Nozioni di base di psicopedagogia 2 -90 ORE

APPRENDIMENTO
Processo psichico che produce una modificazione durevole nel comportamento, nelle
competenze, nel patrimonio di conoscenze, nelle strutture concettuali di un soggetto, non dovuta a
fattori innati o fenomeni biologici di ordine maturazionale, ma alla relazione con l’ambiente e
quindi all’esperienza.
Imparare a leggere
La capacità di leggere, la conoscenza delle regole grammaticali fondamentali e l'acquisizione di
nuovi vocaboli migliorano rapidamente verso i sei-sette anni. Nella foto, una bambina di sette anni
viene aiutata dalla madre nella lettura di un testo in cinese.
TEORIE SULL’APPRENDIMENTO
Il Comportamentismo
Le prime teorie sull'apprendimento sono state elaborate all'interno della psicologia
comportamentista, nata nella prima metà del XX secolo e fondata sull'assunto di base che la
psicologia deve limitarsi a studiare i comportamenti osservabili, in quanto ciò che avviene
all'interno della mente è inconoscibile. Dunque, i comportamentisti studiano l'apprendimento
esclusivamente in termini di modificazioni comportamentali. Essi affermano l'esistenza di leggi
universali che regolano sia l'apprendimento umano sia quello animale. In particolare, John Broadus
Watson sostiene che l'apprendimento sarebbe basato sul processo di "condizionamento classico":
sulla base di quanto scoperto dal fisiologo russo Ivan Pavlov, se a uno stimolo incondizionato (ad
esempio la vista e il profumo del cibo), che normalmente produce un certo riflesso incondizionato
(ad esempio la salivazione del soggetto cui viene mostrato il cibo), si associa ripetutamente uno
stimolo neutro (ad esempio un suono), si ottiene presto che alla sola presentazione dello stimolo
neutro (il suono) il soggetto manifesta la risposta (la salivazione) normalmente associata solo allo
stimolo incondizionato (il cibo). In altre parole, il riflesso incondizionato diventa risposta
condizionata, o appresa. Ciò spiega come il soggetto apprende ad associare a stimoli nuovi una
risposta che già gli appartiene, ma non come apprende a dare nuove risposte.
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Condizionamento classico
Il condizionamento "classico" o "pavloviano" (dal nome di Ivan Pavlov, il fisiologo russo che lo
scoprì) è una forma di apprendimento per associazione. Nell'illustrazione, alla somministrazione di
cibo (stimolo incondizionato) il cane risponde con la salivazione (riflesso incondizionato). Indotto
ad associare al cibo il suono di un diapason (stimolo condizionato), il cane risponderà con la
salivazione anche al manifestarsi del solo suono del diapason (riflesso condizionato).
Gabbia di Skinner
Lo psicologo americano B.F. Skinner disegnò un apparecchio, detto appunto "gabbia di Skinner",
con cui compì esperimenti sul condizionamento degli animali. Sistemati all'interno della gabbia, gli
animali venivano ricompensati con un po' di cibo ogni volta che fornivano la risposta desiderata.
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Burrhus Frederic Skinner continuò gli studi sul condizionamento operante di E.L.
Thorndike, che aveva studiato l’apprendimento negli animali ed era giunto alla conclusione che essi
imparano per prove ed errori: mettendo alla prova, alla cieca, una possibile soluzione dopo l’altra
finché non si trova quella appropriata. Thorndike riteneva che l’effetto di soddisfacimento prodotto
dalla risposta giusta rendesse una sua successiva attuazione molto più probabile. Skinner riteneva
che l’accento messo da Thorndike sulla natura piacevole di un effetto fosse un pregiudizio mentale.
Secondo Skinner, esistono due tipi di comportamento: il comportamento rispondente, formato dalle
risposte riflesse da uno stimolo, causate da collegamenti neurali innati (condizionamento classico);
il comportamento operante, che è volontario e rappresenta la maggior parte del comportamento
umano. I comportamenti operanti non sono indotti dagli stimoli che li precedono, ma da quelli che li
seguono e che sono conseguenza del comportamento stesso. Skinner dimostrò che quando una
risposta era seguita da un certo risultato, era più facile che si ripetesse di nuovo. Chiamò questo
processo “condizionamento operante”.
Il verificarsi di una risposta e di un esito che rende la risposta più probabile è detto rinforzo.
Gli eventi, che hanno l’effetto di diminuire le probabilità che un comportamento si verifichi di
nuovo, vengono chiamati punizioni. Si segnalano due tipi di rinforzi: i rinforzi positivi sono dei fatti
che seguono un comportamento aumentandone la probabilità; ad esempio ottenere del cibo, delle
lodi o delle manifestazioni di affetto. Se si verifica, invece, l’eliminazione di uno stimolo
spiacevole, come una scossa elettrica o un rumore molto forte, si rafforza il comportamento che l’ha
preceduta; questi stimoli vengono chiamati rinforzi negativi. Il condizionamento operante permette
non soltanto di variare la frequenza con cui si manifestano alcuni comportamenti, ma anche di
determinare la manifestazione di comportamenti nuovi. Questo si ottiene con il modellaggio, un
metodo consistente nel rinforzare gradualmente i comportamenti che si avvicinano al
comportamento voluto
L’APPRENDIMENTO SOCIALE
Apprendimento sociale
Fra compagni di studio, il confronto reciproco e la condivisione di idee nella sperimentazione di
nuove soluzioni costituiscono momenti fondamentali del processo di apprendimento; permettono
anche la puntualizzazione o la ridefinizione di quanto appreso in precedenza.
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Un approccio diverso al problema è rappresentato dalle teorie dell'apprendimento sociale.
Attorno al 1970 Albert Bandura introdusse il concetto di “apprendimento osservativo": il soggetto
apprende per imitazione comportamenti che ha modo di osservare in altre persone. Questo processo
di modellamento avviene in riferimento a persone e comportamenti che, per varie ragioni, appaiono
attraenti al soggetto che li osserva, li imita e in questo modo apprende. Le persone e i
comportamenti imitati vengono detti modelli. Se l’osservatore è un bambino i modelli possono
essere altri bambini, genitori, insegnanti, parenti, ma anche personaggi televisivi, del mondo dello
sport, protagonisti dei fumetti o dei cartoni animati. La punizione o il rinforzo del comportamento
della persona presa a modello ha sull’osservatore lo stesso effetto che ha sul modello stesso.
L’osservatore non ha bisogno di essere rinforzato direttamente per imitare.
Secondo Lev Semënovic Vygotsky (1896-1932) l'apprendimento avviene all'interno e grazie
alle interrelazioni fra il bambino e le persone che lo circondano. Apprendimento e sviluppo sono
collegati fin dai primi giorni di vita del bambino. Per Vygotsky esistono due livelli di sviluppo nel
bambino. Il primo è il livello dello sviluppo effettivo del bambino, cioè il grado di sviluppo delle
funzioni psico-intellettive già raggiunto. Con l’aiuto dell’adulto il bambino può fare molto di più di
quanto possa fare con le sue capacità in modo autonomo. Ciò che il bambino fa con la guida degli
adulti, in seguito sarà in grado di farlo da solo. Questa capacità potenziale di apprendimento viene
detta “area di sviluppo potenziale”. Le funzioni psico-intellettive compaiono prima nelle attività
sociali e nell’interazione con gli altri, in un secondo tempo nelle attività individuali, come
caratteristiche interne del pensiero del bambino. L’apprendimento dà origine all’area di sviluppo
potenziale, cioè stimola nel bambino dei processi di sviluppo all’interno delle interrelazioni con gli
altri, che in seguito vengono assimilate e diventano acquisizioni interne del bambino. In questa
prospettiva l'apprendimento precede e causa lo sviluppo psichico.
EPISTEMOLOGIA GENETICA
(Teoria della conoscenza. 2 Filosofia della scienza | Riflessione intorno ai principi, ai limiti e al
metodo della conoscenza scientifica).
Una prospettiva diversa viene proposta da Jean Piaget, che sostiene che sarebbe lo sviluppo
biologicamente determinato delle strutture intellettive a consentire un rapporto sempre più adeguato
con la realtà, e quindi l'apprendimento.
Jean Piaget
Lo psicologo svizzero Jean Piaget è noto per i suoi studi sullo
sviluppo mentale dei bambini. Nel 1955 fondò il Centro
internazionale e interdisciplinare di epistemologia genetica
dell'Università di Ginevra.
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IL COGNITIVISMO
A partire dal 1980 circa, la teoria cognitivista propone un ulteriore punto di vista
sull'apprendimento. A differenza del comportamentismo, il cognitivismo è fortemente interessato ai
processi mentali, tanto da affermare che un cambiamento a livello comportamentale è sempre
connesso e spiegabile in base a un cambiamento a livello cognitivo. In quest'ottica, l'apprendimento
sarebbe il risultato della complessa interazione tra fattori interni ed esterni, e in particolare dei
processi mentali attraverso cui vengono elaborati gli input esterni. L'apprendimento non
consisterebbe quindi nel semplice trasferimento dell'informazione esterna all'interno, ma sarebbe
piuttosto il risultato di una sua complessa trasformazione a livello cognitivo. Il soggetto è dunque
un attivo costruttore delle sue conoscenze. Questa concezione dell'apprendimento come processo
costruttivo attivo prevede inoltre che l'acquisizione di nuove conoscenze produca una modificazione
di quelle già possedute. Ogni volta che il soggetto impara qualcosa di nuovo modifica le sue
strutture concettuali: riorganizza le sue conoscenze ma anche le procedure atte a padroneggiarle e a
utilizzarle. Quest'ultimo aspetto è oggetto di studio soprattutto del recente filone di ricerca
sull'apprendimento in età adulta.
IDENTITA’
In psicologia, termine che indica la relazione che l'Io intrattiene con se stesso e implica la
continuità dell'individuo nel tempo e nello spazio in quanto distinto dagli altri.
Il più importante contributo alla comprensione dell'identità psicologica proviene dalla psicoanalisi.
La formazione dell'identità costituisce un lungo processo che ha inizio nelle prime fasi dello
sviluppo infantile e che si consolida nella vita adulta, come emerge dal lavoro di Erik Erikson, il
quale afferma che il tema principale della vita è la ricerca dell’identità, intesa come comprensione e
accettazione di sé. Le basi dell'identità derivano dalla separazione tra il soggetto e il mondo esterno,
mentre il suo sviluppo è reso possibile da una serie di identificazioni, cioè di assimilazioni delle
caratteristiche dei modelli esterni (in primo luogo i genitori). Quando le caratteristiche costitutive
dell'identità sono saldamente acquisite, l'individuo giunge al termine di quello che Margaret Mahler
chiamò "processo di separazione-individuazione", con cui si compie la costruzione dell'identità,
destinata a rimanere relativamente stabile per tutta la vita a meno che non si verifichino eventi
traumatici o stressanti di particolare gravità. Tutti i disturbi mentali implicano, in questo senso e in
misura diversa, dei disturbi dell'identità.
1. ES (IN PSICOLOGIA)
In psicoanalisi, una delle tre istanze della psiche umana, insieme a Io e Super-Io. L'Es viene
definito come il lato ignoto e misterioso della personalità e comprende contenuti inconsci innati ed
ereditari, oltre a desideri, pensieri e sentimenti rimossi, perché inaccettabili per la coscienza.
L’Es è il fondamento originario dell’apparato psichico, infatti l’Io e il Super-Io sono
generati dall’Es e per tutta la vita attingono da esso l’energia psichica necessaria all’esercizio delle
loro funzioni. L'Es è il grande contenitore dell’energia vitale, che Freud chiamò libido. Nell’Es
agiscono le pulsioni, il cui unico scopo è l’appagamento.
Secondo Freud, la psiche agisce come una struttura costantemente incalzata dalla tensione
prodotta da forze interne ed esterne. L’unica motivazione dell’Es è la riduzione della tensione, cioè
la gratificazione e il piacere da essa fornito. Per questo motivo Freud descrisse l’Es come il campo
d'azione del principio di piacere. Nell’Es non prevale la logica, possono coesistervi impulsi opposti
senza eliminarsi l'un l'altro.
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Nel tentativo di raggiungere un’immediata gratificazione, senza tener conto della realtà, l’Es
entra in conflitto con l’Io e il Super-Io. Per questo motivo contiene i desideri rimossi e i meccanismi
di difesa dell’Io. La censura, infatti, impedisce l’accesso alla coscienza dei desideri inaccettabili
che, una volta rimossi, permangono vivi nell’Es.
2. L’IO (IN PSICOLOGIA)
In psicoanalisi, una delle tre istanze psichiche, accanto a Es e Super-Io. L’Io è deputato ai
rapporti con la realtà ed è influenzato dai fattori sociali. L’Io inizia a strutturarsi dal momento della
nascita, separandosi dall’Es, affinché possa svilupparsi il necessario adattamento dell’individuo
all’ambiente e funge da intermediario tra il mondo interno e quello esterno.
Nei riguardi dell’Es svolge una funzione difensiva, poiché quest’ultimo tende in modo cieco
alla soddisfazione dei bisogni istintivi, rischiando così di essere distrutto. L’Io ha il compito di
collegare i diversi processi psichici, poiché deve difendere la sua esistenza dai pericoli
dell’ambiente e dalle eccessive pretese dell’Es, di conseguenza possiede tratti sia consci sia
inconsci.
L’importante compito dell’Io consiste nel trovare i metodi più idonei a conciliare le richieste
dell’Es con quelle della realtà. A tal fine tenta di raggiungere il controllo sugli istinti seguendo il
principio di realtà invece del principio di piacere. Se lo ritiene opportuno, l’Io può rimandare la
soddisfazione dei desideri istintivi a occasioni e circostanze più favorevoli oppure può reprimerli,
perché pericolosi o poco adeguati alla situazione reale.
L’Io non è necessariamente in conflitto con l’Es; in origine la sua funzione è di favorire
l’appagamento istintivo, ma un conflitto può insorgere per quanto riguarda il modo di raggiungere
lo scopo. L’Io, infatti, tende a dilazionare la gratificazione nella ricerca di un oggetto reale nel
mondo, mentre l’Es reclama l’immediata soddisfazione dei suoi desideri, senza tenere nessun conto
della realtà esterna, di cui del resto non è consapevole.
3. SUPER-IO (IN PSICOLOGIA)
In psicoanalisi, istanza dell'apparato psichico, assieme a Es e Io. Il Super-Io viene definito l’erede
del complesso di Edipo, in altre parole si tratterebbe di una trasformazione dell’Io dovuta
all’assimilazione delle norme morali e sociali.
Il Super-Io si sviluppa gradualmente nel bambino attraverso l'adozione inconscia dei valori e delle
norme morali dei genitori, in una prima fase dello sviluppo, e successivamente dell'ambiente
sociale. Svolge un ruolo importante nel determinare lo sviluppo dell’autocontrollo del bambino.
Il Super-Io rispecchia le leggi e tutte le limitazioni morali. La sua funzione è l’autocritica, la
coscienza morale, la costruzione di ideali. Non corrisponde alla coscienza morale, nel senso
tradizionale, perché agisce in modo essenzialmente inconscio. Il Super-Io reprime le pulsioni e si
contrappone all’Io e all’Es, attenendosi a principi assoluti. Aspira alla perfezione e presenta tratti di
severità e rigidità che non appartenevano propriamente ai genitori. Giudica rigorosamente non solo
le azioni, ma anche i pensieri dell’Io, suscitando in quest’ultimo profondi sensi di colpa.
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DISTURBI DELLA PERSONALITA’
Insieme dei tratti che caratterizzano la struttura intellettuale, affettiva e comportamentale di
un individuo e che costituisce un sistema relativamente stabile di adattamenti nei confronti
dell’ambiente e di se stessi; è il risultato di fattori costituzionali, dello sviluppo e dell’esperienza
sociale.
Il termine deriva dal latino persona, che indicava dapprima la maschera utilizzata dagli attori
dell’antichità e in seguito non solo la maschera, ma anche il ruolo da essa implicato. In questo senso
la personalità rappresenta i tratti comuni che caratterizzano alcuni individui, ad esempio la
personalità estroversa, oppure timida; in un’altra accezione, però, la personalità indica ciò che è
unico in un individuo, ciò che lo distingue dagli altri.
Esistono vari approcci allo studio della personalità; tra di essi si possono individuare
indirizzi diversi: la psicoanalisi, che attribuisce un ruolo preminente ai processi inconsci; la teoria
comportamentistica, che privilegia i processi di apprendimento – in particolare l’apprendimento per
osservazione, per cui la personalità si sviluppa attraverso l’imitazione di modelli positivi o negativi
presenti nell’ambiente; la teoria socio-cognitiva che definisce la personalità come il risultato delle
rappresentazioni mentali di un individuo, cioè della sua particolare visione del mondo; la teoria
umanistico-esistenziale secondo la quale la motivazione fondamentale del comportamento umano è
il bisogno di crescita e di autonomia.
2. FORMAZIONE E SVILUPPO DELLA PERSONALITA’
Fattori genetici e ambientali (socio-culturali) interagiscono tra loro nella formazione della
personalità. Fin da quando hanno pochi giorni di vita, i bambini differiscono tra loro (alcuni, ad
esempio, sono più attivi di altri) per variabili già presenti al momento della nascita e derivanti da
fattori ereditari e da circostanze oggettive quali l'andamento della gravidanza e del parto.
Sviluppo della socialità
Verso i sei anni, e fino alla prepubertà, il
bambino tende ad allargare le proprie relazioni
sociali a soggetti estranei alla cerchia familiare e
ad apprezzare particolarmente la compagnia di
alcuni coetanei. In tale fase, si stabiliscono
amicizie profonde ed esclusive, spesso con un
solo compagno o comunque entro gruppi
ristretti. La fiducia reciproca, la condivisione di
giochi e confidenze, e l'accettazione da parte dei
coetanei divengono elementi fondamentali per lo
sviluppo dell'autostima.
Gli eventi esterni possono influenzare lo
sviluppo della personalità in misura maggiore o
minore a seconda dell'età in cui si verificano.
Molti psicologi ritengono, infatti, che esistano
dei periodi particolari nello sviluppo del
bambino durante i quali è maggiore la sensibilità
agli stimoli ambientali.
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La maggior parte degli studiosi ritiene che la famiglia sia cruciale per lo sviluppo della
personalità. L'attenzione dei genitori ai bisogni basilari del bambino e il modo in cui questo viene
accudito ed educato, il processo di identificazione con il genitore dello stesso sesso e l'eventuale
confronto con fratelli e sorelle sono elementi che hanno un’influenza fondamentale sulla
formazione della personalità. Alcuni studiosi, come l'antropologa Margaret Mead, hanno inoltre
evidenziato l'importanza delle tradizioni sociali e culturali nello sviluppo della personalità.
I primi studi del settore sostenevano che i tratti presenti nell'individuo si combinassero per
formare la personalità e che questa si mantenesse stabile nel tempo e nelle diverse circostanze.
Attualmente, invece, si ritiene che la personalità cambi continuamente per adattarsi alle esigenze
dell'ambiente.
Test di Rorschach
All'inizio degli anni Venti, Hermann
Rorschach elaborò un test proiettivo
di indagine della personalità, che
viene usato ancora oggi in
psichiatria. Al paziente vengono
mostrate dieci tavole in cui macchie
d'inchiostro simmetriche evocano
forme, ricordi, emozioni: l'analisi di
queste libere associazioni di idee
consente allo psicologo e allo
psichiatra di scoprire i tratti salienti
della personalità del paziente.
Tra i metodi più utilizzati per lo studio della personalità ci sono i test proiettivi (Test
psicologici) e i questionari autodescrittivi. I test proiettivi sono composti da stimoli poco strutturati
o strutturati in modo che la risposta del soggetto sia indicativa di alcuni aspetti della sua realtà
interiore. Ad esempio, il test di Rorschach, il più conosciuto dei test proiettivi, è formato da una
serie di macchie di inchiostro cui il soggetto deve attribuire un significato, che verrà
successivamente valutato dall'esaminatore. I questionari autosomministrati (o self-report
inventories) sono invece costituiti da domande sulle abitudini, gli atteggiamenti, le credenze e le
fantasie del soggetto.
Un altro metodo di indagine della personalità è rappresentato dall’osservazione del
comportamento di un individuo in situazioni quotidiane, oppure “di laboratorio”, cioè create
apposta per valutare il comportamento in situazioni particolari. Questo metodo risente però molto
della soggettività dell’osservatore.
DISTURBI MENTALI
Sindromi o condizioni psicologiche e comportamentali che deviano significativamente da
quelle caratteristiche delle persone che godono di buona salute mentale. In diversi periodi storici e
in tutte le culture sono stati riscontrati problemi relativi al pensiero, ai sentimenti e al
comportamento. Nei tempi passati, i disturbi mentali erano considerati perlopiù derivanti da cause
soprannaturali o non naturali, opera di spiriti diabolici o della depravazione umana. Dopo timide
apparizioni nel XVI e XVII secolo, tuttavia, lo studio della mente umana, poi chiamato psichiatria,
acquistò pieno riconoscimento nel 1790. In questa data il medico parigino Philippe Pinel abolì il
contenimento fisico per i malati mentali, istituì il trattamento morale (psicologico) e diede avvio
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agli studi clinici oggettivi. In seguito, attraverso il lavoro clinico con ampi campioni di pazienti, si
definirono i principali tipi di disturbi mentali e si svilupparono tecniche di trattamento differenziate.
2. SISTEMI DI CLASSIFICAZIONE
Dal momento che la suddivisione dei disturbi mentali in classi variava da paese a paese, si è
posta la necessità di adottare un sistema di riferimento comune. Due sono i modelli di
classificazione internazionale, formulati su base statistica: quello dell'Organizzazione mondiale
della sanità (l'International Classification of Diseases, oggi giunto alla decima revisione, e
comunemente indicato con la sigla ICD-10) e quello dell'American Psychiatric Association
(Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, oggi giunto alla quarta edizione, e
comunemente indicato con la sigla DSM-IV).
I due modelli, pur differenti per certi aspetti, sono tra loro integrabili e confrontabili. Il
primo è utilizzato soprattutto per motivi di ricerca, mentre il secondo è ampiamente adottato anche
in ambito clinico.
La maggior parte dei sistemi di classificazione distingue i disturbi caratteristici dell'infanzia
(incluso il ritardo mentale) da quelli dell'adulto, e i disturbi organici (riferibili ad alterazioni
cerebrali o somatiche) da quelli non organici (riferibili a cause psicologiche).
Un'altra distinzione importante nell'ambito dei disturbi mentali è quella tra disturbi psicotici
(in cui è alterato il rapporto del soggetto con la realtà circostante) e nevrotici (in cui il livello di
menomazione del rapporto con la realtà è meno grave). In realtà, a causa dei problemi concettuali
che permangono a proposito del termine nevrosi, solo l'ICD-10 ha conservato questa dizione,
specificandone l'eterogeneità. La distinzione rimane, tuttavia, degna di nota, in quanto viene
comunemente utilizzata da molti clinici. La descrizione dei disturbi qui presentata segue quella del
DSM-IV.
3. DISTURBI DELL'INFANZIA
Si tratta di disturbi che si presentano per la prima volta prevalentemente durante l'infanzia e
l'adolescenza. Il ritardo mentale è caratterizzato dall'incapacità di apprendere e acquisire le abilità
personali e sociali proprie di soggetti della stessa età, nell'ambito della stessa cultura.
Convenzionalmente, si parla di ritardo mentale quando il quoziente d'intelligenza (QI) è pari o
inferiore a 70.
L'"iperattività con deficit di attenzione" è una condizione di marcata incapacità di mantenere
l’attenzione, di impulsività e di iperattività comportamentale. I bambini con questo disturbo
appaiono molto irrequieti e non sono in grado di svolgere compiti, portare avanti attività ricreative e
seguire delle istruzioni.
I disturbi d'ansia, durante l'infanzia, sono prevalentemente legati alla difficoltà di lasciare la propria
casa e i genitori (angoscia di separazione) e alla paura nei confronti degli estranei.
Disturbi più gravi implicano l'alterazione di numerose funzioni essenziali per la crescita, come
l'attenzione, la percezione, l'esame di realtà e il movimento. Un esempio di questo tipo di disturbi è
l'autismo infantile, caratterizzato dall'impossibilità di stabilire dei rapporti con gli altri, da
comportamenti bizzarri e da una grave incapacità di comunicare.
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Altri tipi di disturbi infantili riguardano più strettamente il comportamento. Tra questi si ricordano:
la bulimia (l'eccessiva assunzione di cibo), l'anoressia (il rifiuto di assumere cibo), i tic (movimenti
involontari, ripetuti), la balbuzie (la difficoltà a iniziare a pronunciare le parole che porta a un
caratteristico "inceppamento" nel parlare) e l'enuresi (l'impossibilità di controllare lo stimolo a
urinare, soprattutto durante il sonno).
4. DISTURBI MENTALI ORGANICI
Si tratta di disturbi in cui si presentano anomalie psicologiche e comportamentali associate a
danni cerebrali, transitori o permanenti. I sintomi possono variare a seconda dell'area cerebrale
colpita, della causa della lesione, della sua gravità e della durata.
I danni cerebrali possono derivare da malattie o sostanze (droghe o altro) che distruggono
direttamente le cellule cerebrali oppure da cause che danneggiano il cervello in modo indiretto (ad
esempio, un restringimento delle arterie che interrompe l'afflusso di sangue).
I sintomi psichici caratteristici di questi disturbi possono derivare direttamente dalla lesione
oppure dalla consapevolezza, da parte del paziente, di avere perduto delle funzioni. Uno dei sintomi
principali è il "delirium", uno stato di coscienza alterato che si manifesta con difficoltà a mantenere
l'attenzione, disturbi sensoriali e disturbi di pensiero.
Un altro disturbo organico molto frequente è la demenza, che costituisce la sintomatologia
tipica di molte malattie, come quella di Alzheimer. La demenza è costituita da una serie di disturbi
di memoria, pensiero, percezione, giudizio e attenzione, che rendono progressivamente impossibile
sostenere dei ruoli sociali e lavorativi. Quando si presenta nelle persone anziane, assume il nome di
demenza senile. Ai sintomi sopra elencati si accompagnano sempre disturbi nell’espressione delle
emozioni (instabilità, euforia, apatia, irritabilità).
5. SCHIZOFRENIA
Sindrome che può presentarsi durante l'adolescenza o all'inizio dell'età adulta, la
schizofrenia è caratterizzata da gravi disturbi nell'ambito del pensiero, della percezione, delle
emozioni e delle relazioni interpersonali, da un disturbo nella capacità di percepire il sé, da una
perdita del senso di realtà e dal deterioramento del funzionamento sociale. Il significato del termine,
che richiama lo "sdoppiamento della mente", si riferisce alla dissociazione tra emozioni e pensieri
(da non confondere con lo "sdoppiamento di personalità", che è invece caratteristico delle
personalità multiple).
6. DISTURBI DELIRANTI
Si tratta di disturbi la cui caratteristica centrale è la presenza di un delirio (una credenza
falsa, ma di cui il soggetto è fermamente convinto) di vari contenuti (paranoide, di gelosia, erotico,
di grandiosità, mistico). A differenza di quanto accade nella schizofrenia, spesso il delirio rimane
confinato a un'area ristretta della vita del paziente, che può essere in grado di svolgere attività
sociali e lavorative.
7. DISTURBI DELL'UMORE
Sono costituiti da diverse sindromi, caratterizzate dall'alterazione del tono di umore. Nella
depressione, il sintomo principale è l'abbassamento del tono di umore e un complessivo
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rallentamento del pensiero e delle attività. La mania è l'innalzamento del tono di umore,
accompagnato da un'accelerazione del pensiero e delle attività. I disturbi unipolari sono
caratterizzati da uno o più episodi di depressione, che può avere o meno anche elementi psicotici
(deliri e allucinazioni); i disturbi bipolari sono invece caratterizzati dall'alternanza di episodi
depressivi e maniacali, che possono avere o meno anche elementi psicotici.
8. DISTURBI D'ANSIA
L'ansia costituisce il sintomo centrale in due disturbi: il disturbo da "attacchi di panico"
(episodi in cui si presenta un attacco di ansia acuta, che porta il soggetto a provare dei disturbi fisici
oltre che psicologici) e il disturbo da "ansia generalizzata" (il permanere di una condizione di ansia
stabile, che può durare a lungo).
Altri disturbi d'ansia sono le fobie (paure irrazionali di specifici oggetti, attività o situazioni,
che comportano una serie di comportamenti finalizzati a evitare lo stimolo temuto) e il disturbo
"ossessivo-compulsivo" (presenza di pensieri e impulsi ripetitivi, che il soggetto avverte come
estranei e cui deve sottostare al fine di placare l'ansia).
9. DISTURBI SOMATOFORMI, FITTIZI E DISSOCIATIVI
Comprendono quei disturbi che, un tempo, facevano parte del concetto, oggi in disuso, di
isteria: le reazioni di conversione, il dolore psicogeno, l'ipocondria e i disturbi dissociativi. Tra
questi ultimi si ricordano in particolare le forme di amnesia e fuga psicogena e il disturbo da
personalità multipla.
10. DISTURBI SESSUALI E D'IDENTITÀ DI GENERE
Comprendono i disturbi sessuali su base organica (ad esempio, l'impotenza dovuta a
malattie) e psicologica (sadismo, masochismo, feticismo) e i disturbi d'identità di genere come la
transessualità.
11. DISTURBI ALIMENTARI
Sono i disturbi che riguardano, specificamente, il comportamento alimentare, sia nel senso
del rifiuto di assumere cibo (anoressia nervosa), sia nel senso dell'assunzione smodata di cibo
(bulimia). Le due forme sono frequentemente associate nello stesso soggetto.
12. DISTURBI DEL SONNO
Comprendono sia le difficoltà nel mantenimento di un corretto ciclo sonno-veglia, come
l'insonnia (fatica ad addormentarsi) e la narcolessia (accessi di sonno improvvisi), sia i disturbi che
insorgono durante il sonno (incubi notturni, sonnambulismo).
13. DISTURBI DI PERSONALITÀ
I disturbi di personalità sono condizioni stabili nella vita dell'individuo, caratterizzate dalla
presenza di aspetti di personalità rigidi e disadattativi al punto da compromettere l'adattamento alla
vita quotidiana e le relazioni interpersonali. I principali disturbi di personalità sono quello paranoide
(caratterizzato da estrema sfiducia e sospettosità), schizoide (il cui tratto prevalente è la chiusura nei
rapporti sociali), schizotipico (caratterizzato da chiusura relazionale e dalla presenza di pensieri
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bizzarri), antisociale (il cui tratto distintivo è la presenza di comportamenti devianti dalle norme e
dalle leggi sociali), borderline (disturbo in cui sono presenti marcate oscillazioni comportamentali e
difficoltà nel controllo degli impulsi), istrionico (in cui prevalgono condotte e atteggiamenti di tipo
teatrale, con una caratteristica esagerazione delle emozioni), narcisistico (caratterizzato dal continuo
bisogno di approvazione e ammirazione da parte degli altri), evitante (in cui è prevalente un
atteggiamento teso a evitare il mondo esterno e la paura di assumersi responsabilità), dipendente (in
cui vi è una marcata difficoltà ad autonomizzarsi), ossessivo-compulsivo (caratterizzato da
perfezionismo e meticolosità).
14. INCIDENZA E DISTRIBUZIONE
È molto difficile stabilire quante persone soffrano di disturbi mentali, in quanto solo in parte
esse giungono, nella loro vita, a chiedere aiuto ai professionisti della salute mentale. Solo negli Stati
Uniti, è stata stimata nel 15% circa la quantità di popolazione che, in un anno, ha sofferto per un
disturbo mentale.
Il rischio di sviluppare una forma di schizofrenia nell'arco della vita è di 1 a 100 (cioè di una
persona ogni cento) mentre quello di depressione è di 1 a 10. Con l'aumento dell'età media di
sopravvivenza, negli ultimi decenni è cresciuta notevolmente l'incidenza dei disturbi mentali
organici.
15. DIAGNOSI E TRATTAMENTO
La multiformità dei disturbi mentali rende evidentemente necessario un accurato lavoro
diagnostico per determinare all'interno di quale quadro psicopatologico possa essere collocata la
sintomatologia presentata dal paziente. La diagnosi serve anche a stabilire l'indicazione per i
trattamenti psicoterapeutici più opportuni: fra questi, la terapia psicofarmacologica e le diverse
forme di psicoterapia. In anni più recenti è stata posta particolare attenzione anche al tema della
riabilitazione, ossia alla possibilità di favorire il riadattamento e il reinserimento sociale di individui
che hanno manifestato disturbi mentali anche assai gravi e per lunghi periodi della vita.
NEVROSI
Termine che descrive una vasta gamma di disturbi psicologici, un tempo attribuiti a
disfunzioni neurologiche e oggi considerati esclusivamente di origine psichica. Le nevrosi sono
caratterizzate da ansia, sentimenti di inadeguatezza e insoddisfazione, e disturbi del comportamento.
A differenza delle psicosi, le nevrosi di solito non compromettono l’adattamento sociale e la
capacità di distinguere tra realtà esterna e realtà interna.
La psicoanalisi spiega i sintomi nevrotici come espressione simbolica di un conflitto psichico
inconscio. La nevrosi rappresenterebbe un compromesso tra desiderio e difesa, tra le esigenze
dell’Es da un lato, e quelle dell’Io e del Super-Io dall'altro. L’attuale orientamento riguardo al
disagio nevrotico tende ad ampliare i limiti entro cui intendere il conflitto psichico: non più
circoscritto al solo ambito familiare, alla storia infantile e allo sviluppo sessuale, ma inteso come
un’opposizione tra aspirazioni individuali alla libertà e alla realizzazione di sé e adattamento a
norme collettive, che al soggetto appaiono incompatibili.
Il trattamento elettivo per le nevrosi è la psicoanalisi, o la psicoterapia psicoanalitica. Anche la
modifica del comportamento, l'ipnosi e i farmaci ansiolitici possono dare buoni risultati, consistenti
nella riduzione del disagio soggettivo e dei comportamenti disturbati.
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2. LA CLASSIFICAZIONE CLINICA
Il termine "nevrosi" non ha un unico corrispettivo sul piano clinico e le sottocategorie
dipendono dalla natura dei sintomi; peraltro nella più recente classificazione psichiatrica del
Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, pubblicato nel 1994 (DSM-IV), il termine non
è più compreso, e i disturbi considerati in precedenza come "nevrotici" sono oggi definiti "reazioni
acute allo stress e reazioni di adattamento" e sono stati sostituiti da una serie di altri quadri clinici.
1. Disturbo da ansia generalizzata
Condizione stabile di ansia apparentemente immotivata e spropositata rispetto agli eventi
che la provocano, che può protrarsi lungamente.
2. Disturbo da attacchi di panico
Caratterizzato da accessi di ansia in forma acuta, accompagnati da sintomi fisici (tachicardia,
affanno, tremore, nausea).
3. Fobia
Reazione di intensa paura relativa a oggetti o situazioni generalmente considerati non pericolosi.
Perché si possa parlare di fobia, i sintomi devono essere tali da interferire con la vita quotidiana.
4. Disturbo ossessivo-compulsivo
Persistente intrusione di pensieri estranei e indesiderati (ossessioni) e di azioni la cui necessità è
irresistibile (ad esempio lavarsi le mani, controllare la chiusura dei rubinetti del gas ecc.) e la cui
ultimazione, spesso ritualizzata, comporta una momentanea riduzione dell'ansia.
5. Disturbo d’ansia di separazione
Caratteristico dell'infanzia e costituito da una paura irrazionale di allontanarsi da uno dei genitori.
Spesso i bambini con questo disturbo sviluppano, da adulti, l'agorafobia (una morbosa paura degli
spazi aperti).
6. Disturbo post-traumatico da stress
Termine coniato dopo la guerra del Vietnam per descrivere i sintomi psicologici riportati dai
veterani. Viene utilizzato in relazione ai disturbi che si presentano come conseguenza di esperienze
particolarmente gravi vissute da un individuo. I sintomi comprendono frequenti ricordi "a flash"
dell'esperienza traumatica, disturbi del sonno (insonnia e incubi), ansia, distacco emotivo dalle altre
persone e perdita di interesse nei confronti delle attività quotidiane e lavorative.
7. Distimia (nevrosi depressiva)
Disturbo caratterizzato dalla presenza di umore depresso per la maggior parte del giorno e per un
lungo periodo di tempo. A differenza di quanto accade nella depressione vera e propria, il disturbo
dell'umore non è di entità tale da interferire con le attività abituali.
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8. Nevrosi isterica
Termine oggi in disuso, che si riferisce a un disturbo nevrotico in cui prevalgono i sintomi propri
dell'isteria.
9. Personalità multipla
Disturbo molto raro in cui nella stessa persona coesistono due o più personalità. Spesso una
personalità non è consapevole di ciò che accade quando un'altra personalità è dominante, cosa che
porta il paziente a sperimentare periodi di amnesia. Questo disturbo è spesso una conseguenza di
fatti traumatici occorsi durante l'infanzia.
Disturbi psico alimentari
BULIMIA
Disturbo dell’alimentazione in cui il paziente sembra colpito da fame insaziabile e ingerisce
alimenti in grande quantità e in modo non bilanciato. In molti casi, dopo il pasto si provoca il
vomito o ingerisce lassativi, allo scopo di ingerire nuovamente cibo; in altri casi, la bulimia può
alternarsi con periodi di anoressia, in cui il soggetto rifiuta il cibo.
2. SINTOMI
Gli individui colpiti nel 90% dei casi sono di sesso femminile, hanno in media venti anni e
sono caratterizzati da sovrappeso; la bulimia può insorgere, per contro, anche in soggetti
eccessivamente dimagriti come conseguenza di diete molto ristrette e protratte nel tempo. Il quadro
psicologico rivela un’eccessiva attenzione per la forma fisica, insoddisfazione e disturbi d’ansia,
scarsa capacità di controllo dei propri impulsi, instabilità affettiva. La necessità di ingerire grandi
quantità di cibo, infatti, sembra correlata al desiderio di placare stati ansiosi e solitudine; il vomito e
l’uso di lassativi, per contro, compaiono dopo l’eccessiva introduzione di calorie, per il desiderio di
mantenere il peso corporeo, ma probabilmente anche per nascondere agli altri l’ingrassamento (e
quindi il proprio disturbo) e probabilmente per la disistima derivante dagli episodi bulimici. In
breve tempo, però, l’appagamento che l’ingerimento del cibo apporta determina il bisogno di nuovi
pasti. Spesso il soggetto tende a isolarsi, per non essere osservato dagli altri nei propri eccessi
alimentari.
Si è osservato che, in soggetti sottoposti a diete molto ristrette per lungo tempo, si manifesta
la tendenza bulimica a ingerire molto più cibo del necessario anche dopo il ritorno a un regime
alimentare normale. Il metabolismo si adatta al ciclo di bulimia-assunzione di lassativi/vomito,
rallentando e in tal modo aumentando il rischio che vi sia un aumento di peso anche solo attraverso
l’ingestione di una quantità normale di calorie. La continua assunzione di lassativi e l’induzione
dello stimolo del vomito possono stimolare a livello cerebrale la produzione di sostanze di tipo
oppiaceo, come le endorfine, che hanno un effetto sedativo sul metabolismo. Quando il soggetto si
trova in fase anoressica, invece, manifesta facile irritabilità e la tendenza a sviluppare stati
depressivi. Questi disturbi psicologici scompaiono aumentando la quantità di cibo introdotta; il
paziente entra di conseguenza in una nuova fase bulimia; in particolare, privilegia alimenti dolci,
dato che stimolano la produzione di serotonina e migliorano indirettamente l’umore.
1. Disturbi organici
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Il quadro clinico dei soggetti bulimici rivela lesioni a diversi organi: erosione dei denti,
dovuta ai ripetuti episodi di vomito; lesioni della mucosa esofagea; aumento del volume delle
ghiandole paratiroidi; infiammazione del tubo digerente; alterazione del bilancio idrico e dei sali,
soprattutto del potassio, derivante dall’uso prolungato dei lassativi, da cui possono derivare estrema
debolezza, paralisi e anomalie della contrazione cardiaca. Altri disturbi possono derivare dagli
effetti collaterali dei farmaci assunti frequentemente dai bulimici, quali i lassativi, sostanze
emetiche che inducono il vomito e, nel caso dei bulimici-anoressici, gli anoressizzanti per ridurre
l’appetito e i diuretici. In generale, le prospettive di guarigione sono migliori per i bulimici che per
gli anoressici.
3. TERAPIA
La diagnosi della bulimia in molti casi non è facile: il comportamento alimentare del
paziente deve essere osservato per un certo periodo di tempo, al fine di definire il suo rapporto con
il cibo. Il disturbo viene diagnosticato se si verificano almeno due episodi bulimici a settimana, nel
periodo di tre mesi.
Il trattamento terapeutico deve innanzitutto vincere le resistenze mentali del bulimico, che
ritiene il vomito o l’eccessiva emissione di feci l’unico rimedio alla tendenza a ingrassare. Il
paziente bulimico deve essere ospedalizzato meno frequentemente di quanto avviene
negll’anoressico, a meno che non presenti fasi anoressiche o sia affetto da depressione maggiore;
può essere curato mediante psicoterapia cognitivo-comportamentale e antidepressivi.
La psicoterapia è finalizzata a modificare l’immagine distorta del proprio corpo che di solito
ha il paziente con disturbi alimentari, e i disturbi d’ansia che trovano temporaneo appagamento con
l’ingestione del cibo. Il soggetto impara a nutrirsi tre volte al giorno, e a includere alimenti di ogni
genere e deve prendere nota degli episodi di vomito o dell’impiego di lassativi, allo scopo di
divenire maggiormente consapevole del suo comportamento. La terapia può coinvolgere anche i
familiari, dato che i disturbi alimentari trovano spesso le radici più profonde in situazioni
conflittuali del vissuto familiare.
ANORESSIA
Anoressia Patologia caratterizzata da perdita dell’appetito e progressivo rifiuto del cibo e,
talvolta, anche dell’acqua. Essa può avere diverse cause; può essere organica, e costituire una
manifestazione di gravi malattie, come alcune forme di cancro e l’ipertiroidismo, o essere
concomitante a forme di gastrite, all’alcolismo, o ad alcune affezioni associate all’AIDS.
L’anoressia determina, se si protrae nel tempo, carenze nutrizionali; può condurre a uno stato di
vera e propria malnutrizione. Un particolare tipo di anoressia è quella denominata anoressia mentale
o nervosa.
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2. ANORESSIA MENTALE
L’anoressia mentale costituisce una forma di anoressia tipica soprattutto delle ragazze
adolescenti. Sembrano particolarmente colpite le ragazze tra i 12 e i 18 anni, appartenenti a classi
sociali medio-alte. Essa viene considerata più un disturbo psicologico che una malattia organica;
questo aspetto rende spesso più difficile la sua individuazione, almeno nelle sue fasi iniziali, e più
complesso il trattamento terapeutico. In molti casi l’anoressia non è riconosciuta come un
“problema” da parte del soggetto che ne è affetto o dei suoi familiari; di conseguenza, la
consultazione di un medico viene effettuata spesso per il trattamento di disturbi che non sembrano
in relazione con l’anoressia e che, in realtà, ne sono conseguenti.
1. Cause
Non è facile identificare come si sviluppa lo stato di disagio psicologico che porta a
comportamenti anoressici. Le indagini compiute recentemente sull’anoressia mentale, patologia che
sembra essere in fase di diffusione, mostrano alcuni elementi comuni nella storia dei pazienti. Tra
questi, vi sono elementi “psicologici”, come la presenza di disturbi relativi all’alimentazione nelle
madri o nelle nonne (a loro volta anoressiche o obese); figure materne autoritarie, con rigide
imposizioni alimentari, oppure figure paterne “importanti”, affermate nel lavoro, con forti
aspettative sui figli; scarsa possibilità di avere spazi propri all’interno della famiglia. Vi sono inoltre
elementi “fisici”, come lo svolgimento di una eccessiva attività fisica, la presenza di piccoli disturbi
gastro-intestinali (nausea, gonfiore addominale) che inducono a ridurre l’introduzione di cibo; un
effettivo stato di sovrappeso, che può verificarsi durante la pubertà mentre nell’organismo si
instaurano nuovi equilibri ormonali.
2. Sintomi
La patologia si sviluppa a partire da una errata immagine del proprio corpo, che si
percepisce sempre come inadeguato e, in particolare, costantemente in condizioni di sovrappeso. I
soggetti anoressici, temendo di non ricevere l’approvazione degli altri, cominciano a rifiutare il
cibo. Nelle fasi iniziali, è possibile non accorgersi che il soggetto è affetto da anoressia, perché
questi sembra apparentemente seguire una semplice dieta dimagrante a fini estetici; inoltre, spesso
l’anoressico può in presenza di altri cibarsi ma, per “non ingrassare”, dopo può provocarsi
artificialmente il vomito. Con l’aggravarsi della malattia, il vomito in molti casi avviene
automaticamente, anche solo alla vista del cibo. Il progressivo stato di malnutrizione innesca vari
disturbi, tra i quali: la perdita delle mestruazioni (vedi Amenorrea); il depauperamento delle riserve
di tessuto adiposo, con conseguente abbassamento di organi che normalmente poggiano su
pannicoli grassi, come i reni e lo stomaco, e disturbi nel funzionamento di questi organi;
abbassamento della pressione sanguigna; sviluppo di disturbi della pelle, dei denti, delle unghie e
dei capelli (che si desquamano e si spezzano con facilità); arresto del processo di crescita (nei casi
in cui l’anoressia insorga precocemente, prima della pubertà); forti squilibri ormonali; osteporosi, a
causa dell’insufficiente introito di calcio e altri sali minerali. I ripetuti episodi di vomito privano
l'organismo di liquidi e di potassio, il che può avere effetti avversi sulla funzione cardiaca; inoltre,
l’acidità del vomito può nel tempo corrodere i denti e la mucosa dell’esofago. Ancora, all’anoressia
possono essere associati disturbi della sessualità e forme depressive.
L’anoressia mentale può alternarsi, in alcuni pazienti, a manifestazioni di bulimia, in cui il
paziente si ciba con voracità e in modo non equilibrato; esso quindi si procura il vomito e ritorna a
una fase anoressica.
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3. Terapia
Per la cura dell’anoressia non esiste un'unica terapia che abbia dimostrato di essere efficace
in tutti i casi. Circa la metà dei pazienti che si sottopongono a psicoterapia, singola o familiare,
guarisce senza andare incontro a ricadute. La normalizzazione del peso corporeo è un passo
importante nel trattamento di questa patologia, che talvolta prevede anche la somministrazione di
farmaci antidepressivi. In una percentuale variabile tra il 5 e il 18% dei casi, l'anoressia nervosa ha
esito fatale. Poiché, soprattutto tra gli adolescenti, il problema dell’anoressia viene spesso vissuto in
solitudine, e tenuto nascosto a familiari e amici, sono stati di recente attivati servizi come quello
denominato Telefono Amico che possono sostenere psicologicamente il malato, mantenendo il suo
bisogno di riservatezza.
PEDAGOGIA SPECIALE
Disciplina che studia le modalità di intervento a favore di soggetti che, per abilità, dotazione
psico-fisica, patrimonio culturale, appaiono discostarsi dalla norma e che richiedono, pertanto,
forme e strategie di educazione e di insegnamento particolari e mirate.
2. IL SOGGETTO "NON NORMALE"
La pedagogia speciale si occupa dunque non solo dell'educazione e della riabilitazione dei
soggetti in difficoltà o disabili, ma anche dell'educazione dei ragazzi particolarmente dotati il cui
potenziale di talento rischierebbe di non essere adeguatamente promosso nei contesti e nelle
condizioni di apprendimento abitualmente predisposti.
La dizione pedagogia speciale è piuttosto recente e sostituisce il termine "ortopedagogia"
utilizzato in precedenza per descrivere gli interventi correttivi nei confronti dei soggetti considerati
"non normali". La definizione di "soggetto che richiede forme di pedagogia speciale" è un aspetto
importante della riflessione di questo ambito disciplinare, poiché la nozione stessa di "norma"
risulta problematica e le definizioni terminologiche di "svantaggio", "handicap", "superdotato" non
sono esenti da ambiguità. Inoltre, ultimamente, il termine “speciale” ha acquisito la connotazione di
“specifico”, ad indicare una risposta specifica a certe problematiche nell’ambito dell’educazione di
tutti.
3. AMBITI DI INTERVENTO
Gli ambiti più recenti di intervento e ricerca della pedagogia speciale riguardano
l'"educazione compensatoria" e l'integrazione scolastica degli alunni disabili. L'educazione
compensatoria nasce in America negli anni Sessanta dalla consapevolezza della necessità di
interventi educativi specifici rivolti a gruppi marginali (minoranze etniche, immigrati), non inseriti
nella società di appartenenza a causa di differenze culturali, economiche e sociali; il recupero dello
svantaggio, nel quadro di una politica di integrazione sociale e culturale, ha luogo mediante progetti
ad hoc – il più noto è il programma Head Start – che si rivolgono non solo ai ragazzi ma anche alle
loro famiglie mettendo a disposizione una serie di servizi sanitari e sociali.
L'educazione e l'istruzione dei soggetti disabili rappresentano un problema sociale di grande rilievo
sia che lo si affronti in relazione alla loro integrazione scolastica sia relativamente al recupero in
istituzioni specializzate. Le indicazioni più rilevanti della riflessione pedagogica vedono il recupero
nella forma di interventi mirati sulla base di diagnosi funzionali che salvaguardino e incoraggino al
tempo stesso processi di integrazione e di socializzazione nell'ambito della classe e del gruppo dei
coetanei.
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FISIOLOGIA
I due emisferi cerebrali controllano, ciascuno, il lato del corpo opposto rispetto alla parte del
cranio in cui si trovano (la parte destra del cervello elabora le informazioni provenienti dalla parte
sinistra del corpo, mentre la parte sinistra del cervello elabora quelle della parte destra del corpo e le
controlla).
Nei due emisferi esistono molte aree che svolgono funzioni differenti; ricevono le informazioni
dagli organi di senso e da zone del cervello differenti e le passano ad aree diverse. Il modo in cui
vengono elaborate le informazioni varia a seconda dell'area cerebrale. Nella corteccia sono presenti
infatti aree differenti di elaborazione delle informazioni dette area primaria, area secondaria e area
associativa.
Le aree primarie eseguono l'analisi iniziale delle informazioni in arrivo dai diversi recettori
sensoriali del corpo. Le informazioni provenienti da ciascun organo di senso vengono elaborate in
una diversa area primaria, spesso dotata di un'organizzazione topografica (ciò significa che le
sensazioni provenienti dalle diverse zone del corpo sono rappresentate da diversi gruppi di cellule
della zona primaria, dove si viene così a creare una mappa generale del corpo). Schematicamente si
può, cioè, affermare che le informazioni sono organizzate in modo ordinato: ad esempio, due cellule
adiacenti rappresentano due posizioni adiacenti nel corpo o nello spazio. Nel caso dell'udito (cioè
della facoltà di percepire i suoni), è stata dimostrata l'esistenza, a livello cerebrale, di una "mappa
tonale" in cui le informazioni sono organizzate in base al tono del suono.
Nell'area secondaria le informazioni vengono sottoposte a un'analisi più complessa; nell'area
associativa le informazioni provenienti da diverse zone cerebrali vengono associate, in modo da
ottenere un'interpretazione degli stimoli percepiti e da produrre una risposta adeguata.
Corteccia
cerebrale:
funzioni
Molte funzioni motorie e
sensoriali
sono
state
localizzate
in
aree
specifiche della corteccia di
entrambi gli emisferi del
cervello, ciascuno dei quali
controlla la parte opposta
del corpo. Meno definite
sono le aree associative,
individuate principalmente
nella corteccia frontale,
legate al pensiero e alle
emozioni e responsabili del
coordinamento degli stimoli
sensoriali. Le due aree del linguaggio, quella di Wernicke (comprensione del linguaggio) e quella di
Broca (produzione del linguaggio), sono state invece localizzate entrambe nella corteccia
dell’emisfero sinistro.
1. SPECIALIZZAZIONEDELLE AREE
Ciascuno dei lobi della corteccia cerebrale elabora informazioni specifiche e svolge una
funzione diversa. Benché le funzioni specifiche delle diverse aree della corteccia siano ancora
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oggetto di molte discussioni e indagini, esistono, tuttavia, alcune nozioni relativamente consolidate.
Ad esempio, i lobi frontali sono specializzati nell'organizzazione e nel controllo dei movimenti e
contengono la corteccia motoria primaria. Le cellule di questi lobi sono organizzate in modo
topografico e la loro stimolazione con una debole corrente elettrica può provocare il movimento
della parte corrispondente del corpo. I lobi occipitali elaborano le informazioni visive primarie e poi
le inviano in avanti, sia al lobo parietale che a quello temporale. I lobi parietali elaborano le
informazioni somatosensoriali primarie (cioè quelle provenienti dalla cute, dai muscoli e dalle
articolazioni), mentre il lobo temporale elabora le informazioni uditive primarie (provenienti dagli
organi dell'udito). La corteccia temporale sembra essere necessaria per il riconoscimento e la
classificazione degli oggetti, per la memoria a lungo termine e per alcuni aspetti del linguaggio
(controllata a livello della cosiddetta area di Broca). La corteccia parietale sembra deputata alla
mediazione della percezione della posizione degli arti, discriminando ad esempio tra diversi oggetti
tenuti in mano. Vedi anche Intelligenza; Psicofarmaci.
Il sistema limbico è coinvolto nella motivazione, nell'elaborazione degli istinti e delle
emozioni, mentre i gangli della base intervengono nel controllo del movimento. Il talamo trasmette
le informazioni provenienti dai recettori sensoriali alla corteccia cerebrale. I nuclei genicolati
laterali del talamo ricevono informazioni dagli occhi e le inviano alle aree visive primarie del lobo
occipitale. L'ipotalamo controlla gran parte del sistema endocrino, che a sua volta, mediante gli
ormoni, regola molte funzioni corporee. Le strutture del tetto mesencefalico fanno parte del sistema
visivo e uditivo e sono responsabili soprattutto dei riflessi e delle reazioni rapide agli stimoli di
movimento. La formazione reticolare svolge un ruolo nella regolazione del sonno e della veglia,
nell'attenzione, nei movimenti muscolari e in vari riflessi vitali, come il battito cardiaco. La materia
grigia periacqueduttale è coinvolta nella mediazione del dolore; la sostanza nera nel controllo dei
movimenti muscolari.
Il cervelletto, che fa parte del rombencefalo, riceve stimoli da tutti gli organi e dai recettori
sensoriali, nonché informazioni riguardanti i movimenti muscolari diretti dal cervello stesso. Esso
integra le informazioni, confrontando le azioni effettive del corpo rispetto a ciò che il cervello ha
preordinato. Quindi modifica le direttive del cervello al corpo, per facilitare la coordinazione dei
movimenti e renderli più sciolti.
Il ponte di Varolio sembra avere un ruolo nell'alternanza del sonno e della veglia, e nella
durata delle diverse fasi del sonno; è importante, inoltre, per la regolazione della frequenza degli atti
respiratori.
Il midollo allungato contiene alcuni centri di controllo di funzioni vitali, come la regolazione
del battito cardiaco, della respirazione, della deglutizione e la pressione dei gas nel sangue.
Memoria e attività cerebrale
Le aree cerebrali coinvolte nel
processo di memorizzazione
possono essere evidenziate
mediante
tomografia
a
emissione di positroni. Nelle
due immagini, si osserva come
nella fase di codifica sia attiva
la corteccia prefrontale sinistra
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e nella fase di rievocazione la corteccia prefrontale destra.
2. FENOMENO DELLA DOMINANZA
Circa il 90% degli esseri umani usa la mano destra per compiere azioni, ad esempio scrivere.
Questa caratteristica, osservata in tutte le razze e le culture, è stata collegata al cervello e, in
particolare, all'area deputata all'elaborazione del linguaggio. Nel 95% circa dei destrimani il
linguaggio è, infatti, mediato esclusivamente dall'emisfero sinistro, che controlla la parte destra del
corpo e quindi anche la mano destra. Questo fenomeno viene chiamato dominanza sinistra per il
linguaggio. Nei mancini la situazione è più variegata: nel 70% dei casi la dominanza per il
linguaggio è mediata dall'emisfero destro, nel 15% dal sinistro e nel restante 15% da entrambi. Tra
le altre funzioni in cui un emisfero sembra essere dominante, si annoverano il riconoscimento dei
volti e l'attenzione spaziale. Quando un emisfero cerebrale subisce una lesione monolaterale, queste
funzioni possono andare distrutte.
Gran parte delle conoscenze attuali sul funzionamento del cervello e sul modo in cui le
diverse aree mediano funzioni differenti proviene dallo studio di persone che hanno subito lesioni in
diverse zone cerebrali.
PATOLOGIE CEREBRALI
Cervello colpito da morbo
di Alzheimer
L'immagine elaborata al
computer
permette
il
confronto tra una sezione
trasversale del cervello di un
soggetto colpito da morbo di
Alzheimer (a sinistra) e
quella di un individuo sano (a
destra). Le caratteristiche
alterazioni che la malattia
determina a livello cerebrale,
quali riduzione del flusso di
sangue, assottigliamento dei
tessuti, riduzione della massa
(come
si
osserva
nell'immagine) e anomalo
utilizzo del glucosio, possono
essere indagate attraverso la
risonanza magnetica nucleare, la tomografia computerizzata, la TC a emissione di fotone singolo e
la tomografia a emissione di positroni. Queste tecniche in realtà permettono una diagnosi di
"Alzheimer probabile", ma non "certo"; la conferma può aversi soltanto mediante esame istologico
del cervello e riscontro delle placche neuritiche e delle aggregazioni neurofibrillari.
Le cellule cerebrali sono soggette a una progressiva degenerazione Dopo i 21 anni, a causa
dell'invecchiamento cellulare fisiologico, l'uomo perde ogni giorno migliaia di cellule cerebrali.
Anche piccoli traumi e sostanze nocive presenti nell'ambiente possono contribuire al processo
degenerativo. Il tessuto nervoso, infatti, è composto da cellule di tipo statico, che cessano di
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differenziarsi prima che si sia completato lo sviluppo corporeo. Queste cellule non possono perciò
essere sostituite da altre, qualora vengano danneggiate.
Esistono poi situazioni patologiche, come il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer,
che accelerano fortemente il ritmo di morte delle cellule cerebrali. Le cellule possono morire anche
a causa di un trauma cranico conseguente, ad esempio, a un incidente stradale, o di un disturbo della
perfusione sanguigna ai tessuti cerebrali, come accade quando una persona subisce un ictus. A volte
zone di tessuto cerebrale vengono perdute perché i chirurghi si trovano costretti ad asportare un
tumore.
Quando muoiono le cellule di un'area cerebrale, possono comparire alterazioni delle
funzioni corporee controllate da quella parte del cervello. Nel caso di una patologia diffusa, che si
traduce nella morte di molte cellule in tutto il cervello, insorge la demenza (perdita della funzione
cerebrale), associata a disturbi della memoria, della personalità e dell'intelletto. Ciò può provocare
disturbi comportamentali, la tendenza all'asocialità, mutamenti di umore, ansia, fasi di amnesia e
grave trascuratezza personale. A mano a mano che il danno cerebrale progredisce, l'individuo
colpito può anche perdere la consapevolezza della propria condizione.
Nel caso di lesione o morte di alcune cellule di una particolare area cerebrale, la riduzione
della funzione tende a essere più circoscritta e specifica della zona colpita. Il cervello è, tuttavia, un
organo molto complesso e ricco di interconnessioni; pertanto, risulta molto difficile individuare le
zone deputate esclusivamente a una particolare funzione. Con qualche cautela si può, tuttavia,
affermare che i pazienti che presentano una lesione in una particolare area manifestano più
facilmente un determinato quadro sintomatologico, diverso da quello che si avrebbe se il danno
riguardasse una zona diversa.
Ad esempio, nel morbo di Parkinson la lesione di un gruppo di cellule cerebrali provoca
disturbi caratteristici come un tremore incontrollabile. In questa malattia risultano lesionate le
cellule, poste nei gangli della base e in altre zone specifiche, che producono e utilizzano un
neurotrasmettitore (ossia una molecola che trasmette gli impulsi tra neuroni), chiamato dopamina.
Ciò si riflette in alcune manifestazioni nella persona affetta, quali tremore a riposo, lentezza dei
movimenti e difficoltà a iniziare e terminare un movimento. Dato che le cellule di questa zona
controllano tutti i diversi gruppi muscolari del corpo, gradualmente compaiono disturbi a carico dei
muscoli che controllano le dita, le mani, le braccia e il tronco.
Le manifestazioni di questa malattia possono essere alleviate da alcune sostanze, come la
levodopa, che contribuiscono a sostituire la dopamina andata perduta. Tuttavia, questi farmaci non
possono sostituire le cellule perdute e quindi sono efficaci, ogni volta, solo per un breve periodo di
tempo e non sono in grado di curare la malattia. È stato dimostrato che anche altre sostanze attive
sui neuroni, ad esempio la serotonina, possono contribuire ad alleviare alcuni sintomi di disturbi,
come l'ansia e la depressione. L'azione di tutte queste sostanze deve essere, tuttavia, tenuta sotto
accurato controllo medico perché esse possono provocare anche effetti collaterali indesiderati.
1. Disturbi del linguaggio
Sono generalmente associati a un danno a carico di determinate aree dei lobi temporale e
frontale sinistro. I disturbi del linguaggio, chiamati complessivamente afasia, possono riguardare la
produzione del linguaggio, la sua comprensione, la lettura e la scrittura, sia isolatamente che in
combinazione. Talvolta sono associati a danni delle aree cerebrali che controllano i movimenti della
bocca o della mano.
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Alcuni pazienti presentano una notevole riduzione nella produzione del linguaggio, anche se
la loro capacità di comprensione resta relativamente normale; si esprimono con lentezza e difficoltà
e faticano a trovare la parola giusta da usare in un determinato contesto. Questo tipo di disturbo
viene chiamato afasia di Broca.
I pazienti colpiti dall'afasia di Wernicke (perdita parziale o totale della capacità di esprimere
o comprendere le parole) si esprimono, invece, in modo fluente e rapido, con un'intonazione
normale, ma spesso è impossibile comprendere quello che dicono. Incontrano difficoltà nel ripetere
le frasi e spesso aggiungono parole e frasi senza senso. Il loro problema più evidente è una grave
riduzione della capacità di comprensione del linguaggio. I pazienti che presentano un problema sia
d'espressione che di comprensione vengono classificati come affetti da afasia globale. Questi
disturbi del linguaggio sono associati a danni in differenti zone cerebrali, considerate responsabili di
diversi aspetti del linguaggio.
2. Disturbi visivi
Un danno ai neuroni della corteccia occipitale è associato a un deficit della vista. Dato che il
lobo occipitale possiede un'organizzazione topografica, la lesione di un'area tende a provocare la
cecità della zona a essa correlata del campo visivo (cioè della porzione di spazio controllata
dall'occhio). Se, ad esempio, la corteccia occipitale destra è gravemente lesa, il paziente non vede la
zona sinistra del campo visivo.
Un interessante fenomeno associato a un danno della corteccia occipitale è quello per cui
alcuni pazienti, per quanto incapaci di "vedere" coscientemente un oggetto nella zona danneggiata
del loro campo visivo, sono comunque in grado, quando viene loro richiesto, di indicare con
straordinaria precisione un fascio luminoso puntato sulla zona cieca. Questo fenomeno è dovuto al
fatto che, sebbene quasi tutte le informazioni provenienti dalla retina vengano convogliate al lobo
occipitale, una piccola parte di esse viene inviata ad altre zone, come il collicolo superiore del
mesencefalo. Sembra che sia proprio questo a fare sì che il paziente sia in grado di indicare la
presenza di un fascio luminoso, anche senza vederlo consapevolmente.
3. Disturbi comportamentali
Un danno ai lobi frontali può provocare gravi alterazioni della personalità e del comportamento. I
pazienti colpiti da questo tipo di lesioni possono incontrare, ad esempio, particolari difficoltà nel
prendere una decisione. Altre manifestazioni comprendono violenti cambiamenti di umore,
passività costante e tono di voce monocorde.
4. Disturbi di percezione
Un danno ad alcune aree della corteccia temporale può provocare problemi di percezione
visiva. Chi subisce una lesione in quest'area spesso presenta un'agnosia visiva, cioè un'assenza di
comprensione o di conoscenza di quello che vede, anche se la sua capacità visiva è intatta. Non è in
grado di identificare semplici oggetti di uso quotidiano, come un cucchiaio o una scatola di
fiammiferi, quando li vede, anche se riesce a identificarli toccandoli.
I problemi che insorgono nel riconoscimento degli oggetti possono essere limitati a una
piccola classe di questi; alcuni pazienti non sanno, ad esempio, nominare gli animali e altri esseri
viventi, ma sono in grado di riferire il nome della maggior parte delle altre cose, come gli oggetti di
uso domestico. Alcuni pazienti, specialmente quelli che hanno subito una lesione del lobo
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temporale destro, hanno problemi nel riconoscimento dei volti, ma sono in grado di dire se questi
manifestano un particolare tipo di espressione.
Un danno in alcune aree della corteccia parietale, soprattutto di quelle posteriori, può
provocare disturbi di percezione spaziale. Un problema di questo tipo è l'agnosia spaziale
unilaterale, che consiste nella mancata percezione di metà del mondo circostante. Questo disturbo
viene osservato soprattutto dopo una lesione alla zona posteriore destra della corteccia parietale, nel
qual caso viene ignorato lo spazio esterno sinistro (dato che la parte destra del cervello presiede alla
parte sinistra del corpo e la parte sinistra a quella destra). I pazienti che presentano questo disturbo
tendono a scontrarsi con gli oggetti posti alla loro sinistra, a trascurare la parte sinistra del loro
corpo, a tracciare solo la parte destra di un disegno e a mangiare solo il cibo presente nella parte
destra di un piatto (perché mangino l'altra metà, il piatto deve essere ruotato di 180°). Possono,
inoltre, incontrare difficoltà nella lettura, perché trascurano la metà sinistra delle parole o delle
righe.
5. Disturbi motori
Alcune lesioni di un lato della corteccia motoria primaria (localizzata nella parte posteriore
del lobo frontale) possono provocare un'incapacità completa di muovere la parte opposta del corpo;
i danni a carico di parti della corteccia parietale vicine ai lobi occipitale e temporale possono
causare un'incapacità o una difficoltà nel compiere alcuni movimenti; questi disturbi vengono
chiamati globalmente aprassia. I pazienti che ne sono affetti dimenticano il modo in cui gli oggetti
devono essere utilizzati e, pur potendo compiere alcuni movimenti, tendono a eseguirli in modo
disordinato e casuale; in genere, non sono in grado di svolgere semplici azioni quotidiane, come
preparare la tavola o vestirsi.
PSICHIATRIA
Branca della medicina specializzata nello studio, nella diagnosi e nella terapia dei disturbi
mentali. Il termine deriva del greco psyché, che significa anima, mente, e iatreia, che significa cura
medica.
Bedlam
Nel XVIII secolo, il manicomio londinese di
Saint Mary of Bethlehem, conosciuto come
"Bedlam", diventò una vera e propria attrazione
turistica e il pubblico vi veniva accolto dietro
pagamento di un penny. Questa consuetudine è
documentata anche da un'incisione di William
Hogarth (nella serie Carriera di un libertino,
1735), nella quale, oltre allo sfortunato
protagonista della vicenda raffigurato in primo
piano, si scorgono sul fondo due dame recatesi in
visita nel reclusorio per loro proprio diletto. Il
reclusorio era all'epoca famoso per le miserabili
condizioni in cui erano costretti i malati e per il
crudele trattamento loro riservato; nel linguaggio popolare, la parola "bedlam" indicava l'ospedale
psichiatrico, il malato mentale, oppure una situazione di estrema confusione.
Il medico greco Ippocrate (450-377 a.C.) per primo escluse l’idea che la malattia mentale
fosse legata alla possessione demoniaca ed elaborò una prima spiegazione medica dei disturbi
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psichici. Egli suddivise le malattie mentali in tre categorie: manie, melanconie e freniti (una specie
di infiammazione cerebrale). Tutte e tre, a suo parere, erano causate da un disturbo organico. La
cura era rivolta all’organismo e, secondo il tipo di malattia, comprendeva ad esempio una dieta
vegetariana, l’esercizio fisico o l’astinenza sessuale.
Durante il Medioevo la convinzione che i demoni fossero causa del comportamento
patologico si diffuse nuovamente, e della cura delle malattie mentali furono incaricati i sacerdoti,
che usavano varie tecniche, tra cui anche forme violente di esorcismo volte ad allontanare il demone
dal corpo. Nel quindicesimo secolo il comportamento patologico venne collegato alla stregoneria.
A partire dal sedicesimo secolo, la credenza irrazionale negli spiriti maligni cominciò a
sparire, ma nessuna teoria unitaria sulle cause delle malattie mentali riuscì a sostituirsi a essa. I
malati mentali venivano ricoverati in istituti, che avevano principalmente lo scopo di escluderli
dalla società, e dove spesso venivano trattati in modo disumano. Nel 1792 un medico francese,
Philippe Pinel, venne incaricato di dirigere un istituto per malattie mentali vicino Parigi. Egli liberò
letteralmente dalle catene i ricoverati e prescrisse loro di lavorare e svolgere attività fisica
all’aperto.
I medici iniziarono a occuparsi, sistematicamente, dei malati mentali a partire dal XIX
secolo. Conosciuti come alienisti, gli psichiatri dell'epoca lavoravano in grandi manicomi,
praticando quello che allora veniva chiamato “trattamento morale”: un approccio teso ad acquietare
l'agitazione mentale e a ripristinare la ragione. Durante la seconda metà del secolo gli psichiatri
abbandonarono questa modalità di trattamento e, con essa, il tacito riconoscimento che la malattia
mentale è causata da influenze sia psicologiche che sociali: per un periodo, l'attenzione si concentrò
quasi esclusivamente sui fattori biologici. Era comune l'impiego di farmaci e di altre forme di
terapia fisica. Lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin identificò e classificò i disturbi mentali in un
sistema che costituisce la base della diagnostica moderna. Un'altra figura importante fu lo psichiatra
svizzero Eugen Bleuler, che coniò il termine schizofrenia e descrisse le caratteristiche di questa
patologia.
All'inizio del XX secolo, il riconoscimento, a opera di Sigmund Freud, dell'esistenza di
componenti inconsce che agiscono sul comportamento, contribuì ad arricchire il pensiero
psichiatrico, modificandone l'impostazione: l'attenzione si spostò sui processi interni alla psiche
individuale e la psicoanalisi arrivò a essere considerata la terapia d'elezione per quasi tutti i disturbi
mentali. Negli anni Quaranta e Cinquanta l'attenzione si spostò di nuovo, questa volta verso
l'ambiente fisico e sociale: molti psichiatri avevano, fino ad allora, ignorato le influenze biologiche,
mentre altri erano concentrati su quelle coinvolte nella malattia mentale e usavano forme fisiche di
terapia, come l'elettroshock e la psicochirurgia. A metà degli anni Cinquanta ebbero inizio drastici
cambiamenti nel trattamento dei malati mentali, con l'introduzione dei primi farmaci efficaci contro
i sintomi psicotici. Insieme alla terapia farmacologica, negli ospedali psichiatrici vennero introdotti
trattamenti più liberali e attenti agli aspetti umani. Nello stesso tempo, le ricerche sulla salute
mentale condussero a importanti scoperte sul ruolo dei fattori genetici e biochimici nelle malattie
mentali e nel funzionamento del cervello. Con gli anni Ottanta la psichiatria spostò nuovamente
l'attenzione sui fattori biologici, diminuendo l'interesse per gli influssi dell'ambiente psicosociale
sulla salute mentale degli individui.
3. DIAGNOSI
Gli psichiatri usano molti metodi diversi per individuare disturbi specifici nei loro pazienti.
Lo strumento fondamentale è il colloquio psichiatrico, nel quale si riassume la storia psichiatrica del
paziente e se ne valuta lo stato mentale. La storia (o anamnesi) psichiatrica è un quadro delle
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caratteristiche della personalità del paziente, dei suoi rapporti con gli altri e dell'esperienza passata e
presente di problemi psichiatrici, raccontata con le parole del paziente stesso (talvolta integrate dal
resoconto di altri membri della famiglia). Gli psichiatri per svolgere una diagnosi possono servirsi
del supporto di altri specialisti, ad esempio psicologi per una valutazione della personalità del
paziente, o neurologi per valutare l'eventuale presenza di danni organici a carico del sistema
nervoso centrale.
4. TERAPIA
Vi sono due tipi di terapia psichiatrica: i trattamenti organici e quelli non organici. I
trattamenti organici, come i farmaci, sono quelli che interessano direttamente il corpo; le terapie
non organiche tendono, invece, a migliorare le funzioni dei pazienti con mezzi psicologici, come la
psicoterapia, o modificando l'ambiente sociale.
1. Farmaci
I farmaci psicotropi costituiscono senz'altro il trattamento organico più comunemente
utilizzato. I primi a essere scoperti furono gli antipsicotici, usati in primo luogo per la cura della
schizofrenia. Le fenotiazine sono la classe di antipsicotici più prescritta; altri farmaci di questo tipo
sono i tioxanteni, i butirrofenoni e gli indoli. Tutti i farmaci antipsicotici riducono sintomi come
deliri, allucinazioni e disturbi del pensiero; poiché possono diminuire l'agitazione, vengono talvolta
usati per controllare l'eccitazione maniacale nei pazienti maniaco-depressi e per calmare i pazienti
geriatrici. A questi farmaci rispondono anche alcuni disturbi comportamentali infantili.
2. Altre terapie organiche
Un'altra terapia organica è l'elettroshock, in cui una corrente elettrica che attraversa il cervello
provoca crisi simili a quelle dell'epilessia. L'elettroshock viene usato soprattutto per la cura delle
depressioni acute che non hanno risposto alla terapia farmacologica. Viene anche usato, talvolta,
nella schizofrenia. Altre forme di terapia organica sono utilizzate molto meno frequentemente: fra
esse vi è la lobotomia, una controversa tecnica chirurgica, ormai molto rara, in cui vengono resecate
le fibre cerebrali.
3. Psicoterapia
La terapia non organica più frequente è la psicoterapia.
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PSICOMOTRICITA’
Disciplina pedagogica che finalizza l’attività motoria al raggiungimento di una maggiore
consapevolezza di sé, delle proprie relazioni con l’ambiente esterno e con gli altri;
2. LA SEDUTA PSICOMOTORIA
L’attività psicomotoria viene praticata soprattutto con i bambini e i ragazzi fino agli 11-12
anni; si svolge in un ambiente che non sia lo stesso dove il bambino vive le altre attività quotidiane
(ad esempio, in una sala specifica della scuola e non nell’aula in cui avviene l’attività didattica), in
cui si trovano attrezzi ginnici e oggetti di materiali diversi (come stoffa, cartoncino, plastica). Nel
corso di una seduta di psicomotricità, il bambino vive dapprima un momento di libera
appropriazione dello spazio; quindi un momento di interazione con gli altri, secondo le proposte
dello psicomotricista che in molti casi privilegiano situazioni ludiche; infine, una fase di
verbalizzazione del proprio vissuto, in cui, ripercorrendo l’attività svolta, il bambino mette in luce,
più o meno consapevolmente, le proprie emozioni, il rapporto con gli altri, eventuali difficoltà o
inibizioni. In tal modo, l’educazione psicomotoria può costituire uno strumento per un più
armonioso sviluppo corporeo, ma anche per la comprensione dei bisogni dell’individuo.
3. LO SCHEMA CORPOREO
L’immagine corporea di se stesso non è propria del bambino alla nascita, ma si delinea
attraverso un percorso che si protrae fino agli 11-12 anni. La percezione del proprio corpo è resa
possibile dai propriocettori presenti in ogni regione corporea; i differenti segnali che questi inviano
costantemente al sistema nervoso permettono al cervello di ricostruire una sorta di immagine
tridimensionale e conoscere in ogni istante la posizione di ogni parte e la sua relazione con lo spazio
circostante. Le vie nervose afferenti che vanno dai propriocettori al sistema nervoso centrale
maturano fino agli 11 anni. L’educazione psicomotoria può dunque intervenire a migliorare la
strutturazione dello schema corporeo: ciò avviene attraverso il controllo della respirazione, lo
sviluppo dell’equilibrio e della lateralità, la comprensione dei rapporti spazio-tempo e percezione
sensoriale-attività motoria, il controllo del tono muscolare e lo sviluppo della capacità di
rilassamento, esercizi di coordinazione in movimento. L’attività motoria così intesa diventa una
educazione alla scoperta delle potenzialità del proprio corpo; si distanzia dalle metodiche
dell’addestramento motorio in cui attraverso la ripetizione di movimenti si intende potenziare il
sistema muscolo-scheletrico e rendere automatici esercizi necessari a una specifica specialità
sportiva.
SE’
Nucleo centrale della persona, fattore di coordinazione e di coerenza interna di processi
psicologici e di controllo dell’azione. Elemento di connessione tra il mondo mentale e quello
esterno, il Sé nasce dall’interazione sociale e, in particolare, dalla trama di reciproche percezioni e
giudizi che si instaurano nelle relazioni con gli altri.
Secondo il filosofo e psicologo sociale George H. Mead, il Sé emerge naturalmente
nell’ordine sociale. Attraverso l’interazione con l’ambiente e la comunicazione con altri individui,
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si raggiunge la coscienza di sé. Il gesto vocale, cioè il linguaggio, è il meccanismo che rende
possibile questo processo.
Nella social cognition, il Sé è considerato come una struttura di conoscenza. La concezione di Sé si
realizza nell’esperienza, come qualsiasi altro aspetto della conoscenza, attraverso l’elaborazione
dell’informazione e gli altri processi cognitivi. Questa rappresentazione mentale di sé funziona
come capacità di guidare e di coordinare i diversi aspetti dell’esperienza e del comportamento.
Alcuni studiosi hanno osservato che una persona può percepire delle divergenze tra i propri
ideali o aspirazioni e il proprio modo di agire: questo sentimento costituirebbe uno stimolo a
ricercare una maggiore armonia, per ridurre le differenze. Se c’è disaccordo tra il comportamento e
i valori cui la persona fa riferimento, il Sé mette in atto una correzione finalizzata a ridurre la
disparità. In questo caso il Sé è visto come regolatore della condotta umana.
Una concezione ricorrente nella psicologia sociale presenta il Sé come un processo adatto a
mantenere la propria autostima o ad aumentarla. In questa prospettiva si delinea l’idea di un Sé
come motivazione del comportamento umano. Altri approcci teorici tendono ad approfondire lo
studio del Sé nelle sue relazioni con l’ambiente, definendolo come la struttura di collegamento tra
l’individuo e la società. Il Sé viene, allora, studiato come processo attraverso il quale l’ambiente
esterno viene concepito dalla coscienza individuale.
4. SCHEMA CORPOREO E APPRENDIMENTO
L’importanza che nella psicomotricità viene data alla percezione dello schema corporeo ha
diverse implicazioni, assai più ampie di quelle del solo sviluppo delle capacità motorie. Il concetto
di schema corporeo e la capacità di comprendere le relazioni spaziali tra elementi diversi sono
fondamentali perché il bambino acquisisca la percezione dello spazio nella scrittura, nella lettura,
nel disegno, nella geometria; dunque, sono importanti nell’apprendimento. L’educazione
psicomotoria svincola l’attività fisica da ogni componente che la renda meccanica; la ricerca di una
libera espressione del movimento è priva degli aspetti agonistici che spesso caratterizzano le attività
sportive in genere. In tal modo, il bambino apprende anche una modalità di interazione con gli altri
di collaborazione e non competitiva.
Imparare a camminare
Dopo la fase del gattonamento, in cui il bambino tra i 6 e gli 11 mesi
esplora lo spazio muovendosi carponi, tra gli 11 e i 15 mesi è il
momento dei primi passi. Il bambino diviene rapidamente sicuro
nell'equilibrio e nella direzione in cui intende procedere; in poco tempo
diviene capace di brevi corse e di spiccare i primi salti. Questo
apprendimento non rappresenta solo una tappa fondamentale dello
sviluppo dell'apparato locomotore, ma influenza profondamente la
percezione dell'ambiente circostante, stimola la curiosità e la capacità
di stabilire relazioni tra gli eventi e le persone; in altri termini,
contribuisce alla costruzione del sé.
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