CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
hgfhfghg
PATHOLOGICA 2004;96:197-200
Tumori rari e lesioni pseudotumorali dei tessuti molli
Moderatori: A.P. Dei Tos (Treviso) e A. Franchi (Firenze)
Neoplasie mesenchimali a differenziazione
osteocartilaginea
A. Franchi
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università
di Firenze
Si tratta di un gruppo di neoplasie dei tessuti molli di rara osservazione, che possono essere definite come proliferazioni
nelle quali le cellule tumorali producono matrice cartilaginea, e come proliferazioni nelle quali le cellule lesionali producono matrice osteoide o ossea, in assenza di altre linee differenziative. Questo gruppo di lesioni offre innanzitutto a
considerare alcune problematiche di ordine generale riguardo
il loro inquadramento. Un primo aspetto controverso è rappresentato dalla assenza di criteri per definire precisamente la
matrice cartilaginea e la matrice osteoide, e dalla difficoltà
che spesso esiste nel distinguere questo tipo di matrice da simulatori, come la matrice condroide, che troviamo ad esempio nel lipoma condroide, o il collageno ialino che simula l’aspetto dell’osteoide e che possiamo riscontrare in numerosi
sarcomi dei tessuti molli. Un secondo aspetto che deve essere discusso riguarda la distinzione delle neoplasie mesenchimali a differenziazione ossea e cartilaginea dalle lesioni dei
tessuti molli che possono presentare formazione di matrice
ossea e/o cartilaginea di significato metaplastico, quali ad
esempio i tumori di tipo adiposo, il sarcoma sinoviale, il sarcoma epitelioide, il tumore a cellule giganti dei tessuti molli,
e numerose altre. In generale, il tessuto osseo metaplastico
tende ad essere localizzato alla periferia della lesione, e soprattutto appare costituito da trabecole regolari di osso lamellare, in rapporto con elementi cellulari non atipici, così
come la cartilagine metaplastica appare come cartilagine ialina matura contenente cellule non atipiche. Un ultimo aspetto controverso di questo gruppo di lesioni riguarda il loro inquadramento nosologico, che si è modificato in maniera rilevante nella classificazione WHO del 2002 1. Infatti in questo
schema classificativo solo il condroma dei tessuti molli, il
condrosarcoma mesenchimale e l’osteosarcoma extrascheletrico sono inseriti nella categoria dei tumori condro-ossei. Altre entità, come la miosite ossificante e lo pseudotumore fibro-osseo delle dita vengono considerate varietà della fascite
nodulare, mentre la fibrodisplasia ossificante progressiva è
un processo di natura non neoplastica e pertanto non viene
preso in considerazione nella classificazione. Il condrosarcoma mixoide è stato provvisoriamente inserito nella categoria
“Miscellanea” in quanto, nonostante la nomenclatura, chiari
aspetti di differenziazione cartilaginea non sono dimostrabili
nella maggior parte di queste neoplasie. Per quanto riguarda
poi quelle neoplasie nelle quali la differenziazione ossea o
cartilaginea è presente assieme ad una o diverse ulteriori linee differenziative (ad esempio leiomiosarcoma con aree di
osteosarcoma), viene sconsigliato l’uso del termine mesenchimoma maligno 1, che comporta il raggruppamento di entità diverse sotto la stessa voce, mentre appare preferibile designare queste neoplasie secondo il tipo prevalente, specificando le ulteriori linee differenziative presenti.
Ciò premesso, lo scopo principale di questa presentazione è
quello di illustrare e discutere le problematiche di diagnosti-
ca differenziale delle lesioni dei tessuti molli che presentano
formazione di matrice ossea o cartilaginea. Fra le prime verranno prese in considerazione la miosite ossificante, lo pseudotumore fibro-osseo delle dita, il tumore fibromixoide ossificante e l’osteosarcoma extrascheletrico. Tra le lesioni con
formazione di matrice cartilaginea verranno esaminate il condroma dei tessuti molli, la condromatosi sinoviale e tenosinoviale, il condrosarcoma mixoide ed il condrosarcoma mesenchimale.
Bibliografia
1
Fletcher CDM, Unni KK, Mertens F (Eds.). World Health Organization classification of tumors. Pathology and genetics of tumours of
soft tissues and bone. IARC Press, Lyon 2002.
Diagnosi differenziale delle neoplasie
mesenchimali mixoidi
A. Parafioriti, E. Armiraglio
U.O. di Anatomia Patologica, Istituto Ortopedico “Gaetano
Pini”, Milano
Si definisce “mixoide” una proliferazione con morfologia
blanda, ipocellulare, immersa in una matrice fibrillare lassa,
simile al mesenchima primitivo. Le lesioni dei tessuti molli
definite “mixoidi” costituiscono un gruppo molto eterogeneo
di disordini proliferativi che, pur avendo in comune questo
carattere morfologico, differiscono profondamente fra loro
nella patogenesi e nel comportamento biologico.
Dal punto di vista nosologico sotto questa etichetta sono raggruppate entità che includono sia lesioni di carattere reattivo
che neoplasie benigne e neoplasie maligne a diverso grado di
malignità. Caratteristiche mixoidi focali o estese sono comuni nei tumori dei tessuti molli sia superficiali che profondi e
non sono significativi nella diagnosi finale. Esistono inoltre
varianti mixoidi di istotipi “specifici” che sono facilmente
diagnosticabili, come ad esempio il liposarcoma mixoide, il
dermatofibrosarcoma protuberans mixoide o nell’ambito
reattivo-pseudotumorale, la fascite nodulare mixoide. Le numerose similarità morfologiche possono creare problemi di
diagnosi differenziale rilevanti: lesioni benigne scambiate
per maligne a causa delle grosse dimensioni, della profondità
di localizzazione o del pattern di crescita infiltrativo o lesioni maligne scambiate per benigne a causa dell’apparenza
blanda e della scarsa cellularità.
Un approccio diagnostico corretto ai tumori mixoidi dei tessuti molli non può prescindere da adeguate informazioni cliniche come età, sesso, sede poiché questi tumori mostrano
differenze legate all’età ed al sesso dei pazienti. Infatti, ad
esempio, il lipoblastoma e rabdomiosarcoma embrionale/botrioide sono tipici dell’età pediatrica, il sarcoma fibromixoide a basso grado dell’età adulta, il mixofibrosarcoma dell’età
anziana; tipico per sesso e sede l’angiomixoma aggressivo
che insorge preferenzialmente in regione pelvica di soggetti
femminili. La localizzazione superficiale o profonda è un altro criterio molto importante per distinguere diversi tumori
mixoidi: localizzazione superficiale dermica o sottocutanea
si osserva nel dermatofibrosarcoma protuberans mixoide,
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nell’angiomixoma e nei neurotecomi, mentre localizzazione
profonda hanno di solito il liposarcoma mixoide, il condrosarcoma mixoide extrascheletrico, il sarcoma sinoviale
mixoide e le varianti mixoidi di altri sarcomi fusocellulari come il leiomiosarcoma e i tumori maligni delle guaine dei nervi periferici.
I parametri istologici principali per la diagnosi dei tumori
mixoidi sono fondamentalmente l’architettura di crescita, il
pattern vascolare, la cellularità e la citologia; la combinazione di questi parametri rappresenta la chiave diagnostica più
importante sia nei confronti di lesioni benigne che maligne.
Tumori mesenchimali e lesioni
pseudotumorali in età pediatrica
R. Alaggio
Servizio di Anatomia Patologica, Azienda Ospedaliera, Padova
Le neoplasie mesenchimali dell’età pediatrica per le caratteristiche morfologiche e cliniche, hanno meritato l’attribuzione di “borderland between embriology and pathology” coniata da Willis. La loro classificazione si basa su due principi: identificazione della cellula “di origine” ed equazione tra
immaturità di tale cellula e malignità. Tale criterio può rivelarsi una trappola diagnostica per il patologo nell’ area grigia
rappresentata dal vasto gruppo di “tumori” di difficile inquadramento nosologico costituita da neoplasie vere e proprie,
pseudoneoplasie ed amartomi. Le caratteristiche clinico-radiologiche di crescita infiltrativa e destruente o la presenza di
mitosi ed atipie citologiche, non rappresentano criteri diagnostici di malignità, essendo presenti anche in molte lesioni
pseudosarcomatose. Il ruolo delle tecniche ancillari appare limitato: l’immunoistochimica è importante per la conferma
della linea differenziativa delle cellule costituenti la lesione,
ma inutile ai fini del corretto inquadramento; la caratterizzazione biomolecolare è importante in casi isolati con specifiche traslocazioni. La diagnosi finale è quindi frutto della capacità “investigativa” del patologo in grado di integrare la
clinica ed i dettagli morfologici talora sfuggenti. In questa revisione saranno esaminati due gruppi di lesioni: quelle simulanti sarcomi per la presenza di cellule immature ed i veri
“pseudosarcomi” miofibroblastici.
Lesioni con cellule mesenchimali “immature”
Lipoblastoma: il lipoblasto, cellula diagnostica di liposarcoma in età adulta, è l’elemento talora predominante nel lipoblastoma, una neoplasia benigna del tessuto adiposo dei primi 3 anni di vita. La diagnosi differenziale con il liposarcoma mixoide è talora impossibile. L’età è un criterio diagnostico importante, tuttavia, seppur raramente, il liposarcoma
può insorgere nei primi anni di vita. Le indagini biomolecolari con l’identificazione della traslocazione tipica del liposarcoma mixoide t(12;16)(q13;p11) sono fondamentali in casi selezionati.
Rabdomioma Fetale (RF) ed Amartoma Rabdomiomatoso
(AR): una popolazione di elementi rabdomioblastici in diverse fasi di maturazione è la caratteristica morfologica del RF,
facilmente confuso con un rabdomiosarcoma embrionale
(ERMS). Le mitosi o l’anaplasia focale sono più frequenti
nell’ERMS, ma possono essere raramente presenti nel RF.
Rispetto al RF l’amartoma rabdomiomatoso, una lesione del
derma superficiale molto rara, con componente muscolare
striata, non mostra elementi immaturi, ma può essere confuso con un ERMS dermico ben differenziato.
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Tumore melanotico neuroectodermico dell’infanzia (MNETI): in una piccola biopsia il MNETI, lesione disembriogenetica che ricapitola lo sviluppo della retina, può essere facilmente confuso con un PNET o con un Neuroblastoma per
la predominante popolazione di piccole cellule, talora con
differenziazione neuroblastica e sottile feltro fibrillare di
neuropilo. L’architettura lobulare con gruppi di cellule separati da setti fibrosi, la presenza di pigmento nelle cellule più
grandi alla periferia dei lobuli sono diagnostici di MNETI.
Lesioni Miofibroblastiche: Neoplasie e Pseudotumori
Le caratteristiche morfologiche delle fibromatosi infantili,
delle miofibromatosi e dei fibrosarcomi e di alcuni degli
“pseudo-sarcomi” come fasciti, miositi e tumore miofibroblastico infiammatorio, sfumano le une nelle altre rendendo
talora ardua la diagnosi. I criteri diagnostici differenziali si
basano su: caratteristiche differenziative degli elementi miofibroblastici (in senso fibroblastico o mioide), disposizione
degli elementi (fasci allungati e sfuggenti, a “spina di pesce”,
nodulare), presenza o meno di pattern bifasico, componente
infiammatoria.
Fascite nodulare: l’elevata variabilità morfologica rende
questa lesione l’emblema degli pseudotumori e la causa più
frequente di “errori” diagnostici per la spiccata cellularità e
le numerose mitosi. La presenza di elementi miofibroblastici
con stroma mixoide ed aspetti tipo “cellula in coltura”, combinati ad una componente infiammatoria e ad emazie stravasate sono caratteristiche diagnostiche importanti. In alcuni
casi tali aspetti sono estremamente focali e difficili da identificarsi senza un’attenta ricerca, così come può essere assente
il tipico pattern bifasico con area centrale ipocellulare-mixoide ed area periferica ipercellulare infiltrativa.
Tumore miofibroblastico infiammatorio (IMT): nato come
pseudo-tumore, l’IMT va definendosi come vera lesione neoplastica, a variabile potenziale di aggressività, specialmente
se a sede addominale, che lo rende parte di un unico spettro
di lesioni con il Fibrosarcoma Infiammatorio. Le caratteristiche morfologiche con i tre pattern descritti da Coffin: similfascite, simil-fibromatosi, simil-cicatriziale dimostrano la
difficoltà di diagnosi differenziale, complicata dalla presenza
di cellule talora mostruose ed alto indice mitotico che possono suggerire un sarcoma. La componente infiammatoria è un
importante criterio diagnostico, come la positività immunoistochimica per ALK nei miofibroblasti, presente nel 40% dei
casi.
Miofibromatosi: la miofibromatosi infantile, sia solitaria che
multifocale è caratterizzata da miofibroblasti allungati, con
abbondante citoplasma eosinofilo che conferisce un aspetto
“mioide” alle cellule, disposte frequentemente a formare i
cosiddetti noduli mioidi, che tendono alla erniazione intravascolare. Non sempre evidente un pattern bifasico con centro
riccamente vascolare con tipico pattern emangiopericitomatoso e periferia fibrosa ipocellulare. Il trattamento è chirurgico, con prognosi favorevole.
Fibromatosi desmoide extra-addominale (Fibromatosi Infantile): la Fibromatosi Infantile è una lesione ad alta cellularità,
con miofibroblasti allungati e margini poco delineati, disposti in fasci sottili, commisti a collageno, senza noduli mioidi
e senza pattern emangiopericitomatoso, con tipica crescita
infiltrativa alla periferia. La diagnosi differenziale tra fibromatosi e fibrosarcoma sia infantile che adulto si basa prevalentemente su cellularità minore, minori atipie e minore probabilità di necrosi nella fibromatosi.
Fibrosarcoma Congenito-Infantile (CIFS) ed Adulto (AF): Il
CIFS rappresenta un’“area grigia” tra Fibromatosi e AF.
Morfologicamente indistinguibile dall’AF quando mostra fa-
TUMORI RARI E LESIONI PSEUDOTUMORALI DEI TESSUTI MOLLI
sci allungati di fibroblasti con tipico pattern “a spina di pesce”, viene facilmente confuso con una fibromatosi quando
le cellule sono più primitive ed immature e può simulare una
miofibromatosi quando mostra un pattern emangiopericitomatoso od aree con noduli “mioidi”. La presenza di una traslocazione t(12;15), in una percentuale variabile di casi è un
utile criterio diagnostico differenziale. La prognosi è generalmente favorevole con tendenza alla recidiva locale e rare
metastasi.
Tumori mesenchimali pleomorfi benigni
e a basso grado di malignità
A. De Chiara
U.O.C. Anatomia Patologica, I.N.T. “G. Pascale”, Napoli
Nella diagnosi istologica delle neoplasie mesenchimali dei
tessuti molli, la prima domanda cui rispondere è se il processo sia reattivo o neoplastico; una volta esclusa la natura reattiva della lesione in esame, si procede all’identificazione della neoplasia con riguardo al suo potenziale biologico (benigno versus maligno; basso grado versus alto grado di malignità). Le lesioni reattive sono più frequentemente superficiali o sono caratterizzate istologicamente da una distinta
crescita zonale (vedi fascite proliferativa, fascite ischemica,
miosite ossificante). Le cellule assomigliano a fibroblasti in
cultura; si possono osservare mitosi ma mai atipiche nè sono
presenti marcate atipie citologiche (così come avviene nei
sarcomi). Una volta orientati verso un processo neoplastico,
molti sono i criteri morfologici da valutare per il corretto inquadramento biologico. Necrosi, pleomorfismo cellulare ed
elevato indice mitotico sono criteri classicamente associati a
neoplasie maligne di alto grado (vedi grading sec. FNCLCC).
Negli anni, però, vi è stato un crescente numero di entità che,
nonostante un anche marcato pleomorfismo cellulare, si sono
rivelate del tutto benigne o con solo una limitata capacità di
recidiva locale (eccezionali le metastasi). Fondamentale appare, pertanto, il riconoscimento di queste entità ai fini del
corretto approccio terapeutico, per evitare inutili interventi
chirurgici demolitivi e/o regimi chemioterapici (indicati solo
negli alti gradi). Un criterio molto importante da valutare è la
presentazione clinica, in quanto lesioni a lenta crescita e a localizzazione soprafasciale sono caratterizzate da un decorso
clinico in genere benigno. È da sottolineare che nei tumori
benigni il pleomorfismo cellulare è spesso solo focale e legato a fenomeni di tipo degenerativo (leiomioma pleomorfo soprattutto dell’utero, ancient schwannoma, tumore glomico
simplastico). Anche lesioni maligne, come il fibroxantoma
atipico ed il sarcoma fibroblastico mixoinfiammatorio acrale,
che pure sono in grado di recidivare localmente ed in casi eccezionali anche di dare metastasi, sono quasi sempre soprafasciali. Sul piano puramente morfologico, la necrosi è assente o minima; e soprattutto l’indice mitotico è basso (a differenza di quanto accade nei sarcomi pleomorfi) e le mitosi
mai atipiche. Di seguito, è illustrato un elenco di tumori benigni o maligni di basso grado, caratterizzati dal pleomorfismo cellulare. Abbiamo scelto di approfondire solo alcuni di
essi, quelli che a nostro parere possano essere più facilmente
misinterpretati quando li si incontra in sedi inusuali (angiofibroma con cellule giganti), per la presenza di inusuali caratteristiche morfologiche (tumore glomico simplastico) o immunofenotipiche (fibroxantoma pleomorfo), o perchè siano
ancora troppo poco conosciuti soprattutto ai non specialisti
del settore (tumore angiectasico ialinizzante pleomorfo, sar-
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coma fibroblastico mixoinfiammatorio). Di fianco se ne indica la linea differenziativa sec. il WHO 2002.
Tumori benigni con atipie citologiche
Ancient schwannoma: neurogenica
Angiofibroma con cellule giganti: fibroblastica/miofibroblastica
Fibroistiocitoma con cellule bizzarre: verosimilmente fibroblastica
Fibroma pleomorfo della cute: fibroblastica/miofibroblastica
Leiomioma pleomorfo: muscolare
Lipoma pleomorfo: adipocitica
Tumore glomico simplastico: pericitica (perivascolare)
Tumore angiectasico ialinizzante pleomorfo (PHAT): differenzazione incerta
Tumori maligni di basso grado
Fibroblastoma a cellule giganti: tipico dell’infanzia
Fibroxantoma atipico: cosiddetta fibroistiocitica
Sarcoma fibroblastico mixoinfiammatorio: fibroblastica/miofibroblastica
L’angiofibroma a cellule giganti (GCA) è stato descritto per
la prima volta nel 1995 1 ed è una neoplasia coinvolgente tipicamente la regione orbitaria nei maschi, e meno frequentemente testa e collo (in aree extraorbitarie) e sedi ancora più
inusuali quali mediastino, dorso, regione inguinale e ascellare, retroperitoneo e vulva soprattutto nelle donne. Istologicamente, si apprezzano aree più o meno cellulari con cellule rotondo-ovali (CD34+, CD99+, meno frequentemente Bcl2+) e
cellule stromali multinucleate intorno vasi ectasici. Un caso
ha mostrato anormalità della banda cromosomica 6q13 2.
Il tumore glomico simplastico, così definito da Folpe et al. 3,
è un tumore glomico che mostra atipie citologiche come unica caratteristica inusuale. Nel loro lavoro ne descrivono 9 casi, e nessuno di essi ha sviluppato metastasi in un periodo di
follow-up tra 3 e 20 anni. L’atipia nucleare viene considerata come un fenomeno degenerativo simile a quello che si osserva nei leiomiomi uterini simplastici e negli ancient
schwannoma.
Il tumore angiectasico ialinizzante pleomorfo (PHAT) è
un’entità recentemente descritta per la prima volta da Smith
et al. 4. Da allora pochi altri casi sono stati riportati in letteratura 5. È una neoplasia di basso grado di malignità ma a causa del marcato pleomorfismo cellulare viene spesso confusa
con un sarcoma di alto grado. È una neoplasia degli adulti, a
lenta crescita che spesso dà l’impressione di un ematoma. In
genere, si localizza nel tessuto sottocutaneo degli arti inferiori, ma occasionalmente viene descritto in sede sottofasciale. La caratteristica istologica maggiore è la presenza di vasi
dilatati tendenti a formare piccoli gruppi il cui endotelio appare bordato da materiale eosinofilo amorfo; i vasi talora sono trombizzati con anche iperplasia papillare endoteliale. Ciò
che confonde circa il grading, è la presenza di cellule di varia forma (allungate o rotondeggianti) con nuclei pleomorfi
arrangiate in fasci. Sono presenti anche evidenti inclusioni
citoplasmatiche intranucleari. L’impressione superficiale è
quello di un MFH ma se ne differenzia per il basso indice mitotico (<1 mitosi/50 HPF). Le cellule in genere coesprimono
vimentina e CD34, mentre sono negative per S100 (che aiuta
nella d.d. con schwannoma e schwannoma melanotico psammomatoso), CK, EMA, actina, desmina, FVIIII e CD31. La
tendenza è la recidiva locale; al momento non si sono documentate metastasti a distanza. L’istogenesi non è chiara. Poichè è stata documentata positività a VEGF, una proteina associata ad angiogenesi tumore-associata, sia nelle cellule
neoplastiche che in quelle endoteliali, l’ipotesi è che il deposito di materiale ialino provochi una progressiva obliterazio-
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ne vascolare e ipossia tumorale, con conseguente produzione
di VEGF che a sua volta provoca una attiva angiogenesi 6.
Il fibroxantoma atipico (AFX) tipicamente occorre nelle aree
foto-esposte di persone anziane, ma in _ dei casi colpisce arti e tronco di giovani adulti. Si presenta come un nodulo solitario talora ulcerato. Classicamente, assomiglia istologicamente ad un MFH ma con localizzazione dermica. Sono stati riportati rari casi a cellule granulari o chiare. Necrosi è raramente presente. La d.d. è tipicamente nei confronti di carcinoma epidermoide e melanoma, soprattutto se si associa ad
una inusuale positività per markers melanocitari 7.
Viene, in genere, visto come una forma superficiale di MFH
con prognosi eccellente se adeguatamente escisso. Infatti, la
recidiva è locale, con solo 3 casi metastatici 8. Tra AFX e
MFH sono state trovate similarità in alcune alterazioni genetiche, suggerendo un comune pathway patogenetico; alcune
differenti alterazioni potrebbero invece essere responsabili
del differente comportamento biologico 9.
Il sarcoma fibroblastico mixoinfiammatorio è stato descritto per la prima volta da Montgomery nel 1997 10. Come la
designazione originaria implica,due sono le caratteristiche
principali di questo tumore: la sede acrale (soprattutto la
mano, ma successivamente descritto anche in sede prossimale 11 e nel tronco) e l’aspetto istologico simulante un processo infiammatorio. Tipicamente multinodulare; frequentemente coinvolge i tendini circostanti e la sinovia delle articolazioni adiacenti. In genere, localizzazione sottocutanea
con infrequente coinvolgimento del derma e del tessuto muscolare sottostante. L’aspetto tipico è il denso infiltrato infiammatorio (leucociti e plasmacellule) frammisto ad aree
mixoidi o ialine. In queste ultime, lì dove la cellularità è
maggiore, si osservano grandi cellule atipiche (fusate, istiocitoidi o epitelioidi); soprattutto queste ultime presentano
grandi nuclei con prominenti nucleoli e con abbondante citoplasma eosinofilo somigliando così a cellule di ReedSternberg o a virociti. Ma ancora una volta, a fronte del
marcato pleomorfismo cellulare, l’indice mitotico è basso
(<2 mitosi /50HPF). Si osservano anche cellule ganglionlike, cellule simulanti lipoblasti e cellule tipo Touton. Sia le
cellule mono che multinucleate sono positive a vimentina,
variabilmente positive a CD68, CD34 e actina; negative a
S100, HMB45, desmina, EMA, LCA, CD15 e CD30. Il riscontro di determinate alterazioni cromosomiche clonali
avrebbe caratterizzato questa neoplasia come entità distinta
da altri processi fibroblastici 12. La diagnosi differenziale va
posta nei confronti di: tumore a cellule giganti dei tendini,
tumore miofibroblastico e fibrosarcoma infiammatorio (tipica la localizzazione addominale), fibroistiocitoma maligno angiomatoide, e linfoma di Hodgkin. I casi descritti
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hanno mostrato recidiva locale con percentuali variabili tra
il 22% ed il 67% 13. Tre casi sono risultati metastatici
(linfonodi inguinali, e polmone) 14. Nel WHO, questa neoplasia viene posta nella categoria “intermedia raramente
metastatizzante”.
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PATHOLOGICA 2004;96:201-202
Dermatopatologia oncologica
Moderatori: C. Clemente (Milano) e T. Faraggiana (Roma)
Tumori vascolari “borderline” della cute
F. Passarelli
Servizio di Istologia, Istituto Dermopatico dell’Immacolata,
IRCCS, Roma
Il termine “emangioendotelioma” (E) indica tumori a linea
differenziativa vascolare che hanno un comportamento biologico intermedio tra l’emangioma e l’angiosarcoma: hanno
alta probabilità di recidivare localmente e danno metastasi in
una percentuale ridotta rispetto all’angiosarcoma. Sebbene
gli E della cute siano rari, è importante conoscerne la morfologia e la prognosi, poiché impongono un trattamento chirurgico adeguato fin dall’inizio e un follow-up accurato. I tipi
più importanti sono: E epitelioide, E kaposiforme, E retiforme, tumore di Dabska ed E composito. L’emangioendotelioma epitelioide (EE) può insorgere a qualunque età. Le sedi
più colpite sono i tessuti molli, il fegato, il polmone, l’osso e
la cute, dove può avere l’aspetto di una placca eritematosa o
di un nodulo, di dimensioni variabili da 0,3 a 4 cm. Nei tessuti molli, circa il 50% dei casi insorge da un vaso; nei casi
primitivi cutanei ciò non è stato evidenziato con chiarezza.
L’EE è composto da cordoni di cellule endoteliali epitelioidi,
con nucleo vescicoloso, citoplasma eosinofilo di forma poligonale, con frequenti vacuoli citoplasmatici, a volte contenenti emazie. Lo stroma varia da mixoide a ialino. In circa il
25% dei casi si osservano atipie nucleari, attività mitotica
(>1/10 HPF), focolai di necrosi e cellule fusate. Poiché tali
aspetti sembrano correlare con un comportamento biologico
più aggressivo, si parla di EE atipico o maligno. Le cellule
neoplastiche esprimono CD31, CD34 e FVIII. Circa il 25%
degli EE esprime CK e focalmente l’actina muscolare. La
diagnosi differenziale si pone con l’angiosarcoma epitelioide, l’angioma epitelioide, il sarcoma epitelioide, l’adenocarcinoma metastatico e il melanoma. La prognosi dell’EE dei
tessuti molli è migliore rispetto a quella dell’EE a primitività
viscerale. Nelle serie studiate che includono sia la forma
classica che quella atipica, emerge che si hanno recidive locali nel 10-15% dei casi, metastasi nel 20-30%, di cui il 50%
linfonodali e che la mortalità è del 10-20%. Per EE a primitività viscerale la mortalità varia dal 40% al 65%. Inoltre, l’analisi separata della forma classica mostra una percentuale di
metastasi del 17% e una mortalità del 3%. In particolare, se
si considera la cute, l’EE ha tendenza a recidivare, raramente metastatizza nei linfonodi e, al momento, non sono noti casi di morte per malattia. Ciò suggerisce una prognosi più favorevole per le lesioni cutanee superficiali. La neoplasia va
asportata completamente e va effettuato un accurato controllo dei linfonodi. Il termine emangioendotelioma “hobnail”
(EH) comprende il tumore di Dabska (TD) e l’emangioendotelioma retiforme, due entità strettamente correlate tra loro
sia dal punto di vista istologico che prognostico. L’EH colpisce un ampio spettro di età, sebbene lesioni con aspetti classici del TD siano più frequenti nei bambini, mentre l’ER interessa giovani adulti e adulti. Si manifesta sulle estremità
(50% dei casi) e su testa, collo e tronco. Raramente si sono
osservate altre localizzazioni (milza, lingua). Il TD può insorgere nell’ambito di malformazioni o di neoplasie vascolari benigne, mentre l’ER si può associare a linfedema o a pre-
gressa irradiazione. Clinicamente si osserva una placca mal
definita di colorito violaceo. Il TD è caratterizzato da spazi
vascolari ben formati rivestiti da cellule endoteliali cuboidali con nuclei ipercromatici che sporgono nel lume dei vasi,
con il caratteristico aspetto “hobnail” che si aggregano intorno ad assi ialini, formando strutture papillari simil glomerulari. Il tessuto connettivo tra i vasi è ialino e contiene linfociti. L’ER è costituito da spazi vascolari allungati che ricordano la rete testis, che crescono nel derma e nell’ipoderma. I
vasi sono rivestiti da cellule endoteliali “hobnail” con minore tendenza a formare papille intravascolari. Si osserva sclerosi ialina perivascolare con infiltrato linfocitario. L’immunofenotipo del TD e dell’ER è sovrapponibile. Le cellule
esprimono CD34 e meno intensamente FVIII e CD31. La
diagnosi differenziale si pone con l’emangioma “hobnail”,
l’iperplasia endoteliale papillare e con l’angiosarcoma ben
differenziato. Gli EH recidivano nel 60% dei casi e metastatizzano nei linfonodi in meno del 10% dei casi. L’emangioendotelioma kaposiforme (EK) colpisce la prima infanzia
fino alla I decade e, più raramente, l’età adulta. La sede più
frequente è il retroperitoneo, seguito da cute e sottocute. Le
lesioni cutanee si possono presentare come placche violacee
mal definite a rapida crescita o come teleangectasie. I tumori di maggiori dimensioni si associano quasi sempre alla sindrome di Kasabach-Merritt (coagulopatia da consumo).
L’EK ha una crescita plurinodulare infiltrativa data da spazi
vascolari sottili, a fessura, commisti ad aggregati nodulari di
cellule endoteliali con pochi lumi e a proliferazione di cellule fusate. A volte i noduli contengono nidi glomeruloidi di
cellule endoteliali epitelioidi con ampio citoplasma eosinofilo con granuli di emosiderina, globuli ialini e vacuoli citoplasmatici. Si possono osservare microtrombi ed emazie
frammentate. Non si osservano atipie cellulari, mitosi, o infiltrato infiammatorio. Le cellule esprimono CD34, CD31 e
debolmente FVIII. La diagnosi differenziale si pone con l’angioma capillare dell’infanzia, con il sarcoma di Kaposi e con
il “tufted” angioma. La prognosi dell’EK è legata alla sede e
alle dimensioni della lesione. Quelle retroperitoneali hanno
la prognosi peggiore perché sono le più estese, difficilmente
resecabili chirurgicamente e si associano a coagulopatia da
consumo. Le lesioni cutanee e dei tessuti molli più superficiali e meno estese vengono trattate con l’ampia escissione
chirurgica. Lesioni non aggredibili chirurgicamente sono
trattate con farmaci sistemici e radioterapia. Tra gli EE, l’emangioendotelioma composito (EEC) è quello più recentemente descritto. È una neoplasia rara che colpisce principalmente mani e piedi, in età adulta. Si manifesta come una
massa infiltrativa a lenta crescita, del diametro variabile da
0,7 a 13 cm con colorazione rosso-violacea della cute. È una
lesione infiltrativa che interessa il derma e il tessuto sottocutaneo. È composta dall’alternarsi e mescolarsi di aspetti tipici di altre neoplasie vascolari: emangioendotelioma epitelioide, e. retiforme, emangioma a cellule fusate, angiosarcoma
ben differenziato, angioma, malformazione arterovenosa. In
molti casi si osservano aggregati di cellule endoteliali vacuolate con aspetto pseudolipoblastico. Raramente sono presenti aree simil angiosarcoma di alto grado. Nello stroma sono
presenti aggregati linfoplasmacellulari e depositi di emosiderina. L’EEC esprime CD31, CD34 e FVIII. Dei casi noti, cir-
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
202
ca il 50% ha dato recidive locali, mentre un solo caso ha dato metastasi linfonodali. Tutti i casi sono stati trattati con l’escissione chirurgica ampia, talvolta fino all’amputazione della zona interessata, senza l’impiego di radio o chemioterapia.
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I margini di resezione nei tumori cutanei: un
problema per il chirurgo e per il patologo
G. Leigheb
Clinica Dermatologica, Università del Piemonte Orientale
“A. Avogadro”, Ospedale Maggiore della Carità, Novara
Una stretta collaborazione tra clinico e patologo dovrebbe
sempre essere condizione indispensabile al fine di una diagnosi più corretta e più rapida con risparmio di energie; ciò è
tanto più vero quanto più vengano coinvolti i singoli specialisti in rapporto alla specifica patologia in esame. Al contrario, il colloquio del patologo col chirurgo generale che ha
asportato una lesione nevica o un carcinoma cutaneo rischia
di essere sterile in quanto l’operatore non ha specifiche conoscenze (competenze cliniche ed istopatologiche) su quelle
affezioni. Ne consegue che i margini di resezione sono talora affidati al caso e spesso sono in difetto.
In ogni caso l’escissione di lesioni maligne cutanee primitive
può portare ad errori evitabili sia da parte del chirurgo sia del
patologo: si pongono, infatti, problemi di “margini di sicurezza” e di documentata persistenza di neoplasia ai margini
dell’exeresi.
A tal proposito due sono i criteri di maggior garanzia di radicalità: 1) Il dermochirurgo dopo aver formulato la diagnosi
clinica, ricorrendo ad eventuale biopsia incisionale deve ricorrere a sperimentati protocolli terapeutici chirurgici che indicano l’ampiezza dei margini di exeresi in rapporto alla natura e alla fase evolutiva della neoplasia; 2) Il patologo deve
formulare la diagnosi istologica ed anche il giudizio di escissione più o meno completa della lesione. Purtroppo, non potendo eseguire sezioni seriate su tutto il pezzo operatorio egli
darà un giudizio di negatività dei margini di escissione anche
quando una neoplasia infiltra oltre tali margini in sedi non
comprese nei cosiddetti tagli ortogonali convenzionali. Di
conseguenza nel referto istologico non sarà corretto esprimere giudizio di “radicalità di escissione” bensì è da preferirsi
la dizione di “exeresi compresa entro i margini di escissione
nelle sezioni esaminate”.
Tali problematiche sono particolarmente pesanti nel caso delle neoplasie maligne cutanee più frequenti come tipicamente
il carcinoma basocellulare (C.B.) dell’estremo cefalico dove,
in rapporto all’elevatissimo numero di pazienti giornalmente
trattati, le possibilità di errore diventano statisticamente rilevanti. Fattori di particolare rischio sono rappresentati da talune regioni anatomiche come le pliche cutanee del volto ove
alcuni tipi di C.B. hanno evoluzione particolarmente aggressiva ed infiltrante. In quelle sedi infatti è più difficile il controllo dei margini della neoplasia.
Mancanza di rispetto dei margini di sicurezza ed esame istologico incompleto sono la causa più comune e dilagante delle cosiddette recidive di carcinoma basocellulare. In effetti
non si tratta di recidive ma di “exeresi incomplete” o di “referti istologici incompleti”, ossia di casi per cui non è raggiunta la radicalità. Il problema è ancor più scottante in situazioni di contenziosi medico-legali.
Per quanto concerne la patologia neoplastica cutanea “più
difficile” è raggiungibile un affinamento tecnologico al fine
di un referto più circostanziato. Le possibilità sono offerte
dalla marcatura dei margini di exeresi con coloranti e dalla
topografizzazione del pezzo operatorio o, ancor meglio, dalla tecnica microtopografica di Mohs.
Vengono presentati casi esemplificativi e dimostrativi dei
vantaggi di tali metodiche, frutto di attività collaborativa tra
dermatologo ed istopatologo.
PATHOLOGICA 2004;96:203-205
Patologia respiratoria non neoplastica
Moderatori: G. Barbolini (Modena) e B. Murer (Mestre)
Patologia polmonare da micobatteri
e actinomicetaceae
G. Barbolini, G. Rossi
Dipartimento Integrato di Servizi Diagnostici, di Laboratorio e di Medicina Legale, Sezione di Anatomia Patologica,
Università di Modena e Reggio Emilia, Modena
Gli Actinomicetali comprendono, oltre alle Micobacteriaceae, anche le Actinomicetaceae, le Nocardiaceae e le Termoactinomicetaceae. L’appartenenza di questi batteri ad uno
stesso ordine implica il loro pneumotropismo e la condivisione di alcune peculiari caratteristiche (ad es. l’alcole-acidoresistenza) intercorrenti tra batteri di genere diverso (micobatteri, nocardie e rodococchi). In caso di flogosi cronica granulomatosa necrotizzante tubercoloide l’identificazione di
actinomiceti, nocardie e rodococchi è generalmente ottenuta
mediante una batteria di colorazioni (PAS, Grocott, Giemsa,
Gram). All’interno di questa famiglia di microrganismi patogeni per l’uomo, l’infezione da micobatteri (e la tubercolosi
in particolare) rappresenta senza dubbio ancora oggi la patologia prominente ed una sfida diagnostica formidabile. Nonostante sia una malattia conosciuta da millenni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che ogni anno siano circa 8 milioni i nuovi casi e che 3 milioni di persone muoiano
a causa di questa malattia 1 2. I dati si riferiscono principalmente a paesi in via di sviluppo dove le risorse sanitarie per
combattere l’infezione sono estremamente ridotte e l’infezione da virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV) è tuttora
endemica. Tuttavia, il 20-40% della popolazione mondiale è
portatore del M. tubercolosis 2 e, di conseguenza, la tubercolosi rimane un problema sociale anche nei paesi industrializzati, dove, dopo un marcato decremento nell’incidenza sino a
metà degli anni 80, si è registrata una ripresa della malattia in
seguito a forme epidemiche legate alla sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), all’incremento dei flussi migratori da Paesi in via di sviluppo, ed all’aumento del numero di
persone anziane e di soggetti immunodepressi a seguito di terapie adottate principalmente in corso di neoplasie e trapianti 3. Inoltre, l’aumento di malattie croniche come le malattie
polmonari ostruttive e restrittive, l’alcolismo, il diabete, le
malattie autoimmuni collageno-vascolari, le pneumoconiosi,
la fibrosi cistica, e i tumori polmonari, costituiscono importanti fattori predisponenti all’infezione da M. tubercolosis o
di altri micobatteri opportunistici non tubercolari. Più recentemente, è stato dimostrato come anche il frequente e spesso
inopportuno utilizzo di farmaci potenzialmente immunosoppressori (come corticosteroidi a basso dosaggio) possa rappresentare un importante fattore per lo sviluppo di infezioni,
compresa quella da micobatteri 4. I micobatteri patogeni non
tubercolari, riportati in letteratura con varie dizioni (atipici,
anonimi, opportunistici, paratubercolari), sono attualmente
indicati come MOTT (acronimo di Mycobacterium Organisms Other Than Tuberculosis). Si tratta di un modello in
espansione di patologia ambientale dove l’habitat prevalente
è all’interfaccia acqua/aria e la porta d’ingresso dell’infezione è generalmente rappresentata dalle vie respiratorie e dal
tratto gastrointestinale. Oltre che in soggetti immunocompromessi, l’infezione da MOTT (in particolare da M. avium) in-
sorge genralmente in maniera insidiosa anche in soggetti immunocompetenti 5. Proprio per questo, da un lato molte ricerche sono impegnate nell’individuazione di nuovi test che
possano predire l’infezione latente da M. tubercolosis. A questo proposito va segnalata l’approvazione negli Stati Uniti da
parte della FDA di un test diagnostico in vitro, QuantiFERON-TB®, che misura l’interferone-gamma rilasciato dai
linfociti sensibilizzati del sangue intero incubato con il derivato proteico di M. tubercolosis che costituisce già il test più
specifico e sensibile di infezione tubercolare latente 6. Dall’altro, rimane comunque imprescindibile il ruolo del patologo nell’identificare il micobatterio in campioni cito-istologici. Sebbene la diagnosi possa essere generalmente raggiunta
nel 50-80% circa dei prelievi ottenuti da espettorato e lavaggio bronco-alveolare o da biopsie bronchiali mediante l’utilizzo di semplici metodiche istochimiche (Ziehl-Neelsen con
fucsina basica e Kinyoun, o tecnica a fluorescenza con colorazione auramina-rodamina), nei casi in cui la carica micobatterica sia ridotta, queste colorazioni possono risultare falsi negativi in una significativa percentuale di casi. A livello
polmonare, oltre alla tubercolosi primaria ed alle classiche
forme di tubercolosi post-primaria (larvata, essudativa o ulcero-caseosa, miliarica, areattiva, bronchiale o neoplastiforme), vale la pena di sottolinearne una cosiddetta paucibacillare che può presentarsi anche in sedi extra-polmonari. Recentemente, infatti, abbiamo osservato diversi casi di processi granulomatosi necrotizzanti e non in soggetti immunocompetenti con aspetti morfologici fortemente sospetti per
infezione da micobatteri, peraltro clinicamente e radiologicamente misconosciuta ed in cui non erano stati effettuati prelievi per esame colturale microbiologico. Solamente l’analisi
mediante PCR per identificare sequenze di DNA dei micobatteri del complesso tubercolare (M. tuberculosis, M. bovis,
M. africanum) o del complesso Avium (MAC) o complesso
Avium-Intracellulare (MAI) con sonda specifica IS6110 ed
IS1110, rispettivamente, ci aveva permesso di confermare
che il processo granulomatoso era imputabile ad una infezione micobatterica. Va sottolineato, a questo proposito che i comuni liquidi di fissazione utilizzati nei laboratori (formalina
tamponata) ed i tempi prolungati di fissazione per la conservazione dei prelievi cito-istologici possono incidere nel mantenere integri i micobatteri e permetterne la loro identificazione nei tessuti 7. In questi casi, metodiche di PCR riescono
ad amplificare segmenti specifici di DNA del micobatterio
anche in casi di prolungata fissazione e possono risultare essenziali nell’identificazione dei microrganismi 8 9.
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CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
204
Patologia polmonare iatrogena
M. Barbareschi, A. Cavazza*
U.O. Anatomia Patologica, Ospedale S. Chiara, Trento; *
U.O. Anatomia patologica, Ospedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia
Il polmone è frequentemente coinvolto in reazioni a farmaci,
anche se il patologo solo raramente viene coinvolto nel processo diagnostico in quanto generalmente i pazienti non vengono sottoposti a procedure bioptiche. Peraltro è di importanza fondamentale sottolineare che, anche quando il paziente viene sottoposto a procedure bioptiche, la diagnosi di reazione polmonare a farmaci è sostanzialmente una diagnosi
anatomo-clinica e che la funzione del patologo è quella di
fornire uno dei vari tasselli che servono a chiarire il mosaico.
Da un punto di vista classificavo le reazioni polmonari possono essere suddivise in effetti diretti ed indiretti. I primi sono poi ulteriormente suddivisibili in effetti tossici ed idiosincrasici. Gli effetti diretti tossici sono generalmente associati
ad una relazione dose-effetto e ad una azione diretta del farmaco sui tessuti, ed un esempio può essere rappresentato dal
danno dovuto agli agenti chemioterapici. Gli effetti diretti
idiosincrasici, viceversa, sono indipendenti dalla dose e connessi spesso ad una reazione dell’organismo al farmaco somministrato. Chiaramente si tratta di una suddivisione non
sempre netta e alcuni farmaci possono agire con uno o l’altro
meccanismo a seconda delle situazioni e talora mescolando i
due effetti. Gli effetti indiretti sono invece dovuti non tanto
alla azione del farmaco sul tessuto polmonare quanto sull’organismo intero con conseguenti effetti secondari sul polmone. Esempi di tali condizioni possono essere le infezioni opportunistiche nei pazienti in terapia immunosoppressiva, le
complicazioni tromboemboliche, e la aspirazione di materiale gastrico durante terapie con sedazione centrale.
Dal punto di vista della evoluzione temporale possiamo individuare effetti precoci e tardivi, indicando con i primi gli effetti che si manifestano durante la assunzione del farmaco e
con i secondi gli effetti che si manifestano a distanza di tempo dalla cessazione di assunzione del farmaco. Gli effetti precoci possono poi manifestarsi sia all’atto della assunzione del
farmaco oppure dopo un variabile periodo di tempo durante
il quale il farmaco viene assunto (p.es.: effetto di accumulo).
Gli aspetti (patterns) istologici associati alle reazioni ai farmaci sono estremamente vari, ed un’importante considerazione è che un certo farmaco può determinare più quadri istopatologici e che un singolo quadro istopatologico può essere
causato da farmaci diversi. Un interessante strumento per valutare rapidamente la possibilità che un certo farmaco possa
determinare un danno polmonare è costituito dal sito web
http://www.pneumotox.com del Groupe d’Etudes de la
Pathologie Pulmonaire Iatrogène, che consente di interrogare
un esauriente ed aggiornato database sui farmaci e sulle lesioni polmonari ad essi associate. Va ulteriormente sottolineato
che la maggior parte delle reazioni polmonari sono non-specifiche e che la diagnosi deve essere sostenuta fondamentalmente da considerazioni di tipo clinico-anamnestico. Esistono
tuttavia alcuni rari aspetti istopatologici sufficientemente caratteristici che possono per lo meno suggerire la possibilità di
un danno da farmaci. Questo è il caso per esempio della tossicità da amiodarone: il farmaco comporta infatti l’accumulo
di fosfolipidi nei macrofagi alveolari e nei pneumoniti di II tipo; tale effetto (anche se non necessariamente segno di tossicità) può essere un elemento che, in un adeguato contesto, può
porre il sospetto di tossicità da amiodarone.
Una ultima considerazione riguarda i criteri per la diagnosi
di tossicità polmonare. Possiamo così riassumerli: 1) il farmaco deve essere stato assunto con una relazione temporale
con la reazione polmonare; 2) altre cause di patologia polmonare devono essere escluse; 3) la reazione polmonare si riduce o scompare con la sospensione del farmaco; 4) il farmaco è l’unico ad essere stato somministrato al paziente; 5)
l’aspetto clinico, radiologico ed istopatologico sono compatibili con l’effetto del farmaco in questione. Difficilmente tutti questi criteri possono essere soddisfatti e quindi molto
spesso la diagnosi deve essere considerata come sospetta,
compatibile o probabile a seconda delle situazioni.
Patologia polmonare in corso
di collagenopatie
A. Cavazza
Unità Operativa di Anatomia Patologica, Ospedale S. Maria
Nuova, Reggio Emilia
Considerazioni generali 1-4
1) Una patologia polmonare subclinica è frequente. Ad esempio, la metà circa dei pazienti con artrite reumatoide dimostra
anomalie funzionali, al BAL, alla TAC o all’istologia, ma solo il 5% presenta sintomi polmonari.
2) La patologia polmonare può precedere le manifestazioni
sistemiche.
3) Esiste una notevole sovrapposizione istologica tra le diverse collagenopatie. Tutte le componenti del lobulo polmonare possono essere coinvolte, anche se con diversa frequenza: la patologia pleurica prevale nell’artrite reumatoide e nel
lupus, la patologia parenchimale in tutte le collagenopatie, la
patologia vascolare nel lupus e nella sclerodermia e la patologia bronchiale/bronchiolare nell’artrite reumatoide e nel
Sjögren.
4) In nessun caso l’istologia è specifica di collagenopatia:
qualunque quadro istologico compatibile con collagenopatia
può essere sostenuto anche da altre malattie. Stabilire se un
paziente con patologia polmonare è affetto o meno da connettivite (e a maggior ragione classificare l’eventuale connettivite presente) spetta al reumatologo, non al patologo.
5) I seguenti aspetti istologici sono più frequenti nelle connettiviti: interstiziopatia con pattern polmonite interstiziale
non specifica (NSIP) o polmonite interstiziale linfocitaria
(LIP), numerose plasmacellule interstiziali, follicoli linfoidi,
noduli necrotici polmonari o pleurici compatibili con noduli
reumatoidi, corpi ematossilinofili nel liquido pleurico, coesistenza di lesioni pleuriche e parenchimali e più in generale di
patologie multiple, tanto che può essere difficile classificare
esattamente la lesione. In presenza di questi aspetti il patologo deve comunicare al clinico la possibilità di una collagenopatia, tenendo tuttavia presente che nessuno è diagnostico.
6) Mentre nelle interstiziopatie idiopatiche prevale il pattern
polmonite interstiziale usuale (UIP), nelle interstiziopatie in
corso di connettivite il pattern più frequente è la NSIP 4-8.
7) La prognosi delle interstiziopatie in connettivite è migliore rispetto alla prognosi delle forme idiopatiche. Ciò è dovuto sia alla prevalenza nelle connettiviti della NSIP (cioè di un
pattern a prognosi più favorevole rispetto alla UIP), sia al fatto che la UIP in corso di connettivite ha una prognosi migliore rispetto alla UIP idiopatica 5 9.
8) Patologie polmonari secondarie alla terapia e complicanze
della malattia di base devono essere tenute presenti nel paziente con collagenopatia. In questo contesto, il ruolo del pa-
PATOLOGIA RESPIRATORIA NON NEOPLASTICA
tologo consiste nel contribuire ad escludere un’infezione opportunistica, tenendo presente che l’agente infettivo può essere nascosto e la sua ricerca deve essere meticolosa. Una seconda importante considerazione diagnostica è un danno da
farmaci, la cui istologia è aspecifica e non differenziabile con
sicurezza da una connettivite. Altre possibilità da tenere presenti sono una polmonite da aspirazione (che è una causa importante di morbilità e di mortalità soprattutto nei pazienti
con polimiosite/dermatomiosite), un’amiloidosi e una neoplasia (carcinoma e linfoma, più frequenti rispettivamente
nella sclerodermia e nel Sjögren).
9) Nel campo del polmone reumatologico, l’istologia da sola
è spesso ambigua e in tutti i casi è indispensabile correlarla
attentamente con il quadro clinico.
Singole entità
La patologia toracica più frequente nell’artrite reumatoide 1-3 è
la pleurite, che ha in genere un’istologia aspecifica e solo occasionalmente ricorda la morfologia del nodulo reumatoide.
La patologia parenchimale interstiziale si esprime più spesso
con i patterns NSIP, UIP o polmonite in organizzazione
(BOOP), talvolta associati a follicoli linfoidi. La patologia
bronchiale/bronchiolare non è rara: nella bronchiolite può
prevalere la componente infiammatoria (bronchiolite cellulata o follicolare) oppure la componente cicatriziale (bronchiolite costrittiva, clinicamente più grave). I noduli reumatoidi
sono infrequenti, in genere multipli e asintomatici. Sulla base
della sola istologia è in molti casi impossibile differenziarli
con sicurezza da noduli necrotici infettivi o dal Wegener.
Anche nel lupus eritematoso sistemico 10 la patologia toracica
più frequente è la pleurite. La patologia parenchimale più tipica è il danno alveolare diffuso (DAD), il cui riscontro deve
indurre ad escludere con rigore un’infezione. Complicanza
infrequente ma temibile è l’emorragia alveolare diffusa, mentre un’interstiziopatia cronica clinicamente significativa, più
spesso con pattern NSIP, complica il decorso dei pazienti con
lupus nel 3-13% dei casi, ma raramente è severa. La patologia bronchiale/bronchiolare è infrequente, mentre è importante la patologia vascolare, che può assumere l’aspetto di
una vasculite o di una malattia trombo-embolica.
205
Le lesioni pleuro-polmonari più tipiche della sclerodermia 6
sono un’interstiziopatia con pattern NSIP fibrosante e alterazioni vascolari di tipo ipertensivo.
Nella polimiosite/dermatomiosite, la più frequente localizzazione polmonare consiste in un’interstiziopatia con pattern
NSIP, sia cellulata che fibrosante. In 2 serie recenti 7 8, la sopravvivenza a 5 anni dei pazienti con interstiziopatia in corso di polimiosite/dermatomiosite è risultata del 60% e 50%.
La lesione polmonare più tipica del Sjögren 1 consiste nell’accumulo di linfociti e plasmacellule, che possono localizzarsi nella parete dei bronchioli (bronchiolite cellulata o follicolare), lungo le vie linfatiche (iperplasia linfoide diffusa),
oppure espandere l’intero interstizio (LIP).
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La biopsia ossea nelle lesioni neoplastiche e non
neoplastiche dello scheletro
Moderatori: F. Bertoni (Bologna) e C. Della Rocca (Roma)
Problemi generali di diagnostica
istopatologica su biopsia pertinente
a materiale osseo
C. Della Rocca
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università di Roma “La Sapienza”
Nell’approccio diagnostico istopatologico su biopsia pertinente a materiale osseo vanno considerati preliminarmente
una serie di problemi che solo in parte si riscontrano su prelievi bioptici relativi ad altri tessuti. Tali problemi vengono di
seguito schematicamente riportati.
Inerenti al prelievo
Mancanza delle lesione nel materiale prelevato
Le difficoltà di prelievo anche radiologicamente mirato, consistenti principalmente nella ricostruzione tridimensionale
della lesione, nella profondità della stessa e nella durezza
delle barriere da superare, aumentano il rischio di fallimento
del prelievo.
Limitatezza del materiale rappresentativo della lesione
Le stesse difficoltà ricordate al punto precedente possono inficiare la rappresentatività del prelievo
Presenza di artefatti da prelievo
La necessità di superare barriere dure porta di frequente ad
artefatti da schiacciamento e da frammentazione
Inerenti il trattamento del materiale bioptico
Inadeguatezza o mancanza del fissativo
Tale problema non è diverso da quello riscontrabile in altri
tessuti
Inadeguatezza della decalcificazione
Decalcificazioni troppo corte o troppo lunghe, o inopportune
causano importanti artefatti di taglio e di colorazione, nonché
di interpretazione diagnostica
Mancanza della post-fissazione
La mancanza di post-fissazione in formalina tamponata, necessaria per ristabilire la reattività dei gruppi acidi e basici
rende le colorazioni di routine, e non, scarsamente attendibili.
Difficoltà nel taglio delle sezioni istologiche
Nonostante decalcificazioni opportune il taglio del tessuto
osseo, soprattutto se con corticale molto rappresentata, non è
sempre facile e può introdurre gravi artefatti.
Difficoltà nelle colorazioni istologiche
La colorabilità delle sezioni dipende in gran parte dai trattamenti precedenti alle stesse.
Inerenti l’interpretazione del reperto
Carenza di notizie cliniche
Tale problema non è diverso da quello riscontrabile in altri
tessuti, sebbene nella diagnostica delle lesioni ossee il quadro
clinico sia più spesso determinante nel poter formulare una
diagnosi circostanziata.
Mancanza del reperto radiografico
Non andrebbe resa diagnosi circostanziata in assenza del reperto radiografico in visione, che non solo in biopsia rappresenta una macroscopica virtuale, ma soprattutto da informazioni sulle modalità di crescita della lesione, fondamentali
per l’interpretazione diagnostica.
Esperienza del patologo
La patologia ossea indagata su biopsia è di solito rara, quindi non si deve esitare a chiedere revisione esperta in caso di
dubbio diagnostico, anche se minimo.
Inerenti le caratteristiche proprie della lesione
Lesioni di intrinseca difficoltà diagnostica
Molte lesioni ossee rappresentano difficoltà intrinseche di interpretazione a causa del peculiare ambiente in cui crescono.
Lesioni di grandi dimensioni con variabilità al loro interno
Per le difficoltà di prelievo ricordate, il campionamento di lesioni di grandi dimensioni può non essere adeguato.
Lesioni complesse con aspetti istologici multipli
Non è raro, in patologia ossea, che una stessa lesione presenti aspetti istologici multipli con produzione di tessuti scheletrici diversi e con diversa maturazione.
Lesioni border-line
Tale problema non è diverso da quello riscontrabile in altri
tessuti.
Lesioni di incerto significato biologico
A volte in patologia ossea può essere difficile stabilire non
solo il comportamento, ma anche il significato biologico,
neoplastico o non, di una lesione.
Conclusioni
La diagnostica bioptica delle lesioni ossee soffre sia delle difficoltà inerenti il prelievo e la lavorazione di un tessuto così
peculiare che di quelle inerenti l’interpretazione del reperto
istologico e le caratteristiche intrinseche di lesioni spesso con
aspetti diversi e con possibilità evolutive non sempre prevedibili. È verosimile, inoltre, che l’utilizzo di tecniche bioptiche sempre meno invasive in certi casi aumenti la possibilità
di errore, soprattutto in assenza di quel contatto stretto tra clinici, radiologi e patologi essenziale da sempre in tale campo
della patologia umana. L’affinamento delle tecniche bioptiche e il miglioramento dell’organizzazione dell’approccio interdisciplinare possono diminuire sensibilmente il rischio
dell’errore diagnostico
I tipi di biopsia
F. Bertoni
Università di Bologna, Istituto Ortopedico Rizzoli
Alla base della manovra bioptica ci deve essere conoscenza
adeguata delle immagini clinico-radiografiche della patologia e del trattamento dei tumori dell’osso da parte dell’esecutore. Funzione della biopsia è ottenere materiale adeguato
per la diagnosi istologica e di non diffondere la lesione in
esame o provocare voluminosi ematomi che costituiscono a
loro volta vie di disseminazione della lesione 1-3. La potenziale contaminazione dei tramiti bioptici (con ago o incisionali) impone l’asportazione del tramite medesimo insieme alla lesione neoplastica maligna o benigna aggressiva. Le tecniche bioptiche correttamente in uso sono:
– biopsie con ago fine
– biopsie con trocar
– biopsie incisionali
– biopsie al congelatore
LA BIOPSIA OSSEA NELLE LESIONI NEOPLASTICHE E NON NEOPLASTICHE...
Bibliografia
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Nuova Libraria, Padova; Springer-Verlag, Wien, New York, 1999.
La biopsia ossea nelle malattie metaboliche
dell’osso
E. Bonucci
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università di Roma “La Sapienza”
Le osteopatie metaboliche sono affezioni conseguenti ad alterazioni del rimodellamento, o rimaneggiamento, del tessuto
osseo. Con questa denominazione si fa riferimento ad un processo fisiologico di demolizione-ricostruzione ossea dipendente dall’attività delle cosiddette Unità Multicellulari di Base (generalmente indicate con l’acronimo inglese BMU). Trattasi di complessi multicellulari effimeri (la loro durata media
è intorno ai 4 mesi) che nell’adulto si formano su aree microscopiche dell’endostio ed evolvono attraverso le seguenti fasi
funzionali, ciascuna caratterizzata da un diverso tipo cellulare:
1) fase di attivazione, durante la quale uno o più osteoclasti sono attivati e richiamati sulla superficie endostale; 2) fase di
riassorbimento, durante la quale tali osteoclasti riassorbono
una parte della matrice calcificata con formazione di una lacuna di erosione, o di Howship; 3) fase di reversione, durante
la quale gli osteoclasti scompaiono e sono sostituiti da cellule
“post-osteoclastiche” le quali, a tutt’oggi poco caratterizzate,
sembrano sintetizzare la linea cementante che “tappezza” il
fondo della lacuna di erosione; 4) fase di riparazione, durante
la quale osteoblasti attivi sostituiscono le cellule post-osteoclastiche e sintetizzano tanta matrice ossea quanta occorre per
riparare la lacuna di Howship. L’attività osteoclastica è dunque in equilibrio con quella osteoblastica cosicché, al termine
della funzione della BMU, non si riscontra alcuna variazione
volumetrica dell’osso e solo la presenza della linea cementante resta a documentare l’avvenuto processo di demolizione-ricostruzione ossea. Il rimodellamento osseo, che si svolge prevalentemente sulle superfici endostali dell’osso spugnoso, metabolicamente più attivo dell’osso compatto, è dipendente da
stimoli di natura metabolica e di natura meccanica. Tra i primi
ha un ruolo preminente la regolazione della calcemia. La concentrazione ematica di calcio può infatti essere aumentata allorché gli ioni calcio che derivano dal riassorbimento della
matrice calcificata possono passare nel circolo sanguigno. Tra
i secondi, è importante il movimento e la funzione muscolare,
perché il mantenimento della normale attività delle cellule ossee è in gran parte dipendente dalle forze meccaniche che si
esercitano sul tessuto, come dimostra la perdita di volume osseo che si verifica con l’inattività fisica (nel soggiorno prolungato a letto, nelle fasciature gessate, per mancanza di gravità quale si riscontra negli astronauti). Il normale equilibrio
osteoclastico-osteoblastico è regolato e mantenuto da un complesso sistema di fattori, generali e locali. Per quanto riguarda
l’osteoclasto, tra i fattori generali meritano menzione per la loro azione di stimolo soprattutto il paratormone (PTH) e il metabolita renale della vitamina D (1,25(OH)2D3) e, per l’azione
inibitrice, la calcitonina; tra i fattori locali, hanno azione stimolante le Interleukine (IL-1, IL-6), il Tumor Necrosis Factor
(TNF) e il Monocyte-Macrophage Colony Stimulating Factor
207
(M-CSF), in assenza del quale la differenziazione dell’osteoclasto non si verifica, mentre hanno azione inibitrice l’Interferon-gamma (IGF-γ), il Trasforming Growth Factor (TGF-β) e,
soprattutto, l’osteoprotegerina (OPG). Questa inibisce l’attivazione degli osteoclasti in quanto funziona come recettore
“adescatore” (decoy receptor) per RANKL (receptor activator
of NFkappaB ligand) e ne impedisce il legame con RANK, il
recettore di membrana delle cellule preosteoclastiche, la cui
stimolazione ad opera di RANKL, in presenza di M-CSF, dà
inizio alla loro differenziazione in senso osteoclastico. Per
quanto riguarda gli osteoblasti, hanno azione stimolante gli
estrogeni e, tra i fattori locali, soprattutto quelli della superfamiglia del Transforming Growth Factor (TGF) e della Bone
Morphogenetic Protein (BMP), mentre hanno azione inibitrice i glucocorticoidi. Qualsiasi alterazione di uno o più di tali
fattori può determinare lo sviluppo di una osteopatia metabolica la quale può essere diagnosticata mediante agobiopsia ossea, eseguita a livello della cresta iliaca. L’osso spugnoso di
questa sede, facilmente aggredibile, è infatti ritenuto con buona approssimazione rappresentativo della situazione del resto
dello scheletro. Il cilindro bioptico, pur nelle sue limitate dimensioni, consente di esaminare sia l’osso compatto che quello spugnoso, nonché di apprezzare la cellularità del midollo
osseo. Se adeguatamente trattato, esso permette non solo le
consuete indagini istopatologiche, ma anche quelle istochimiche, immunoistochimiche e ultrastrutturali. Esso consente
inoltre uno studio quantitativo istomorfometrico, il quale può
essere basato sia su parametri statici di perimetri, superfici e
volumi, sia su parametri dinamici ottenibili mediante la somministrazione di tetracicline e la misura delle marcature fluorescenti corrispondenti alla loro fissazione nelle aree di ossificazione. Si tenga presente comunque che già il semplice studio istopatologico offre elementi sufficienti ad una corretta
diagnosi di osteopatia metabolica. Così un eccessivo riassorbimento osseo, quale si riscontra negli iperparatiroidismi, primitivi o secondari, è caratterizzato dall’aumentato numero di
osteoclasti attivi, eventualmente evidenziati mediante la reazione per l’attività fosfatasica acida resistente al tartrato
(TRAP), dalla presenza di profonde lacune di riassorbimento
che possono apparire come ampie erosioni nel contesto delle
trabecole (riassorbimento lacunare) o possono interromperne
la continuità (riassorbimento dissecante), dalla presenza della
cosiddetta “fibrosi” midollare (impropriamente denominata
“osteite fibrosa”). Una eccessiva attività osteoblastica, quasi
sempre presente in questi casi e in tutti quelli contrassegnati
da accentuato rimodellamento osseo, è facilmente individuabile non solo in base all’aumentato numero di osteoblasti,
eventualmente evidenziati mediante la reazione per la fosfatasi alcalina, ma anche per l’eccessiva ampiezza del tessuto
osteoide (iperosteoidosi) e per la maggior fissazione delle tetracicline. Il tessuto osteoide può essere aumentato anche nell’osso osteomalacico a seguito della sua mancata calcificazione, ma in tal caso la fissazione delle tetracicline è diminuita.
Al contrario, un ridotto rimodellamento osseo è contrassegnato dalla scarsa presenza o dall’assenza di elementi osteoclastici e/o osteoblastici e dal fatto che le superfici endostali sono
rivestite quasi esclusivamente dalle cellule piatte di rivestimento (cellule lining). In tal caso, si riscontra frequentemente
una diminuzione del volume osseo, come si verifica tipicamente nelle osteoporosi primitive (senile, post-menopausale)
e secondarie (da glucocorticoidi), o nella cosiddetta “malattia
adinamica dell’osso” del paziente uremico, che sembra conseguente ad una eccessiva inibizione iatrogena dell’attività paratiroidea.
208
La biopsia nelle lesioni condrogeniche
F. Bertoni
Università di Bologna, Istituto Ortopedico Rizzoli
I tumori condrogenici benigni nella casistica dell’Istituto
Rizzoli sono:
osteocondroma (esostosi ): 1177 (solitarie) e 274 (multiple)
– condroma: 481 (solitari) e 90 (multipli)
– condroblastoma: 215
– fibroma condromixoide: 73
I tumori condrogenici maligni sono:
– condrosarcoma centrale: 500
– condrosarcoma periferico: 226
– condrosarcoma dedifferenziato centrale: 110
– condrosarcoma mesenchimale: 20
– condrosarcoma a cellule chiare: 26
Mentre nel condroblastoma ed nel fibroma condromixoide la
biopsia con trocar può offrire abbastanza materiale per la diagnosi nel condroma la morfologia e la citologia non sono sufficienti per differenziare quest’ultima lesione dal condrosarcoma a basso grado. Sono i caratteri clinico-radiografici che
guidano la biopsia che deve essere incisionale quando la lesione assume caratteri di sospetta malignità. Nel condrosarcoma e varianti la biopsia con trocar e incisionale sono indifferentemente applicate.
Le lesioni osteogeniche benigne
C. Della Rocca
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università di Roma “La Sapienza”
Per lesioni osteogeniche si intendono lesioni caratterizzate
dalla capacità di deporre matrice ossea, più o meno calcificata; tali lesioni sono di solito caratterizzate dalla presenza preponderante di elementi osteoblastici o simil osteoblastici. Esse sono comunemente suddivise in benigne e maligne. La
diagnosi differenziale, generalmente facile dal punto di vista
clinico, radiologico e istologico, può porre problemi su biopsia, ove la frammentarietà del materiale rende difficile l’interpretazione di alcuni parametri istologici. Premesso che
l’approccio diagnostico corretto di qualsiasi lesione ossea necessita di uno studio preventivo diretto del materiale radiografico ad essa relativo e all’acquisizione dei dati clinici,
vengono di seguito descritti i quadri istologici classici delle
lesioni osteogeniche benigne.
Fibroma Ossificante
Con il termine di fibroma ossificante si designano due lesioni con caratteristiche diverse sia dal punto di vista istologico
che dal comportamento clinico: il fibroma ossificante delle
ossa gnatiche ed il fibroma ossificante delle ossa lunghe. Il
primo è di solito una lesione ben circoscritta e mostra un carattere di crescita espansivo. Lo stroma è fibroso e può presentare aspetti proliferativi anche con mitosi numerose, ma
sempre tipiche. Le trabecole osse lesionali sono irregolari,
vanno incontro a maturazione lamellare e sono pressoché
sempre bordate da osteoblasti tipici, mai in mitosi. La vascolarizzazione stromale non è particolarmente pronunciata e le
cellule giganti di tipo ostoclastico sono presenti in relazione
a superfici ossee in riassorbimento e/o in sede periferica.
Il fibroma ossificante delle ossa lunghe, noto anche come displasia osteofibrosa e malattia di Campanacci, colpisce pressoché esclusivamente la tibia ed il perone, e in tali sedi può
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essere multifocale. Di sovente la lesione non è ben demarcata, e può interessare la corticale deformandola. Pur non esistendo un chiaro carattere infiltrativo e/o permeativo, il margine di crescita può non essere netto nei confronti dell’osso
limitrofo. I caratteri istologici sono abbastanza simili al fibroma ossificante delle ossa gnatiche e, in particolare, la
componente ossea è tipicamente maturante in senso lamellare e gli osteoblasti che bordano le trabecole lesionali sono tipici, mai in mitosi, e ben riconoscibili. Lo stroma, anche in
questo caso, tipicamente fibroso, può esser più lasso e talvolta meglio vascolarizzato delle lesioni del massiccio craniofacciale, mentre del tutto simile è la presenza e disposizione
delle cellule giganti di tipo osteoclastico. Il fibroma ossificante delle ossa lunghe è stato messo in relazione all’insorgenza dell’adamantinoma delle ossa lunghe e pertanto risulta utile indagare le lesioni con colorazioni immunoistochimiche alla ricerca di cellule ameloblastomatose a volte di difficile rilevabilità alla mera ricerca morfologica.
Osteoma
Per osteoma si intende un addensamento osseo, probabilmente quasi mai a significato neoplasico, costituito da osso
lamellare maturo compatto, osteoma eburneo, e/o trasecolare, osteoma spongioso.
Osteoma Osteoide
L’Osteoma Osteoide è una lesione ben circoscritta circondata da osso sclerotico reattivo. L’area centrale della lesione è
occupata dal cosiddetto nido, costituito da trabecole di tessuto osteoide a fibre intrecciate, irregolari, con vario grado di
calcificazione. Nel centro del nido la rete trabecolare, che in
alcuni casi assume l’aspetto di una deposizione diffusa di
osteoide, risulta più densa che in periferia, dove appare più
regolare. La frequente commistione di questi quadri su materiale bioptico non deve indurre in errore e deve farne sospettare la natura artefattuale. Gli osteoblasti, rotondeggianti o
fusati, sono spesso presenti lungo le trabecole neoplastiche.
Non si rinvengono mitosi tra le cellule osteoblastiche e rare
sono quelle tra le cellule stromali. Rari gli aspetti epitelioidi
ed eccezionali le atipie cellulari. Un discreto numero di
osteoclasti e di cellule simil-osteoclastiche è sempre rinvenibile. Generalmente la densità dello stroma è alta, mentre la
vascolarizzazione è limitata.
Osteoblastoma
I principali componenti degli Osteoblastomi sono rappresentati da cellule simil-osteoblastiche, cellule stromali, osteoclasti e cellule giganti simil-osteoclastiche. Vi e, inoltre, sempre
presente, deposizione di tessuto osteoide ed evidente vascolarizzazione. Anche se tutte queste componenti sono di solito presenti contemporaneamente, tuttavia le loro caratteristiche e la loro quantità relativa varino creando un ampio spettro di aspetti istologici che può porre in seria difficoltà il patologo.
Gli osteoblasti si riscontrano solitamente allineati lungo le
trabecole di nuova formazione in genere disposti in un unico
strato. Essi possono assumere varie forme ed in particolare
appaiono ora tondeggianti ora fusati. Con una certa frequenza gli osteoblasti possono assumere aspetto epitelioide con
dimensioni aumentate, nuclei rotondi, nucleoli prominenti e
citoplasma scarsamente eosinofilo. Lo stroma della lesione
risulta lasso in circa la metà dei casi mentre è compatto nei
restanti. L’atipia delle cellule stromali è pressoché assente.
Le mitosi, peraltro infrequenti, sono presenti esclusivamente
in cellule di tipo stromale. Spesso sono presenti osteoclasti e
cellule giganti simil-osteoclastiche, omogeneamente disperse
nell’ambito della neoplasia. È rilevabile in tutti i casi una deposizione di tessuto osteoide con vario grado di calcificazio-
LA BIOPSIA OSSEA NELLE LESIONI NEOPLASTICHE E NON NEOPLASTICHE...
ne e maturazione lamellare. Contrariamente a quanto comunemente ritenuto, non è raro rinvenire osteoide a deposizione
interstiziale e/o diffusa mentre la vascolarizzazione della lesione risulta sempre chiaramente discernibile a livello stromale sebbene possa essere variamente espressa in termini
quantitativi.
I margini della lesione sono generalmente ben delineati e,
nella maggior parte dei casi la neoplasia appare ben circoscritta. Se il tumore cresce nei tessuti molli, un sottile strato
di osso reattivo generalmente separa la lesione dai tessuti viciniori. Tale reperto, di particolare importanza è di solito visibile sui primi prelievi bioptici effettuati, di solito concernenti la “parete” della lesione; in casi di recidiva, non è infrequente rinvenire un atteggiamento di pseudo-permeazione
dei tessuti sani circostanti.
Displasia fibrosa
Le caratteristiche istologiche salienti della displasia fibrosa,
lesione non neoplastica mono e poliostotica, sono rappresentate dalla presenza di un tessuto fibroso nel contesto del quale si apprezzano trabecole ossee e/o osteoidi, irregolari pressoché sempre di tipo primario in assenza di osteoblasti
morfologicamente riconoscibili, ancorché, in realtà, presenti
ma con fenotipo mutato. La lesione non è mai circoscritta e
si compenetra nel tessuto osseo circostante.
Le lesioni osteogeniche maligne centrali
A. Franchi
Dipartimento di Patologia Umana e Oncologia, Università
di Firenze
Il quadro istologico dell’osteosarcoma è uno dei più eterogenei riscontrabili nell’ambito della patologia neoplastica umana, in quanto aspetti profondamente diversi possono coesistere nell’ambito della stessa neoplasia, o possono essere osservati in neoplasie diverse. L’elemento cardine che è necessario per la diagnosi è la produzione, anche in piccole quantità, di matrice osteoide da parte delle cellule neoplastiche.
Peraltro, alcune caratteristiche citoarchitetturali possono essere utilizzate per suddividere gli osteosarcomi in gruppi distinti. Secondo la classificazione WHO del 2002 1 tra le forme centrali o intramidollari, che sono l’oggetto di questa presentazione, si possono distinguere l’osteosarcoma convenzionale, con le varietà osteoblastica, condroblastica e fibroblastica, l’osteosarcoma telangectasico, l’osteosarcoma a
piccole cellule, l’osteosarcoma a basso grado di malignità, e
gli osteosarcomi secondari. Dal punto di vista terapeutico appare di fondamentale importanza separare le forme a basso
grado di malignità, che sono caratterizzate da una scarsa propensione alla disseminazione a distanza e vengono trattate
con il solo intervento chirurgico, dalle forme ad alto grado di
malignità, che necessitano di un trattamento chemioterapico
associato al trattamento chirurgico, a causa del rischio elevato di disseminazione metastatica già al momento della diagnosi.
Nella maggior parte dei casi gli osteosarcomi centrali ad alto
grado presentano caratteristiche clinico radiologiche fortemente indicative della diagnosi, sulla base dell’età del paziente, della sede della lesione, e del quadro radiologico di
distruzione ossea, di mineralizzazione, e di formazione di osso reattivo a livello periostale. Le difficoltà diagnostiche possono insorgere quando occasionalmente la neoplasia si presenta in età più avanzata, in sede non metafisaria, o con un
quadro istologico che devia significativamente da quello
209
usuale. Le problematiche più rilevanti di diagnostica differenziale dell’osteosarcoma ad alto grado di malignità che
verranno discusse nella presentazione riguardano innanzitutto lesioni benigne, quali il tessuto osseo reattivo ed il callo di
frattura con componenti ossea e cartilaginea, che possono essere confusi con l’osteosarcoma convenzionale; la cisti aneurismatica ossea, che può simulare l’osteosarcoma telangectasico; l’osteoblastoma, che deve essere distinto dall’osteosarcoma osteoblastico, ed il tumore a cellule giganti dell’osso, il
cui aspetto istologico può essere molto simile a quello dell’osteosarcoma ricco di cellule giganti. Inoltre l’osteosarcoma ad alto grado di malignità deve essere distinto da altre
neoplasie maligne primitive dell’osso, quali il condrosarcoma, nel caso in cui ci sia una preponderante produzione di
matrice cartilaginea, il fibrosarcoma/istiocitoma fibroso maligno, quando la produzione di matrice osteoide sia scarsa e
difficilmente evidenziabile, ed il sarcoma di Ewing, quando
la neoplasia è costituita da elementi rotondeggianti di taglia
medio-piccola.
L’osteosarcoma centrale a basso grado di malignità è una varietà molto rara (circa l’1% degli osteosarcomi) e che spesso
crea notevoli problemi di diagnosi differenziale a causa dell’aspetto istologico estremamente blando, che può essere facilmente confuso con quello di una lesione benigna 2-3. Si tratta di una diagnosi differenziale di notevole rilievo, in quanto
un trattamento chirurgico incompleto di un osteosarcoma di
basso grado può esitare in recidiva della neoplasia, con progressivo incremento del grado di malignità (dedifferenziazione) e possibile comparsa di metastasi a distanza 2-3. L’osteosarcoma centrale a basso grado è caratterizzato da una proliferazione di elementi neoplastici fibroblasto-simili, con atipia
scarsa o assente, immersi in abbondante matrice ricca di collageno, e con produzione di matrice ossea che più spesso è organizzata in trabecole sottili e di forma irregolare, in modo
che il quadro istologico è molto simile a quello della displasia
fibrosa ossea 2-3. Altre volte le trabecole ossee prodotte dalla
neoplasia sono più spesse e ricordano quelle dell’osteosarcoma parostale, oppure si caratterizzano per un aspetto a mosaico delle linee cementanti che ricorda quello della malattia di
Paget dell’osso 2-4. In ogni caso, il carattere aggressivo della
lesione, che è il cardine per la distinzione da lesioni benigne,
può essere riconosciuto principalmente valutando la presenza
di infiltrazione del tessuto osseo circostante. Aspetti chiaramente invasivi non sono però sempre evidenziabili su materiale bioptico pre-operatorio, e pertanto diventa essenziale
un’accurata correlazione con le caratteristiche radiologiche
della lesione. Infatti, a livello radiologico, l’aspetto aggressivo è in genere evidente, e si manifesta con irregolarità dei
contorni della proliferazione e con tendenza a distruggere la
corticale ossea con invasione dei tessuti molli 2-4.
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CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
210
Le lesioni osteogeniche della superficie
A. Parafioriti, E. Armiraglio
La biopsia ossea nelle lesioni non osteocondrogenetiche
U.O. di Anatomia Patologica, Istituto Ortopedico “Gaetano
Pini”, Milano
P. Bacchini
Le lesioni osteogeniche della superficie dell’osso rappresentano una percentuale esigua rispetto alle lesioni che insorgono in sede intramidollare. In questa categoria di lesioni osteoproduttive sono comprese sia proliferazioni similtumorali e benigne, come le periostiti ossificanti floride e le
miositi ossificanti profonde sottofasciali, sia neoplasie maligne come gli osteosarcomi periferici. La neoapposizione
ossea osservata in lesioni periostee reattive (periostite ossificante florida, e proliferazione osteocondromatosa bizzarra
paraosteale) può rappresentare un importante problema di
diagnosi differenziale con lesioni osteoproduttive maligne.
Solitamente queste lesioni sono più tipiche delle piccole ossa tubulari delle mani o dei piedi, occasionali nelle ossa
lunghe. Dal punto di vista istologico raramente vengono osservate atipie citologiche vere, mitosi atipiche e deposizione di matrice osteoide immatura a disposizione pericellulare anche se le lesioni preoccupano per l’ ipercellularità e
l’indice mitotico che può risultare elevato rispetto ad esempio all’osteosarcoma iuxtacorticale a basso grado di malignità. Analogamente può risultare difficile, soprattutto in
caso di biopsie piccole e senza la necessaria integrazione
anatomo-clinica, la diagnosi differenziale della miosite ossificante a sede profonda iuxtacorticale che può mimare una
lesione osteoproduttiva soprattutto se non si reperta istologicamente il fenomeno della “zonazione”.
Gli osteosarcomi periferici o iuxtacorticali rappresentano
meno del 7% di tutti i sarcomi osteogenici e costituiscono un
gruppo eterogeneo sia dal punto di vista anatomo-clinico sia
dal punto di vista del comportamento biologico.
A questo gruppo appartengono entità caratterizzate da crescita lenta e scarsa tendenza alla disseminazione metastatica,
quali l’osteosarcoma parostale o iuxtacorticale e l’osteosarcoma periosteo ed entità caratterizzate da un comportamento
estremamente aggressivo, quali l’osteosarcoma parostale
“dedifferenziato” e l’ostesarcoma di superficie ad alto grado
di malignità. Quest’ultimo è molto raro, rappresenta lo 0,6%
di tutti gli osteosarcomi, può presentare un’ infiltrazione microscopica della cavità midollare e istologicamente ha
morfologia sovrapponibile all’osteosarcoma intramidollare
col quale condivide la prognosi.
L’osteosarcoma parostale rappresenta il 5% degli osteosarcomi, predilige l’età adulta ed è, morfologicamente e biologicamente, una neoplasia a basso grado di malignità che di solito non pone problemi di diagnosi differenziale. Nel 20% dei
casi può presentare dedifferenziazione con coesistenza del
pattern classico a basso grado di malignità con aree citologicamente da sarcoma di alto grado.
Infine l’osteosarcoma periosteo rappresenta l’1,5% degli
osteosarcomi; è una neoplasia di grado intermedio e istologicamente mostra aree condroidi, cellule fusate spesso anaplastiche e scarsa produzione di matrice osteoide, ponendo degli
importanti problemi di diagnosi differenziale anche con lesioni di natura cartilaginea.
Le lesioni non osteocondrogenetiche comprendono i tumori
ematopoietici quali linfoma e mieloma, i tumori fibrogenetici ed istiocitari benigni e maligni, tumori notocordali e vascolari e tumori di c.d. origine ignota quali il tumore a cellule giganti, il sarcoma maligno associato a tumore a cellule giganti ed il sarcoma di Ewing. In tutte queste lesioni la biopsia
con ago fine o con trocar può essere impiegata proficuamente al fine di arrivare ad una diagnosi ed indirizzare la terapia.Tra le lesioni pseudosarcomatose una delle lesioni più
importanti è la cisti aneurismatica 1-3.
Nell’ambito delle lesioni ematopoietiche la casistica dell’Istituto Rizzoli comprende n. 518 casi di mieloma. Nella casistica della Mayo Clinic sono riportati 3749 mielomi: 814 diagnosticati con biopsia chirurgica ed i restanti 2935 diagnosticati con agoaspirato midollare.
I linfomi maligni dell’osso all’Istituto Rizzoli ammontano a
n. 365: ed in circa il 20% dei casi la diagnosi è stata fatta su
materiale bioptico.
Nell’ambito dei tumori ad origine sconosciuta i tumori più
frequenti sono rappresentati dal tumore a cellule giganti (all’Istituto Rizzoli sono 876) e dal sarcoma di Ewing (n. 788
casi). La diagnosi preoperatoria in entrambe le lesioni è stata
effettuata tramite biopsia con trocar che ha dato risultati sicuri quando effettuata da mani esperte dal punto di vista clinico e radiografico. Il materiale inoltre è sufficiente per eventuali tecniche speciali quali immunoistochimica, microscopica elettronica o biologia molecolare.Tra i tumori fibrogenici
il più importante tumore di questo gruppo è il fibrosarcoma
che assomma nella casistica del Rizzoli a n. 184 casi. L’agobiopsia negli ultimi 10 anni è stata impiegata routinariamente per la diagnosi di questo tumore. L’immunoistochimica applicata ha permesso di differenziare il fibrosarcoma dal leiomiosarcoma (tumore raro nel distretto osseo). Nell’ambito
dei tumori istiocitici l’istiocitoma fibroso maligno ha seguito
la stessa evoluzione dell’analoga lesione nelle parti molli e
tale diagnosi è raramente fatta al giorno d’oggi.
I tumori della notocorda costituiscono circa n. 103 casi nella
casistica dell’Istituto Rizzoli e sono rappresentati dal cordoma: si tratta di tumori in cui l’agobiopsia è in grado di ottenere sufficiente materiale per la valutazione istochimica dei
markers epiteliali e dell’S100. In tale tumore in particolare va
tenuto presente che il tramite bioptico può essere contaminato e quindi va sempre asportato all’atto dell’intervento chirurgico. Questa regola, vera in tutti i tumori, è particolarmente applicabile al cordoma.
La cisti aneurismatica è in genere ritenuta lesione pseudoneoplastica: la diagnosi con ago può essere difficile in quanto lo scarso materiale può essere immerso in abbondante materiale ematico e non avere aspetti diagnostici.
Università di Bologna, Istituto Ortopedico Rizzoli
Bibilografia
1
Huvos AG. Bone Tumors - Diagnosis, treatment and prognosis. Second Edition W.B.Saunders Company, 1991.
2
Unni KK. Dahlin’s Bone Tumor - General aspects and data on 11.087
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3
Campanacci M. Bone and Soft Tissue Tumors. 2nd Edition. Piccin
Nuova Libraria, Padova; Springer-Verlag, Wien, New York, 1999.
PATHOLOGICA 2004;96:211
Dermatopatologia infiammatoria: approccio
diagnostico per patterns
Moderatori: D. Massi (Firenze) e G. Massi (Roma)
Dermatopatologia infiammatoria: approccio
diagnostico per patterns
D. Massi, G. Massi*
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università
di Firenze; * Dipartimento di Patologia, Università Cattolica
del Sacro Cuore, Roma
Nel 1978 A. Bernard Ackerman pubblicò il volume intitolato Histologic Diagnosis of Inflammatory Skin Diseases: A
Method by Pattern Analysis nel quale per la prima volta veniva introdotto nello studio della dermatopatologia infiammatoria un metodo diagnostico basato sull’analisi morfologica di patterns di reazione tissutale 1. Il metodo consiste
nell’esaminare la distribuzione dell’infiltrato infiammatorio
e le modificazioni epidermiche integrando tali reperti e riconducendoli a 9 patterns principali 1. L’applicazione di un
metodo algoritmico all’analisi di tali patterns è indispensabile, sebbene talora non sufficiente, al fine di poter formulare una diagnosi specifica. Nel corso degli anni, il metodo
algoritmico basato sull’analisi di patterns è stato costantemente perfezionato, soprattutto in funzione delle correlazioni clinico-patologiche 2. In particolare, è stato approfondito lo studio di quelle dermatiti che nel corso della loro
spontanea evoluzione sviluppano lesioni elementari diverse
corrispondenti a patterns istopatologici eterogenei 2 3. Il metodo algoritmico deve essere inteso come una guida alla
diagnosi specifica ed applicato con una certa flessibilità tenendo presente che in alcune circostanze alcuni reperti possono non essere specifici, ma solo “compatibili” con un determinato quadro clinico 3 4. Nel corso dello slide seminar
saranno illustrati casi riconducibili a 4 principali patterns di
reazione, quali: i) pattern di interfaccia o lichenoide; ii) pattern spongiotico; iii) pattern vescicolo-bolloso; e iv) pattern
granulomatoso.
Pattern di interfaccia
Il pattern di interfaccia o lichenoide è caratterizzato da un
danno dello strato basale epidermico e/o da un infiltrato infiammatorio che oscura la giunzione dermo-epidermica. Il
danno dello strato basale si può manifestare come degenerazione vacuolare basale e/o con la comparsa di cheratinociti picnotici andati incontro a morte cellulare per apoptosi
(corpi di Civatte). Al fine di formulare una diagnosi specifica nell’ambito delle dermatiti di interfaccia è necessario
prendere in considerazione l’entità e la tipologia del danno
dello strato basale epidermico, la composizione e distribuzione dell’infiltrato infiammatorio e la presenza di altre
modificazioni istopatologiche peculiari quali la presenza di
abbondante incontinentia pigmenti. Alcune dermatosi sono
più tipicamente associate ad un infiltrato lichenoide (lichen
planus, lichen nitidus, lichen striatus, reazione lichenoide
da farmaci, cheratosi lichenoide, lichen sclero-atrofico)
mentre altre si caratterizzano per un più marcato danno
dell’interfaccia (lupus eritematoso, dermatomiosite, poichilodermia, eritema multiforme, pitiriasi lichenoide,
aGVHD).
Pattern spongiotico
Il pattern di reazione spongiotico è caratterizzato da edema
intraepidermico intercellulare. All’esame istopatologico si riconosce per la presenza di un allargamento degli spazi intercheratinocitari ed allungamento delle strutture desmosomiali. La spongiosi può manifestarsi in foci microscopici o costituire lesioni vescicolo-bollose. La cronicizzazione di lesioni spongiotiche si associa alla comparsa di una iperplasia epidermica psoriasiforme, spesso in conseguenza del grattamento, con progressiva riduzione dell’edema intercellulare. Nell’ambito delle dermatiti spongiotiche la caratterizzazione
dell’infiltrato infiammatorio (linfoistiocitario vs. eosinofilo
vs. neutrofilo) associato può essere di aiuto nella definizione
dello specifico quadro clinico.
Pattern vescicolo-bolloso
In presenza di una lesione vescicolo-bollosa a livello intraepidermico e giunzionale la diagnosi specifica si basa sul riconoscimento di: i) livello anatomico del distacco; ii) meccanismo patogenetico responsabile del distacco, e iii) caratterizzazione dell’infiltrato infiammatorio. Il livello anatomico
del distacco può essere subcorneo, nel contesto dello strato
spinoso, soprabasale o subepidermico. Il meccanismo responsabile del distacco può essere spongiosi, edema intracellulare e degenerazione balloniforme o acantolisi (diminuita
coesione intercellulare). Per un accurato inquadramento delle dermatiti vescicolo-bollose subepidermiche oltre ai dati
clinici è fondamentale l’integrazione con i dati laboratoristici (immunofluorescenza, immunoistochimica per lo studio
dei costituenti della membrana basale), microscopia elettronica, ed immunoelettromicroscopia.
Pattern granulomatoso
Le dermatiti granulomatose sono caratterizzate dalla presenza
nel derma e/o ipoderma di aggregati di cellule epitelioidi commiste a cellule giganti, linfociti, plasmacellule e fibroblasti.
Sulla base delle caratteristiche citoarchitetturali si distinguono
5 tipologie di granuloma: i) tuberculoide, ii) sarcoideo, iii) necrobiotico (a palizzata), iv) suppurativo e v) da corpo estraneo.
La diagnosi specifica nell’ambito delle dermatiti granulomatose si basa sul riconoscimento della tipologia e distribuzione dei
granulomi, sulla presenza di aspetti peculiari quali necrosi centrale, suppurazione o necrobiosi ed infine sulla documentazione di corpi estranei o microrganismi.
Attraverso un approccio eminentemente pratico sarà illustrato
il metodo diagnostico algoritmico privilegiando quegli aspetti
che possono essere di ausilio nella pratica diagnostica, con particolare riferimento alle correlazioni clinico-patologiche.
Bibliografia
1
Ackerman AB. Histologic Diagnosis of Inflammatory Skin Diseases:
A Method by Pattern Analysis. Philadelphia: Lea & Febiger, 1978.
2
Ackerman AB, et al. Histologic Diagnosis of Inflammatory Skin Diseases: An algorithmic method based on pattern analysis. (Second
Edition). Baltimore: William & Wilkins, 1997.
3
Weedon D, Strutton G. Skin Pathology (Second Edition). London:
Churchill Livingstone, 2002.
4
Massi G, Chiarelli C. Atlante di Dermatopatologia. Milano: Masson,
1995.
PATHOLOGICA 2004;96:212
Patologia respiratoria neoplastica e non
Moderatori: M. Chilosi (Verona) e G. Fontanini (Pisa)
Iperplasia adenomatosa atipica polmonare
*
*
*
**
S. Damiani , L. Morandi , S. Asioli , A. Cavazza , A. Pession*
*
Sezione di Anatomia Patologica “M. Malpighi”, Università
di Bologna, Ospedale Bellaria; ** Servizio di Anatomia Patologica, Ospedale S. Maria Nuova, Reggio Emilia
Storia clinica del caso: paziente di sesso maschile, fumatore,
di 58 anni. Nodulo polmonare del lobo superiore dx, di 3 cm.
Nel tessuto polmonare a distanza dalla neoplasia, macroscopicamente indenne da neoplasia, si rilevano all’istologia,
aree multiple di 3-4 mm, con setti rivestiti da pneumociti atipici.
Diagnosi: focolai di iperplasia adenomatosa atipica associata ad adenocarcinoma.
Commento: l’iperplasia adenomatosa atipica (IAA), entità
definita recentemente anche dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità, è considerata il precursore dell’adenocarcinoma
(AD) e del carcinoma bronchiolo-alveolare (BAC). La IAA
è, per definizione, una lesione di piccole dimensioni (non superiore ai 5 mm), costituita da setti alveolari conservati, o di
poco ispessiti, bordati da pneumociti con atipie nucleari che
vanno dalla presenza di pseudoinclusioni eosinofile alla cromatina addensata alle irregolarità della membrana nucleare.
Da un punto di vista morfologico, il problema principale nella definizione di lesioni interpretabili come IAA risiede nei
confini alquanto sfumati tra questa e un piccolo focolaio di
BAC e, il criterio delle dimensioni scelto dalla OMS appare
essere ovviamente un artifizio, seppure utile. La reale incidenza della IAA non è chiara. Infatti, la frequenza di focolai
singoli o multipli di IAA varia nelle casistiche dal 3-5% a oltre il 50% 1 dei pazienti portatori di carcinoma polmonare. In
realtà, date le piccole dimensioni che caratterizzano la IAA,
la grande differenza di questi dati è almeno in parte riconducibile alla vastità del campionamento del tessuto polmonare
macroscopicamente “normale”. Seppure esistono ormai varie evidenze, non solo morfologiche, ma anche molecolari, a
supporto della natura neoplastica della IAA, il tipo di relazione che esiste tra questa lesione e il carcinoma polmonare
non è ancora chiaro e in particolare non è chiaro il rapporto
di clonalità esistente tra il carcinoma e i focolai di IAA associati. È noto che il carcinoma polmonare si presenta non di
rado in forma bi o multifocale. Studi sul rapporto di clonalità
tra i noduli carcinomatosi multipli e tra i foci di IAA e il carcinoma associato hanno dato risultati discordanti. Niho e
collaboratori 2 hanno trovato un pattern di Humara differente
tra la IAA e il carcinoma in 3 su 5 casi studiati, supportando
un’origine multifocale. Simili risultati sono stati portati da
Huang e collaboratori 3 che hanno trovato differenti alterazioni genetiche nei tumori multifocali. Al contrario, recentemente Ullmann e Collaboratori 4 studiando 13 pazienti con
tecniche di ibridazione genomica comparata hanno riscontrato alterazioni sovrapponibili nel BAC e nei foci di IAA associati, suggerendo per questi casi la possibilità che i foci di
IAA rappresentino piuttosto foci di disseminazione neoplastica a partenza dal nodulo principale. Tuttavia il limite di
questi e altri studi simili è posto principalmente dal basso numero di alterazioni cromosomiche studiate e, quindi, anche
trovare un pattern simile non esclude in assoluto un’origine
policlonale delle lesioni. Recentemente abbiamo studiato
l’assetto clonale in 16 pazienti, per un totale di 18 BAC/AD
e 23 foci di IAA. La clonalità è stata studiata sia valutando
la perdita di eterozigosi (LOH) per 7 microsatelliti, tra quelli maggiormente coinvolti nella carcinogenesi polmonare,
sia mediante il sequenziamento diretto della regione D-Loop
del DNA mitocondriale. Quest’ultima tecnica appare particolarmente vantaggiosa negli studi di clonalità poichè permette di esaminare con la microdissezione di un numero di
cellule relativamente basso, una grande quantità di alterazioni geniche, essendo il DNA mitocondriale molto esposto a
mutazioni ed essendo queste particolarmente frequenti nella
regione D-Loop (non codificante). Nella nostra serie, in tutti i casi che sono stati considerati informativi, i foci di IAA
sono risultati geneticamente “lontani” dal carcinoma associato supportando la teoria della carcinogenesi multifocale
del polmone.
Bibliografia
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Koga T, Hashimoto S, Sugio K, Yonemitsu Y, Nakashima Y, et al. Am
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Ullmann R, Bongiovanni M, Halbwedl I, Fraire AE, et al. J Pathol
2003;201:371-376.
PATHOLOGICA 2004;96:213-214
Patologia feto-placentare – L’autopsia feto-neonatale:
livelli diagnostici minimi o di eccellenza?
Moderatori: G. Bulfamante (Milano) e E. Fulcheri (Genova)
Realtà complesse ed epidemiologia di un
fenomeno
M. Grosso, L. De Meo*, M. Trovato, N. Carlo Stella**, G.
Barresi
Dipartimento di Patologia Umana, Università di Messina; *
Dipartimento Scienze Economiche, Finanziarie, Sociali, Ambientali e Territoriali, Università di Messina; ** Dipartimento Scienze Ginecologiche, Ostetriche e Medicina della
Riproduzione, Università di Messina
Il decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del
09/07/1999 n° 732500 art. 1 comm. 2 recita in questi termini: “per i nati morti devono essere eseguiti gli esami autoptici, gli accertamenti anamnestici previsti dalla visita medica e
qualora ritenuti necessari gli esami strumentali e l’esecuzione di fotografie…”. È ragionevole pensare che questo decreto sia nato dalla constatazione, che molte patologie fetali e
neonatali, siano sfuggite alla valutazione epidemiologica per
mancanza di riscontro diagnostico. Inoltre, le attuali problematiche demografiche nazionali, legate al decremento della
natalità, impongono l’attivazione di uno stretto monitoraggio
della gravidanza e, nel caso di un esito infausto, la necessità
di fornire alla coppia risposte ben precise circa le previsioni
di successo per una futura gravidanza.
Da una revisione della letteratura si evince una riduzione del
numero dei riscontri diagnostici in generale 1 2, affermandosi
sempre di più il concetto che: “nell’ambiente medico accademico ed ospedaliero l’autopsia è vissuta e percepita da tempo come una pratica fuori moda inserita in uno scenario caratterizzato da spettacolari ed affascinanti innovazioni tecnologiche” 1. I clinici, pur riconoscendo la validità, sempre meno frequentemente richiedono il riscontro diagnostico. Tale
riduzione coinvolge anche l’autopsia feto-neonatale a causa
della disponibilità e della diffusione di tecnologie avanzate
nel monitoraggio della gravidanza, quali gli ultrasuoni ad alta risoluzione, gli screening biochimici, l’eco-Doppler e le
valutazioni genetiche 3. La pratica di tali indagini ha comportato di conseguenza un incremento degli aborti terapeutici In
tali casi bisogna però sottolineare che l’autopsia andrebbe
sempre eseguita per escludere la presenza di altre minime
malformazioni che possono non essere state precedentemente visualizzate e per l’inquadramento del tipo di malformazione. Un altro dato che emerge dalla letteratura è la sottovalutazione dell’esame placentare, fondamentale per la formulazione diagnostica e talora anche punto cruciale per la risoluzione di controversie giudiziarie 4. Ancora oggi, definire la
placenta come il “diario della gravidanza” rappresenta insieme il messaggio e la definizione più appropriati [5]. Nel corso degli ultimi anni le nuove “spettacolari ed affascinanti innovazioni tecnologiche” ci hanno già fornito delle risposte
molto importanti ma dobbiamo essere consapevoli che queste rappresentano solo una piccola parte delle potenzialità,
che può offrirci lo studio della placenta, miniera ancora poco
esplorata 1 6. Nel 1999 al Congresso SIAPEC-IAP il Gruppo
Italiano APEFA aveva segnalato, seppur in un quadro di generale miglioramento, la persistente incompletezza nella raccolta di dati epidemiologici e di informazioni demografiche 7.
Tale incompletezza di informazioni si evidenzia anche in Sicilia. Questo convincimento è stato condiviso anche dai responsabili degli Uffici statistici del Comune di Messina e
della Regione Sicilia che evidenziano, inoltre, notevoli limitazioni nell’utilizzo di alcuni dati statistici per la legge sulla
privacy. La lacunosità dei suddetti elementi epidemiologici,
diviene oltremodo preoccupante, se consideriamo che i dati
ISTAT 2000 indicano la Sicilia come la regione italiana con
il più alto tasso di mortalità perinatale (7,4 x1000 nati) 8. Gli
unici riferimenti presenti nel territorio si limitano ai casi di
malformazione, segnalati nel Registro ISMAC relativo all’intera area territoriale siciliana. La presente relazione si pone i seguenti obbiettivi:
• Verificare l’incidenza della mortalità fetale e neonatale
• Determinare il numero e la causa di morte in riscontri diagnostici fetali e neonatali, correlati con l’esame della placenta.
Le informazioni in nostro possesso abbracciano un orizzonte
temporale compreso tra il 1991 ed il 2002 e sono state ottenute attraverso la revisione dei registri autoptici del Dipartimento di Patologia Umana del Policlinico Universitario di
Messina e la successiva comparazione con le corrispondenti
cartelle cliniche del Dipartimento di Ostetricia.
L’effettuazione di prime analisi sui dati in nostro possesso
hanno fornito le seguenti evidenze preliminari:
• Quoziente di natimortalità relativo alla Clinica Ostetrica
del Policlinico Universitario di Messina: pari a circa il 4,2
x1000 nati contro un valore nazionale del 3,4 x1000 nati ed
un valore delle regioni del mezzogiorno del 3,5 x1000 nati (ISTAT).
• Numero dei riscontro diagnostici con elevata variabilità
per anno sul totale dei nati morti provenienti dalla Clinica
Ostetrica del Policlinico: dal 28,6% del 1999 al 100% negli anni 1995 e 2000 e con una media che non supera il
64%.
• Limitato ricorso all’utilizzo dell’esame placentare: in particolare su 302 autopsie eseguite, solo nel 54% dei casi la
placenta è stata inviata. Va sottolineato un trend di crescita, che negli ultimi due anni considerati, e solo in quelli, ha
evidenziato valori superiori alla media (rispettivamente il
58% nel 2001 e l’85% nel 2002).
Come risolvere il problema: 1) creazione di uno staff costituito da patologi, ostetrici, neonatologi, genetisti, microbiologi ed epidemiologi per un corretto monitoraggio della natimortalità, 2) sensibilizzazione sul problema a livello regionale e nazionale.
Bibliografia
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medicina: conseguenze e prevenzione. Pathologica 2001;93(5):613618.
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CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
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Gruppo Italiano APEFA. Patologia malformativa feto-neonatale: studio anatomopatologico policentrico italiano. Pathologica
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ISTAT Annuario statistico Italiano 2003.
PATHOLOGICA 2004;96:215-218
Neuropatologia
Moderatori: F. Giangaspero (Roma) e C. Giannini (Rochester, USA)
hemorrhages, involving the basal ganglia and thalamus. Infratentorial hemorrhages include cerebellar and brain stem
hemorrhages.
Surgical neuropathology of evacuated
intracerebral hemorrhages
C. Giannini
Department of Pathology, Mayo Clinic, Rochester, MN
(USA)
Spontaneous intracranial hemorrhages are divided into two
main categories, subarachnoid (SAH) and intracerebral hemorrhages (ICH). While primary SAHs, in which the bleeding
takes place in the subarachnoid space alone, are most frequently due to rupture of a saccular aneurysm (> 80%) or to
an arteriovenous malformation (AVM) (5-10%), spontaneous
ICHs can be due to a variety of causes 1. Surgical removal of
an ICH (ICH) is recommended only in selected patients to relieve intracranial pressure or symptoms. However, if the
hematoma is evacuated, careful sampling of the hematoma
and its cavity and accurate histopathological analysis disclose a definite cause of the ICH in a surprisingly high proportion of cases. Irrespective of their cause, hematomas have
a similar pathological appearance. Fresh hematomas are
sharply demarcated collections of blood. A rim of surrounding neurons and glia undergoes necrosis during the first day,
causing increase of edema. The reaction to the ICH is quite
similar to that surrounding an infarct, with polymorphonuclear cells appearing by 48 hours (slightly slower than in infarcts). Macrophages take the appearance of siderophages
rather than foam-cells. Blood derived pigment may also appear in astrocytes. Hemosiderin forms progressively and may
persist several years later. In a week, astrocytes have proliferated and neovascularization occurs, causing the characteristic “ring enhancement” visible by imaging surrounding
hematomas. Identifying the underlying cause of the ICH can
be challenging. However, knowledge of the patient age, of
the size and location of the ICH as well as of the most common causes of intracranial hemorrhage is of great help in
suggesting the most likely diagnosis.The data summarized in
the table below represent the six most common and well defined causes of ICH, and apply predominantly to the most
common larger, generally single hemorrhages.
Causes of non-traumatic
ICH (adapted from ref 2)
%
Hypertension
Cerebral Amyloid Angiopathy
Anticoagulants
Tumours
Illicit and licit drugs
AVMs and aneurysms
Miscellaneous
50
12
10
8
6
5
9
ICHs are separated in supratentorial and infratentorial hemorrhages. The larger supratentorial hemorrhages are commonly divided into lobar hemorrhages as opposed to deep
Sites of non-traumatic ICH
N
% T*
Lobar
One lobe
Frontal
Parietal
Temporal
Occipital
Two lobes
Three lobes
65
31
Deep supratentorial
Putamen
Thalamus
Caudate
107
Deep infratentorial
Cerebellum
Pons
37
Total (* T)
%
%
46
17
11
9
9
42
12
51
48
43
9
18
70
30
209
100
Adapted from ref 3
Deep hemorrhages are more frequent than lobar hemorrhages
(ratios of 2:1 and 4:3 have been reported). These two types of
hemorrhages differ not only by absolute frequency and location, but also by different frequency of causes and clinical
presentation. Deep hemorrhages are most frequently caused
by hypertension (up to 80% of cases) in contrast to lobar hemorrhages (30-50%). Cerebral amyloid angiopathy accounts
for approximately 1/3 of lobar hemorrhages. Patients with lobar hemorrhages are on average 4-9 year older than patients
with deep hemorrhages, are more commonly men, have larger hemorrhages (lobar mostly > 50 ml; deep < 15 ml) and less
frequently extend to the ventricles.
Sporadic Cerebral Amyloid angiopathy (CAA) accounts for
up to 12% of primary non-traumatic intraparenchymal hemorrhages. It generally causes peripherally located cerebral hemorrhages (lobar), especially in elderly normotensive patients. The risk of bleeding is high with up to 20% of patients
with CAA experiencing hemorrhage. The hemorrhages can
be multiple both in time and in site and given the superficial
location can be associated with leptomeningeal extension. In
addition to being the primary cause of hemorrhage, CAA can
also act as a precipitating factor in intraparenchymal hemorrhages complicating other treatments, such as fibrinolytic
treatment of acute myocardial infarct. In a recent series reporting on the histopathologic findings of blood clots removed for hemorrhage of unknown cause, CAA appeared to
account for 1/3 of cases in which a specific histopathologic
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
216
diagnosis could be obtained 4. It appears that the likelihood of
obtaining a diagnosis correlates with both the presence of
brain tissue fragments admixed to the clot as well as to
amount of material examined. Sporadic CAA is the most
common variety of CAA and is due to deposition of the βamyloid peptide (β-A4), a cleavage product of β-APP (amyloid precursor protein), encoded on chromosome 21. Deposition of β-A4 CAA, in addition to sporadic CAA, can be seen
in Alzheimer’s disease and Down’s syndrome. A rare syndrome of hereditary ICHs with amyloid angiopathy (CAA
Dutch type) is also associated with β-A4 deposition. Hemorrhage is attributed to rupture of the rigid and fragile vascular
walls. Close observation of tissue fragments in blood clots
for vascular abnormalities as well as performing a Congo red
and/or β-amyloid immunostain is strongly recommended.
Tumor Hemorrhage: ICH may result from both primary or secondary (metastatic) tumors and may represent their first manifestation. Even in this case, hemorrhage is thought to be secondary to an excessive number of abnormal vessels. This rich
abnormal vascularity is thought to cause the presence of ring
enhancement in tumoral hemorrhages, usually absent in fresh
non-neoplastic ICH. Among primary tumors, high grade astrocytomas, as in the present case, and oligodendrogliomas have
been most frequently associated with ICH. Tumors such as pilocytic astrocytomas and hemangioblastomas can also not infrequently bleed. Among metastatic tumors, melanoma, lung
carcinoma, renal cell carcinoma and choriocarcinoma have
been most frequently responsible for ICH. More complex is
the etiology and pathogenesis of ICH associated with hematological disorders such as acute leukemia. Only rarely ICH is
the primary manifestation of the disease. Hemorrhage can be
due to direct localization of the hematologic malignancy to the
CNS, to a coagulopathy induced by the disease and/or secondary to treatment, to infection, such as fungal infection, secondary to immunosuppression. As a rare and late event in long
term survivors, ICH can be secondary to development of vascular malformations developing as a consequence of chemo
and/or radiation therapy.
AVMs and aneurysms: AVM, rather than cavernous angiomas, more frequently cause acute bleeding and require
surgical intervention. Given their location, they can cause intraparenchymal as well as intraventricular hemorrhage and
less frequently leptomeningeal hemorrhage. AVM rarely
cause diagnostic difficulties, although some small AVM may
be difficult to detect in ICH. Sampling from the wall of the
hematoma is recommended. Vascular reactive changes secondary to the hemorrhage in subacute ICH should not be confused with true AVMs. Saccular (berry) aneurysms only
rarely cause ICH, when the fundus of the aneurysm is embedded in the parenchyma. Bacterial emboli, most frequently of cardiac origin, can lodge in vessels of different sizes
causing micotic aneurysm formation. Most frequently they
appear to affect small intraparenchymal arteries causing hemorrhages indistinguishable from hypertensive hemorrhages.
We have seen micotic aneurysm formation I larger vessels
such as middle cerebral artery.
Anticoagulants and antithrombolytics: approximately 1% of
patients treated with anticoagulants develop ICH, their risk
being approximately three times higher than control patients.
Approximately 10% of all ICH are induced by anticoagulants. The risk increases when anticoagulants are used in the
treatment of ischaemic stroke as well as when thrombolytic
therapy is used for acute myocardial infarct (risk 0.3-0.8%).
Risk of ICH is considerably higher when thrombolytic therapy is used in treatment of acute cerebral ischemia.
Drugs: among illicit drugs, cocaine, heroin and sympathomimetic drugs such as amphetamines have been most commonly associated with ICH. ICH occurs in significantly
younger people and are generally lobar. Among the pathogenetic mechanisms, acute increase in blood pressure and vasculitis, similar to polyarteritis nodosa, for some cases have been
proposed.
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Patologia delle lesioni epilettogene focali
C. Galli*, M. Gambacorta*, M. Bramerio*, A. Citterio**,
M. Cossu***, R. Spreafico****
*
Anatomia patologica; ** Neuroradiologia; *** Chirurgia dell’epilessia, Ospedale Niguarda, Milano; **** Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano
Introduzione
Nelle epilessie parziali farmacoresistenti la evoluzione delle
tecniche di neuroradiologia e neurofisiologia permette una
sempre più precisa identificazione della cosiddetta “area epilettogena”, ossia della zona di parenchima cerebrale da cui
originano le crisi 1. Ciò consente interventi neurochirurgici
mirati alla rimozione di tale zona. Spesso la zona epilettogena asportata è sede di lesioni macroscopiche, ma in molti casi è costituita da parenchima cerebrale macroscopicamente
“normale”. Questo fatto può porre al patologo problemi di
trattamento del materiale e di interpretazione istopatologica.
Le lesioni epilettogene vengono generalmente inquadrate in
sei categorie 2:
A) Malformazioni di sviluppo corticale
B) Sclerosi temporale mesiale (sclerosi del Corno d’Ammone)
C) Tumori
D) Cicatrici gliali
E) Patologia infiammatoria
F) Patologia non specifica.
La nostra casistica si basa su 442 pazienti operati dal 6/1996
al 12/2003 presso il centro di chirurgia dell’epilessia “C. Munari” dell’Ospedale Niguarda di Milano.
Malformazioni dello sviluppo corticale (MSC)
Le classificazioni in uso delle MSC riconoscono alterazioni
della proliferazione, migrazione e organizzazione corticale
dei neuroni.
Non esiste una classificazione univocamente accettata. Una
classificazione morfologica ben applicabile è quella proposta
da Thom e Scaravilli 3: a) emimegalencefalia, b) displasia
corticale focale, c) sclerosi tuberosa, d) difetti di girazione, e)
eterotopie di sostanza grigia, f) microdisgenesi (displasia architetturale, displasia citoarchitetturale senza cellule balloniformi). a, b, c vengono considerati difetti di proliferazione,
caratterizzati da neuroni dismorfici, giganti e da cellule balloniformi, d, e difetti di migrazione e f difetti di organizza-
NEUROPATOLOGIA
zione corticale. Questi ultimi sono le entità più controverse e
di più difficile diagnosi istopatologica. In pratica la displasia
architetturale è caratterizzata dalla perdita della laminazione
corticale e da anomala distribuzione di neuromediatori, valutata con metodiche immunocitochimiche. Nella displasia citoarchitetturale, oltre alla perdita della laminazione corticale,
si osserva la presenza di neuroni di grandi dimensioni, ma di
forma conservata, in tutti gli strati corticali. Nella nostra casistica le MSC costituiscono il 38,2% della patologia riscontrata. La lesione più frequente è la displasia architetturale
(31% delle MSC) seguita dalla displasia corticale focale (taylor-type) (29,1%) e dalla sclerosi tuberosa (7,5%). La percentuale di soggetti liberi da crisi è del 78% nella displasia
corticale focale, del 70% nelle displasie architetturale e del
50% nelle displasie citorchitetturali.
Sclerosi temporale mesiale (MTS)
In questa patologia sono coinvolte le strutture mesiali del lobo
temporale: ippocampo, amigdala e uncus. Per una corretta valutazione delle lesioni dell’ippocampo è indispensabile che il
pezzo anatomico sia integro correttamente orientato e incluso
in modo da poter valutare la deplezione neuronale nei vari settori ippocampali. Di più difficile valutazione sono le alterazioni dell’amigdala e dell’uncus che di solito, per problemi chirurgici vengono tolti in piccoli frammenti. È importante ricordare che aspetti istologici come la gliosi o la dispersione della
fascia dentata sono da considerare aspecifici e non sufficienti
a formulare diagnosi di sclerosi ippocampale. La sclerosi del
corno d’Ammone costituisce lo 88% dei pazienti operati, con
percentuale di soggetti liberi da crisi del 89,5.
Tumori
Sono in genere neoplasie a basso grado di malignità (grado I°
o II° WHO) gliali (astrocitoma pilocitico) o glio-neuronali
(gangliogliomi e tumore disembrioplastico-neuroepiteliale)
con quadri istologici che spesso sfumano uno nell’altro rendendo difficile una precisa classificazione.
I tumori glioneuronali mostrano a volte nella corteccia adiacente alterazioni displastiche. Nella nostra casistica i tumori
rappresentano il 27% del totale con associata displasia corticale nel 28% dei casi. I soggetti liberi da crisi sono il 74% Tra
i singoli istotipi quello con percentuale di guarigione più elevata è il tumore disembrioplastico neuroepiteliale (86%). Vi
sono casi di tumori non neuroepiteliali di cui la gran parte sono angiomi cavernosi.
Cicatrici gliali e patologia infiammatoria
Sono le lesioni di più raro riscontro nella chirurgia dell’epilessia e in genere privi di peculiari particolarità istologiche.
Merita di essere ricordata la encefalite di Rasmussen caratterizzata da un interessamento parziale (di solito un solo emisfero) dell’encefalo e istologicamente da una marcata gliosi e
atrofia corticale.
Patologia non specifica
Sono quei casi con quadro neuroradiologico normale,in cui
malgrado l’inclusione di tutto il materiale e un accurato studio istologico si osservano solo lesioni come la gliosi o la
gliosi subpiale di Chaslin che possono essere considerate
“epilessia-indotte”. In letteratura la percentuale di questi casi è molto difficile da valutare, essendo influenzata dalla selezione clinica della casistica e comunque varia varia dal 5%
al 16%. Nella nostra serie sono il 7,6%. Con percentuale di
guarigione del 68%, la più bassa di tutti i gruppi.
Bibliografia
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I meningiomi: insidie diagnostiche e
opportunità prognostiche
A.M. Buccoliero*, A. Caldarella*, P. Mennonna**, F. Ammannati**, L. Arganini*, G.L. Taddei*
* Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università di Firenze; ** U.O. Neurochirurgia, Azienda Ospedaliera
Careggi, Firenze
Il meningioma è uno tra i più comuni tumori primitivi del sistema nervoso centrale con una incidenza che negli Stati Uniti è stata calcolata in 2,5 nuovi casi ogni 100.000 abitanti su
base annua. Esso colpisce più frequentemente il sesso femminile e l’età media ed ha più spesso sede endocranica.
Sebbene la grande maggioranza dei meningiomi abbiano un
decorso benigno, talora si osservano lesioni infiltranti, più volte recidivanti nonostante la radicalità chirurgica, metastatizzanti o ancora lesioni francamente maligne dal decorso fatale.
Sul piano macroscopico e morfologico, ancor più che sul piano clinico, i meningiomi si caratterizzano per una grande eterogeneità di quadri.
Si descrivono infatti forme macroscopicamente uniche, multiple, a placca, ad iceberg, solide, cistiche, gelatinose, dure,
calcifiche, iperostosanti. È tuttavia sul piano morfologico che
i meningiomi mostrano la maggiore variabilità: oltre alle più
comuni forme fibroblastiche, transizionali e sinciziali sono
state riportate numrerose varianti rare e alcune altre eccezionali.
Nella gran parte dei casi, la diversità morfologica non si traduce in una diversa prognosi che infatti non risulta condizionata dall’istotipo quanto piuttosto, salvo alcune eccezioni
(meningioma a cellule chiare, cordoide, rabdoide, papillare),
dal grado istologico 1. A tale riguardo l’Organizzazione Mondiale della sanità (WHO) riconosce meningiomi benigni
WHO I, atipici WHO II e anaplastici WHO III 2. Vengono definiti atipici quei meningiomi in cui è possibile riconoscere 4
o più mitosi in 10 HPF o almeno 3 dei seguenti caratteri: aumentata cellularità, presenza di piccole cellule neoplastiche
linfocito-simili, nucleoli prominenti, crescita astrutturata
“sheet-like”, necrosi; vengono invece definiti maligni quei
meningiomi in cui sono presenti almeno 20 mitosi in 10 HPF
o con ovvi segni di malignità citologica quali aspetti sarcoma, carcinoma o melanoma simili. Si calcola che indipendentemente dal tipo di intervento chirurgico, insorgano recidive nel 7-20% dei meningiomi benigni, nel 30-40% degli
atipici e nel 50-80% dei meningiomi anaplastici.
L’estremo polimorfismo morfologico dei meningiomi può talora richiedere diagnostiche differenziali particolarmente impegnative soprattutto nel caso di istotipi meno frequenti o
con caratteri morfologici comuni ad altre neoplasie; d’altro
canto l’esistenza di meningiomi istologicamente benigni ma
dal decorso clinico più sfavorevole spinge alla ricerca di fattori prognostici aggiuntivi al grado istologico.
Il rilievo di corpi psammomatosi, vortici cellulari e inclusioni intranucleari, la positività immunoistochimica all’EMA e
alla vimentina e la presenza all’ultrastruttura di numerosi desmosomi ed interdigitazioni cellulari possono rivelarsi elementi di conforto nella diagnosi di meningioma. In casi par-
218
ticolari, inoltre, potrebbe risultare di aiuto il rilievo immunoistochimico della negatività per la merlina 3. La merlina,
anche chiamata schwannomina, è una proteina prodotto del
gene oncosoppressore NF2 localizzato sul cromosoma 22q12
la cui inattivazione, tipica della neurofibromatosi 2, si osserva in una percentuale significativa (fino all’80%) dei meningiomi sporadici non associati a neurofibromatosi 4. La frequente mancata espressione della merlina nei meningiomi
suggerisce un suo importante ruolo nei processi di crescita e
di tumorigenesi delle cellule meningoteliali.
Recenti studi suggeriscono un possibile ruolo prognostico nei
meningiomi della forma inducibile della cicloossinenasi
(COX-2). La cicloossigenasi è un enzima chiave nella sintesi delle prostaglandine. Se ne conoscono 3 forme denominate COX-1 (ubiquitaria), COX-2 (inducibile da numerosi stimoli quali citochine, ormoni, e fattori di crescita) e COX3
(dimostrata nella corteccia cerebrale e nel cuore).
Una elevata espressione della COX-2 è stata documentata in
molte neoplasie e numerose ricerche hanno dimostrato un
suo ruolo critico nella cancerogenesi attraverso meccanismi
ancora poco chiari (funzione proangiogenetica, antiapoptotica, di induzione della proliferazione cellulare). In particolare
nei meningiomi è stata documenta una crescente espressione
della COX-2 in relazione al grado tumorale suggerendo che
anche in questa neoplasia la sovraespressione di COX-2 configuri fenotipi biologicamente più aggressivi 5.
Modelli murini di neoplasie cerebrali:
ruolo del patologo
F. Giangaspero, M. Gessi, A. Arcella
Dipartimento Medicina Sperimentale e Patologia, Università
di Roma “La Sapienza”; IRCS Neuromed, Pozzilli (IS)
I modelli murini di gliomi e di altre neoplasie del sistema nervoso sino a qualche tempo fa, erano basati sull’uso di cellule
derivate da tumori umani e xenotrapiantate nei cervelli di topi
immunodepressi. Tuttavia, tali modelli non erano rappresentativi sia dell’eterogeneità genetica sia delle modalità di crescita
delle neoplasie umane da cui derivavano. Oggi, l’uso di metodiche di ingegneria genetica ha permesso di creare diverse linee di genetically engineered mice (GEM) che sviluppano
neoplasie del sistema nervoso con caratteristiche neuropatologiche più vicine ai tumori umani. Attualmente sono disponibili un’ampia gamma di GEM che riproducono neoplasie sia del
sistema nervoso centrale che periferico 1 2 4. In questa sede saranno discussi i modelli più importanti di medulloblastoma/pnet e di neoplasie astrociatrie diffuse.
Modelli di medulloblastoma/pnet: Numerosi laboratori hanno generato modelli murini di medulloblastoma alterando
l’espressione di geni la cui controparte umana è coinvolta
nella genesi del medesimo quali il gene PTCH (patched) 1 2 4.
Nel topo l’aploinsufficienza di PTCH risulta in una incidenza del 14% di medulloblastoma 5. Recenti studi hanno dimostrato che la perdita di p53 accelera la tumorigenesi nei topi
Ptc+/-. Più del 95% dei topi Ptc+/- p53-/- sviluppano medulloblastomi entro 12 settimane rispetto all’incidenza del 14%
entro 10 mesi nei topi Ptc+/-. I tumori murini oltre ad essere
istologicamente uguali a quelli umani presentano anche lo
stesso pattern immunoistochimico. Anche se p53 e Rb risultano raramente mutati nel medulloblastoma sembra che alterazioni di questi pathways durante lo sviluppo predispongano con elevata penetranza alla tumorigenesi 1 2 4.
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Modelli di neoplasie astrocitarie: numerosi modelli murini sono stati generati con le caratteristiche istologiche dei tumori
umani astrocitari 1 2 4. Una non secondaria applicazione di questi modelli è stata quella di adattare le comuni tecniche di neuroimaging quali CT, MRI, PET, ai piccoli animali per l’identificazione precoce e il monitoraggio dell’evoluzione in vivo. A
livello molecolare, nei tumori astrocitari, mutazioni attivano i
pathways di traduzione del segnale a valle dei recettori per fattori di crescita con attività tirosinchinasica quali Ras e Akt; in
più gli astrocitomi maligni frequentemente presentano mutazioni in geni coinvolti nell’arresto del ciclo cellulare appartenenti ai pathways di p53 e Rb. La mutazione più comune è una
delezione omozigote nel locus INK4a-ARF che codifica i geni p16INK4a e p14ARF. Alcuni ricercatori hanno prodotto topi transgenici esprimenti v-src sotto il controllo del promotore
di GFAP che ne limitava l’espressione agli astrociti determinando così l’insorgenza di astrocitomi sia di alto che di basso
grado ed in alcuni casi glioblastomi. Un secondo modello prevede l’espressione di H-RAS sotto il controllo del promotore
di GFAP: una espressione moderata determina l’insorgenza di
astrocitomi di basso grado e anaplastico, mentre l’iperespressione determina l’insorgenza di glioblastomi 2 3. Combinando
la delezione di Nfl e p53, Reilly e coll. hanno generato gliomi
con caratteristiche astrocitarie. Nfl è una proteina RasGAP che
reprime l’attività di Ras (3). Modelli di glioblastoma sono stati ottenuti trasferendo copie di Ras e Akt attivate in cellule progenitrici neurali esprimenti nestina. Altri modelli di tumori
astrocitari sono stati creati trasferendo la sequenza codificante
x il frammento N-terminale di 121 aminoacidi dell’antigene
Tdi SV40 sotto il controllo del promotore di GFAP. Tale proteina inattiva pRb e le proteine correlate p108 e p130 senza alterare la funzione di p53.Tutti i topi sviluppano un astrocitoma
di alto grado entro il sesto mese di vita. Per finire gli animali
eterozigoti per Pten sviluppano astrocitomi con una breve latenza, suffragando l’ipotesi del ruolo centrale dell’oncosoppressore Pten nell’oncogenesi.
Un problema su cui i GEM potranno fare luce è l’individuazione dei geni e delle cascate di segnali coinvolti nella progressione neoplastica ed ancora sulla cooperazione tra alcuni pathways
già caratterizzati nel meccanismo di progressione, come le alterazioni dei recettori di fattori di crescita, delle proteine di traduzione del segnale e dei fattori che regolano il ciclo cellulare.
La descrizione dettagliata di questi meccanismi potrà fornire
anche target terapeutici per molecole con azione biologica mirata e più efficace effetto sulla storia clinica della malattia.
I modelli di neoplasie del SNC in GEM rappresentano il risultato dello sforzo di un gruppo multidisciplinare di ricercatori allo studio dei meccanismi di neuro-oncogenesi. In tale
gruppo il patologo ha un importante ruolo sia nella definizione morfologica ed immunofenotipica sia nello stabilire le
analogie tra storia naturale delle neoplasie umane e quelle
della controparte murina.
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Patologia endometriale
Moderatori: C. Gentili (Camaiore) e L. Resta (Bari)
Azione oncogena da tamoxifene e TOS
B. Ghiringhello, M. Volante*
U.O. Anatomia Patologica S. Anna, AO O.I.R.M., S. Anna,
Torino; * Dipartimento Scienze Biomediche e Oncologia
Umana, Sez. Anatomia Patologica, Università di Torino
Azione oncogena da tamoxifene. Il tamoxifene è un derivato
estrogenico non steroideo che possiede, alla base del suo effetto anti-estrogenico, in particolar modo a livello del tessuto mammario, la capacità di legare i recettori per gli estrogeni a livello nucleare e diminuire quindi la disponibilità di recettore libero. L’effetto a livello uterino è più complesso e rivela sia effetti antagonisti sia effetti agonisti estrogenici, con
coinvolgimento della componente sia stromale sia ghiandolare 3. Inoltre il tamoxifene svolge una rilevante azione sulla
promozione dell’angiogenesi a livello dello stroma endometriale, in special modo nelle donne in pre-menopausa 5. La natura dell’azione sul tessuto uterino del tamoxifene non è ben
chiara, sebbene recenti evidenze sottolineino il ruolo della
differente espressione dei recettori estrogenici alfa e beta
(avendo quest’ultimo una più elevata affinità per il tamoxifene). Questo effetto complesso è responsabile di una costellazione di alterazioni miometriali che vanno dall’iperplasia
muscolare liscia, a leiomiomi, all’adenomiosi, e di lesioni endometriali che comprendono varie forme di proliferazione
endometriale benigna e di tumori maligni. Limitando il nostro commento a questi ultimi, nella maggioranza dei casi si
tratta di adenocarcinomi endometrioidi ben differenziati, ma
forme meno differenziate con infiltrazione estesa, forme con
aspetti secretori (più spesso quando la terapia con tamoxifene è associata a terapia progestinica), carcinosarcomi, adenocarcinomi a cellule chiare e sarcomi di stroma endometrioide, sono state ampiamente documentate in letteratura. Recenti studi molecolari non hanno identificato differenze sostanziali nella espressione genica dei carcinomi endometriali
correlati a terapia con tamoxifene rispetto a controlli non trattati 4. Un discorso diverso riguarda invece la espressione immunofenotipica di recettori ormonali. Si è infatti osservato
che carcinomi endometriali associati a tamoxifene esprimono
più frequentemente il recettore estrogenico di tipo beta e il
recettore del progesterone, e meno frequentemente il recettore tipo alfa, rispetto al gruppo di controllo 9. Per quanto concerne le caratteristiche morfologiche, non esistono dati in letteratura in grado di identificare pattern morfologici distintivi
di carcinomi correlati a trattamento con tamoxifene. Alcune
descrizioni, che possono rivestire una qualche utilità anche
diagnostica, riguardano la patologia endometriale in genere,
e si riferiscono alla presenza di alterazioni ghiandolari e stromali (varie forme di metaplasia epiteliali, difetti di polarizzazione, degenerazione mixoide dello stroma) presenti anche
nei casi non trattati con tamoxifene, ma in misura minore 6.
Controversa è la letteratura che definisce i caratteri clinicopatologici e la prognosi dei carcinomi dell’endometrio associati a terapia con tamoxifene. Dati consolidati di una buona
prognosi di questi tumori, collegata, in genere, ad un aspetto
di buona differenziazione ed a stadi bassi, sono stati recentemente messi in discussione da studi che hanno dimostrato, in
carcinomi endometriali di donne con carcinoma mammario
trattate con tamoxifene, la presenza di parametri clinico-pa-
tologici più aggressivi, quali stadio tumorale avanzato, istotipo più aggressivo (ad esempio più frequente insorgenza di
tumore misto mulleriano maligno), elevata espressione di
p53 e negatività per il recettore estrogenico, così come una
peggiore sopravvivenza libera da malattia a 3 anni 1.
Azione oncogena del tamoxifene su tessuto endometriale extrauterino. Il tamoxifene può indurre proliferazione su isole
di tessuto endometriale extrauterine nel contesto di endometriosi. Rari casi sono stati descritti in letteratura di adenocarcinoma endometrioide insorto su endometriosi in sede ovarica, in seguito a trattamento con tamoxifene. In uno di questi
lavori 8 è stata riportata, in seguito a terapia con tamoxifene
per carcinoma mammario, una interessante associazione, nell’ambito di una stessa lesione ovarica, di endometriosi e di
uno spettro di lesioni endometrioidi benigne e maligne, da
adenofibroma benigno, con focali aree borderline, a adenocarcinoma endometrioide ben differenziato con focali aree di
metaplasia squamosa.
Azione oncogena da terapia ormonale sostitutiva (TOS). Numerose evidenze osservazionali e sperimentali legano l’insorgenza dell’adenocarcinoma dell’endometrio con l’esposizione ad un livello di estrogeni non bilanciato da un parallelo livello ormonale progestinico. Condizioni cliniche quali
l’obesità, la sindrome dell’ovaio policistico e tumori ovarici
ormonalmente attivi sono fattore di rischio per il carcinoma
dell’endometrio. L’aumento di rischio di sviluppo di tumori
maligni in seguito a TOS è un argomento a lungo dibattuto, e
non del tutto risolto. La TOS ha un provato aumento di rischio, se pur moderato, per il carcinoma mammario, in particolar modo dopo almeno 5 anni di trattamento, per il carcinoma del colon-retto e per il carcinoma dell’ovaio. Per quanto concerne il carcinoma dell’endometrio, la terapia estrogenica ha un provato effetto di aumento di rischio, che viene
però azzerato da una terapia combinata a base di estrogeni e
progestinici 7. Alcune caratteristiche sono proprie degli adenocarcinoma endometriali in pazienti sotto terapia estrogenica: questi tumori infatti tendono ad essere ben differenziati,
invasivi superficialmente, in gran parte curati dall’isteroannessiectomia e con quindi una ottima sopravvivenza a lungo
termine 2.
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Fattori prognostici nel carcinoma
dell’endometrio
A. Fabiano, S.H. Mousavinasab, P. Catalano
U.O. Anatomia Patologica, Ospedale Fatebenefratelli, Roma
I fattori prognostici del carcinoma endometriale, uno dei più
comuni tumori maligni del tratto genitale femminile, comprendono l’istotipo, il grado istologico, la profondità di invasione miometriale, le metastasi linfonodali, la positività
del liquido peritoneale, l’interessamento sieroso ed annessiale, oltrechè la razza e l’età della paziente. Rivestono, inoltre,
particolare importanza una serie di marcatori tumorali, fattori biologici legati al ciclo cellulare e la genetica tumorale,
quali recettori ormonali ER-PGR, c-Kit, P53, RB, bcl-2, Ki67, PTEN, instabilità microsatellite, Eritropoietina, VEGF,
Angiostatine, CD105 e CD44.
Mentre ad un stadio precoce “Stadio IA-B di Figo” corrisponde una migliore prognosi, a Stadi più avanzati di malattia si associano un peggiore grado istologico, un maggior livello d’invasione miometriale, diffusione parametriale e
maggiori possibilità di metastasi linfonodale, con conseguente prognosi più sfavorevole.
La positività citologica del liquido peritoneale non sembra
influenzare la sopravvivenza negli stadi precoci di malattia;
al contrario l’invasione vascolare, un fattore prognostico negativo indipendente, si correla con carattere aggressivo del
processo neoplastico.
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
Tra i fattori biologici correlati con minore sopravvivenza da
ricordare la perdita dell’espressione di Bcl-2, l’iperespressione di P53, l’espressione del proto-oncogene c-Kit, “recettore
transmembrana tirosinkinasi”, coinvolto nella differenziazione cellulare, che si associa a maggiore profondità di invasione miometriale, e le metastasi linfonodali.
Inoltre, in particolare nell’ambito di carcinomi endometriali
stadio I, la ploidia sembra essere un fattore predittivo importante della sopravvivenza senza ripresa di malattia.
In conclusione, allo stato attuale, i fattori prognostici più significativi nel carcinoma endometriale risultano essere, oltre
lo stadio, il grado istologico e l’età della paziente, lo stato dei
recettori per l’estrogeno ed il progesterone e l’espressione
della proteina p53. In particolare è stato visto come, nei carcinomi di grado I e II, una percentuale di cellule positive per
la p53 inferiore al 15%, ed una percentuale di cellule positive per l’ER superiore al 30%, siano correlati con una prognosi migliore. Nei carcinomi endometriali di grado istologico III nessuno di questi fattori è risultato avere una importanza predittiva sulla prognosi.
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PATHOLOGICA 2004;96:221-222
Citopatologia diagnostica
Moderatori: L. Di Bonito (Trieste) e S. Fiaccavento (Brescia)
Ruolo della citologia in neuro-oncologia
F. Zorzi, E. Padolecchia, P. Cusati
Anatomia Patologica, Casa di Cura Poliambulanza, Brescia
La citologia nella diagnosi rapida dei processi espansivi endocranici ha una storia remota, ma si è diffusa recentemente
per la necessità di esaminare in tempi brevi piccoli campioni
bioptici in corso di interventi di neurochirurgia stereotassica 1.
L’accuratezza diagnostica della procedura ha incoraggiato la
sua diffusione anche per esami intraoperatori in corso di interventi craniotomici.
L’approccio citologico con metodi di colorazione routinaria è
sufficiente in presenza di lesioni con caratteri morfologici peculiari (astrocitoma pilocitico o gemistocitico, glioblastoma
usuale, metastasi di tumori ben differenziati, meningiomi
meningoteliali).
In casi che pongono problemi diagnostici differenziali l’utilizzo dell’immunocitochimica contribuisce ad una più accurata definizione diagnostica 2 3.
Per esempio in neoplasie con pattern fibrillare non ulteriormente definibile, l’espressione di Gfap orienta verso un’origine gliale in alternativa al meningioma fibroso ed allo
schwannoma.
La presenza di una cellularità “epiteliomorfa” può essere
espressione di un ependimoma (Gfap +, citocheratina -) o di
un papilloma dei plessi (Gfap -, citocheratina +).
La presenza di cellule con citoplasma con alone perinucleare
può essere indicativa di un oligodendroglioma o di un neurocitoma centrale con espressione di sinaptofisina.
In caso di neoplasie a piccole cellule poco differenziate l’uso
combinato di marcatori gliali, epiteliali e linfoidi consente la
diagnosi differenziale fra carcinoma, glioblastoma e linfoma.
Una neoplasia a grandi cellule porrà problemi diagnostici differenziali sia di istotipo che di malignità; nel primo caso glioblastoma a grandi cellule e metastasi di carcinoma potranno
essere distinti utilizzando marcatori gliali ed epiteliali 4; nel
secondo caso la differenziazione da neoplasie benigne (xantoastrocitoma pleomorfo o astrocitoma subependimale a cellule giganti) può giovarsi di marcatori di proliferazione cellulare.
Bibliografia
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Carcinoma del polmone non a piccole cellule
(adenocarcinoma G3)
A. Fassina
Dipartimento di Scienze Oncologiche e Chirurgiche, Sezione
di Anatomia Patologica, Università di Padova
Storia clinica
GAF, maschio, anni 69, con massa polmonare destra di cm 3
x 4 al lobo inferiore. In anamnesi riferisce la presenza di una
“neoformazione addominale”, e l’asportazione di una neoformazione cutanea al braccio destro riportata come melanoma.
Viene eseguita una citologia transtoracica sotto guida TAC
che dimostra la presenza di cellule tumorali maligne, ponendo la diagnosi differenziale tra neoplasia primitiva del polmone o localizzazione secondaria.
Quadro morfologico
Lo striscio colorato con Giemsa appariva ipercellulato su un
fondo ematico non necrotico. Le cellule erano in aggregati simil papillari, talora con aspetto epitelioide con citoplasma
debolmente eosinofilo, con nuclei irregolari e nucleoli prominenti. Durante la FNAB è stato raccolto materiale fissato
in formalina per cell-block e in RNA-later per estrazione di
DNA e RNA.
Venne presa la decisione di intervenire chirurgicamente per
asportare l’adenocarcinoma pancreatico, ma il paziente venne aperto e chiuso perchè la neoplasia risultò infiltrare estesamente il mesentere ed il peritoneo.
Diagnosi: carcinoma del polmone non a piccole cellule (Adenocarcinoma G3)
Vengono discussi il metodo di approccio diagnostico e le ipotesi diagnostiche differenziali.
Steatonecrosi: causa di errore in FNA della
mammella
A. Sapino e F. Pietribiasi
Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana,
Università di Torino; Anatomia Patologica, Ospedale Moncalieri (Torino)
Storia clinica: donna di 76 anni, con nodo palpabile in Q1Q3 destro, ecograficamente e mammograficamente sospetto,
sottoposto a FNA. La paziente era stata sottoposta 9 anni prima (1995) a intervento nella stessa sede per sarcoma filloide
(4 cm). Non vennero eseguiti né allargamento, né radioterapia. Nel 1997 sempre in Q1-Q3 destro asportazione di fibroadenoma.
Quadro morfologico: lo striscio colorato, con ematossilina-eosina, appariva ipercellulare su un fondo lievemente granulare.
Le cellule erano disposte a costituire strutture simil papillari o
singolarmente disperse. Discreta la componente infiammatoria
cronica di accompagnamento. A maggiore ingrandimento le
cellule presentavano un aspetto epiteliode con citoplasma intensamente eosinofilo, di aspetto granulare. I nuclei erano irregolari, e talora picnotici. I nucleoli erano prominenti.
Il quadro di per sé suggeriva una lesione neoplastica. Dopo il
confronto con l’esame istologico eseguito sul sarcoma filloi-
222
de venne confermata la diagnosi di “C5” per sospetta recidiva di tumore stromale.
La paziente venne sottoposta a mastectomia semplice. In sede sottocutanea in Q1-Q3 destro era presente una nodosità a
margini policiclici di 1,3 cm di colorito giallastro di consistenza dura.
L’esame istologico evidenziava la presenza di noduli scleroialini, strutture pseudocistiche ed aree di necrosi cellulare.
Alla periferia del nodo erano presenti fenomeni di arterite
obliterante, elastosi vascolare con ostruzione dei vasi. Non si
osservavano punti di sutura. Le strutture pseudocistiche erano tappezzate da istiociti schiumosi e da cellule analoghe a
quelle reperite sullo striscio da FNA che aggettavano in atteggiamento papillare all’interno delle cavità. La colorazione
con CD68 confermava l’origine istiocitaria di tali cellule.
Anche le aree di necrosi cellulare mostravan su steatonecro-
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si é riconosciuto come possibile 1 2. Le cause di errore diagnostico sul preparato citologico descritto sono legate alla
ipercellularità dello striscio e alle atipie citoplasmatiche (intensa eosinofilia, aspetto epitelioide) e nucleari delle cellule
macrofagiche, che unite alla storia clinica hanno indotto una
diagnosi di possibile tumore maligno stromale recidivo. I fenomeni di necrosi su base ischemica hanno probabilmente
causato le alterazioni delle cellule istiocitarie non osservabili nei casi classici di steatonecrosi.
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PATHOLOGICA 2004;96:223-224
Patologia urologica – Approccio teorico e pratico a
problemi di patologia renale
Moderatori: A. De Matteis (Roma) e G. Mazzucco (Torino)
Lesioni papillari del rene
A. De Matteis
Già Dip. Med. Sperimentale e Patologia, Università di Roma
“La Sapienza”
Le lesioni papillari del rene che interessano il parenchima
sono diverse sotto ogni aspetto da quelle che si ordiscono nei
calici e nella pelvi. Il tipo di epitelio che riveste le papille varia a seconda dei casi, in dipendenza dall’epitelio da cui
prende origine e dalla natura della lesione. Questa infatti può
essere iperplastica o neoplastica, benigna o maligna. Il problema della netta discriminazione tra questi differenti tipi di
lesione è particolarmente sentito per quanto riguarda le lesioni papillari del parenchima renale, soprattutto oggi, per la
frequenza di piccole formazioni del rene, evidenziate a seguito di indagini radiologiche in pazienti asintomatici. Infatti, le dimensioni, sebbene importanti per la scelta della terapia chirurgica, non sono un criterio discriminante definitivo
per la diagnosi istologica differenziale tra neoplasie benigne
o maligne. La lesione papillare maligna più frequente del parenchima renale è, nell’ambito dei carcinomi a cellule renali
(RCC), il carcinoma cromofilo, dizione che ha sostituito
quella di carcinoma papillare 1. L’attuale denominazione
sembra più corretta, perché comprende casi nei quali le papille sono molto stipate, con il risultato che la papillarità non
è immediatamente evidente, e casi nei quali vi sia una prevalenza di strutture tubulari. Tuttavia, nella massima parte
dei casi, il carcinoma cromofilo è di facile riconoscimento e
consta di papille con assi stromali sottili, che tuttavia non di
rado contengono, per lo più focalmente, istiociti schiumosi.
L’asse stromale è rivestito da uno strato di cellule piccole,
con scarso citoplasma, con predominanza visiva della colorazione nucleare alla quale si deve la specificazione tassonomica di “tipo basofilo”, ovvero “tipo 1”. A questo si contrappone il “tipo 2” o “eosinofilo”, nel quale le papille sono
rivestite da cellule più grandi, cilindriche, con citoplasma
granuloso eosinofilo, di tipo oncocitario. Non c’è possibilità
di errore diagnostico con l’oncocitoma perché la papillarità
lo esclude. I vari tipi di carcinoma cromofilo sono unificati
sulla base di alterazioni genetiche comuni e tipiche di questo
tipo di tumore, come la trisomia o tetrasomia del cromosoma
7, la trisomia del cromosoma 17 e la perdita del cromosoma
Y. Inoltre, una forma rara di carcinoma a cellule renali di tipo papillare, caratterizzata da aspetti clinici e morfologici
particolari, è definita sulla base di alterazioni genetiche consistenti in traslocazioni multiple che interessano il cromosoma X e che danno luogo a fusioni geniche che coinvolgono
il gene TFE3 2. In questi casi le papille possono essere rivestite da cellule epiteliali nelle quali coesistono l’aspetto “eosinofilo” e quello “chiaro”. Nel carcinoma a cellule renali
del tipo a cellule chiare (o convenzionale) non vi sono papille se non occasionali. Invece, l’infrequente carcinoma dei
dotti collettori di Bellini, ha una componente papillare, sotto
certi aspetti, peculiare. Sebbene sia descritto un tipo di carcinoma dei dotti collettori con prevalente papillarità, è più tipica una configurazione tubulare con alcune brevi papille entro alcuni tubuli, generalmente ectasici o microcistici. L’epi-
telio monostratificato che riveste i tubuli e le papille è spesso formato da cellule hobnail. A prescindere dai problemi
che riguardano la definizione e l’accettazione di tumori epiteliali benigni del rene, la classificazione istologica dei tumori del rene del WHO indica come tumore benigno l’adenoma papillare, oltre l’oncocitoma. Si tratta di piccoli adenomi tubulo-papillari, frequenti soprattutto in reni grinzi.
Strutture papillari sono presenti in altri tipi di tumori benigni
del rene, come l’adenoma metanefrico, tipico dell’infanzia,
dove più propriamente si tratta di strutture glomeruloidi. Se
non esistono nel rene criteri morfologici effettivamente discriminanti tra adenomi e carcinomi, le stesse limitazioni
valgono nel distinguere tra forme di iperplasia papillare, come quelle che possono instaurarsi sulla parete di varie lesioni cistiche, tra cui le cisti del rene policistico, quelle della
malattia di von Hippel Lindau, le cisti acquisite del rene di
dializzati ed altro, e lesioni neoplastiche, che peraltro in queste condizioni si manifestano clinicamente con maggiore frequenza che nella popolazione normale. Per quanto riguarda i
calici e la pelvi renale, iperplasie papillari uroteliali si osservano occasionalmente in presenza di stimoli irritativi cronici come la calcolosi. Più frequenti dell’iperplasia sono le
neoplasie papillari la cui morfologia corrisponde a quella
degli omonimi tumori che con maggiore frequenza interessano la vescica, dal papilloma uroteliale, esofitico ed invertito,
al carcinoma uroteliale papillare di alto grado, con tutte le
condizioni di intermedia differenziazione istologica ed aggressività clinica. In tutti questi tumori, gli assi stromali delle papille sono rivestite da urotelio (epitelio di transizione)
che, del tutto identico all’urotelio normale nel papilloma, nel
carcinoma si modifica per quanto riguarda sia la polarità della stratificazione cellulare sia la morfologia cellulare. L’entità di tali modificazione rispetto all’urotelio normale trova
espressione nel grado istologico, al quale corrisponde una
proporzionale ingravescenza del comportamento clinico. In
questo ambito, l’esigenza che si ha è quella di stabilire classi di tumori papillari uroteliali a ciascuna delle quali corrispondano caratteristiche cliniche del tumore. L’accentuarsi
delle alterazioni morfologiche avviene senza discontinuità,
così che mentre è immediatamente evidente la differenza tra
caratteri istologici delle neoplasie del grado più basso e quelle del grado più alto, è difficile la netta separazione in classi
delle forme intermedie. Questo spiega i problemi di classificazione, le modificazioni da queste subite di recente ed i dibattiti su questo argomento 3 4.
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224
Lesioni cistiche renali
M. Gardiman
Dipartimento di Scienze Oncologiche e Chirurgiche, Sezione
di Anatomia Patologica, Padova
Il rene può sviluppare diversi tipi di lesioni cistiche che si
possono classificare in vario modo, forme neoplastiche o
anomalie di sviluppo, lesioni dell’adulto o dell’infanzia, forme genetiche e non, lesioni singole o multiple. Proprio sulla
base delle loro caratteristiche di presentazione possiamo
identificare 2 categorie principali di lesioni cistiche renali, la
prima caratterizzata da una massa cistica isolata non accompagnata da alterazioni cistiche nel restante parenchima renale, la seconda invece contraddistinta da lesioni cistiche che
solitamente coinvolgono il rene in maniera diffusa e/o bilaterale e sono perlopiù dovute a condizioni ereditarie o alterazioni di sviluppo 1. La maggior parte delle lesioni che appartengono al I gruppo sono delle neoplasie -cistiche- e sebbene
aspetti di tipo cistico si possono rinvenire virtualmente in
quasi tutte le neoplasie renali, ve ne sono alcune in cui tali alterazioni sono un aspetto caratteristico e possono coinvolgere l’intero tumore; tra queste riconosciamo il nefroma cistico
renale, il carcinoma cistico renale, il nefroblastoma cistico
parzialmente differenziato e il tumore misto epiteliale e stromale 2. Il nefroma cistico è una rara, benigna, neoplasia cistica che si incontra sia nei bambini che negli adulti e si presenta come una singola massa multiloculare delimitata da
setti fibrosi che contengono rari tubuli maturi. La diagnosi
differenziale si pone innanzitutto con il nefroblastoma cistico parzialmente differenziato, tipico invece dei bambini, riconoscibile per la presenza di isole di blastema nel contesto
dei setti che sepimentano le cisti. Il nefroblastoma cistico
parzialmente differenziato è infatti una rara neoplasia che appare correlata istogeneticamente sia con il Tumore di Wilms
che con il nefroma cistico, anche se tali relazioni appaiono
ancora controverse. Si presenta solitamente come una massa
monolaterale, singola ed è istologicamente identica al nefroma cistico se non per la presenza di tessuto mesenchimale
maturo o immaturo, con vario grado di differenziazione, nel
contesto dei setti fibrosi 3. Il carcinoma cistico renale rappresenta circa il 15% dei carcinoma renali ed è tipico dell’adulto; con questa dizione comunque, si comprendono diverse
forme di carcinoma renale, a seconda della presenza di una
formazione cistica multiloculare, uniloculare, di una cisti
semplice con nodulo murale oppure di una estesa necrosi che
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
può conferire un aspetto cistico. Il riconoscimento del corretto istotipo è importante ai fini prognostici perché la forma
multiloculare, a differenza delle altre, è quasi sempre confinata al rene e virtualmente non metastatizza. I criteri per fare diagnosi di carcinoma cistico renale multiloculare sono
macroscopicamente la presenza di una massa espansiva circondata da una pseudocapsula fibrosa, mentre istologicamente il tumore deve essere composto interamente da cisti e setti, senza noduli solidi e i setti devono contenere degli aggregati di cellule epiteliali con citoplasma chiaro. Le cisti possono essere delineate da un singolo strato, talora frammentato, di elementi a citoplasma chiaro con nucleo senza evidenti atipie. La diagnosi differenziale va fatta sia con la cisti renale semplice che con il carcinoma renale a cellule chiare con
aree di necrosi. Il tumore misto epiteliale e stromale, altrimenti detto amartoma cistico della pelvi renale, molto raro,
colpisce prefenzialmente soggetti di sesso femminile e si caratterizza per la presenza di una componente epiteliale costituita da tubuli e cisti di dimensioni variabili rivestite da un
singolo strato di cellule senza atipie immerse in uno stroma
fibroso con aree mixoidi o ialine 4. Nel II gruppo sono invece comprese le malattie cistiche congenite od acquisite, e
particolarmente interessanti appaiono essere le relazioni esistenti tra le neoplasie cistiche renali e quelle malattie cistiche
renali che si possono ad esse associare, con frequenza talvolta tale da essere considerate pre-neoplastiche, quali il rene
policistico acquisito dell’adulto 5, la sclerosi tuberosa e la
malattia di von Hippel-Lindau, mentre il rene policistico dell’adulto o il rene cistico midollare non presentano tale associazione 1.
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Patologia ovarica
Moderatori: M. Biancalani (Empoli) e R. Buffa (Monza)
Neoplasie epitelio-stromali ovariche:
inquadramento
M. Biancalani, A. Palomba, G. Giustarini, A. Calcinai, D.
Moncini
U.O.C. Anatomia Patologica, Ospedale S. Giuseppe, Empoli
(FI)
La patologia neoplastica ovarica coinvolge prevalentemente
l’età adulta. L’80-90% di queste neoplasie si riscontrano infatti tra i 20 ed 65 anni, mentre poco meno del 5% interessa
l’età infantile-adolescenziale. La stragrande maggioranza di
questi tumori sono benigni (80%) e oltre la metà (60%) insorgono in donne sotto i 40 anni. Il restante 20% dei tumori
ovarici sono maligni o borderline (a basso potenziale di malignità) ed interessano per il 90% soggetti di età superiore a
40 anni (il 30-40% in età superiore a 65). Il carcinoma ovarico è il 6° tumore in ordine di frequenza negli USA rappresentando il 4% dei carcinomi femminili ed il 25% delle neoplasie del tratto genitale. La sintomatologia è molto sfumata
ed i segni clinici più ricorrenti sono: distensione e dolore addominale, ascite, sintomi relativi al tratto gastroenterico o
urinario e talvolta sanguinamenti uterini abnormi (neoplasie
maligne o funzionanti).
I tumori epitelio-stromali, argomento della presente sessione,
rappresentano il 50-55% di tutti i tumori ovarici e approssimativamente il 90% dei carcinomi, nei paesi occidentali. Indici lievemente più bassi sono registrati nei paesi orientali.
L’etichetta tumori epitelio-stromali è stata coniata per intendere la proliferazione di strutture epiteliali di origine ovarica
in un contesto variabile di stroma. Differentemente però da
altre neoplasie inducenti desmoplasia stromale, in questi tumori lo stroma è spesso parte attiva e non passiva (reattiva),
tanto da poter secernere ormoni steroidei che in alcune circostanza rappresentano il quadro clinico di esordio. È ormai
diffusamente accettato che i Tumori Epitelio-Stromali derivino dall’epitelio di superficie dell’ovaio (quest’ultimo inteso
come un’evoluzione del mesotelio), origine facilmente comprensibile per alcuni istotipi (sieroso, endometrioide, e cellule chiare), un po’ meno per altri (mucinoso, squamoso), anche per la sovente presenza di queste ultimi tipi istologici, in
neoplasie di origine germinale (teratomi). La possibilità peraltro, di osservare forme di combinazione tra queste differenti espressioni istologiche, nonché un comportamento biologico ed un approccio terapeutico simili, giustificano questa
scelta classificativa. Queste neoplasie da un punto di vista
anatomopatologico sono sottoclassificate seguendo quattro
criteri identificativi: a) il tipo di cellule che compongono il
tumore; b) la prevalenza delle componenti epiteliale (es. cistoadenoma) o stromale (es. adenofibroma) ; c) la localizzazione degli elementi epiteliali che possono essere esofitici
(superficie) o endofitici (cisti); d) l’organizzazione architetturale ed i caratteri citologici che individuano: forme benigne, borderline (a basso potenziale di malignità) e maligne.
Tutti e sei gli istotipi possono presentarsi sia come forme benigne, borderline o maligne. Senza dubbio i tumori che creano maggiori problemi sia sotto il profilo diagnostico che terapeutico sono le forme borderline, le cui conoscenze disponibili sono praticamente riferibili alle sole forme sierose e
mucinose. Ben poco sappiamo infatti per i rari tumori borderline degli altri istotipi. Il termine tumore borderline o tumore a basso potenziale di malignità fu introdotto da Taylor
nel 1929, il quale descrisse una proliferazione iperplastica
che poteva essere confusa con un carcinoma per l’esuberante
proliferazione e che malgrado la possibile associazione con
impianti peritoneali, si associava ad una buona prognosi. In
seguito altri autori, la FIGO e la WHO hanno cercato di identificare, nel corso degli anni, caratteristiche sempre più peculiari per poter differenziare le forme borderline dai carcinomi
e questo soprattutto per i concreti risvolti prognostico-terapeutici. Infatti se è vero che i tumori borderline presentano
un esito generalmente favorevole e comunque a parità di grading, sicuramente migliore dei carcinomi, è altrettanto vero
che il follow-up a lungo termine di queste forme ha evidenziato un rischio moderato ma reale di ripresa di malattia o di
insorgenza di carcinomi ovarici, soprattutto nei tumori borderline con stadio avanzato. Al fine di semplificare il messaggio per il clinico e con l’intendimento di standardizzare i
presidi terapeutici da adottare, alcuni autori recentemente
hanno proposto di restringere le scelte classificative a sole
due branche: neoplasie prive di progressione e neoplasie ad
alto rischio di progressione. Queste ultime comprenderebbero sia i carcinomi che alcuni tumori borderline con caratteristiche peculiari (pattern micropapillare e/o cribriforme) tanto
da essere rinominati come carcinomi sierosi micropapillari 1.
Studi successivi su ampie casistiche non hanno però accreditato tale ipotesi, dimostrando che gli esiti sfavorevoli non sarebbero da imputare al pattern di crescita tumorale ma alla
sola presenza di impianti invasivi 2. I tumori borderline pertanto, restano ad oggi un capitolo ancora molto problematico
e pieno di insidie soprattutto per le difficoltà interpretative riscontrabili all’esame estemporaneo che, anche dalle più recenti casistiche, presenta una sensibilità piuttosto bassa, in
alcuni studi addirittura inferiore al 50%. Risultati assai più
confortanti fortunatamente si registrano invece per neoplasie
francamente maligne o francamente benigne, con indici spesso superiori al 90%. Un ulteriore problema che ha creato notevoli controversie ma che riguarda unicamente la categoria
dei tumori mucinosi è come vada considerato un tumore mucinoso borderline in presenza di metastasi peritoneali riferibili ad uno pseudomixoma. Se si tratta cioè di diffusioni metastatiche di origine ovarica o di origine appendicolare, oppure, qualora siano presenti lesioni sia dell’ovaio che dell’appendice se considerare sempre la primitività appendicolare o la possibilità che le due lesioni siano sincrone 3. Le difficoltà per il patologo e per il clinico, non si esauriscono comunque con le sole forme borderline, perché anche i carcinomi non hanno sempre un comportamento biologico prevedibile ed univoco. La prognosi di questi tumori dipende senza dubbio dal grading, la cui corretta stadiazione è inequivocabilmente conseguenza di un adeguato campionamento chirurgico in prima battuta e successivamente da un accurato
esame macroscopico e microscopico. Per incrementare la riproducibilità diagnostica sull’assegnazione del grading, alcuni autori hanno proposto di adottare simultaneamente due sistemi classificativi (Shimizu/Silverberg e FIGO grading system) 4, ma sarà solo il tempo e la pratica quotidiana a stabilire la validità di tale proposta metodologica.
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Neoplasie borderline: sierose
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U.O. Anatomia Patologica, Ospedale S. Maria Annunziata,
Firenze
Le neoplasie borderline costituiscono uno degli argomenti
più controversi ed al tempo stesso più affascinanti della patologia neoplastica ovarica ed in particolare di quella inerente alle neoplasie dell’epitelio-stroma superficiale. Nell’ambito delle lesioni borderline le neoplasie sierose rappresentano,
oltre alla netta maggioranza, quelle più conosciute ed indagate, tanto da poter costituire una sorta di “prototipo” a cui
ispirarsi per gli altri istotipi.
Le neoplasie borderline sierose… Rappresentano proliferazioni neoplastiche che hanno caratteristiche cito-istologiche
intermedie tra le quelle delle neoplasie benigne e quelle delle neoplasie maligne del loro stesso tipo cellulare, mostrano
una proliferazione cellulare superiore a quella che si ritrova
nella loro controparte benigna, mancano di una chiara “invasione stromale distruttiva” ed hanno un decorso più favorevole, a parità di stadio, nei confronti dei carcinomi.
…nomenclatura, definizione e sinonimi 1… La WHO classifica tali lesioni come “Tumori Sierosi Borderline” e li definisce
“tumori ovarici a basso potenziale di malignità che mostrano
una proliferazione epiteliale atipica, di tipo sieroso, superiore
a quella che si riscontra nella loro controparte benigna, ma senza invasione stromale distruttiva”. Possono essere considerati
sinonimi i termini di Tumori sierosi a basso potenziale di malignità e Tumori sierosi a malignità borderline.
…generalità… Il 25-33% dei tumori ovarici sierosi non classificabili come sicuramente benigni sono costituiti da tumori
borderline. Questi incidono prevalentemente nella 4a e 5 a decade di vita (età media 46 anni). In un terzo/metà dei casi sono bilaterali e nella grande maggioranza (70% circa) si presentano, al momento della diagnosi, allo stadio I.
Generalmente asintomatici, possono dare sintomatologia
quando vadano incontro a torsione o rottura (in particolare se
cistici). Talvolta associati, in giovani donne, ad infertilità.
…le caratteristiche macro-microscopiche… Macroscopicamente possono presentarsi come forme cistiche, con una variabile quantità di escrescenze papillari, come formazioni solido-papillari della superficie ovarica o come forme intermedie tra queste. Il contenuto delle formazioni cistiche è generalmente sieroso, ma talora può presentarsi come mucinoso.
Differentemente dalla controparte carcinomatosa mancano,
di solito, aree di emorragia e necrosi 1.
Microscopicamente i tumori sierosi borderline differiscono
dai cistoadenomi per la presenza di una iperplasia epiteliale
che porta alla formazione di papille (con asse fibroedemato-
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
so), per la formazione di micropapille con presenza di piccoli gruppi di cellule che tendono a distaccarsi, a trovarsi separati dal contesto delle papille, come a fluttuare nel mezzo circostante e per la presenza di un grado di atipica citologica
che varia dal lieve al moderato. Differiscono dal carcinoma
sieroso per l’assenza di invasione stromale distruttiva. Gli
elementi neoplastici possono variare da piccole cellule
uniformi con nucleo ipercromatico ad elementi più grandi
con citoplasma eosinofilo ed attività mitotica generalmente
bassa1.
…il pattern micropapillare 1-3… Rappresenta un particolare
pattern morfologico costituito da una proliferazione, più o
meno diffusa, di elementi neoplastici che formano micropapille sottili ed allungate, senza o con scarso asse stromale.
Le micropapille possono originare direttamente dal rivestimento interno della formazione cistica, da formazioni papillari più grandi (senza ramificazione) o dalla superficie ovarica. Più raramente si può osservare un pattern cribriforme o
quasi solido di proliferazione neoplastica non invasiva. La
diagnosi di tumore sieroso borderline di tipo micropapillare
richiede la presenza di almeno 5 mm di proliferazione neoplastica continua che mostri le caratteristiche morfologiche
sopraelencate.
…la microinvasione 4 5… Viene indicata come microinvasione la presenza, in un tumore sieroso borderline, di microfocolai di invasione stromale (singoli o multipli) costituiti da
cellule (singole o in piccoli aggregati) con le caratteristiche
citologiche della neoplasia borderline. Le cellule possono
avere un abbondante citoplasma eosinofilo ed i microfocolai
sono generalmente localizzati in spazi vuoti verosimilmente
derivati dalla secrezione di fluido sieroso da parte delle cellule neoplastiche. Nessuno di questi microfocolai deve avere
un’area superiore ai 10 mm2. Manca una reazione stromale
all’invasione che risulta, invece, caratteristica dei carcinomi.
…gli impianti 1 5… I tumori sierosi borderline possono associarsi ad impianti nella superficie peritoneale. Gli impianti
peritoneali possono essere inquadrati in due tipi prognosticamente diversi: impianti di tipo non invasivo, a loro volta divisi in tipo epiteliale e tipo desmoplastico, ed impianti di tipo invasivo. Mentre la presenza dei primi sembra non influenzare negativamente, almeno in modo significativo, il
tasso di sopravvivenza a 10 anni, gli impianti di tipo invasivo sono associati ad una prognosi peggiore con più del 50%
di recidive e con un tasso di sopravvivenza a 10 anni di circa
il 35%. Varie forme di impianti peritoneali possono coesistere nella stessa paziente e pertanto un attento studio di queste
lesioni deve essere attuato con particolare attenzione al campionamento in corso di primo intervento e di reinterventi successivi.
…genetica 5 6. Il pattern delle alterazioni genetiche descritto
per i tumori sierosi borderline differisce da quello dei carcinomi. Indipendentemente dal riportare singoli esempi possiamo dire che il loro profilo genetico indica che sono una categoria separata con scarsa capacità a trasformarsi in un fenotipo maligno. Ancora da chiarire rimane invece la problematica dei tumori sierosi borderline con pattern micropapillare.
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Neoplasie borderline: non sierose
B.E. Leone
Dipartimento di Scienze Chirurgiche e Terapia Intensiva,
Università di Milano-Bicocca; Unità Operativa di Anatomia
Patologica, Ospedale S. Gerardo, Monza
I tumori borderline non sierosi comprendono quattro entità:
tumori mucinosi, endometrioidi, a cellule chiare e a cellule
transizionali. I primi rendono conto di circa il 38% dei tumori ovarici borderline, mentre i restanti tre sono particolarmente rari. A loro volta i tumori borderline mucinosi si dividono in due gruppi, di tipo intestinale (circa 90%) e di tipo
endocervicale (rimanente 10%) 1.
Tumori borderline mucinosi di tipo intestinale
La definizione proposta dalla WHO 2 per il primo di questi due
raggruppamenti contiene sostanzialmente tre aspetti principali, due morfologici (proliferazione atipica dell’epitelio e assenza di invasione) e uno clinico (basso potenziale maligno). Si
tratta di masse ovariche per lo più monolaterali, microscopicamente analoghe alle loro controparti benigne. Dal punto di vista istopatologico è comune che nello stesso tumore coesistano aree di cistoadenoma insieme alla crescita borderline, che
deve dunque rappresentare una frazione significativa della
componente epiteliale stessa (indicativamente 10%). Quest’ultima caratteristicamente mostra crescita papillare dotata di
scarsissimo stroma di sostegno, pluristratificazione dell’epitelio, atipie nucleari e mitosi. La presenza di aree di carcinoma
non invasivo viene in maggioranza etichettata come “tumore
borderline con carcinoma intraepiteliale”.
Dal punto di vista prognostico è importante considerare come tali tumori abbiano un comportamento sostanzialmente
benigno, analogo ai cistoadenomi, in quanto non associati a
pseudomixoma peritonei, che è ormai riconosciuto essere in
massima parte secondario a neoplasie appendicolari o comunque gastroenteriche 3. Invece i casi caratterizzati da diffusione intraperitoneale, sotto forma di metastasi vere e proprie, non sono associati a pseudomixoma e rappresentano
molto probabilmente adenocarcinomi mucinosi ovarici infiltranti non correttamente diagnosticati, per esempio per difetto di campionamento.
L’evidenza di eterogeneità tumorale (benigna, borderline,
maligna) nell’ambito di una singola lesione mucinosa riflette
un meccanismo di progressione neoplastica che renderebbe
ragionevole il fatto di considerare la neoplasia borderline
mucinosa intestinale in maniera analoga alle lesioni epiteliali preinvasive presenti in altre sedi, e per questo non associata a possibilità di diffusione, in accordo con i dati di prognosi disponibili.
Tumori borderline mucinosi di tipo endocervicale
Questo gruppo di neoplasie si distingue dalle precedenti per
aspetti di differenziazione epiteliale di tipo endocervicale.
Sono più frequentemente bilaterali e associati talora a endo-
227
metriosi, ma la differenza sostanziale riguarda la possibilità
di diffusione intraperitoneale sotto forma di impianti invasivi o non invasivi, in analogia con i tumori sierosi. Anche le
caratteristiche istopatologiche, con architettura papillare
complessa e aspetti di differenziazione mulleriana in senso
sieroso ed endometrioide, oltre che mucinoso endocervicale,
sembrano accrescere la similitudine con le lesioni sierose.
Non sorprendentemente, anche l’andamento clinico appare
analogo.
Tumori borderline endometrioidi, a cellule chiare e a cellule
transizionali
Di raro riscontro e, anche per questo, spesso di difficile diagnosi differenziale con le controparti benigne e maligne. Si
tratta di neoplasie che dimostrano proliferazione epiteliale
atipica con aspetti differenziativi in senso endometriale, a
cellule chiare e transizionale rispettivamente, ma senza caratteristiche infiltrative a carico dello stroma. La prognosi sarebbe favorevole.
Bibliografia
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Possibilità e limiti dell’intraoperatoria
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Biancalani
U.O.C. Anatomia Patologica, Empoli (FI)
Ci sono settori della patologia oncologica in cui l’esame intraoperatorio può essere opzionale, poiché le indagini diagnostiche preoperatorie forniscono al chirurgo le informazioni necessarie per decidere il tipo d’intervento da eseguire. Per
organi come l’ovaio, in cui gli esami strumentali non forniscono dati certi sulla natura della lesione e non è possibile
eseguire una biopsia preoperatoria, l’intraoperatoria può essere dirimente e può avere una molteplice utilità per il chirurgo 1.
Innanzi tutto permette di stabilire la natura della lesione, con
un’attendibilità elevata per le neoplasie benigne e maligne
(Tab. I) 2, riscontrando le maggiori difficoltà nei tumori borderline. I dati riportati in letteratura sull’accuratezza dell’esame intraoperatorio per le neoplasie ovariche globalmente
considerate sono molto incoraggianti, oscillando dal 92% al
98,7%, con una sensibilità per le neoplasie benigne dal 94%
al 99,1%, e per quelle maligne dal 87% al 98,5%; per le neoplasie borderline i valori sono molto inferiori, attestandosi
nella maggior parte degli studi intorno al 60% 2-4, con valori
anche inferiori: 44,8 5, 50% 6.
Un altro quesito importante a cui l’esame intraoperatorio
può dare una risposta è se si tratta di una lesione primitiva
ovarica o metastatica (gli organi che più comunemente metastatizzano all’ovaio sono l’endometrio, lo stomaco, l’intestino, la mammella). Inoltre in un tumore primitivo conoscere il tipo istologico (adenocarcinoma, tumore germinale,
tumore stromale) può servire all’operatore per scegliere il
tipo d’intervento più adeguato, ad esempio la conservazione dell’ovaio controlaterale che è possibile se si tratta di un
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
228
Tab. I. Sensibilità della diagnosi intraoperatoria per le neoplasie ovariche (M. Gol 2003, mod.)
Autore
Hamed, 1993
Rose, 1994
Usubutun, 1998
Yeo, 1998
Cuello,1999
Houck, 2000
Pinto, 2001
Gol, 2003
Tangjitgamol, 2004
N. casi
% Globale
% N. Benigne
305
383
360
316
842
140
243
222
212
98.7
92.7
94.2
95.2
98.2
97.9
99.2
98.2
94
92
91.9
94
98
99.1
tumore germinale. Lo studio intraoperatorio può servire anche a valutare lo stadio della neoplasia e dare indicazioni al
chirurgo sull’adeguatezza dei margini di resezione, dato importante soprattutto nel caso di giovani donne che desiderino conservare la fertilità 3.
Ci sono neoformazioni in cui l’esame macroscopico può essere già suggestivo della natura della lesione, come i teratomi cistici maturi o le cisti che presentano pareti sottili, senza
neoformazioni aggettanti nella cavità. Nei tumori che richiedono l’esame intraoperatorio è importante la scelta del frammento/i da esaminare, infatti, nei tumori solidi sono da evitare le aree necrotiche e nelle cisti con neoformazioni papillari
possono essere necessari più prelievi per evidenziare un’eventuale infiltrazione 7.
Una regola che vale in generale (non solo per le neoformazioni ovariche) perché l’esame al congelatore sia ottimale, è
di avere a disposizione tutta la lesione e non solo una porzione, perché una possibile causa di errore può essere quella di
valutare un frammento non rappresentativo della patologia.
Questo dato emerge chiaramente anche dallo studio di Nigrisoli 8 che su 1490 campioni esaminati al criostato, ha riscontrato che le cause di errore sono da ricondurre principalmente all’errore di campionamento macroscopico, in secondo
luogo all’errore interpretativo istologico, e in minima parte ai
problemi tecnici (artefatti da congelamento).
Questi fattori potrebbero spiegare la bassa accuratezza diagnostica intraoperatoria per i tumori borderline, per i quali la
complessità morfologica e il campionamento limitato a pochi
prelievi rendono l’esame estemporaneo meno attendibile 3.
La valutazione di un esiguo numero di sezioni può portare a
sottostimare la lesione non mostrando nelle sezioni congelate aree certe di invasione, che possono comparire sull’esame
definitivo, dove le sezioni esaminate sono molto più numerose; questo può spiegare come il 20%-30% di casi diagnosticati come borderline all’esame intraoperatorio siano risultati carcinomi al successivo esame istologico 2 3 5 9 10. Molto
più raramente si verifica che neoformazioni interpretate come benigne al congelatore siano diagnosticate come tumore
borderline all’esame definitivo (2,8-6,2%) 2-5.
Dagli studi presenti in letteratura emerge che la maggior parte degli errori è rappresentata da sottostime delle lesioni,
mentre le sovrastime sono molto più rare. Le maggiori difficoltà sembrano aversi nei tumori mucinosi, con una percentuale maggiore di diagnosi sottostimate 2 4 5: questo può dipendere dalle dimensioni maggiori che di solito hanno le
neoformazioni mucinose e dalla loro eterogeneità tanto da
poter trovare nello stesso tumore aree benigne, maligne e
borderline.
% N. Borderline
44.8
% N. Maligne
60
92.5
93.1
87
60
61
61
50
98.5
88.7
90.9
Una valutazione complessiva di questi dati conferma l’utilità
e l’accuratezza dell’esame intraoperatorio nelle neoplasie
ovariche; tale metodica, pur se con limitazioni nelle lesioni
borderline, risulta un valido supporto per il chirurgo, più delle altre indagini diagnostiche preoperatorie 3 11.
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Marcatori prognostici dei tumori ovarici
M.R. Raspollini, G.L. Taddei
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università
di Firenze
Da una ricerca bibliografica della letteratura del medline
combinando i termini “fattori prognostici” e “carcinoma ovarico” si ottengono non meno di 838 voci bibliografiche. Un
risultato così elevato, non proporzionato al numero di fattori
prognostici di utilizzo in clinica, suggerisce che la maggioranza dei presunti fattori prognostici abbia un incerto valore
clinico e biologico. Tuttavia, esiste una inconfutabile neces-
PATOLOGIA OVARICA
sità di individuare quali pazienti andranno bene senza terapie
aggiuntive (individuare i fattori prognostici) e quali andranno bene con alcuni trattamenti e non con altri (individuare i
fattori predittivi).
L’individuazione di fattori prognostici e soprattutto di fattori predittivi di risposta ad una determinata terapia va assumendo una importanza crescente nel carcinoma ovarico,
dal momento che di recente, nuovi obiettivi terapeutici sono stati ipotizzati con terapie adiuvanti più aggressive con
l’introduzione in terapia di prima linea di un terzo farmaco,
in aggiunta alla combinazione di platino e taxolo, oppure
con una terapia di consolidamento con l’utilizzo di un chemiofarmaco al termine dei sei cicli di terapia a base di platino e taxolo 1 2.
Il più importante fattore prognostico nel carcinoma ovarico è
l’estensione della malattia al momento della diagnosi. La sopravvivenza a cinque anni per le pazienti con carcinoma ovarico in stadio avanzato è inferiore al 25%, mentre è intorno al
90% nelle donne con malattia di stadio I 3.
Nella maggioranza dei casi la malattia è diagnosticata in stadio avanzato con diffusioni pelviche e peritoneali. Il carcinoma ovarico di stadio III o IV rappresenta una malattia con
prognosi pessima. Al momento attuale, la guarigione nelle
pazienti con recidiva di malattia non rappresenta un obiettivo
realistico, e la maggior parte delle donne, che non rispondono alla chemioterapia di prima linea dopo l’intervento chirurgico, vanno incontro a brevi periodi di remissione di malattia dopo ogni ciclo di trattamento.
Accanto allo stadio della malattia, la radicalità chirurgica 4 5,
l’istotipo 6 7 ed il grado di differenziazione 8 9 sono correlati
con la sopravvivenza delle pazienti con carcinoma ovarico.
Tuttavia, il diverso comportamento biologico osservato in
pazienti con carcinoma ovarico omogeneo per tipo istologico, grado di differenziazione, stadio di malattia e trattamento
chirurgico e chemioterapeutico, spinge a studiare altri fattori
che possano spiegare tali differenze. Esiste infatti, un piccolo numero di pazienti con malattia avanzata che, dopo il trat-
229
tamento chirurgico e chemioterapico, dimostrano sopravvivenze estremamente lunghe. Si osservano, inoltre, all’interno
di ogni stadio FIGO di malattia, delle differenze marcate di
evoluzione clinica che non si spiegano solo con l’istologia, il
grading e la malattia residua dopo la chirurgia.
Lo studio volto a comprendere le basi molecolari della carcinogenesi e della progressione neoplastica dei tumori ovarici è
in rapida evoluzione e porterà ad identificare nuovi fattori prognostici e predittivi che consentiranno, in futuro, la personalizzazione del trattamento terapeutico e l’individuazione delle
pazienti che necessitano di un trattamento più aggressivo.
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Citologia da iniziative di screening
Moderatori: A. Bondi (Cesena) e P. Dalla Palma (Trento)
Problematiche diagnostiche nella
classificazione del sistema Bethesda 2001
degli strisci cervicali
S. Prandi
Centro di Citologia Cervico-vaginale di Screening, Arcispedale Santa Maria Nuova, Reggio Emilia
Nel maggio 2001 si è tenuto a Bethesda un Worshop per ripuntualizzare la classificazione citologica utilizzata nella diagnostica degli strisci cervico-vaginali a 10 anni dalla precedente edizione del S. Bethesda 1991 1 4. Una revisione terminologica era necessaria per il raggiungimento di un consenso
internazionale, per l’utilizzo di una classificazione che riflettesse nuove conoscenze nella biologia dei tumori della cervice e nell’applicazione di nuove tecnologie e per un’integrazione maggiore della gestione clinica della donna. Il nuovo S.
Bethesda 2001 non si discosta sostanzialmente da quello del
1991, che mantiene ancora una problematicità d’applicazione
negli screening organizzati. Questa classificazione nata in
America, si integra in un Sistema Sanitario organizzato diversamente, ove non esiste attualmente uno screening su invito, ma una partecipazione spontanea delle donne, pagata
dalle compagnie assicuratrici, con frequenza consigliata annuale. Il problema di una refertazione citologica nel programma di screening organizzato è diverso, perché i risultati
dei test non sono mediati dal clinico nel 95% dei casi, in
quanto “negativi”, le cui spedizioni sono fatte direttamente a
domicilio; la ciclicità è spesso rigida: nei risultati negativi il
ritorno è a tre anni, la ripetizione è immediata se il pap test
non è soddisfacente, l’invio al secondo livello avviene per citologia ASC, LSIL, HSIL, Carcinoma e lesioni ghiandolari.
In caso di risultato “negativo per lesioni intraepiteliali o per
malignità”, ma con assenza di cellule endocervicali o zona di
trasformazione, a quanto deve essere fatto l’invito successivo? A tre anni o, come afferma il Gruppo Italiano Screening
del Cervicocarcinoma (GISCi), con ripetizione immediata?
La scelta del tempo della ciclicità è decisa dal citologo, cioè
mediata dalla qualità del preparato, non sempre adeguatamente soddisfacente a causa della marcata flogosi, dalla scarsità del materiale, da difetti tecnici, oppure dal Responsabile
di programma che segue rigide direttive Regionali? Di qui
sorgono i primi problemi con l’abolizione della categoria
“adeguato ma limitato da” che se vengono trasformati come
insoddisfacenti il limite del 5%, quale standard richiesto come obiettivo di qualità degli screening, viene superato. Altra
categoria problematica è l’ASC (cellule squamose atipiche)
che sottende anormalità epiteliali indicando una lesione squamosa che quantitativamente e qualitativamente non è sufficiente per definirla SIL, che non indica una infiammazione od
una reattività e che non rappresenta una diagnosi d’esclusione. L’ASC comprendente due sottocategorie: ASC-US ed
ASC-H: le Pazienti con diagnosi di ASC-US hanno il rischio
di una malattia d’alto grado che varia fra l’8-20% 2. L’ASCH (cellule squamose atipiche non si può escludere HSIL),
rappresenta dal 5% al 10% delle ASC, riflette un misto fra veri HSIL e lesioni che li simulano. Il vero problema sta nella
poca riproducibilità diagnostica secondo il S. Bethesda 2001,
già evidenziata con il Bethesda 1991 con l’ASCUS, per cui
suddividendo l’ASC, potrà derivare un quantitativo di ASCUS pressoché invariato, che comprenderà ancora SIL di alto
grado, mentre nella categoria ASC-H, pur avendo un valore
predittivo positivo più elevato per CIN II e CIN III istologico, saranno ancora presenti una quota di casi negativi come
confermato dalla letteratura internazionale ove la nuova classificazione è già utilizzata da tempo. Seppur poco riproducibile, l’ASC-H ha un valore predittivo positivo per CIN II CIN III intermedio fra ASC-US e HSIL. Da ultimo, ma prime
per complessità, sono le categorie delle lesioni ghiandolari,
poco conosciute, perché meno frequenti, ma con problematica acuita per laboratori di medie-piccole dimensioni. Comprendono AGC, cellule ghiandolari atipiche, AGC verso il
neoplastico, AIS – adenocarcinoma in situ. Secondo S. Bethesda 2001, AGC ha un valore predittivo più elevato rispetto
ASC per malattie significative (61% vs 20%) 4. In Italia la
classificazione S. Bethesda 2001 negli screening è comunque
in fase d’applicazione, sia a livello sperimentale sia come utilizzo attivo, anche se solo in limitate realtà: la condivisione di
queste esperienze indicherà non solo le problematicità, ma
anche porterà a soluzioni diversificate e l’applicazione di
nuove metodiche, quali la rilevazione del DNA HPV, come
indicato nel triage dell’ASC dalla ASCCP, integreranno i limiti della diagnostica citologica cervicale 2.
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Lo strato sottile nello screening del cervico
carcinoma: valutazioni
C. Gentili
U.O. Anatomia Patologica, Ospedale Unico della Versilia
Camaiore, Lucca
Obiettivi
Nella nostra ASL è attivo un programma di screening a partire dal 1997, inserito all’interno di un’iniziativa regionale
che coinvolge diverse ALS.
L’U.O. di Anatomia Patologica gestisce la parte organizzativa, il primo livello e la parte valutativa. Il target della popolazione interessata (7 comuni che fanno parte della ASL) è di
47000 donne di età tra 25 e 60 anni da testare ogni tre anni. Lo
screening segue le linee guida del Ministrero della Salute 1
conformi alle linee guida europee per la “Quality assurance in
cervical cancer screening” 2.
CITOLOGIA DA INIZIATIVE DI SCREENING
231
Fino al 2002 abbiamo utilizzato il pap test tradizionale, dall’inizio del 2003 abbiamo introdotto la citologia in fase liquida con il metodo Thin Prep 3.
Molti studi indicano questo metodo come più efficace, più facile e veloce da leggere, più sensibile nell’individuare le lesioni SIL e nel ridurre gli inadeguati 4-6.
Scopo di questo studio è comparare i due metodi sulla base
dei dati forniti dalla nostra esperienza e dalla letteratura 7-10.
Materiali e metodi
Come campione di popolazione di screening abbiamo considerato donne testate con il metodo Thin Prep nell’anno 2003
e donne testate con il tradizionale nel 2002.
I due campioni erano confrontabili per numero, età e fattori
di rischio.
I campioni sono stati prelevati dagli stessi operatori (medici ed
ostetriche) precedentemente addestrati. Lo screening citologico è stato effettuato dallo stesso personale (tecnici e biologi)
operativo dall’inizio dello screening. Il tempo di lettura per
singolo test è stato calcolato sulla media dei pap test letti in 5
giorni. La refertazione si è basata sulla classificazione di
Bethesda 89 11. I risultati positivi ed i controlli di qualità sono
stati controllati da patologi con un lungo training nel settore
È stato usato il T test per valutare le differenze tra i tempi medi ed il numero degli inadeguati e chi-quadro con la correzione di Bonferroni per valutare le differenze tra le 4 più frequenti categorie diagnostiche del Bethesda.
Risultati
Nel 2003 il tempo medio dello screening è più breve rispetto
al 2002 (2002: m 6 min; ds 0,35. 2003 m 3,3 min; Ds 0,44
p.< 0,01) ed il numero degli inadeguati minore (188 vs 58 p
< 0,01). In maniera statisticamente significativa sono aumentati gli LSIL (71 vs 46 p < 0,01) e gli HSIL, anche se per questa categoria la differenza è leggermente sotto la soglia della
significatività statistica (9 vs 20 p = 0,08)
Non è stata trovata alcuna differenza tra il numero di casi
ASCUS-AGUS (2002: 37 casi 2003: 44 casi) (Tab. I).
Recentemente si sono resi disponibile altri sistemi per la citologia in fase liquida: i risultati preliminari che emergono
dalla letteratura e dalla nostra esperienza sono molto promettenti: ciò porterà sicuramente un abbattimento di costi che incoraggerà, a sua volta, una diffusione della metodica dagli indubbi vantaggi
Bibliografia
1
Ministero della Sanità. Linee guida elaborate dalla Commissione Oncologica Nazionale. Gazzetta ufficiale n. 127 del 1/06/02.
2
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3
Cytic Corp: Product insert, Thin Prep 2000, Boxborough, Massachussetts, 1997.
4
McGoogan E, Reith A. Would monolayer provide more representative
samples and improved preparations for cervical screening? Overview
and evaluation of systems available. Acta Cytol 1996;49:107-119.
5
Bur M, Knowles K, Petrow P, Corral O, Donovan J. Comparison of
ThinPrep preparation with conventional cervicovaginal smears:
Practical consideration. Acta Cytol 1995;39:631-642.
6
Corkill M, Knapp D, Martin J Hutchinson ML. Specimen adequacy of
Thin Prep sample preparations in a direct-to-vial study. Acta Cytol
1997;41:39-44.30.
7
Linder J, Zahniser D. The Thinprep Pap Test: A review of clinical
studies. Acta Cytol 1997;41:30-38.
8
Papillo L, Zarka MA, St John TL. Evaluation of Thinprep Pap Test in
clinical practice in northern Vermont. Acta Cytol 1998;42:203-208.
9
Bolick DR, Hellman DJ. Laboratory implementation and efficacy of
the Thinprep cervical cancer screening system. Acta Cytol
1998;42:209-213.
10
Malle D, Pateinakis P, Chakka E, Destouni C. Experience with a
Thin-Layer, Liquid-Based Cervical Cytologic Screening Method. Acta Cyolol 2003;47:129-134.
11
Kurman RJ, Salomon D. The Bethesda System for Reporting Cervical/Vaginal Cytologic Diagnoses: Definitions, Criteria and Explanation Notes for Terminology and Specimen Adequacy. New York,
Springer-Verlag, 1994.
Novità in citologia cervico-vaginale:
il “trial HPV”
Tab. I.
2002
Pap. Smear
%
No.Tot
Inadeg.
ASCUS-AGUS
LSIL
HSIL
Carcinoma
Tot. Pos.
4560
188
37
46
9
1
93
4,12%
0,81%
1%
0,19%
0,02%
2,04%
2003
Thin Prep
4872
58
44
71
20
2
137
%
1,19%
0,90%
1,46%
0,41%
0,04%
2,81%
Conclusioni
In accordo con la letteratura, nella nostra esperienza abbiamo
registrato con l’uso del Thin Prep un aumento delle LSIL,
una riduzione dei tempi di lettura e del numero degli inadeguati.
Abbiamo rilevato inoltre un incremento delle HSIL per quanto sotto la significatività anche se leggermente sotto la significatività statistica. Nessuna differenza è invece emersa nel
numero di ASCUS-AGUS.
Questi risultati indicano una maggior efficacia del Thin Prep
nella diagnosi delle lesioni SIL e nel ridurre il numero degli
inadeguati
G. Ronco1, G. Collina2, N. Segnan1, L. De Marco1, R. Rizzolo1, B. Ghiringhello3, M. Confortini4, F. Carozzi4, M.
Zappa4, A. Iossa4, M. Vettorazzi5, A. Del Mistro6, C. Naldoni7, C. Sintoni8, P. Schincaglia7, A. Bondi8, G. Casadei9,
P. Dalla Palma10, S. Brezzi11, P. Giorgi-Rossi11, A. Pellegrini12, J. Cuzick13
1
CPO Piemonte; 2 Anatomia Patologica, Ospedale Bellaria,
Bologna; 3 Ospedale S. Anna, Torino; 4 CSPO Firenze; 5 Veneto Registro Tumori, Padova, 6 Università di Padova; 7
CPO Ravenna; 8 Anatomia Patologica, Ospedale di Cesena;
9
Anatomia Patologica, Ospedale Maggiore, Bologna; 10
Anatomia Patologica, Ospedale di Trento; 11 ASP Lazio, Roma; 12 Ospedale S. Giovanni, Roma; 13 Cancer Research UK,
London
Obiettivo
A lungo termine, valutare l’efficacia di uno screening basato
sul test HPV a intervalli prolungati (5-6 anni) rispetto a quella di uno screening basato sulla citologia convenzionale ogni
3 anni. A breve termine, valutare sensibilità e specificità del
test HPV nei confronti della citologia convenzionale e della
citologia in fase liquida (LBC).
Metodi
Trial randomizzato multicentrico che coinvolge 9 programmi
organizzati di screening in Italia. Erano elegibili le donne di
età tra 25 e 60 anni che venivano per un nuovo round di
232
screening. Braccio convenzionale: La donne hanno avuto citologia convenzionale. Si è indicata colposcopia se se il Paptest era diagnosticato ASCUS. Braccio sperimentale: si prelevava materiale proveniente dal canale cervicale e lo si conservava nel fissativo presente all’interno dei contenitori atti
alla preparazione della citologia in fase liquida.Il materiale
prelevato residuo era utilizzato per la ricerca di ceppi virali
HPV ad alto rischio (Hybrid Capture II sonda B).
Le donne con età superiore ai 35 anni, risultate positive al test
Hybrid Capture II per ceppi HPV ad alto rischio, ma con citologia in fase liquida con esito negativo si è indicata direttamente colposcopia. Alle donne nella stessa condizione precedentemente descritta (HPV-positivo, LBC-negativo), ma di età
inferiore ai 35 anni, si ripeteva l’esame a distanza di un anno.
Sono state randomizzate al braccio convenzionale 22302
donne e 22398 al braccio sperimentale.
Risultati
Vengono presentati risultati preliminari per le donne di età
superiore ai 35 anni. La sensibilità relativa nei confronti della citologia convenzionale per lesioni CIN II/III, confermate
istologicamente, è stata 1,70 (95% c.i. 1,16-2,49) per la ricerca di ceppi virali HPV ad alto rischio associato alla LBC,
1,58 (95% c.i. 1,07-2,23) per il test HPV da solo e 1,24 (0,831,87) per la citologia in fase liquida da sola. Nel braccio sperimentale 66/71 CINII/III (92,96%) erano HPV-positive e
52/71 (73,24%) erano LBC-positive (ASCUS+). Il valore
predittivo positivo (VPP) per CINII+ è stato 6,56% con il test HPV da solo, 6,73% con la citologia liquida da sola e
11,00% con la citologia convenzionale).
Conclusioni
È in corso il completamento della documentazione delle colposcopie e la revisione dei preparati istologici. Per questo i
risultati sono da considerare preliminari. Il test HPV ha aumentato la sensibilità di circa il 60% ma ha ridotto il PPV.
Sono necessarie strategie per migliorare il PPV (es. restringere l’invio diretto in colposcopia delle donne HPV-positive
a quelle citologicamente positive e ripetere il test per le altre,
inviando solo quelle con infezione persistente).
Una seconda fase con test HPV da solo nel braccio sperimentale è in corso.
Lo scopo finale e principale dello studio sarà la detection rate al round di screening successivo.
La citologia agoaspirativa nella definizione
delle lesioni multiple della mammella
F. Zanconati, D. Bonifacio, F. Martellani, A. Romano, R.
Spinelli, I. Colautti, S. Dudine, L. Di Bonito
Dipartimento di Scienze Cliniche Morfologiche e Tecnologiche; U.C.O. di Anatomia Patologica, Istopatologia e Citodiagnostica, Università di Trieste
La FNA è ampiamente utilizzata nella definizione delle anomalie osservate in corso di accertamenti mammografici ed
ecografici e, come suggerito nella Charta Senologica 2004
della S.I.R.M 1, è lo strumento di prima scelta per la caratterizzazione morfologica delle lesioni evidenziate in radiologia. Il successo di questa metodica si basa sulla sua semplicità di esecuzione, sui costi molto contenuti e sulla sua minima invasività. La percentuale di diagnosi utili ottenibili con
questa metodica dipende solo in parte dalle dimensioni e dalla cellularità intrinseca della lesione. È ben noto, infatti, che
il successo della metodica dipende soprattutto dall’esperienza dell’équipe radiologo/patologo che gestisce le diverse fasi
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della procedura. Queste comprendono, oltre al corretto riconoscimento della lesione (di competenza del radiologo), una
serie di tappe intermedie, dalla scelta della metodica più efficace (FNA/CB/solo follow-up strumentale/biopsia chirurgica), alla corretta centratura della lesione con un’ottimale gestione del materiale prelevato, fino alla corretta interpretazione al microscopio ed alla stesura del referto (queste ultime
di competanza del patologo). Il ruolo ricoperto dai diversi
specialisti nelle fasi intermedie della procedura è molto variabile, anche all’interno dello stesso ospedale. I migliori risultati si ottengono quando radiologi e patologi esperti collaborano durante le fasi intermedie e questo plusvalore si quantifica facilmente con una riduzione del numero di inadeguati
e con l’incremento delle diagnosi conclusive. L’utilizzo della “near patient FNAC diagnosis” 2, che prevede la partecipazione diretta del patologo alla fase del prelievo (con possibilità di valutazione estemporanea dell’adeguatezza), è essenziale per ottenere con la FNA risultati che siano affidabili per il loro l’utilizzo nella pratica clinica quotidiana. I vantaggi sono assolutamente evidenti e riconosciuti, non solo per
i costi contenuti, ma soprattutto per la bassissima incidenza
di complicanze, per altro minori, che consente una buona accettazione dell’esame da parte delle pazienti. Questa metodica è indicata anche per lo studio di lesioni di piccole dimensioni, caratterizzate da un quadro radiologico sfumato, riducendo al minimo il numero di falsi negativi radiologici e di
lesioni multiple.
Materiali e metodi: la provincia di Trieste è la più piccola
provincia italiana per superficie (poco più di 200 Kmq) ed è
costituita quasi esclusivamente da un’area metropolitana (la
città di Trieste con quasi 210.000 abitanti) e da 5 comuni minori (circa 30.000 abitanti). Per quanto riguarda i bisogni sanitari, oltre il 90% degli abitanti fa riferimento alle strutture
operanti nella provincia; tutte le realtà sanitarie territoriali,
ospedaliere e private convenzionate sono collegate da una
medesima rete informatica. In questo scenario è attivo dal
1994 un progetto di collaborazione nel settore della diagnostica intervenzionale tra le unità di Radiologia e quella di
Anatomia Patologica con la costituzione di un nucleo operativo radiologo-patologo, soprattutto per quanto riguarda la citologia agoaspirativa. Ciò ha consentito di razionalizzare il
ricorso a strumenti di approfondimento più invasivi (prelievi
sotto stereotassi e/o agobiopsie con tru-cut) ai soli casi in cui
l’approccio citologico si sia dimostrato inadeguato (assenza
di materiale diagnostico in citologia rapida) o insufficiente
per soddisfare alcuni dei quesiti diagnostici o clinico/terapeutici che il singolo caso può comportare (diagnosi di sospetto da confermare o necessità di fornire precise indicazioni sulle caratteristiche biologiche di una lesione maligna già
confermata). Tale collaborazione si è estesa nel corso degli
anni, coinvolgendo anche la quasi totalità delle strutture pubbliche e private operanti nel territorio provinciale. Anche se
nella Regione Friuli-Venezia Giulia non è ancora attivato un
programma di screening organizzato per la prevenzione del
carcinoma mammario, dal 2001 è operativo nella provincia di
Trieste un gruppo multidisciplinare che si riunisce periodicamente per discutere casi clinici e linee guida. Tale gruppo ha
permesso di far conoscere ai diversi specialisti dedicati alla
senologia, il ruolo clinico della FNA nella gestione delle pazienti soprattutto in quelle con lesioni infracliniche. La crescente confidenza dimostrata dal gruppo senologico multidisciplinare con la FNA ha comportato un aumento delle richieste di ricorso a questa metodica, anche allo scopo di meglio caratterizzare la natura di noduli multipli osservati nella
stessa paziente. In questi ultimi anni, per meglio selezionare
CITOLOGIA DA INIZIATIVE DI SCREENING
233
Tab. I.
Noduli singoli
Noduli multipli
2001
Categoria
diagnostica
C1
C2
C3
C4
C5
2003
2001
% sui
noduli
singoli
totali
N.
% sui
noduli
singoli
totali
N.
% sui
noduli
multipli
totali
N.
% sui
noduli
multipli
totali
61
185
26
27
93
15,56%
47,19%
6,63%
6,89%
23,72%
26
244
36
18
130
5,73%
53,74%
7,93%
3,96%
28,63%
19
78
6
12
63
10,67%
43,82%
3,37%
6,74%
35,39%
26
128
17
19
104
8,84%
43,54%
5,78%
6,46%
35,37%
Tab. II.
noduli singoli
Sensibilità
Specificità
VPP
VPN
2003
N.
noduli multipli
2001
2003
2001
2003
99,07%
95,18%
90,60%
99,54%
97,28%
98,93%
97,95%
98,58%
98,51%
96,39%
95,65%
98,77%
96,83%
99,30%
99,19%
97,24%
le pazienti candidate alla terapia conservativa, si è inoltre
presentata la necessità di migliorare le tecniche preoperatorie
di indagine, sia con l’introduzione di ecografi tecnologicamente più avanzati, sia con indagini dinamiche, come la
RMN con mezzo di contrasto paramagnetico. Ovviamente
ciò ha comportato un incremento nella dimostrazione di ulteriori noduli, per lo più di piccole dimensioni e con caratteristiche semeiologiche incerte. Quanto fin qui esposto è premessa fondamentale per comprendere le modificazioni rilevate analizzando i dati citologici relativi al 2003 rispetto al
2001 e per meglio identificare il reale contributo in una più
razionale gestione delle donne con nodulo e/o noduli mammari. Per la valutazione dei dati statistici, le categorie diagnostiche di ciascun nodulo reperito sono state correlate con
i risultati degli eventuali esami istologici successivi o con i
dati di follow-up ottenibili dagli esami radiologici di controllo per tutti i casi non sottoposti a chirurgia.
Risultati: nel corso del 2001 sono state studiate con FNA 392
donne per la presenza di noduli singoli ed ulteriori 82 donne
con noduli multipli, per complessivi 570 noduli mammari
(178 noduli multipli pari al 31,2%); nel 2003 sono state sottoposte a FNA 454 donne per noduli singoli e ulteriori 126
per noduli multipli, per complessivi 748 noduli (294 noduli
multipli pari al 39,3%). Nella Tabella I sono riassunti i dati
relativi alla suddivisione dei noduli nelle 5 categorie diagnostiche citologiche (C1-C5) sulla base di quanto indicato dalle linee guida Europee per la refertazione citologica, analizzando separatamente i valori relativi ai due anni analizzati e
la distribuzione dei noduli multipli rispetto a quelli singoli.
Nella Tabella II sono riassunti i principali indicatori statistici
di qualità osservati per i noduli singoli e per quelli multipli,
distinti per ciascun anno. Le Tabelle III e IV riassumono la
distribuzione delle lesioni multiple a seconda del tipo di diagnosi.
Discussione e conclusioni: il crescente bisogno di conferma
morfologica, sia per i quadri con giudizio radiologico sospetto sia per quelli con caratteristiche di benignità, è divenuto
strategico per la corretta selezione delle pazienti da sottoporre a chirurgia conservativa, ma anche per una più accurata selezione di quelle da proporre per la metodica del linfonodo
sentinella. Nella nostra esperienza, e soprattutto nel corso del
2003, la definizione delle lesioni mammarie è diventata un
problema clinico particolarmente sentito, anche in considera-
Tab. III. Lesioni multiple 2001
N. Pz
Solo
lesioni
benigne (B):
Pz (noduli)
Solo
lesioni
maligne (M):
Pz (noduli)
Lesioni M + B
Pz (noduli)
Lesioni B/M + C1
Pz (noduli)
2
70
23 (46)
27 (54)
6 (12): 1M + 1B
3
10
4 (12)
2 (6)
4
5
6
totali
2
0
0
82
1
0
0
28
2(6):1=1M+2B
1= 2M+1B
0 (0)
0 (0)
0 (0)
8 (18)
14 (28):4=1M+1C1
9=1B+1C1
1=1C1+1C1
2 (6):1=2B+1C1
2=1B+2C1
1 (4):1=2M+1B+1C1
0 (0)
0 (0)
17 (38)
N. noduli
(4)
(0)
(0)
(62)
0
0
0
29
(0)
(0)
(0)
(60)
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
234
Tab. IV. Lesioni multiple 2003.
N. Noduli
N.Pz
Solo
lesioni
benigne (B):
Pz (noduli)
Solo
lesioni
maligne (M):
Pz (noduli)
Lesioni M + B
Pz (noduli)
2
96
45 (90)
27 (54)
6 (12): 6= 1M +1B
3
23
6 (18)
5 (15)
4
4
0 (0)
0 (0)
0 (0)
0 (0)
51 (108)
1 (5)
0 (0)
33 (74)
7 (21): 1=1M+2B;
6=2M+1B
4 (16): 2=1M+3B
1=2M+2B
1=3M+1B
0 (0)
1 (6): 1= 3M+3B
18 (55)
5
6
totali
1
2
126
zione della possibilità non remota di osservare neoplasie
bifocali o plurifocali, che prevedono un trattamento chirurgico diversificato rispetto alle neoplasie monofocali. Su tale
background si è anche innestata la problematica della selezione delle pazienti possibili candidate alla metodica del
linfonodo sentinella, dato che questa deve essere evitata nei
casi di accertate lesioni multifocali maligne. Proprio in considerazione delle nuove frontiere della chirurgia conservativa
senologica, la partecipazione ed il coinvolgimento costante
del citopatologo alla fase delle scelte preoperatorie sono irrinunciabili per garantire l’efficacia clinica dell’intera procedura. Il mapping citologico delle lesioni multiple, nelle pazienti con evidenza certa o altamente sospetta di carcinoma
(C5-4) ha consentito di programmare interventi radicali in 31
casi nel 2001 e di 46 casi nel 2003, mentre è stato possibile
programmare interventi conservativi in 7 casi nel 2001 e 9
nel 2003. Elevati standard qualitativi sono necessari anche
per consentire, in caso di diagnosi citologiche C2/3 di omettere biopsie diagnostiche inutili, senza per altro incorrere in
ritardi diagnostici che un controllo solo radiologico potrebbe
causare.
Bibliografia
1
Di Maggio C, et al. Charta Senologica. Approccio diagnostico alla
patologia mammaria. Il Radiologo 2004(suppl 1):1-39.
2
Hamill J, Campbell ID, Mayall F, Bartlett A, Darlington A. Improved
breast cytology results with near patient FNA diagnosis. Acta Cytol
2002;46:19-24.
Appropriatezza e linee guida: la citologia
nello screening per il cancro della mammella
M. Bonzanini
Servizio di Anatomia Patologica, Ospedale S. Chiara, Trento
L’ubiquitaria introduzione dei programmi di screening mammografico ha consentito, negli ultimi anni, l’individuazione
di un elevato numero di lesioni maligne in fase precoce.
A fronte di questo guadagno, dovuto all’elevata sensibilità
dell’esame mammografico, il controllo di qualità dei programmi di screening prevede il mantenimento di un basso
Lesioni B/M + C1
Pz (noduli)
18 (36):8=1M+1C1
8=1B+1C1
1=1B+1C1
1=1C1+1C1
5 (15): 2=2B+1C1
3=2M+1C1
0 (0)
0 (0)
1 (6): 1=5M+1C1
24 (57)
rapporto tra biopsie di lesioni benigne e biopsie di lesioni
maligne. A questo scopo sono condotte le indagini di secondo livello tra le quali la citologia agoaspirativa (CA) apporta
un contributo di rilievo 1.
In questi ultimi 40 anni, la citologia agoaspirativa (CA) nelle lesioni mammarie palpabili è risultata essere una metodica
con bassi costi, minima invasività, e con elevati valori di sensibilità e specificità, in particolare se inserita nel triplo test
(esame clinico, mammografia, esame citologico).
Essa è stata ampiamente utilizzata anche per valutare lesioni
non palpabili riscontrate alla mammografia 2-3, tuttavia negli
ultimi anni, essa è stata sostituita, in molti Centri, da tecniche
microbioptiche 4. Perciò è quanto mai attuale chiedersi se la
CA è appropriata anche nella valutazione di lesioni individuate in corso di screening mammografico.
L’appropriatezza della CA nello screening mammografico è
misurata da un basso numero di falsi negativi (FN), da un elevato valore predittivo negativo (VPN) e da un basso numero
di campioni inadeguati. I dati della letteratura evidenziano
che il tasso di inadeguati è maggiore nelle lesioni non palpabili ed in particolare nelle lesioni agoaspirate con guida radiostereotassica, mentre i FN non presentano valori sensibilmente diversi da quelli ottenuti in lesioni palpabili 5.
Per quanto riguarda la CA stereoguidata la percentuale di inadeguati è notevolmente diminuita dalla valutazione “on-site”,
da parte del patologo, dell’adeguatezza del prelievo 6. La comunicazione tra patologo e radiologo durante la procedura
influenza inoltre: la selezione del target, quanti campioni ottenere, la raccolta di materiale per lo studio dei recettori ormonali e dei marker prognostici in caso di lesioni maligne, se
la CA deve essere seguita da un prelievo microbioptico, l’immediata localizzazione della lesione per l’eventuale biopsia
chirurgica e la comunicazione immediata alla paziente e al
suo medico referente dei risultati ottenuti. Questo approccio
ha consentito al Programma di Screening Mammografico di
Trento di ottenere un tasso di inadeguati pari a 7,7% nella CA
di 696 lesioni riscontrate in corso di screening, 20% delle
quali sono state agoaspirate con guida stereotassica.
Il valore della CA mammaria è stato posto in discussione per
la sua incapacità di differenziare il carcinoma infiltrante (CI)
dal carcinoma in situ (CIS) e dall’iperplasia atipica (IA), in
questi casi l’esecuzione di un prelievo microbioptico può
CITOLOGIA DA INIZIATIVE DI SCREENING
contribuire a rispondere a questo specifico quesito, tenendo
presente tuttavia che con la “core needle biopsy” (CNB) la
percentuale di conversione da IA a cancro varia in letteratura
da 11% a 66% (7-8) e la conversione da CIS a CI da16% a
44% 9-10. Valori un po’ migliori sono descritti con la tecnica
“vacuum assisted biopsy” (VAB).
Altre situazioni che possono porre problemi diagnostici alla
citologia sono rappresentati dalle lesioni papillari, dalle lesioni mucinose e dalle lesioni sclerosanti; tuttavia nella maggior parte di questi casi il ricorso ad una tecnica microbioptica, che è di tipo incisionale, non è sufficiente per una diagnosi definitiva.
La CA che utilizza un ago più sottile, percepito come uno
svantaggio (meno materiale), può invece rappresentare un incredibile vantaggio rispetto alle tecniche microbioptiche: minore emorragia e minor rischio di alterazione parenchimale
per la reazione tissutale all’ematoma; l’ago sottile della CA,
che non richiede l’incisione della cute per entrare nel parenchima, si presta meglio nel campionamento di lesioni multiple della mammella. Inoltre poiché l’ago della CA è controllato manualmente nei movimenti, questa metodica è più indicata di quelle microbioptiche nelle lesioni difficili da raggiungere, come quelle vicine alla cute o alla parete toracica,
e nelle lesioni mammografiche disperse. Il costo della CA è
notevolmente inferiore se confrontato con le tecniche microbioptiche (costo unitario della CA pari a Euro 1-5, della CNB
pari a 40 Euro, della VAB 230 Euro). Infine, la CA possiede
il grande vantaggio di un ridotto “turnaround time” diagnostico.
Lo screening del carcinoma mammario è un intervento di Sanità pubblica di cui un aspetto importante è l’ottimizzazione
dei costi, in questo ambito la CA è una procedura di prima
scelta oltre per la qualità diagnostica e la minima invasività,
anche per i costi ridotti. Condizione indispensabile è che sia
effettuata da un “team” di professionisti esperti e capaci di
collaborazione e disponga della possibilità di valutazione immediata del materiale durante l’agoaspirazione delle lesioni
che maggiormente esitano in campionamenti insufficienti,
come le microcalcificazioni.
Le linee guida europee sono, a questo scopo, uno strumento
utile sia per la standardizzazione delle categorie diagnostiche, che per gli indicatori di qualità della diagnosi, con i cui
valori ogni Centro di Screening dovrebbe confrontarsi 1.
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Novità in citologia mammaria: metodi ed
indicazioni per il “ductal lavage”
C. Casadio, C. Scacchi, L. Chiapparini
Divisione di Anatomia Patologica e Medicina di Laboratorio, Istituto Europeo di Oncologia, Milano
Il lavaggio duttale è una tecnica di prelievo relativamente
nuova che permette di raccogliere cellule di rivestimento di
dotti e lobuli – unità morfo-funzionale della ghiandola mammaria – per sottoporle ad indagine citomorfologica volta ad
evidenziarne eventuali atipie.
La procedura, poco invasiva e ben tollerata, è più efficace
nella raccolta di materiale da esaminare rispetto all’aspirato
da capezzolo. Infatti la quantità di cellule epiteliali duttali
presenti in una secrezione spontanea o in un aspirato da capezzolo è solitamente scarsa, ma se il dotto che produce secreto viene sottoposto ad un lavaggio con soluzione fisiologica, è possibile provocare meccanicamente l’esfoliazione di
molte più cellule da destinare alla valutazione citomorfologica. L’allestimento dei preparati può avvenire con diverse modalità, anche per consentire l’applicazione a questo materiale
di ulteriori tecniche di indagine, presenti e future, utilizzando ogni sua componente (cellule e sovranatante).
Tuttavia l’effettivo possibile ruolo di questa metodica nella
identificazione di lesioni pre-neoplastiche e quindi nella prevenzione dell’insorgenza del carcinoma della mammella è
ancora da valutare mediante accurati studi clinici.
Le donne attualmente candidate al lavaggio dei dotti devono
avere un esame clinico e mammografico negativi, ma essere
considerate ad alto rischio per lo sviluppo del carcinoma. Il
lavaggio dei dotti mammari può essere considerato uno strumento aggiuntivo nella valutazione del rischio di sviluppare
un tumore mammario in donne sane e quindi nella selezione
delle pazienti che possono beneficiare di trattamenti chemiopreventivi (come quello basato sulla somministrazione del
Tamoxifene).
PATHOLOGICA 2004;96:236-239
Patologia del cavo orale
Moderatori: F. Nardi (Roma) e M. Stefani (Milano)
Citologia orale diagnostica: nuove tecnologie
e possibilità di screening
R. Navone
Dipartimento di Scienze Biomediche ed Oncologia Umana,
Università di Torino e UOADU Anatomia Patologica I dell’AO San Giovanni Battista, Torino
Scopo della ricerca. È noto che il Pap test è efficace nel ridurre incidenza e mortalità del cervicocarcinoma, individuando le lesioni neoplastiche intraepiteliali (displastiche)
prima che queste possano evolvere in forme invasive (neoplastiche). La citologia orale diagnostica, benchè nota da parecchi anni, in quanto è una tecnica semplice, non invasiva,
applicabile anche su localizzazioni multiple, indolore e poco
costosa, non ha trovato sinora un’applicazione così estesa e
capillare come la citologia cervico-vaginale, anche se i dati
della letteratura 1 dimostrano la sua utilità nella diagnosi del
carcinoma orale e dei suoi precursori. Recenti lavori 2, anche
del nostro gruppo 3 4, indicano che l’efficienza e l’efficacia
della citologia orale aumentano utilizzando tecniche aggiuntive che la rendano più sensibile e specifica, come la citologia “computer-assistita”, in “fase liquida”, gli AgNOR, la citometria di flusso e la biologia molecolare.
La citologia “computer-assistita” si basa sull’utilizzazione di
strumenti specifici che danno la possibilità di identificare lesioni neoplastiche e preneoplastiche con sensibilità pari o superiore a quella dello screening manuale, senza perdita di
specificità. La citologia “in fase liquida” o su “strato sottile”
è una recente metodica, usata sinora prevalentemente per i
Pap test, che ha dato risultati promettenti sia per la migliore
qualità dei preparati, sia per il migliore campionamento. Inoltre il materiale può essere utilizzato anche per altre metodiche, come la citometria di flusso o la biologia molecolare.
L’analisi degli AgNOR (proteine associate agli organizzatori
nucleolari) consente la valutazione dell’attività proliferativa
cellulare e pertanto, oltre ad essere un valido fattore prognostico in campo oncologico, permette di riconoscere cellule
displastiche e/o neoplastiche in citologia.
Descrizione della ricerca. Utilizzazione di metodiche innovative (citologia computer-assistita, in fase liquida, AgNOR,
citometria di flusso per lo studio della ploidia, biologia molecolare per la ricerca del DNA dell’HPV) nello studio di displasie e neoplasie orali, paragonate all’esame istologico e
citologico convenzionale.
Metodi. 296 lesioni orali sospette in senso neoplastico (soprattutto eritro- e leucoplachie e lichen) sono state controllate, oltre che con l’istologia, con la citologia convenzionale
(cioè strisciando il materiale su vetrino porta-oggetti) ed in
fase liquida (cioè stemperandolo nel liquido fissativo-conservante del Thin Prep). In 73 casi è stata effettuata anche la lettura citologica computerizzata con reti neurali (sistema Papnet) e la valutazione degli AgNOR (effettuata su 73 casi di
citologia convenzionale dopo decolorazione dei preparati citologici e colorazione all’argento con il metodo di Ploton, e
misurando le aree con un sistema computerizzato di analisi di
immagine).
Risultati. L’esame istologico, effettuato su tutti i 296 casi, ha
diagnosticato 30 displasie (OIN), 53 carcinomi squamosi e
213 lesioni orali non neoplastiche. La citologia convenzionale ha mostrato una sensibilità dell’87,5% ed una specificità
del 95,2%, con una percentuale di inadeguati del 12,4%. La
citologia computer-assistita ha consentito di recuperare un
caso dato inizialmente come negativo, portando la sensibilità
all’89,0%. La citologia in fase liquida ha mostrato una sensibilità globale dell’85,0% (che però saliva al 97,1% se si consideravano solo le lesioni displastiche di alto grado e i carcinomi) ed una specificità rispettivamente del 97.7 e 99,4%,
con il 12,2% di inadeguati. Gli AgNOR hanno dimostrato
una sensibilità ed una specificità del 100%, ma con un’elevata quota di inadeguati (15,1%).
Conclusioni. Già la citologia esfoliativa convenzionale (colorazione con il metodo di Papanicolaou e lettura diretta al microscopio) può fornire risultati soddisfacenti (la sensibilità è
superiore a quella del Pap test, mentre la specificità è analoga).
La citologia computer-assistita ha una sensibilità lievemente
superiore, ma l’efficienza del sistema non è pienamente dimostrata. La citologia in strato sottile sembra invece in grado di
aumentare l’accuratezza diagnostica della citologia orale per il
miglioramento della sensibilità e specificità, almeno per quel
che riguarda le lesioni clinicamente rilevanti, cioè le displasie
di alto grado ed i carcinomi. L’analisi degli AgNOR, semplice,
rapida e poco costosa, si è dimostrata utile per migliorare la
sensibilità nei casi dubbi. Un problema ancora non del tutto risolto è quello dell’alto numero di inadeguati: sono in corso ricerche per migliorare la tecnica di prelievo, visto che anche
l’impiego della citologia “in strato sottile” non ha portato a sostanziali miglioramenti dell’adeguatezza.
Sviluppi prevedibili. L’esame citologico orale effettuato con
metodiche innovative può raggiungere una sensibilità e specificità tali da consentirne l’impiego anche a scopo di screening, eventualmente concentrando il suo impiego su lesioni
orali clinicamente rilevanti (eritro- e leucoplachie, lichen, ulcerazioni, ecc.) e/o su una popolazione selezionata di soggetti a rischio (fumo, alcool, precedente diagnosi di displasia e/o
neoplasia della bocca e delle vie aeree superiori). La diagnosi precoce di lesioni preneoplastiche del cavo orale ed il loro
tempestivo trattamento potrebbe portare ad una prevenzione
secondaria (mediante l’eliminazione dell’epitelio displastico)
dei carcinomi invasivi in tale sede, che presentano tuttora
un’alta mortalità; dati recenti (2001) ottenuti dai Registri Tumori Italiani 5 indicano una sopravvivenza a 5 anni del 38%,
analoga a quella di 20 anni fa, in quanto tali tumori spesso
giungono alla diagnosi in stadi avanzati.
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Marcatori di progressione neoplastica del
carcinoma squamoso del cavo orale
M.P. Foschini, A. Gaiba, R. Cocchi*, M.G. Pennesi*, A.
Pession
Anatomia ed Istologia Patologica, Dipartimento di Scienze
Oncologiche, Università di Bologna, Ospedale Bellaria, Bologna; * Chirurgia Maxillo-Facciale, Ospedale Bellaria, Bologna
Il carcinoma squamoso del cavo orale (CSO) è la forma più
frequente di neoplasia del cavo orale.
Nonostante sia una neoplasia frequente e nonostante siano
conosciuti i fattori predisponenti (fumo ed alcool, nelle nostre regioni) e le lesioni preneoplastiche la mortalità per tale
neoplasia rimane ancora elevata. Questo è dovuto al fatto che
anche lesioni in stadio iniziale (pT1 e pT2) presentano un rischio non trascurabile di metastasi e di recidive locali. In
questi ultimi anni si è visto che le recidive locali possono essere conseguenza di una “cancerizzazione a campo”, in altre
parole di modificazioni pre-neoplastiche che coinvolgono
ampie aree di mucosa orale. Inoltre sono stati studiati, con
metodiche molecolari, parametri che possono influire sulla
capacità di dare metastasi del CSO. In particolare gli studi
pubblicati in letteratura sono rivolti a studiare la capacità
proliferativa ed invasiva delle cellule neoplastiche. Tra questi sta emergendo l’importanza del gene p63. Tale gene è localizzato sul cromosoma 3q27-29 e fa parte della famiglia del
gene p53 3 7. Il gene p63 codifica per due varianti proteiche:
la TAp63/p51 (nelle forme α, β, e γ) rappresenta la proteina
completa con funzioni simili a p53, inducendo l’arresto del
ciclo cellulare, l’apoptosi e quindi favorendo la differenziazione cellulare; la variante ∆Np63 (nelle forme α, β, e γ), che
manca della parte NH2 terminale inibisce l’attività di
TAp63/p51 e di p53, pertanto favorendo la proliferazione cellulare. Nell’epitelio squamoso normale l’equilibrio tra questi
due gruppi di proteine è importante per la corretta proliferazione e differenziazione cellulare. Studi immunoistochimici,
effettuati con anticorpi che riconoscono o l’intera proteina
oppure solo la ∆Np63, hanno evidenziato che nel CSO e nel
carcinoma squamoso di altre sedi, questa è sempre espressa e
che l’espressione aumenta rispetto al tessuto normale 1 2 5 6 10.
L’espressione immunoistochimica di p63 avviene nelle cellule che hanno un fenotipo più “basaloide”, meno differenziato. Le stesse cellule che esprimono p63 hanno un elevato indice proliferativo, valutato con Ki67 2. Tuttavia non era stata
evidenziata una correlazione tra espressione e prognosi 1.
Recentemente si è visto che nel CSO può comparire un’ulteriore variante 4 8 che è simile a ∆Np63, ma manca dell’esone
4 ed è stata chiamata ∆Np73L. Secondo i lavori pubblicati fino ad ora quest’ultima variante compare solamente nel CSO
e non è presente nella mucosa orale non neoplastica. Questi
dati suggeriscono pertanto che una espressione anomala del
gene p63 possa avere un ruolo importante nello sviluppo e
nella progressione neoplastica del CSO.
Dal momento che l’espressione di p63 valutata con la sola
immunoistochimica non aveva correlazione con la prognosi,
abbiamo valutato l’espressione delle singole isoforme mediante nested-PCR. I dati ottenuti presso l’Anatomia Patologica dell’Ospedale Bellaria (Bologna) confermano che
237
∆Np73L non è espressa nella mucosa orale non neoplastica
(ottenuta in corso di interventi per patologia orale non neoplastica) né nei cheratinociti in cultura. Il CSO esprime quasi sempre la variante normale che stimola la proliferazione
cellulare (∆Np63). Inoltre la variante ∆Np73L compare nel
CSO (15 casi su 39). Vi è inoltre una correlazione significativa tra espressione di ∆Np73L e metastasi linfonodale 2, indipendente dallo stadio alla presentazione. Infatti ∆Np73L
compare in casi pT2 con metastasi linfonodali e non in casi
pT4 senza metastasi. Al contrario l’espressione della forma
che favorisce il differenziamento cellulare, TAp63/p51, è
espressa più frequentemente nei carcinomi che avevano mostrato un andamento clinico meno aggressivo. Questo dato è
in accordo con quanto osservato in carcinomi del laringe e
della vescica 6 9.
In conclusione i dati ottenuti fino ad ora evidenziano come
un’alterata espressione del gene p63 sia importante per la trasformazione e la progressione neoplastica e suggeriscono un
suo potere predittivo della potenzialità metastatica nel CSO
in fase iniziale.
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CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
238
Nuovi aspetti dell’osteogenesi in odontoiatria
implanto-protesica
M. Colafranceschi, R. Pagni
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università
di Firenze, Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche,
Università di Siena
In campi applicativi in rapida evoluzione, il contributo dell’anatomopatologo, oltre che di convalida delle procedure mediante l’analisi dei reperti istologici, può fornire al clinico
spunti ed indirizzi innovativi qualora vi sia piena cooperazione e conoscenza dei problemi inerenti le rispettive specialità.
La rigenerazione ossea dove l’osso sia carente è fra i problemi
più attuali e dibattuti in odontoiatria implanto-protesica, trovando indicazione in rialzi e allargamenti di cresta, nel riempimento dei difetti ossei, e nel rialzo del pavimento del seno mascellare nei pazienti in cui il ridotto spessore osseo non consentirebbe l’inserimento implantare per mancanza di stabilità
primaria. La tecnica chirurgica del grande rialzo del pavimento del seno mascellare (GRPSM) prevede, previa esposizione
chirurgica mediante lembo muco-periostale della parete ossea
laterale del seno mascellare, di disegnare su di essa con una
fresa un opercolo osseo e, dopo averlo liberato dal resto della
parete senza incidere la membrana schneideriana, di scollare
delicatamente quest’ultima dalla parete ossea sinusale. Lussando lo sportello osseo verso l’alto all’interno del seno si realizza uno spazio, a spese della cavità sinusale, che ha per tetto
la membrana di Schneider scollata con l’opercolo adeso e per
pareti le strutture ossee sinusali private del rivestimento mucoendostale. Per evitare il collasso della neocavità, e favorire al
suo interno la neoformazione ossea, si provvede a colmarla
con un idoneo riempitivo. Si richiude infine il lembo con l’eventuale inserimento di una membrana per coprire l’accesso al
materiale innestato. Dopo un congruo periodo di tempo, ad ossificazione avvenuta, sono inseriti gli impianti previsti; la “carota” ossea asportata negli alveoli chirurgici implantari può essere sottoposta ad esame istologico. Sulla base dell’esperienza
clinica corroborata dai reperti istologici, possiamo confermare
che, fra i vari biomateriali utilizzabili per riempimento, soltanto l’osso autologo possiede in toto le caratteristiche ideali di
biotollerabilità, osteoconduzione, osteoinduzione e osteoproliferazione. Il riempitivo osseo può essere utilizzato in blocco,
sagomandolo adeguatamente, o come particolato. La credenza
che l’innesto di osso autologo abbia le prerogative di un autotrapianto (cioè che l’osso rimanga vitale) non è supportata dai
nostri reperti che documentano una dissoluzione dell’innesto
in tempi relativamente brevi in funzione delle sue dimensioni.
Il riassorbimento osteoclastico interviene invece nei tempi successivi per il rimodellamento dell’osso neoformato.
Nell’osteogenesi spontanea (da frattura) il coagulo ematico
iniziale è di fondamentale importanza per l’apporto in loco di
fattori di crescita, liberati dall’attivazione/degranulazione
piastrinica, con funzione chemiotattica, mitogena, induttiva,
angiogenetica. Nella prassi odontoiatrica, si ritiene che il gel
arricchito nel contenuto piastrinico (Concentrato Piastrinico CP – detto anche Plasma Ricco di Piastrine – PRP) introdotto nella neo-cavità sinusale nel GRPSM, oltre a svolgere la
funzione di legante (per la fibrina) e di mantenimento dello
spazio, potenzî l’effetto osteo-induttivo durante la fase iniziale dell’osteogenesi apportando in maggior copia i fattori di
crescita liberati dalla degranulazione piastrinica.
Le evidenze cliniche e istologiche, in particolare nei casi di
GRPSM realizzati secondo il protocollo PC (Pagni-Colafranceschi), confermano questo assunto. Il protocollo PC preve-
de che al CP, allestito ambulatoriamente secondo protocollo
Pagni mediante tecnica di doppia centrifugazione di una piccola quantità di sangue prelevato dal paziente e attivato con
trombina autologa, venga miscelato con osso di derivazione
autologa endorale reso opportunamente particolato in quantità ≥ 50% rispetto al CP. Prima dell’innesto del gel osteopiastrinico è eseguita la perforazione multipla delle pareti ossee della neo-cavità sinusale per favorire la penetrazione dei
vasi neoformati. La finestra vestibolare alla neo-cavità viene
chiusa accollandovi il lembo muco-periostale senza l’interposizione di una membrana che, si ritiene, ostacolerebbe il
passaggio dei vasi e delle cellule osteocompetenti dalla periferia all’innesto. I favorevoli risultati ottenuti con questa procedura sono stati documentati anche nei pazienti nei quali il
tempo di attesa per l’inserzione degli impianti veniva ridotto
(stante l’esperienza progressivamente acquisita) fino a dieci
settimane, con un notevole risparmio temporale rispetto a
quanto la letteratura prevede nei casi di GRPSM convenzionalmente trattati (oltre un anno nei casi in cui sia stato utilizzato come materiale d’innesto soltanto osso bovino deproteinato, 4-9 mesi secondo altre metodiche).
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7
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“Approccio Biologico alla Terapia delle lesioni superficiali e profonde. Ruolo ed utilizzo dei derivati ematici e tissutali”, Alessandria 28
maggio 2004.
8
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Proliferazione ed apoptosi
negli ameloblastomi
P. Leocata*, M. Melato**, C. Rizzardi**, L. Ventura***
*
Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università dell’Aquila; ** Unità Clinica Operativa di Anatomia Patologica,
Istopatologia e Citodiagnostica, Università di Trieste; ***
Unità Operativa di Anatomia Patologica, ASS n. 4, Ospedale S. Salvatore, L’Aquila
L’ameloblastoma è una neoplasia che si accresce lentamente
PATOLOGIA DEL CAVO ORALE
e non è in grado di metastatizzare, ma che è caratterizzata da
un alto tasso di recidiva. Nello sviluppo dell’ameloblastoma,
sono coinvolti meccanismi sia di proliferazione che di apoptosi, i quali sono già stati presi in considerazione in diversi
lavori 1-9.
Questo studio è stato realizzato per determinare il comportamento proliferativo ed apoptotico degli ameloblastomi e per
chiarire il possibile ruolo dell’apoptosi nell’oncogenesi e nella citodifferenziazione dell’epitelio odontogeno.
A tale scopo, sono stati presi in considerazione 15 casi di
ameloblastoma, tra i quali 1 a localizzazione periferica e 3
unicistici, più 4 recidive, per un totale di 19 casi. Per quanto
riguarda l’istotipo, 10 erano plessiformi, 4 follicolari, 3 acantomatosi e 2 a cellule granulose. Ciascuno di essi è stato studiato per quanto riguarda l’attività proliferativa, attraverso la
conta delle mitosi e l’immunoespressione dell’anticorpo Ki67, e per quanto riguarda l’attività apoptotica, valutando, mediante tecnica immunoistochimica, il ruolo di alcuni fattori
correlati all’apoptosi (TRAIL, DR4, DR5, DcR1, DcR2) e la
localizzazione delle cellule apoptotiche terminali nella componente epiteliale degli ameloblastomi.
TRAIL (TNF-related apoptosis-inducing ligand) è un membro
della famiglia dei TNF recentemente identificato, capace di indurre apoptosi in alcune linee cellulari neoplastiche. TRAIL
può interagire con due differenti death-domain funzionali,
comprendenti i recettori DR4 (death receptor 4) e DR5 (death
receptor 5); ci sono, inoltre, altri tre recettori di membrana per
TRAIL, cosiddetti decoy, DcR1 (decoy receptor 1), DcR2 (decoy receptor 2) ed OPG (osteoprotegerina), i quali sono sprovvisti del signaling domain intracellulare o presentano un death
domain incompleto. DcR1, DcR2 ed OPG inibiscono in maniera competitiva gli effetti di DR4/DR5 e sono incapaci di attivare la transduzione del segnale di apoptosi in seguito a stimolazione. Quindi, la capacità di transdurre i segnali di morte
è limitata a DR4/DR5. TRAIL induce una rapida apoptosi in
diverse linee cellulari neoplastiche e potrebbe essere coinvolto
nei meccanismi di controllo delle metastasi; negli studi in vitro ed in quelli preclinici sui topi, sembra avere un effetto citotossico scarso o assente sulle cellule normali e, per tale motivo, TRAIL potrebbe rappresentare un promettente nuovo
agente chemioterapico antineoplastico.
I risultati sono stati analizzati per mettere in luce eventuali
correlazioni tra espressione di TRAIL/recettori per il TRAIL
(tenendo presente, ovviamente, il rapporto quantitativo tra
espressione di DR4 e DR5, capaci di indurre apoptosi, ed
espressione di DcR1 e DcR2, con significato inibitorio), indice di apoptosi ed indice di proliferazione ed in rapporto alla presenza o meno di recidiva, al tipo, all’istotipo ed alle due
diverse componenti dell’epitelio ameloblastomatoso (quella
ameloblastica esterna e quella a tipo reticolo stellato interna).
Si è focalizzata l’attenzione in particolare sulla presenza di
eventuali differenze per quanto riguarda il comportamento
apoptotico e proliferativo tra il tipo convenzionale di ameloblastoma (solido/multicistico) e le varietà unicistica (che, tipicamente, interessa una fascia di età più giovane ed ha una
prognosi più favorevole) e periferica. Sono state, inoltre, indagate eventuali differenze esistenti tra la componente nodulare intraluminale e quella di rivestimento del lume della cisti degli ameloblastomi unicistici, tutti appartenenti alla varietà luminale.
239
Lo studio ha evidenziato un’espressione di TRAIL/recettori per il TRAIL piuttosto ubiquitaria da parte delle cellule
degli ameloblastomi; da questo punto di vista, sono emerse
delle differenze tra i singoli casi essenzialmente di tipo
quantitativo. Ciò suggerisce, comunque, che questi fattori
correlati all’apoptosi potrebbero essere coinvolti nei fenomeni di oncogenesi e citodifferenziazione dei tumori epiteliali odontogeni.
Per quanto riguarda l’attività proliferativa, i risultati di questo studio confermano che essa, negli ameloblastomi, è generalmente piuttosto variabile e che la sua valutazione può essere utile nel singolo caso 4-8.
La valutazione della distribuzione delle cellule apoptotiche
ha consentito di confermare i risultati di un precedente studio, che ha messo in evidenza un indice di apoptosi significativamente più alto nella componente centrale a tipo reticolo stellato rispetto a quella periferica ameloblastica 9.
Nella maggior parte dei casi, non sono emerse delle correlazioni significative tra espressione di TRAIL/recettori per il
TRAIL, attività proliferativa e comportamento apoptotico.
Le uniche differenze che sono state messe in luce riguardano
il potenziale proliferativo delle diverse aree degli ameloblastomi unicistici e delle lesioni solide ed unicistiche, che correlano anche con differenze nell’espressione di TRAIL/recettori per il TRAIL. Queste osservazioni confermano l’esistenza di basi scientifiche che giustificano il diverso comportamento biologico di queste lesioni 4 5 9.
Ringraziamenti
Si ringraziano il prof. Zauli e la prof.ssa Secchiero per aver
fornito gli antisieri relativi allo studio su TRAIL.
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PATHOLOGICA 2004;96:240-244
Patologia molecolare
Moderatori: G. Bevilacqua (Pisa) e A. Scarpa (Verona)
Alterazione del controllo G1/S nel fenotipo
metastatico del carcinoma mammario
G. Stanta, I. Dotti, S. Bonin
Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche-Università degli Studi di Trieste e ICGEB-Trieste
Il carcinoma mammario rappresenta la prima causa di morte
per neoplasia nelle donne tra i 35 ed i 45 anni d’età. Alle
profonde modificazioni fenotipiche alle quali va incontro la
cellula neoplastica nella sua progressione fanno riscontro altrettanto numerose alterazioni funzionali a livello molecolare
nei sistemi che regolano l’omeostasi cellulare. Tra tutti questi il sistema di controllo dell’entrata della cellula nella fase
G1-S, noto come via del retinoblastoma, riveste un ruolo fondamentale nella maggior parte delle neoplasie. Alterazioni a
questa via del segnale sono state rilevate in circa l’80% dei
carcinomi mammari, in particolare deregolazioni associate a
geni oncosoppressori.
In tale studio abbiamo considerato una casistica di 81 carcinomi mammmari, di vario grado e stadiazione e le relative
metastasi linfonodali. Tutti i casi sono stati caratterizzati da
un periodo di follow-up di almeno 15 anni. La casistica è stata suddivisa in due gruppi relativamnete alla presenza di recidive nel periodo di follow-up.
I campioni sono stati indagati, a livello di RNA messaggero,
per l’espressione di alcuni componenti chiave della via del retinoblastoma. Alterazioni significative nei livelli di espressione sono state riscontrate per pRb, la p16 e p130 (pRb2). Per ricercare possibili meccanismi associati all’inattivazione o diminuita espressione delle molecole sopra indicate è stato condotta una analisi per la ricerca di eventuali delezioni alleliche per
i loci 9p21, 13q14 e 16q12 relativi rispettivamente a p16, pRb
e p130 (pRb2). Da tale analisi è risultato che l’inattivazione via
LOH è un evento associato alla pRb per un discreto numero di
pazienti in cui non si riscontrava espressione della pRb. È stato poi indagato un altro fenomeno associato all’inattivazione di
diversi oncosoppressori: la metilazione delle CpG island nelle
regioni dei promotori dei geni in esame. La tecnica quantitativa utilizzata nella ricerca di siti metilati si basa sul trattamento del DNA con bisulfito sodico per convertire le citosine ad
uracile, le 5-metil-Citosine rimangono inalterate al trattamento. Con l’impiego di diversi enzimi di restrizione si è evidenziata la differenza nella composizione nucleotidica tra le 2 sequenze di DNA. Il dato emergente evinto dall’analisi è che
nessuno dei due meccanismi da solo riesca a spiegare la deregolazione dei geni oncosoppressori.
Alterazioni genetiche nella definizione
prognostica del carcinoma colo-rettale
G. Lanza
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Diagnostica, Sezione di Anatomia, Istologia e Citologia Patologica, Università di Ferrara
Il carcinoma del colon-retto è una delle neoplasie più frequenti nelle nazioni industrializzate. La maggioranza dei pazienti (60-70%) vengono diagnosticati in fase di malattia localmente avanzata, con una sopravvivenza a 5 anni del 75%
per lo stadio II (infiltrazione a tutto spessore della parete in
assenza di metastasi linfonodali) e del 50% per lo stadio III
(presenza di metastasi ai linfonodi regionali). La più recente
classificazione TNM suddivide gli stadi II e III rispettivamente in due (IIA e IIB) e tre sottogruppi (IIIA, IIIB e IIIC),
a prognosi progressivamente peggiore. Tuttavia, per entrambi gli stadi sarebbe molto importante disporre di ulteriori parametri prognostici e/o predittivi che consentano di effettuare interventi terapeutici più razionali ed efficaci. Nonostante
il numero molto rilevante di studi, nessun parametro biomolecolare è stato finora introdotto nella pratica clinica come indicatore prognostico nel carcinoma colorettale. I grandi progressi compiuti nella conoscenza delle basi molecolari della
neoplasia hanno consentito, comunque, di individuare negli
ultimi anni alcune alterazioni genetiche di notevole significato prognostico e di potenziale utilizzo applicativo.
Dal punto di vista genetico-molecolare si distinguono due principali forme di carcinoma colorettale, caratterizzate da due diversi tipi di instabilità genetica – la instabilità dei microsatelliti (MSI) e la instabilità cromosomica (CIN) – e che si differenziano anche per numerose caratteristiche cliniche e patobiologiche 1. I tumori con MSI (15% dei casi) presentano tipicamente cariotipo stabile, contenuto nucleare di DNA diploide ed infrequenti delezioni alleliche e patologicamente sono caratterizzati da localizzazione prossimale, scarsa differenziazione, frequente istotipo mucoide, intensa infiltrazione linfocitaria peri
ed intratumorale e bassa incidenza di metastasi linfonodali ed a
distanza 2. La MSI (ed in particolare la MSI di grado elevato o
MSI-H cui si fa riferimento) è determinata dal deficit del sistema di riparazione del DNA “DNA mismatch repair”, per inattivazione epigenetica (metilazione del promoter) del gene MLH1
nelle forme sporadiche, e per mutazione dei geni MLH1,
MSH2 o MSH6 nelle più rare forme ereditarie (HNPCC o sindrome di Lynch). I carcinomi MSI+ presentano di rado mutazioni di geni comunemente alterati nelle altre neoplasie coliche,
quali K-ras e p53, e tendono per contro ad accumulare mutazioni in brevi sequenze ripetute presenti nella porzione codificante di geni quali ad esempio TGFBRII, BAX e IGFRII.
I tumori con CIN presentano, invece, marcate alterazioni del
cariotipo, contenuto nucleare di DNA aneuploide, frequenti
delezioni alleliche ed inattivazione di geni oncosoppressori
quali APC, p53 e geni localizzati sul braccio lungo del cromosoma 18 e mutazioni dell’oncogene K-ras. La maggioranza di questi tumori sono adenocarcinomi moderatamente differenziati non mucosecernenti, con elevata incidenza di metastasi linfonodali (>50% dei casi) ed a distanza (20%). I
meccanismi che causano la CIN sono verosimilmente molteplici e non ancora chiaramente definiti.
Questa suddivisione in due principali categorie genetico-molecolari del carcinoma colorettale ha importanti ricadute cliniche. Numerosi studi hanno, infatti, dimostrato che i pazienti con tumore MSI-H presentano una prognosi più favorevole dei pazienti con tumore non-MSI-H, indipendentemente dallo stadio e da altri parametri clinici e patologici 2. È
attualmente discusso se il vantaggio di sopravvivenza per i
pazienti con tumore MSI+ sia nello stadio III da imputarsi almeno in parte ad un maggiore beneficio della chemioterapia
adiuvante con 5-FU 3 4. In un recente studio condotto su 718
pazienti con carcinoma colorettale stadio II e III, utilizzando
per la determinazione dello status MSI il test immunoistochimico della espressione delle proteine MLH1 ed MSH2, abbiamo potuto dimostrare che la MSI è un importante fattore
PATOLOGIA MOLECOLARE
prognostico sia nello stadio II che nello stadio III. In particolare, nello stadio II i pazienti con tumore MSI+ hanno presentato un decorso clinico molto favorevole, e non necessiterebbero pertanto di chemioterapia adiuvante. Inoltre, nello
stadio III la differenza di sopravvivenza tra tumori MSI+ e
MSI- è risultata molto evidente anche nel gruppo di pazienti
sottoposti a sola resezione chirurgica, indicando che è in gran
parte indipendente dal trattamento chemioterapico.
Nell’ambito dei tumori non MSI-H, le alterazioni genetiche
maggiormente studiate dal punto di vista prognostico sono le
delezioni alleliche (LOH). Anche se i risultati riportati in letteratura sono in parte discrepanti, le LOH di 18q e di 17p sono
quelle per le quali è stata più consistentemente dimostrata una
correlazione con la sopravvivenza 5-7. Negli ultimi anni è stato,
comunque, soprattutto dimostrato che la contemporanea presenza di più delezioni alleliche (in particolare di 18q e 17p) si
associa ad un comportamento clinico più aggressivo 7 8. Nella
nostra esperienza la contemporanea presenza di LOH di 18q,
17p ed 8p consente di identificare nello stadio II un sottogruppo di pazienti ad elevato rischio di ripresa di malattia. Rimane
da determinare se questa maggiore aggressività clinico-biologica sia il risultato sommatorio della inattivazione di più geni oncosoppressori localizzati nei diversi cromosomi o rifletta, invece, un diverso grado di instabilità genetica. È opportuno a questo punto rimarcare che i geni implicati nella LOH dei cromosomi 18q e 8p non sono stati ancora identificati e che le due ipotesi non sono tra loro mutualmente esclusive, un maggiore grado di instabilità genetica potendo comportare una più frequente inattivazione multipla di geni oncosoppressori implicati anche nel processo di diffusione metastatica.
La analisi della letteratura degli ultimi anni evidenzia, altresì, che la categoria dei tumori classificati come non-MSI-H è
eterogenea e che verosimilmente esistono ulteriori vie genetico-molecolari di sviluppo e progressione del carcinoma colorettale. In particolare, alcuni studi sembrano suggerire la
esistenza di una classe di tumori che non presenta né instabilità cromosomica, né instabilità dei microsatelliti.
Recentemente, due lavori basati sulla metodica dei DNA microarrays hanno individuato nei tumori colorettali profili di
espressione genica correlati al potenziale metastatico ed alla
prognosi 9 10. Gli studi citati sono stati condotti su un numero
limitato di casi ed il loro risultato necessita di essere verificato su più ampie casistiche. Anche per questo tipo di tumore, comunque, questa tecnologia innovativa verosimilmente
consentirà a breve di identificare nuovi importanti fattori
prognostici e predittivi.
In conclusione, allo stato attuale lo studio della istabilità dei microsatelliti e delle delezioni alleliche consente di suddividere i
pazienti con carcinoma colorettale in sottogruppi con aspettative prognostiche sensibilmente differenti e suscettibili di interventi terapeutici differenziati. Il loro impiego necessita, tuttavia, una validazione nell’ambito di trials clinici controllati.
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Analisi multigenica mediante real-time PCR
con schede microfluidiche
A. Marchetti
Centro di Ricerche Cliniche, Centro di Eccellenza sull’Invecchiamento, Università-Fondazione di Chieti, Chieti
Il sequenziamento dell’intero genoma umano può permettere
di progettare studi di espressione genica più articolati e completi per una migliore caratterizzazione dei processi patologici. A tal fine sono necessarie tecnologie ad alta produttività
ed estremamente sensibili. L’alta produttività implica la possibilità di analizzare contemporaneamente molti trascritti, la
sensibilità implica la possibilità di una accurata analisi di trascritti poco espressi e la capacità di valutare minime differenze di espressione fra i vari campioni. La tecnologia basata sui cDNA microarrays permette l’analisi di numerosi trascritti su una singola piattaforma, ma talvolta non raggiunge
livelli sufficienti di sensibilità, causando perdite di informazioni. D’altronde, le più sensibili ed accurate metodiche per
l’analisi quantitativa dell’espressione genica, quali la real-time RT-PCR, sono poco produttive.
Recentemente sono state commercializzate nuove piattaforme tecnologiche che, tramite l’uso di schede microfluidiche,
permettono di effettuare l’analisi quantitativa in tempo reale
di numerosi geni con notevole risparmio di reagenti e minore rischio di inquinamento dei campioni, essendo ridotto al
minimo l’ intervento manuale. Mediante questa nuova tecnologia è possibile analizzare contemporaneamente l’espressione di 384 geni in un singolo campione o 48 geni in 8 campioni. Variando opportunamente il numero dei geni inclusi
nell’analisi, possono essere messe a punto diverse schede da
usare in condizioni sperimentali diverse, a seconda dell’accuratezza richiesta. Softwares dedicati permettono la valutazione dei cicli soglia e la quantificazione dell’espressione genica ad alta produttività. La tecnica si basa sulla trascrizione
inversa seguita dalla PCR (RT-PCR) e presenta diversi vantaggi rispetto ad altri metodi di analisi di espressione genica;
in particolare, questa tecnica possiede un ampio range dinamico, per cui i campioni non devono contenere uguali quantità iniziali di RNA totale e necessita di piccole quantità di
RNA di partenza. Ciò consente di studiare il profilo di
espressione di cellule selezionate, ad esempio tramite la microdissezione laser.
Una delle più interessanti applicazioni della tecnologia a
schede microfluidiche, è data dalla possibilità di analizzare
l’espressione di molti geni che rappresentano intere vie metaboliche o gruppi funzionali completi. Ad esempio, possono
essere allestite schede per l’analisi di geni coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare, del processo apoptotico, dei
processi infiammatori etc. Saranno presentate alcune applicazioni pratiche di questa nuova tecnologia.
242
Microarray gene expression profiling:
challenge pancreatic cancers through the
understanding of its biology and improving
diagnosis and treatment.
E. Missiaglia
Dipartimento di Patologia, Sez. Di Anatomia Patologica,
Università di Verona
Although pancreatic cancer is a relatively uncommon disease
(fifth most common cause of cancer-related death in western
countries), its mortality virtually coincides with incidence,
having a five-year survival of less than 5%. This is mainly
due to its silent clinical course, late clinical manifestation,
and its resistance to conventional modes of therapy 1 2.
An improved understanding of pancreas cancer genetics and
biology are therefore the only means to provide new markers
for earlier diagnosis and to identify potential targets for therapeutic intervention. Unfortunately, molecular analyses of
pancreatic cancer have been hindered by the low cancer cellularity of this neoplasm, due to the prominent non-neoplastic reaction. However, various enrichment techniques such as
propagating neoplatic cells in tissue culture, xenografting,
cryostat-enrichment, and laser capture microdissection of
primary lesions have partially overcome this problem.
Recently, several large-throughput methods have been employed to analyse the gene expression levels among pancreatic cancers, pancreatitis and normal tissue. These include RDA,
SAGE and hybridisation on high density spotted nylon filters,
glass DNA microarrays or Affimetrix chips. However, DNA
array/microarray technology is becoming one of the most productive methods for characterizing physiological and pathological processes. Arrays are typically positive charged membranes, usually from 12 to 20 cm2, in which different cDNAs
are immobilized in defined positions. Microarrays are normally glass microscope slides in which an area as small as 1 cm2
contains thousands of spots, each harboring DNA from a specific gene or chromosomal area. Microarrays can be constructed with either cDNA or oligonucleotides, usually prepared and stored in microplates. Alternatively, oligonucleotides corresponding to specific genes sequences can be
synthesized directly on the surface of the array using photolithographic techniques (Affymetrix Chip). The principal
steps in comparing the gene expression profile of different
samples begin with the extraction of mRNA. This represents a
crucial aspect in the analysis that can strongly affect the quality and the goodness of the results 3. Once isolated the mRNA
is retrotranscribed into cDNA using inverse transcriptase with
variable efficiency. In this phase the probe can be labelled using fluorescent dyes that emit light in a specific range after excitation induced with laser at different wavelengths or radioactive nucleotides. In addition, it is also possible increase
the probes (particularly when the original sample is available
in limited amount) by generating a double-strand cDNA that
can be amplified linearly (using T7 polymerase) 4 or exponentially (using canonical DNA polymerase) 5. While only one
sample is hybridised in the Affymetrix chips or in a membrane
for each reaction, in the cDNA microarray the information obtained comes always from a comparison between two different samples, which labelled probes are coohybridised on the
same slide and compete for the target sequence in a stringent
condition.
After the hybridisation the slide is scanned and the images
obtained from the different dyes can be superimposed and
compared. In that respect, several packages have been developed to explore microarray data from images analysis to the
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
final step of the data minding. Unfortunately the scientific
community haven’t found yet consensus around a standard
methods widely applicable to cDNA microarray technology
leaving to the researcher the choice between scores of possibilities not always standardized.
Transcriptional profiling using DNA arrays has an excellent
potential for the discovery of novel markers for early diagnosis, prognosis, and potential therapeutic targets. This may
also lead to advances in tumor classification. For example,
Golub et al. 6 showed that the expression pattern provided
new insights into tumor pathology, including cell origin,
stage, grade, and response to the therapy. Alizadeh et al. 7
made the first correlation between gene expression pattern
and disease outcome studying diffuse large B-cell lymphoma, where progression of disease correlated with a distinct pattern of gene expression. Such reports are becoming
more common and exemplify the power that the differential
expression profiles generated by cDNA arrays/microarrays.
Nowadays, several reports have emerged regarding the
analysis of common pancreatic cancer using cDNA arrays as
well as Affymetrix chips. Gress et al. 8 generated the first
gene expression profile of panceatic cancers using hybridization to filters carrying cDNA clones derived from pancreatic
cancer cell lines to restrict the expression profile to genes
more likely derived from the malignant epithelial component
of the tumor. They found that a total of 369 distinct clones
were preferentially expressed in pancreatic cancer and from
those 26% were known genes. Furthermore, in collaboration
with the group of Prof. N.R. Lemoine at the Cancer Research
UK, we studied expression profiles of epithelial cancer cell
and the desmoplastic reaction on cDNA arrays using material obtained by fine needle aspiration of fresh surgical specimens 9 as well as the expression profiles of 19 pancreatic cancer cell lines 10. One of the advantages of using these type of
samples is that pure tumor cells are tested without any or low
contamination from fibroblasts, since, as already mention
above, pancreatic cancers are characterized by a strong stromal reaction that may represent the 80-90% of tumor mass.
In both studies several genes, some of which already known
to be involved in pancreatic cancer, were found differentially expressed compared to normal pancreas. In particular, in
the cell line study genes with a wide variety of functions
were identified among the overrepresented transcripts, ranging from tight junction proteins (claudins 3, 4 and 5), ion
homeostasis regulators (S100P, S100A4, cysteine-rich heart
protein), transcription factors (forkhead box J1, Id2) and extracellular matrix proteins (MMP2, MMP7, TIMP2, plasminogen activator). Equally, among the underrepresented
genes there were several putative tumor suppressor genes
(FAT tumor suppressor homologue 2, IGFBP7, S100A2,
TP55) as well as cell cycle-related gene GADD45A, and several cell adhesion genes (cadherin 3, cysteine-rich angiogenic inducer 61, plakophilin 1). In addition, employing the
class comparison analysis we were able to isolate a set of
genes that could separate the cell lines on the basis of their
origin.
In the hierarchical clustering on the above figure these genes
are divided in three major subset as consequence of their different expression behavior in the cell lines deriving from primary tumors, liver metastasis, ascites and lymph node metastasis. Among these subsets, one included genes often up-regulated in cell lines that originated from lymph nodes (namely FYB, IFITM1, SRGAP2, NID2, RHOBRB2, ABCG1,
SRC1, LIMK2, LMO2, p8). Interestingly, most of those
genes are involved in the cell communication and in the signal transduction.
PATOLOGIA MOLECOLARE
243
Fig. 1.
The correct and early diagnosis of pancreatic cancers is another important challenge that is encountered with this type
of tumor, also because its typical symptoms (abdominal pain,
unexpected weight loss, jaundice) are rather unspecific and
can point to a variety of different GI tract problems, with
chronic pancreatitis, that is a persistent inflammatory disease, being the clinically most relevant differential diagnosis
for pancreatic cancer. In fact, in the course of chronic pancreatitis inflammatory tumors may develop in the pancreas
causing the same signs and symptoms as malignant pancreatic tumors. Malignant and inflammatory tumors are frequently indistinguishable by conventional imaging modalities such
as computed tomography (CT), abdominal (US) or endoscopic ultrasound (EUS), thus requiring cytological analysis
of cells obtained by US-, CT- or EUS-guided fine needle aspiration biopsy (FNAB). However, the reliability of the
largely morphology-based cytological analyses of fine needle
aspirates of pancreatic tumors remains unsatisfactory with a
diagnostic accuracy between 60% and 80% 11-15. Well-differentiated carcinomas may escape recognition because of the
minimal cytological atypia they display. Conversely, chronic
pancreatitis may give rise to atypical cells that can be mistaken for neoplastic cells. For both, malignant and benign tumors, diagnosis is extremely difficult when intact cells in the
aspirate are rare or completely missing.
DNA arrays with their potential to assess the transcriptional
activity of many genes simultaneously are ideal tools for diagnostic approach relying on the analysis of multiple genetic
markers rather than morphological evaluation of biopsy material.
In collaboration with Prof. Thomas M. Gress (University of
Ulm, Germany) we have tried to develop a specialized cDNA
array designed for the differential diagnosis of pancreatic tumors based on expression profiling of fine needle aspiration
biopsies.
Diagnostic array was constructed to only contain genes with
diagnostic and/or prognostic potential for the classification
of pancreatic tissues, augmented with control features to
allow for precise grid alignment and robust normalization. In
the present study, we used residual material from biopsy
needles for the analysis of the FNAB samples to ensure
complete identity of the material used for cytological and
expression profiling analysis. As a result, the amount of
starting material available for expression profiling analysis
was extremely limited, so that we initially produced the array
in the nylon membrane format to take advantage of the
superior sensitivity of radioactive labeling and detection.
Instead of omitting individual genes from the analysis to
achieve this purpose, we opted to apply principal component
analysis to the data, resulting in a set of combined features
representing weighted combinations of all genes in the data set.
This approach is far less sensitive to outliers or hybridization
artifacts in individual diagnostic samples, thus increasing the
reliability of the analysis. Robustness of classification was also
the rationale for choosing linear discriminant analysis (LDA)
for the construction of the classifier.
We were able to demonstrate that expression profiling analysis
using our specialized diagnostic array in conjunction with
conventional cytology significantly improves the accuracy of
diagnosis and is especially useful in the classification of
otherwise ‘non-diagnostic’ samples, i.e. samples with low
cellularity or complete absence of intact cells.
Fig. 2.
244
Therapy is obviously another important field in the battle
against pancreatic cancer. Microarray may be applied to expression profiling analysis to elucidate mechanisms of drug
sensitivity, resistance, and mechanism of action of pharmaceutical and other compounds 16 17.
In that respect, we have used microarray technology to
investigate the changes in global gene expression observed
after treatment of different pancreatic cancer cell lines with
the methylase inhibitor 5-aza-2’-deoxycytidine 18.
We have observed that this agent is able to inhibit to various
degrees the growth of three pancreatic cancer cell lines. In
particular, this inhibition was associated with induction of interferon (IFN)-related genes, as observed in other tumour
types. Thus, expression of STAT1 seems to play a key role in
the cellular response to treatment with the cytosine analogue.
Moreover, we found increased p21WAF1 and gadd45A expression to be associated with the efficacy of the treatment; this
induction may correlate with activation of the interferon signalling pathway. Importantly, the genome-wide demethylation significantly increased the response of two cell lines to
treatment with interferon-γ, gemcitabine and cisplatin. This
suggests a possible application of 5-aza-CdR in pancreatic
cancer therapy in combination with other drugs.
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
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Missiaglia et al. Oncogene 2004, in press.
PATHOLOGICA 2004;96:245-248
Metastasi
Moderatori: A. Giannini (Prato) e R. Vecchione (Napoli)
L’evento metastasi
D. Lombardi
Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università de L’Aquila
Come è noto, la caratteristica che contraddistingue i tumori
maligni è la loro capacità di invadere i tessuti limitrofi e di
propagarsi, attraverso i sistemi circolatorio e linfatico, al fine
di formare metastasi in organi diversi da quello in cui il tumore primario ha avuto origine. Il processo metastatico è alquanto complesso. L’invasione dei tessuti che circondano il
tumore primario è determinato dall’acquisizione da parte delle cellule trasformate di caratteri peculiari che si esplicano
nella modulazione delle proprietà adesive, nell’induzione
della produzione di proteinasi e nella modulazione della motilità. È importante rilevare che la degradazione delle membrane basali e della matrice extracellulare è causata anche
dalla secrezione di proteinasi da parte di cellule non trasformate che favoriscono l’invasività tumorale. Inoltre, la produzione di enzimi proteolitici, l’adesività, la plasticità e la motilità cellulari sono coinvolte in altri processi quali l’impianto del trofoblasto, lo sviluppo embrionale e il rimodellamento tissutale. La differenza tra questi processi normali e quello patologico dell’invasione metastatica risiede nei diversi livelli di regolazione.
Alterazioni delle caderine calcio-dipendenti responsabili delle interazioni cellula-cellula, e delle integrine responsabili
dell’interazione con la matrice extracellulare, contribuiscono
alla motilità delle cellule invasive.
Si conoscono almeno quattro classi di proteinasi coinvolte
nel processo di degradazione della matrice extracellulare:
serina, cisteina, aspartico proteinasi e le metalloproteinasi.
L’attivazione delle metalloproteinasi è anche coinvolta nel
rimodellamento della membrana basale dei vasi sanguigni
durante la neoangiogenesi tumorale, processo che permette
la formazione e la penetrazione di vasi sanguigni all’interno del tumore primario e della metastasi e che è necessario
per l’accrescimento di masse neoplastiche delle dimensioni
di 1-2 mm3. Tra numerosi altri fattori, il fattore di crescita
dell’endotelio vascolare o fattore di permeabilità vascolare
(VEGF o VPF) è considerato il principale responsabile della neoangiogenesi tumorale. Tale processo si realizza attraverso la degradazione della membrana basale e della matrice extracellulare che circonda i vasi, la proliferazione e la
chemiotassi delle cellule endoteliali verso lo stimolo angiogenico e il rimodellamento della membrana basale dei vasi
neoformati.
Un’attenzione particolare meritano i geni soppressori delle
metastasi. L’identificazione, nel 1988, del gene antimetastatico nm23 1 ha dato il primo impulso allo studio e alla conoscenza dei meccanismi molecolari che sottendono all’evoluzione del fenotipo metastatico. Così come i geni oncosoppressori controllano lo sviluppo dei tumori, i geni soppressori delle metastasi ne controllano il potenziale metastatico. L’insieme dei geni antimetastatici continua ad arricchirsi di nuovi membri. In tempi molto recenti, l’utilizzo
della tecnica del “microarray profiling” ha permesso di individuare una pletora di nuovi geni candidati al ruolo di
soppressori delle metastasi. Generalmente, nei tumori altamente invasivi, i geni antimetastatici sono silenti a livello
trascrizionale piuttosto che mutati. Molti di essi non hanno
effetto sulla proliferazione in vitro di cellule tumorali e sulle dimensioni del tumore primario in vivo. Non sono coinvolti nel processo meccanico dell’invasione e nella neoangiogenesi. Spesso agiscono negli stadi finali della colonizzazione tumorale al sito d’attecchimento della metastasi 2 3.
Possono regolare i segnali giunzionali tra le cellule 4; interferire con vie di trasduzione del segnale intracellulare 5 6;
indurre il differenziamento cellulare 7-10; influenzare la trascrizione genica 9.
L’importanza dal punto di vista diagnostico dei livelli di
espressione dei geni antimetastatici è evidente. Inoltre, la letteratura recente ha fornito le basi per l’individuazione di
agenti chemoterapici in grado di modulare l’espressione e la
funzione dei geni antimetastatici 11-13.
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CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
246
Metastasi epatiche
Tab. I. Neoplasie epatiche maligne - Sito di origine*
L.M. Terracciano
Istituto di Patologia, Università “Federico II”, Napoli; Istituto di Patologia, Università di Basilea, Svizzera
Introduzione
Per la localizzazione anatomica, la particolare vascolarizzazione e le caratteristiche istologiche, il fegato è uno degli organi più frequentemente coinvolti nella fase metastatica di
numerosi tumori, prima fra tutti quelli del tratto gastrointestinale. Le metastasi epatiche sono di gran lunga le più frequenti neoplasie del fegato, in un rapporto di circa 20:1 con i
tumori primitivi epatici, soprattutto in pazienti senza epatopatia cronica come fattore di rischio per il carcinoma epatocellulare (HCC) 1 2. Nei pazienti cirrotici, o con epatopatie
croniche, prime fra tutte le infezioni virali da HBV ed HCV,
risulta essere invece l’HCC la neoplasia maligna più frequente.
Le neoplasie maligne extraepatiche mostrano inoltre una ridotta capacità metastatica nel fegato cirrotico 3.
Pur potendo qualsiasi tumore metastatizzare nel fegato, i tumori del polmone, colon, pancreas, mammella e stomaco rappresentano le neoplasie che più frequentemente causano metastasi epatiche (Tab. I). I carcinomi del distretto testa-collo
e, in genere, i sarcomi, sono invece le neoplasie che più raramente metastatizzano nel fegato.
La diffusione metastatica nel fegato avviene quasi sempre
per via ematica, ma raramente alcuni tumori possono metastatizzare anche per via peritoneale (es.: carcinoma di tipo
diffuso sec. Lauren dello stomaco) e, almeno teoricamente,
per via linfatica. La capacità metastatica nel fegato sembra
inoltre essere dipendente dall’istotipo considerato, essendo
molto elevata per gli adenocarcinomi, le neoplasie ematologiche, i carcinomi con differenziazione neuroendocrina e i
melanomi, e invece molto più blanda per i carcinomi spinocellulari e transizionali.
Aspetto macroscopico
Le metastasi epatiche possono presentarsi come noduli singoli o, molto più frequentemente, multipli, a contorno irregolare. A volte le aree centrali dei noduli metastatici possono
andare incontro a fenomeni di necrosi, impartendo così al nodulo un caratteristico aspetto “ombelicato”, particolarmente
frequente nelle mestastasi dei carcinomi del colon e in generale nelle metastasi da adenocarcinoma.
Aspetto microscopico
Le metastasi di solito riproducono l’aspetto istologico del tumore primitivo, cosicchè, soprattutto se la lesione primaria è
A) In assenza di epatopatia cronica
Polmone
Pancreas
Colon
Stomaco
Mammella
Fegato
Altri organi
22,7%
17,5%
13,4%
10,3%
7,2%
2,1%
26,8%
B) In pazienti con cirrosi
Fegato
Polmone
Colon
Stomaco
Pancreas
Altri organi
77,2%
7,0%
4,4%
3,5%
1,8%
6,1%
* Incidenza relativa basata su dati autoptici (Melato M et al, 1989)
già conosciuta, il patologo può nella maggior parte dei casi
confermare o escludere che il tumore epatico esaminato rappresenti una metastasi.
Qualora invece il tumore primitivo non sia conosciuto, lo
spettro della diagnosi differenziale risulta essere molto più
ampio, e soprattutto in passato il patologo non di rado poteva rendere soltanto una diagnosi di istotipo (es: adenocarcinoma mod.differenziato), spesso senza poter indicare la sede
primaria del tumore ed escludere, in caso di adenocarcinoma,
un tumore primitivo del fegato (metastasi da adenocarcinoma
versus colangiocarcinoma). Negli ultimi anni però il continuo miglioramento delle tecniche immunoistochimiche e di
biologia molecolare hanno reso possibile l’identificazione
del tumore primitivo in gran parte dei casi.
Spesso il patologo che osserva al microscopio un tumore epatico sospetto di metastasi, in assenza di tumore primitivo conosciuto, si trova di fronte a 2 tipi di quesiti da risolvere:
1) neoplasia metastatica versus neoplasia primitiva epatica
(colangiocarcinoma, carcinoma epatocellulare, adenoma
biliare, ecc.)
2) identificazione del tumore primitivo.
In molti casi le colorazioni istochimiche di routine (ematossilina-eosina, PAS, ecc.) risultano sufficienti per giungere ad
una corretta diagnosi. In una percentuale non trascurabile di
Tab. II.
CK7+/CK20+
CK7-/CK20-
Colangiocarcinoma
non-periferico
Ca. pancreas
Ca. uroteliale
Ca. epatocellulare
Ca. ovarico
mucinoso
Ca. squamoso
Ca. renale
Ca. prostata
Ca. neuroendocrino
CK7+/CK20Colangiocarcinoma
periferico
Ca. mammella
Ca. polmone
non small-cell
Ca. ovarico
sieroso
Ca. endometrio
Mesotelioma
CK7-/CK20+
Ca. colon
Ca. Merkel
METASTASI
247
Tab. III. Markers organo-specifici e organo-associati
Anticorpo:
Identifica:
Prostatic specific
antigen (PSA)
Prostatic specific
phosphatase (PSP)
Gross cystic disease
fluid protein-15
Thyreoglobulin
Thyroid transcription
factor-1 (TTF-1)
Uroplakin
Carcinoma della prostata
Carcinoma della prostata
Carcinoma della mammella
Carcinoma tiroideo
Carcinoma tiroideo
e del polmone
Carcinoma uroteliale
casi però è necessario far ricorso a tecniche immunoistochimiche e/o di biologia molecolare per rispondere ad entrambi
i quesiti. Molti tumori epatici, primitivi o secondari, sono infatti caratterizzabili immunofenotipicamente utilizzando un
panel di anticorpi 4 5.
Nella diagnosi di carcinoma epatocellulare risultano particolarmente utili i seguenti anticorpi: Hep-Par 1, alfa-fetoproteina, CD10, CEA-policlonale.
Il colangiocarcinoma esprime citocheratina 7 (CK7) e, soprattutto nelle forme periferiche, si caratterizza per la contemporanea assenza di espressione di CK20. Il pattern inverso (CK7-/CK20+) è invece altamente caratteristico del carcinoma del colon. L’espressione coordinata di CK7/CK20 è
uno dei panel immunoistochimici più utilizzati nella tipizzazione delle metastasi da adenocarcinoma (Tab. II), e pur non
essendo nessuna delle possibili combinazioni assolutamente
specifica di un tipo tumorale, questa indagine immunoistochimica permette in molti casi di giungere ad una corretta
diagnosi del tumore di origine.
Un’ulteriore categoria di anticorpi ancora relativamente piccola che sta però rapidamente espandendosi è rappresentata
dagli anticorpi verso proteine organo-specifiche o organo-associate, come ad esempio la TTF-1 (thyroid transcription factor-1) e l’antigene prostata specifico (PSA) (Tab. III). Questi
anticorpi permettono l’identificazione del sito primario del
tumore metastatico con altissima specificità.
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Rilevazione con tecnologie
di immunoistochimica e di biologia
molecolare delle micrometastasi
dei tumori della mammella e dei melanomi
A. Baldi
Dipartimento di Biochimica e Biofisica, Sezione di Anatomia
Patologica, Seconda Università di Napoli
A dispetto dei notevoli progressi nel trattamento del cancro,
la ricorrenza della malattia e la formazione di metastasi continuano a rappresentare il problema maggiore nella gestione
clinica dei tumori. Il fattore determinante per la prognosi di
pazienti colpiti da tumori di tipo invasivo è, infatti, la presenza o meno di una disseminazione metastatica delle cellule tumorali al momento della presentazione iniziale e del trattamento. Tuttavia, un certo numero di pazienti che non mostrano una diffusione sistemica evidente del tumore, sono
soggetti ad una ricorrenza della malattia dopo la terapia primaria. Evidentemente, è in atto in questi pazienti una disseminazione precoce delle cellule cancerose a siti secondari,
che non viene generalmente rilevata dalle procedure diagnostiche convenzionali impiegate per valutare lo stadio (“staging”) di un tumore.
Negli stadi precoci, la malattia metastatica è, infatti, clinicamente indistinguibile dalla malattia localizzata. Il riconoscimento di metastasi clinicamente evidenti avviene spesso
piuttosto tardi nella progressione della malattia, per mezzo di
lesioni macroscopiche negli studi di “imaging” (es. risonanza magnetica) o di elevati livelli nel siero di proteine che rappresentano marcatori tumorali. Le tecniche di “imaging” risentono in generale del loro limite di risoluzione, di circa 0,5
cm; d’altro canto l’utilità clinica dei marcatori tumorali è
controversa, il che ha condotto ad una progressiva riduzione
del loro uso nella pratica clinica. Di conseguenza, la formazione di metastasi sistemiche può avviarsi molto prima che il
tumore sia rilevabile con le tecniche standard. Inoltre, questi
saggi rilevano soltanto la presenza ed eventualmente le dimensioni del tumore, senza alcuna indicazione circa il potenziale metastatico o la progressione della malattia.
Attualmente, dopo la diagnosi iniziale di un tumore solido, la
terapia antitumorale ed il successivo decorso clinico di un paziente dipendono in larga misura dalle caratteristiche del tumore primario. I parametri generalmente impiegati per lo “staging” di un tumore, quali ad esempio il coinvolgimento dei
linfonodi, la classificazione del tumore, le sue dimensioni, o la
presenza di metastasi distali, sono impiegati per valutare statisticamente il rischio di ricorrenza della malattia. Tuttavia, tali
approcci sono limitati nell’identificare accuratamente ed individualmente quei pazienti ad alto rischio di recidiva della malattia, che necessitano di conseguenza di una terapia più aggressiva. Ciò è dovuto principalmente all’inaccuratezza nell’identificazione degli stadi precoci di metastasi.
Di conseguenza, la possibilità di rilevazione della presenza di
metastasi negli stadi più precoci può avere importanti implicazioni sia prognostiche che terapeutiche. Questa lacuna analitica può essere potenzialmente riempita dalla caratterizzazione di cellule tumorali disseminate, che sono state identificate nella maggior parte dei siti secondari di metastasi (sangue periferico, midollo spinale, linfonodi regionali). Tali cellule appartengono ad una categoria descritta con vari termini,
quali ad es. micrometastasi, metastasi occulte o cellule cancerose minime residue (MRCC), e potrebbero rappresentare
il legame tra il tumore primario e l’evento più tardivo della
presentazione delle metastasi.
248
Sulla base di queste considerazioni, i metodi per la rilevazione delle metastasi occulte prima di ogni altra analisi clinica o
patologica hanno ricevuto grande attenzione in questi ultimi
anni. Scopo di questa comunicazione è presentare lo stato
dell’arte riguardo alle metodiche di immunoistochimica e di
biologia molecolare più comunente utilizzate per la rilevazione di micrometastasi, con particolare attenzione al tumore
della mammella e al melanoma.
La gestione delle metastasi con il pTNM
R. Giardini
Comitato Italiano per il Prognostic System Project; Anatomia ed Istologia Patologica, Sondrio
Lo stadio d’una neoplasia maligna, determinato da taglia del
tumore primitivo, estensione locale ed eventuale diffusione a
distanza, rappresenta il più importante indicatore di prognosi.
Il sistema di stadiazione universalmente usato e familiarmente noto come TNM, in origine sviluppato in Francia tra il 1943
ed il 1952, è giunto alla VI edizione, sotto l’egida dell’UICC
e dell’AJCC. Con riferimento ad N ed M, in quest’edizione
sono state fornite numerose delucidazioni su alcuni punti classificativi generali, oggetto negli ultimi anni di animato e non
ancora concluso dibattito, e causa d’interpretazioni discordanti, quali l’esatta interpretazione della presenza di noduli tumorali, senza evidenza di struttura linfonodale residua, nel
tessuto connettivo d’un’area di drenaggio linfatico (metastasi
linfonodale o estensione neoplastica?) e la corretta classificazione di linfonodi negativi, ma in numero inferiore a quanto
usualmente rinvenuto (pN0 o pNx?). Sono state anche incluse la definizione di linfonodo sentinella e la categoria “cellule tumorali isolate” (ITC) per linfonodi regionali e sedi a distanza (ad es. midollo osseo). Le ITC, in discussione sin dal
1999, son definite cellule singole od in aggregati di dimensio-
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
ne massima ≤ 0,2 mm, in genere, ma non solo, rilevate con
metodiche speciali (morfologiche: immunocitochimica, o non
morfologiche: analisi molecolare e del DNA, flussicitometria)
da indicarsi sul referto, e che non vanno classificate come metastasi in quanto non rivestono importanza prognostica (pN0).
Persistono tuttavia dubbi sulla universale applicazione di queste definizioni, soprattutto in neoplasie con particolare morfologia di metastatizzazione (ad es. metastasi linfonodali di carcinoma lobulare mammario). I siti ove si sono apportate modifiche più o meno estese rispetto alle pregresse edizioni comprendono: faringe (definizione di linfonodi sovraclaveari, importante nella stadiazione del carcinoma rinofaringeo), tiroide
(suddivisione del pN1), colon (per i noduli neoplastici in tessuto periviscerale), cavità sierose (per i gruppi N2 e N3), sarcomi ossei (con l’enucleazione delle metastasi al polmone –
M1a – rispetto alle altre sedi – M1b), melanoma (sia per N
che per M) e mammella (classificazione dello stato linfonodale per numero di linfonodi coinvolti e per pN1 N2 N3 e M,
classificazione della valutazione del linfonodo sentinella). In
successivi incontri del TNM Prognostic Factors Project Committee (6-7.5.2003 e 4-5.5.2004) sono state segnalate e discusse richieste avanzate da parte di più studiosi di apportare
ulteriori modifiche della stadiazione TNM (ad es. categoria
pN1mi per i carcinomi polmonari, importanza della valutazione numerica e morfologica delle ITC individuate con immunocitochimica nel midollo osseo in pazienti con carcinoma
mammario), da valutarsi per la prossima edizione (la VII). La
corretta, sistematica ed aggiornata applicazione della classificazione pTNM, ove sussistano i requisiti per la sua formulazione, anche per i parametri N ed M, in tutte le diagnosi oncopatologiche non può che rivestire un passaggio essenziale
nella gestione e nella valutazione della storia naturale delle
neoplasie, risultando essenziale in quelle realtà ove è funzionante un Registro Tumori e contribuendo in misura sostanziale a tracciare, per ciascun caso, un ritratto il più possibile verisimile della neoplasia.
PATHOLOGICA 2004;96:249-252
Patologia digestiva
Moderatori: R. Fiocca (Genova) e M. Rugge (Padova)
La celiachia con lesioni non-atrofiche
P. Ceppa
DICMI, Sezione di Anatomia Patologica, Università di Genova
La celiachia è una malattia in base alla quale, nel soggetto
geneticamente predisposto l’introduzione di alimenti contenenti glutine determina una risposta immunitaria abnorme
cui consegue una infiammazione cronica ed alterazioni della
mucosa intestinale.
Aspetti clinico-patologici della celiachia negli anni 70-90
Sino ad alcuni anni orsono la celiachia era ritenuta una malattia tipica dell’età pediatrica, caratterizzata da sintomi che
si presentavano prevalentemente dopo lo svezzamento, i più
tipici dei quali erano rappresentati da scarso accrescimento
(83%), diarrea (71%), distensione addominale (65%) ed anoressia (54%).
La diagnosi si basava, oltre che sulla clinica, sulla positività
dei test anticorpali e sulla biopsia della mucosa duodeno-digiunale. I test sierologici disponibili constavano di anticorpi
anti-Gliadina (AGA) ed anti-Endomisio (EMA). Gli elementi fondamentali per la diagnosi istologica erano essenzialmente tre ovvero:
• atrofia dei villi
• iperplasia delle cripte
• recruitment di linfociti T nella mucosa con aumento dei
linfociti intraepiteliali (IEL).
La diagnosi istologica richiedeva la contemporanea presenza
di tutte queste alterazioni.
Cosa è cambiato nell’ultimo ventennio?
Il panorama clinico, epidemiologico, patogenetico e diagnostico della malattia celiaca è profondamente mutato nell’ultimo ventennio. I più importanti elementi di novità sono rappresentati da:
1. riconoscimento della elevata prevalenza della malattia in
età adulta
2. riconoscimento dell’elevata frequenza di forme subcliniche
3. riconoscimento di numerose presentazioni cliniche nongastrointestinali
4. identificazione dell’antigene target della risposta immune
5. identificazione di forme non atrofiche
1. È ormai accettato che la celiachia sia appannaggio anche
dell’età adulta 1, potendosi osservare casi anche nella quinta
o sesta decade di vita ed oltre (circa il 25% dei casi viene diagnosticato in pazienti con età superiore ai 50 anni).
2. È stato dimostrato inoltre che la malattia si può presentare
con uno spettro clinico estremamente variabile che comprende anche forme totalmente silenti. Ha incontrato grande favore il concetto di “iceberg” formulato da Maki e Collin 2 che
sottolinea la maggior prevalenza di forme latenti e potenziali rispetto a quelle clinicamente manifeste. Studi siero-epidemiologici hanno dimostrato che l’incidenza di celiachia in
Italia è di circa 1 soggetto ogni 150-200 persone; secondo
questi dati i celiaci sarebbero circa 400.000 ma ne vengono
diagnosticati solo 35.000.
3. Oltre a ciò si è osservato che possono esservi numerose
forme di celiachia con presentazione clinica non-gastrointe-
stinale 1: ematologiche (in particolare anemia), osteo-articolari, neurologiche, ginecologiche (in particolare infertilità o
alta frequenza di aborti).
4. In questi ultimi anni è stato anche scoperto l’antigene oggetto della risposta immune, ovvero la transglutaminasi tissutale: la gliadina contiene dei peptidi ricchi in glutamina e
prolina che, in soggetti predisposti (con particolare fenotipo
HLA), formano legami con la transglutaminasi con conseguente formazione di neoepitopi che inducono attivazione
del T-cell receptor ed induzione di una risposta umorale (che
produce anticorpi anti-gliadina, anti-endomisio ed anti-transglutaminasi) e cellulo-mediata con produzione di citochine
che ledono l’epitelio intestinale. La predisposizione genetica
è caratterizzata dalla presenza di DQ2 o DQ8 nel sistema
maggiore di istocompatibilità HLA, presente in più del 95%
dei soggetti celiaci 3. All’identificazione della transglutaminasi è conseguita la realizzazione di un test sierologico che
valuta la presenza ed il titolo dei relativi anticorpi. Sia gli anticorpi anti-endomisio che quelli anti-transglutaminasi hanno
dimostrato una elevata sensibilità e specificità nei casi con lesioni di tipo atrofico 3-5; tuttavia essi risultano spesso negativi nei casi con lesioni di tipo infiltrativo-iperplastico, riducendo quindi la loro effettiva sensibilità 6-8.
5. La malattia celiaca può presentarsi con lesioni di tipo nonatrofico, caratterizzate da normale trofismo dei villi associato ad un aumentato numero (> 40/100 cellule epiteliali) di
linfociti intraepiteliali (IEL), o da normale trofismo dei villi,
iperplasia delle cripte e aumento degli IEL. Tali reperti sono
di frequente osservazione in particolar modo nelle forme subcliniche o nello studio dei familiari. Il riconoscimento e la caratterizzazione delle forme non-atrofiche è merito soprattutto
dei lavori di Marsh 9; per quanto riguarda la categorizzazione
e standardizzazione delle lesioni si può far riferimento al lavoro di Oberhuber et al. 10
Rapporti tra istologia, sierologia e clinica nelle forme non
atrofiche e possibili evoluzioni
Il dato che gli anticorpi anti-endomisio ed anti-transglutaminasi siano dotati di elevata specificità ma di scarsa sensibilità
nel riconoscere forme di celiachia con lesioni non-atrofiche
riporta in primo piano il riconoscimento delle lesioni istologiche ed in particolar modo di quelle di tipo infiltrativo o
iperplastico (tipo I e II di Marsh-Oberhuber). Un punto importante è definire quale sia il significato clinico delle forme
non-atrofiche e se esse siano sempre indicative di celiachia.
A tale proposito i dati disponibili appaiono contradditori. Alcuni lavori sembrano dimostrare come in realtà il pattern di
tipo infiltrativo sia indicativo di celiachia solo in una parte
dei soggetti; al contrario, in una altrettanto numerosa frazione di pazienti, esso si associa a patologie varie, quali epatopatie croniche, colite ulcerosa, pancreatite cronica, ecc. 11 12.
Di particolare interesse a tale proposito sono i dati presentati
da Villanacci nel corso del Congresso SIAPEC-IAP 2003 13,
che prendendo in considerazione 122 pazienti con lesioni di
tipo infiltrativo ed iperplastico, ha riscontrato positività dei
marcatori sierologici per celiachia in circa la metà dei casi,
dimostrando nuovamente che pattern infiltrativo non equivale necessariamente a celiachia. Ma il dato più rilevante deriva dalla incidenza di positivizzazione sierologica osservata
in circa il 10% dei casi nel corso di un follow-up piuttosto
250
breve (circa 8-24 mesi), riconoscendo pertanto al pattern infiltrativo il significato di lesione iniziale della malattia celiaca.
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Le neoplasie mesenchimali gastrointestinali
CD117 negative
C. Capella, V. Bertolini, A.M. Chiaravalli
Dipartimento di Morfologia Umana, Sezione di Anatomia
Patologica, Università dell’Insubria, Varese
I tumori mesenchimali del tratto gastroenterico costituiscono
un gruppo eterogeneo di neoplasie originate da cellule stromali presenti in tutto il tratto digerente. Sono neoplasie a cellule fusate o epitelioidi che si sviluppano con aspetti differenti in relazione alla localizzazione e alle dimensioni. Possono presentarsi come piccoli noduli o masse confinate nello
spessore della parete, espandersi verso il lato luminale o crescere sotto la sierosa di un viscere. Alcune neoplasie costituiscono reperti occasionali nel corso di interventi chirurgici
eseguiti per altri motivi (chirurgia addominale o ginecologica) o di indagini diagnostiche per immagini. I sintomi sono
in relazione alle dimensioni, alla sede, alla localizzazione
della neoplasia e al comportamento benigno o maligno. La
sintomatologia più frequente è costituita da ostruzione, dolore addominale, sanguinamento, intussuscezione, perdita di
peso ed epatomegalia. Il comportamento biologico dei tumo-
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
ri non è univoco ed è spesso in relazione al tipo istologico, alla sede e alle dimensioni della neoplasia. Da molti anni sono
stati presi in considerazione vari criteri per identificare le
neoplasie che possono sviluppare un comportamento maligno, ma non esistono ancora parametri, ben standardizzati,
per definire degli indici prognostici certi.
La nostra casistica è costituita da 140 tumori mesenchimali
del tratto gastroenterico diagnosticati tra il 1973 e il 2002. Di
ciascun caso sono state valutate le caratteristiche citologiche
e istologiche ed è stato effettuato uno studio immunoistochimico con il metodo del complesso Avidina-Biotina perossidasi (Hsu et al., 1981). Fletcher et al. 1 hanno proposto di definire con il termine GIST le neoplasie che mostrano espressione immunoistochimica del recettore di membrana CD117
(KIT) (GIST-CD117+). Valutando l’immunoreattività per
questo marcatore delle 140 neoplasie mesenchimali studiate
98 (70%) erano GIST-CD117+. Le 42 neoplasie CD117-negative sono state suddivise sulla base del profilo immunoistochimico in: tumori-CD34+ (T-CD34+, positivi per CD34, vimentina, NSE, PGP9.5: 2 casi, 1,4%); tumori inclassificabili
(TI, positivi per vimentina, NSE, PGP9.5: 4 casi, 2,8%); tumori a cellule di Schwann-gliali o Schwannomi (TSG, positivi per la proteina S-100, GFAP, PGP9.5, NSE: 4 casi, 2,8%);
tumori a cellule neuro-gliali (TNG, positivi per NSE, PGP9.5,
S-100 e sinaptofisina: 1 caso, 0,7%); 6) tumori a cellule muscolari lisce o leiomiomi-leiomiosarcomi (TML, positivi per
desmina e/o actina: 23 casi,16,4%); tumori fibrosi (TF, positivi solo per vimentina: 8 casi, 5,7%). Nei diversi gruppi vi è
differente distribuzione tra i sessi: per i T-CD34+, i TML e i
TI, come per i GIST-CD117+, vi è una prevalenza maschile
(M/F: 2/0; 14/9; 3/1; 52/46;), mentre i TSG e TF prevalgono
nelle femmine (1/3; 2/6). L’età media di insorgenza della neoplasie (64,6 anni per i GIST-CD117+) varia da 55,6 anni per
i TF a 69 anni per i T-CD34+. L’età più bassa è di 18 anni per
i TML e la più elevata di 86 anni per i TI. I pazienti sono stati seguiti per un lungo periodo (fino a 293 mesi) con un follow-up medio di 74 mesi. Dei pazienti con GIST-CD117+ i
morti per malattia sono 15 (15,6%), contro il 50%, il 25% e il
4,4% rispettivamente dei pazienti con TI, TSG, TML. Non si
sono osservate morti per malattia tra i pazienti con T-CD34+,
TF, TNG. Tutti i TSG e i T-CD34+ sono localizzati allo stomaco che risulta essere la sede preferenziale anche dei GISTCD117+ (57%); al contrario, i TF sono più spesso localizzati
al digiuno-ileo (75%) e i TML al colon (47,8%). Il diametro
medio maggiore è presente nei T-CD34+ (16,5 cm) contro un
diametro medio di 9 cm, 5,1 cm, 3,1 cm, 1,8 cm rispettivamente per i TI, TF, TSG e TML. I GIST-CD117+ hanno un
diametro medio di 6,8 cm. L’indice mitotico medio, valutato
su 50 campi ad alto ingrandimento, è basso in tutti i gruppi (TCD34+: 1,5; TF: 0,6; TSG: 0,5; TNG: 0; TML: 3,7), eccetto
che per i TI (36,7). Per i GIST-CD117+ il valore medio è 8,4.
La necrosi è presente nel 75% dei TI e nel 32 % dei GISTCD117+, mentre è assente nel 100% dei T-CD34+ e dei TSG,
nel 95,5% dei TML e nell’87,5% dei TF. Le atipie cellulari
sono assenti nell’unico caso TNG; esse sono invece presenti
in tutti i casi di T-CD34+ e TI, e variano dal 37,5% dei casi
per i TF al 75% dei casi per i TSG. L’indice proliferativo (immunoreattività per ki67) è elevato solo per i TI (33,5%); nei
GIST-CD117+ è di 5,3%. Negli altri gruppi di tumori varia tra
l’1% dei T-CD34+ e il 2% dei TSG.
Sono stati considerati clinicamente maligni quei casi in cui i
pazienti sono deceduti per progressione di malattia o hanno
sviluppato metastasi o recidiva. Rispondono a questi criteri 1
T-CD34+ (50%), 1 TF (12,5%), 2 TML (4,4%), 1 TI (33%). I
GIST-CD117+ maligni sono 16 (17%). Applicando a tutta la
PATOLOGIA DIGESTIVA
casistica i criteri proposti da Fletcher et al. 1 per i GIST-CD117,
le neoplasie sono state suddivise, sulla base del diametro massimo e dell’indice mitotico, in quattro categorie di rischio di
comportamento maligno: molto basso, basso, intermedio ed
elevato. L’unico tumore a cellule neurogliali ha un rischio molto basso di sviluppare un comportamento maligno. Il 75% dei
TI appartiene alla categoria a rischio elevato e il 25% è a basso rischio. I TSG sono ugualmente distribuiti (33,3%) tra i primi tre gruppi di rischio. Tra i TF la maggior parte delle neoplasie rientra nei a gruppi a rischio molto basso e a rischio basso (50%; 16,6%), mentre il 33,3% sono a rischio intermedio.
Sia tra i TSG che tra i TF mancano neoplasie a rischio elevato. I TML sono per la maggior parte tumori a rischio molto
basso e basso (61%; 26%), mentre i 2 T-CD34+ sono uno a rischio intermedio e l’altro a rischio elevato (66,6%; 33,3%). I
GIST-CD117+ non mostrano una significativa differenza di distribuzione tra i diversi gruppi di rischio (14,4% molto basso,
24,4% basso, 26,6% intermedio, 34,4% elevato).
I dati sopra riportati dimostrano che il profilo immunofenotipico proposto consente di individuare tipi di tumori stromali
gastroenterici che differiscono oltre che per la diversa distribuzione per sede e per sesso anche per le loro caratteristiche
biologiche. In particolare, tra i tumori CD117 negativi, è possibile identificare neoplasie come i TI e i T-CD34+ che, forse perché meno ben differenziati rispetto agli altri immunofenotipi, mostrano una potenzialità maligna superiore a quella osservata per i GIST-CD117+. I TML e i TSG, invece,
sembrano avere un andamento clinico migliore.
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I polipi serrati del colon
M. Risio
Servizio di Anatomia ed Istologia Patologica, Istituto per la
Ricerca e Cura del Cancro, Candiolo, Torino
“Configurazione Serrata” 1 indica, seppure con impropria traslazione linguistica, l’aspetto dentellato, seghettato dell’epitelio che, unitamente a minime alterazioni architetturali (allungamento della cripta), caratterizza tipicamente i polipi
iperplastici del grosso intestino. L’evento morfogenetico basilare è il rallentamento del flusso di scorrimento delle cellule epiteliali dalla base della cripta di Lieberkhun alla superficie mucosa, che normalmente garantisce il trofismo ed il rinnovamento della mucosa intestinale: il conseguente accumulo cellulare si organizza in forma di salienze endoluminali discrete che nel complesso costituiscono la configurazione serrata 2. Lo spegnimento di alcuni segnali cellula-matrice che
fisiologicamente attivano l’apoptosi in corrispondenza dello
sbocco della cripta (anoikis) e/o un decremento della morte
cellulare programmata compensatoria nel terzo medio-inferiore sono i meccanismi che sottostanno al fenomeno 3. La
proliferazione cellulare è modicamente fluttuante, in dipendenza delle fasi di sviluppo del polipo, ma rigidamente compartimentalizzata come nella cripta normale 4 e garantisce il
raggiungimento omeostatico di uno stato di equilibrio per il
quale la soglia dimensionale dei comuni polipi iperplastici
non eccede il mezzo centimetro 5. Lo scorrimento è finemente sincronizzato con i processi di differenziazione/maturazione cellulare per cui il rallentamento del primo implica necessariamente alterazioni dei secondi. È possibile pertanto di-
251
stinguere, in base alle caratteristiche citologiche dell’epitelio
serrato, polipi iperplastici di tipo a cellule caliciformi, di tipo
microvescicolare ed ipomucinoso 6.
Mentre la configurazione serrata in assenza di displasia è tipica dei polipi iperplastici, di più difficile inquadramento nosografico ed interpretazione diagnostica sono i polipi serrati
nei quali si associ la neoplasia intraepiteliale. Fenomi di collisione con popolazioni cellulari indipendenti ed originariamente neoplastiche sono verosimilmente alla base dei polipi
misti, iperplastici-adenomatosi, in cui l’istologia della componente displastica è quella tipica degli adenomi tubulari 7. Vi
sono invece evidenze per un percorso morfogenetico peculiare che conduce dalla configurazione serrata alla neoplasia
intraepiteliale di alto grado attraverso fasi intermedie di progressiva ingravescenza ed estensione della displasia nel contesto di singoli polipi. Le caratteristiche salienti di tipo architetturale (cripte orizzontali, papille secondarie, microgemmazioni) e citocariologiche (stratificazione ed ipercromasia nucleare, anisocitosi, eosinofilia del citoplasma, deplezione di
cellule endocrine, anomalie citoproliferative) quando presenti su tutta la superficie del polipo consentono l’identificazione dell’adenoma serrato 6. Meno immediato è l’inquadramento dei polipi serrati in cui coesistono settori nettamente confinati e preponderanti di tipo iperplastico accanto ad altri minoritari e sicuramente adenomatosi, oppure diffuse ed importanti alterazioni istotopografiche della citoproliferazione in
assenza di displasia (c.d. “SPAP: serrated polyp with abnormal proliferation” 8), o ancora adenomi tubulo-villosi con
aspetti serrati focali o distrettuali.
I comuni, piccoli polipi iperplastici del retto-sigma sono ritenuti privi di potenziale di trasformazione maligna anche se, per
la loro frequente associazione con vari tipi di lesioni o alterazioni della progressione tumorale del colon sono stati interpretati come lesioni paraneoplastiche 9. La “Neoplasia Serrata”,
che comprende i grossi (0,5-1 cm) polipi iperplastici del colon
prossimale, le poliposi iperplastiche 10, e l’adenoma serrato, è
stata recentemente postulata come precancerosi intestinale 11 12:
tale percorso tumorigenetico alternativo potrebbe corrispondere al 30% dei carcinomi colorettali 13. Dal punto di vista della
genetica molecolare, l’inattivazione di numerosi geni (tra i
quali quelli deputati alla riparazione del DNA, hMLH1 e
hMSH2) tramite la metilazione del promotore (Fenotipo
CIMP, “CpG Island Methylator Phenotype”), è il probabile
meccanismo induttore della sequenza 14 15. La ridotta espressione immunoistochimica delle proteine hMHL1 e hMSH2 e lo
stato di instabilità microsatellitare caratterizzano il profilo molecolare dei polipi serrati con potenziale evolutivo 6 11, mentre
un’alta frequenza di mutazioni k-ras in assenza del fenotipo
CIMP è associata ai polipi iperplastici, non evolutivi, del colon
distale 8. Aspetti serrati sono stati tuttavia osservati anche nei
polipi delle poliposi familiari adenomatose attenuate (AFAP),
sia in famiglie giapponesi con mutazione germinale del gene
APC 16 sia in famiglie italiane con mutazione germinale del gene MYH 17: l’impatto della componente serrata sulla storia naturale della poliposi deve tuttavia ancora essere chiarito.
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Patologia della testa e del collo
Moderatori: G. De Rosa (Napoli) e O. Nappi (Napoli)
Validità dell’immunoistochimica come ausilio
nella diagnostica istologica dei tumori delle
ghiandole salivari
M.P. Foschini, A. Gaiba, A. Righi, V. Eusebi
Anatomia ed Istologia Patologica, Dipartimento di Scienze
Oncologiche, Università di Bologna, Ospedale Bellaria, Bologna
L’inquadramento diagnostico e prognostico delle neoplasie
delle ghiandole salivari può essere difficoltoso, in quanto si
tratta di entità rare che frequentemente presentano una grande variabilità di aspetti morfologici. Nel corso delle ultime
due decadi, l’introduzione delle tecniche di immunoistochimica nella diagnostica ha consentito una migliore tipizzazione di tali neoplasie, sia sotto il profilo diagnostico che prognostico.
Il carcinoma mucoepidermoide (MEC) è composto da diversi
tipi di cellule e l’aspetto morfologico complessivo varia a seconda del tipo cellule prevalente. Si riconoscono cellule basaloidi, cellule epidermoidi, intermedie, colonnari e mucoidi.
Ogni tipo cellulare ha un suo profilo immunoistochimico. Utilizzando anticorpi anti-citocheratina (CK)14, CK7 ed anti mitocondrio si evidenzia come la positività per CK14 e per mitocondrio si dispone alla periferia mentre la positività per
CK7 si trova nella parte centrale dei nidi e delle cisti neoplastiche. Lo stesso tipo di positività viene mantenuto nei MEC
che insorgono nella mammella. Questo tipo di positività è simile a quello osservato nelle cellule dei dotti striati e suggerisce che il MEC si differenzi in tale senso 2. Il MEC viene suddiviso in tre gradi istologici e questo grading ha un risvolto
prognostico molto importante. Tuttavia esistono incertezze riguardo la prognosi dei casi di grado intermedio. Per tipizzare
ulteriormente quest’ultimo gruppo sono stati studiati vari
marcatori. Tra questi è stato suggerito che una elevata espressione di PCNA e Ki67, insieme alla sovraespressione di cErb-B2 sono indicatori di aggressività 3.
Il Carcinoma adenoidocistico (ADCC) e carcinoma epi-mioepiteliale (EMCC) sono neoplasie che presentano una differenziazione sia in senso epiteliale che in senso mioepiteliale.
Pertanto vi è positività per marcatori di entrambi i tipi cellulari. Sono stati studiati numerosi marcatori di differenziamento mioepiteliale, quali actina muscolo liscio, calponina, caldesmone, miosina a catene pesanti, proteina S-100, GFAP ed altri. Tra questi gli anticorpi anti actina muscolo liscio ed anti
calponina sono quelli più frequentemente positivi e pertanto
utilizzabili nella diagnostica quotidiana. Infine nell’ADCC gli
anticorpi anti collagene IV ed anti laminina evidenziano i depositi di membrana basale che caratterizzano la neoplasia. Le
cellule epiteliali sono positive con citocheratine a basso peso
molecolare, quali CK7 e CK8 e con antigene epiteliale di
membrana (EMA). Aspetti prognostici: recentemente sono
stati descritti casi di ADCC dedifferenziati, che hanno avuto
un andamento clinico rapidamente aggressivo 1 4. Le aree dedifferenziate esprimono intensamente c-kit, oltre a presentare
sovra-espressione di c-Erb-B2, p53 ed un elevato indice proliferativo evidenziato con Ki67.
Il carcinoma acinico (CA) mostra una grande varietà di
aspetti morfologici che possono renderne difficile l’interpre-
tazione diagnostica. In generale il CA manca della differenziazione mioepiteliale e mostra un profilo immunoistochimico simile a quello osservato nelle cellule degli acini ghiandolari. In particolare è positivo per CK 7 e CK8 e lisozima. Il
CA inoltre può presentare aspetti di tipo “follicolare” che simulano una metastasi da carcinoma tiroideo. In questi casi,
oltre alla storia clinica, la negatività per TTF-1 e per tireoglobulina, aiutano nella diagnosi differenziale. Inoltre sono
stati descritti recentemente casi di CA dedifferenziati 5. In tali casi per una corretta diagnosi è importante l’identificazione di aspetti tipici di CA.
Carcinoma duttale (CD) delle ghiandole salivari è simile al
carcinoma duttale mammario e può presentarsi nella forma in
situ (CDIS) e nella forma invasiva (CDI), entrambi vanni distinti in forme ad alto e a basso grado di malignità. Sia ai fini prognostici che per differenziare il CD delle ghiandole salivari da una metastasi da carcinoma mammario è importante distinguere le forme prevalentemente o completamente in
situ dalle forme prevalentemente invasive. A tale scopo possono essere utili le colorazioni che evidenziano la membrana
basale, come collagene IV e laminina e le colorazioni che
evidenziano le cellule mioepiteliali e basali, come p63,
CK14, actina muscolo liscio e calponina. IL CDI delle ghiandole salivari è positivo con sieri anti recettori per estrogeno e
progesterone e con siero anti c-Erb-B2 6.
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Biomolecular prognostic markers
in uveal melanoma
S. Staibano
Department of Biomorphological and Functional Sciences,
Section of Pathology, University Federico II of Naples
Uveal melanoma (UM) is the most common primary intraocular malignant tumour. Approximately 40% of patients with
posterior UM develop metastatic melanoma to the liver within 10 years after initial diagnosis. Despite high accuracy of
diagnosis and availability of various methods of treatment,
the mortality due to UM has remained unchanged. Once
254
haematogenous metastasis has occurred, there is no cure for
the disease and there is an obvious need for new biological
prognostic markers to estimate the risk of metastasis.
The prognosis depends on clinical, histopathological and cytological factors. Clinical factors include location, size, and
configuration of the tumour.
Histopathological factors includes firstly the cell type: epithelioid tumours carry a worse prognosis than spindle cell
tumours but, until now, it has not been possible to give a
strong indication of prognosis in mixed-cell tumours, which
represent the majority of uveal melanomas. Other histopathological factors considered as predictors of biological behavior are mitotic activity, microcirculation architecture, tumour-infiltrating lymphocytes and the presence of extrascleral extension.
At the time of diagnosis, many patients already harbor microscopic metastases, thus underscoring a critical need to identify
prognostic markers indicative of metastatic potential.
For these reasons, there is interest in gaining a greater understanding of molecular changes associated with aggressive
disease patterns in UM. This might result in new, more effective and less toxic therapies as well as provide prognostic
information for defining subgroups of patients with a less
favourable prognosis as potential candidates for adjuvant
therapies.
More recently, cytological factors such as cell proliferation,
cytogenetic, and molecular genetic prognostic markers have
been identified with the hope of detecting high risk cases for
adjuvant systemic immune therapy or chemotherapy.
Many of these parameters have only been described once so
that they cannot be considered established markers. A few,
however, such as vascular patterns or genetic changes, were
independently identified by several groups and now constitute recognized prognostic markers. The association of these
factors with the disease course provides us with ever-new insights into the biology of this tumor. In particular, changes in
chromosomes 3 and 8q correlate strongly with a decreased
survival of the patient, whereas chromosome 6 abnormalities
are associated with a better prognosis. Usually, karyotyping
and fluorescence in situ hybridization (FISH) analysis are
used to detect these abnormalities in resected tumor tissues.
Alterations in p53 expression are associated with the expression of the cellular proliferation marker, Ki-67, but are not
associated with the presence of microcirculation patterns 1.
The Cyclin-dependent kinase inhibitory proteins (CKIs) p21
and p27 seem to be involved in tumorigenesis in UM. Cyclin
D1 positivity is an independent prognostic factor after control for other prognostic markers. The expression of cyclin
D1 in uveal melanoma is associated with a more aggressive
course and histologically unfavourable disease 2. This could
serve as a further independent prognostic factor in uveal
melanoma.
The loss of cell adhesion molecules intercellular cell adhesion molecule-1 (ICAM-1) expression has been associated
with an increased risk of metastasis within the first 5 years
after diagnosis.
Also the immunohistochemical analysis of matrix metalloproteinase-2 (MMP-2) MMP-2 seems to have a role in predicting the risk of metastasis in UM, as suggested also for the
cyclooxygenase-2 (COX-2), an inducible prostaglandin (PG)
synthase.
On the contrary, nuclear c-myc oncoprotein has been detected in most of the tumours, and survival analysis revealed a
significant association between high oncoprotein positivity
and improved survival. Nuclear c-myc oncoprotein seems to
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
be an independent prognostic marker more accurate than other clinicopathological parameters. This result is surprising
and in contrast to that concerning cutaneous melanoma, confirming that the pattern of oncogene expression in uveal
melanoma is distinct from cutaneous melanoma and that the
underlying biology of these tumours is quite different. Similarly, the nm23 positivity is inversely associated with scleral
invasion level and largest tumour diameter, which represent
the two most significant prognostic factors for metastasis. On
the other hand, there has not been found any correlation between nm23 expression and other prognostic markers such as
cell type, intraocular location or clinical characteristics.
DNA ploidy and cell cycle measurements of UM tissue are
regarded as having limited prognostic significance. In contrast, dual-parameter (DNA monoclonal antibody) flow cytometry offers a convenient and rapid way to screen tumour
samples for a variety of phenotypic markers, whilst simultaneously measuring DNA ploidy and cell cycle, and therefore
has the increased potential to identify clinically relevant indicators of disease progression. Nucleolar morphometric parameters may also be indicative of biological aggressive behavior 3 4.
Microarray analysis technology has the potential to classify
UM basing on the differential expression of genes. Collaborative, multidisciplinary approach are needed to study the
molecular determinants of human UM invasion and metastasis.
It has to be outlined that UM arise in an immune-privileged
ocular environment, in wich both adaptive and innate immune systems are selectively suppressed. However, reports
of spontaneous regression and the delayed appearance of
metastasis suggest that immunological mechanisms might be
important in this tumor. The prognostic relevance of the characterization of the phenotype of tumor-infiltrating lymphocytes (TILs), correlated with the expression of Fas/FasL on
tumor cells and TILs will be discussed.
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Eterogeneità clonale del carcinoma
squamoso della laringe
L. Resta, F. Sanguedolce, L. Tornillo*, L. Terracciano*
DAPEG, Dipartimento di Anatomia Patologica e di Genetica, Sezione di Anatomia Patologica, Università di Bari; * Institute of Pathology, University of Basel, Switzerland
Tra tutte le neoplasie epiteliali maligne della testa e del collo (HNSCC, head and neck squamous cell carcinoma), il
carcinoma squamoso della laringe costituisce una quota rilevante con un tasso di sopravvivenza globale tuttora basso,
PATOLOGIA DELLA TESTA E DEL COLLO
caratterizzato per l’elevata incidenza sia di recidive sia di
metastasi ai linfonodi locoregionali. In particolare, la presenza di metastasi linfonodali riduce drasticamente la sopravvivenza del 50% rispetto ai pazienti che ne sono privi.
L’incidenza del carcinoma squamoso del laringe è andata
aumentando negli ultimi decenni in diversi Paesi tra cui l’Italia per l’allungarsi dell’aspettativa di vita, ma soprattutto
per gli alti livelli di esposizione a fattori di rischio: questi
sono rappresentati principalmente dal fumo di tabacco e
dall’assunzione di alcool, e poi da sostanze tossiche per inalazione presenti nell’aria inquinata o in particolari ambienti lavorativi. Tra tutti gli organi della testa e del collo, è proprio il laringe, a causa della sua peculiare anatomia, che risente in maniera particolarmente prolungata dell’azione di
tali fattori carcinogenici; nello specifico, il tabacco determina un rischio maggiore per il carcinoma delle corde vocali e della glottide, mentre l’alcool pare correlato allo sviluppo del tumore in sede sovraglottica. Szyfter et al. 1 hanno proposto nel seguente schema un modello di carcinogenesi multifase che può essere applicato alle neoplasie della
testa e del collo in generale, ed al carcinoma della laringe in
particolare: carcinogeni (per es. fumo di tabacco) → danno
al DNA → aberrazioni cromosomiche/mutazioni geniche →
alterata funzione genica → perdita del controllo sul ciclo
cellulare → aumentata proliferazione cellulare → alterazioni istopatologiche → carcinoma squamocellulare della laringe. In base a ciò, il carcinoma della laringe appare caratterizzato da alterazioni cariotipiche complesse, dovute al
progressivo accumulo di multiple mutazioni somatiche che
inducono una selezione positiva di determinati cloni cellulari; ciò può indurre allo sviluppo di cloni e subcloni di cellule neoplastiche citogeneticamente correlati.
La presenza di tali cloni cellulari nell’ambito della stessa
neoplasia, come pure la relativa frequenza di carcinomi squamocellulari multifocali può essere spiegata con il concetto di
“field cancerization” 2: il carcinoma origina in punti diversi
su un’unica area di mucosa stimolata dai carcinogeni, come
appare evidente dalla frequente osservazione di lesioni più
piccole che si uniscono a formare un singolo grosso tumore.
In uno studio condotto in collaborazione con l’Istituto di Patologia dell’Università di Basilea (Svizzera) abbiamo ricercato con la tecnica della CGH (Comparative Genomic Hybridization) la presenza di alterazioni cromosomiche sia sul
tumore laringeo che sulle metastasi linfonodali degli stessi
pazienti. Lo studio ha dimostrato una notevole varietà di alterazioni nell’ambito delle singole neoplasie primitive e differenze tra tumore primitivo e rispettiva metastasi. L’analisi
statistica ha dimostrato una frequenza significativa per determinate alterazioni: aumenti in 5p, 16p, 9p, e perdite in 16q,
9q, 20p. La delezione di 11q23-ter è risultata correlata con
l’età, mentre la delezione di 1q è risultata correlata con una
prognosi peggiore. Alle regioni cromosomiche segnalate corrispondono loci genici già associati in letteratura al carcinoma squamoso della laringe o più in generale della testa e del
collo, tra cui CDNK2A/p16, Rb, DCC 3 4.
L’approfondimento del concetto di eterogeneità clonale nell’ambito dei carcinomi squamosi della laringe risulta di grande interesse per la comprensione della loro genesi e del loro
comportamento biologico.
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L’immunoistochimica nella definizione
diagnostica dei tumori del tratto sinonasale
O. Nappi, A. Boscaino, A. D’Antonio, P. Galloro
U.O. di Anatomia patologica, Azienda Ospedaliera “Antonio
Cardarelli ”, Napoli
Il tratto sinonasale rappresenta un unico distretto anatomofunzionale, dal quale possono originare proliferazioni neoplastiche e similneoplastiche molto diversificate. La presentazione clinica è frequentemente costituita da un polipo o da
una poliposi, spesso clinicamente diagnosticati come infiammatori, più raramente da voluminose masse occupanti gli
spazi sinusali. Poiché, a causa delle caratteristiche anatomiche della sede, una ragionevole radicalità, in caso di malignità, è garantita solo da interventi chirurgici molto demolitivi, è assolutamente perentoria la massima accuratezza diagnostica.
Sebbene per alcune lesioni l’aspetto morfologico microscopico è peculiare, in molti casi lo studio immunoistochimico è
contributivo o determinante per una corretta diagnosi.
Le più frequenti problematiche che il patologo è chiamato ad
affrontare riguardano:
1. Natura di proliferazione ghiandolare atipica
L’immunoistochimica può dar un contributo considerevole
nella distinzione tra i vari tipi di adenocarcinomi (di origine
salivare e non salivare e, tra questi ultimi, di origine enterica
e non enterica 1). Poco efficace è invece nella distinzione tra
proliferazione ghiandolare reattiva, nell’ambito di polipi infiammatori o sinusiti croniche, e neoplastica.
2. Istogenesi di neoplasia a grandi cellule epitelioidi
Sono molte le neoplasie di questo distretto caratterizzate da
grandi cellule epitelioidi, in particolare: carcinomi scarsamente differenziati, melanomi, plasmacitomi anaplastici,
linfomi a grandi cellule. Anche i rari casi di cordoma che si
presentano come polipi nasali, possono almeno parzialmente
rientrare in questa tipologia morfologica. Inutile sottolineare
che in questa area diagnostica l’immunoistochimica gioca un
ruolo determinante 2 3.
3. Istogenesi di neoplasia a piccole cellule
Le neoplasie a piccole cellule in questo distretto sono principalmente rappresentate dal neuroblastoma olfattorio e dallo
SNUC (Sinonasal undifferentiated carcinoma 4); esse vanno
differenziate dal carcinoma neuroendocrino a piccole cellule,
dal carcinoma squamocellulare non cheratinizzante a piccole
cellule, dalla variante solida di carcinoma adenoideo-cistico,
dal melanoma a piccole cellule, dal PNET/Ewing sarcoma,
dal condrosarcoma mesenchimale oltre che, naturalmente, dai
linfomi a cellule di piccola/media taglia ed in particolare dal
T/NK cell lymphoma nasal-type. Il rabdomiosarcoma embrionario, alveolare o misto, va ovviamente considerato soprattutto, anche se non esclusivamente, nell’età pediatrica. Non va,
inoltre trascurata la possibilità di adenomi pituitari ectopici
che si presentano con una morfologia a piccole cellule 5. In
256
questa area morfologica, l’immuno-istochimica appare indispensabile per un inquadramento diagnostico corretto.
4. Istogenesi di proliferazione a cellule fusate
Carcinomi sarcomatoidi, sarcomi di vario tipo e melanomi in
questo distretto possono esibire una morfologia a cellule fusate. Fibromatosi sinonasali sono state anche descritte.Va
senz’altro menzionata la frequente presenza in polipi infiammatori, di cellule bizzarre di origine stromale, che in casi selezionati possono arrivare a simulare un sarcoma. Di particolare interesse, inoltre, la possibilità di riscontrare un meningioma extracranico 6 e una ectopia gliale. È inutile sottolineare l’importanza dello studio immunoistochimico in questo
tipo di diagnostica differenziale.
5. Istogenesi di proliferazione vascolare
Tra i tumori vascolari, il tumore emangiopericitoma-simile
sinonasale 7 8 va differenziato dal glomangioma, dall’angioma
capillare lobulare, dal tumore solitario fibroso, dal sarcoma
di Kaposi e da angiosarcomi soprattutto se con presentazione
morfologica insolita.
Frequenti episodi infiammatori e di epistassi possono, peraltro, produrre in questa sede tessuto di granulazione particolarmente esuberante e simulante un tumore vascolare.
La morfologia microscopica è sicuramente prioritaria in questa diagnostica differenziale; tuttavia, valutazioni immunoistochimiche mirate (per esempio l’immunopositività per CD34
nel Tumore solitario fibroso) sono sicuramente di supporto.
Su materiale bioptico o su prelievi citologici agoaspirativi, la
diagnostica differenziale è spesso più complessa e ancora
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
maggiore può essere l’utilità di un accurato studio immunoistochimico.
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Tumori della mammella
Moderatori: S. Bianchi (Firenze) e G. Viale (Milano)
La nuova classificazione TNM:
implicazioni diagnostiche e cliniche
R. Arisio
Servizio di anatomia e Istologia Patologica e Citodiagnostica, Ospedale Sant’Anna, A.O. O.I.R. Sant’Anna, Torino
La classificazione TNM di UICC e AJCC sono identiche.
Nel 2002 è stata pubblicata la VI edizione del TNM, che è entrata in uso a partire dal 1/1/2003 come raccomandazione
dall’AJCC (American Joint Cancer Committee) e dal UICC
(International Union against Cancer).
Sono state apportate modifiche in molte sedi anatomiche, e
tra queste è compresa la mammella, soprattutto a carico dei
linfonodi regionali, riguardanti le cellule isolate, le micrometastasi, il linfonodo sentinella. Tali innovazioni della VI edizione cambiano sensibilmente le “categorizzazioni” N e pN,
e in parte anche il raggruppamento in stadi.
Le micrometastasi vengono distinte dalle cellule tumorali
isolate in base alle dimensioni e all’evidenza istologica di
malignità, per esempio, proliferazione o reazione stromale.
Sono stati introdotti simboli specifici per segnalare l’impiego
della biopsia del linfonodo sentinella e delle tecniche di indagine immunoistochimica e molecolare.
La classificazione principale dello stato linfonodale ascellare
si basa sul numero di linfonodi ascellari metastatici rilevati
con l’esame istologico standard con ematossilina eosina o
mediante immunoistochimica.
È stata introdotta la categoria N3 per la classificazione delle
metastasi linfonodali infraclavicolari e sopraclavicolari, che
non sono più considerate M1. Sono state riclassificate le metastasi nei linfonodi mammari interni, in base al metodo di
identificazione e alla presenza o assenza di metastasi linfonodali ascellari. Le micrometastasi nei linfonodi mammari
interni rilevate mediante linfonodo sentinella con linfoscintigrafia, ma senza l’ausilio dell’imaging radiologico o della
valutazione clinica, sono classificate N1. La presenza di
linfonodi mammari interni microscopicamente interessati, rilevabile mediante l’imaging radiologico (a eccezione della
linfoscintigrafia) o all’esame clinico è stata classificata N2,
se non associata a metastasi linfonodali ascellari, o N3, in
presenza di metastasi linfonodali ascellari.
Scompaiono le sottocategorie basate sulla diffusione perilinfonodale (pN1b3), sulle dimensioni delle metastasi superiori a 20 mm (pN1b4) e sulla presenza di pacchetti linfonodali o fusione alle strutture vascolo-nervose dell’ascella
(pN2).
pNX. I linfonodi regionali non possono venire definiti (non
sono stati prelevati per venire esaminati o sono stati rimossi
in precedenza).
pN0. Non metastasi nei linfonodi regionali *.
*
Casi con sola presenza di cellule tumorali isolate (ITC) nei linfonodi
regionali sono classificati come pN0. Le cellule tumorali isolate (ITC)
sono singole cellule tumorali o piccoli gruppi di cellule la cui dimensione massima non supera 200µ e che sono generalmente rilevate mediante metodi di immunoistochimica (i+) o di analisi molecolare
(mol+), ma possono essere rilevate anche con colorazione ematossilina-eosina.
pN1mi Micrometastasi (delle dimensioni massime comprese
tra 200µ e 2 mm).
pN1 Metastasi a 1-3 linfonodi ascellari omolaterali, e/o linfonodi mammari interni omolaterali con metastasi microscopica rilevata valutando il linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabile.
pN1a Metastasi in 1-3 linfonodi ascellari, con almeno una
metastasi delle dimensioni >2mm.
pN1b Linfonodi mammari interni con metastasi microscopica rilevata valutando il linfonodo sentinella (non clinicamente rilevabile).
pN1c Metastasi in 1-3 linfonodi ascellari e linfonodi mammari interni con metastasi microscopica rilevata valutando il
linfonodo sentinella (non clinicamente rilevabile).
pN2 Metastasi in 4-9 linfonodi ascellari omolaterali, o in
linfonodi mammari interni omolaterali clinicamente rilevabili in assenza di metastasi in linfonodi ascellari.
pN2a Metastasi in 4-9 linfonodi ascellari, con almeno una
metastasi delle dimensioni >2mm.
pN2b Metastasi clinicamente rilevabile in linfonodi mammari interni, in assenza di metastasi in linfonodi ascellari.
pN3 Metastasi in ≥ 10 linfonodi ascellari omolaterali; o in
linfonodi sottoclavicolari omolaterali; o metastasi clinicamente rilevabili in linfonodi mammari interni omolaterali in
presenza di metastasi in uno o più linfonodi ascellari; o in >
3 linfonodi ascellari con metastasi microscopiche, clinicamente negative, in linfonodi mammari interni; o in linfonodi
sovraclaveari omolaterali.
pN3a Metastasi in ≥ 10 linfonodi ascellari (almeno una metastasi delle dimensioni massime > 2 mm) o metastasi in linfonodi sottoclavicolari.
pN3b Metastasi clinicamente rilevabili in linfonodi mammari interni in presenza di metastasi in linfonodi ascellari; o metastasi in > 3 linfonodi ascellari e linfonodi mammari interni
con metastasi microscopiche rilevate valutando il linfonodo
sentinella ma non clinicamente rilevabili.
pN3c Metastasi in linfonodo(i) sovraclaveare(i)
Note:
1. non clinicamente rilevabile = non rilevabile mediante esame clinico o diagnostica per immagini (esclusa la linfonoscintigrafia);
2. clinicamente rilevabile = rilevato mediante esame clinico
o diagnostica per immagini (esclusa la linfoscintigrafia) o
macroscopicamente visibile al campionamento patologico.
È inoltre consigliato di riportare il numero di linfonodi metastatici e quello del totale di linfonodi reperiti nella forma
(#met/#tot).
Nel caso di linfonodo sentinella positivo al quale segua la
dissezione ascellare, è opportuno riportare il pN conclusivo,
il totale dei linfonodi metastatici ed il totale dei linfonodi reperiti (compresi il/i sentinella)
Parametri opzionali sono inoltre: la definizione di tumore
multiplo e il numero dei foci: pT # (m)(#); la codifica del tumore residuo dopo trattamento chirurgico primario (pR), delle recidive (r pT#), delle persistenze dopo trattamento neoadiuvante (y pT), dell’invasione venosa (V 0-1), dell’invasione linfatica (L 0-1) e del grado (G 1-3).
La “formula” finale del TNM può essere espressa quindi come:
258
[y r c p[Tis,1-4(a-d) (m)(4) X]; N0-3(a-c)(mi)(sn)(i)(mol)
(3/17)X; M0-1(mi)(i)(mol)X; V0-2; L0-1; G1-3; R0-2]
Discordanze tra T clinico, T strumentale, T patologico
1) Discordanza tra T clinico e T mammografico o ecografico:
il supplemento al TNM propone di effettuare la media aritmetica delle misure e quindi applicare il T corrispondente
2) Presenza di embolizzazione linfatica dermica in assenza di
segni clinici di cute a buccia d’arancia o ulcerazione: la lesione viene classificata con il T pertinente alle dimensioni;
il criterio per la classificazione in T4 è quello clinico o patologico, ma solo nel caso di ulcerazione cutanea o del capezzolo.
3) Presenza di emboli linfatici nell’adipe ascellare con o senza mts linfonodali: non varia il T o l’N. Per la descrizione
dell’invasione linfatica si può usare il parametro opzionale L (linfatici).
Predire lo stato del linfonodo sentinella e dei
linfonodi ascellari non sentinella
E. Orvieto
Unità complessa di Anatomia, Istologia Patologica, Citodiagnostica e Citogenetica, Ospedale Ca’ Foncello, Azienda
ULSS 9, Treviso
La valutazione della presenza di metastasi nei linfonodi
ascellari nel carcinoma della mammella viene ritenuto un dei
più potenti fattori prognostici.
Un numero variabile dal 60 al 70% di pazienti con carcinoma della mammella risulta comunque libero da metastasi
linfonodali 1.
La metodica del linfonodo sentinella (SLN) si è in questi anni rivelata estremamente utile al fine di studiare accuratamente lo stato dei linfonodi ascellari nel carcinoma della
mammella, permettendo di risparmiare la dissezione ascellare qualora il linfonodo sentinella stesso risulti esente da metastasi.
Lo studio del linfonodo sentinella con livelli multipli 2 si è dimostrato efficace nel predire lo stato linfonodale con una percentuale contenuta di falsi negativi. Tale affermazione risulta
ancor più valida qualora si consideri che, la metodica classica di analisi dei linfonodi da dissezione ascellare si è dimostrata, in studi retrospettivi, inadeguata nello stadiare correttamente lo stato linfonodale in percentuali variabili dal 10 al
20% 3.
L’applicazione dello studio del linfonodo sentinella ha permesso di migliorare la stadiazione linfonodale consentendo
di individuare un maggior numero di micrometastasi, fino alla individuazione di cellule tumorali isolate (ITC).
Una estesa e accurata analisi del SLN, permette un incremento sostanziale della accuratezza della stadiazione rispettivamente al 8,3% nei T1a, 19,6% nei T1b, 35,4% nei T1c,
49,9% nei T2, 61,8% nei T3-T4. Questo dato, sembra poter
dare un’interpretazione riguardo alla osservazione, in epoca
pre-sentinella, della presenza di un gruppo di pazienti N0 che
risultavano avere un comportamento clinico sfavorevole.
L’incremento della rilevazione di metastasi nel linfonodo
sentinella, va in parte ascritta all’aumento del numero di micrometastasi individuate, grazie ad una estesa analisi con elevato numerosi di livelli esaminati 4, come anche all’uso di
metodiche immunoistochimiche. I risultati di ampie casistiche evidenziano come in 35-40% dei casi vengono individuate solo micrometastasi (< 2 mm) nel linfonodo sentinella
esaminato. Questa elevata incidenza di micrometastasi ha po-
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sto il quesito se, qualora vi fosse la presenza di una sola micrometastasi, si potesse ugualmente risparmiare lo svuotamento linfonodale complementare che risulta attualmente lo
standard terapeutico. Le risposte a questo quesito sono controverse in quanto, differenti studi evidenziano la presenza di
ulteriori metastasi nei non-SLN in percentuali variabili dal
7,6 5 al 22% dei casi 4 in cui il SLN presentava una micrometastasi. La interpretazione di queste diversità va probabilmente ricercata nell’accuratezza con cui si esaminano i nonSLN, ma comunque evidenziano un rischio non trascurabile.
Le informazioni che giungono dagli studi sulle micrometastasi mettono in evidenza l’esistenza di una relazione tra le
dimensioni delle micrometastasi nel SLN e la probabilità della presenza di ulteriori foci metastatici nei non-SLN.
Dalla casistica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano,
su più di 1200 linfonodi sentinella metastatici, si evidenzia
che il 17% dei pazienti con micrometastasi al sentinella inferiori ad 1mm o con ITC, hanno ulteriori metastasi linfonodali e che questa percentuale sale rispettivamente al 30% se la
micrometastasi è da 1-2 mm, per poi raggiungere il 50% se
superiore a 2 mm. La presenza di invasione vascolare peritumorale (PVI) nel tumore primitivo risultava correlarsi significativamente alla presenza di micrometastasi linfonodali.
Pazienti con micrometastasi ad un singolo SLN < 1 mm e con
PVI nel tumore primitivo hanno un rischio di metastasi ai
non-SLN statisticamente più basso rispetto a pazienti con 2 o
più SLN con micrometastasi > 1 mm e PVI.
Queste affermazioni, confermano la necessità dello svuotamento linfonodale completo in presenza, nel SLN, di micrometastasi o di ITC, in quanto anche in quest’ultimo caso residua un 10% di probabilità di ulteriori metastasi. Allo stesso
modo pongono la necessità di rivalutare il cut-off dei 2 mm,
come discriminante tra macro e micrometastasi, considerando la bassa percentuale di ulteriori localizzazioni, qualora si
individuino micrometastasi inferiori a 1 mm nel linfonodo
sentinella. Questo consentirebbe di migliorare la selezione di
gruppi di pazienti a differente rischio di progressione da avviare a chemioterapia adiuvante.
Se la dimensione della metastasi al SLN può predire la presenza di ulteriori metastasi ci si è chiesto se i parametri clinicopatologici della neoplasia primitiva, potessero predire le
metastasi al linfonodo sentinella. Dall’analisi di un’ampia casistica di più di 4300 casi di carcinoma mammario infiltrante trattati con la tecnica del linfonodo sentinella presso lo
IEO di Milano, si sono evidenziati 5 parametri clinicopatologici che possono predire lo stato del SLN: dimensioni, istotipo, multifocalità presenza di PVI e espressione del recettore
per il progesterone. Tra questi le dimensioni del tumore e
l’invasione vascolare peritumorale sembrano i parametri
maggiormente informativi. Il loro utilizzo permette di individuare differenti categorie di rischio. Basso rischio di metastasi al linfonodo sentinella (10%) si ha per tumori inferiori a
1 cm di istotipo favorevole (mucinoso, cribriforme, tubulare)
senza invasione vascolare. Un gruppo ad alto rischio (77%) è
invece rappresentato da carcinomi di dimensioni superiori a
2 cm con PVI. Questi dati confermano che tumori con caratteristiche clinicopatologiche favorevoli hanno comunque un
rischio (10%) tale da rendere anche in questi casi indicata la
biopsia del linfonodo sentinella.
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Screening CRR CSPO, Firenze
La BP sta assumendo un ruolo cruciale nell’inquadramento
della patologia mammaria e sta in parte sostituendo la FNAC
come prima modalità di diagnosi preoperatoria, sia nelle lesioni palpabili, sia nelle lesioni precliniche con solo evidenza mammografica e/o ecografica. L’utilizzo della BP in sostituzione della FNAC appare giustificato in considerazione di
vari fattori: più elevati livelli di sensibilità e specificità; riduzione di prelievi inadeguati, di lesioni dubbie e sospette ed in
particolare la possibilità di diagnosticare un carcinoma in situ o invasivo con l’opportunità di pianificare il trattamento
terapeutico in fase preoperatoria.
I limiti della BP, legati essenzialmente al fatto che si tratta di
un campionamento parziale, emergono soprattutto nei casi in
cui venga diagnosticata un’iperplasia duttale atipica (ADH) o
un carcinoma duttale in situ (DCIS). In riferimento alla ADH,
numerosi studi hanno dimostrato una notevole discordanza
fra la diagnosi su BP e la diagnosi definitiva su biopsia chirurgica: dopo una diagnosi di ADH su BP viene evidenziata
una neoplasia maligna dopo exeresi chirurgica nel 13-66%
dei casi. La diagnosi di ADH su BP costituisce, pertanto, una
indicazione assoluta all’exeresi della lesione 1 2. D’altra parte
è noto come la definizione di ADH fa riferimento a una combinazione di criteri sia morfologici che dimensionali valutabili solo su biopsie chirurgiche e, proprio per il tipo di campionamento, una accurata diagnosi di ADH non è possibile
sulla BP. Per questo motivo l’ultima edizione delle Linee
Guida Europee per la patologia mammaria in corso di screening mammografico 3 stabilisce che la diagnosi di ADH su
BP è inappropriata, sostituendola con quella di “proliferazione epiteliale atipica di tipo duttale”. Questa categoria diagnostica, da refertare B3, comprende oltre ai quadri di ADH,
altre due entità caratterizzate da un minor grado di atipia cito-architetturale: le modificazioni a cellule colonnari con atipia e l’iperplasia a cellule colonnari con atipia 4. Analogamente a quanto osservato in riferimento alla ADH, anche il
reperto di modificazioni a cellule colonnari/iperplasia a cellule colonnari con atipia su BP impone l’asportazione chirurgica della lesione, in quanto in circa un terzo dei casi viene
evidenziata una lesione di maggiore gravità dopo l’exeresi 4.
259
La diagnosi di DCIS su BP non può escludere la presenza
di carcinoma invasivo per la limitatezza del campionamento della lesione: il 15-20% dei casi di DCIS diagnosticato
su BP diventano carcinomi invasivi dopo escissione chirurgica 5.
Recentemente è stato riportato che l’utilizzazione dell’aspirazione automatica (VACB) tipo mammotome, con ago 11G,
a confronto con i prelievi con ago 14G tipo tru cut riduce, pur
non eliminandola, la sottostima della ADH (11-35% vs 4456%, rispettivamente) e del DCIS (5-15% vs 20-50%, rispettivamente) 2 6. Ciò può essere correlato al maggior numero di
prelievi che si ottengono con la VACB rispetto alla core biopsy con ago 14G, sia alla maggior quantità di tessuto che si
ottiene con l’ago 11G: il diametro dei frustoli è infatti di 3
mm contro 1 mm di quelli ottenuti con l’ago 14G. Tuttavia
anche utilizzando la VACB la sottostima del DCIS risulta
inevitabile in un certo numero di casi, in quanto il target della BP sono le microcalcificazioni, che di solito sono presenti
nel DCIS ma raramente sono localizzate nella componente
invasiva associata al DCIS 5.
La neoplasia lobulare intraepiteliale o LIN 7, comprendente
l’iperplasia lobulare atipica ed il carcinoma lobulare in situ,
viene solitamente identificata sulla BP come reperto incidentale, associata a lesioni rilevate mammograficamente. La diagnosi su BP di LIN, categoria B3, non riveste lo stesso significato clinico della diagnosi di ADH o di DCIS non richiedendo, di per sé, un trattamento chirurgico. L’asportazione
chirurgica della lesione diviene però necessaria qualora la
LIN sia associata ad ADH o nei casi in cui il quadro patologico non risulti rappresentativo dell’alterazione mammografica per cui è stata effettuata la BP 8.
L’esperienza del gruppo fiorentino che lavora in ambito senologico ci consente di mettere a confronto le due metodiche
di BP, VACB e tru cut, su due diverse casistiche, al fine di valutare la loro performance in termini di sottostima con riferimento, in particolare, alla iperplasia duttale atipica (ADH) ed
al carcinoma duttale in situ (DCIS). I 12 casi di ADH diagnosticati su core biopsy con ago 14G sono risultati sulla biopsia chirurgica (BC): 16,6% patologia benigna, 25% è stata
confermata la presenza di ADH, 33,4% DCIS e 25% carcinoma invasivo con una sottostima complessiva (DCIS + invasivo) pari al 58,3%. I 25 casi di ADH diagnosticati su mammotome con ago 11G sono risultati sulla BC: 36% patologia
benigna, 32% ADH, 24% DCIS e 8% carcinoma invasivo con
una sottostima complessiva (DCIS + invasivo) del 32%. I 43
casi di DCIS su core biopsy sono stati confermati tali su BC
nel 69,8% mentre nel 30,2% sono risultati carcinomi invasivi. I 170 casi di DCIS su mammotome sono stati confermati
sulla BC nell’82,9%, mentre nel 17,1% sono risultati carcinomi invasivi.
In conclusione, la BP con sistema mammotome sembra evidenziare una minore sottostima di DCIS e/o carcinoma invasivo nei casi diagnosticati come ADH e di carcinoma invasivo nei casi diagnosticati come DCIS; questo a fronte di maggiori costi operativi rispetto alla core biopsy.
Bibliografia
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Ely KA, Carter BA, Jensen RA, et al. Core biopsy of the breast with
atypical ductal hyperplasia. A probabilistic approach to reporting.
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Schnitt SJ, Vincent-Salomon A. Columnar cell lesions of the breast.
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Lee CH, Carter D, Philpotts LE, et al. Ductal carcinoma in situ diagnosed with stereotactic core needle biopsy: can invasion be predicted? Radiology 2000;217:466-470.
Kettritz U, Rotter K, Schreer I, et al. Stereotactic vacuum-assisted
breast biopsy in 2874 patients. A multicenter study. Cancer
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World Health Organization Classification of Tumours. Tavassoli FA,
Devilee P, eds. Pathology and Genetics of Tumours of the Breast and
Female Genital Organs. IARC Press, Lyon, 2003.
Renshaw AA, Cartagena N, Derhagopian RP, et al. Lobular neoplasia
in breast core needle biopsy specimens is not associated with an increased risk of ductal carcinoma in situ or invasive carcinoma. Am J
Clin Pathol 2002;117:797-799.
Valore prognostico e predittivo dei profili
di espressione genica nel carcinoma
della mammella
S. Pece
Istituto Europeo di Oncologia e Università di Milano, Milano
Nel corso degli ultimi anni è drammaticamente aumentata la
nostra comprensione dei meccanismi molecolari alla base dei
processi di tumorigenesi. Numerosi oncogeni con funzione
dominante ed oncosoppressori con meccanismo recessivo
sono stati identificati e correlati con differenti manifestazioni
patologiche di tipo displastico e neoplastico. Allo stato attuale
delle conoscenze, la malattia neoplastica è considerata come
un processo multifasico durante il quale differenti lesioni
genetiche si accumulano progressivamente in una cellula
bersaglio normale, determinando nel tempo lo sviluppo del
fenotipo maligno con variabile grado di aggressività. Tuttavia,
non è stato possibile, se non in rare eccezioni, correlare
specifici stadi evolutivi della progressione neoplastica con la
sovversione funzionale di determinati meccanismi molecolari.
In modo particolare, sono ancora quasi completamente
sconosciuti gli eventi molecolari alla base dell’insorgenza del
fenotipo metastatico. La stadiazione clinica e le comuni
indagini anatomopatologiche rappresentano le procedure
standard per classificare i tumori e stabilire significative
correlazioni clinico-prognostiche. A tale riguardo, nel corso
degli anni, sono stati sviluppati differenti algoritmi nel
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
tentativo di predire la storia naturale del tumore in un
determinato paziente, in relazione alla prognosi e alla
suscettibilità di risposta alla terapia. Tuttavia, nonostante
l’enorme validità di tali algoritmi nell’identificazione delle più
appropriate strategie terapeutiche, non è ancora possibile
escludere completamente l’eventualità di “over-treatment” in
pazienti la cui storia naturale del tumore avrebbe una buona
prognosi anche in assenza di trattamento, oppure di trattamenti
inutili in pazienti che, nonostante la terapia adiuvante
citotossica con gli effetti collaterali inevitabilmente connessi,
sono destinati allo sviluppo di malattia metastatica. Fatta
eccezione per particolari condizioni in cui i risultati delle
indagini immunoistochimiche rappresentano effettivamente
una indicazione alla terapia specifica, come nel caso della
caratterizzazione immunofenotipica per i recettori per gli
estrogeni e HER-2, in termini più generali, il clinico non ha
purtroppo a disposizione specifici ‘markers’ che possano
orientarlo nella scelte terapeutiche e predire la risposta alla
terapia di elezione. L’avvento dell’era post-genomica con
l’utilizzo di tecnologie ad elevata performanza
(‘highthroughput’ DNA and Tissue Microarray) consente lo
studio simultaneo e sistematico dei profili di espressione di
migliaia di geni correlati con differenti tipi di neoplasie oppure
con differenti stadi evolutivi della medesima malattia
tumorale. Attraverso tale approccio sarà possibile identificare
geni o gruppi di geni (‘clusters’) i cui livelli di espressione
risultino tipicamente alterati in determinate condizioni, con la
conseguente possibilità di discriminare sottoclassi di tumori
clinicamente simili i quali, esibendo un profilo genico
differente, sono verosimilmente caratterizzati da una differente
storia naturale della malattia. L’analisi sistematica dei profili di
espressione genica consentirà una migliore comprensione
della complessità biologica dei tumori di quanto non sia
attualmente possibile sulla base delle caratteristiche
patologiche e del limitato numero di marcatori
immunoistochimici a disposizione. Nel complesso, tale
approccio renderà possibile un migliore inquadramento clinico
e l’ottimizzazione dei correnti protocolli terapeutici su base
individuale. È possibile immaginare un futuro scenario nel
quale, sulla base della identificazione di profili genici
caratteristici di differenti tipi di tumori, si possa procedere ad
una nuova classificazione delle neoplasie su base
meccanicistico-molecolare e, in termini di strategie
terapeutiche, allo sviluppo di terapie farmacologiche disegnate
sulla base dei profili molecolari della neoplasia.
PATHOLOGICA 2004;96:261-264
Didattica e-learning
Moderatori: D. Bauer (Milano) e G. Monga (Novara)
E-learning: un nuovo paradigma didattico?
Aspetti metodologici e tecnologici
F. Bianchi, I. Pinelli
Fig. 2. Classificazione in base alle modalità di erogazione- corso
principale in aula con “appendici” di supporto più o meno strutturate dove il “sito-web” abbia però predominanza (web based).
Ctu-Centro di servizio per le tecnologie e la didattica universitaria multimediale e a distanza, Università di Milano
Abstract: in questa relazione si conduce una sintetica panoramica degli aspetti metodologici e tecnologici del sistema
eLearning con considerazioni sulle prospettive di sviluppo
futuro in ambito universitario.
1.Aspetti metodologici
1.1. Lo scenario. Gli ultimi anni hanno visto un aumento
esponenziale di progetti che favoriscono azioni di eLearning
sia a livello europeo * sia a livello nazionale **. A queste sollecitazioni sono state date risposte da parte di istituzioni pubbliche, private e partnership congiunte ***.
Come rispondono le università alla sfida lanciata dalla Commissione Europea e dal Governo Italiano? In che modo l’uso
delle tecnologie didattiche deve essere inserito nel contesto
universitario? Lo studio comparativo condotto dal CHEPS 1
individua 4 scenari di possibile sviluppo del rapporto di integrazione fra tecnologie didattiche e formazione: lo scenario
più plausibile per il futuro sarà quello di tipo “evolutivo”
(Fig. 1 - scenario C) caratterizzato da:
– cambiamento lento e non radicale delle attività formative;
– combinazione mista dell’offerta didattica dove la didattica
d’aula riveste sempre un ruolo autorevole;
– formazione dei docenti e studenti alle nuove tecnologie didattiche.
Fig 1. I 4 scenari del futuro: integrazione fra “tecnologie didattiche e formazione”.
1.2 Modelli di erogazione. A fronte dello sviluppo incrementale della didattica supportata dalle nuove tecnologie, è nata
l’esigenza di sistematizzare il panorama dell’offerta formativa, dando la giusta collocazione e risalto all’aspetto pedagogico e a quello tecnologico. Possono essere condotte due tipologie di classificazioni fra loro integrate: la prima in rapporto alle modalità di erogazione (Figg. 2-4), la seconda in
rapporto all’impostazione pedagogica del corso (Fig. 5).
Le variabili su cui si fondano le possibili soluzioni di un progetto eLearning sono dunque principalmente 3: studenti/docenti, strategie didattiche, tecnologie da utilizzare.
2. Aspetti tecnologici: le differenti piattaforme e tipologie di
apprendimento.
La selezione e la messa a punto di un sistema di erogazione
e supporto alle attività online ha implicazioni di ordine economico, metodologico-didattico, organizzativo. Il problema
dell’infrastruttura può essere affrontato puntando su due soluzioni alternative.
La prima soluzione consiste nel dotarsi di un’infrastruttura
tecnologica minima, puntando il focus più sulle interazioni
interpersonali “tutor -studente” e “studente-studente” e, conseguentemente, su figure professionali in grado di gestire
quelle stesse interazioni. In questa soluzione si tendono a
Fig. 3. Classificazione in base alle modalità di erogazione - corso
come sistema integrato di elementi in presenza e a distanza
(blended).
*
**
***
L’eLearning Action Plan e il Minerva Action under Socrates II sono
i più noti e visibili.
A livello italiano ricordiamo a titolo esemplare il Decreto MorattiStanca sulle “Università telematiche” (GU n. 98 del 29-4-2003).
In seguito al Decreto Moratti-Stanca sono nate 2 università telematiche: la “Guglielmo Marconi” (1 marzo 2004) e la “Tel.m.a” (15 maggio 2004).
262
Fig. 4. Classificazione in base alle modalità di erogazione- corso
come sistema di strategie che si integrano in un percorso formativo progettato interamente a distanza/online (distance learning).
usare soprattutto tecnologie di rete di cui tutti gli attori coinvolti sono abitualmente dotati (ad esempio la mail), introducendo al limite col passare del tempo alcuni strumenti e ambienti software per risolvere problemi specifici.
L’altra soluzione consiste nell’adottare una vera e propria
piattaforma tecnologica strutturata sulle specifiche esigenze
dell’esperienza formativa e sulla quale prenderà vita il corso.
La piattaforma è dunque l’ambiente dove hanno luogo: l’interazione tra “tutor/docente-studente”, “studente-risorse” e
“studente-studente”; l’erogazione del materiale didattico e
l’esecuzione delle attività correlate; il monitoraggio dell’andamento; la gestione di studenti e classi; la verifica dell’apprendimento e l’archiviazione dei dati. Questi ambienti tecnologici, che integrano le funzionalità di più strumenti specifici, sono chiamati groupware.
La scelta della piattaforma tecnologica tiene dunque conto
della stretta relazione tra le problematiche organizzative, le
aspettative dei destinatari dell’esperienza e le caratteristiche
degli strumenti utilizzabili, per poter così situare meglio lo
strumento o gli strumenti da utilizzarsi rispetto agli obiettivi
dell’esperienza formativa.
3. Conclusioni
Oggi l’eLearning, a livello universitario, è prevalentemente
usato in modalità web based (in sostituzione alle dispense
Fig. 5. Classificazione sulla base dell’impostazione pedagogica
del corso 2-3.
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
Fig. 6. I 3 assi su cui si deve sviluppare il piano strategico di integrazione e sviluppo dell’eLeraning 4.
tradizionali perché più pratico e maneggevole) e in modalità
blended o distance learning per le soluzioni più sperimentali e che implicano un maggiore impegno sia progettuale che
di risorse. Molte università dichiarano di avere stabilito una
propria “policy” riguardo all’introduzione dell’eLearning
nel proprio piano formativo, ma spesso senza un piano strategico di attuazione, lasciando così la determinazione dello
stesso alle facoltà/dipartimenti con conseguenti differenze di
soluzioni all’interno della stessa università. Lo sviluppo di
piani strategici strutturati è dunque la sfida principale da realizzarsi a livello sia delle singole istituzioni che nazionale
(Fig. 6).
Concludiamo con alcune raccomandazioni per le singole università in materia di eLearning:
a) stabilire il target degli studenti per i prossimi anni e in base a questo definire il piano della ricerca, della multidisciplinarietà, del ritorno sull’investimento;
b) avere una propria strategia “evolutiva” sia a livello formativo che tecnologico: ovvero definire il modello pedagogico
e in base a questo scegliere la tecnologia più adatta;
c) stimolare la ricerca di strumenti tecnologici innovativi che
possano essere di aiuto ai docenti;
d) delineare una strategia di formazione e motivazione dei
docenti per passare da un uso “improvvisato” delle tecnologie didattiche ad una adozione di strategie specifiche verso
sia un rinnovamento e sia una maggiore qualità della didattica universitaria.
Bibliografia
1
Calvani A, Rotta M. Fare formazione in internet: manuale di didattica online. Erikson, Trento, 2000.
2
Collis B, Van de Wende M. Models of Technology and Change in HE:
an international comparative survey on the current and future use of
ICT in Higher Education. CHEPS-Center for Higher Education Policy Studies, December 2002.
3
Mason R. (1998) Models of Online Courses, “Networked Lifelong
Learning: Innovative Approaches to Education and Training Through the Internet” edited by L. Banks, C. Graebner, and D. McConnell. University of Sheffield, (http://polaris.umuc.edu/~skerby/faculty/help/resources/mason.htm).
4
Sangrà A. (2001), Quality in Examples of Virtual Higher Education.
http://www.uoc.edu/web/eng/art/uoc/sangra0102/sangra0102.html
DIDATTICA E-LEARNING
Esperienze eLearning nei corsi di laurea
triennali
D. Bauer
Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, Università di Milano
L’anatomia patologica, per sua natura, si presta particolarmente bene all’utilizzo di tecnologie informatiche innovative. I campi di applicazione delle tecnologie multimediali si
sono estesi, in questi ultimi anni, dal campo della ricerca a
quello della diagnostica, per arrivare ad estendersi, in tempi
più recenti, anche a quello dell’insegnamento.
È infatti nata una nuova modalità di trasferimento delle nozioni, l’eLearning, che partendo da esperienze principalmente nord americane, va ora diffondendosi in tutto il mondo con
grande rapidità.
Nelle università italiane l’eLearning è stato introdotto verso
la fine degli anni ’90, quando l’esperienza tecnologica acquisita nell’allestimento dei supporti didattici dapprima di tipo
audiovisivo e successivamente multimediale è stata in parte
applicata al campo dell’insegnamento a distanza. Le prime
esperienze non hanno in genere portato una carica di particolare innovazione: solitamente il docente si limitava a mettere
a disposizione degli studenti tutto o parte del materiale didattico (in genere presentazioni Power Point, versione riveduta
e aggiornata delle vecchie raccolte di diapositive o di lucidi
da proiezione) utilizzato nel corso delle lezioni. Solo in tempi più recenti molte università italiane hanno incentivato, anche dal punto di vista economico, la nascita di sperimentazioni più avanzate. I progetti con maggiore carica innovativa
in molte sedi sono stati destinati ai corsi di laurea triennale,
introdotti in tempi relativamente recenti nell’ordinamento
universitario italiano. Presso l’Università di Milano, oltre ai
“tradizionali” corsi di laurea a ciclo unico, sono attivi ben
venti corsi di laurea di primo livello nella sola area medica.
Perché l’innovazione in campo didattico è particolarmente
utile nelle lauree triennali? Questi corsi di laurea, di durata
relativamente ridotta ed altamente professionalizzanti, richiedono un precoce inserimento dello studente nelle strutture assistenziali o socio assistenziali presso le quali avrà svolgimento la sua futura attività lavorativa. Questa necessità porta ad una dispersione degli studenti in una molteplicità di sedi, talora molto distanti tra loro, con conseguenti oggettive
difficoltà nell’impartire l’insegnamento, particolarmente delle discipline di base, con modalità tradizionale. Vi sono inoltre corsi di laurea triennale che si rivolgono ad un numero
molto ristretto di studenti, tale da rendere in qualche modo
“antieconomico” una modalità convenzionale di insegnamento. Per queste ragioni, e probabilmente anche per parecchie altre, presso la Facoltà di Medicina dell’Università di
Milano sono attive ben ventuno iniziative eLearning in dodici dei venti corsi di laurea triennale.
Le tipologie di queste attività didattiche sono assai diversificate: infatti “l’eLearning, proprio per le sue caratteristiche
non può essere considerato una soluzione univoca ma un insieme articolato di didattiche e tecniche possibili” 1.
Nell’esperienza milanese si è infatti andati da proposte “minimali”, consistite nella semplice messa a disposizione degli
studenti di materiale iconografico fino a recenti offerte formative di respiro molto ampio. Si è infatti arrivati a sperimentare un intero semestre “a distanza” per il corso di laurea
di Tecniche Audioprotesiche. I docenti del corso, istruiti ed
assistiti dai formatori del CTU, Centro di servizio per le tecnologie e la didattica universitaria multimediale e a distanza,
263
hanno avuto l’interessante opportunità di sperimentare una
modalità di insegnamento profondamente diversa da quella
convenzionale, svolta interamente via Internet, utilizzando
“Centra” (Centra Corp., Lexington, MA, USA), un software
estremamente sofisticato in grado di riprodurre gran parte
dell’interazione che nel corso di una lezione convenzionale si
instaura tra docente e studente.
Non tutte le esperienze hanno avuto connotati altrettanto innovativi: i siti creati da docenti operanti nell’ambito delle
lauree triennali sono risultati in genere strutturati in diverse
cartelle, contenenti varie tipologie di materiale didattico: in
genere agli studenti viene offerta la possibilità di scaricare dispense testuali sugli argomenti svolti a lezione, o files contenenti la sola parte iconografica, o le presentazioni Power
Point utilizzate dal docente durante il corso. Altre cartelle
contengono links a siti Internet attinenti la disciplina, domande con risposta multipla per la preparazione agli esami.
È in genere prevista un agenda con gli avvisi riguardanti lo
svolgimento delle lezioni e molti docenti hanno utilizzato anche il forum, opzione spesso assai frequentata dagli studenti,
che in questo modo possono mantenere uno stretto contatto
con il docente.
L’allestimento del materiale non richiede particolari competenze tecniche: poche ore di preparazione da parte dei consulenti sono sufficienti a mettere ogni docente in grado di allestire le proprie pagine web. La decisione di affiancare al proprio insegnamento tradizionale la strutturazione di un “sito
del corso” comporta tuttavia, innegabilmente, un sensibile
aggravio di lavoro per il docente, particolarmente sensibile
per i docenti di area clinica, spesso operanti in strutture prive di facilities informatiche.
Il passaggio a modalità di insegnamento “computer assisted”
costituisce tuttavia un passaggio in qualche modo obbligato
per i docenti dei corsi di laurea di area medica, e in un futuro molto prossimo tutti si dovranno cimentare con queste tecniche in grado di apportare un significativo miglioramento
qualitativo nella tecnica di trasmissione dell’informazione in
ambito medico 2.
Bibliografia
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Lenzi A, Luccarini S. Considerazioni su e-Learninig e formazione a
distanza in Medicina. Med Chir 2003;22:867-872.
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Schittek M, Mattheos N, Lyon HC, Attsström R. Computer assisted
learning. A Rewiew. E J Dent Educ 2001;5:93-100.
L’esperienza e-Learning nei percorsi formativi
post lauream
F. Della Corte, F. La Mura, P.L. Ingrassia, A. Geddo, G.
Monga*
SCDU Anestesia e Rianimazione; * Cattedra di Anatomia Patologica, Università del Piemonte Orientale A. Avogadro,
Novara
The most developed activity in E-learning for postgraduates
at the Università del Piemonte Orientale is the “European
Master in Disaster Medicine” a unique experience implemented in this field of medicine. The management of the
medical effects of a disaster is one of the most difficult tasks
to be performed by medical personnel and therefore, an appropriate education and training in all aspects of disaster
medicine are essential for planners, key personnel and all actors involved in the disaster medical and health response.
New information technologies, particularly related to dis-
264
tance e-learning and interactive multimedia and problembased exercises are easily applicable to teaching disaster
medicine and these educational methodologies are the backbone of the EMDM.
The EMDM is organized by the two founding universities;
Università del Piemonte Orientale and the Free University of
Brussels and its project was fed by a great interest for the international aspects of disaster medicine and the need to harmonize and standardize the education and training in disaster
medicine in the European Union. The founding Universities
have final responsibility for the scientific content and the format of the EMDM, the quality of the educational methodology, the evaluation procedures, and the awarding of the Master Degree. The EMDM is supported by international and scientific organizations responsible for disaster medicine and
disaster management and the faculty members of the EMDM
are qualified professionals in disaster medicine and disaster
management coming from several universities (Belgium,
France, Germany, Israel, Italy, the Netherlands, Spain, Sweden, United States of America), international organizations
(WHO, ICRC, Eur-OPA) and the CDC (USA).
The course is of interest to all those involved in the medical
preparedness and response in disaster situations at local, national and international level.
Applicants must hold an approved graduate level degree in a
subject of health care or health management or offer proof of
equivalent qualification based on professional experience.
The EMDM consists of different parts that must be completed successfully by the students:
– A self-directed study under faculty guidance based on problem-based learning integrated in an e-learning curriculum
and provided on the website. It allows programmed access to
learning modules, exercises and tests and students to proceed
at their own pace as all continue to be involved in their professional activities. The EMDM is composed of seven modules, each of them having a coordinator: introduction, disaster management, specific multiple casualty treatment, disaster mental health, education and training in disaster medicine,
complex humanitarian emergencies, and legal, ethical and
moral aspects of disaster medicine. The website of the
EMDM is used as a learning station, a tutoring system, an information provider, and as a communication center. Several
problem-based learning exercises are provided such as a rail
disaster complicated by a chemical incident, a mass casualty
incident in a tunnel, and a command and coordination exercise.
– A live-in course where the students will meet the faculty
and interact with them in debates and exercises assessing the
student’s ability to recall and apply an integrated knowledge
base in solving a problem in disaster situations. Finally, the
students will participate in a full-scale exercise organized by
the Università del Piemonte Orientale together with the local
Red Cross and Civil Protection. A thesis related to a topic of
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
disaster medicine or disaster management under the supervision of a tutor. The dissertations are stored in the library of
the EMDM website and can be consulted by future students.
– A final on-line examination provided on the Internet composed of an electronic simulation exercise of a disaster where
the students have to solve medico-organizational and medical
care problems and a multiple choice questionnaire on the
content of the electronic textbook.
Until now (4th academic year), 99 students from 36 nationalities and the five continents participated in the EMDM.
A major part of the participants are emergency physicians
working in hospitals, others have a position as senior officer in
governmental and non-governmental organizations or in emergency medical services and dispatch centres, as medical officers in armed forces or as educators in disaster medicine.
Many students had previous experience of disaster relief. The
format and content of the educational material has been evaluated before starting the EMDM and at the end of each academic year by an advisory board consisting of recognized professionals in the disaster medicine community. A summative
evaluation using qualitative evaluation methods is performed
from discussions with both the participants and faculty at the
end of the residential course and from students’ evaluation
forms at the end of the academic year. A quantitative evaluation can not yet be carried out, as it needs a larger student sample for relevant statistical analyses. The problem-based elearning programme together with an interactive live-in course
and submitting a thesis was considered as an unique combination to achieve the aims and objectives of the course. The great
number and variety of practical exercises and interactive debates during the residential course, the problem-oriented simulation exercises, and the discussion forum on the website of
the EMDM fostering interpersonal professional and social
contacts, have been highly valued by the students.
As future developments, we expect that the website of the
EMDM will increase its synchronous learning support systems through audio and videoteleconferences in order to facilitate the learning process of the students and the tutoring
role of the faculty. A library with literature and on-line references on all the aspects of disaster medicine and disaster
management is under development. It is the intention of the
two founding universities to extend the collaboration to other universities within and outside the European Union in order to further develop the EMDM. The EMDM starts with a
network of alumni in order to create a world-wide platform
for research on the evaluation of the medical disaster management and for establishing a databank containing comprehensive evaluation studies. Such database will enable medical disaster plans to be based on experience, medical disaster education to be based on a scientific evidence, comparative analyses of the medical aspects of disaster management,
and refinement of the evaluation methodology by medical
disaster researchers.
PATHOLOGICA 2004;96:265-268
Patologia infettiva
Moderatori: A.G. Rizzo (Palermo) e V. Stracca Pansa (Venezia)
Dai Paesi in via di sviluppo: “extraordinary
diseases” per patologi oltre frontiera
V. Stracca Pansa
U.O. Anatomia Patologica, Ospedale Civile S.S. Giovanni e
Paolo, Venezia
Il progetto più importante dell’Associazione Patologi oltre
Frontiera- onlus rimane quello, iniziato da ormai cinque anni, della conduzione e dello sviluppo di un laboratorio di
istopatologia in Tanzania. In realtà si tratta di un progetto a
due mani, ideato e portato avanti in stretta collaborazione con
l’Associazione Vittorio Tison-ONLUS che ha messo in campo consistenti risorse economiche per l’allestimento del laboratorio nell’ospedale regionale di Bugando, nella città di
Mwanza. Patologi oltre Frontiera ha assicurato, in questi anni, un turn over mensile di specialisti che operano gratuitamente in attività diagnostiche, organizzative e di didattica.
Una ventina di ospedali del vasto territorio servito dall’ospedale Bugando (circa dieci milioni di abitanti) ha iniziato ad
inviare le proprie biopsie, in numero sempre crescente, al laboratorio. La casistica che viene presentata, relativa ai primi
tre anni di attività, comprende numerose patologie infettive,
presenti nell’Africa sub-sahariana.
• Le malattie trasmesse da artropodi sono la causa principale di morbilità. La malaria si può contrarre in tutta la regione. Diverse forme di filariasi sono diffuse, come anche
focolai endemici di oncocercosi (cecità dei fiumi). La leishmaniosi, tanto cutanea che viscerale si riscontra, a volte,
nelle aree più secche. La tripanosomiasi africana (rnalattia
del sonno) è segnalata, principalmente in piccoli focolai
isolati, in quasi tutti i paesi dell’ area. Si verificano casi di
tifo da pidocchi, pulci e zecche. Focolai naturali di peste
sono stati segnalati anche in Tanzania, come anche di tungosi, diffusa in tutta l’Africa. Molte malattie virali, di cui
alcune si presentano sotto forma di febbri emorragiche
gravi, sono trasmesse da zanzare, flebotomi, zecche, ecc.
che si trovano in tutta la regione.
• Le malattie trasmesse da alimenti e dall’acqua sono fortemente endemiche. L’echinococcosi (idatidosi) è molto diffusa nelle regioni in cui vi è pastorizia. Le elmintiasi di
origine alimentare, le dissenterie e le malattie diarroiche,
comprese la giardiasi, le febbri tifoidi e l’epatite A ed E,
sono molto diffuse.
• Altre malattie. La schistosomiasi (bilharziosi) e il tracoma
è presente in tutta la zona. L’epatite B è iperendemica.
L’elenco è lungo, ma nel breve escursus sulla patologia infettiva dell’Africa solo alcune di queste, che sono state identificate e refertate nella nostra pratica diagnostica nel laboratorio di Mwanza, sono discusse in dettaglio. È da sottolineare come la casistica raccolta finora, e quella che nei prossimi
anni si aggiungerà, è destinata a diventare una preziosa “palestra” sia per il patologo che vorrà avvicinarsi all’esperienza del lavoro volontario nei laboratori africani, sia per chi,
prima o poi, dovrà affrontare la patologia emergente “di importazione”.
Comportamiento de la Infección VIH/SIDA en
fallecidos a los que se realizó necropsias en el
Instituto de Medicina Tropical “Pedro Kourí”
en el período comprendido desde 1986 hasta
el 2002. Ciudad de la Habana, Cuba
A. Fuentes Peláez*, V. Capó De Paz*
*
Especialista de segundo grado en Anatomía Patológica Instittuto de Medicina Tropical “Pedro Kourí”, Ciudad de la
Habana, Cuba
El SIDA constituye un complejo de afección multisistémica
producida por el virus de inmunodeficiencia humana 1 y 2
(VIH 1 y 2) el cual es un retrovirus no oncogénico que provoca una inmunodepresión celular adquirida, hasta el momento irreversible, generando un terreno predispuesto a las
sobreinfecciones oportunistas y al desarrollo de tumores de
características malignas, que culminan con una falla progresiva de múltiples órganos y sistemas.
En los últimos quince años los mecanismos involucrados en
la transmisión del virus han determinado que éste se esparza
rápidamente por todo el planeta, dando lugar a una pandemia
de consecuencias impredecibles, que no respetan raza, edad,
sexo, ni condición socioeconómica o sexual. Se ha transformado de un mal casi ignorado, en una afección que afecta,
según las actuales informaciones, a más de 47 millones de
personas en le mundo hasta Junio del 2000.
El VIH tiene un trofismo específico por los linfocitos T facilitadores (Helper, T4, CD 4) sobre los que ejerce un efecto,
catalítico y citopático que da lugar a una disminución y disfunción selectiva de los mismos. Debido al papel de la central que dichas células ocupan en la respuesta inmune esta
condiciona las alteraciones de la inmunidad celular a las infecciones oportunistas que pueden ser producidas entre otros
microorganismos por hongos, virus y bacterias.
En Cuba los más frecuentes son las producidas por Pneumocisti carinii, Mycobacterium tuberculosis y bacterias que
afectan el aparato respiratorio; respecto a los tumores los más
característicos son el Linfoma No Hodgkin y el Sarcoma de
Kaposi.
A través de la aplicación en nuestro Instituto de Medicina
Tropical “Pedro Kourí” del Software conocido con las siglas
de SARCAP (Sistema Automatizado de Registro y Control
en Anatomía Patológica) expondremos la situación actual de
la casuística de nuestra Base de Datos de Autopsias en fallecidos con VIH/SIDA para de esta forma contribuir a la comprensión de su fisiopatología y de las enfermedades oportunistas asociadas. La utilidad de la autopsia no ha disminuido
en nuestro país a pesar de los avances actuales de la tecnología diagnóstica. Con este trabajo presentaremos un estudio
donde se relacionan los diagnósticos pre-mortem con los hallazgos anatomopatológicos en las autopsias consecutivas de
fallecidos con infección VIH/SIDA realizadas por nuestro
servicio de Anatomía Patológica hasta el año 2002. El análisis de las discrepancias diagnósticas posibilitan una mejor
comprensión y experiencia de la enfermedad y garantiza una
mayor calidad de los servicios médicos.
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
266
Lesioni nodulari multiple in paziente affetto
da morbo di Crohn e linfoma di Hodgkin
F. Guddo, G. Di Marco, T. Mannone, M. Rizzuto, M. Stella, A.G. Rizzo
U.O. di Istologia ed Anatomia Patologica, Ospedale V. Cervello, Palermo
Storia clinica del caso
Uomo di 34 anni, affetto da malattia di Crohn per il quale
viene sottoposto a resezione ileo-colica. Dopo circa due anni
dalla resezione chirurgica i linfonodi mesenterici e peri-pancreatici mostrano un aumento volumetrico. L’esame istologico dei linfonodi escissi consente la diagnosi di Linfoma di
Hodgkin, varietà cellularità mista e pertanto il paziente viene
sottoposto a trattamento chemioterapico e ad autotrapianto di
midollo. Dopo due anni dal trapianto, il paziente si presenta
all’osservazione dello pneumologo per astenia ingravescente,
febbricola, lieve dispnea da sforzo e tosse. L’esame radiografico del polmone mette in evidenza la presenza di formazioni nodulari multiple, in sede lobare superiore sinistra a prevalente distribuzione peri-bronchiale e con aree di addensamento parenchimale associate a linfoadenomegalia ilare. Le
indagini di laboratorio mettono in evidenza un incremento
degli indici della flogosi, mentre la ricerca di patogeni infettivi risulta essere negativa. Nell’ipotesi che si tratti di una localizzazione polmonare di Linfoma di Hodgkin il paziente
viene sottoposto a nuovo ciclo di chemioterapia, ma dopo sei
mesi si osservano nuove aree di addensamento parenchimale
e peri-bronchiali ad interessamento del lobo inferiore omolaterale. Il paziente viene quindi sottoposto a lobectomia inferiore sinistra.
Morfologia e metodiche applicate
L’esame morfologico del parenchima polmonare evidenzia la
presenza di multipli granulomi necrotizzanti a prevalente distribuzione peri-bronchiale associati ad aspetti di granulomatosi broncocentrica. La colorazione Ziehl Nielsen ha messo
in evidenza la presenza di bacilli, ulteriormente confermata
dalla reazione immunoistochimica mediante l’uso dell’anticorpo monoclonale anti Micobatterio tubercolare. Negativa
la ricerca di altri microrganismi mediante colorazioni Gram e
Grocott. Negativa la ricerca morfologica ed immunofenotipica di linfoma di Hodgkin.
Diagnosi finale
Polmonite interstiziale granulomatosa da infezione di micobatterio tubercolare.
Commento
Le infiammazioni granulomatose del polmone possono essere riscontrate in un’ampia serie di condizioni clinico-patologiche, che includono tanto patologie primarie polmonari diffuse quanto localizzazioni secondarie di processi sistemici 1.
Recenti studi hanno dimostrato che il paziente affettto da malattia di Crohn può manifestare dellle pneumopatie, che possono essere sia localizzazione extraintestinale di malattia 2,
che farmaco-correlate. In aggiunta è ampiamente dimostrato
che il polmone è una delle possibili sedi di localizzazione extralinfonodale di malattia di Hodgkin ed inoltre pazienti sottoposti a trapianto di midollo sviluppano più frequentemente
infezioni polmonari 3. Tutte le suddette entità possono mostrare il quadro radiologico di “noduli diffusi”. I noduli, definiti come densità parenchimali discrete, possono distribuirsi prevalentemente nel lobo superiore (es. sarcoidosi, pneumoconiosi, istiocitosi X polmonare, polmonite da ipersensibilità), nel lobo inferiore (es. asbestosi, malattie collageno
vascolari) o ilare e peri-ilare (es. neoplasie a distibuzione lin-
fangitica e sarcoidosi). Parallelamente la valutazione della
distribuzione anatomica della nodularità (asse bronco-vascolare, pleura o l’intero lobulo), la necrosi, la fibrosi, la presenza di materiale estraneo o di granulomi consentono al patologo di giungere nella maggior parte dei casi alla diagnosi.
Pertanto il set clinico e radiologico insieme con i reperti istopatologici fanno parte di un algoritmo diagnostico che può
fornire rilevanti informazioni sull’eziologia, il trattamento e
la prognosi.
Bibliografia
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Cheung OY, Muhm JR, Helmers RA, Aubry MC, Tazelaar HD, Khoor
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clinical and radiographic findings. Radiology 1999;210(3):699-710.
Patologia infettiva del tratto
gastrointestinale
P. Baccarini
Sezione di Anatomia Patologica “M. Malpighi”, Università
di Bologna, Ospedale Bellaria, Bologna
Caso 1. Storia clinica
Paziente di sesso femminile, di anni 75, giunta all’osservazione clinica per anemia, lieve dispepsia e calo ponderale. La
paziente era in terapia cronica con corticosteroidi in quanto
affetta da connettivite. È stata eseguita un’esofagogastroscopia con biopsie a livello dello stomaco e del duodeno. L’esame endoscopico non aveva mostrato alterazioni significative
né a carico dello stomaco né dei primi tratti duodenali.
L’esame istologico evidenziava la presenza sulla superficie
libera dell’intestino e a livello delle foveole gastriche di
strutture rotondeggianti o allungate, compatibili con larve
adulte di parassiti
Diagnosi
Infestazione gastrica e duodenale da Strongyloides Stercoralis.
Commento
Le infezioni intestinali da elminti sono molto comuni nei
paesi in via di sviluppo, arrivando in alcuni di questi ad una
prevalenza vicina al 75%. L’ infezione si contrae attraverso
l’ingestione di cibi o acqua contaminati da feci infette o attraverso il contatto con terreno infetto. Le infezioni da questi
parassiti nei paesi industrializzati sono rare ed in genere appannaggio di immigrati, di lavoratori che hanno vissuto per
lungo tempo in aree endemiche oppure di soggetti immunodepressi, principalmente HIV positivi, portatori di neoplasie
maligne o in terapia cronica con corticosteroidi 1 2. La diagnosi può essere fatta agevolmente attraverso la valutazione
istologica in ematossilina ed eosina delle biopsie ottenute attraverso l’ esame endoscopico.
Importante la diagnosi differenziale con gli altri nematodi al
fine di approntare una corretta terapia.
Caso 2. Storia clinica
Paziente di sesso maschile, di anni 68, pervenuto all’osservazione clinica per diarrea, con strie di sangue, e dolori addominali di recente insorgenza. L’esame colonscopico aveva
evidenziato la presenza di aree iperemiche e congeste nel co-
PATOLOGIA INFETTIVA
lon discendente con alcune erosioni a livello del sigma. Su
tali erosioni sono stati effettuati prelievi bioptici. Il paziente
non mostrava segni endoscopici o clinici suggestivi di rettocolite ulcerosa, né di altre patologie significative.
All’esame istologico la mucosa colica mostrava moderato infiltrato flogistico linfoistiocitario della lamina propria con
una piccola area ulcerata sede di infiltrato granulocitario e di
tessuto di granulazione. In corrispondenza di tale area, alcune cellule endoteliali e stromali mostravano inclusioni intranucleari eosinofile suggestive di infezione da citomegalovirus. L’ indagine immunoistochimica con anticorpo monoclonale contro gli antigeni precoci del CMV (clone CCH2,
DAKO) ha confermato la presenza del virus.
Diagnosi
Ulcere intestinali da citomegalovirus (CMV).
Commento
Le infezioni intestinali da citomegalovirus sono in genere osservate in soggetti immunodepressi oppure in associazione
con la rettocolite ulcerosa, ed anzi sono ritenute responsabili
di quelle forme di colite ulcerosa che non rispondono al trattamento steroideo 3. Numerosi studi hanno però dimostrato
che il CMV è un potenziale patogeno per il tratto gastrointestinale anche in pazienti non immunodepressi, dove può produrre lesioni dalla bocca all’ano 4. La diagnosi istologica non
presenta particolari difficoltà, a patto di tenere presente la
possibilità di tali infezioni. Utile può essere la conferma immunoistochimica soprattutto nelle forme di infezione da
CMV con inclusioni intranucleari atipiche.
Bibliografia
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Safdar A, Malathum K, Rodriguez SJ, Husni R, Rolston KV. Strongyloidiasis in patients at a comprehensive cancer center in the United
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Patologia infettiva della cute
P. Fiallo
U.O. Dermatologia Sociale, Laboratorio di Referenza Nazionale per il Morbo di Hansen, Ospedale Università San Martino, Genova
Caso 1
Paziente di sesso femminile, 38 anni, originaria del Vietnam
e residente in Italia da circa 13 anni, alla XX settimana di
gravidanza, che presenta l’insorgenza acuta di una placca cutanea eritematosa localizzata all’emivolto destro ed alla piramide nasale.
L’esame istopatologico eseguito su prelievo bioptico della
lesione cutanea evidenzia la presenza di granulomi con cellule epitelioidi, numerosi linfociti ed alcune cellule giganti
tipo “corpo estraneo” nel derma e nelle porzioni superiori
dell’ipoderma. I granulomi si presentano scarsamente compatti, per la presenza di edema intercellulare, ed alcuni di essi infiltrano i filamenti nervosi cutanei. La colorazione FiteFaraco, eseguita su alcune sezioni, evidenzia la presenza di
rari bacilli acido-resistenti (BAR) all’interno dei filamenti
nervosi.
267
Sulla base dei dati clinici, istologici e batteriologici viene posta diagnosi di lebbra borderline-tubercoloide (BT) in reazione reversal (RR).
La lebbra è una malattia infettiva cronica della cute e dei nervi periferici causata dal Mycobacterium leprae. La malattia
può manifestarsi in una varietà di forme clinico-patologiche.
Esistono due forme cosiddette “polari”: la lebbra tubercoloide (TT), che si caratterizza istologicamente per la formazione di granulomi a cellule epiteliodi e cellule giganti e la presenza di pochi BAR, e la lebbra lepromatosa (LL), istologicamente caratterizzata da infiltrati macrofagici ricchissimi di
BAR. Tra queste due forme sono comprese le forme borderline (BT,BB, BL) che presentano caratteri istopatologici e carica bacillare intermedi tra le due forme polari. La lebbra ha
un decorso clinico lento, e spesso asintomatico, che può però
essere interrotto da fatti infiammatori acuti detti “leproreazioni”. Si riconoscono due tipi di reazioni, la reazione reversal (RR) e l’eritema nodoso leproso (ENL), che si distinguono per patogenesi, espressione clinica e quadro istopatologico. La RR è una reazione immunitaria cellulo-mediata verso
il M. leprae, caratterizzata istologicamente da intenso edema
e comparsa di cellule giganti da corpo estraneo. Questa forma di leproreazione, se non viene prontamente diagnosticata
e curata, può causare gravi danni ai nervi periferici, con disturbi funzionali inizialmente reversibili, che successivamente però diventano permanenti e gravemente invalidanti.
L’ENL è una reazione da immunocomplessi verso antigeni
del M. leprae, clinicamente caratterizzata da compromissione dello stato generale (febbre, astenia, ecc.) ed istologicamente dall’infiltrazione di leucociti polimorfonucleati all’interno di granulomi macrofagici multibacillari.
Caso 2
Paziente di sesso maschile, di circa 50 anni, residente nello
stato Amazonas in Brasile, che da alcuni anni presenta noduli cutanei multipli, del colorito della cute ed indolenti. La
maggior parte dei noduli ha supeficie integra e liscia ma alcuni di essi appaiono ulcerati. Il paziente riferisce che i noduli sono progressivamente aumentati di numero e dimensioni.
L’esame istopatologico di un prelievo bioptico di una lesione
cutanea evidenzia una epidermide atrofica con appiattimento
delle creste interpapillari. Nel derma è presente una diffusa
fibrosi con denso infiltrato costituito da cellule epitelioidi,
istiociti, e cellule giganti prevalentemente tipo Langhans. Associato a questo infiltrato si possono osservare numerosissimi elementi rotondeggianti fungini, con membrana a doppio
contorno.
Sulla base della provenienza geografica e delle caratteristiche clinico-patologiche si pone diagnosi di lobomiosi. La lobomicosi, o blastomicosi di Jorge Lobo, è una micosi profonda, esclusiva del continente latino-americano, presente con
maggior frequenza nell’area amazzonica. La malattia viene
contratta dopo traumatismo con vegetali infetti. L’infezione
si manifesta inizialmente in forma di piccola papula, e successivamente si diffonde in maniera centrifuga, per contiguità e per via linfatica, rimanendo però sempre localizzata a
cute e sottocute. L’evoluzione della malattia è lenta; dopo
molti anni le lesioni possono assumere dimensioni notevoli,
fino a poter compromettere la funzionalità di un arto. La diagnosi è possibile dopo dimostrazione dell’agente eziologico
nella biopsia, o nella secrezione dermica in caso di lesioni ulcerate. Il fungo si presenta di forma rotondeggiante, con doppia membrana, già osservabile nei preparati istologici colorati con ematossilina-eosina, ma ancor più facilmente visibile
dopo colorazione PAS.
268
Caso 3
Paziente di sesso maschile, dell’età di 45 anni, residente nello stato di Parà in Brasile, con presenza di una lesione cutanea alla gamba. La lesione è costituita da una placca iperpigmentata, a superficie verrucosa, e parziale cicatrizzazione
centrale che conferisce alla lesione un aspetto anulare. L’esame istologico di un prelievo bioptico cutaneo effettuato sul
bordo della lesione evidenzia un’epidermide con ipercheratosi ed acantosi irregolare alternata ad aree di atrofia. Nel derma è presente un denso infiltrato infiammatorio granulomatoso costituito da linfociti, plasmacellule, istiociti, cellule
epitelioidi e cellule giganti. All’interno dei granulomi sono
presenti corpi sferici raggruppati, di colorito marrone, del
diametro di circa 10 µm, alcuni dei quali presentano una separazione settale centrale. Sulla base della provenienza geografica, delle caratteristiche cliniche della lesione e dei riscontri anatomo-patologici, incluso l’osservazione di corpi
rotondi, marroni, con aspetti di fissazione binaria, viene posta diagnosi di cromomicosi.
La cromomicosi è una micosi profonda di cute e sottocute
causata da diverse specie di funghi appartenenti alla famiglia
delle Dematiaceae. Questi funghi sono caratterizzati dalla colorazione marrone e da una capacità di riprodursi per fissione binaria o multipla. La malattia ha una distribuzione ubiquitaria, ma compare più frequentemente nelle aree tropicali
e subtropicali. Il contagio avviene dopo traumatismo con
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
frammenti vegetali contaminati. L’infezione si estende progressivamente per contiguità, a partire dal punto di entrata,
determinando la formazione di lesioni cutanee verrucose.
L’evoluzione della malattia è molto lenta, potendo, nel corso
di alcuni anni, causare la comparsa di lesioni cutanee che interessano vaste aree della superficie corporea. L’infezione rimane quasi sempre limitata a cute e sottocute, e solo in rarissimi casi, al pari di altre micosi profonde, può interessare organi interni. La diagnosi si pone sulla base dell’osservazione
dei funghi nei preparati istologici di biopsie cutanee, sia dopo colorazione con ematossilina-eosina, che con l’utilizzo di
altre colorazioni (PAS, Gomori-Grocott, Fite-Faraco). L’esame colturale di materiale biologico prelevato dalle lesioni
può confermare la diagnosi e consentire l’identificazione della specie di fungo che causa l’infezione.
Bibliografia
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of leprosy. Bulletin of the World Health Organization 1974;51:451-465.
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McGinnis MR. Chromoblastomycosis and phaeohyphomycosis: new
concepts, diagnosis and mycology. J Am Acad Dermatol 1983;8:1-16.
PATHOLOGICA 2004;96:269-270
Il ruolo del consulente ed il consulto
in anatomia patologica
Moderatori: A. Fabiano (Roma) e F.M. Vecchio (Roma)
Il punto di vista dell’anatomo patologo
A. Andrion
Dipartimento dei Servizi Diagnostici, S.C. Anatomia, Istologia Patologica e Citodiagnostica, Ospedale Martini, ASL 2,
Torino
I fenomeni di mobilità sanitaria dovuti ai mutati contesti socio-economici e la forte esigenza dei pazienti di maggiore
informazione circa la conformità dell’atto medico che viene
proposto hanno incrementato la richiesta di consulto, o comunque la richiesta di una seconda opinione da parte di un
altro professionista, spesso appartenente ad altra istituzione.
Ad esempio, riferendoci al singolo paziente, é sempre più
frequente che non vi sia identità tra istituzione in cui viene
posta una diagnosi e istituzione in cui viene effettuata la successiva terapia. Questo processo coinvolge sempre di più anche il patologo con un corollario di problemi che spaziano da
responsabilità medico-legali, ai riflessi deontologici, sino a
risvolti di ordine gestionale ed economico 1-4. Di conseguenza, é necessario che il patologo conosca sia le procedure da
adottare a tutela del paziente, dei colleghi e propria 5, sia la
vasta gamma di situazioni che possono motivare la richiesta
di consulto al fine di poterle gestire al meglio. Infatti, accanto agli eventi di gran lunga più frequenti riguardanti la richiesta di consulto per casi di difficile/problematica interpretazione o per ulteriore validazione della diagnosi morfologica al fine di proseguire/iniziare una terapia non banale, un
trattamento invasivo, a rischio o potenzialmente invalidante,
esistono richieste che possono essere collegate a fattori “minori”, non di tipo diagnostico ma tuttavia assai problematici.
Ad esempio, supposta scarsa fiducia da parte del paziente o
del medico curante nel patologo che ha posto la diagnosi,
prassi esasperata di medicina difensiva da parte del clinico
che assume in carico il paziente, possibili forzature legate al
potenziale incremento di guadagno connesso all’attività di
consulto, ecc. Tenendo presenti i differenti scenari, é verosimile che il singolo patologo, soprattutto quello soggetto a seconda opinione, ritenga che vi sia necessità di pieno riconoscimento e diffusa informazione sul fenomeno della variabilità e soggettività dell’osservazione per cui, in caso di discrepanza di giudizio, occorre differenziare non solo tra errore
diagnostico comportante rilevanti modifiche dell’approccio
terapeutico e prognostico ed errore diagnostico che non implica le suddette modifiche (vale a dire, se si tratta di un errore non accettabile o accettabile), ma anche tra variazione di
giudizio correlata ad un errore e variazione frutto soltanto di
differenze di “scuola” o di impiego di sistemi classificativi
differenti 6. Un altro tema non risolto riguarda la proprietà del
e, soprattutto, la responsabilità sul materiale biologico/preparato isto-citologico che viene sottoposto a consulto, nell’evenienza che questo venga perso o danneggiato. E’ sufficiente
una dichiarazione liberatoria? È sufficiente o lecito impiegare lo strumento (dissuasivo) del deposito cauzionale? E ancora: la richiesta di parere che spesso un patologo richiede ad
un collega di altra istituzione – prima o dopo avere emesso
una diagnosi – equivale ad una richiesta di consulto, deve es-
sere sempre formalizzata e come? A chi deve essere attribuito il costo di tale pratica? Il paziente deve essere preventivamente informato sull’intenzione di sottoporre il suo materiale biologico a questo tipo di valutazione, onde poter esprimere il proprio consenso o meno? Attualmente, su questa ampia gamma di temi non esistono posizioni univoche, né tanto
meno esse sono codificate da un qualche codice deontologico o da precise norme legislative. Tuttavia, esiste fortunatamente la convinzione sempre più ferma e diffusa della necessità di trattare la materia in termini pluridisciplinari e sotto differenti angolature al fine di uniformare quanto più possibile – tramite un primo consenso sviluppato all’interno della comunità medico-scientifica – procedure e punti di vista
per salvaguardare i legittimi interesse dei due principali attori coinvolti: il paziente e il patologo.
Bibliografia
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Tsung JSH. Institutional pathology consultation. Am J Surg Pathol
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5
SIAPEC. Norme per consulenze e consulti isto-citologici richiesti a
scopo di diagnosi e cura del paziente. Testo approvato dal Consiglio
Direttivo. Padova, 24 gennaio 2004.
6
Foucar E. Error identification. A surgical pathology dilemma. Am J
Surg Pathol 1998;22:1-5.
Il punto di vista della Società Scientifica
F.M. Vecchio
Istituto di Anatomia e Istologia Patologica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Le problematiche relative al ruolo del consulente e, più in generale, al consulto in Anatomia Patologica costituiscono per
la Società Scientifica una tematica di indubbio interesse e
nello stesso tempo una concreta occasione per esercitare un
ruolo rientrante a pieno titolo tra i suoi fini istituzionali. In
effetti il consulto ed il consulente operano in una area, quella della attività professionale e degli interessi a questa collegati, espressamente richiamata ai commi b) e l) dell’art. 3
dello Statuto Societario che elenca gli scopi della SIAPECIAP.
In tale ottica di rappresentanza e tutela degli interessi professionali, si è mossa negli ultimi sei anni la Società con alcune
concrete realizzazioni. La prima del 30 giugno 2000 con la
decisione del Consiglio Direttivo di “dare la più diffusa
informazione (sito e rivista) della disponibilità di gruppi di
patologi a diventare centro di “second opinion” mediante la
telepatologia” con conseguente creazione sul sito stesso di
una sorta di Albo dei Consulenti, soggetti iscritti alla Società
e disposti ad offrire la loro consulenza (anche indipendentemente dalla telepatologia) nel campo di loro specifico interesse; la seconda con l’organizzazione del Convegno Nazio-
270
nale su “L’errore in Anatomia Patologica” svoltosi a Roma
nel marzo del 2001 ed il cui sottotitolo non casualmente era
“Migliorare la sicurezza del paziente e tutelare il professionista”; la terza, infine con l’approvazione da parte del Consiglio Direttivo, il 24 gennaio di quest’anno, delle “Norme per
consulti e consulenze istocitologici richiesti a scopo di diagnosi e cura dal paziente”. Con quest’ultimo atto la Società,
rielaborando le “Procedure per le richieste di revisione e consulenza” già contenute nel Manuale FISAPEC del 1994, ha
emanato delle linee guida di comportamento rivolte ai Patologi coinvolti sia nella consegna che nell’esame dei vetrini
oggetto della consulenza e che sono state proposte alla sperimentazione degli iscritti, invitati anche dal Presidente a far
pervenire alla Società stessa tutte le osservazioni e le eventuali proposte di modifiche o di integrazioni derivanti dalla
sperimentazione stessa.
La Società è quindi intervenuta su alcuni tra i fattori più critici in una consulenza, in parte già evidenziati nelle relazioni
precedenti: l’errore diagnostico, la qualificazione del consulente, la definizione di un contesto normativo di riferimento,
almeno per ciò che riguarda le consulenze richieste dal pa-
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
ziente. A tale proposito meritano particolare attenzione le indicazioni espresse nei paragrafi 4 e 5 della normativa emanata dalla Società sia per ciò che attiene la possibile diversità
tra il parere diagnostico del consulente e quello originariamente espresso, che per quanto riguarda lo specifico ambito
delle colorazioni immunoistochimiche eseguite non a scopo
diagnostico, ma per evidenziare markers con valenza prognostica o terapeutica.
Certo, le indicazioni (o “linee guida”) che la SIAPEC-IAP
rivolge ai propri iscritti, non risolvono tutti gli interrogativi
e le complesse problematiche sull’argomento e non determinano in modo automatico il comportamento degli iscritti
alla Società stessa, diversamente da quanto avviene in altri
paesi.
Se però una Società rappresenta la stragrande maggioranza
dei soggetti operanti in un determinato ambito (e questo è sicuramente il caso della SIAPEC-IAP), ne interpreta le esigenze e le volontà e sottopone le proprie linee guida alla sperimentazione ed alla libera valutazione dei soggetti rappresentati, allora le indicazioni che dalla Società provengono
hanno elevate probabilità di essere seguite ed attuate.
PATHOLOGICA 2004;96:271-276
Morte improvvisa cardiaca
Moderatori: G. Caruso (Bari) e P. Gallo (Roma)
Introduzione
P. Gallo
Cattedra di Anatomia Patologica Cardiovascolare, Università di Roma “La Sapienza”
Grazie al continuo evolvere della ricerca, possiamo ormai affermare che il quadro dell’anatomia patologica della morte
improvvisa cardiaca (MIC) è noto nella generalità dei casi.
Tuttavia sono ancora numerosi i casi nei quali il Patologo può
trovarsi in difficoltà ed è quindi da apprezzare l’iniziativa del
Gruppo di Studio Italiano di Patologia Cardiovascolare che
ha deciso, sotto l’impulso del Presidente, dr.ssa Angela Pucci, di organizzare questo corso breve per discutere con i Patologi Italiani alcune linee-guida per l’esame del cuore e l’inquadramento della MIC.
In effetti, sono pochi i casi di MIC nei quali si riscontra una
patologia che possa essere considerata in modo univoco la
causa della morte repentina (un tamponamento cardiaco, l’occlusione trombotica di un grosso ramo coronario epicardio,
ecc). In molti casi quella che si rinviene è una patologia associata alla MIC (nel senso che la si riscontra di frequente in
questa condizione) ma senza che sia stato possibile appurare
con certezza il meccanismo funzionale che ha provocato il decesso (una malattia coronaria travasale, una grave ipertrofia
concentrica del ventricolo sinistro, un evidente prolasso della
mitrale). In altri casi, ancora, è presente una patologia nota ma
con una presentazione atipica, che è possibile diagnosticare
solo facendo ricorso ad un approccio di esame sistematico e
completo (una cardiomiopatia ipertrofica simmetrica, una
miocardite focale). In altri casi il reperto anatomopatologico
cade in una zona grigia nella quale i limiti tra normalità e patologia sono indistinti (come nei casi di infiltrazione adiposa
focale che suggeriscono ma non autorizzano una diagnosi di
cardiomiopatia aritmogena). Esistono poi casi sine materia
nei quali neppure lo studio anatomopatologico più accurato
consente una diagnosi, e diviene indispensabile il ricorso allo
studio tossicologico o genetico-molecolare.
Il Corso breve si propone di suggerire un metodo di indagine, di fornire notizie aggiornate sui quadri anatomopatologici paradigmatici, e di esporre le conclusioni di un gruppo di
esperti alla ricerca di un consenso su criteri diagnostici per
affrontare alcune zone grigie al limite tra normalità e patologia.
Casi emblematici di morte improvvisa
cardiaca. Caso 1: anomalie congenite delle
arterie coronarie
E. Maresi*, P. Procaccianti**
*
Istituto di Anatomia Patologica; ** Istituto di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Università di Palermo
Le anomalie congenite delle arterie coronarie (ACC) sono difetti dell’origine e del decorso delle arterie coronarie principali 1 che possono manifestarsi “isolatamente” o “in associazione” ad altre patologie cardiache di natura congenita, costituendo importanti cause di mortalità e morbosità 2. Sebbe-
ne meno comuni rispetto alle alterazioni strutturali delle pareti e delle valvole cardiache, le ACC devono essere prese in
considerazione, in un largo ambito di età ed in entrambi i sessi, come possibile causa di sindrome coronarica acuta 2-4. La
presenza di una ACC deve pertanto essere sospettata e quindi ricercata con particolare diligenza all’esame necroscopico
dei soggetti deceduti per arresto cardiaco repentino ed inatteso (morte improvvisa cardiaca) 5.
Descrizione del caso
Trattasi di un giovane di anni 30, morto improvvisamente entro un ora dal risveglio mattutino. Dal verbale di sommarie
informazioni testimoniali rese dalla madre ai funzionari della Questura si evince che il giovane lavorava da circa sei mesi al Nord Italia e che, il giorno prima del decesso, era ritornato al suo paese natale per trascorrere un breve periodo di
vacanza. Alle prime luci dell’alba, alzatosi dal letto per le
abluzioni mattutine, stramazzò improvvisamente a terra accusando severa dispnea e perdita di coscienza. Il pz. venne
trasportato celermente al Pronto Soccorso mediante 118 dove giunse cianotico, in midriasi fissa, apnoico, senza polso ed
in arresto cardiaco. Le manovre rianimatorie (massaggio cardiaco, ventilazione, defibrillazione, somministrazione di
adrenalina) indussero una temporanea ripresa del ritmo cardiaco, ma ben presto si manifestò una dissociazione elettromeccanica senza polso, irreversibile sino all’exitus. Nulla
nell’anamnesi fisiologica e patologica del paziente poteva
giustificare o preannunciare la morte improvvisa eccetto una
storia di tossicodipendenza non confermata però dalle indagini tossicologiche effettuate post-mortem. Il riscontro autoptico escludeva cause di morte non cardiache (violente e
naturali) mentre il cuore evidenziava: ipertrofia (cuore del
peso di gr 490; diametro traverso cm 12; diametro longitudinale cm 10); origine anomala della coronaria destra al di sopra della commessura tra cuspide anteriore e sinistra, decorso ad angolo acuto da sinistra a destra, con lume ostiale a
“becco di flauto”, del segmento prossimale posto tra radice
aortica e polmonare; coronarie interventricolare anteriore e
circonflessa di sinistra con origine dal seno di Valsalva sinistro mediante 2 osti separati; circolo coronario dominante destro; radice aortica con tre seni di Valsalva, 2 lembi valvolari ispessiti (fusione delle cuspidi anteriore e sinistra) e tre
commessure (la commessura anteriore risulta connessa al
lembo anteriore mediante piccole corde tendinee); ventricolo
sinistro con ipertrofia eccentrica (spessore del setto interventricolare mm 19; spessore del ventricolo sinistro mm 12;
spessore del ventricolo destro mm 7). Il ventricolo sinistro
mostrava istologicamente una diffusa ipertrofia miocitaria di
grado moderato e miocitolisi coagulativa associata a fasci di
miociti ondulati e a lieve fibrosi sostitutiva, a livello della parete posteriore.
Discussione
L’origine anomala di una coronaria dall’aorta stessa è una
condizione anatomo-clinica “subdola” e per questo ad elevato rischio di morte improvvisa. Sebbene differenti meccanismi fisiopatologici siano stati ipotizzati quale causa dell’arresto cardiaco fatale, oggigiorno si ritiene che l’origine ad
angolo acuto ed il decorso tra arteria polmonare ed aorta, con
il lume a fessura, del segmento prossimale della coronaria
anomala (substrato) possano indurre, in condizione di so-
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
272
vraccarico emodinamico (trigger), attacchi ischemici ripetuti
con sviluppo di lesioni necrotiche focali e sclerosi post-infartuale nonché ipertrofia ventricolare, che insieme possono innescare aritmie pericolose per la vita 3. Qualsiasi sovraccarico emodinamico di volume e/o di pressione provocherebbe
infatti una discrepanza tra richiesta ed apporto di ossigeno
mediante sia una compressione del segmento coronario anomalo da parte delle radici aortiche e polmonari dilatate massimamente in diastole, che un aumento dell’attività metabolica cardiaca 2-3. Il caso da noi descritto risulta paradigmatico
di morte improvvisa cardiaca da anomalia congenita dell’origine delle arterie coronarie in relazione ad un algoritmo diagnostico post-mortem c.d. “per esclusione” 5, comprendente:
l’analisi delle circostanze del decesso, lo studio dell’anamnesi, le condizioni cliniche presentate dal paziente al ricovero
in pronto soccorso, i tests tossicologici e l’autopsia. Di particolare rilievo diagnostico risultava all’autopsia l’osservazione istologica di lesioni ischemiche recenti e croniche localizzate prevalentemente nel territorio miocardio supplito dalla
coronaria destra anomala.
Bibliografia
1
Angelini P. Normal and anomalous coronary arteries: definitions and
classifications. Am Heart J 1989;117(2):418-34.
2
Corrado D, Thiene G, Cocco P, Frescura C. Non-atherosclerotic coronary artery disease and sudden death in the young. Br Heart J
1992;68:601-607.
3
Basso C, Thiene G. Cardiopatie congenite e morte improvvisa. G Ital
Cardiol 1996;26:1039-1048.
4
Maresi E, Becchina G, Orlando E, Ottoveggio G, Procaccianti P.
Malformazioni congenite di cuore nella morte improvvisa cardiaca.
Riv It Med Leg 1996;18:831-858.
5
Maresi E. Protocollo di studio anatomo-patologico della morte improvvisa cardiaca. Abstracts Simposio Congiunto del Gruppo di Studio Italiano di Patologia Cardiovascolare con il Gruppo Italiano di Patologia
Forense su “Morte Improvvisa”, Bari 24-25 Settembre 1999, pp. 1-4.
Casi emblematici di morte improvvisa
cardiaca. Caso 2
C. Basso
Patologia Cardiovascolare, Istituto di Anatomia Patologica,
Università di Padova
Circostanze di morte: arresto cardiaco a riposo in pieno benessere, non sintomi né segni premonitori nei giorni precedenti.
Precedenti anamnestici: ricovero in ospedale all’età di 30 anni
per valutazione di sincopi ricorrenti, episodio di arresto cardiaco da fibrillazione ventricolare durante l’ospedalizzazione,
con ripristino del ritmo sinusale tramite cardioversione a 300
joules. L’esame obiettivo, la radiografia del torace e gli esami
ematochimici risultavano nella norma. Tracciati ECG seriati
mostravano ritmo sinusale, blocco atrio-ventricolare di primo
grado (intervallo PQ 220 msec), blocco di branca destra con
deviazione assiale sinistra, sopraslivellamento del tratto ST e
onda T invertita nelle derivazioni precordiali destre. L’ECG da
sforzo e il monitoraggio ECG delle 24 H secondo Holter non
evidenziavano aritmie. Il paziente veniva sottoposto anche a
cateterismo cardiaco con angiocardiografia e coronarografia
selettiva che risultavano nella norma. L’esame elettrofisiologico intracavitario infine evidenziava un intervallo HV “borderline” (70 msec). Il paziente veniva quindi dimesso in terapia
con betabloccanti e rimaneva asintomatico fino al giorno del
decesso, avvenuto 5 anni dopo.
Autopsia: il peso del cuore era di 350 gr, le arterie coronarie
erano normali per origine e decorso, pervie. Le valvole atrioventricolari e semilunari erano normali, non si rinvenivano
ipertrofie simmetriche o asimmetriche. Era presente una modica dilatazione dell’infundibolo polmonare con infiltrazione
adiposa della parete antero-laterale del ventricolo destro, in
assenza di aneurismi. All’esame istologico, si confermava
l’infiltrazione adiposa transmurale della parete antero-laterale del ventricolo destro, ai due terzi apicali, in assenza peraltro di sostituzione fibrosa, infiltrati flogistici e alterazioni degenerative dei miociti.
Si procedeva quindi all’esame seriato del tessuto di conduzione che rivelava la presenza di un’estesa fibrosi del fascio
di His e delle branche, con interruzione della branca destra
prossimale.
Screening cardiologico dei familiari: alterazioni ECG simili
nel 50% dei soggetti esaminati, reperto compatibile con malattia trasmissibile a carattere autosomico dominante.
Casi emblematici di morte improvvisa
cardiaca. Caso 3
C.R.T. di Gioia
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Sezione
di Anatomia Patologica, Università di Roma “La Sapienza”
La morte improvvisa cardiaca giovanile è un evento drammatico, date l’età dei soggetti colpiti e le circostanze repentine ed inaspettate del decesso. Recenti studi hanno dimostrato che una quota significativa di queste morti è attribuibile sia a cardiomiopatie familiari che ad aritmie cardiache
familiari senza evidenza di substrato anatomico, e delle
quali l’evento morte improvvisa diventa il primo segnale
dell’esistenza di una patologia cardiaca. In tale contesto l’esame del cuore eseguito in maniera attenta, completa e sistematica da un anatomopatologo esperto ed informato è
ovviamente indispensabile per un corretto inquadramento
diagnostico della morte improvvisa cardiaca, ma al tempo
stesso diventa un’importante fonte di informazioni per avviare lo screening clinico e genetico-molecolare delle famiglie allo scopo di prevenire ulteriori fatalità. Il caso qui riportato è in questo senso paradigmatico. Si tratta di un giovane di 17 anni morto improvvisamente durante una discussione con gli amici. Nulla nell’anammesi fisiologica e
remota del paziente poteva giustificare la morte improvvisa
né preannunciarla. Il riscontro autoptico escludeva cause di
morte non cardiache ed evidenziava all’esame esterno del
cuore (del peso di 330 g) una depressione della parete anteriore del ventricolo destro in corrispondenza dell’infundibolo polmonare associata ad un piccolo aneurisma in corrispondenza della stessa parete, e all’apertura delle cavità una
sostituzione adiposa segmentale e solo focalmente transmurale delle pareti anteriore e posteriore del ventricolo destro.
Il ventricolo sinistro, le valvole cardiache e le arterie coronarie non mostravano alterazioni di rilievo né si osservava
la presenza di infiltrati infiammatori interstiziali. Il quadro
anatomopatologico ha suggerito l’eventualità una cardiomiopatia familiare ed il successivo studio clinico e genetico-molecolare dei familiari ha permesso di individuare nella stessa famiglia altri due soggetti asintomatici affetti. Lo
studio istologico ed ultrastrutturale ha inoltre consentito di
formulare importanti ipotesi sull’eziopatogenesi della cardiomiopatia in questione.
MORTE IMPROVVISA CARDIACA
273
Meccanismi patogenetici della morte
improvvisa cardiaca
Morte improvvisa cardiaca: aspetti di
patologia forense
G. Thiene
M.F. Colonna
Istituto di Anatomia Patologica, Università di Padova
Sezione di Medicina Legale (Di.M.I.M.P.), Università di Bari
L’evento “morte improvvisa cardiaca”, inteso come improvviso, fatale, arresto cardiaco, trova due principali spiegazioni: una “meccanica” e una “elettrica”.
La morte improvvisa cardiaca meccanica è attribuibile ad un
repentino arresto della progressione ematica o per improvvisa occlusione di una arteria (es. embolia polmonare) o per
emopericardio con tamponamento cardiaco, per rottura di
cuore (infarto miocardio) o di aorta intrapericardica (dissezione aortica). Una morte improvvisa meccanica può avvenire anche da shock ipovolemico (es. emorragia gastrointestinale) o settico (apoplessia surrenalica).
La morte improvvisa elettrica è dovuta ad una aritmia incompatibile con una portata cardiaca adeguata alla perfusione cerebrale: ipercinetica, come nel caso della fibrillazione
ventricolare, o ipocinetica, come nella asistolia per blocco di
conduzione seno-atriale o atrioventricolare.
Le patologie responsabili di grave desincronizzazione elettrica del cuore possono coinvolgere le arterie coronarie, il miocardio ordinario o quello specializzato.
Nel caso di patologia coronarica, l’aterosclerosi è il killer
quasi esclusivo nell’adulto-anziano ma è frequente anche nel
giovane. I meccanismi che portano a morte improvvisa sono
una trombosi coronaria occlusiva o murale, una aterosclerosi
coronarica ostruttiva plurivascolare con miocardiosclerosi
postinfartuale e una ischemia transitoria da vasospasmo. Nel
giovane, altre patologie coronariche a rischio di morte improvvisa sono rappresentate dalla dissezione coronarica, dalle arteriti e dalle origini anomale, particolarmente quelle dal
seno del Valsalva aortico controlaterale.
La patologia miocardica primitiva, a rischio di grave instabilità elettrica, è quella delle cardiomiopatie: l’ipertrofica e l’aritmogena. La cardiomiopatia aritmogena è la causa principale di morte improvvisa negli atleti.
Fra le patologie del miocardio, a rischio di morte improvvisa
elettrica, non va dimenticata quella infiammatoria (miocarditi), spesso di natura virale. Infine un ruolo non trascurabile
gioca la patologia del tessuto di conduzione. A parte rari casi di patologia degenerativa con blocco atrioventricolare, la
preeccitazione ventricolare ovvero la sindrome di WolffParkinson-White è particolarmente a rischio di morte improvvisa, quando parossismi di fibrillazione atriale, per una
conduzione atrioventricolare 1-1 lungo il fascicolo accessorio, possono trasformarsi in fibrillazione ventricolare.
Non va infine dimenticato che un 5-10% delle morti improvvise non presenta un substrato anatomopatologico (“mors sine materia”). L’instabilità elettrica è dovuta in questi casi ad
alterazioni dei canali ionici del sarcolemma (QT lungo, sindrome di Martini-Brugada) o del reticolo sarcoplasmatico liscio (tachicardia ventricolare catecolaminergica). Queste patologie sono eredo-familiari e rispettivamente legate a difetti
genetici dei canali del sodio e potassio o del calcio. In questo
caso, la diagnosi anatomopatologica è essenzialmente molecolare.
La Morte Improvvisa (MI), per definizione, consegue ad una
causa patologica naturale, in partenza non diagnosticabile
(unexplained) ma che deve essere definita post-mortem con
adeguate metodologie di indagine. Inoltre la rapidità del decesso (sudden cardiac death: entro un’ora dall’inizio dei sintomi acuti ) ed il suo carattere inatteso e imprevisto (unexpected) genera spesso sospetti e quindi richieste di approfondimento in ambito forense. Secondo la classica impostazione
medico-legale, la MI è un evento la cui causa naturale si dovrebbe chiarire con l’autopsia, tuttavia “l’esigenza medicoforense è tale che, talvolta, anche la diagnosi di morte improvvisa, quando gli elementi circostanziali danno luogo a
sospetto di lesività, deve possedere tutti i requisiti della prova” 1. In questi casi, la correlazione tra quadro anatomopatologico, anche di significato “gravemente indiziario” e causa
del decesso deve essere valutata con attenzione sotto il profilo medico-legale, mentre, non di rado, vengono ritenute esaurienti alterazioni patologiche aspecifiche o preesistenti senza
che l’esame macroscopico e/o quello istologico evidenzino
modificazioni adeguate a spiegare perché la morte si sia verificata in quel momento.
Non è quindi inutile il richiamo, anzitutto, ad una particolare
accuratezza e completezza dell’esame autoptico, diretto ad
evitare che sfuggano sia la causa di morte più semplice ed
immediata, anche violenta (ad es. morte da bolo alimentare)
sia cause insolite od occulte (v. agenti infettivi, tossine, farmaci, veleni) che acquistano nuovi inquietanti significati alla
luce di recenti azioni criminali (v. contaminazione di bevande ed alimenti) anche a diffusione internazionale (bioterrorismo).
Il Moritz (1956) tra i “classical mistakes in forensic pathology” sottolineava la importanza di attenersi ad “interpretazioni scientificamente difendibili” in contrasto con le “deduzioni assolutamente intuitive” che spesso si prospettano proprio quando i caratteri espressi dal quadro anatomo-patologico non siano idonei da soli a definire con certezza la causa
della morte 2. Relativamente alle correlazioni tra questa certezza ed il quadro patologico, Hirsch ha proposto una classificazione in 5 livelli che, con particolare riferimento alle notizie circostanziali e storico-cliniche del caso (queste ultime
non sempre attendibili e/o immediatamente disponibili), impone, a nostro avviso, l’approfondimento dell’indagine diretta anche ad escludere altre cause, già a partire dalla seconda
classe (Tab. I).
Opportunamente, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa n° R(99)3, diretta ad uniformare le procedure autoptiche
medico-legali, prevede, per i casi di MI, la suddivisione in tre
categorie secondo cui l’esclusione di altre cause di morte (ad
es. l’avvelenamento) e l’indagine istologica sono necessarie
quando “le osservazioni necroscopiche possono giustificare
il decesso ma non possono ritenersi probatorie”.
Ai fini della diagnosi di “sudden cardiac death” il valore probatorio di molti quadri patologici è ancora in discussione 4,
pertanto si impone un adeguato approccio all’indagine basato su una rigorosa criteriologia medico-legale ed anzitutto
sulle evidenze circostanziali (tra cui la ricostruzione delle
modalità del decesso, anche mediante le indagini di sopral-
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
274
Tab. I. Causa della morte: classi sec. Hirsch (cit. in Hanzlick et al.,
2002)
I classe
II classe
III classe
IV classe
V classe
o di certezza assoluta corrisponde ad un
quadro patologico incompatibile con la vita in
ragione del meccanismo patogenetico chiaro
(ad es., rottura del cuore e/o tromboembolia
massiva);
in cui il grado di certezza è determinato essenzialmente dalla notizie anamnestiche e
dalle circostanze dell’evento essendo il quadro
patologico obiettivato idoneo a spiegare il decesso ma senza complicazioni adeguate a promuoverlo in prima classe;
in cui il dato storico è indispensabile e devono
essere escluse altre cause in presenza di
quadri patologici marginali;
il quadro patologico è negativo, ma la storia è
positiva ed è possibile escludere altre cause (ad
es., morte in corso di crisi epilettica e/o morte
violenta da elettrocuzione senza marchio elettrico evidente);
causa della morte non determinata.
luogo) sulla ricerca di precedenti clinico-anamnestici, sui fattori sociali ed ambientali, ecc. Un corretto schema investigativo preliminare fornisce preziosi elementi di orientamento e
guida per la condotta dell’esame autoptico e per i prelievi da
effettuare per ulteriori indagini di laboratorio oltre a quelle
standard. Infatti, la valutazione integrata di tutti i dati da acquisire a seconda delle peculiarità del caso e non solo la mera diagnosi autoptica è indispensabile per la definizione della modalità (naturale o violenta) dell’evento letale (manner of
death) e quindi dei mezzi che hanno prodotto il decesso, sia
nel sospetto di morte collegata a causa lesiva, sia quando la
possibile interferenza di fattori naturali e non naturali è comunque suggerita dal dato circostanziale (si pensi ad una
morte inaspettata in corso di attività sportive o durante un litigio o in ambiente ostile: natural death under non natural
circumstances).
Nell’approfondimento dell’indagine epicritica, il patologo
forense deve ragionare, in base a criteri aggiornati, sul rapporto tra causa della morte ed antecedenti (cause esterne) di
possibile rilievo forense, partendo da dati obiettivi completi, documentabili e confrontabili. Appare dunque evidente
la necessità di procedure basate su parametri dettati da linee
guida e standard minimi: le prime costituiscono orientamenti operativi, non vincolanti, che anzi possono essere variati in relazione alle diverse esigenze del caso mentre i secondi rappresentano delle procedure operative inderogabili,
espressione del livello di qualità della prestazione professionale e premessa per eliminare e/o ridurre le cause di errore. Alcuni riferimenti operativi concernenti le diverse fasi dell’ indagine in patologia forense: raccolta dei dati circostanziali e documentali, indagine di sopralluogo (indispensabile in alcune situazioni: ad es. morti nell’infanzia, in
ambiente carcerario, ecc.), esame esterno ed autopsia nonchè i prelievi ai fini delle indagini tanatochimiche e chimico-tossicologiche saranno proposti in sede congressuale. La
selezione e proposta delle linee guida sarà effettuata in collaborazione con A. Lopez (Roma), M. Montisci (Padova) e
C. Campobasso (Bari).
Bibliografia
Cattabeni CM, et al. Il fenomeno della morte improvvisa. Min Med Leg
1967;87:58-177.
Moritz AR. Classical mistakes in forensic pathology. Am J Clinical Path
1956;26:1383-1385.
Hanzlick R, et al. A guide for manner of death classification. Name ed.
2002;23.
Priori SG, et al. Task force report. Eur Hearth J 2001;22:1374-1450.
Morte improvvisa cardiaca.
Metodologia di studio morfologico
G. d’Amati
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università di Roma “La Sapienza”
Un prerequisito fondamentale per il corretto inquadramento
diagnostico dei casi di morte improvvisa (MI) cardiaca è
l’applicazione di un protocollo dettagliato di raccolta dati
anamnestici e di analisi morfologica del cuore, dei grandi vasi e delle arterie coronarie a livello macroscopico ed istologico, a cui si deve aggiungere il prelievo di fluidi biologici e di
campioni tessutali (miocardio, rene, fegato) a fresco per
eventuali esami tossicologici od indagini biomolecolari.
Il protocollo di raccolta dati include le caratteristiche anagrafiche, l’anamnesi prossima e remota, le circostanze del decesso e, ove disponibile, la documentazione clinico-strumentale, in particolare elettrocardiografica. Questi dati sono utili
per restringere il campo delle ipotesi diagnostiche. Prerequisiti all’analisi morfologica sono la disponibilità di un apparato fotografico (anche in transilluminazione) e di mezzi di rilevamento di pesi e misure. Requisiti addizionali – anche se
non indispensabili – sono rappresentati dall’attrezzatura radiografica, per effettuare coronarografie o radiografie cardiache postmortem. In effetti, l’analisi morfologica del cuore va
corredata da una documentazione fotografica e dalla misurazione del peso e del diametro dell’organo, nonché degli spessori ventricolari, al fine di ottimizzare le correlazioni anatomo-cliniche e di conservare una documentazione che può rivelarsi utile per ulteriori indagini o per motivi medico-legali.
Il cuore va comunque conservato fino alla formulazione della diagnosi definitiva. L’esame delle coronarie consiste nella
valutazione del numero, dell’origine, del decorso e delle caratteristiche del lume. I tagli sulle coronarie (tronco comune,
rami discendente anteriore e circonflesso e coronaria destra)
vanno sempre effettuati in maniera trasversale rispetto all’asse lungo del vaso, ad una distanza di circa 3-4 mm l’uno dall’altro. In questo modo è possibile valutare con esattezza la
percentuale di stenosi del lume vasale, e si minimizza il rischio di dislocare eventuale materiale trombotico intraluminale con la punta delle forbici, come può accadere quando il
vaso viene tagliato in modo longitudinale. Le coronarie possono essere aperte in situ, ma nel caso di cardiopatia ischemica, l’albero coronarico va asportato in toto e sezionato prima dell’apertura del cuore. Questa procedura si applica, ovviamente, anche ad eventuali by-pass aortocoronarici. In presenza di gravi calcificazioni, le coronarie vanno decalcificate prima di effettuare i tagli trasversali.
L’apertura del cuore a partire dall’atrio destro, secondo la direzione del flusso sanguigno è la metodica attualmente di uso
più comune, ma non è sicuramente la più idonea specialmente nei casi di MI cardiaca. La scelta dei tagli sul miocardio va
fatta, ove possibile, in modo da ottimizzare l’evidenziazione
delle diverse patologie che possono essere causa di MI car-
MORTE IMPROVVISA CARDIACA
diaca. La conoscenza della storia clinica e delle circostanze
del decesso, nonché l’esame esterno del cuore sono quindi di
grande importanza nell’indirizzare questa scelta. I tagli sul
miocardio vanno effettuati preferibilmente dopo fissazione.
Il protocollo prevede:
A) Se l’orientamento diagnostico è verso la cardiopatia
ischemica, le coronarie vanno asportate in blocco ed il miocardio va tagliato secondo il piano ecocardiografico “asse
corto”. Questo taglio permette di evidenziare al meglio la localizzazione e l’estensione dell’area ischemica, anche in rapporto alla distribuzione delle lesioni coronariche.
B) Nel caso di cardiopatie valvolari, sospettate all’ispezione
degli atri e dei vasi arteriosi, si procede ad un’ampia esposizione delle valvole, alla valutazione della mobilità e continenza dei lembi valvolari ed alla documentazione fotografica.
Si procede quindi all’effettuazione di tagli “asse corto”, per
non sezionare l’anello valvolare. Questa procedura si rende
particolarmente opportuna in presenza di protesi valvolari.
C) Nei casi di cardiomiopatia ipertrofica o di cardiopatia
ipertensiva la migliore valutazione della morfologia cardiaca
è offerta dal taglio ecocardiografico “asse lungo”.
D) Per quanto riguarda le cardiomiopatie aritmogena e dilatativa, queste patologie vengono evidenziate in maniera ottimale con il taglio “quattro camere”, seguito dalla visualizzazione del miocardio in transilluminazione e dalla sezione del
“triangolo della displasia” che mettono in rilievo l’estensione e la distribuzione della sostituzione fibro-adiposa del miocardio che caratterizza la cardiomiopatia aritmogena.
E) L’apertura del cuore secondo la direzione del flusso sanguigno è indicata nel caso delle cardiopatie congenite, perché
permette lo studio ottimale delle connessioni anatomiche.
F) Nel caso di anomalie della conduzione, accertate o sospettate in vita con l’esame elettrocardiografico, i tagli “asse
corto” vanno condotti non oltre l’apice dei muscoli papillari,
e si procede quindi a prelievi mirati (nodo del seno, tessuto
di conduzione atrioventricolare o vie di conduzione accessorie, a seconda del quadro elettrocardiografico).
G) Se i dati anamnestici raccolti e l’esame esterno del cuore
non suggeriscono alcun orientamento diagnostico, è consigliabile aprire il cuore mediante tagli “asse corto”, a cui può
seguire l’apertura degli atri e dei grandi vasi per l’ispezione
degli apparati valvolari.
Al termine dell’esame macroscopico si effettuano i prelievi
per l’indagine istologica. Oltre alle lesioni significative eventualmente evidenziate, il campionamento delle arterie coronarie deve essere sistematico in tutti i casi. Il campionamento del miocardio prevede un numero di prelievi da effettuare
in sedi standardizzate su entrambe i ventricoli e sul setto interventricolare, a cui si devono aggiungere prelievi mirati su
eventuali lesioni macroscopicamente apprezzabili, o, in presenza di gravi stenosi o di occlusioni delle coronarie, sul
miocardio a valle del ramo interessato. I prelievi sulle valvole vengono effettuati in caso di alterazioni morfologiche microscopicamente apprezzabili. Le sezioni istologiche vanno
colorate con ematossilina-eosina e con una colorazione tricromica modificata per l’evidenziazione delle fibre elastiche.
A queste due colorazioni di base possono esserne aggiunte altre, a seguito della prima valutazione al microscopio ottico,
nonché eventuali indagini biomolecolari per la ricerca di genoma virale o di alterazioni genetiche.
275
Morte improvvisa cardiaca. Consenso sulla
diagnosi anatomopatologica
G. Caruso, A. Marzullo
Patologia Cardiovascolare, Dipartimento di Anatomia Patologica e di Genetica, Università di Bari
La morte improvvisa (MI) è un evento che viene classicamente suddiviso per fasce di età in forme infantili (tra 1 mese e
l’anno di vita), giovanili (al di sotto dei 35 anni di età) e in forme dell’adulto (al di sopra dei 35 anni). Le forme giovanili e
dell’adulto sono quasi sempre di origine cardiaca, con uno
spettro anatomopatologico non solo molto ampio, ma in specifiche rare patologie anche difficile da riconoscere al tavolo
anatomico. Le incerte condizioni della morte, talvolta non testimoniata, possono inoltre porre problemi di diagnosi differenziale con morti non naturali, di interesse eminentemente
medico-legale, ma con evidenti ripercussioni di interpretazione dell’evento e di riconoscimento di eventuali responsabilità.
Le cause anatomopatologiche di morte improvvisa cardiaca
(MIC) sono talmente tante (praticamente in letteratura sono
state riportate tutte o quasi le patologie cardiache esistenti)
che solo un approccio metodologico rigoroso e codificato
può consentire di fare diagnosi della patologia in maniera
corretta. Bisogna inoltre considerare che in questo ambito è
necessario comprendere se la patologia riscontrata ha causato la morte del soggetto o non si tratti piuttosto di un epifenomeno associato, ma non causale.
Le metodiche di dissezione anatomica e di studio istologico, per quanto possano essere diverse (abitudini di scuola
anatomopatologica) devono sempre comunque consentire
di giungere ad una diagnosi quanto più precisa e completa,
che soddisfi non solo il patologo, al termine di un lavoro
spesso complesso e indaginoso, ma soprattutto i clinici che
abbiano eventualmente avuto in cura il soggetto e ancor più
ovviamente i familiari, in un contesto così improvviso e
drammatico.
Il contributo che il gruppo dei Relatori di questo Corso Breve intende dare, attraverso gli handout in distribuzione alla
fine del Corso stesso, è il risultato di una esperienza, individuale e collettiva, che possa essere d’aiuto anche per i patologi più giovani e meno esperti nel campo della MIC. Negli
handout verranno infatti proposti gli elementi fondamentali
che devono essere presi in considerazione dal punto di vista
anatomo-clinico per una corretta diagnosi di MIC.
Il “consenso” sulla diagnosi anatomopatologica in caso di
MIC deve evidentemente basarsi su un accordo su quali siano i parametri “di minima” per la diagnosi di inclusione del
quadro anatomo-clinico in oggetto come MIC. Allo stesso
tempo l’accordo deve chiaramente indicare i criteri di esclusione di un caso dal contesto di MIC (per definizione per
esempio non è MIC una morte improvvisa, ma nell’ambito di
una anamnesi positiva per una patologia cardiaca grave, di
cui l’evento finale improvviso rappresenta solo la modalità di
morte. In altre parole si tratta di una morte improvvisa, ma
non inaspettata, per la positività anamnestica di una patologia nella cui storia naturale la morte improvvisa rappresenta
un evento possibile e statisticamente significativo). Pertanto,
rispettando i criteri di definizione, la MIC deve essere temporalmente definita come rapida (entro 1-2 ore dall’inizio di
eventuali sintomi), deve essere inaspettata (assenza di patologie cardiovascolari pregresse o presenza di patologie non
tali da far prevedere l’evento finale) e deve essere infine, al
termine di un completo esame anatomo-clinico, corredata da
una diagnosi precisa e incontrovertibile.
CORSI BREVI - SLIDE SEMINARS
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La maggiore criticità nel consenso anatomopatologico deriva
proprio dalla diagnosi anatomopatologica, o meglio, dalla
“consistenza” dei rilievi macro/microscopici, in senso qualitativo e quantitativo. Nel senso della qualità, poiché come già
detto qualunque patologia cardiovascolare almeno in teoria
può portare a MIC, una buona preparazione anatomopatologica di base dovrebbe permettere di riconoscere ogni condizione patogeneticamente efficace nel determinismo della
MIC. Le numerose classificazioni esistenti in letteratura, generalmente basate sul meccanismo deterministico della
“morte da causa meccanica” o “morte da causa elettrica”,
elencano in maniera esaustiva, anche dal punto di vista statistico-epidemiologico, tutte le condizioni causa di MIC. Il riconoscimento della lesione anatomopatologica perciò dovrebbe essere dato per scontato, almeno allorquando lo studio anatomoclinico è stato condotto con rigore metodologico.
Al contrario dal punto di vista quantitativo non vi sono ancora dati in letteratura che consentano di definire con certezza
l’entità di una lesione nel determinismo della MIC. In altre
parole l’interpretazione dei dati è ancora derivante da esperienze personali e dall’abilità del patologo, ed è quindi potenzialmente opinabile. In campo medico-legale ovviamente
si tiene molto in conto l’epicrisi nelle considerazioni finali,
basate per l’appunto sulla formazione professionale ma anche sull’interpretazione personale di chi ha fatto la diagnosi,
nella fattispecie il patologo.
Il concetto di quantità di una lesione possibile causa di MIC
si applica molto raramente per le lesioni in eccesso (capita
talvolta di trovare più di una possibile causa di MIC al tavolo autoptico, per cui bisogna scegliere quella più verosimile
rispetto al quadro anatomo-clinico), ma ben più spesso riguarda i criteri minimi di lesione. Il più delle volte la patologia è eclatante, tanto da non lasciare dubbi, ma talvolta le lesioni sono così sfumate o evidenti solo ad un occhio esperto,
da creare notevoli problemi di diagnosi È evidente pertanto
che un consenso sul “minimo di lesione” almeno per le più
importanti cause di MIC è essenziale.
La suddivisione per ogni singola patologia in criteri maggiori, minori e aggiuntivi può essere proposta utilmente allo scopo di aiutare il patologo nella diagnosi di MIC, purché sia basata su elementi non soggettivi e condivisibili.
A scopo esemplificativo nella MIC dovuta a patologia coronaria (che rappresenta la stragrande maggioranza delle MIC
nelle letteratura mondiale) i criteri potrebbero essere i seguenti:
Criteri maggiori: rottura di placca coronarica, trombosi su
placca, infarto acuto del miocardio.
Criteri minori: stenosi coronarica su placca stabile, malattia
coronaria trivascolare, infarto cicatriziale.
Criteri aggiuntivi: placca “instabile”, ipertrofia ventricolare
sinistra, positività per fattori di rischio aterosclerotico.
Negli handouts sarà per l’appunto proposto un sistema esemplificativo di tale suddivisione, che possa almeno nella fase
iniziale servire come linea guida per una possibile diagnosi.
In casi di particolare difficoltà, a causa della rarità della patologia in oggetto, o di dubbio di interpretazione anatomopatologica, si potrebbe suggerire la costituzione di un panel di
esperti nazionali, disponibili su richiesta.
Morte improvvisa cardiaca: genetica clinica
e molecolare
A. Nava, B. Bauce
Clinica Cardiologia, Università degli Studi di Padova
L’applicazione delle conoscenze di genetica nel campo della
cardiologia ha tra i suoi obiettivi principali la prevenzione
della morte improvvisa giovanile. Questa è dovuta per la
gran parte dei casi ad aritmie ventricolari associate alla presenza di patologie cardiache, che sono quasi sempre ereditarie-genetiche. Non raramente la morte improvvisa è il primo
sintomo della malattia, ed in questi casi risulta fondamentale
l’esecuzione dell’esame autoptico, il cui risultato potrà indirizzare il clinico ed il genetista sulle indagini più opportune
da eseguire nei familiari. Attualmente sono stati individuati i
geni-malattia della sindrome del QT lungo, della sindrome di
Brugada, delle aritmie ventricolari polimorfe indotte da sforzo associate o meno a cardiomiopatia (cardiomiopatia aritmogena forma ARVD2), della cardiomiopatia ipertrofica,
della cardiomiopatia aritmogena (forma ARVD8).
Di altre malattie sono stati individuati alcuni loci che possono contenere geni candidati come responsabili della patologia. La genetica quindi sta facendo dei progressi nell’individuare le mutazioni responsabili delle patologie aritmiche, ma
la ricaduta clinica delle scoperte genetiche non è immediata
e a volte risulta di difficile interpretazione. Infatti, in presenza di un soggetto geneticamente affetto vanno valutati tre fattori: il tipo di gene alterato (per che tipo di proteina tale gene codifica), l’espressione fenotipica della mutazione e la
correlazione genotipo-fenotipo. Esistono infatti diverse possibilità: la prima che un genotipo alterato si accompagni ad
un fenotipo malato; la seconda che accanto ad un genotipo alterato sia presente un fenotipo sano; la terza che accanto ad
un genotipo malato vi sia un fenotipo border-line. È chiaro
che mentre la prima situazione favorisce il clinico, le altre
due creano dei problemi di valutazione clinica e terapeutica,
problemi che sono diversi a seconda della patologia considerata. Inoltre nonostante alcune mutazioni siano state messe in
chiara relazione con una specifica patologia, non tutti i soggetti che presentano la patologia sono poi portatori della mutazione conosciuta, essendo presente quindi un certo grado di
eterogenicità genetica. Appare evidente che la genetica in
questi casi non è risolutiva sia nel porre la diagnosi che nell’indicare il comportamento clinico più adatto. La miglior conoscenza delle basi genetiche delle malattie aritmogene ha
portato alla luce nuove problematiche non immaginabili fino
a poco tempo fa, quando si riteneva che la dimostrazione in
un soggetto di una mutazione genetica avrebbe aiutato anche
nell’iter diagnostico e terapeutico. Questo invece è vero solo
in parte, perché la dimostrazione di un’alterazione genetica ci
aiuta solamente nella diagnosi, in quanto l’espressione fenotipica può essere completamente differente nei soggetti con
genotipo alterato. Questo fatto complica ulteriormente la nostra capacità decisionale. In conclusione la genetica e la biologia molecolare porteranno sicuramente ad una migliore conoscenza delle patologie aritmogene, ma in questo momento
possono creare anche dei problemi metodologici sotto il profilo clinico non facilmente risolvibili.