APPRENDIMENTO Processo psichico che produce una modificazione durevole nel comportamento, nelle competenze, nel patrimonio di conoscenze, nelle strutture concettuali di un soggetto, non dovuta a fattori innati o fenomeni biologici di ordine maturazionale, ma alla relazione con l’ambiente e quindi all’esperienza. Imparare a leggere La capacità di leggere, la conoscenza delle regole grammaticali fondamentali e l'acquisizione di nuovi vocaboli migliorano rapidamente verso i sei-sette anni. Nella foto, una bambina di sette anni viene aiutata dalla madre nella lettura di un testo in cinese. TEORIE SULL’APPRENDIMENTO Il Comportamentismo Le prime teorie sull'apprendimento sono state elaborate all'interno della psicologia comportamentista, nata nella prima metà del XX secolo e fondata sull'assunto di base che la psicologia deve limitarsi a studiare i comportamenti osservabili, in quanto ciò che avviene all'interno della mente è inconoscibile. Dunque, i comportamentisti studiano l'apprendimento esclusivamente in termini di modificazioni comportamentali. Essi affermano l'esistenza di leggi universali che regolano sia l'apprendimento umano sia quello animale. In particolare, John Broadus Watson sostiene che l'apprendimento sarebbe basato sul processo di "condizionamento classico": sulla base di quanto scoperto dal fisiologo russo Ivan Pavlov, se a uno stimolo incondizionato (ad esempio la vista e il profumo del cibo), che normalmente produce un certo riflesso incondizionato (ad esempio la salivazione del soggetto cui viene mostrato il cibo), si associa ripetutamente uno stimolo neutro (ad esempio un suono), si ottiene presto che alla sola presentazione dello stimolo neutro (il suono) il soggetto manifesta la risposta (la salivazione) normalmente associata solo allo stimolo incondizionato (il cibo). In altre parole, il riflesso incondizionato diventa risposta condizionata, o appresa. Ciò spiega come il soggetto apprende ad associare a stimoli nuovi una risposta che già gli appartiene, ma non come apprende a dare nuove risposte. 1 Condizionamento classico Il condizionamento "classico" o "pavloviano" (dal nome di Ivan Pavlov, il fisiologo russo che lo scoprì) è una forma di apprendimento per associazione. Nell'illustrazione, alla somministrazione di cibo (stimolo incondizionato) il cane risponde con la salivazione (riflesso incondizionato). Indotto ad associare al cibo il suono di un diapason (stimolo condizionato), il cane risponderà con la salivazione anche al manifestarsi del solo suono del diapason (riflesso condizionato). Gabbia di Skinner Lo psicologo americano B.F. Skinner disegnò un apparecchio, detto appunto "gabbia di Skinner", con cui compì esperimenti sul condizionamento degli animali. Sistemati all'interno della gabbia, gli animali venivano ricompensati con un po' di cibo ogni volta che fornivano la risposta desiderata. 2 Burrhus Frederic Skinner continuò gli studi sul condizionamento operante di E.L. Thorndike, che aveva studiato l’apprendimento negli animali ed era giunto alla conclusione che essi imparano per prove ed errori: mettendo alla prova, alla cieca, una possibile soluzione dopo l’altra finché non si trova quella appropriata. Thorndike riteneva che l’effetto di soddisfacimento prodotto dalla risposta giusta rendesse una sua successiva attuazione molto più probabile. Skinner riteneva che l’accento messo da Thorndike sulla natura piacevole di un effetto fosse un pregiudizio mentale. Secondo Skinner, esistono due tipi di comportamento: il comportamento rispondente, formato dalle risposte riflesse da uno stimolo, causate da collegamenti neurali innati (condizionamento classico); il comportamento operante, che è volontario e rappresenta la maggior parte del comportamento umano. I comportamenti operanti non sono indotti dagli stimoli che li precedono, ma da quelli che li seguono e che sono conseguenza del comportamento stesso. Skinner dimostrò che quando una risposta era seguita da un certo risultato, era più facile che si ripetesse di nuovo. Chiamò questo processo “condizionamento operante”. Il verificarsi di una risposta e di un esito che rende la risposta più probabile è detto rinforzo. Gli eventi, che hanno l’effetto di diminuire le probabilità che un comportamento si verifichi di nuovo, vengono chiamati punizioni. Si segnalano due tipi di rinforzi: i rinforzi positivi sono dei fatti che seguono un comportamento aumentandone la probabilità; ad esempio ottenere del cibo, delle lodi o delle manifestazioni di affetto. Se si verifica, invece, l’eliminazione di uno stimolo spiacevole, come una scossa elettrica o un rumore molto forte, si rafforza il comportamento che l’ha preceduta; questi stimoli vengono chiamati rinforzi negativi. Il condizionamento operante permette non soltanto di variare la frequenza con cui si manifestano alcuni comportamenti, ma anche di determinare la manifestazione di comportamenti nuovi. Questo si ottiene con il modellaggio, un metodo consistente nel rinforzare gradualmente i comportamenti che si avvicinano al comportamento voluto L’APPRENDIMENTO SOCIALE Apprendimento sociale Fra compagni di studio, il confronto reciproco e la condivisione di idee nella sperimentazione di nuove soluzioni costituiscono momenti fondamentali del processo di apprendimento; permettono anche la puntualizzazione o la ridefinizione di quanto appreso in precedenza. 3 Un approccio diverso al problema è rappresentato dalle teorie dell'apprendimento sociale. Attorno al 1970 Albert Bandura introdusse il concetto di “apprendimento osservativo": il soggetto apprende per imitazione comportamenti che ha modo di osservare in altre persone. Questo processo di modellamento avviene in riferimento a persone e comportamenti che, per varie ragioni, appaiono attraenti al soggetto che li osserva, li imita e in questo modo apprende. Le persone e i comportamenti imitati vengono detti modelli. Se l’osservatore è un bambino i modelli possono essere altri bambini, genitori, insegnanti, parenti, ma anche personaggi televisivi, del mondo dello sport, protagonisti dei fumetti o dei cartoni animati. La punizione o il rinforzo del comportamento della persona presa a modello ha sull’osservatore lo stesso effetto che ha sul modello stesso. L’osservatore non ha bisogno di essere rinforzato direttamente per imitare. Secondo Lev Semënovic Vygotsky (1896-1932) l'apprendimento avviene all'interno e grazie alle interrelazioni fra il bambino e le persone che lo circondano. Apprendimento e sviluppo sono collegati fin dai primi giorni di vita del bambino. Per Vygotsky esistono due livelli di sviluppo nel bambino. Il primo è il livello dello sviluppo effettivo del bambino, cioè il grado di sviluppo delle funzioni psico-intellettive già raggiunto. Con l’aiuto dell’adulto il bambino può fare molto di più di quanto possa fare con le sue capacità in modo autonomo. Ciò che il bambino fa con la guida degli adulti, in seguito sarà in grado di farlo da solo. Questa capacità potenziale di apprendimento viene detta “area di sviluppo potenziale”. Le funzioni psico-intellettive compaiono prima nelle attività sociali e nell’interazione con gli altri, in un secondo tempo nelle attività individuali, come caratteristiche interne del pensiero del bambino. L’apprendimento dà origine all’area di sviluppo potenziale, cioè stimola nel bambino dei processi di sviluppo all’interno delle interrelazioni con gli altri, che in seguito vengono assimilate e diventano acquisizioni interne del bambino. In questa prospettiva l'apprendimento precede e causa lo sviluppo psichico. EPISTEMOLOGIA GENETICA (Teoria della conoscenza. 2 Filosofia della scienza | Riflessione intorno ai principi, ai limiti e al metodo della conoscenza scientifica). Una prospettiva diversa viene proposta da Jean Piaget, che sostiene che sarebbe lo sviluppo biologicamente determinato delle strutture intellettive a consentire un rapporto sempre più adeguato con la realtà, e quindi l'apprendimento. Jean Piaget Lo psicologo svizzero Jean Piaget è noto per i suoi studi sullo sviluppo mentale dei bambini. Nel 1955 fondò il Centro internazionale e interdisciplinare di epistemologia genetica dell'Università di Ginevra. 4 IL COGNITIVISMO A partire dal 1980 circa, la teoria cognitivista propone un ulteriore punto di vista sull'apprendimento. A differenza del comportamentismo, il cognitivismo è fortemente interessato ai processi mentali, tanto da affermare che un cambiamento a livello comportamentale è sempre connesso e spiegabile in base a un cambiamento a livello cognitivo. In quest'ottica, l'apprendimento sarebbe il risultato della complessa interazione tra fattori interni ed esterni, e in particolare dei processi mentali attraverso cui vengono elaborati gli input esterni. L'apprendimento non consisterebbe quindi nel semplice trasferimento dell'informazione esterna all'interno, ma sarebbe piuttosto il risultato di una sua complessa trasformazione a livello cognitivo. Il soggetto è dunque un attivo costruttore delle sue conoscenze. Questa concezione dell'apprendimento come processo costruttivo attivo prevede inoltre che l'acquisizione di nuove conoscenze produca una modificazione di quelle già possedute. Ogni volta che il soggetto impara qualcosa di nuovo modifica le sue strutture concettuali: riorganizza le sue conoscenze ma anche le procedure atte a padroneggiarle e a utilizzarle. Quest'ultimo aspetto è oggetto di studio soprattutto del recente filone di ricerca sull'apprendimento in età adulta. IDENTITA’ In psicologia, termine che indica la relazione che l'Io intrattiene con se stesso e implica la continuità dell'individuo nel tempo e nello spazio in quanto distinto dagli altri. Il più importante contributo alla comprensione dell'identità psicologica proviene dalla psicoanalisi. La formazione dell'identità costituisce un lungo processo che ha inizio nelle prime fasi dello sviluppo infantile e che si consolida nella vita adulta, come emerge dal lavoro di Erik Erikson, il quale afferma che il tema principale della vita è la ricerca dell’identità, intesa come comprensione e accettazione di sé. Le basi dell'identità derivano dalla separazione tra il soggetto e il mondo esterno, mentre il suo sviluppo è reso possibile da una serie di identificazioni, cioè di assimilazioni delle caratteristiche dei modelli esterni (in primo luogo i genitori). Quando le caratteristiche costitutive dell'identità sono saldamente acquisite, l'individuo giunge al termine di quello che Margaret Mahler chiamò "processo di separazione-individuazione", con cui si compie la costruzione dell'identità, destinata a rimanere relativamente stabile per tutta la vita a meno che non si verifichino eventi traumatici o stressanti di particolare gravità. Tutti i disturbi mentali implicano, in questo senso e in misura diversa, dei disturbi dell'identità. 1. ES (IN PSICOLOGIA) In psicoanalisi, una delle tre istanze della psiche umana, insieme a Io e Super-Io. L'Es viene definito come il lato ignoto e misterioso della personalità e comprende contenuti inconsci innati ed ereditari, oltre a desideri, pensieri e sentimenti rimossi, perché inaccettabili per la coscienza. L’Es è il fondamento originario dell’apparato psichico, infatti l’Io e il Super-Io sono generati dall’Es e per tutta la vita attingono da esso l’energia psichica necessaria all’esercizio delle loro funzioni. L'Es è il grande contenitore dell’energia vitale, che Freud chiamò libido. Nell’Es agiscono le pulsioni, il cui unico scopo è l’appagamento. Secondo Freud, la psiche agisce come una struttura costantemente incalzata dalla tensione prodotta da forze interne ed esterne. L’unica motivazione dell’Es è la riduzione della tensione, cioè la gratificazione e il piacere da essa fornito. Per questo motivo Freud descrisse l’Es come il campo d'azione del principio di piacere. Nell’Es non prevale la logica, possono coesistervi impulsi opposti senza eliminarsi l'un l'altro. 5 Nel tentativo di raggiungere un’immediata gratificazione, senza tener conto della realtà, l’Es entra in conflitto con l’Io e il Super-Io. Per questo motivo contiene i desideri rimossi e i meccanismi di difesa dell’Io. La censura, infatti, impedisce l’accesso alla coscienza dei desideri inaccettabili che, una volta rimossi, permangono vivi nell’Es. 2. L’IO (IN PSICOLOGIA) In psicoanalisi, una delle tre istanze psichiche, accanto a Es e Super-Io. L’Io è deputato ai rapporti con la realtà ed è influenzato dai fattori sociali. L’Io inizia a strutturarsi dal momento della nascita, separandosi dall’Es, affinché possa svilupparsi il necessario adattamento dell’individuo all’ambiente e funge da intermediario tra il mondo interno e quello esterno. Nei riguardi dell’Es svolge una funzione difensiva, poiché quest’ultimo tende in modo cieco alla soddisfazione dei bisogni istintivi, rischiando così di essere distrutto. L’Io ha il compito di collegare i diversi processi psichici, poiché deve difendere la sua esistenza dai pericoli dell’ambiente e dalle eccessive pretese dell’Es, di conseguenza possiede tratti sia consci sia inconsci. L’importante compito dell’Io consiste nel trovare i metodi più idonei a conciliare le richieste dell’Es con quelle della realtà. A tal fine tenta di raggiungere il controllo sugli istinti seguendo il principio di realtà invece del principio di piacere. Se lo ritiene opportuno, l’Io può rimandare la soddisfazione dei desideri istintivi a occasioni e circostanze più favorevoli oppure può reprimerli, perché pericolosi o poco adeguati alla situazione reale. L’Io non è necessariamente in conflitto con l’Es; in origine la sua funzione è di favorire l’appagamento istintivo, ma un conflitto può insorgere per quanto riguarda il modo di raggiungere lo scopo. L’Io, infatti, tende a dilazionare la gratificazione nella ricerca di un oggetto reale nel mondo, mentre l’Es reclama l’immediata soddisfazione dei suoi desideri, senza tenere nessun conto della realtà esterna, di cui del resto non è consapevole. 3. SUPER-IO (IN PSICOLOGIA) In psicoanalisi, istanza dell'apparato psichico, assieme a Es e Io. Il Super-Io viene definito l’erede del complesso di Edipo, in altre parole si tratterebbe di una trasformazione dell’Io dovuta all’assimilazione delle norme morali e sociali. Il Super-Io si sviluppa gradualmente nel bambino attraverso l'adozione inconscia dei valori e delle norme morali dei genitori, in una prima fase dello sviluppo, e successivamente dell'ambiente sociale. Svolge un ruolo importante nel determinare lo sviluppo dell’autocontrollo del bambino. Il Super-Io rispecchia le leggi e tutte le limitazioni morali. La sua funzione è l’autocritica, la coscienza morale, la costruzione di ideali. Non corrisponde alla coscienza morale, nel senso tradizionale, perché agisce in modo essenzialmente inconscio. Il Super-Io reprime le pulsioni e si contrappone all’Io e all’Es, attenendosi a principi assoluti. Aspira alla perfezione e presenta tratti di severità e rigidità che non appartenevano propriamente ai genitori. Giudica rigorosamente non solo le azioni, ma anche i pensieri dell’Io, suscitando in quest’ultimo profondi sensi di colpa. 6 DISTURBI DELLA PERSONALITA’ Insieme dei tratti che caratterizzano la struttura intellettuale, affettiva e comportamentale di un individuo e che costituisce un sistema relativamente stabile di adattamenti nei confronti dell’ambiente e di se stessi; è il risultato di fattori costituzionali, dello sviluppo e dell’esperienza sociale. Il termine deriva dal latino persona, che indicava dapprima la maschera utilizzata dagli attori dell’antichità e in seguito non solo la maschera, ma anche il ruolo da essa implicato. In questo senso la personalità rappresenta i tratti comuni che caratterizzano alcuni individui, ad esempio la personalità estroversa, oppure timida; in un’altra accezione, però, la personalità indica ciò che è unico in un individuo, ciò che lo distingue dagli altri. Esistono vari approcci allo studio della personalità; tra di essi si possono individuare indirizzi diversi: la psicoanalisi, che attribuisce un ruolo preminente ai processi inconsci; la teoria comportamentistica, che privilegia i processi di apprendimento – in particolare l’apprendimento per osservazione, per cui la personalità si sviluppa attraverso l’imitazione di modelli positivi o negativi presenti nell’ambiente; la teoria socio-cognitiva che definisce la personalità come il risultato delle rappresentazioni mentali di un individuo, cioè della sua particolare visione del mondo; la teoria umanistico-esistenziale secondo la quale la motivazione fondamentale del comportamento umano è il bisogno di crescita e di autonomia. 2. FORMAZIONE E SVILUPPO DELLA PERSONALITA’ Fattori genetici e ambientali (socio-culturali) interagiscono tra loro nella formazione della personalità. Fin da quando hanno pochi giorni di vita, i bambini differiscono tra loro (alcuni, ad esempio, sono più attivi di altri) per variabili già presenti al momento della nascita e derivanti da fattori ereditari e da circostanze oggettive quali l'andamento della gravidanza e del parto. Sviluppo della socialità Verso i sei anni, e fino alla prepubertà, il bambino tende ad allargare le proprie relazioni sociali a soggetti estranei alla cerchia familiare e ad apprezzare particolarmente la compagnia di alcuni coetanei. In tale fase, si stabiliscono amicizie profonde ed esclusive, spesso con un solo compagno o comunque entro gruppi ristretti. La fiducia reciproca, la condivisione di giochi e confidenze, e l'accettazione da parte dei coetanei divengono elementi fondamentali per lo sviluppo dell'autostima. Gli eventi esterni possono influenzare lo sviluppo della personalità in misura maggiore o minore a seconda dell'età in cui si verificano. Molti psicologi ritengono, infatti, che esistano dei periodi particolari nello sviluppo del bambino durante i quali è maggiore la sensibilità agli stimoli ambientali. 7 La maggior parte degli studiosi ritiene che la famiglia sia cruciale per lo sviluppo della personalità. L'attenzione dei genitori ai bisogni basilari del bambino e il modo in cui questo viene accudito ed educato, il processo di identificazione con il genitore dello stesso sesso e l'eventuale confronto con fratelli e sorelle sono elementi che hanno un’influenza fondamentale sulla formazione della personalità. Alcuni studiosi, come l'antropologa Margaret Mead, hanno inoltre evidenziato l'importanza delle tradizioni sociali e culturali nello sviluppo della personalità. I primi studi del settore sostenevano che i tratti presenti nell'individuo si combinassero per formare la personalità e che questa si mantenesse stabile nel tempo e nelle diverse circostanze. Attualmente, invece, si ritiene che la personalità cambi continuamente per adattarsi alle esigenze dell'ambiente. Test di Rorschach All'inizio degli anni Venti, Hermann Rorschach elaborò un test proiettivo di indagine della personalità, che viene usato ancora oggi in psichiatria. Al paziente vengono mostrate dieci tavole in cui macchie d'inchiostro simmetriche evocano forme, ricordi, emozioni: l'analisi di queste libere associazioni di idee consente allo psicologo e allo psichiatra di scoprire i tratti salienti della personalità del paziente. Tra i metodi più utilizzati per lo studio della personalità ci sono i test proiettivi (Test psicologici) e i questionari autodescrittivi. I test proiettivi sono composti da stimoli poco strutturati o strutturati in modo che la risposta del soggetto sia indicativa di alcuni aspetti della sua realtà interiore. Ad esempio, il test di Rorschach, il più conosciuto dei test proiettivi, è formato da una serie di macchie di inchiostro cui il soggetto deve attribuire un significato, che verrà successivamente valutato dall'esaminatore. I questionari autosomministrati (o self-report inventories) sono invece costituiti da domande sulle abitudini, gli atteggiamenti, le credenze e le fantasie del soggetto. Un altro metodo di indagine della personalità è rappresentato dall’osservazione del comportamento di un individuo in situazioni quotidiane, oppure “di laboratorio”, cioè create apposta per valutare il comportamento in situazioni particolari. Questo metodo risente però molto della soggettività dell’osservatore. DISTURBI MENTALI Sindromi o condizioni psicologiche e comportamentali che deviano significativamente da quelle caratteristiche delle persone che godono di buona salute mentale. In diversi periodi storici e in tutte le culture sono stati riscontrati problemi relativi al pensiero, ai sentimenti e al comportamento. Nei tempi passati, i disturbi mentali erano considerati perlopiù derivanti da cause soprannaturali o non naturali, opera di spiriti diabolici o della depravazione umana. Dopo timide apparizioni nel XVI e XVII secolo, tuttavia, lo studio della mente umana, poi chiamato psichiatria, acquistò pieno riconoscimento nel 1790. In questa data il medico parigino Philippe Pinel abolì il contenimento fisico per i malati mentali, istituì il trattamento morale (psicologico) e diede avvio 8 agli studi clinici oggettivi. In seguito, attraverso il lavoro clinico con ampi campioni di pazienti, si definirono i principali tipi di disturbi mentali e si svilupparono tecniche di trattamento differenziate. 2. SISTEMI DI CLASSIFICAZIONE Dal momento che la suddivisione dei disturbi mentali in classi variava da paese a paese, si è posta la necessità di adottare un sistema di riferimento comune. Due sono i modelli di classificazione internazionale, formulati su base statistica: quello dell'Organizzazione mondiale della sanità (l'International Classification of Diseases, oggi giunto alla decima revisione, e comunemente indicato con la sigla ICD-10) e quello dell'American Psychiatric Association (Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, oggi giunto alla quarta edizione, e comunemente indicato con la sigla DSM-IV). I due modelli, pur differenti per certi aspetti, sono tra loro integrabili e confrontabili. Il primo è utilizzato soprattutto per motivi di ricerca, mentre il secondo è ampiamente adottato anche in ambito clinico. La maggior parte dei sistemi di classificazione distingue i disturbi caratteristici dell'infanzia (incluso il ritardo mentale) da quelli dell'adulto, e i disturbi organici (riferibili ad alterazioni cerebrali o somatiche) da quelli non organici (riferibili a cause psicologiche). Un'altra distinzione importante nell'ambito dei disturbi mentali è quella tra disturbi psicotici (in cui è alterato il rapporto del soggetto con la realtà circostante) e nevrotici (in cui il livello di menomazione del rapporto con la realtà è meno grave). In realtà, a causa dei problemi concettuali che permangono a proposito del termine nevrosi, solo l'ICD-10 ha conservato questa dizione, specificandone l'eterogeneità. La distinzione rimane, tuttavia, degna di nota, in quanto viene comunemente utilizzata da molti clinici. La descrizione dei disturbi qui presentata segue quella del DSM-IV. 3. DISTURBI DELL'INFANZIA Si tratta di disturbi che si presentano per la prima volta prevalentemente durante l'infanzia e l'adolescenza. Il ritardo mentale è caratterizzato dall'incapacità di apprendere e acquisire le abilità personali e sociali proprie di soggetti della stessa età, nell'ambito della stessa cultura. Convenzionalmente, si parla di ritardo mentale quando il quoziente d'intelligenza (QI) è pari o inferiore a 70. L'"iperattività con deficit di attenzione" è una condizione di marcata incapacità di mantenere l’attenzione, di impulsività e di iperattività comportamentale. I bambini con questo disturbo appaiono molto irrequieti e non sono in grado di svolgere compiti, portare avanti attività ricreative e seguire delle istruzioni. I disturbi d'ansia, durante l'infanzia, sono prevalentemente legati alla difficoltà di lasciare la propria casa e i genitori (angoscia di separazione) e alla paura nei confronti degli estranei. Disturbi più gravi implicano l'alterazione di numerose funzioni essenziali per la crescita, come l'attenzione, la percezione, l'esame di realtà e il movimento. Un esempio di questo tipo di disturbi è l'autismo infantile, caratterizzato dall'impossibilità di stabilire dei rapporti con gli altri, da comportamenti bizzarri e da una grave incapacità di comunicare. 9 Altri tipi di disturbi infantili riguardano più strettamente il comportamento. Tra questi si ricordano: la bulimia (l'eccessiva assunzione di cibo), l'anoressia (il rifiuto di assumere cibo), i tic (movimenti involontari, ripetuti), la balbuzie (la difficoltà a iniziare a pronunciare le parole che porta a un caratteristico "inceppamento" nel parlare) e l'enuresi (l'impossibilità di controllare lo stimolo a urinare, soprattutto durante il sonno). 4. DISTURBI MENTALI ORGANICI Si tratta di disturbi in cui si presentano anomalie psicologiche e comportamentali associate a danni cerebrali, transitori o permanenti. I sintomi possono variare a seconda dell'area cerebrale colpita, della causa della lesione, della sua gravità e della durata. I danni cerebrali possono derivare da malattie o sostanze (droghe o altro) che distruggono direttamente le cellule cerebrali oppure da cause che danneggiano il cervello in modo indiretto (ad esempio, un restringimento delle arterie che interrompe l'afflusso di sangue). I sintomi psichici caratteristici di questi disturbi possono derivare direttamente dalla lesione oppure dalla consapevolezza, da parte del paziente, di avere perduto delle funzioni. Uno dei sintomi principali è il "delirium", uno stato di coscienza alterato che si manifesta con difficoltà a mantenere l'attenzione, disturbi sensoriali e disturbi di pensiero. Un altro disturbo organico molto frequente è la demenza, che costituisce la sintomatologia tipica di molte malattie, come quella di Alzheimer. La demenza è costituita da una serie di disturbi di memoria, pensiero, percezione, giudizio e attenzione, che rendono progressivamente impossibile sostenere dei ruoli sociali e lavorativi. Quando si presenta nelle persone anziane, assume il nome di demenza senile. Ai sintomi sopra elencati si accompagnano sempre disturbi nell’espressione delle emozioni (instabilità, euforia, apatia, irritabilità). 5. SCHIZOFRENIA Sindrome che può presentarsi durante l'adolescenza o all'inizio dell'età adulta, la schizofrenia è caratterizzata da gravi disturbi nell'ambito del pensiero, della percezione, delle emozioni e delle relazioni interpersonali, da un disturbo nella capacità di percepire il sé, da una perdita del senso di realtà e dal deterioramento del funzionamento sociale. Il significato del termine, che richiama lo "sdoppiamento della mente", si riferisce alla dissociazione tra emozioni e pensieri (da non confondere con lo "sdoppiamento di personalità", che è invece caratteristico delle personalità multiple). 6. DISTURBI DELIRANTI Si tratta di disturbi la cui caratteristica centrale è la presenza di un delirio (una credenza falsa, ma di cui il soggetto è fermamente convinto) di vari contenuti (paranoide, di gelosia, erotico, di grandiosità, mistico). A differenza di quanto accade nella schizofrenia, spesso il delirio rimane confinato a un'area ristretta della vita del paziente, che può essere in grado di svolgere attività sociali e lavorative. 7. DISTURBI DELL'UMORE Sono costituiti da diverse sindromi, caratterizzate dall'alterazione del tono di umore. Nella depressione, il sintomo principale è l'abbassamento del tono di umore e un complessivo 10 rallentamento del pensiero e delle attività. La mania è l'innalzamento del tono di umore, accompagnato da un'accelerazione del pensiero e delle attività. I disturbi unipolari sono caratterizzati da uno o più episodi di depressione, che può avere o meno anche elementi psicotici (deliri e allucinazioni); i disturbi bipolari sono invece caratterizzati dall'alternanza di episodi depressivi e maniacali, che possono avere o meno anche elementi psicotici. 8. DISTURBI D'ANSIA L'ansia costituisce il sintomo centrale in due disturbi: il disturbo da "attacchi di panico" (episodi in cui si presenta un attacco di ansia acuta, che porta il soggetto a provare dei disturbi fisici oltre che psicologici) e il disturbo da "ansia generalizzata" (il permanere di una condizione di ansia stabile, che può durare a lungo). Altri disturbi d'ansia sono le fobie (paure irrazionali di specifici oggetti, attività o situazioni, che comportano una serie di comportamenti finalizzati a evitare lo stimolo temuto) e il disturbo "ossessivo-compulsivo" (presenza di pensieri e impulsi ripetitivi, che il soggetto avverte come estranei e cui deve sottostare al fine di placare l'ansia). 9. DISTURBI SOMATOFORMI, FITTIZI E DISSOCIATIVI Comprendono quei disturbi che, un tempo, facevano parte del concetto, oggi in disuso, di isteria: le reazioni di conversione, il dolore psicogeno, l'ipocondria e i disturbi dissociativi. Tra questi ultimi si ricordano in particolare le forme di amnesia e fuga psicogena e il disturbo da personalità multipla. 10. DISTURBI SESSUALI E D'IDENTITÀ DI GENERE Comprendono i disturbi sessuali su base organica (ad esempio, l'impotenza dovuta a malattie) e psicologica (sadismo, masochismo, feticismo) e i disturbi d'identità di genere come la transessualità. 11. DISTURBI ALIMENTARI Sono i disturbi che riguardano, specificamente, il comportamento alimentare, sia nel senso del rifiuto di assumere cibo (anoressia nervosa), sia nel senso dell'assunzione smodata di cibo (bulimia). Le due forme sono frequentemente associate nello stesso soggetto. 12. DISTURBI DEL SONNO Comprendono sia le difficoltà nel mantenimento di un corretto ciclo sonno-veglia, come l'insonnia (fatica ad addormentarsi) e la narcolessia (accessi di sonno improvvisi), sia i disturbi che insorgono durante il sonno (incubi notturni, sonnambulismo). 13. DISTURBI DI PERSONALITÀ I disturbi di personalità sono condizioni stabili nella vita dell'individuo, caratterizzate dalla presenza di aspetti di personalità rigidi e disadattativi al punto da compromettere l'adattamento alla vita quotidiana e le relazioni interpersonali. I principali disturbi di personalità sono quello paranoide (caratterizzato da estrema sfiducia e sospettosità), schizoide (il cui tratto prevalente è la chiusura nei rapporti sociali), schizotipico (caratterizzato da chiusura relazionale e dalla presenza di pensieri 11 bizzarri), antisociale (il cui tratto distintivo è la presenza di comportamenti devianti dalle norme e dalle leggi sociali), borderline (disturbo in cui sono presenti marcate oscillazioni comportamentali e difficoltà nel controllo degli impulsi), istrionico (in cui prevalgono condotte e atteggiamenti di tipo teatrale, con una caratteristica esagerazione delle emozioni), narcisistico (caratterizzato dal continuo bisogno di approvazione e ammirazione da parte degli altri), evitante (in cui è prevalente un atteggiamento teso a evitare il mondo esterno e la paura di assumersi responsabilità), dipendente (in cui vi è una marcata difficoltà ad autonomizzarsi), ossessivo-compulsivo (caratterizzato da perfezionismo e meticolosità). 14. INCIDENZA E DISTRIBUZIONE È molto difficile stabilire quante persone soffrano di disturbi mentali, in quanto solo in parte esse giungono, nella loro vita, a chiedere aiuto ai professionisti della salute mentale. Solo negli Stati Uniti, è stata stimata nel 15% circa la quantità di popolazione che, in un anno, ha sofferto per un disturbo mentale. Il rischio di sviluppare una forma di schizofrenia nell'arco della vita è di 1 a 100 (cioè di una persona ogni cento) mentre quello di depressione è di 1 a 10. Con l'aumento dell'età media di sopravvivenza, negli ultimi decenni è cresciuta notevolmente l'incidenza dei disturbi mentali organici. 15. DIAGNOSI E TRATTAMENTO La multiformità dei disturbi mentali rende evidentemente necessario un accurato lavoro diagnostico per determinare all'interno di quale quadro psicopatologico possa essere collocata la sintomatologia presentata dal paziente. La diagnosi serve anche a stabilire l'indicazione per i trattamenti psicoterapeutici più opportuni: fra questi, la terapia psicofarmacologica e le diverse forme di psicoterapia. In anni più recenti è stata posta particolare attenzione anche al tema della riabilitazione, ossia alla possibilità di favorire il riadattamento e il reinserimento sociale di individui che hanno manifestato disturbi mentali anche assai gravi e per lunghi periodi della vita. NEVROSI Termine che descrive una vasta gamma di disturbi psicologici, un tempo attribuiti a disfunzioni neurologiche e oggi considerati esclusivamente di origine psichica. Le nevrosi sono caratterizzate da ansia, sentimenti di inadeguatezza e insoddisfazione, e disturbi del comportamento. A differenza delle psicosi, le nevrosi di solito non compromettono l’adattamento sociale e la capacità di distinguere tra realtà esterna e realtà interna. La psicoanalisi spiega i sintomi nevrotici come espressione simbolica di un conflitto psichico inconscio. La nevrosi rappresenterebbe un compromesso tra desiderio e difesa, tra le esigenze dell’Es da un lato, e quelle dell’Io e del Super-Io dall'altro. L’attuale orientamento riguardo al disagio nevrotico tende ad ampliare i limiti entro cui intendere il conflitto psichico: non più circoscritto al solo ambito familiare, alla storia infantile e allo sviluppo sessuale, ma inteso come un’opposizione tra aspirazioni individuali alla libertà e alla realizzazione di sé e adattamento a norme collettive, che al soggetto appaiono incompatibili. Il trattamento elettivo per le nevrosi è la psicoanalisi, o la psicoterapia psicoanalitica. Anche la modifica del comportamento, l'ipnosi e i farmaci ansiolitici possono dare buoni risultati, consistenti nella riduzione del disagio soggettivo e dei comportamenti disturbati. 12 2. LA CLASSIFICAZIONE CLINICA Il termine "nevrosi" non ha un unico corrispettivo sul piano clinico e le sottocategorie dipendono dalla natura dei sintomi; peraltro nella più recente classificazione psichiatrica del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, pubblicato nel 1994 (DSM-IV), il termine non è più compreso, e i disturbi considerati in precedenza come "nevrotici" sono oggi definiti "reazioni acute allo stress e reazioni di adattamento" e sono stati sostituiti da una serie di altri quadri clinici. 1. Disturbo da ansia generalizzata Condizione stabile di ansia apparentemente immotivata e spropositata rispetto agli eventi che la provocano, che può protrarsi lungamente. 2. Disturbo da attacchi di panico Caratterizzato da accessi di ansia in forma acuta, accompagnati da sintomi fisici (tachicardia, affanno, tremore, nausea). 3. Fobia Reazione di intensa paura relativa a oggetti o situazioni generalmente considerati non pericolosi. Perché si possa parlare di fobia, i sintomi devono essere tali da interferire con la vita quotidiana. 4. Disturbo ossessivo-compulsivo Persistente intrusione di pensieri estranei e indesiderati (ossessioni) e di azioni la cui necessità è irresistibile (ad esempio lavarsi le mani, controllare la chiusura dei rubinetti del gas ecc.) e la cui ultimazione, spesso ritualizzata, comporta una momentanea riduzione dell'ansia. 5. Disturbo d’ansia di separazione Caratteristico dell'infanzia e costituito da una paura irrazionale di allontanarsi da uno dei genitori. Spesso i bambini con questo disturbo sviluppano, da adulti, l'agorafobia (una morbosa paura degli spazi aperti). 6. Disturbo post-traumatico da stress Termine coniato dopo la guerra del Vietnam per descrivere i sintomi psicologici riportati dai veterani. Viene utilizzato in relazione ai disturbi che si presentano come conseguenza di esperienze particolarmente gravi vissute da un individuo. I sintomi comprendono frequenti ricordi "a flash" dell'esperienza traumatica, disturbi del sonno (insonnia e incubi), ansia, distacco emotivo dalle altre persone e perdita di interesse nei confronti delle attività quotidiane e lavorative. 7. Distimia (nevrosi depressiva) Disturbo caratterizzato dalla presenza di umore depresso per la maggior parte del giorno e per un lungo periodo di tempo. A differenza di quanto accade nella depressione vera e propria, il disturbo dell'umore non è di entità tale da interferire con le attività abituali. 13 8. Nevrosi isterica Termine oggi in disuso, che si riferisce a un disturbo nevrotico in cui prevalgono i sintomi propri dell'isteria. 9. Personalità multipla Disturbo molto raro in cui nella stessa persona coesistono due o più personalità. Spesso una personalità non è consapevole di ciò che accade quando un'altra personalità è dominante, cosa che porta il paziente a sperimentare periodi di amnesia. Questo disturbo è spesso una conseguenza di fatti traumatici occorsi durante l'infanzia. Disturbi psico alimentari BULIMIA Disturbo dell’alimentazione in cui il paziente sembra colpito da fame insaziabile e ingerisce alimenti in grande quantità e in modo non bilanciato. In molti casi, dopo il pasto si provoca il vomito o ingerisce lassativi, allo scopo di ingerire nuovamente cibo; in altri casi, la bulimia può alternarsi con periodi di anoressia, in cui il soggetto rifiuta il cibo. 2. SINTOMI Gli individui colpiti nel 90% dei casi sono di sesso femminile, hanno in media venti anni e sono caratterizzati da sovrappeso; la bulimia può insorgere, per contro, anche in soggetti eccessivamente dimagriti come conseguenza di diete molto ristrette e protratte nel tempo. Il quadro psicologico rivela un’eccessiva attenzione per la forma fisica, insoddisfazione e disturbi d’ansia, scarsa capacità di controllo dei propri impulsi, instabilità affettiva. La necessità di ingerire grandi quantità di cibo, infatti, sembra correlata al desiderio di placare stati ansiosi e solitudine; il vomito e l’uso di lassativi, per contro, compaiono dopo l’eccessiva introduzione di calorie, per il desiderio di mantenere il peso corporeo, ma probabilmente anche per nascondere agli altri l’ingrassamento (e quindi il proprio disturbo) e probabilmente per la disistima derivante dagli episodi bulimici. In breve tempo, però, l’appagamento che l’ingerimento del cibo apporta determina il bisogno di nuovi pasti. Spesso il soggetto tende a isolarsi, per non essere osservato dagli altri nei propri eccessi alimentari. Si è osservato che, in soggetti sottoposti a diete molto ristrette per lungo tempo, si manifesta la tendenza bulimica a ingerire molto più cibo del necessario anche dopo il ritorno a un regime alimentare normale. Il metabolismo si adatta al ciclo di bulimia-assunzione di lassativi/vomito, rallentando e in tal modo aumentando il rischio che vi sia un aumento di peso anche solo attraverso l’ingestione di una quantità normale di calorie. La continua assunzione di lassativi e l’induzione dello stimolo del vomito possono stimolare a livello cerebrale la produzione di sostanze di tipo oppiaceo, come le endorfine, che hanno un effetto sedativo sul metabolismo. Quando il soggetto si trova in fase anoressica, invece, manifesta facile irritabilità e la tendenza a sviluppare stati depressivi. Questi disturbi psicologici scompaiono aumentando la quantità di cibo introdotta; il paziente entra di conseguenza in una nuova fase bulimia; in particolare, privilegia alimenti dolci, dato che stimolano la produzione di serotonina e migliorano indirettamente l’umore. 1. Disturbi organici 14 Il quadro clinico dei soggetti bulimici rivela lesioni a diversi organi: erosione dei denti, dovuta ai ripetuti episodi di vomito; lesioni della mucosa esofagea; aumento del volume delle ghiandole paratiroidi; infiammazione del tubo digerente; alterazione del bilancio idrico e dei sali, soprattutto del potassio, derivante dall’uso prolungato dei lassativi, da cui possono derivare estrema debolezza, paralisi e anomalie della contrazione cardiaca. Altri disturbi possono derivare dagli effetti collaterali dei farmaci assunti frequentemente dai bulimici, quali i lassativi, sostanze emetiche che inducono il vomito e, nel caso dei bulimici-anoressici, gli anoressizzanti per ridurre l’appetito e i diuretici. In generale, le prospettive di guarigione sono migliori per i bulimici che per gli anoressici. 3. TERAPIA La diagnosi della bulimia in molti casi non è facile: il comportamento alimentare del paziente deve essere osservato per un certo periodo di tempo, al fine di definire il suo rapporto con il cibo. Il disturbo viene diagnosticato se si verificano almeno due episodi bulimici a settimana, nel periodo di tre mesi. Il trattamento terapeutico deve innanzitutto vincere le resistenze mentali del bulimico, che ritiene il vomito o l’eccessiva emissione di feci l’unico rimedio alla tendenza a ingrassare. Il paziente bulimico deve essere ospedalizzato meno frequentemente di quanto avviene negll’anoressico, a meno che non presenti fasi anoressiche o sia affetto da depressione maggiore; può essere curato mediante psicoterapia cognitivo-comportamentale e antidepressivi. La psicoterapia è finalizzata a modificare l’immagine distorta del proprio corpo che di solito ha il paziente con disturbi alimentari, e i disturbi d’ansia che trovano temporaneo appagamento con l’ingestione del cibo. Il soggetto impara a nutrirsi tre volte al giorno, e a includere alimenti di ogni genere e deve prendere nota degli episodi di vomito o dell’impiego di lassativi, allo scopo di divenire maggiormente consapevole del suo comportamento. La terapia può coinvolgere anche i familiari, dato che i disturbi alimentari trovano spesso le radici più profonde in situazioni conflittuali del vissuto familiare. ANORESSIA Anoressia Patologia caratterizzata da perdita dell’appetito e progressivo rifiuto del cibo e, talvolta, anche dell’acqua. Essa può avere diverse cause; può essere organica, e costituire una manifestazione di gravi malattie, come alcune forme di cancro e l’ipertiroidismo, o essere concomitante a forme di gastrite, all’alcolismo, o ad alcune affezioni associate all’AIDS. L’anoressia determina, se si protrae nel tempo, carenze nutrizionali; può condurre a uno stato di vera e propria malnutrizione. Un particolare tipo di anoressia è quella denominata anoressia mentale o nervosa. 15 2. ANORESSIA MENTALE L’anoressia mentale costituisce una forma di anoressia tipica soprattutto delle ragazze adolescenti. Sembrano particolarmente colpite le ragazze tra i 12 e i 18 anni, appartenenti a classi sociali medio-alte. Essa viene considerata più un disturbo psicologico che una malattia organica; questo aspetto rende spesso più difficile la sua individuazione, almeno nelle sue fasi iniziali, e più complesso il trattamento terapeutico. In molti casi l’anoressia non è riconosciuta come un “problema” da parte del soggetto che ne è affetto o dei suoi familiari; di conseguenza, la consultazione di un medico viene effettuata spesso per il trattamento di disturbi che non sembrano in relazione con l’anoressia e che, in realtà, ne sono conseguenti. 1. Cause Non è facile identificare come si sviluppa lo stato di disagio psicologico che porta a comportamenti anoressici. Le indagini compiute recentemente sull’anoressia mentale, patologia che sembra essere in fase di diffusione, mostrano alcuni elementi comuni nella storia dei pazienti. Tra questi, vi sono elementi “psicologici”, come la presenza di disturbi relativi all’alimentazione nelle madri o nelle nonne (a loro volta anoressiche o obese); figure materne autoritarie, con rigide imposizioni alimentari, oppure figure paterne “importanti”, affermate nel lavoro, con forti aspettative sui figli; scarsa possibilità di avere spazi propri all’interno della famiglia. Vi sono inoltre elementi “fisici”, come lo svolgimento di una eccessiva attività fisica, la presenza di piccoli disturbi gastro-intestinali (nausea, gonfiore addominale) che inducono a ridurre l’introduzione di cibo; un effettivo stato di sovrappeso, che può verificarsi durante la pubertà mentre nell’organismo si instaurano nuovi equilibri ormonali. 2. Sintomi La patologia si sviluppa a partire da una errata immagine del proprio corpo, che si percepisce sempre come inadeguato e, in particolare, costantemente in condizioni di sovrappeso. I soggetti anoressici, temendo di non ricevere l’approvazione degli altri, cominciano a rifiutare il cibo. Nelle fasi iniziali, è possibile non accorgersi che il soggetto è affetto da anoressia, perché questi sembra apparentemente seguire una semplice dieta dimagrante a fini estetici; inoltre, spesso l’anoressico può in presenza di altri cibarsi ma, per “non ingrassare”, dopo può provocarsi artificialmente il vomito. Con l’aggravarsi della malattia, il vomito in molti casi avviene automaticamente, anche solo alla vista del cibo. Il progressivo stato di malnutrizione innesca vari disturbi, tra i quali: la perdita delle mestruazioni (vedi Amenorrea); il depauperamento delle riserve di tessuto adiposo, con conseguente abbassamento di organi che normalmente poggiano su pannicoli grassi, come i reni e lo stomaco, e disturbi nel funzionamento di questi organi; abbassamento della pressione sanguigna; sviluppo di disturbi della pelle, dei denti, delle unghie e dei capelli (che si desquamano e si spezzano con facilità); arresto del processo di crescita (nei casi in cui l’anoressia insorga precocemente, prima della pubertà); forti squilibri ormonali; osteporosi, a causa dell’insufficiente introito di calcio e altri sali minerali. I ripetuti episodi di vomito privano l'organismo di liquidi e di potassio, il che può avere effetti avversi sulla funzione cardiaca; inoltre, l’acidità del vomito può nel tempo corrodere i denti e la mucosa dell’esofago. Ancora, all’anoressia possono essere associati disturbi della sessualità e forme depressive. L’anoressia mentale può alternarsi, in alcuni pazienti, a manifestazioni di bulimia, in cui il paziente si ciba con voracità e in modo non equilibrato; esso quindi si procura il vomito e ritorna a una fase anoressica. 16 3. Terapia Per la cura dell’anoressia non esiste un'unica terapia che abbia dimostrato di essere efficace in tutti i casi. Circa la metà dei pazienti che si sottopongono a psicoterapia, singola o familiare, guarisce senza andare incontro a ricadute. La normalizzazione del peso corporeo è un passo importante nel trattamento di questa patologia, che talvolta prevede anche la somministrazione di farmaci antidepressivi. In una percentuale variabile tra il 5 e il 18% dei casi, l'anoressia nervosa ha esito fatale. Poiché, soprattutto tra gli adolescenti, il problema dell’anoressia viene spesso vissuto in solitudine, e tenuto nascosto a familiari e amici, sono stati di recente attivati servizi come quello denominato Telefono Amico che possono sostenere psicologicamente il malato, mantenendo il suo bisogno di riservatezza. PEDAGOGIA SPECIALE Disciplina che studia le modalità di intervento a favore di soggetti che, per abilità, dotazione psico-fisica, patrimonio culturale, appaiono discostarsi dalla norma e che richiedono, pertanto, forme e strategie di educazione e di insegnamento particolari e mirate. 2. IL SOGGETTO "NON NORMALE" La pedagogia speciale si occupa dunque non solo dell'educazione e della riabilitazione dei soggetti in difficoltà o disabili, ma anche dell'educazione dei ragazzi particolarmente dotati il cui potenziale di talento rischierebbe di non essere adeguatamente promosso nei contesti e nelle condizioni di apprendimento abitualmente predisposti. La dizione pedagogia speciale è piuttosto recente e sostituisce il termine "ortopedagogia" utilizzato in precedenza per descrivere gli interventi correttivi nei confronti dei soggetti considerati "non normali". La definizione di "soggetto che richiede forme di pedagogia speciale" è un aspetto importante della riflessione di questo ambito disciplinare, poiché la nozione stessa di "norma" risulta problematica e le definizioni terminologiche di "svantaggio", "handicap", "superdotato" non sono esenti da ambiguità. Inoltre, ultimamente, il termine “speciale” ha acquisito la connotazione di “specifico”, ad indicare una risposta specifica a certe problematiche nell’ambito dell’educazione di tutti. 3. AMBITI DI INTERVENTO Gli ambiti più recenti di intervento e ricerca della pedagogia speciale riguardano l'"educazione compensatoria" e l'integrazione scolastica degli alunni disabili. L'educazione compensatoria nasce in America negli anni Sessanta dalla consapevolezza della necessità di interventi educativi specifici rivolti a gruppi marginali (minoranze etniche, immigrati), non inseriti nella società di appartenenza a causa di differenze culturali, economiche e sociali; il recupero dello svantaggio, nel quadro di una politica di integrazione sociale e culturale, ha luogo mediante progetti ad hoc – il più noto è il programma Head Start – che si rivolgono non solo ai ragazzi ma anche alle loro famiglie mettendo a disposizione una serie di servizi sanitari e sociali. L'educazione e l'istruzione dei soggetti disabili rappresentano un problema sociale di grande rilievo sia che lo si affronti in relazione alla loro integrazione scolastica sia relativamente al recupero in istituzioni specializzate. Le indicazioni più rilevanti della riflessione pedagogica vedono il recupero nella forma di interventi mirati sulla base di diagnosi funzionali che salvaguardino e incoraggino al tempo stesso processi di integrazione e di socializzazione nell'ambito della classe e del gruppo dei coetanei. 17 FISIOLOGIA I due emisferi cerebrali controllano, ciascuno, il lato del corpo opposto rispetto alla parte del cranio in cui si trovano (la parte destra del cervello elabora le informazioni provenienti dalla parte sinistra del corpo, mentre la parte sinistra del cervello elabora quelle della parte destra del corpo e le controlla). Nei due emisferi esistono molte aree che svolgono funzioni differenti; ricevono le informazioni dagli organi di senso e da zone del cervello differenti e le passano ad aree diverse. Il modo in cui vengono elaborate le informazioni varia a seconda dell'area cerebrale. Nella corteccia sono presenti infatti aree differenti di elaborazione delle informazioni dette area primaria, area secondaria e area associativa. Le aree primarie eseguono l'analisi iniziale delle informazioni in arrivo dai diversi recettori sensoriali del corpo. Le informazioni provenienti da ciascun organo di senso vengono elaborate in una diversa area primaria, spesso dotata di un'organizzazione topografica (ciò significa che le sensazioni provenienti dalle diverse zone del corpo sono rappresentate da diversi gruppi di cellule della zona primaria, dove si viene così a creare una mappa generale del corpo). Schematicamente si può, cioè, affermare che le informazioni sono organizzate in modo ordinato: ad esempio, due cellule adiacenti rappresentano due posizioni adiacenti nel corpo o nello spazio. Nel caso dell'udito (cioè della facoltà di percepire i suoni), è stata dimostrata l'esistenza, a livello cerebrale, di una "mappa tonale" in cui le informazioni sono organizzate in base al tono del suono. Nell'area secondaria le informazioni vengono sottoposte a un'analisi più complessa; nell'area associativa le informazioni provenienti da diverse zone cerebrali vengono associate, in modo da ottenere un'interpretazione degli stimoli percepiti e da produrre una risposta adeguata. Corteccia cerebrale: funzioni Molte funzioni motorie e sensoriali sono state localizzate in aree specifiche della corteccia di entrambi gli emisferi del cervello, ciascuno dei quali controlla la parte opposta del corpo. Meno definite sono le aree associative, individuate principalmente nella corteccia frontale, legate al pensiero e alle emozioni e responsabili del coordinamento degli stimoli sensoriali. Le due aree del linguaggio, quella di Wernicke (comprensione del linguaggio) e quella di Broca (produzione del linguaggio), sono state invece localizzate entrambe nella corteccia dell’emisfero sinistro. 1. SPECIALIZZAZIONEDELLE AREE Ciascuno dei lobi della corteccia cerebrale elabora informazioni specifiche e svolge una funzione diversa. Benché le funzioni specifiche delle diverse aree della corteccia siano ancora 18 oggetto di molte discussioni e indagini, esistono, tuttavia, alcune nozioni relativamente consolidate. Ad esempio, i lobi frontali sono specializzati nell'organizzazione e nel controllo dei movimenti e contengono la corteccia motoria primaria. Le cellule di questi lobi sono organizzate in modo topografico e la loro stimolazione con una debole corrente elettrica può provocare il movimento della parte corrispondente del corpo. I lobi occipitali elaborano le informazioni visive primarie e poi le inviano in avanti, sia al lobo parietale che a quello temporale. I lobi parietali elaborano le informazioni somatosensoriali primarie (cioè quelle provenienti dalla cute, dai muscoli e dalle articolazioni), mentre il lobo temporale elabora le informazioni uditive primarie (provenienti dagli organi dell'udito). La corteccia temporale sembra essere necessaria per il riconoscimento e la classificazione degli oggetti, per la memoria a lungo termine e per alcuni aspetti del linguaggio (controllata a livello della cosiddetta area di Broca). La corteccia parietale sembra deputata alla mediazione della percezione della posizione degli arti, discriminando ad esempio tra diversi oggetti tenuti in mano. Vedi anche Intelligenza; Psicofarmaci. Il sistema limbico è coinvolto nella motivazione, nell'elaborazione degli istinti e delle emozioni, mentre i gangli della base intervengono nel controllo del movimento. Il talamo trasmette le informazioni provenienti dai recettori sensoriali alla corteccia cerebrale. I nuclei genicolati laterali del talamo ricevono informazioni dagli occhi e le inviano alle aree visive primarie del lobo occipitale. L'ipotalamo controlla gran parte del sistema endocrino, che a sua volta, mediante gli ormoni, regola molte funzioni corporee. Le strutture del tetto mesencefalico fanno parte del sistema visivo e uditivo e sono responsabili soprattutto dei riflessi e delle reazioni rapide agli stimoli di movimento. La formazione reticolare svolge un ruolo nella regolazione del sonno e della veglia, nell'attenzione, nei movimenti muscolari e in vari riflessi vitali, come il battito cardiaco. La materia grigia periacqueduttale è coinvolta nella mediazione del dolore; la sostanza nera nel controllo dei movimenti muscolari. Il cervelletto, che fa parte del rombencefalo, riceve stimoli da tutti gli organi e dai recettori sensoriali, nonché informazioni riguardanti i movimenti muscolari diretti dal cervello stesso. Esso integra le informazioni, confrontando le azioni effettive del corpo rispetto a ciò che il cervello ha preordinato. Quindi modifica le direttive del cervello al corpo, per facilitare la coordinazione dei movimenti e renderli più sciolti. Il ponte di Varolio sembra avere un ruolo nell'alternanza del sonno e della veglia, e nella durata delle diverse fasi del sonno; è importante, inoltre, per la regolazione della frequenza degli atti respiratori. Il midollo allungato contiene alcuni centri di controllo di funzioni vitali, come la regolazione del battito cardiaco, della respirazione, della deglutizione e la pressione dei gas nel sangue. Memoria e attività cerebrale Le aree cerebrali coinvolte nel processo di memorizzazione possono essere evidenziate mediante tomografia a emissione di positroni. Nelle due immagini, si osserva come nella fase di codifica sia attiva la corteccia prefrontale sinistra 19 e nella fase di rievocazione la corteccia prefrontale destra. 2. FENOMENO DELLA DOMINANZA Circa il 90% degli esseri umani usa la mano destra per compiere azioni, ad esempio scrivere. Questa caratteristica, osservata in tutte le razze e le culture, è stata collegata al cervello e, in particolare, all'area deputata all'elaborazione del linguaggio. Nel 95% circa dei destrimani il linguaggio è, infatti, mediato esclusivamente dall'emisfero sinistro, che controlla la parte destra del corpo e quindi anche la mano destra. Questo fenomeno viene chiamato dominanza sinistra per il linguaggio. Nei mancini la situazione è più variegata: nel 70% dei casi la dominanza per il linguaggio è mediata dall'emisfero destro, nel 15% dal sinistro e nel restante 15% da entrambi. Tra le altre funzioni in cui un emisfero sembra essere dominante, si annoverano il riconoscimento dei volti e l'attenzione spaziale. Quando un emisfero cerebrale subisce una lesione monolaterale, queste funzioni possono andare distrutte. Gran parte delle conoscenze attuali sul funzionamento del cervello e sul modo in cui le diverse aree mediano funzioni differenti proviene dallo studio di persone che hanno subito lesioni in diverse zone cerebrali. PATOLOGIE CEREBRALI Cervello colpito da morbo di Alzheimer L'immagine elaborata al computer permette il confronto tra una sezione trasversale del cervello di un soggetto colpito da morbo di Alzheimer (a sinistra) e quella di un individuo sano (a destra). Le caratteristiche alterazioni che la malattia determina a livello cerebrale, quali riduzione del flusso di sangue, assottigliamento dei tessuti, riduzione della massa (come si osserva nell'immagine) e anomalo utilizzo del glucosio, possono essere indagate attraverso la risonanza magnetica nucleare, la tomografia computerizzata, la TC a emissione di fotone singolo e la tomografia a emissione di positroni. Queste tecniche in realtà permettono una diagnosi di "Alzheimer probabile", ma non "certo"; la conferma può aversi soltanto mediante esame istologico del cervello e riscontro delle placche neuritiche e delle aggregazioni neurofibrillari. Le cellule cerebrali sono soggette a una progressiva degenerazione Dopo i 21 anni, a causa dell'invecchiamento cellulare fisiologico, l'uomo perde ogni giorno migliaia di cellule cerebrali. Anche piccoli traumi e sostanze nocive presenti nell'ambiente possono contribuire al processo degenerativo. Il tessuto nervoso, infatti, è composto da cellule di tipo statico, che cessano di 20 differenziarsi prima che si sia completato lo sviluppo corporeo. Queste cellule non possono perciò essere sostituite da altre, qualora vengano danneggiate. Esistono poi situazioni patologiche, come il morbo di Parkinson e la malattia di Alzheimer, che accelerano fortemente il ritmo di morte delle cellule cerebrali. Le cellule possono morire anche a causa di un trauma cranico conseguente, ad esempio, a un incidente stradale, o di un disturbo della perfusione sanguigna ai tessuti cerebrali, come accade quando una persona subisce un ictus. A volte zone di tessuto cerebrale vengono perdute perché i chirurghi si trovano costretti ad asportare un tumore. Quando muoiono le cellule di un'area cerebrale, possono comparire alterazioni delle funzioni corporee controllate da quella parte del cervello. Nel caso di una patologia diffusa, che si traduce nella morte di molte cellule in tutto il cervello, insorge la demenza (perdita della funzione cerebrale), associata a disturbi della memoria, della personalità e dell'intelletto. Ciò può provocare disturbi comportamentali, la tendenza all'asocialità, mutamenti di umore, ansia, fasi di amnesia e grave trascuratezza personale. A mano a mano che il danno cerebrale progredisce, l'individuo colpito può anche perdere la consapevolezza della propria condizione. Nel caso di lesione o morte di alcune cellule di una particolare area cerebrale, la riduzione della funzione tende a essere più circoscritta e specifica della zona colpita. Il cervello è, tuttavia, un organo molto complesso e ricco di interconnessioni; pertanto, risulta molto difficile individuare le zone deputate esclusivamente a una particolare funzione. Con qualche cautela si può, tuttavia, affermare che i pazienti che presentano una lesione in una particolare area manifestano più facilmente un determinato quadro sintomatologico, diverso da quello che si avrebbe se il danno riguardasse una zona diversa. Ad esempio, nel morbo di Parkinson la lesione di un gruppo di cellule cerebrali provoca disturbi caratteristici come un tremore incontrollabile. In questa malattia risultano lesionate le cellule, poste nei gangli della base e in altre zone specifiche, che producono e utilizzano un neurotrasmettitore (ossia una molecola che trasmette gli impulsi tra neuroni), chiamato dopamina. Ciò si riflette in alcune manifestazioni nella persona affetta, quali tremore a riposo, lentezza dei movimenti e difficoltà a iniziare e terminare un movimento. Dato che le cellule di questa zona controllano tutti i diversi gruppi muscolari del corpo, gradualmente compaiono disturbi a carico dei muscoli che controllano le dita, le mani, le braccia e il tronco. Le manifestazioni di questa malattia possono essere alleviate da alcune sostanze, come la levodopa, che contribuiscono a sostituire la dopamina andata perduta. Tuttavia, questi farmaci non possono sostituire le cellule perdute e quindi sono efficaci, ogni volta, solo per un breve periodo di tempo e non sono in grado di curare la malattia. È stato dimostrato che anche altre sostanze attive sui neuroni, ad esempio la serotonina, possono contribuire ad alleviare alcuni sintomi di disturbi, come l'ansia e la depressione. L'azione di tutte queste sostanze deve essere, tuttavia, tenuta sotto accurato controllo medico perché esse possono provocare anche effetti collaterali indesiderati. 1. Disturbi del linguaggio Sono generalmente associati a un danno a carico di determinate aree dei lobi temporale e frontale sinistro. I disturbi del linguaggio, chiamati complessivamente afasia, possono riguardare la produzione del linguaggio, la sua comprensione, la lettura e la scrittura, sia isolatamente che in combinazione. Talvolta sono associati a danni delle aree cerebrali che controllano i movimenti della bocca o della mano. 21 Alcuni pazienti presentano una notevole riduzione nella produzione del linguaggio, anche se la loro capacità di comprensione resta relativamente normale; si esprimono con lentezza e difficoltà e faticano a trovare la parola giusta da usare in un determinato contesto. Questo tipo di disturbo viene chiamato afasia di Broca. I pazienti colpiti dall'afasia di Wernicke (perdita parziale o totale della capacità di esprimere o comprendere le parole) si esprimono, invece, in modo fluente e rapido, con un'intonazione normale, ma spesso è impossibile comprendere quello che dicono. Incontrano difficoltà nel ripetere le frasi e spesso aggiungono parole e frasi senza senso. Il loro problema più evidente è una grave riduzione della capacità di comprensione del linguaggio. I pazienti che presentano un problema sia d'espressione che di comprensione vengono classificati come affetti da afasia globale. Questi disturbi del linguaggio sono associati a danni in differenti zone cerebrali, considerate responsabili di diversi aspetti del linguaggio. 2. Disturbi visivi Un danno ai neuroni della corteccia occipitale è associato a un deficit della vista. Dato che il lobo occipitale possiede un'organizzazione topografica, la lesione di un'area tende a provocare la cecità della zona a essa correlata del campo visivo (cioè della porzione di spazio controllata dall'occhio). Se, ad esempio, la corteccia occipitale destra è gravemente lesa, il paziente non vede la zona sinistra del campo visivo. Un interessante fenomeno associato a un danno della corteccia occipitale è quello per cui alcuni pazienti, per quanto incapaci di "vedere" coscientemente un oggetto nella zona danneggiata del loro campo visivo, sono comunque in grado, quando viene loro richiesto, di indicare con straordinaria precisione un fascio luminoso puntato sulla zona cieca. Questo fenomeno è dovuto al fatto che, sebbene quasi tutte le informazioni provenienti dalla retina vengano convogliate al lobo occipitale, una piccola parte di esse viene inviata ad altre zone, come il collicolo superiore del mesencefalo. Sembra che sia proprio questo a fare sì che il paziente sia in grado di indicare la presenza di un fascio luminoso, anche senza vederlo consapevolmente. 3. Disturbi comportamentali Un danno ai lobi frontali può provocare gravi alterazioni della personalità e del comportamento. I pazienti colpiti da questo tipo di lesioni possono incontrare, ad esempio, particolari difficoltà nel prendere una decisione. Altre manifestazioni comprendono violenti cambiamenti di umore, passività costante e tono di voce monocorde. 4. Disturbi di percezione Un danno ad alcune aree della corteccia temporale può provocare problemi di percezione visiva. Chi subisce una lesione in quest'area spesso presenta un'agnosia visiva, cioè un'assenza di comprensione o di conoscenza di quello che vede, anche se la sua capacità visiva è intatta. Non è in grado di identificare semplici oggetti di uso quotidiano, come un cucchiaio o una scatola di fiammiferi, quando li vede, anche se riesce a identificarli toccandoli. I problemi che insorgono nel riconoscimento degli oggetti possono essere limitati a una piccola classe di questi; alcuni pazienti non sanno, ad esempio, nominare gli animali e altri esseri viventi, ma sono in grado di riferire il nome della maggior parte delle altre cose, come gli oggetti di uso domestico. Alcuni pazienti, specialmente quelli che hanno subito una lesione del lobo 22 temporale destro, hanno problemi nel riconoscimento dei volti, ma sono in grado di dire se questi manifestano un particolare tipo di espressione. Un danno in alcune aree della corteccia parietale, soprattutto di quelle posteriori, può provocare disturbi di percezione spaziale. Un problema di questo tipo è l'agnosia spaziale unilaterale, che consiste nella mancata percezione di metà del mondo circostante. Questo disturbo viene osservato soprattutto dopo una lesione alla zona posteriore destra della corteccia parietale, nel qual caso viene ignorato lo spazio esterno sinistro (dato che la parte destra del cervello presiede alla parte sinistra del corpo e la parte sinistra a quella destra). I pazienti che presentano questo disturbo tendono a scontrarsi con gli oggetti posti alla loro sinistra, a trascurare la parte sinistra del loro corpo, a tracciare solo la parte destra di un disegno e a mangiare solo il cibo presente nella parte destra di un piatto (perché mangino l'altra metà, il piatto deve essere ruotato di 180°). Possono, inoltre, incontrare difficoltà nella lettura, perché trascurano la metà sinistra delle parole o delle righe. 5. Disturbi motori Alcune lesioni di un lato della corteccia motoria primaria (localizzata nella parte posteriore del lobo frontale) possono provocare un'incapacità completa di muovere la parte opposta del corpo; i danni a carico di parti della corteccia parietale vicine ai lobi occipitale e temporale possono causare un'incapacità o una difficoltà nel compiere alcuni movimenti; questi disturbi vengono chiamati globalmente aprassia. I pazienti che ne sono affetti dimenticano il modo in cui gli oggetti devono essere utilizzati e, pur potendo compiere alcuni movimenti, tendono a eseguirli in modo disordinato e casuale; in genere, non sono in grado di svolgere semplici azioni quotidiane, come preparare la tavola o vestirsi. PSICHIATRIA Branca della medicina specializzata nello studio, nella diagnosi e nella terapia dei disturbi mentali. Il termine deriva del greco psyché, che significa anima, mente, e iatreia, che significa cura medica. Bedlam Nel XVIII secolo, il manicomio londinese di Saint Mary of Bethlehem, conosciuto come "Bedlam", diventò una vera e propria attrazione turistica e il pubblico vi veniva accolto dietro pagamento di un penny. Questa consuetudine è documentata anche da un'incisione di William Hogarth (nella serie Carriera di un libertino, 1735), nella quale, oltre allo sfortunato protagonista della vicenda raffigurato in primo piano, si scorgono sul fondo due dame recatesi in visita nel reclusorio per loro proprio diletto. Il reclusorio era all'epoca famoso per le miserabili condizioni in cui erano costretti i malati e per il crudele trattamento loro riservato; nel linguaggio popolare, la parola "bedlam" indicava l'ospedale psichiatrico, il malato mentale, oppure una situazione di estrema confusione. Il medico greco Ippocrate (450-377 a.C.) per primo escluse l’idea che la malattia mentale fosse legata alla possessione demoniaca ed elaborò una prima spiegazione medica dei disturbi 23 psichici. Egli suddivise le malattie mentali in tre categorie: manie, melanconie e freniti (una specie di infiammazione cerebrale). Tutte e tre, a suo parere, erano causate da un disturbo organico. La cura era rivolta all’organismo e, secondo il tipo di malattia, comprendeva ad esempio una dieta vegetariana, l’esercizio fisico o l’astinenza sessuale. Durante il Medioevo la convinzione che i demoni fossero causa del comportamento patologico si diffuse nuovamente, e della cura delle malattie mentali furono incaricati i sacerdoti, che usavano varie tecniche, tra cui anche forme violente di esorcismo volte ad allontanare il demone dal corpo. Nel quindicesimo secolo il comportamento patologico venne collegato alla stregoneria. A partire dal sedicesimo secolo, la credenza irrazionale negli spiriti maligni cominciò a sparire, ma nessuna teoria unitaria sulle cause delle malattie mentali riuscì a sostituirsi a essa. I malati mentali venivano ricoverati in istituti, che avevano principalmente lo scopo di escluderli dalla società, e dove spesso venivano trattati in modo disumano. Nel 1792 un medico francese, Philippe Pinel, venne incaricato di dirigere un istituto per malattie mentali vicino Parigi. Egli liberò letteralmente dalle catene i ricoverati e prescrisse loro di lavorare e svolgere attività fisica all’aperto. I medici iniziarono a occuparsi, sistematicamente, dei malati mentali a partire dal XIX secolo. Conosciuti come alienisti, gli psichiatri dell'epoca lavoravano in grandi manicomi, praticando quello che allora veniva chiamato “trattamento morale”: un approccio teso ad acquietare l'agitazione mentale e a ripristinare la ragione. Durante la seconda metà del secolo gli psichiatri abbandonarono questa modalità di trattamento e, con essa, il tacito riconoscimento che la malattia mentale è causata da influenze sia psicologiche che sociali: per un periodo, l'attenzione si concentrò quasi esclusivamente sui fattori biologici. Era comune l'impiego di farmaci e di altre forme di terapia fisica. Lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin identificò e classificò i disturbi mentali in un sistema che costituisce la base della diagnostica moderna. Un'altra figura importante fu lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler, che coniò il termine schizofrenia e descrisse le caratteristiche di questa patologia. All'inizio del XX secolo, il riconoscimento, a opera di Sigmund Freud, dell'esistenza di componenti inconsce che agiscono sul comportamento, contribuì ad arricchire il pensiero psichiatrico, modificandone l'impostazione: l'attenzione si spostò sui processi interni alla psiche individuale e la psicoanalisi arrivò a essere considerata la terapia d'elezione per quasi tutti i disturbi mentali. Negli anni Quaranta e Cinquanta l'attenzione si spostò di nuovo, questa volta verso l'ambiente fisico e sociale: molti psichiatri avevano, fino ad allora, ignorato le influenze biologiche, mentre altri erano concentrati su quelle coinvolte nella malattia mentale e usavano forme fisiche di terapia, come l'elettroshock e la psicochirurgia. A metà degli anni Cinquanta ebbero inizio drastici cambiamenti nel trattamento dei malati mentali, con l'introduzione dei primi farmaci efficaci contro i sintomi psicotici. Insieme alla terapia farmacologica, negli ospedali psichiatrici vennero introdotti trattamenti più liberali e attenti agli aspetti umani. Nello stesso tempo, le ricerche sulla salute mentale condussero a importanti scoperte sul ruolo dei fattori genetici e biochimici nelle malattie mentali e nel funzionamento del cervello. Con gli anni Ottanta la psichiatria spostò nuovamente l'attenzione sui fattori biologici, diminuendo l'interesse per gli influssi dell'ambiente psicosociale sulla salute mentale degli individui. 3. DIAGNOSI Gli psichiatri usano molti metodi diversi per individuare disturbi specifici nei loro pazienti. Lo strumento fondamentale è il colloquio psichiatrico, nel quale si riassume la storia psichiatrica del paziente e se ne valuta lo stato mentale. La storia (o anamnesi) psichiatrica è un quadro delle 24 caratteristiche della personalità del paziente, dei suoi rapporti con gli altri e dell'esperienza passata e presente di problemi psichiatrici, raccontata con le parole del paziente stesso (talvolta integrate dal resoconto di altri membri della famiglia). Gli psichiatri per svolgere una diagnosi possono servirsi del supporto di altri specialisti, ad esempio psicologi per una valutazione della personalità del paziente, o neurologi per valutare l'eventuale presenza di danni organici a carico del sistema nervoso centrale. 4. TERAPIA Vi sono due tipi di terapia psichiatrica: i trattamenti organici e quelli non organici. I trattamenti organici, come i farmaci, sono quelli che interessano direttamente il corpo; le terapie non organiche tendono, invece, a migliorare le funzioni dei pazienti con mezzi psicologici, come la psicoterapia, o modificando l'ambiente sociale. 1. Farmaci I farmaci psicotropi costituiscono senz'altro il trattamento organico più comunemente utilizzato. I primi a essere scoperti furono gli antipsicotici, usati in primo luogo per la cura della schizofrenia. Le fenotiazine sono la classe di antipsicotici più prescritta; altri farmaci di questo tipo sono i tioxanteni, i butirrofenoni e gli indoli. Tutti i farmaci antipsicotici riducono sintomi come deliri, allucinazioni e disturbi del pensiero; poiché possono diminuire l'agitazione, vengono talvolta usati per controllare l'eccitazione maniacale nei pazienti maniaco-depressi e per calmare i pazienti geriatrici. A questi farmaci rispondono anche alcuni disturbi comportamentali infantili. 2. Altre terapie organiche Un'altra terapia organica è l'elettroshock, in cui una corrente elettrica che attraversa il cervello provoca crisi simili a quelle dell'epilessia. L'elettroshock viene usato soprattutto per la cura delle depressioni acute che non hanno risposto alla terapia farmacologica. Viene anche usato, talvolta, nella schizofrenia. Altre forme di terapia organica sono utilizzate molto meno frequentemente: fra esse vi è la lobotomia, una controversa tecnica chirurgica, ormai molto rara, in cui vengono resecate le fibre cerebrali. 3. Psicoterapia La terapia non organica più frequente è la psicoterapia. 25 PSICOMOTRICITA’ Disciplina pedagogica che finalizza l’attività motoria al raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie relazioni con l’ambiente esterno e con gli altri; 2. LA SEDUTA PSICOMOTORIA L’attività psicomotoria viene praticata soprattutto con i bambini e i ragazzi fino agli 11-12 anni; si svolge in un ambiente che non sia lo stesso dove il bambino vive le altre attività quotidiane (ad esempio, in una sala specifica della scuola e non nell’aula in cui avviene l’attività didattica), in cui si trovano attrezzi ginnici e oggetti di materiali diversi (come stoffa, cartoncino, plastica). Nel corso di una seduta di psicomotricità, il bambino vive dapprima un momento di libera appropriazione dello spazio; quindi un momento di interazione con gli altri, secondo le proposte dello psicomotricista che in molti casi privilegiano situazioni ludiche; infine, una fase di verbalizzazione del proprio vissuto, in cui, ripercorrendo l’attività svolta, il bambino mette in luce, più o meno consapevolmente, le proprie emozioni, il rapporto con gli altri, eventuali difficoltà o inibizioni. In tal modo, l’educazione psicomotoria può costituire uno strumento per un più armonioso sviluppo corporeo, ma anche per la comprensione dei bisogni dell’individuo. 3. LO SCHEMA CORPOREO L’immagine corporea di se stesso non è propria del bambino alla nascita, ma si delinea attraverso un percorso che si protrae fino agli 11-12 anni. La percezione del proprio corpo è resa possibile dai propriocettori presenti in ogni regione corporea; i differenti segnali che questi inviano costantemente al sistema nervoso permettono al cervello di ricostruire una sorta di immagine tridimensionale e conoscere in ogni istante la posizione di ogni parte e la sua relazione con lo spazio circostante. Le vie nervose afferenti che vanno dai propriocettori al sistema nervoso centrale maturano fino agli 11 anni. L’educazione psicomotoria può dunque intervenire a migliorare la strutturazione dello schema corporeo: ciò avviene attraverso il controllo della respirazione, lo sviluppo dell’equilibrio e della lateralità, la comprensione dei rapporti spazio-tempo e percezione sensoriale-attività motoria, il controllo del tono muscolare e lo sviluppo della capacità di rilassamento, esercizi di coordinazione in movimento. L’attività motoria così intesa diventa una educazione alla scoperta delle potenzialità del proprio corpo; si distanzia dalle metodiche dell’addestramento motorio in cui attraverso la ripetizione di movimenti si intende potenziare il sistema muscolo-scheletrico e rendere automatici esercizi necessari a una specifica specialità sportiva. SE’ Nucleo centrale della persona, fattore di coordinazione e di coerenza interna di processi psicologici e di controllo dell’azione. Elemento di connessione tra il mondo mentale e quello esterno, il Sé nasce dall’interazione sociale e, in particolare, dalla trama di reciproche percezioni e giudizi che si instaurano nelle relazioni con gli altri. Secondo il filosofo e psicologo sociale George H. Mead, il Sé emerge naturalmente nell’ordine sociale. Attraverso l’interazione con l’ambiente e la comunicazione con altri individui, 26 si raggiunge la coscienza di sé. Il gesto vocale, cioè il linguaggio, è il meccanismo che rende possibile questo processo. Nella social cognition, il Sé è considerato come una struttura di conoscenza. La concezione di Sé si realizza nell’esperienza, come qualsiasi altro aspetto della conoscenza, attraverso l’elaborazione dell’informazione e gli altri processi cognitivi. Questa rappresentazione mentale di sé funziona come capacità di guidare e di coordinare i diversi aspetti dell’esperienza e del comportamento. Alcuni studiosi hanno osservato che una persona può percepire delle divergenze tra i propri ideali o aspirazioni e il proprio modo di agire: questo sentimento costituirebbe uno stimolo a ricercare una maggiore armonia, per ridurre le differenze. Se c’è disaccordo tra il comportamento e i valori cui la persona fa riferimento, il Sé mette in atto una correzione finalizzata a ridurre la disparità. In questo caso il Sé è visto come regolatore della condotta umana. Una concezione ricorrente nella psicologia sociale presenta il Sé come un processo adatto a mantenere la propria autostima o ad aumentarla. In questa prospettiva si delinea l’idea di un Sé come motivazione del comportamento umano. Altri approcci teorici tendono ad approfondire lo studio del Sé nelle sue relazioni con l’ambiente, definendolo come la struttura di collegamento tra l’individuo e la società. Il Sé viene, allora, studiato come processo attraverso il quale l’ambiente esterno viene concepito dalla coscienza individuale. 4. SCHEMA CORPOREO E APPRENDIMENTO L’importanza che nella psicomotricità viene data alla percezione dello schema corporeo ha diverse implicazioni, assai più ampie di quelle del solo sviluppo delle capacità motorie. Il concetto di schema corporeo e la capacità di comprendere le relazioni spaziali tra elementi diversi sono fondamentali perché il bambino acquisisca la percezione dello spazio nella scrittura, nella lettura, nel disegno, nella geometria; dunque, sono importanti nell’apprendimento. L’educazione psicomotoria svincola l’attività fisica da ogni componente che la renda meccanica; la ricerca di una libera espressione del movimento è priva degli aspetti agonistici che spesso caratterizzano le attività sportive in genere. In tal modo, il bambino apprende anche una modalità di interazione con gli altri di collaborazione e non competitiva. Imparare a camminare Dopo la fase del gattonamento, in cui il bambino tra i 6 e gli 11 mesi esplora lo spazio muovendosi carponi, tra gli 11 e i 15 mesi è il momento dei primi passi. Il bambino diviene rapidamente sicuro nell'equilibrio e nella direzione in cui intende procedere; in poco tempo diviene capace di brevi corse e di spiccare i primi salti. Questo apprendimento non rappresenta solo una tappa fondamentale dello sviluppo dell'apparato locomotore, ma influenza profondamente la percezione dell'ambiente circostante, stimola la curiosità e la capacità di stabilire relazioni tra gli eventi e le persone; in altri termini, contribuisce alla costruzione del sé. 27