per una dettagliata ricostruzione dell’evoluzione legislativa dell’istituto, aggiornata alla legge
finanziaria per il 2008, v. D. GIACOBBE, L’evoluzione legislativa in tema di accordo bonario nell’appalto di opere
pubbliche, in Giust. civ., 2008, 7-8, 359 ss.
116 La valutazione sull’ammissibilità e non manifesta infondatezza delle riserve non era inizialmente
prevista nell’art. 31 bis l. n. 109/1994 ed è stata introdotta dall’art. 149 del regolamento attuativo
(D.P.R. n. 554/1999). In dottrina non si è mancato di sottolineare la problematicità dell’introduzione
di questo requisito con fonte secondaria, in contraddizione con la disposizione legislativa che fa
riferimento al mero raggiungimento della soglia del 10%, e si è proposta una lettura restrittiva della
norma regolamentare affermando che, ai fini dell’avvio della procedura è necessario «avere riferimento
alla sola valutazione economica delle riserve, prescindendo del tutto sia dalla loro ammissibilità, sia
dalla loro fondatezza, che saranno oggetto di apprezzamento e considerazione ai fini del contenuto
della proposta» (P. CARBONE, Brevi considerazioni sull’accordo bonario per la definizione delle controversie
nell’esecuzione di opere pubbliche, in Riv. trim. app., 2000, 475). Ciò sul presupposto che «la ratio della
disposizione è quella di risolvere – o quanto meno tentare di risolvere – le controversie in corso
d’opera, evitando che esse possano rappresentare per le stazioni appaltanti delle pesanti
sopravvenienze passive e veri e propri debiti occulti fuori bilancio» e tale finalità è meglio soddisfatta
dall’immediata attivazione della procedura, indipendentemente da valutazioni sull’ammissibilità e sulla
fondatezza, che verranno invece esaminate nella fase di merito (477). Il punto è stato poi risolto, in
senso contrario, dal d.lgs. n. 163/2006, che ha attribuito rango legislativo alle disposizioni inizialmente
introdotte con fonte regolamentare.
procedura, ben potendo, anche in presenza di riserve per un ammontare superiore a
quello stabilito come valore soglia, negare l’avvio della procedura qualora ritenga che
le pretese dell’appaltatore siano pretestuosamente sollevate al solo fine di ottenere un
determinato vantaggio economico, lucrando sulla necessità dell’amministrazione
pubblica di non affrontare il rischio di una lunga sospensione dei lavori, oppure
qualora ritenga che, accanto a pretese non manifestamente infondate di valore
inferiore alla soglia, l’appaltatore ne abbia aggiunte altre prive di fondamento al solo
scopo di raggiungere la soglia per l’attivazione della procedura di accordo bonario.
Come meglio si dirà, peraltro, tale vaglio non sembra sinora aver dato prova di
particolare efficacia nell’evitare un uso distorto del procedimento;
b) promuovere la costituzione della commissione incaricata di formulare la proposta
di accordo bonario entro 30 giorni dalla comunicazione del direttore dei lavori; più
specificamente, il responsabile del procedimento, entro 10 giorni dal ricevimento
della comunicazione del direttore dei lavori deve nominare il proprio componente e
invitare la parte che ha iscritto le riserve a fare altrettanto. Il terzo componente è
scelto di comune accordo dai due componenti già nominati, entro dieci giorni dalla
nomina del secondo componente;
c) acquisire la relazione riservata del direttore dei lavori e, ove costituito, dell’organo
di collaudo, che vengono messe a disposizione della commissione.
La legge stabilisce alcuni requisiti e cause ostative all’assunzione dell’incarico comuni
a tutti e tre i membri: essi devono avere «competenza specifica in relazione
all’oggetto del contratto» e non devono trovarsi in una delle situazioni previste
dall’art. 51 c.p.c., che disciplina le cause di astensione del giudice, né in una situazione
di incompatibilità ai sensi dell’art. 241, c. 6 Codice degli appalti, che, oltre a
richiamare le cause di ricusazione degli arbitri previste dal codice di procedura civile
(art. 815), esclude la nomina ad arbitro per «coloro che abbiano compilato il progetto
o dato parere su di esso, ovvero diretto, sorvegliato o collaudato i lavori, i servizi, le
forniture cui si riferiscono le controversie, né coloro che in qualsiasi modo abbiano
espresso un giudizio o parere sull’oggetto delle controversie stesse».
Inoltre requisiti specifici sono previsti per il componente nominato dal responsabile
del procedimento e per il terzo nominato di comune accordo, il quale assume anche
le funzioni di presidente della commissione. Quanto al primo la legge richiede che si
tratti di un soggetto interno alla pubblica amministrazione: deve infatti essere
nominato «nell’ambito dell'amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore o
di altra pubblica amministrazione in caso di carenza dell’organico». Per quanto
riguarda invece il presidente, la legge mira a garantirne la competenza e l’imparzialità,
vincolando i due membri nominati a sceglierlo fra le seguenti categorie:
- magistrati amministrativi o contabili;
- avvocati dello Stato;
- componenti del Consiglio superiore dei lavori pubblici;
- dirigenti di prima fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che abbiano svolto le
funzioni dirigenziali per almeno cinque anni;
avvocati e tecnici in possesso del diploma di laurea in ingegneria ed
architettura, iscritti ai rispettivi ordini professionali in possesso dei requisiti richiesti
che l’art. 241, comma 5, Codice degli appalti richiede per la nomina a presidente del
collegio arbitrale.
Come è agevole notare, le modalità di nomina della commissione e i requisiti per
farne parte avvicinano notevolmente l’istituto alla figura dell’arbitrato, alla cui
disciplina in alcuni punti si fa rinvio.
La commissione, che dispone della relazione riservata del direttore dei lavori e, ove
costituito, dell’organo di collaudo, ha tempo 90 giorni, che decorrono dal momento
della sua costituzione117, per formulare una proposta di accordo bonario, sulla quale
le due parti si pronunciano entro trenta giorni dal ricevimento. Nell’intento di non
irrigidire inutilmente la procedura, la legge non detta nessuna indicazione sulle
modalità di lavoro della commissione, che rimane così libera di organizzare come
meglio ritiene il proprio operato, fermo restando il termine dei 90 giorni118.
Se l’accordo viene accettato, ne viene data comunicazione al responsabile del
procedimento, che ne redige il verbale, sottoscritto dalle parti: all’accordo bonario
accettato è espressamente riconosciuta la “natura di transazione” e sulla somma
riconosciuta decorrono gli interessi al tasso legale a partire dal sessantesimo giorno
dalla sottoscrizione.
Se invece l’accordo non si perfeziona è possibile adire gli arbitri o il giudice ordinario,
con la garanzia che “le dichiarazioni e gli atti del procedimento non sono vincolanti
per le parti in caso di mancata sottoscrizione dell’accordo bonario”.
L’art. 240 si preoccupa di dettare una minuziosa scansione temporale della procedura
con l’obiettivo di evitare che uno strumento finalizzato a favorire una rapida
composizione stragiudiziale delle controversie possa finire per determinare esso
stesso un allungamento dei tempi di esecuzione dell’opera: nel complesso, la
procedura non può protrarsi oltre i 150 giorni, risultanti dalla somma del termine per
la costituzione della commissione (30 giorni), per la conclusione dei lavori della stessa
(90 giorni) e per la valutazione della proposta da parte delle parti (30 giorni)119.
Ancorché si tratti di termini aventi carattere ordinatorio, la legge ricollega al loro
inutile decorso una serie di conseguenze finalizzate tanto a garantirne il rispetto
attraverso la minaccia di una sanzione, quanto ad escluderne un effetto paralizzante
sul corso dei lavori. Ciò è il frutto di progressivi interventi normativi che hanno
risposto a una preoccupazione evidenziata anche dall’Autorità di vigilanza sui lavori
pubblici, che a seguito di un monitoraggio della risoluzione bonaria delle controversie
117 Il termine di 90 giorni decorreva inizialmente dalla data di apposizione dell’ultima riserva: come
sottolineato in dottrina (P. CARBONE, A. BELLETTI, L’accordo bonario dopo le modifiche apportate dalla legge
1° agosto2002, n. 166 all’art. 31 bis della legge quadro in materia di lavori pubblici, in Riv. trim. app., 2003, 63 s.)
trattavasi di un termine irrealistico che, paradossalmente, poteva spirare ancor prima della costituzione
della commissione. Opportunamente il d.lgs. n. 53/2010 ha fatto decorrere il termine dalla data di
costituzione della commissione.
118 Cfr. P. CARBONE, A. BELLETTI, op. cit., 60.
119 Il procedimento può tuttavia protrarsi per un tempo più lungo qualora insorgano difficoltà nella
costituzione della commissione; ad esempio quando non vi sia accordo sulla nomina del terzo
componente e questo venga nominato dal presidente del tribunale competente su istanza della parte
più diligente.
nel vigore del precedente art. 31-bis l. 109/1994, aveva rilevato che, se i termini
previsti dalla legge hanno carattere ordinatorio, «un superamento consistente dei
medesimi svilisce la natura stessa dell’accordo bonario volto ad accelerare il
contenzioso in materia di opere pubbliche attraverso un meccanismo di conciliazione
avente natura negoziale che si contrappone alla risoluzione in via amministrativa»120.
In particolare:
- se il soggetto che ha formulato le riserve non provvede alla nomina del proprio
componente entro 20 giorni dalla richiesta, la proposta di accordo bonario viene
formulata dal responsabile del procedimento, anziché dalla commissione, entro il più
breve termine di 60 giorni;
- se non viene rispettato il termine di 10 giorni per la nomina di comune accordo
del presidente della commissione, alla sua nomina provvede, su istanza della parte più
diligente, il presidente del tribunale del luogo dove è stato stipulato il contratto;
- se non viene rispettato il termine di 30 giorni per la costituzione della
commissione a causa di ritardi negli adempimenti da parte del responsabile del
procedimento, questi risponde sia sul piano disciplinare, sia a titolo di danno
erariale121;
- qualora sia la commissione a non rispettare il termine di 60 giorni per la
formulazione della proposta, questa perde il diritto al compenso stabilito dal comma
10122;
infine, se le parti non si pronunciano entro 30 giorni sulla proposta di accordo,
ancorché non decadano dalla facoltà di accettare successivamente la medesima
proposta, tuttavia è consentito l’accesso alla giustizia arbitrale o alla giustizia
ordinaria, come nel caso di fallimento dell’accordo.
La procedura così descritta è finalizzata a definire tutte le riserve sino a quel
momento iscritte e, superando alcune incertezze della precedente formulazione123, il
comma 2 chiarisce che è possibile reiterare la procedura una sola volta, quando
riserve ulteriori e diverse da quelle già esaminate raggiungano il valore soglia.
Accanto a questa procedura ordinaria, l’art. 240 prevede alcune varianti:
- per gli appalti e le concessioni inferiori a 10 milioni la costituzione della
commissione non è obbligatoria, bensì facoltativa: il responsabile del procedimento
può scegliere se nominare la commissione (con facoltà di parteciparvi, quale
componente nominato dalla stazione appaltante) oppure di formulare egli stesso la
proposta di accordo bonario nel termine di 60 giorni;
Cfr. Determinazione 5 dicembre 2001, n. 22.
Nella stessa responsabilità incorre qualora non rispetti il termine di 60 giorni previsto per la
formulazione della proposta, quando l’appaltatore non abbia nominato il proprio componente della
commissione.
122 Ai sensi del comma 10, “i compensi spettanti a ciascun membro della commissione sono
determinati dalle amministrazioni e dagli enti aggiudicatori nella misura massima di un terzo dei
corrispettivi minimi previsti dalla tariffa allegata al decreto ministeriale 2 dicembre 2000, n. 398, oltre
al rimborso delle spese documentate. Il compenso per la commissione non può comunque superare
l’importo di 65 mila euro, da rivalutarsi ogni tre anni con decreto del Ministro dell'economia e delle
finanze, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”.
123 Cfr. P. CARBONE, A. BELLETTI, op. cit., 31 ss.
120
121
- è riconosciuta alle parti la facoltà di riconoscere alla commissione il potere di
assumere decisioni vincolanti per le stesse: chiaramente si esce in questo caso dallo
schema della transazione, dando vita «a un sorta di arbitrato irrituale, ovvero di
mandato a transigere»124;
- infine, nei contratti di importo pari o superiore a 10 milioni, la procedura è
sempre attivata dal responsabile del procedimento entro trenta giorni dal ricevimento
del certificato di collaudo o di regolare esecuzione, «indipendentemente dall’importo
economico delle riserve ancora da definirsi»: in sostanza, accanto alla possibilità di
attivare la procedura di accordo bonario per un massimo di due volte nel corso
dell’esecuzione dei lavori, a condizione che si raggiunga il valore soglia del 10%
dell’importo dell’opera, l’accordo bonario si pone come passaggio obbligato al
termine dell’esecuzione dei lavori, per cercare di definire tutte le controversie ancora
aperte, indipendentemente dal loro valore.
2. I principali nodi interpretativi, le distorsioni dell’istituto nella prassi e i
possibili rimedi
Un primo problema interpretativo, che può considerarsi oggi arrivato a soluzione, è
rappresentato dal carattere “riservato”, quindi sottratto al diritto di accesso da parte
dell’appaltatore, della relazione del direttore dei lavori e, ove costituito, dell’organo di
collaudo. Tali relazioni sono state espressamente qualificate come “riservate” dall’art.
31-bis della legge 109/1994 e dal regolamento attuativo emanato con D.P.R. n.
554/1999. Di tale qualifica non v’è tuttavia traccia nella legge n. 166/2002, mentre
nuovamente il Codice degli appalti afferma il carattere riservato delle relazioni in
esame.
Nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, la questione ha dato luogo a una serie di
pronunce contrastanti. Singolarmente, prima dell’entrata in vigore della legge n. 166
alcune sentenze avevano riconosciuto l’accesso alla relazione riservata, superando il
dato testuale della legge e del regolamento di attuazione espressamente orientato in
senso opposto125; al contrario, successivamente alla legge n. 166, che non qualificava
più come riservata la relazione, il Consiglio di Stato si è espresso nel senso di
escluderne l’accesso, anche in questo caso a dispetto della (mutata) lettera della
legge126.
Sul punto è infine intervenuta l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato127, che ha
avallato quell’orientamento che considera “insignificante” il mancato richiamo da
parte della legge n. 166 al carattere “riservato” della relazione: pertanto le relazioni
del direttore dei lavori e dell’organo di collaudo erano riservate, lo sono rimaste nel
vigore della legge n. 166 e lo sono a maggior ragione ora che la legge nuovamente le
qualifica tali, poiché si tratta, afferma l’Adunanza plenaria, di documenti che hanno la
P. CARBONE, A. BELLETTI, op. cit., 62.
Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11 dicembre 1996, n. 1744; sez. IV, 10 dicembre 1998, n. 1771 e sez. IV,
27 aprile 1999, n. 743.
126 Cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 aprile 2005, n. 1916.
127 Cons. Stato, ad. plen, 13 settembre 2007, n. 11.
124
125
finalità «di offrire alla stazione appaltante il resoconto delle vicende relative
all’esecuzione dei lavori appaltati» e che pertanto non rispondono all’interesse di
entrambe le parti, bensì sono finalizzate all’ «esclusivo sostegno dell’amministrazione
che si opponga alle richieste dell’appaltatore». Il carattere riservato delle relazioni in
esame, quindi, si inquadra fra quei casi in cui la pubblica amministrazione può
«negare l’accesso, per tutelare se stessa di fronte al privato che intenda accedere ad
atti interni che riguardino la sfera delle libere valutazioni dell’amministrazione in
ordine alla convenienza delle scelte da adottare».
Per quel che qui maggiormente interessa, è utile sottolineare come, nella pronuncia
citata, l’Adunanza plenaria sia conscia della necessità di esaminare la questione alla
luce della novità introdotta dalla legge n. 166 e recepita dal Codice degli appalti, per
cui la proposta di accordo bonario è formulata dall’apposita commissione e non più
dal responsabile del procedimento. Non è infatti fuori luogo domandarsi se abbia
senso mantenere il carattere riservato di tale relazione quando essa deve
necessariamente essere acquisita dalla commissione, di cui fa parte un membro
nominato dall’appaltatore stesso, ciò che fa sì che inevitabilmente il soggetto che ha
formulato le riserve venga a conoscenza della relazione. Sul punto l’Adunanza
plenaria rimarca tuttavia sottolinea che «la conoscenza indiretta che l’appaltatore
possa eventualmente acquisire del contenuto delle relazioni tramite il proprio
rappresentante in seno alla Commissione per l’accordo bonario, non equivale certo
alla disponibilità materiale dei relativi documenti che caratterizza e qualifica il diritto
di accesso».
Venendo ad esaminare l’applicazione concreta che l’istituto dell’accordo bonario ha
avuto nella prassi, occorre ricordare che un’indagine dell’Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici ha rilevato una diffusa applicazione distorta della procedura di
accordo bonario, che ne snatura il carattere di strumento eccezionale rispetto
all’ordinaria trattazione delle riserve al momento del collaudo finale128. In particolare,
emergono dalle osservazioni dell’Autorità di vigilanza due possibili usi distorti
dell’accordo bonario.
In primo luogo, esso viene frequentemente utilizzato da parte dell’impresa
appaltatrice come strumento ordinario per ottenere il soddisfacimento di pretese
economiche ulteriori a quanto pattuito, facendo leva sulla necessità della stazione
appaltante di evitare l’allungamento certo dei tempi di realizzazione dell’opera che
consegue a un’azione giurisdizionale. Vengono così iscritte riserve per somme
nettamente superiori ai costi effettivamente sostenuti in modo da poter dare avvio
alla procedura, salvo poi “accontentarsi” in sede di accordo bonario di una cifra
decisamente inferiore a quanto richiesto. A riprova di questo uso distorto, l’Autorità
di vigilanza rileva che nella quasi totalità degli accordi esaminai nel periodo 19992004 l’importo riconosciuto è compreso fra un decimo e un terzo di quanto richiesto,
che in molti accordi la stazione appaltante dichiara di procedere «soltanto per evitare
che il contenzioso si prolunghi ulteriormente a danno dell’amministrazione» e che
Cfr. Determinazione n. 5 del 30 maggio 2005. Più recentemente, in termini analoghi, v. l’audizione
presso la Commissione II e VII della Camera dei deputati dell’Autorità di vigilanza su atto di governo
n. 167, intervento del presidente Giampaolino, § 6, 11 febbraio 2010, in www.autoritalavoripubblici.it.
128
può infine stabilirsi una «stretta relazione tra il ricorso all’accordo bonario ed il forte
ribasso (in genere superiore al 20%) offerto in sede di gara», al punto che l’accordo
bonario diventa lo strumento per recuperare, almeno in parte, il ribasso offerto.
Un secondo uso distorto dell’istituto consiste invece nel suo utilizzo per far fronte a
cause impreviste e imprevedibili o errori o omissioni del progetto esecutivo che
emergano nel corso dei lavori: in questo caso è frequente che si ricorra all’accordo
bonario anziché allo strumento della variante in corso d’opera previsto dal Codice
degli appalti per queste situazioni (art. 132).
Per limitare le segnalate degenerazioni dell’istituto, non sembra essere percorribile
altra strada che quella di valorizzare il controllo del responsabile del procedimento
sull’ammissibilità e non manifesta infondatezza delle riserve iscritte ai fini
dell’attivazione del procedimento di accordo bonario.
Secondo l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, per “ammissibilità” deve intendersi
«la iscrizione delle riserve secondo le modalità e nei termini prescritti dall’art. 165» del
regolamento attuativo129. Centrale sotto questo aspetto è il controllo sulla
tempestività dell’iscrizione della riserva, rispetto al quale giova ricordare due principi
che emergono dall’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte di
cassazione130:
1) «l’appaltatore, ove intenda contestare la contabilizzazione dei corrispettivi
effettuata dall’amministrazione, ovvero avanzare pretese di maggiori compensi,
indennizzi e risarcimenti, a qualsiasi titolo, è tenuto, … sotto la comminatoria della
decadenza, ad iscrivere apposita riserva nel registro di contabilità, o in altri documenti
esponendo, nel modo e nei termini indicati dalla legge, gli elementi atti ad individuare
la sua pretesa nel titolo e nella somma, nonché a confermare la suddetta riserva
all’atto della sottoscrizione del conto finale»;
2) l’onere di iscrivere la riserva «insorge quando emerga la concreta idoneità del fatto
a produrre i suddetti pregiudizi o esborsi: e quindi anche con riferimento a quelle
situazioni di non immediata portata onerosa, la potenzialità dannosa delle quali si
presenti, peraltro, già dall’inizio obbiettivamente apprezzabile, secondo criteri di
media diligenza e di buona fede dall’interessato, sicché possa ritenersi che questi
disponga di dati sufficienti per segnalare alla parte committente il presumibile
maggiore esborso che essa deve prepararsi ad affrontare, salvo poi a precisare l’entità
di tale esborso nelle registrazioni successive o in sede di chiusura del conto finale».
Quanto alla non manifesta infondatezza, si richiede invece «una sommaria
valutazione dei presupposti di fatto e di diritto posti a fondamento delle riserve».
Manifestamente infondata è in primo luogo, come già accennato, la pretesa di
ricorrere all’accordo bonario anziché alla variante in corso d’opera, disciplinata ex art.
132 del Codice degli appalti. Ugualmente, nemmeno la variante in corso d’opera deve
prendere il posto dell’accordo bonario: al riguardo l’Autorità di vigilanza sui lavori
pubblici ha sottolineato l’illegittimità delle perizie di variante redatte al fine di recepire
le richieste dell’impresa a seguito di definizione di accordo bonario sottoscritto dalle
D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, oggi abrogato e sostituito dal D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, di
cui v. l’art. 190.
130 Così Cass. civ., sez. VI, 13 settembre 2010, n. 19499, con ampi richiami alla propria giurisprudenza.
129
parti. In particolare, «non devono essere inserite nelle perizie di variante precedute
dalla sottoscrizione di accordo bonario categorie di lavoro contemplanti specifiche
lavorazioni e/o magisteri o sovrapprezzi in qualche modo riferiti alla quota parte di
riserve e/o domande dell’impresa che risultano essere state respinte dalla stazione
appaltante in sede di sottoscrizione dell’accordo bonario»131.
Al di là di questi casi di uso improprio dello strumento dell’accordo bonario per
finalità che non gli appartengono, il controllo sulla non manifesta infondatezza è
estremamente importante per evitare che l’appaltatore possa disporre della facoltà di
attivare la procedura anche in difetto del presupposto del raggiungimento della soglia
del 10%, iscrivendo riserve del tutto pretestuose: se le pretese avanzate
dall’appaltatore risultano prima facie del tutto prive di fondamento è doveroso da parte
della stazione appaltante non dare corso alla procedura e definire le eventuali riserve
non manifestamente infondate al termine dei lavori.
Ciò porta a chiedersi a quale giudice possa ricorrere l’appaltatore quando il
responsabile del procedimento non attivi d’ufficio la procedura di accordo bonario
ritenendo inammissibili o manifestamente infondate le pretese espresse nelle riserve
iscritte, oppure non risponda o risponda negativamente a un’istanza di accordo
bonario proposta dell’appaltatore. Parte della dottrina ritiene che l’appaltatore,
trovandosi in una situazione di interesse legittimo al rispetto da parte
dell’amministrazione della disposizione che impone l’attivazione della procedura,
dovrebbe impugnare il diniego di fronte al giudice amministrativo affinché ne dichiari
l’illegittimità132. È certamente preferibile, tuttavia, anche in considerazione del fatto
che il giudice amministrativo potrebbe solamente obbligare la pubblica
amministrazione all’attivazione della procedura di accordo bonario, la tesi che
afferma invece la possibilità di rivolgersi immediatamente all’autorità giudiziaria
ordinaria o agli arbitri, equiparando la mancata attivazione della procedura con il
fallimento del tentativo di accordo bonario133.
Da quanto detto emerge come, pur se con le modifiche introdotte dalla l. n.
166/2002 la pubblica amministrazione è ormai “parte” più che “arbitro” nel
procedimento di accordo bonario, il ruolo del responsabile del procedimento rimane
tuttora centrale ed essenziale per garantire che l’istituto risponda effettivamente alle
finalità che gli sono proprie. Occorre al riguardo ricordare che, in dottrina, si è da
subito sottolineato come l’accordo bonario non sia finalizzato ad una mera
Deliberazione 16 luglio 2002, n. 205.
Cfr. R. DE NICTOLIS, Il nuovo contenzioso in materia di appalti pubblici, Milano, 2007, 30.
133 Cfr. P. CARBONE, op. cit., 481 s.; P. DE LISE, Commento all’art. 31 bis, l. Merloni, in Commento alla legge
quadro sui lavori pubblici fino alla «Merloni ter», a cura di L. GIAMPAOLINO, M.A. SANDULLI, G.
STANCANELLI, Milano, 1999, 529. In tema, seppur senza affrontare precisamente la questione qui
segnalata, v. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2007, n. 5274, che configura il tentativo di accordo bonario ex
art. 31 bis l. 109/1994 come un passaggio che deve precedere il ricorso al procedimento arbitrale,
determinando «una causa di temporanea improcedibilità», ma a condizione che «sia rispettata la
scansione temporale indicata dalla norma», e quindi a condizione che la pubblica amministrazione dia
tempestivamente avvio al procedimento di accordo bonario; T.A.R. Reggio Calabria, 12 settembre
2008, n. 1211, che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo rispetto a un ricorso
proposto per l’annullamento del silenzio rifiuto formatosi su un’istanza di avvio del procedimento di
accordo bonario, poiché la posizione dell’impresa ricorrente deve qualificarsi come diritto soggettivo e
non come interesse legittimo.
131
132
accelerazione dei tempi in materia di contenzioso, ma risponda anche all’esigenza di
«una maggiore responsabilizzazione di tutti i soggetti che intervengono nell’iter per la
realizzazione di un’opera o di un lavoro pubblico», richiedendo all’amministrazione
“una presenza attiva nel contratto”, che consenta di tenere costantemente sotto
controllo la spesa134. È a questa responsabilità attiva della pubblica amministrazione
che occorre fare appello per evitare le distorsioni applicative dell’istituto che,
purtroppo e come si è visto, risultano assai frequenti nella prassi; e ciò vale, è utile
ricordarlo, non solo nella fase in cui insorgono le contestazioni espresse con le
riserve, ma anche nelle fasi precedenti all’esecuzione del contratto, che possono
essere determinanti per prevenire l’insorgere successivo di situazioni tali da rendere
inevitabile il ricorso alla procedura di accordo bonario135.
P. PISELLI, op. cit., 209 s. e 220.
Cfr., a questo riguardo, la deliberazione n. 249 del 17 settembre 2003 dell’Autorità di vigilanza, che,
al punto 8, afferma: «Tenuto conto che tra le cause principali che generano l’instaurarsi di controversie
tra le Stazioni Appaltanti e i soggetti esecutori dei lavori, vi sono gli errori progettuali, conseguenti
all’inadeguata valutazione dello stato di fatto, si richiama l’importanza dell’attività del Responsabile del
Procedimento che, in sede di validazione del progetto esecutivo (art. 47 del DPR 554/99), in
contraddittorio con le parti, verifica la conformità dello stesso alla normativa vigente e al documento
preliminare della progettazione (redatto ai sensi dell'art. 15, comma 4 del DPR 554/99), accerta la
completezza e l’esistenza di tutti gli elaborati (disegni, indagini, computi), nonché l’acquisizione di tutte
le approvazioni ed autorizzazioni necessarie a consentire l’immediato inizio dei lavori (art. 47, comma
2 del DPR 554/99)».
134
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