Charles Darwin: l`evoluzionismo come metodo

5. Darwin: la rivoluzione epistemologica nella biologia evoluzionistica
l’evoluzionismo come metodo scientifico
Charles Robert Darwin 1809 – 1882
Le opere di riferimento
Darwin Charles Robert 1859 (18591-18726) L’origine delle specie per mezzo della selezione
naturale, BUR, Rizzoli, Milano 2009 (On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or
the Preservation of Favoured Races in the Struggle of life)
Darwin Charles Robert 1839 (18452) Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Feltrinelli,
Milano 2009
[«Grazie agli occhi degli altri, capirà davvero che cosa ha scoperto durante il viaggio. Oltre al suo
«Giornale di ricerche», che diventerà l’acclamato Viaggio di un naturalista intorno al mondo
(prima edizione nel 1839, seconda nel 1845 e definitiva nel 1860)… (Pievani 2012,30)]
Darwin Charles Robert 1836-1844 Taccuini 1836-1844, Laterza, Roma-Bari 2008
[«Le prime osservazioni del Taccuino Rosso fanno intravedere quale sarà lo scenario maestoso
dentro il quale nasce la teoria dell’evoluzione: le trasformazioni incessanti della superficie instabile
del pianeta e la geologia come modello di scienza rigorosa (p. 72 dell’originale), perché capace di
applicare i suoi schemi semplici al mondo intero (p. 18).» (Pievani 2012, 31); e ancora: «In questi
Taccuini centrali Darwin mostra anche un interesse crescente per questioni epistemologiche, con
apprezzamenti sempre più marcati per un metodo in parte ipotetico-deduttivo e in parte induttivo, in
cui si susseguano confluenze di induzioni (mettere in ordine fatti sparsi), spiegazioni (le cause o
leggi che producono il cambiamento delle specie) e previsioni su fatti non ancora noti.» (Pievani
2012, 47-48)]
Darwin Charles Robert (1876) 1958 Autobiografia 1809-1882, Einaudi, Torino 2006
Darwin Charles Robert 1871 L’origine dell’uomo e la selezione in rapporto al sesso,
Gli studi di riferimento
Pievani Telmo 2012 Introduzione a Darwin, edizioni Laterza, Roma-Bari
Pievani Telmo 2011 La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto,
Raffaello Cortina editore, Milano
Barsanti Giulio (a cura) 1980 Teorie dell’evoluzione nell’Ottocento, Le Monnier, Firenze
Barsanti Giulio, 2005, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005
Monod Jacques 1970 Il caso e la necessità saggio sulla filosofia naturale della biologia
contemporanea, Est Mondadori 1976
Hutten H. Ernest 1974 La scienza contemporanea. Informazione, spiegazione e significato,
Armando editore, Roma 1975
Gould Stephen Jay 2007 L’equilibrio punteggiato, codice edizioni, Torino 2008
Per un recente bilancio: «vent’anni di pensiero eretico, vent’anni di pensiero civile»: sul tema
dell’evoluzione / evoluzionismo il numero “monografico” MICROMEGA 1 / 2006
Boncinelli Edoardo 2012 Charles Darwin. L’uomo: evoluzione di un progetto?, Gruppo editoriale
l’Espresso, Roma
1. uno sguardo d’insieme e contemporaneo tra geologia e biologia.
2. la biologia contemporanea nasce dalla teoria evoluzionistica.
3. un dibattito senza fine (e senza intese): l’infinita e sempre ricorrente polemica tra
piano e caso; i valori della casualità, della necessità e della contingenza nella teoria
evoluzionistica.
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4. dall’evoluzionismo biologico, sui fondamenti empirici e sistemici delineati da
Darwin, la prospettiva morale e il futuro specifico dell’umanità in termini di etica
civile.
5. fare scienza nella rivoluzione epistemologica ad opera della biologia
evoluzionistica secondo il modello portato a chiarezza da Charles Darwin
6 Epilogo : elogio della contingenza delle variazioni e dei minimi: coleotteri e vermi
Come premessa
«Charles Robert Darwin è l’uomo che da solo, centocinquant’anni fa, ha cambiato il corso degli
studi in biologia, cambiando nello stesso tempo tutta la nostra visione delle scienze della vita e della
scienza in generale, e il nostro modo di considerare noi stessi, nonché la maniera di dare spiegazioni
a molti eventi, introducendo una prospettiva storica in cui il fattore tempo, che era praticamente
assente nel pensiero precedente, diventa fondamentale. […] La novità è essenzialmente nel fatto
che, per la prima volta nel pensiero umano, il tempo fa il suo ingresso in maniera massiccia nel
modo di considerare l’andamento delle cose. […] Il fattore tempo e la sua capacità di illuminare la
spiegazione delle cose diventa dunque fondamentale nel modo odierno di concepire il mondo sulla
base della teoria dell'evoluzione. Naturalmente Darwin non si rese conto di tutto questo, però si rese
conto che stava facendo una proposta molto ardita, tant'è vero che a trent'anni, la prima volta in cui
gli venne in mente che forse le specie non erano immutabili come si pensava, ma potessero
cambiare nel tempo, disse che sostenere un’opinione di quel tipo era «come confessare un
omicidio». Noi oggi viviamo gli aspetti biologici e più in generale scientifici, ma soprattutto, direi, i
riflessi nella società di questo punto di vista che hanno anche — va detto fin dall'inizio —
indirizzato in una certa maniera l’epistemologia, cioè la nostra capacità di spiegare il mondo; oggi
le spiegazioni possono essere basate, come duemila anni fa, sulla logica, ma anche sulla storia: il
mondo è cosi perché gli eventi lo hanno portato a essere così.» (Boncinelli 2012, 9-11)
«Siamo di fronte a una grande svolta teorica e metodologica: quel «sistema naturale» che i
sistematici erano andati cercando trova ora nel nesso genealogico, mediato dalla differenziazione e
dalla selezione, la sua fondazione concreta, potendo così abbandonare le precedenti giustificazioni
metafisiche di tipo essenzialistico.» (Continenza Barbara, L’origine delle specie, in Boncinelli
2012, 71)
1. uno sguardo d’insieme e contemporaneo tra geologia e biologia.
Si tratta di una relazione molto stretta, che diventa la sede di una riscrittura globale delle scienze
delle terra e delle scienze della vita; cioè di una rivoluzione contemporanea nella impostazione dei
due settori di studio che culmina nella teoria della evoluzione delle specie, della loro formazione per
evoluzione continua.
1.1. Scoperte e convinzioni nell’ambito della geologia.
1.1.1. L’età della terra e le sue evoluzioni. «La Terra dunque era molto più vecchia di quanto
suggerissero i testi biblici, poiché i processi di trasformazione della superficie terreste avevano
richiesto milioni e milioni di anni, senza «vestigio di un inizio, né prospettiva di una fine» aveva
sentenziato Hutton. Queste idee, allora dibattute pubblicamente in Inghilterra con vasto seguito,
ebbero una duratura influenza sul pensiero di Darwin, che terrà sempre a definirsi un geologo ancor
prima che un naturalista. Nell'agosto del 1831 Darwin, per interessamento di Henslow, ricevette un
invito inaspettato che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua vita: unirsi all’equipaggio del
brigantino della Marina inglese «Beagle» per un viaggio intorno al mondo durante il quale avrebbe
potuto compiere liberamente osservazioni naturalistiche. […] Il viaggio sul Beagle gli fornì
un’enorme quantità di esperienze su cui riflettere per decenni, ma anche i primi semi di una teoria a
cui avrebbe lavorato per il resto della sua esistenza. […] Su un brigantino lungo poco più di
ventisette metri, soffrendo quasi ininterrottamente il mal di mare, Darwin compie una
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circumnavigazione del globo di cinque anni, dalla fine del 1831 all’autunno del 1836, restando però
per gran parte del tempo in Sudamerica e passando due terzi del viaggio a terra.» (Pievani 2012, 910)
1.1.2. «come la geologia sia stato il vero brodo di coltura della teoria dell’evoluzione». «Credo,
inoltre, che questa attività della selezione naturale, lentissima e saltuaria, concordi perfettamente
con quanto ci dice la geologia a proposito del ritmo e del modo in cui sono mutati gli abitanti del
mondo.» (Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980, 153) «La geologia rappresentò la
competenza primaria di Darwin e lo sfondo indispensabile per la nascita delle sue idee sulla
«trasmutazione» delle specie. Fu della geologia di allora la consapevolezza dello sfondamento
all'indietro degli e eoni del tempo, l'idea che la vita attuale galleggiasse sopra una distesa sterminata
di epoche passate, sottile pellicola alla sommità di strati temporali abitati da altre creature e
sconvolti da inusitate potenze telluriche. Ma è della geologia anche la percezione dell'instabilità
attuale della crosta terrestre, attraversata da scosse, da eruzioni (come quella del vulcano Osorno,
alla quale Darwin assiste in Cile) e da trasformazioni che sono il frutto delle stesse forze che
accumulano i loro effetti nel tempo. Proprio in questa instabilità del contesto fisico, e poi ecologico,
si sviluppa il gioco dell’evoluzione e il tempo della Terra fa da palcoscenico ai tempi plurali della
vita, alla diversificazione, moltiplicazione ed estinzione delle specie.» (Pievani 2012, 11)
1.1.3. la geologia come metodo generale. «Ma la geologia («materia in cui entra in gioco il
ragionamento», scriverà Darwin nell'Autobiografia) fu anche altro. Dai primi saggi giovanili sulle
isole vulcaniche e sulla formazione degli atolli corallini fino all'ultima opera sulle attività degli
umili e gloriosi lombrichi, fu per Darwin un modello epistemologico di scienza naturale rigorosa,
capace di estrapolare dalle sue osservazioni meticolose quelle regolarità e quelle strutture del tempo
che si ripetono fedelmente in ogni parte del globo, permettendo di scovare gli «schemi ripetuti di
eventi», o pattern, che emergono come filigrane dalla storia (Eldredge, 1999, 2006). Il giovane
naturalista si ripromise di scrivere libri di geologia, ma anche di tradurre nelle scienze della vita il
metodo di indagine della geologia: non più solo classificazioni e raccolte di descrizioni, ma
«connessioni tra fatti sparsi», scriverà nei Taccuini.» (Pievani 2012, 11-12)
1.1.3. geologia e inutilità del finalismo. «Oltre a tutto ciò, la geologia permise anche a Darwin di
percepire per la prima volta il carattere non finalistico delle manifestazioni naturali, la loro
indifferenza verso le sorti degli umani, la loro brutale e solenne indipendenza dalle nostre
personalizzazioni provvidenzialistiche.» (Pievani 2012, 12)
«Scorrendo le sue note di viaggio nei giorni in cui cavalca alle estreme propaggini meridionali del
deserto di Atacama — descrivendo i cieli sempre sgombri di nuvole, l’aria rarefatta, il freddo
pungente dell'inverno australe, il vento implacabile — capiamo come la geologia sia stato il vero
brodo di coltura della teoria dell’evoluzione. Solo la geologia gli offriva, nei confronti del mondo
naturale, «le stesse idee sublimi che l'Astronomia ci dà dell’universo». […] Darwin sente il pianeta
come un animale in movimento, che scrolla di tanto in tanto il suo mantello provocando terremoti,
maremoti ed eruzioni vulcaniche, fenomeni intimamente connessi da un’unica logica evolutiva: «il
geologo deve abituarsi ogni giorno all’idea che nulla, nemmeno il vento che soffia, è instabile
quanto la crosta terrestre». […] … ma soprattutto apprezziamo quanto sia stata importante per la
nascita della teoria dell’evoluzione la comprensione da parte di Darwin delle relazioni fra i
cambiamenti geologici della crosta terrestre e la distribuzione geografica degli organismi.» (Pievani
2012, 20, 22)
1.2. la tesi evoluzionistica in biologia.
1.2.1. il travaglio della e per la pubblicazione delle tesi nell’opera sistematica globale: L’origine
delle specie del 1859 in prima edizione. «Due decenni centrali, dai ventinove ai quarantanove anni
di età, che coprono solitamente il fulcro della vita produttiva di uno scienziato. In Darwin, due
decenni di reticenze, di silenzi, di timori, e di appunti nascosti (Quammem, 2006). Perché una tale
riluttanza? […]
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Non che siano stati anni infruttuosi. Se la lettura di Malthus gli aveva permesso di comprendere lo
sfondo competitivo della selezione naturale — quella insufficienza permanente delle risorse che
genera la lotta per l’esistenza fra organismi — sarà l'analogia con la selezione artificiale degli
incroci da parte degli allevatori a fornirgli gli strumenti per capire il meccanismo con cui la natura
trasforma le specie. La sua esistenza nel frattempo comincia a essere inquietata da un doloroso
dualismo. In pubblico, Darwin è un rispettabile geologo e naturalista, autore di un diario di viaggio
di grande successo internazionale, coordinatore di monumentali monografie sul viaggio del Beagle,
pupillo emergente dell’aristocrazia scientifica anglicana di Owen, di Sedgwick e di Lyell. In
privato, è un evoluzionista convinto che non vi sia alcun piano provvidenzialistico in natura e che
tutte le specie, umana compresa, siano legate da una parentela genealogica, cioè dalla «discendenza
con modificazioni» prodotta dalla sopravvivenza differenziale delle varianti più dotate nella
sopravvivenza e nella riproduzione. Un’idea che sarebbe stata ritenuta sovversiva dai suoi maestri e
pericolosamente in sintonia con le idee delle correnti più radicali di contestazione sociale.» (Pievani
2012, 56)
1.2.2. la sistemazione in abbozzo, in piano e in opera. «Sente probabilmente il desiderio di
sistematizzare le sue idee, dopo l’accumulo di pensieri affastellati nei Taccuini.
Così nelle trentacinque pagine dello Sketch troviamo la prima ossatura dell’impianto esplicativo
darwiniano: l’analogia fra selezione naturale e selezione artificiale degli allevatori che amplificano
caratteri vantaggiosi; lo scenario malthusiano della lotta per l’esistenza; la variazione spontanea
(allo stato domestico e allo stato selvatico) e la trasmutazione delle specie per «selezione naturale»;
la discendenza con modificazioni; il ruolo dell’isolamento geografico e riproduttivo; la sterilità
degli ibridi; i primi cenni alla selezione sessuale, cioè una competizione direttamente per la
riproduzione; la gradualità del cambiamento evolutivo.
Descritti nella prima parte i meccanismi che producono il cambiamento delle specie, nella seconda
organizza per tipologie le sue classi di prove: la documentazione fossile, di cui cerca di spiegare
l’apparente discontinuità ipotizzando che il dato geologico sia frammentario e imperfetto, per
avvalorare in questo modo il suo gradualismo; la distribuzione geografica delle specie, come indizio
della loro parentela; le «unità di tipo», o omologie, e le conversioni funzionali; le somiglianze nelle
fasi precoci dello sviluppo embrionale; gli organi vestigiali.» (Pievani 2012, 57)
1.2.3. biologia e inutilità del finalismo. «Le bizzarrie della natura cessano di essere il capriccio di un
Creatore che insegue ogni dettaglio, perché ora nella sua mente pochi «schemi» o «pattern»
possono rendere conto di una vasta eterogeneità di fatti naturali. Più semplice congetturare — come
nell’asciutta tradizione religiosa e filosofica unitariana — che di divino vi siano piuttosto le sublimi
«leggi della natura», il cui corso inesorabile non ha bisogno di aggiustamenti successivi. Ma non
basterà questo accomodamento: la selezione naturale, intuisce Darwin, è un processo senza scopi,
senza intenzioni, senza premonizioni. È un insieme di meccanismi demografici impersonali dagli
esiti contingenti e imperfetti, per quanto funzionali. Dalla silenziosa guerra per le risorse e dalla
sopravvivenza differenziale degli individui deriva dunque il bene più alto — chiosa Darwin,
facendo le prove generali della sua caratteristica prosa — e cioè la comparsa degli animali superiori,
ma soprattutto una «grandiosa visione della vita» che da un semplice inizio si è irradiata nella
esuberante diversità delle specie passate e presenti, evolvendosi in «innumerevoli forme, bellissime
e meravigliose».» (Pievani 2012, 58)
1.2.4. una logica di continuità e di divergenza, di relazione e di differenziazione. «Risale
probabilmente al 1850 il viaggio in carrozza durante il quale Darwin sostiene di aver avuto
l’illuminazione cruciale riguardante la relazione fra la selezione naturale e la differenziazione
arboriforme delle linee evolutive: le popolazioni derivanti da uno stesso insieme ancestrale, se
dominanti, avranno la tendenza a crescere di numero e a divergere nelle loro caratteristiche
adattative nel corso dell’evoluzione, poiché saranno portate a occupare anfratti diversi dell'ambiente
e a differenziare le loro abitudini, come in un processo di divisione del lavoro nell’economia della
natura. La loro separazione fisica non è più indispensabile, perché in contesti ecologici sempre
tendenzialmente affollati e pieni le specie saranno indotte a competere fra loro, a frammentarsi o a
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estinguersi, in ragione della sola selezione naturale fra individui. È il «principio di divergenza» al
quale il naturalista d’ora in poi assegnerà un grande valore teorico, perché è convinto che gli
permetta di legare la struttura gerarchizzata della tassonomia biologica al cure esplicativo della
selezione naturale.» (Pievani 2012, 64-65)
2. la biologia contemporanea nasce dalla teoria evoluzionistica.
L’opera: «Uno dei riassunti più famosi della storia, di 500 pagine. L’origine delle specie per
selezione naturale, uscita il 24 novembre del 1859 per i tipi dell’editore londinese John Murray.»
(Pievani 2012, 68-69)
«Ma nonostante si fosse vista riconosciuta la priorità, e in modo pienamente soddisfacente e anche
rassicurante, Darwin abbandonò il progetto di dare alle stampe una ponderosa monografia, che
sarebbe giunta con troppo ritardo, e si affrettò a scriverne un compendio dalle dimensioni di trequattro volte inferiori a quelle preventivate, che gli costò «tredici mesi e dieci giorni di intenso
lavoro», comparve in libreria il 24 novembre 1859 col titolo, concordato con l’editore, di On the
origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle
for life e andò esaurito in un sol giorno — nel senso che ne erano state tirate, e vennero distribuite,
solo le 1250 copie prenotate. [in nota] «E anche le 3000 copie della seconda edizione [1860] furono
esaurite rapidamente. Fino ad oggi in Inghilterra ne sono state vendute 16 000 copie» (Darwin
1876-1881, p. 65). La terza edizione comparve nel 1861, la quarta nel 1866, la quinta nel 1869, la
sesta e ultima nel 1872.» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 223)
«Il «delitto» è compiuto, sotto forma di un evento letterario. Per la prima volta, la storia delle specie
viene descritta come un processo naturale che non ha più bisogno di cause finali né di creazioni
speciali. La polemica infuriò subito, con obiezioni scientifiche, filosofiche e teologiche che si
accavallavano.» (Pievani 2012, 72)
«… il naturalista inglese decise di presentare prima analiticamente il nocciolo esplicativo della sua
teoria e poi i fenomeni che ne derivavano. La mossa fu ben ponderata perché in questo modo egli
sottolineò fin dall’inizio che la selezione naturale doveva essere un processo necessario date certe
circostanze (le variazioni ereditabili e la lotta per l’esistenza) e che la trasmutazione delle specie
nella discendenza comune poteva essere intesa solo alla luce di quel meccanismo.» (Pievani 2012,
74)
Il racconto di come nasce una teoria: dalla Autobiografia di Darwin (1876).
«A partire dal settembre 1854 mi dedicai esclusivamente a sistemare la mia enorme pila di appunti e
a compiere osservazioni ed esperimenti riguardanti la trasformazione delle specie. Durante il
viaggio della Beagle ero rimasto profondamente impressionato dalla scoperta di grandi animali
fossili coperti da una corazza simile a quella degli armadilli attuali, sepolti nei giacimenti pampeani;
in secondo luogo m’aveva colpito il modo col quale alcune forme strettamente affini si
rimpiazzavano l’un l’altra a mano a mano che si procedeva verso il Sud del continente; m’avevano
colpito infine il carattere sudamericano della maggior parte degli organismi delle Galàpagos e,
specialmente, le leggere differenze che contraddistinguevano gli abitanti di ciascuna isola, nessuna
delle quali pareva antica dal punto di vista geologico.
Era evidente che fatti come questi, e molti altri ancora, potevano venire spiegati solo in base
all’ipotesi che le specie si modificassero a poco a poco. E questo argomento mi assillava. Ma era
anche altrettanto evidente che né l’azione delle condizioni esterne, né la volontà degli organismi (e
di quelli vegetali in ispecie) poteva render conto degli infiniti casi in cui organismi d’ogni sorta
apparivano magnificamente adattati al loro modo di vivere: il picchio e la raganella ad arrampicarsi
sugli alberi o un seme ad essere disseminato per mezzo di uncini o di piume. Siffatti adattamenti
m’avevano sempre colpito e, senza averne prima spiegata l’origine, mi pareva quasi inutile
sforzarmi di provare mediante prove indirette che le specie si erano modificate.
Tornato in Inghilterra mi resi conto che seguendo la strada indicata da Lyell per la geologia e
raccogliendo tutti i fatti che in qualche modo si riferivano alle variazioni degli animali e delle piante
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sia liberi allo stato di natura, sia allo stato domestico, si poteva forse fare un po’ di luce su tutto
l’argomento. Inaugurai il mio primo taccuino su questo argomento nel luglio 1837. Lavoravo
secondo i più rigidi dettami baconiani, e senza alcuna teoria precostituita andavo raccogliendo fatti
su tutta la vastissima materia e più particolarmente nei riguardi degli animali domestici e delle
piante coltivate, inviando questionari a stampa, conversando con allevatori e giardinieri e leggendo
moltissimo. Quando vedo la lista dei libri d’ogni sorta da me letti e dai quali ho ricavato appunti, e
che comprende anche intere serie di periodici, rimango sorpreso della mia laboriosità.
Presto m’accorsi che la selezione era la chiave del successo ottenuto dall’uomo nel creare varietà
utili di piante e di animali. Ma come poteva operare la selezione su organismi liberi in natura?
Questo rimaneva per me misterioso.
Nell’ottobre 1838, vale a dire quindici mesi dopo che avevo iniziato la mia ricerca sistematica, mi
capitò di leggere per svago l’opera di Malthus Sulla popolazione, e siccome la lunga consuetudine a
osservare i costumi degli animali e delle piante m’aveva ben preparato a valutare adeguatamente la
lotta per l’esistenza, che non sosta mai e in nessun luogo, sorse in me improvvisa l’idea che in simili
circostanze le variazioni favorevoli sarebbero state tendenzialmente conservate e quelle sfavorevoli
distrutte. Risultato di ciò doveva essere la formazione di nuove specie.
Ecco come alla fine ebbi a disposizione un’ipotesi di lavoro. Ero però tanto preoccupato di evitare
qualsiasi pregiudizio che decisi di non scrivere per qualche tempo nemmeno un appunto in
proposito. Nel giugno 1842 mi concessi finalmente la soddisfazione di scrivere a matita un
brevissimo sunto della mia teoria, lungo 35 pagine. Nell’estate 1844 ampliai questo riassunto che
divenne lungo 230 pagine, lo misi in bella copia e lo conservo ancora.
Ma a quel tempo avevo trascurato un problema di grande importanza e se non vi fosse il precedente
dell’uovo di Colombo, non mi saprei spiegare come problema e soluzione fossero sfuggiti alla mia
attenzione. Questo problema consiste nel fatto che gli organismi derivati da un unico ceppo in corso
di trasformazione tendono ad acquistare caratteristiche morfologiche divergenti; e questa grande
divergenza documentata in modo ovvio dal fatto che ogni sorta di specie può venir classificata in
generi, i generi in famiglie, le famiglie in sottordine e così via. Posso ricordare il punto preciso della
strada, ove era giunta la vettura, quando con grande gioia mi si presentò la soluzione; l’episodio
ebbe luogo vario tempo dopo che ci eravamo stabiliti a Down [18421. La soluzione, a mio avviso, è
questa: i discendenti modificati di tutte le forme dominanti e in via d’aumentar di numero tendono
ad adattarsi a molti ambienti tra loro molto diversi nell’economia della natura.» (Darwin 1876
Autobiografia da Barsanti Giulio (a cura) 1980, Teorie dell’evoluzione nell’Ottocento, Le Monnier,
Firenze, 113-115)
2.1. tre elementi, fattori o processi che concorrono nell’evoluzione: 1. selezione naturale, 2.
variazioni ereditabili, 3. lotta per la vita (per l’esistenza)
2.1.1. selezione naturale: l’ambiente seleziona gli individui relativamente più adatti a fornire
risposte efficienti all’ambiente e quindi a sopravvivere. Si tratta di una selezione naturale, sui tempi
lunghi, ma si tratta anche di una selezione incrementata, sui tempi brevi, dall’intervento dell’uomo
rivolta agli altri viventi (piante, animali), attuata sulla base della proprie utilità storiche. In
quest’ultimo caso, viene richiamato il settore particolare della “variazione allo stato domestico” che
Darwin esamina quasi per l’intera vita e che diventa fondamentale per ipotizzare una trasmissione
in modo che la variante diventi un fatto evolutivo; è interessante la cautela empirica di Darwin su
questo tema: «Secondo il mio solito costume, andiamo in cerca di lumi a questo proposito
osservando le nostre produzioni domestiche. Vi troveremo qualcosa di analogo.» (Darwin 1859
L’origine delle specie da Barsanti 1980, 154)
2.1.1.1. Ma l’arco della osservazione di Darwin è molto più ampio. In prima sintesi globale da parte
di Giulio Barsanti: «Come Lamarck anche Darwin prese le mosse dalla considerazione dei
fenomeni della variazione allo stato domestico. Egli lo dichiarò nell’autobiografia, e ribadì più volte
che «le nostre conoscenze sulle variazioni dovute all'addomesticamento [...] offrono le indicazioni
migliori e più sicure». Ma l’archivio dei dati cui il naturalista inglese poté attingere era molto più
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vasto di quello esistente agli inizi del secolo. Nell’ordine in cui venne dettagliato all’interno
dell’Origin of species (1859), che non casualmente iniziava proprio con un capitolo dedicato alla
«variazione allo stato domestico», esso comprendeva anche le conoscenze sugli istinti («che, ai fini
del benessere delle specie, sono importanti quanto la loro struttura fisica»), quelle sull’ibridazione
(«alcune specie producono ibridi altamente fecondi»), la documentazione geologica (che è
largamente incompleta ma nondimeno costringe ad accogliere l’opinione di Lyell, secondo cui i
tempi della terra sono «inconcepibilmente lunghi», e la sua evoluzione è consistita in «cambiamenti
lenti e graduali»), la particolare stratificazione dei fossili (che è identica in tutto il globo, indica che
le nuove forme sono comparse gradualmente, e mostra quanto fossero affini alle specie d'origine),
la distribuzione geografica degli organismi (che testimonia come, per esempio, «gli abitanti di
un’isola, pur essendo affini agli abitanti del continente più vicino, non siano esattamente gli stessi»)
e infine le affinità esistenti fra gli esseri viventi, documentabili dal punto di vista morfologico e da
quello embriologico nonché per la presenza di «organi rudimentali che finiscono con l’abortire
completamente», le quali testimoniano chiaramente che i viventi «discendono tutti da antenati
comuni». Queste affinità, e in particolare le somiglianze morfologiche, sembrano svolgere un suolo
decisivo: sono esse, infatti, che testimoniano più chiaramente dei rapporti genealogici, i quali
possono essere ricostruiti — Darwin mostra di ritenere —, in mancanza d’altro o addirittura contro
altre testimonianze, proprio sulla base delle affinità morfologiche: «se vari caratteri, anche molto
poco significativi, sono presenti in un gruppo dalle abitudini anche molto diverse, possiamo essere
praticamente certi [...] che sono stati ereditati da un antenato comune ». E più tardi avrebbe
confermato: «la genealogia può essere scoperta solo osservando i gradi di rassomiglianza».
(Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 208-209)
2.1.1.2. Il tema della selezione naturale va dunque usato con cautela (e forse, per un certo periodo
iniziale, considerato in modo piuttosto critico da Darwin); le condizioni fisico ambientali di un’area
non è “il più importante dei fattori che agiscono sui suoi abitanti”: non va dimenticata l’origine
analogica del concetto di selezione naturale con la selezione artificiale (domestica, dei due occorre
rilevare tuttavia il diverso impatto e la diversa dinamica quanto ai tempi e all’estensione), va posto
in relazione con il dato della varietà delle specie presenti in un contesto e del loro diverso potenziale
di adattamento. «Ammessa l’esistenza e la casualità delle variazioni, diventa «possibile che sia stata
la selezione naturale a favorire, sulle varie isole, lo sviluppo di varietà differenti». Se quella
congiuntura «mi è parsa — osserva Darwin — per qualche tempo una seria difficoltà» è stato «in
massima parte per l'inveterato errore di considerare le condizioni fisiche di un paese come il più
importante dei fattori che agiscono sui suoi abitanti», mentre «è un elemento altrettanto e forse
ancor più importante la natura degli altri abitanti con cui una specie deve misurarsi», la qualità dei
«rapporti reciproci fra organismo e organismo». E, per esempio, «tenendo conto del tempo trascorso
da quando nuovi abitanti sono penetrati in una regione; della natura delle comunicazioni che hanno
consentito a certe forme e non ad altre di entrarvi in maggiore o minor numero, del fatto che le
forme immigrate possono o no essere entrate in concorrenza più o meno diretta fra loro o con le
forme preesistenti, e infine considerando che gli immigrati possono essere andati incontro a
modificazioni più o meno rapide» che si potrà comprendere come «nelle diverse regioni,
indipendentemente dalle condizioni fisiche locali, possano essersi determinate condizioni di vita
infinitamente diverse».» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 225)
2.1.1.3. «Il principio della selezione, che abbiamo visto quanto sia potente in mano all’uomo, può
valere in natura? […] Alcuni autori impiegano il termine «variazione» in un'accezione tecnica,
intendendo una modificazione dovuta alle condizioni materiali di vita. Le «variazioni» in questo
senso non dovrebbero essere ereditarie. Però chi potrebbe dire che non si possano trasmettere
ereditariamente, almeno per qualche generazione, il nanismo dei molluschi delle acque salmastre
del Baltico, quello delle piante delle vette alpine, o la folta pelliccia degli animali dell'estremo
nord?» (Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti Giulio (a cura) 1980, Teorie
dell’evoluzione nell’Ottocento, Le Monnier, Firenze, 148, 139)
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2.1.1.4. Si incontrano qui caso e ereditarietà. L’incontro, nella selezione naturale, di casualità e
conservazione/ereditarietà fa sì che il caso, moltiplicato e trasmesso, diventa norma, “legge”,
“necessità” o prevedibilità evolutiva; «… qualsiasi lieve modificazione — che comparisse
casualmente nel corso delle età, e che fosse tale da favorire in qualsiasi modo gli individui di una
specie qualunque, rendendoli meglio adatti alle nuove condizioni — tenderebbe a conservarsi e,
quindi, la selezione naturale potrebbe esercitare liberamente il suo lavoro di perfezionamento.»
(Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980, 149-150)
2.1.1.4.1. «È stato ripetutamente negato che la variazione darwiniana fosse aleatoria, sulla base del
fatto che Darwin usa sì chance all’inizio del quinto capitolo dell’Origin, ma per sostenere —
positivisticamente — che «caso» sta a indicare nient’altro che «la nostra ignoranza delle cause».
Vorrei però attirare l’attenzione sul fatto che se è vero che egli definisce le leggi naturali, le affinità
morfologiche e i rapporti filogenetici mysterious due volte, obscure tre e unknown venticinque, è
anche vero che usa chance nel senso di caso pure all’interno del quarto capitolo dell’Origin,
trattando del principio di divergenza dei caratteri, e che in quel luogo — e in quel contesto ancor
più impegnativo — egli sostiene, a mio parere inequivocabilmente, che «un puro caso può far sì che
una varietà differisca in qualche cosa dai genitori e che i discendenti di quella varietà differiscano a
loro volta dai propri genitori per gli stessi caratteri e in grado più accentuato». Ed è anche vero che
egli torna a usare chance nel senso di caso all’interno del sesto capitolo dell’Origin, quando tratta
dell’apparente difficoltà consistente nella rarità o addirittura l’assenza delle varietà di transizione (si
veda oltre), per affermare — in modo se possibile ancor più inequivocabile — che «la selezione
naturale non può far nulla finché non si manifestino, per caso, delle variazioni favorevoli
[favourable variations chance] e finché nell’economia naturale della regione non si formi una
lacuna che possa essere vantaggiosamente colmata da uno o più dei suoi abitanti».» (Barsanti 2005,
Una lunga pazienza cieca, 257)
2.1.1.5. La logica della selezione naturale secondo il principio della divergenza. Il principio della
divergenza dei caratteri si presenta come struttura dinamica della selezione naturale e,
conseguentemente, del realizzarsi dell’evoluzione nelle sue forme. Il riferimento va al «principio
della divergenza dei caratteri … illustrato nel celebre diagramma dell’Origin …». «Presentando il
diagramma Darwin illustrò questo principio precisando che «le linee tratteggiate più esterne dei
ventagli [. . .] rappresentano le variazioni più divergenti, cioè quelle più facilmente preservate e
accumulate dalla selezione naturale». Ma conviene, soprattutto, lasciare la parola allo stesso
Darwin sul concetto di selezione naturale, che viene utilizzato, fin dallo Sketch, per indicare il
meccanismo dell’evoluzione nella sua interezza. Come rilevava Huxley nel brano citato poc’anzi,
Darwin concepisce la «selezione naturale» come un processo analogo alla «selezione artificiale»,
«inconscia» operata dall’uomo: dall’allevatore che senza averne contezza modifica le specie
facendo accoppiare le bestie ritenute più utili, e dall'agricoltore e dal giardiniere che ottengono gli
stessi risultati trapiantando i germogli delle piante che avevano prodotto i frutti più richiesti o i fiori
più belli, o semplicemente strappando le «erbacce»: «La selezione naturale non potrebbe far nulla
se non si verificassero variazioni favorevoli. E secondo me non è necessaria una grande quantità di
variazioni. Come l’uomo può ottenere grandi risultati sommando in una certa direzione semplici
differenze individuali, così potrebbe fare la natura — e molto più agevolmente, avendo a
disposizione tempi incomparabilmente più lunghi. [...] Dato che tutti gli abitanti di ogni regione
lottano fra loro con forze assai ben equilibrate, modificazioni anche leggerissime della struttura o
delle abitudini di un solo abitante spesso potranno dargli un vantaggio sugli altri, e altre
modificazioni dello stesso tipo potranno, in molti casi, accrescere ulteriormente il vantaggio.»
(Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 231-233)
È dunque l’incremento della divergenza dei caratteri a segnare il corso dell’evoluzione non solo nel
suo realizzarsi immediato ma nel suo successo in termini di trasmissione; osserva Darwin, infatti,
«le variazioni più divergenti, cioè quelle più facilmente preservate e accumulate dalla selezione
naturale».
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2.1.2. i caratteri favoriti sono trasmessi ereditariamente. «…la tendenza alla variabilità è di per
sé ereditaria, per cui esse tenderanno a variare e, in genere, a variare quasi nella stessa maniera in
cui variavano i progenitori. Per di più, queste due varietà, essendo soltanto delle forme leggermente
modificate, erediteranno i vantaggi che hanno reso l’antenato comune (A) più numeroso della
maggior parte degli altri abitanti della stessa regione.» (Darwin 1859 L’origine delle specie da
Barsanti 1980, 157)
2.1.2.1. « Tra gli elementi della teoria darwiniana noti da tempo va infine segnalata l’ereditarietà dei
caratteri acquisiti con l’uso o il disuso degli organi. Si sarebbe potuto pensare che Darwin la
respingesse, avendo verificato alle Galápagos l’inadeguatezza dell’evoluzionismo lamarckiano, ma
va evidenziato che all’ereditarietà dei caratteri acquisiti il naturalista inglese, nella seconda fase
della sua produzione scientifica, non solo prestò fede ma tentò di conferire una giustificazione
teorica e sperimentale.» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 147)
Darwin sembra cauto nell’applicare la nozione di ereditarietà dei caratteri tecnici acquisiti, ma ne
afferma la possibilità, la presenza e la funzione e anzi la necessità ai fini del successo
dell’evoluzione nel campo della selezione naturale, anche se fornisce per essa giustificazioni
teoriche e cerca basi sperimentali (poco fondate alla luce delle conoscenze recenti), per lo più in
forma di ipotesi (come entità corpuscolari, dette gemmule, con funzione ereditaria, e con proprietà
generativa globale degli organismi). «L’ereditabilità delle nuove varianti era un presupposto
altrettanto cruciale, perché qualsiasi variazione non ereditaria, per quanto utile, sarebbe ininfluente
per il meccanismo di selezione naturale. […] L’ereditabilità della variazione è un dato osservativo,
il combustibile del cambiamento, e ciò che conta è che esso alimenti senza sosta il processo
plasmante della selezione naturale.» (Pievani 2012, 127,131) Darwin «Non seppe infatti districarsi
fra i problemi concettuali sollevati dalla sua teoria, errata, circa la causa di trasmissione dei
caratteri.» (Pievani 2012, 97) «Tuttavia, «Ciò che più colpisce delle tesi di Darwin è che egli riuscì
a sviluppare una teoria descrittivamente convincente senza alcuna conoscenza dei reali meccanismi
responsabili dell’ereditarietà. La situazione mutò radicalmente nel 1900, quando i biologi
riscoprirono gli esperimenti di Mendel sull'ibridazione vegetale illustrati nel suo lavoro del i 1865,
Saggi sugli ibridi vegetali.» (Taylor C. Mark, Il momento della complessità. L’emergere della
cultura a rete, ed. Codice, Torino 2005, 230)
2.1.2.2. la varietà condizione di successo e di forza di una specie: «Dunque le specie che più di
frequente producono varietà ben definite (varietà che io chiamo specie incipienti), sono le più
diffuse) sono cioè le specie dominanti, ossia le più largamente sparse nel mondo, le più diffuse nel
loro paese e le più ricche di individui. Forse questo era prevedibile, perché, come le varietà, per
poter diventare almeno parzialmente permanenti, devono necessariamente lottare con altri abitatori
del paese, così le specie già dominanti avranno la massima probabilità di produrre discendenti che,
anche se lievemente modificati, avranno cionondimeno ereditato quei vantaggi che misero i loro
antenati in grado di assumere il predominio sui conterranei. [. . .] Quando un genere, in un dato
paese, conta un numero di specie superiore alla media, le specie di questo genere contano un
numero di varietà superiore alla media.» (Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980,
141)
2.1.3. lotta per la vita, lotta per l’esistenza (struggle for life): «…dimostrare come la lotta per
l’esistenza influisca sulla selezione naturale. […] Grazie a questa lotta per la vita, qualsiasi
variazione, anche se lieve, qualunque ne sia l'origine, purché risulti in qualsiasi grado utile a un
individuo appartenente a qualsiasi specie, nei suoi rapporti infinitamente complessi con gli altri
viventi e col mondo esterno, contribuirà alla conservazione di quell’individuo e, in genere, sarà
ereditata dai suoi discendenti. […] A questo principio, grazie al quale ogni più piccola variazione,
se utile, si conserva, ho dato il nome di selezione naturale, per farne rilevare il rapporto con le
capacità selettive dell’uomo. Abbiamo visto come l’uomo, per mezzo della selezione, possa
indubbiamente ottenere grandi risultati e possa adattare gli esseri viventi alle proprie necessità
mediante l’accumulo di variazioni tenui, ma utili, offertegli dalla mano della natura. Ma la selezione
naturale, come vedremo in seguito, è un potere sempre pronto a operare, incommensurabilmente
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superiore ai deboli sforzi dell’uomo, così come le opere della natura sono superiori a quelle
dell’arte.» (Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980, 142,143)
2.1.3.1. «Nel ricostruire la genesi della sua teoria, Darwin dette molta importanza alla lettura, fatta
«per diletto» nell’ottobre del 1838, della sesta edizione (1826) dell’Essay on the principle of
population (1798) del demografo Thomas Robert Malthus, il quale aveva sostenuto che la
popolazione umana cresce in progressione geometrica («si raddoppia ogni venticinque anni»)
mentre i suoi mezzi di sussistenza aumentano molto più lentamente (seguendo una progressione
aritmetica), e pertanto che la «lotta per l’esistenza» è destinata a diventare sempre più aspra.
«Siccome la lunga consuetudine a osservare i costumi degli animali e delle piante mi aveva ben
preparato a valutare adeguatamente la lotta per l’esistenza, che non sosta mai e in nessun luogo,
sorse in me improvvisa l’idea che in simili circostanze le variazioni favorevoli sarebbero state
tendenzialmente conservate e quelle sfavorevoli distrutte. Risultato di ciò doveva essere la
formazione di nuove specie. Finalmente disponevo di una teoria su cui lavorare!» (Barsanti 2005,
Una lunga pazienza cieca, 209)
Si tratta quindi di un’idea-illuminazione in corso di edizione e di letture. «Pur avendo formulato gli
aspetti più importanti della sua teoria abbastanza precocemente, per mettere insieme le varie linee
della sua indagine Darwin dovette attendere due momenti di illuminazione, a distanza di quasi due
decenni l’uno dall’altro. Nell’Autobiografia descrive una di queste fasi decisive per lo sviluppo del
suo pensiero: «Quindici mesi dopo che avevo iniziato la mia ricerca sistematica, mi capitò di
leggere per svago l’opera di Malthus Saggio sul principio della popolazione, e siccome la lunga
consuetudine a osservare i costumi degli animali e delle piante m’aveva ben preparato a valutare
adeguatamente la lotta per l'esistenza, che non sosta mai, sorse in me improvvisa l’idea che in simili
circostanze le variazioni favorevoli sarebbero state tendenzialmente conservate e quelle sfavorevoli
distrutte. Risultato di ciò doveva essere la formazione di nuove specie. Ecco come alla fine ebbi a
disposizione un'ipotesi di lavoro.» La seconda intuizione cruciale si presentò diciotto anni dopo: ne
mancavano appena tre alla pubblicazione de L’origine delle specie, e Darwin si rese
improvvisamente conto dell’importanza della spiegazione di Adam Smith della divisione del lavoro.
Nella sua versione più matura, la teoria dell’evoluzione di Darwin risulta da una sintesi
immaginativa del suo campo di osservazione e ricerca con gli studi sulla popolazione di Malthus e
la teoria economica di Smith. Questa genealogia delle idee riscrive le linee di discendenza più
comunemente accettate della storia delle idee. Se da una parte viene universalmente riconosciuta
l’appropriazione, da parte degli economisti, della teoria dell’evoluzione per spiegare i processi
economici, pochi studiosi si sono resi conto quanto il pensiero di Darwin sia debitore nei confronti
degli studi sulla popolazione e delle teorie economiche. Nell'opera di Malthus, Darwin individua un
principio che aiuta a spiegare la logica della selezione naturale. Echeggiando il bellum omnium
contra omnes di Hobbes, Darwin scrive…» (Taylor C. Mark, Il momento della complessità.
L’emergere della cultura a rete, ed. Codice, Torino 2005, 227-228). Dunque un intreccio storico
culturale tra Darwin, Malthus, Smith e anche Hume; o un intreccio storico tra le contemporanee
geologia/biologia, demografia/sociologia, economia/morale e la loro importante rivoluzione.]
2.1.3.2. Una precisazione essenziale: «Attenzione però: benché abbia usato spesso metafore come
«la grande battaglia per la vita», Darwin tiene a precisare che «lotta per l'esistenza» è da intendersi
«in un senso lato e figurato», giacché non implica necessariamente una «guerra» in senso umano,
bensì «la reciproca dipendenza degli esseri viventi» e le rispettive capacità di vivere bene e di
lasciare discendenza in un regime di competizione biotica (con altre specie) e abiotica (in habitat
difficili). Per intenderci, è «lotta» per la sopravvivenza anche quella di una pianta solitaria ai
margini del deserto. Si tratta dunque di un contesto di relazioni e di interdipendenze (una «rete di
rapporti complessi»), non sempre di un'arena gladiatoria.» (Pievani 2012, 77)
Un termine utile per indicare la relazione con l’ambiente in termini di interdipendenze è anche
quello di coevoluzione: «mentre una specie evolve, evolvono anche tutte le altre con le quali si
trova a essere in contatto… si dovrebbe sempre parlare di “coevoluzione” […] Un esempio molto
indicativo di tutto ciò è dato dal gigaro. Il gigaro è una piccola pianta, comune anche in Italia, con
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un bel fiore a tromba, svasato, e contenente la parte da impollinare; esiste un insetto che entra nel
fiore, naturalmente per fare il bottino del polline che gli interessa, a quel punto il fiore lo intrappola,
lo blocca, allora l'insetto gira, gira, gira perché si sente catturato e nel girare compie
l’impollinazione che altrimenti non farebbe con tanta efficienza; quando l’impollinazione è
avvenuta, si verifica una trasformazione: il fiore si riapre e l’insetto può scappare.» (Boncinelli
2012, 23)
Afferma Darwin: «Devo premettere che impiego il termine lotta per l’esistenza in senso ampio e
figurato, comprendendovi la dipendenza di un essere dall'altro e (cosa più importante)
comprendendovi non solo la vita di un individuo, ma anche la sua probabilità di lasciare una
progenie. Si può affermare che, in tempo di carestia, due appartenenti alla famiglia dei Canidi
lottano effettivamente fra di loro per decidere chi prenderà il cibo e vivrà. Ma anche di una pianta ai
margini del deserto si dice che lotta per la vita contro la siccità, anche se sarebbe più esatto dire che
dipende dall'umidità. Di una pianta che produce annualmente un migliaio di semi, uno solo dei
quali, in media, giunge a maturazione, possiamo più giustamente dire che lotta con le piante della
stessa e di altre specie che già rivestono il suolo. […] Quindi, siccome nascono più individui di
quanti ne possano sopravvivere, in ogni caso vi deve essere una lotta per l’esistenza, sia tra gli
individui della stessa specie sia tra quelli di specie differenti, oppure con le condizioni materiali di
vita. È questa la dottrina di Malthus in un'energica e molteplice applicazione estesa all'intero regno
animale e vegetale. Infatti, in questo caso, non vi può essere né un incremento artificiale della
quantità di alimenti, i né un’astensione a scopo prudenziale dal matrimonio. Sebbene attualmente
alcune specie stiano aumentando più o meno rapidamente di numero, non tutte possono farlo perché
il mondo non potrebbe mantenerle. Vi è una regola che non conosce eccezioni: ogni essere vivente
aumenta spontaneamente di numero con un ritmo tale che, se non fosse distrutto, in breve la terra
sarebbe coperta dalla progenie di una sola coppia. Persino l'uomo, che si riproduce lentamente, si è
raddoppiato in venticinque anni e, di questo passo, in qualche migliaio di anni i suoi discendenti
non avrebbero letteralmente posto dove poggiare i piedi. Linneo ha calcolato che, se una pianta
annua producesse due semi soltanto — e non esistono piante talmente improduttive — e, l’anno
seguente, i discendenti producessero a loro volta due semi, e così di séguito, in venti anni vi sarebbe
un milione di piante.» (Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980, 144-145; e cfr.
Barsanti 2005, 230) Intesa in senso così esteso e ampio, e ad un tempo in modo così efficace, è
allora necessario sfatare e cancellare un luogo comune diventato caricatura: «… la solita caricatura
negativa del darwinismo come “sopravvivenza del più forte” o assenza di relazione, quando in
realtà la teoria darwiniana, conoscendola, è proprio l’inverso: una spiegazione ecologica e
relazionale, che nel caso dell’evoluzione umana pone al centro i comportamenti prosociali.»
(Pievani 2011, 217)
2.2. la risultante: la logica, la dinamica e la direzione formale dei processi evolutivi quali
risultano dall’incontro dei tre elementi dinamici evidenziati: cioè 1. selezione naturale, 2.
variazioni ereditabili, 3. lotta per la vita.
2.2.1. una differenziazione polifunzionale centralizzata: cioè un cammino di differenziazione del
vivente nelle diverse specie sostenuto da un processo parallelo di organizzazione fisiologica
centralizzata del vivente, in risposta all’ambiente. In formula: una differenziazione accompagnata
da centralizzazione, un “adattamento convergente” (Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio,
149); una «complessità adattiva crescente», «convergenza funzionale» (Pievani 2011, 129, 132).
Una differenziazione del vivente e un aumento del numero della parti funzionali che lo
compongono gestite da una specializzazione cerebrale centralizzata e in dominio crescente
permettono al vivente un grado crescente di risposta e quindi di indipendenza nei confronti
dell’ambiente; un grado cresciuto dell’efficienza con la quale il singolo organismo raggiunge il fine
della sopravvivenza, della riproduzione, inclusa la sua capacità di formare l’ambiente; un
mutamento che si iscrive all’interno di due momenti estremi ma in rimando: adattamento
all’ambiente, adattamento dell’ambiente. «Qui occorre tener conto del fatto che gli organismi non si
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limitano a inseguire passivamente le pressioni ambientali: sono essi stessi soggetti attivi del gioco e
cambiano incessantemente le nicchie in cui sono immersi attraverso le attività metaboliche e sociali.
Le relazioni fra organismi e ambienti non sono unidirezionali, ma ricorsive. Le specie, in altri
termini, sono si soggette ai cambiamenti ambientali, ma a loro volta contribuiscono a “ costruire le
nicchie” in cui abitano.» (Pievani 2011, 92)
2.2.1.1. Ma già dal 1832, Charles Lyell, nel secondo volume dei Principles of geology contesta «la
teoria della «variabilità», dello «sviluppo progressivo» e del «perfezionamento graduale» delle
specie, affermando sia l'esistenza di un suo vizio interno sia, indipendentemente da esso, l’esistenza
di un meccanismo che la vanificherebbe comunque. Il vizio interno del lamarckismo consiste,
sostenne Lyell, nel postulare una plasticità dell’organismo che è fisiologicamente infondata perché
«l’intera deviazione dal tipo originario che qualsiasi genere di cambiamento può produrre avviene
solitamente in un breve periodo di tempo trascorso il quale, pur permanendo il cambiamento delle
circostanze, nessun’altra deviazione, per quanto graduale, può essere ottenuta». «Perciò ne risulta
impedita una divergenza indefinita, sia nella direzione del miglioramento sia in quella del
deterioramento. La minima trasgressione possibile di questi limiti sarebbe fatale all'esistenza degli
individui», che «senz’altro perirebbero prima di aver avuto il tempo di assuefarsi alle nuove
condizioni». […] «… se un tratto di acqua salata divenisse dolce passando attraverso ogni grado
intermedio di salinità, ai molluschi marini non sarebbe consentito di trasformarsi gradualmente in
specie fluviali perché, ben prima che una qualche trasformazione del genere potesse aver luogo,
altre specie, rigogliose in acque salate o dolci, trarrebbero giovamento dal cambiamento avvenuto
nel fluido e, di volta in volta, ciascuna di esse monopolizzerebbe lo spazio. [...] Pochi eventi futuri
sono più certi del rapido sterminio, nel corso di pochi secoli, degli Indiani dell’America
settentrionale e dei selvaggi della Nuova Olanda, dopo di che queste tribù saranno ricordate solo
nella poesia e nella tradizione.» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca. 198,199)
2.2.2. un’evoluzione senza finalismo: le varianti che accadono nella storia geologica e biologica del
processo di evoluzione (e il termine evoluzione non deve avere alcuna connotazione di carattere
progressivo o di giudizio positivo; Darwin distingue il concetto di “cambiamento” da quello di
“progresso”; Pievani 2011, 47) sono casuali e imprevedibili in assenza di alcun finalismo o piano
preordinato. Le leggi “necessarie” della dinamica evolutiva si accompagnano a un processo per
variazioni casuali, «…in un delicato equilibrio fra le leggi necessitanti della natura e il potere dei
dettagli contingenti.» (Pievani 2012,132) «La soluzione risiede in un delicato equilibrio fra le leggi
necessitanti della natura e il potere dei dettagli contingenti: «sono incline a considerare ogni cosa
come risultante da leggi progettate, e a lasciare i dettagli, buoni o cattivi che siano, all'azione di
quello che potremmo chiamare caso».» Così osserva Darwin nei propri taccuini. (Pievani 2012,
132). «Un puro caso, così possiamo dire, può far sì che una varietà differisca in qualche cosa dai
genitori e che i discendenti di questa varietà differiscano a loro volta dai genitori proprio per gli
stessi caratteri e in grado più accentuato.» (Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980,
154) «Leggi e dettagli contingenti: la caduta del progetto. Darwin fu sempre ben consapevole del
fatto che il nocciolo esplicativo variazione-selezione, oscillando fra l’insorgenza accidentale e non
direzionata di differenze, da una parte, e i capricci di ambienti mutevoli e scostanti, dall’altra,
faceva sì che gli adattamenti delle specie non fossero picchi di ottimalità assoluta, ma al contrario
prodotti incompiuti, provvisori, sempre relativi a circostanze del momento. Non c'era insomma
alcuna finalità nell’adattamento. L’evoluzione diveniva un processo di esplorazione di possibilità
contingenti.» (Pievani 2012, 131)
Se si vuole parlare di progresso nell’evoluzione è bene richiamare una annotazione formulata da
Thomas S. Kuhn: «… questo processo è un progresso, nel senso in cui si può definire progresso la
stessa evoluzione darwiniana, ossia come un progresso da qualcosa, e non verso qualcosa.» (Kuhn
S. Thomas, 1997, La tensione essenziale e altri saggi, Einaudi, Torino 2006, (Prefazione) di Carlo
Bartocci e Giulio Giorello, Tradizione e iconoclastia, XVIII). Evoluzione, progresso e
irreversibilità senza finalismo e in termini di casualità o di imprevedibile ampiezza delle possibilità
direzionali. «Gli effetti sono proporzionati alle cause e il loro sviluppo appare continuo e lineare.
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Ma la continuità del cambiamento non deve ovviamente sminuire la sua dipendenza dal caso. In
assenza di qualsiasi caratteristica interna che imprima al processo evolutivo la sua direzione,
cambiamenti contingenti non sembrano limitati da nessun vincolo evolutivo. Lungi dall’essere
progettati razionalmente, gli organismi sono costruzioni contingenti…» (Taylor C. Mark, Il
momento della complessità. L’emergere della cultura a rete, ed. Codice, Torino 2005, 233)
Se la continuità nel cambiamento non trova spiegazione senza tener conto della casualità, è
altrettanto vero che il caso, la casualità, non va intesa come tratto che escluda relazioni di carattere
causale, la causalità. «Quanto alle cause delle variazioni, Darwin teneva in primo luogo a chiarire il
senso in cui aveva parlato di esse come se «fossero dovute al caso». La biologia evoluzionistica
moderna utilizza l’espressione «mutazione casuale» proprio nell’accezione darwiniana: il termine
«casuale» non rimanda, ovviamente, a un’assenza di cause, quanto al fatto che, quali che siano le
cause della mutazione, essa non costituisce una risposta del patrimonio ereditario di per sé mirata a
un migliore adeguamento dell’organismo all’ambiente. La mutazione non va, per cosi dire, nella
stessa direzione in cui vanno le modificazioni dell’ambiente, fornendo la giusta soluzione ai nuovi
problemi che questo pone all'organismo…» (Continenza Barbara in Boncinelli 2012, 73)
2.2.2.1. La logica della teoria evoluzionistica di Darwin nel binomio leggi e dettagli. « Le leggi e i
dettagli: dove finisce il dominio delle une e comincia quello degli altri? È un tema di ancora
stringente attualità: le forze della casualità e le forze della regolarità degli schemi storici ripetuti
continuano a contrapporsi e a bilanciarsi. Ma resta intatta, e anzi trova conferme sperimentali
sempre più robuste, la scoperta che l’intreccio di leggi e di dettagli rende l'evoluzione un percorso
privo di qualsiasi necessità intrinseca e di piani preordinati: in molte occasioni le cose avrebbero
potuto prendere una strada diversa e, se in una delle innumerevoli biforcazioni storiche un evento
avesse deviato la traiettoria, il nostro presente (così apparentemente inevitabile) sarebbe stato
sostituito da un contro-presente alternativo. Non è un succedersi di eventi per «puro caso»,
beninteso, perché a posteriori possiamo ricostruire in dettaglio la sequenza di cause ed effetti che
hanno determinato una storia naturale, ma a priori l'esplorazione del possibile non è prevedibile.
Questa è probabilmente la conseguenza teorica più sconcertante e meno metabolizzata della
rivoluzione darwiniana: un’evidenza controintuitiva, che si scontra con modalità radicate di
pensiero finalistico che vanno oltre le resistenze di matrice religiosa e sono tipiche dei sistemi di
credenze umani. Non è un caso che molti fra coloro che tentarono dopo Darwin una conciliazione
fra la teoria evoluzionistica e l’idea di creazione furono pronti ad accettare il fatto dell’evoluzione e
la parentela universale dei viventi, ma non la contingenza radicalmente a-teleologica che discende
dai meccanismi evolutivi scoperti da Darwin. Non sono mai cessati i tentativi, finora infruttuosi, di
recuperare scampoli di «tendenze», di direzioni progressive e di convergenze forzate, per
scongiurare l’idea scomoda e scandalosa della contingenza storica. Ed è qui che si gioca ancora
oggi la sfida filosofica e culturale più importante lasciataci in eredità da Darwin, ben al di là delle
mai sopite controversie sulla sua iscrizione all’ateismo, all'agnosticismo o a un più morbido
teismo.» (Pievani 2012, 132-133)
2.2.2.2. Il nucleo della teoria evoluzionistica: «la selezione naturale, un meccanismo demografico,
statistico, automatico, che non si limita a sopprimere gli individui aberranti per preservare i «tipi
ideali» della creazione (come sostenevano già i teologi naturali), ma conserva, estingue, accumula,
diffonde e fa fluttuare le variazioni, trasformando le specie. Non è solo un carnefice che elimina gli
organismi che deviano da essenze fisse, ma un processo che attivamente plasma le morfologie e
modifica le popolazioni biologiche, a partire da un materiale (le varianti) generato
indipendentemente. Qui sta la sua specificità. È un incontro contingente fra due catene causali,
quella interna delle variazioni individuali non direzionate e quella delle condizioni di esistenza
esterne, anch’esse mutevoli. Ne risultano tratti e comportamenti adattativi che si trasformano
incessantemente nelle popolazioni, per via del lento scrutinio delle «più lievi variazioni» fra
individui. Quando gli organismi di due o più specie evolvono gli uni in relazione agli altri, si ha una
«co-evoluzione», con produzione di «co-adattamenti» (come per insetti e piante). Se l’ambiente
pone esigenze di sopravvivenza (o «pressioni selettive») analoghe, è possibile che animali non
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strettamente imparentati sviluppino adattamenti simili, per «convergenza adattativa». È un
complesso di idee tanto semplice quanto difficile da digerire, per una ragione precisa: l’incontro
contingente di due catene causali indipendenti (la variazione individuale nelle popolazioni e le
condizioni esterne di esistenza, tra specie e specie, o tra specie e ambienti) esclude che il
cambiamento evolutivo possa essere direzionato da spinte interne, o canalizzato verso un fine, o
tantomeno progettato da una mente intenzionale.» (Pievani 2012,77-78)
2.2.2.3. «Darwin era a tal punto sicuro della necessità di scindere la sua teoria da qualsiasi
coloritura finalistica che il termine stesso «evoluzione» — usato una volta soltanto, come verbo,
alla fine dell’Origine — lo lasciava perplesso, essendo già stato adottato tecnicamente alla metà del
Settecento per descrivere lo «sviluppo» dell’individuo in senso preformistico, qualcosa cioè che si
srotola o svolge (dal latino evolvere) lungo una direzione programmata. […] Il fatto che il padre
della «teoria dell’evoluzione» non volesse usare il termine «evoluzione» è un chiaro indizio della
sua convinzione che nella storia naturale non vi fosse alcuna direzione né alcun piano preordinato,
ma un gioco di compromessi fra leggi generali e dettagli contingenti: «la selezione naturale non
include necessariamente uno sviluppo progressivo, essa unicamente si avvantaggia delle variazioni
che sorgono e che sono utili a ciascuna creatura nelle sue complesse relazioni di vita» (Origine, ed.
it. cit., 1967, p. 189). Non vi è infatti alcunché di direzionale né nella variazione né nei mutamenti
ambientali. Ciò è tanto vero che «forme basse e semplici perdureranno a lungo se bene adatte alle
loro semplici condizioni di esistenza» (ivi, p. 193) e animali che hanno raggiunto elevati stadi di
complessità possono persino accomodarsi a condizioni più semplici di vita se ciò risulta
vantaggioso in termini di selezione naturale.» (Pievani 2012, 84,85) Lo stesso tema è sottolineato da
Giulio Barsanti: ««Evoluzione» viene dal latino evolutio, che indica l’atto di svolgere (dispiegare)
un rotolo; propriamente il termine significa dunque sviluppo (svolgimento), in quanto azione
finalizzata al raggiungimento di un obiettivo: la lettura del rotolo. Con questa accezione lo usarono i
preformisti, che si dissero «evoluzionisti» perché pensavano che i viventi fossero tutti preformati e
preesistenti (incapsulati l’uno nell’altro, progressivamente miniaturizzati) fin dal giorno della
Creazione, e che dopo l’accoppiamento dei genitori subissero nient’altro che un processo di
sviluppo (una evolutio intesa come un mero ingrandimento) esente da qualsiasi distorsione, che
garantiva la conservazione delle specie. Così di «evoluzione» non poté far uso Lamarck, che per
combattere gli “evoluzionisti” dovette ripiegare su «cammino [marche] della natura»; e non ne fece
uso neanche Darwin, che a proposito dell’«origine delle specie» parlò di «discendenza [descent]
con modificazioni». (Barsanti Giulio, 2005, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo,
Einaudi, Torino 2005, XI-XII) Una ulteriore conferma: «Spencer — che Darwin peraltro non
stimava affatto, tanto da scrivere nell’Autobiografia: «Le sue conclusioni non mi convincono mai.
Le sue generalizzazioni fondamentali forse sono molto importanti filosoficamente, ma non
sembrano utili da un punto di vista rigorosamente scientifico» — concepiva infatti l'evoluzione
proprio come progresso, sviluppo dall’omogeneo all’eterogeneo, dispiegamento di potenzialità già
immanenti e, in questo senso, utilizzava in senso forte l'analogia con l'ontogenesi, cioè con lo
sviluppo dell’individuo, con la crescita. Questo, in realtà, era sempre stato, fino ad allora, il
significato proprio del termine «evoluzione», il che potrebbe pure spiegare perché Darwin non
abbia mai utilizzato tale sostantivo nell’Origin, insistendo invece sull’espressione «discendenza con
modificazione».» (Continenza Barbara, in Boncinelli 2012, 67)
2.2.3. una selezione naturale secondo il “principio di divergenza” e della continua diversificazione;
o il principio del vantaggio derivante dalla divergenza dei caratteri.
«Da questo processo ecologico continuativo e cieco di concorrenza individuale derivano anche
l’estinzione e l'approfondirsi di divergenze tra gruppi di individui, sia nello stesso ambiente sia in
ambienti separati, fino al punto di moltiplicare le specie che sono in grado di approfittare delle
risorse di quello che oggi chiameremmo un «ecosistema». La selezione naturale ha infatti bisogno
in Darwin di un’estensione nel «principio di divergenza» — concepito, abbiamo visto, nei primi
anni Cinquanta — secondo cui gli ambienti naturali tendono a essere il più densamente abitati
possibile da organismi in continua crescita e diffusione. Nel naturalista inglese è sempre presente
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l’idea che un contesto ecologico, sia esso selvaggio o addomesticato come un campo di grano, sarà
tanto più sano e robusto quante più specie differenti conterrà: diffidare delle monocolture. ln tutto
ciò egli ravvede una sorta di legge di natura a beneficio della massima diversità e della divergenza
dei caratteri. Ne consegue che i discendenti di ogni specie, in fase di trasformazione, cercheranno di
assicurarsi «il maggior numero possibile di luoghi il più possibile diversificati nell’economia della
natura». Le nuove varietà sostituiranno le vecchie e gli abitanti di quell’ambiente finiranno per
divergere nei loro caratteri e comportamenti, dando origine a graduali separazioni di linee evolutive
negli «alberi di discendenza» dei viventi, come quelli resi poi immortali nelle opere dello zoologo
ed embriologo tedesco Ernst Haeckel.» (Pievani 2012,78- 79)
Sul caso dell’uomo: «Dai deserti ai ghiacci, la diversità umana è stata plasmata dai continui
spostamenti e dalle relazioni con gli ecosistemi. […] Siamo in tutto e per tutto figli dell’ecologia:
tra eruzioni catastrofiche, correnti oceaniche, glaciazioni, frammentazioni di habitat, oscillazioni dei
livelli dei mari e climi mutevoli, colonizzazioni di arcipelaghi, colli di bottiglia e diversificazioni
culturali, le cose potevano andarci diversamente su questo pianeta instabile e nonostante tutto
accogliente.» (Pievani 2011, 45, 46-47)
2.2.4. una discendenza (legame) con modificazioni: «continuità nella discendenza comune,
gradualità nell’evoluzione; diversità nei risultati.» (Pievani 2012, 103-104) In questa ipotesi di
sviluppo si incontrano cioè omologie di struttura e continue imprevedibili modificazioni, tanto
superficiali quanto significative e determinanti nel prender forma e nella differenziazione delle
specie. Darwin presenta, soprattutto, «… quelli forse più importanti, i dati morfologici o strutturali,
il fatto cioè (già ben noto) che gli esseri viventi presentano «omologie» di struttura molto marcate
(per esempio negli arti di tutti i vertebrati), con superficiali modificazioni successive, come se in
natura fosse disponibile un insieme limitato di schemi morfologici e di «piani corporei»
fondamentali e poi avvenissero soltanto variazioni sugli stessi temi. La spiegazione per tutto ciò non
può che essere per Darwin genealogica, cioè la discendenza con modificazioni: le strutture
omologhe sono la prova di una provenienza da forme ancestrali comuni, sulle quali ha poi agito il
processo di selezione naturale al variare delle condizioni ambientali contingenti.
Alla luce di queste evidenze, conclude Darwin alla fine del capitolo sesto e poi nel quattordicesimo,
«unità di tipo» (le strutture morfologiche ereditate) e «condizioni di esistenza» (le pressioni
selettive esterne) sono le «due grandi leggi» del cambiamento evolutivo, laddove sono però soltanto
le prime a garantire la possibilità di affidabili classificazioni sistematiche dei viventi. È infatti
l’omologia strutturale profonda «l’anima» della storia naturale: gli arti superiori di un uomo, di una
talpa, di un cavallo, di un delfino e di un pipistrello sono ingaggiati per funzioni del tutto diverse ma
presentano «lo stesso modello», le stesse ossa nelle stesse posizioni reciproche, segno di una
discendenza comune. Al contrario, i parallelismi, le convergenze di adattamenti simili (come il
sonar nei pipistrelli e in alcuni uccelli, o gli occhi, evolutisi per almeno sei volte separatamente) e le
«somiglianze analogiche» funzionali sono ingannevoli, perché sembrano testimoniare una parentela
stretta fra due specie quando invece si sono sviluppati indipendentemente in rami non contigui
dell’albero della vita.» (Pievani 2012, 83)
2.2.4.1. «Nella splendida chiusa dell'Origine dell’uomo, egli mostra come un naturalismo non
ingenuo debba tenere insieme la continuità evolutiva e la comprensione della diversità di ogni storia
naturale: abbiamo ben salde origini animali, «segno indelebile della nostra origine da una forma
inferiore», ma anche le «potenti facoltà» di «un intelletto quasi divino che è penetrato nel
movimento e nella struttura del sistema solare», un intelletto certamente unico con il quale, un
secolo e mezzo dopo quelle parole, costruiamo stazioni orbitanti e concepiamo le più alte norme
morali di rispetto degli altri grazie a «nobili qualità» come «la simpatia che sentiamo per gli esseri
più degradati» e «la benevolenza che estendiamo non solo agli altri uomini, ma anche alle più umili
fra le creature viventi». Origini animali e potenza dell'intelletto, cugini di ogni altro essere vivente
(inclusi i più umili) e portatori di nobili qualità, scimmie bipedi socialmente ambivalenti e
innovatori formidabili: cadono in Darwin le contraddizioni fra queste polarità, perché l'evoluzione è
un processo continuativo capace di produrre, incessantemente, l’inedito.» (Pievani 2012, 123)
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2.2.5. riadattamento funzionale verso nuove direzioni: «È dunque possibile che gli stadi primitivi e
intermedi di strutture attuali non avessero la funzione che poi assumeranno. Questa seconda
soluzione viene seguita, nell’argomentazione darwiniana, da un corollario non meno importante: se
le funzioni cambiano, significa che nell’evoluzione non è scontato che vi sia una stabile
corrispondenza «uno a uno» fra una struttura e una funzione. Meglio tollerare una certa ridondanza.
Una singola funzione potrà essere svolta da più organi, di modo che, all’occorrenza, uno di questi
possa essere «cooptato» e specializzato per nuovi utilizzi senza che la fitness complessiva
dell’organismo ne risenta. […] Parti dell’organismo favorite in virtù di una certa funzione
ancestrale vengono «riadattate» o cooptate per funzioni nuove, eventualmente incrementando la
loro complessità strutturale. La continuità è salva, perché è plausibile che la funzione ancestrale
continui a essere soddisfatta anche quando la nuova funzione sta subentrando, e poi prevalendo, in
virtù di nuove pressioni selettive. L’ipotesi di Darwin è quindi che sia fondamentale considerare la
«probabilità di conversione da una funzione all’altra». (Pievani 2012, 90-91)
2.2.5.1. esiti evolutivi del riadattamento funzionale: «Per capire perché una forma prevale possiamo
allora confrontare fra loro tre tipi di modelli esplicativi: uno basato sui vincoli strutturali interni e di
sviluppo, la cui matrice è unica per tutti gli animali; uno sull'efficienza funzionale in ambienti
specifici; e uno sulla sfortuna sfacciata dei suoi portatori. Questo “trio” di fattori, quasi sempre
combinati fra loro in modalità diverse, è di estrema importanza e ci fa capire molto di come
funziona una ricostruzione evoluzionistica: vincoli interni (strutture); pressioni selettive esterne
(funzioni di sopravvivenza in un ambiente); eventi storici peculiari. Strutture, funzioni e storie: i tre
apici del triangolo ideale dentro il quale si collocano le spiegazioni evoluzionistiche (Gould, 2002;
Pievani, 2005).» (Pievani 2011, 106-107)
2.2.6. evoluzione come una struttura aperta, dotata di logica propria ma di contingenza e
imprevedibilità: «un’esplorazione di possibilità, non una tendenza inevitabile» (Pievani 2011, 94).
«Ma Darwin sa anche che la sua spiegazione, per quanto goda di un'altissima probabilità di essere
corretta, non è in grado di padroneggiare completamente la multiformità dei processi naturali che
pure ha osservato: ci sono fenomeni anomali, rispetto alle sue previsioni, ed enigmi ancora da
decifrare. Sapeva, per esempio, che i primordi della vita in quanto tale sfuggivano alla sua analisi e
che sul tema si potevano soltanto avanzare congetture e «analogie», benché di gran moda negli anni
Settanta dell’Ottocento. Questo atteggiamento faceva parte della sua allergia ai problemi «ultimi» e
alle domande relative alle «origini prime» dei fenomeni evolutivi (fossero essi le capacità mentali
primordiali, o la sensibilità alla luce, o la variazione stessa). L’evoluzione ha a che fare con il
cambiamento, non con i presunti inizi assoluti delle cose.»(Pievani 2012, 94)
«… l’evoluzione è intesa come un «bricolage» flessibile di strutture e di funzioni, nella continuità di
un processo che non ha salti ontologici, né rubiconi qualitativi, né spartiacque di alcun tipo.»
(Pievani 2012, 106) «… la potenza della variazione spontanea come motore del cambiamento.»
(Pievani 2012, 125). «In una scienza che non è fatta di essenze ma di processi in divenire,
l’ambizione di trovare il fossile decisivo, il raro esemplare “basale” che rappresenterebbe l’origine
di un grande gruppo tassonomico, il Rubicone oltre il quale comincia un altro mondo (o anche
soltanto una nuova specie), assomiglia più al Santo Graal che a un obiettivo scientifico.» (Pievani
2011, 108)
In conclusione, di fronte ai dati e per una scienza dei fenomeni occorre abbandonare la domanda
sulle origini così come la domanda sul fine, sulla direzione, sul progresso; domande che rimandano
ad elementi che si pongono all’esterno del processo e che si sottraggono quindi alle sue possibilità
di osservazione; si tratta inoltre di domande che interrompono nel termine principio o fine il
discorso delle leggi, relazioni e cause e quindi annullano il processo che si sta studiando. «…le
grandi escatologie rassicuranti … sono filosofie della storia senza la storia, dato che la storia
diventa un complesso di mezzi per il raggiungimento di un fine già scritto.» (Pievani 2011, 226)
2.2.6.1. Così come nella narrazione storica: se si vuole fare storia occorre togliere il concetto di
progresso dalla sua ricostruzione narrativa, altrimenti il quel racconto diventa uno strumento di
esaltazione del presente. « Se è così, scopriamo di essere figli anche di Pikaia e delle sue sorti, di
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essere figli contingenti di “sola storia”, cioè di una sequenza di eventi irripetibili e generosi. È
tempo allora di allargare ulteriormente la nostra prospettiva e di considerare le implicazioni
filosofiche di queste scoperte. Il passato non è esistito per giustificare il presente e il presente non è
quasi mai una buona chiave di lettura retrospettiva per il passato. La diversità attuale non esaurisce
il possibile, anzi è un piccolo sottoinsieme di ciò che avrebbe potuto essere. La storia non ha
bisogno di fondarsi su un principio esterno: si fonda sulla sua stessa unicità. Per Gould il messaggio
di Pikaia esalta la natura del nostro Universo, “il più diverso e interessante degli universi
concepibili”, ma per ragioni opposte a quelle di chi vede in esso un grande piano preordinato (1989,
p. 334). È un Universo di possibilità, non di necessità. “Indifferente alla nostra sofferenza”, ma non
per questo un Universo cinico, perché anzi “ci offre la massima libertà di avere successo, o di
fallire, nella via che abbiamo scelto”.» (Pievani 2011, 96)
In altri termini: « Un’avvincente esplorazione di possibilità.» (Pievani 2011, 97, titolo del cap. 3)
«Ogni ripetizione del film condurrebbe l'evoluzione su una via radicalmente diversa da quella
intrapresa in realtà. Ma le differenze conseguenti nell’esito non significano che l’evoluzione sia
priva di significato, e priva di un ordine significante; la via divergente della ripetizione sarebbe
altrettanto interpretabile, altrettanto spiegabile, a posteriori, quanto la via reale. La diversità dei
possibili itinerari dimostra però che i risultati finali non possono essere predetti fin dal principio.
Ogni passo procede sulla base di precise ragioni, ma non si può specificare un finale sin dal
principio, e nessun finale si verificherebbe mai una seconda volta nello stesso modo, poiché ogni
via procede passando per migliaia di fasi improbabili.» (Stephen J. Gould, La vita meravigliosa,
1989, p, 48 - (Pievani 2011, 99)
2.2.6.2. «Per passare da una vita acquatica a una terrestre occorre ingaggiare una serie di
riadattamenti estremamente impegnativi, nella locomozione, nell’escrezione, nell’alimentazione,
nella respirazione. Come si passa in pochi milioni di anni da un pesce con pinne e branchie a un
animale terrestre con arti e polmoni? L’interrogativo attrae maliziosamente gli antievoluzionisti,
perché commettono il doppio errore di pensare che esso non abbia una risposta e di inferire da ciò
che sia necessario arrendersi chissà perché al subitaneo miracolo interventista di un disegnatore
intelligente. Nulla di tutto ciò ovviamente. Il fraintendimento si annida proprio nella confusione tra
una forma di transizione, fra molte, e un solitario e trionfale “anello mancante” che si farebbe
portatore di progressivi adattamenti. Il segreto sta invece nella diversità e nella continua
sperimentazione evolutiva, sospinte dai meccanismi di base che producono il cambiamento
evolutivo: la mutazione, la selezione, la deriva genetica, la migrazione e gli schemi evolutivi su
larga scala.» (Pievani 2011, 103)
2.2.6.2.1. In sintesi: elementi plurimi in composizione per definire l’evoluzione delle specie: la
selezione naturale da riferire alle seguenti componenti 1. ambiente (le condizioni fisiche), 2.
ereditarietà dei caratteri (delle divergenze casuali), 3. concorrenza tra organismi nello stesso
ambiente. «Per Lamarck il rapporto centrale è quello fra organismo e ambiente; per Darwin «è il
rapporto fra organismo e organismo il più importante di tutti i rapporti». Per Lamarck l’ambiente
forza un’intera popolazione alla trasformazione, e la forza ad una trasformazione che ogni individuo
è in grado di compiere, e che tutti gli individui compiono esattamente allo stesso modo; per Darwin
l’ambiente svolge piuttosto una funzione di filtro, selezionando differenze individuali, e
l’evoluzione poggia sulla morte prematura di numerosi individui.» (Barsanti 2005, Una lunga
pazienza cieca, 256)
2.3. Il passaggio dell’uomo nella logica aperta dell’evoluzione (alcune annotazioni).
L’origine dell’uomo e la selezione in rapporto al sesso.
«Fin dalla sua prima comparsa, nel 1859, la teoria di Darwin ha suscitato numerose reazioni di
sorpresa, ma anche di rifiuto. Ma il vero dramma ha avuto luogo dodici anni dopo, nel 1871,
quando Darwin ha pubblicato, il «seguito» di L’origine delle specie. Anche se egli aveva concepito
fin dall'inizio l’idea che anche l'uomo potesse essersi evoluto come tutte le altre specie, nel libro del
1859, L’origine delle specie, c'è solo una frase a questo proposito: «Luce verrà fatta anche
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sull'origine dell’uomo»; mentre dodici anni dopo il libro L’origine dell’uomo è tutto dedicato
all'origine della nostra specie, dove si dice a chiare lettere che tutto quello che è stato proposto per
le specie animali, vegetali, funghi e batteri vale anche per la nostra specie. È questo il grosso colpo
che la teoria dà al pensiero comune: noi non siamo altro che animali, anche se molto particolari, che
hanno avuto una storia, che hanno avuto un’evoluzione. Lo sviluppo di queste idee, in realtà, si è
svolto soprattutto dopo la morte di Darwin — la maggior parte delle scoperte è stata fatta dieci,
venti, trenta anni fa — ma gli dà completamente ragione, perché si è riusciti a ricostruire, quasi
punto per punto, il cambiamento che ha portato da un antenato comune, vissuto circa sette milioni
di anni fa, allo sviluppo dell'uomo, da una parte, e delle scimmie antropomorfe, dall'altra.»
(Boncinelli 2012, 29) In presentazione (leggermente) diversa, la nascita e la rilevanza del tema:
«La selezione sessuale e l’origine dell’uomo. L’Origin of species toccava solo fuggevolmente
quanto riguarda la nostra specie: Darwin si limitava, in fine, a dichiararsi convinto che un giorno «si
farà luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia». Fu subito chiaro a tutti che egli non pensava
certo di sottrarlo alle leggi della natura ma, trattandosi della questione più delicata in assoluto fra
quelle prospettate con la nuova teoria, Darwin aveva concepito il progetto di dedicarle un intero
volume, in modo da trattarla con la più ampia documentazione possibile e quindi la massima
capacità di persuasione. Il dibattito sull’origine dell’uomo tuttavia si aprì subito, fu subito infuocato
e non pochi darwiniani della prim’ora vi intervennero con apposite monografie ancor prima che il
maestro prendesse la parola.» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 267)
«Come chiosarono efficacemente Berger e colleghi nel loro articolo su Science: “I reperti di Malapa
dimostrano che la transizione evoluzionistica da un ominino di dimensioni ridotte e forse più
adattato a stili di vita arboricoli (come Australopithecus africanus) a un ominino dal corpo più
slanciato e pienamente bipede terrestre (come Homo erectus) è avvenuta con una modalità a
mosaico". Una transizione, dunque, con più specie conviventi coinvolte, ciascuna portatrice di
adattamenti e di un mix di caratteri unici, e forse senza una singola innovazione cruciale a fare da
marchio distintivo (come si poteva evincere dalla sola espansione del cranio). […] Se sull'albero
genealogico dell'evoluzione umana tiriamo una linea temporale all’altezza di circa 1,9 milioni di
anni fa, troviamo come minimo sei specie coeve e conviventi: tre specie dei primi Homo,
Australopithecus sediba in Sudafrica, due specie di parantropi. Nel susseguirsi di ramificazioni e di
bivi adattativi che compongono il nostro mosaico evolutivo degli ultimi quattro milioni di anni,
sembra non essere mai successo che il vessillo dell’umanità fosse eroicamente imbracciato da una
specie solitaria. […] Le scoperte nelle grotte di Denisova e di Malapa danno la misura di quanto
povera sia ancora la nostra comprensione della genealogia plurale di specie ominine che hanno
popolato prima il continente africano e poi il Vecchio Mondo. È probabile che finora sia stata
considerevolmente sottostimata la capacità di diversificazione delle specie che — chi come meteora
passeggera chi più stabilmente — attraversarono l’evoluzione umana anche in tempi molto recenti:
“Stiamo imparando sempre più cose sul lussureggiante albero evoluzionistico che gli esseri umani
hanno avuto”, ha commentato il paleoantropologo dell’American Museum of Natural History di
New York, Ian Tattersall, sul New York Times (24 marzo 2010). Ci sono stati molti modi di essere
umani, fino a una manciata di millenni fa. Ciò che oggi ci sembra normale e fuori discussione,
essere l'unica specie umana sulla Terra, potrebbe in realtà rappresentare un’eccezione recente
(Tattersall, 1998, 2009). Dunque, la solitudine di specie è un’invenzione evoluzionistica tarda,
dovuta forse alle nostre indubbie capacità espansive, invasive e fortemente competitive nel
reperimento delle risorse. È stata una corsa con più atleti, fino al penultimo metro, e nessuno dei
corridori era uguale all’altro. Siamo così giunti alle soglie di un interrogativo che accompagnerà
come una filigrana la nostra argomentazione: possiamo, nonostante tutto, considerare questa
solitudine tardiva come un esito necessario dell’evoluzione umana? Nei sei milioni di anni di
sperimentazioni adattative degli ominini siamo in grado di rintracciare una qualche tendenza
inevitabile, una direzione, una traiettoria privilegiata, una freccia del tempo?
I dati a disposizione lo escludono oltre ogni ragionevole dubbio, non soltanto per la pluralità dei
protagonisti in gioco ma anche per il ruolo cruciale delle contingenze ambientali in tutti i passaggi
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significativi di questa storia. La conformazione delle terre emerse, la deriva dei continenti,
l’instabilità ecologica, le modificazioni del clima, le frammentazioni di habitat e altri fattori esterni
— indipendenti dai meriti adattativi di questo o quel ramoscello del nostro albero di famiglia —
hanno pesantemente condizionato il processo, come succede da quando mondo è mondo a tutte le
specie e come è normale che sia giacché viviamo su un pianeta attivo e imprevedibile che ha fatto a
meno di noi per tre miliardi e mezzo di anni. Come ha scritto il paleoantropologo Giorgio Manzi:
“Non c'è stato nulla di ineluttabile nella nostra storia. Essa piuttosto è il frutto di circostanze. Non
del caso, si badi bene, ma di circostanze” (2007, p. 8).» (Pievani 2011, 37-39)
2.3.1. per richiamare il dato generale: «Qualunque sia la ricostruzione corretta, l'insegnamento
principale derivante dagli studi sui primi stadi della vita animale è quello di un’esuberante
esplorazione del “morfospazio ” potenziale. Vincoli fisici e strutturali limitano il campo del
possibile, tuttavia esso rimane così ampio da essere esplorato solo in parte, per ragioni adattative ma
anche di contingenza ambientale. Ci furono quindi molti modi di essere artropode, mollusco,
crostaceo, mammifero e ominino. L’evoluzione sperimenta soluzioni alternative, scegliendone
alcune anziché altre non sempre sulla base di criteri di rigida e ottimale efficienza. La strada
intrapresa ai primordi condiziona poi il resto della storia, divenendo a sua volta un vincolo
incombente sul futuro.» (Pievani 2011, 90)
3. un dibattito senza fine (e senza intese): l’infinita e sempre ricorrente polemica tra
piano e caso; i valori della casualità, della necessità e della contingenza nella teoria
evoluzionistica.
3.1. le tesi di una teologia naturale in forme religiose e in forme laiche una opinione diffusa e
una convinzione difesa (anche e soprattutto con la forza della ufficialità)
«La Natural Theology, pubblicata da Paley nel 1802 tre anni prima della morte, era una lettura
apologetica pressoché obbligata a Cambridge. La sua prosa ricercata perseguiva il pio obiettivo, già
di molti altri grandi della scienza inglese, di mostrare le «evidenze dell'esistenza e degli attributi
della divinità raccolti dalle manifestazioni della natura». Paley presentava differenti versioni del
cosiddetto «argument from design» — formalizzato da Tommaso d’Aquino e sostenuto da autorità
indiscusse della scienza britannica come John Ray e William Derham, ma soprattutto da Robert
Boyle e da Isaac Newton nell’Optiks — cioè la deduzione dell’esistenza di Dio a partire
dall’evidenza di un progetto insito nel mondo naturale. Si trattava, nella sostanza, di
un’argomentazione per analogia. Se camminando per una brughiera, spiegava Paley, noi
incappiamo in un artefatto, per esempio un orologio dj pregiata fattura, siamo portati a ritenere, in
virtù della sua forma e delle relazioni complesse fra le sue componenti, che sia esistito un
orologiaio che lo ha progettato e costruito. Sappiamo cioè che si tratta del prodotto di un'attività
intenzionale. Se invece inciampiamo in una pietra, siamo autorizzati a pensare che essa si trovasse lì
da sempre e senza alcuna ragione particolare.» (Pievani 2012, 7)
3.1.1. il procedimento ricorrente negli argomenti di teologia naturale si consegna ad un doppio
passaggio:
3.1.1.1. dimostrare per analogia e passando dall’uomo artigiano al Dio artigiano; implicitamente,
identificando nella struttura il prodotto della tecnica umana con la realtà naturale; entrambi prodotti
artigianali (come da tradizione platonica e cartesiana); Spinoza nell’Ethica, smonta il pregiudizio
presente nella teleologia naturalistica antropologica ricostruendone il cammino argomentativo:
«"Trovando gli umani in sé e fuori di sé non pochi mezzi, che giovano parecchio per conseguire il
proprio utile, come per esempio gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per
cibarsi, sole per illuminare, mare per allevar pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le
cose naturali come mezzi per il loro utile; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati
ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esista qualcun altro che ha preparato quei
mezzi per loro uso. Infatti, dopo aver considerato le cose come mezzi, non poterono credere che
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esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi stessi sogliono prepararsi, doverono concludere
che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di
tutto per loro, e avessero fatto tutto per loro uso” (1677, Parte Prima, Appendice, p. 36).» (Pievani
2011, 232)
3.1.1.2. dimostrare a partire dalla conseguenza: se l’ordine, la bellezza, l’evoluzione, il progresso, la
direzione… sono dati che si riscontrano nella realtà, allora, per darne atto, occorre individuare il
loro principio primo; implicitamente (e forse inconsapevolmente) ignorando come i concetti di
piano e ordine e…, che dovrebbero portare all’affermazione di un principio o causa, contengono in
sé per definizione quel principio di cui intendono mostrare l’esistenza (torna in campo la logica
dell’argomento ontologico prodotto dalla filosofia medievale (Anselmo d’Aosta) e dialetticamente
“smontato” da Kant).
3.1.2. un procedimento confutativo di tipo dialettico (cioè un argomento ad hominem) può essere
costruito in più modi:
3.1.2.1. ad esempio. L’utilità di una ipotesi di un piano intelligente finalisticamente gestito oltre che
priva di fondamento e di prove empiriche, se non per selezioni ed omissioni ad hoc, è
scientificamente nulla. L’ammissione di un principio motore finalistico non dice nulla su quale sia il
piano, quale il fine e la direzione e magari quali le provvide intenzioni; il massimo che si può
ottenere è quello della coincidenza del dato di fatto riscontrato con il fine prefisso; «… la mappa
coincide con il territorio» (Pievani 2011, 112); ma si tratta di una lettura di carattere finalistico di un
processo del tutto coincidente con quello casuale e meccanico, dunque è solo questione di ideologia
o di fede. «… il rifiuto cognitivo della contingenza fattuale comporta il prezzo, decisamente troppo
alto, di abbandonare del tutto ogni evidenza scientifica (anzi, di negarla) e di affidare le proprie
argomentazioni a postulati di principio che attingono più ai sistemi di credenze che ai dati di
sostanza.» (Pievani 2011, 134) Si mischiano qui le omissioni, le opportune selezioni e un cammino
dimostrativo che a partire dalle conseguenze decide delle premesse empiriche e di quali possano
considerarsi valide. «Pertanto, la selezione dei caratteri ritenuti dirimenti può influenzare il
risultato. Inoltre, secondo altri studiosi, utilizzare come criteri di misura della disparità
caratteristiche morfologiche che oggi sono importanti, principalmente la segmentazione corporea e
le appendici, rischia di cadere nella fallacia retrospettiva, una critica che venne mossa a Gould
anche da ]ohn Maynard Smith. ln altri termini, non è detto che ciò che oggi distingue piani
anatomici diversi sia un buon riferimento per calcolare la disparità di un'epoca così remota. Forse il
grado di flessibilità genetica di allora avrebbe potuto essere maggiore di quello attuale, vanificando
distinzioni che oggi ci paiono determinanti ma che allora erano magari modulazioni di un unico
piano anatomico fondamentale.» (Pievani 2011, 81)
3.1.2.2. ad esempio, le osservazioni dello stesso Darwin: «… come può un Dio al contempo
onnipotente e infinitamente buono operare per il mezzo di processi che implicano una tale quantità
di sofferenza, di crudeltà, di ingiustizia e di spreco? E soprattutto, come può un sommo architetto
dotato di intelligenza e di preveggenza sopportare che la storia naturale sia così radicalmente
influenzata da circostanze casuali, da svolte impreviste, da eventi accidentali? In una lettera del 22
maggio 1860, si schermisce dicendo che non è sua intenzione scrivere in modo ateistico, poi però
affonda il colpo: «Ma devo ammettere che non mi riesce proprio di vedere, con la chiarezza che
hanno altri, o come desidererei, l’evidenza di un progetto e di benevolenza tutto attorno a noi. Mi
sembra che ci sia troppa sofferenza nel mondo. Non riesco a convincermi che un Dio benevolo e
onnipotente possa aver creato di proposito gli Icneumonidi con l’esplicita intenzione che si
alimentassero all’interno dei corpi ancora vivi dei bruchi, o che un gatto dovesse giocherellare con
il topo». (Pievani 2012, 132) «Ma nulla poteva esimerlo dall'applicare la ragione quando asseriva
che «l'immensa quantità di dolore e di sofferenza in questo mondo» può essere spiegata in modo
molto più soddisfacente come l’esito della sequenza naturale degli eventi, piuttosto che come il
risultato di un imperscrutabile «intervento diretto di Dio». È il principio del «cappellano del
diavolo» che aveva evocato con una battuta nel 1856 in una lettera a Hooker: «Quale libro potrebbe
scrivere un cappellano del diavolo sulle rozze, dannose, erronee, basse e orribilmente crudeli azioni
20
della natura?». (Pievani 2012, 136) Sullo stesso tema interviene Giulio Barsanti: «Asa Gray volle
tentare di conciliare la teoria della selezione con la teologia naturale e l’argomento del disegno
divino, sostenendo che se un fiume scende a valle obbedendo alla legge (deterministica) di gravità,
mentre l’evoluzione obbedisce alla legge (stocastica) della selezione naturale, entrambi i processi
sono governati da Dio. Dimostrando di essersi emancipato da quella congiuntura intellettuale,
Darwin replicò che se le variazioni favorevoli potevano, al limite, essere pensate come elementi di
un disegno provvidenziale, per quelle sfavorevoli si poneva un problema tanto delicato quanto
insolubile. Quale onnisciente e onnipotente e benefico legislatore dell’universo avrebbe mai
permesso che milioni di variazioni proliferassero a caso, lasciando che ci pensasse la selezione
naturale a eliminare quelle inadatte? Quale Padre amoroso avrebbe tollerato la grande quantità di
dolore e di sofferenza evidente nella natura ? Ma molte altre obiezioni si aggiunsero a questa, e
Darwin ebbe l’onestà intellettuale di dedicare loro, a partire dalla quarta edizione dell’opera, un
apposito, intero capitolo.» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 258-259)
3.2. per uscire dal contraddittorio (per lo più sterile) e muoversi nella logica della teoria
evoluzionistica.
3.2.01. che si tratti di un contraddittorio sterile… un episodio della vita di Darwin: «Sul finire del
1878 venne chiamato a confrontare questa sua ritrosa ma «lucidissima confusione» con l’eventualità
di un dialogo pubblico. L’arcivescovo di Canterbury lo invitò a una conferenza a porte chiuse di
scienziati credenti e non credenti, da tenersi a Lamberth Palace, al fine di valutare le possibilità di
armonia e di incontro fra scienza e religione. Avrà influito anche la sua idiosincratica repulsione
verso i dibattiti pubblici, ma la motivazione con la quale cortesemente declinò è emblematica:
proprio non gli «riusciva di vedere quale beneficio potesse mai derivarne». Teologia e scienza
devono seguire ciascuna il proprio percorso, ma non era colpa sua «se il loro punto di incontro sia
ancora destinato a essere così distante».» (Pievani 2012, 137)
3.2.02. «Per i sostenitori di teleologie eredi di quelle di Gray e di FitzRoy, il significato delle
incalzanti prove evoluzionistiche all’insegna della pluralità e della contingenza storica rischia
dunque di essere piuttosto imbarazzante… Che fare, allora: abbandonarsi al disorientamento e
condannare all’insensatezza la condizione umana? O non è forse meglio cogliere il senso liberatorio
della contingenza, e l’occasione di consapevolezza e di maturità che ci offre?» (Pievani 2011,4849) All’insegna di un binomio (possibile): progresso e contingenza.
3.2.1. la necessità biologica della contingenza. Non cieco caso né disegno prestabilito ma intreccio
di caso e necessità, di caso e leggi, sequenza causale che in forza del suo conservarsi e ripetersi
diventa l’invarianza delle strutture. È il tema centrale dell’opera di Jacques Monod, richiamabile,
quasi in forma di proclama, con questi passaggi: «Il caso è captato, conservato e riprodotto dal
meccanismo dell’invarianza e trasformato in ordine, regola necessità.», «Indecifrabile poiché, prima
di esprimere la funzione fisiologicamente necessaria , che adempie in maniera spontanea, esso
rivela nella sua struttura solo la casualità della sua origine.» Il testo dall’opera Monod Jacques
1970 Il caso e la necessità, Arnoldo Mondadori, Milano 1970: « Oggi si conoscono centinaia di
sequenze, che corrispondono a varie proteine estratte dagli organismi più disparati. Da esse, e da un
loro confronto sistematico realizzato con l’aiuto dei moderni mezzi di analisi e di calcolo, si può
oggi dedurre la legge generale: quella del caso. Per essere più precisi, queste strutture sono ‘casuali’
nel senso che, conoscendo esattamente l’ordine di 199 residui in una proteina che ne comprende
duecento, è impossibile formulare una regola, teorica o empirica, che consenta di prevedere la
natura del solo residuo non ancora identificato analiticamente.
È bene forse insistere sul fatto che, sostenendo la ‘casualità’ della sequenza degli amminoacidi in un
polipeptide, non si confessa affatto la propria ignoranza, ma si esprime una constatazione di fatto:
cioè, ad esempio, che la frequenza media con cui nei polipeptidi un certo residuo è seguito da un
altro è uguale al prodotto delle frequenze medie di ciascuno dei due residui nelle proteine in genere.
Tutto questo si può illustrare anche in un altro modo. Supponiamo di avere un mazzo di carte da
gioco su ciascuna delle quali sia impresso il nome di un amminoacido e che, in questo mazzo di 200
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carte, sia rispettata la proporzione media di ciascun amminoacido. Dopo aver mescolato le carte, si
otterranno sequenze a caso che nulla consentirebbe di distinguere dalle sequenze effettivamente
osservate nei polipeptidi naturali.
Ma se, in questo senso, qualsiasi struttura proteica primaria ci appare come il puro risultato di una
scelta casuale effettuata, per ciascun anello della catena, tra i venti residui disponibili, in un altro
senso, altrettanto significativo, si deve riconoscere che questa sequenza reale non è stata affatto
sintetizzata a caso, poiché lo stesso ordine si ripete, praticamente senza errori, in tutte le molecole
della proteina considerata. Se non fosse così risulterebbe impossibile stabilire con l’analisi chimica
la sequenza di una popolazione di molecole.
Si deve dunque ammettere che la sequenza ‘casuale’ di ciascuna proteina sia riprodotta, migliaia o
milioni di volte, ad ogni generazione, in ogni organismo e in ogni cellula, da un meccanismo ad alta
fedeltà il quale garantisce l’invarianza delle strutture. Si conosce oggi non solo il principio, ma
anche la maggior parte delle componenti di tale meccanismo: se ne riparlerà in un prossimo
capitolo. Non è necessario conoscere i particolari per comprendere il profondo significato del
misterioso messaggio rappresentato dalla sequenza dei radicali amminoacidici in un filamento
polipeptidico. Messaggio che, secondo tutti i criteri possibili, sembra scritto a caso. Messaggio,
però, carico di significato che si rivela nelle interazioni discriminative, funzionali, direttamente
teleonomiche della struttura globulare, traduzione tridimensionale della sequenza lineare. Una
proteina globulare è già, in scala molecolare, una vera e propria macchina per le sue proprietà
funzionali, ma non — e lo vediamo ora — per la sua struttura fondamentale dove niente è dato
discernere se non il gioco di cieche combinazioni. Il caso è captato, conservato e riprodotto dal
meccanismo dell’invarianza e trasformato in ordine, regola necessità. Da un gioco completamente
cieco, tutto per definizione può derivare, ivi compresa la vista. Nell’ontogenesi di una proteina
funzionale si riflettono l’origine e la filiazione dell’intera biosfera; la fonte ultima del progetto,
rappresentato, perseguito e realizzato dagli esseri viventi, si rivela in questo messaggio, in questo
testo preciso, fedele, ma essenzialmente indecifrabile costituito dalla struttura primaria.
Indecifrabile poiché, prima di esprimere la funzione fisiologicamente necessaria , che adempie in
maniera spontanea, esso rivela nella sua struttura solo la casualità della sua origine. Ma questo è,
giustamente, il senso più profondo, per noi, del messaggio che ci giunge dall’abisso dei tempi.»
(Monod 1970, 84-85)
3.2.2. Ciò che si vede in azione nel campo della biologia. «… ciò che si vede in azione è un insieme
di meccanismi e di fattori, di regole simili a leggi, di schemi ripetuti di dinamiche evolutive, il cui
intreccio causale spiega sì adeguatamente, a posteriori, che cosa è successo e perché, ma che
tuttavia non è tanto stringente da rendere il processo predeterminato. Allora forse l’assenza di una
direzione e di una necessità intrinseca non consegna l'evoluzione al “cieco caso” e alla fredda
democraticità del puro calcolo delle probabilità — come se lo scenario attuale dell'evoluzione fosse
il risultato di una sequenza di lanci di dadi — bensì a un’interrelazione fra elementi casuali e storici,
funzionali e strutturali, che produce una molteplicità di storie possibili. Non infinite, possibili. Fra
queste, non tutte avranno la stessa probabilità di accadere, ma ciò che conta è che la storia che si è
realizzata non era l’unica possibile e non era a priori prevedibile. Le cose potevano andare
diversamente. Non era inscritto nel processo fin dall'inizio che dovesse andare a finire proprio così
e non in un altro modo. Se anche una sola delle innumerevoli biforcazioni di eventi che ci
precedono si fosse risolta diversamente, noi potremmo tranquillamente non esistere. E un variegato
Universo alternativo, abitato da magnifici dinosauri piumati e policromatici, avrebbe potuto
benissimo fare a meno di noi.» (Pievani 2011, 110)
3.3. «È il momento dell’entrata in scena della contingenza» o la logica dell’evoluzione.
Il portato centrale e di metodo scientifico della biologia evoluzionistica, definita secondo i tratti
delineati da Darwin, per le scienza biologiche e per le scienze in generale della natura e dell’uomo.
Con la teoria evoluzionistica, la legge, un processo di norma o normalità, non viene presentata con
la sola categoria della necessità, ma nell’intreccio e incontro tra caso e necessità. Da una parte
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dunque il caso, la possibilità, la contingenza, la variazione, dall’altra parte la costanza, la
continuità, la necessità. Tra i due le due parti si colloca la dimensione del tempo come elemento di
incontro congiunzione e conservazione delle due componenti del divenire secondo le irrinunciabili
forme della variazione e della continuità (l’assenza di una delle due componenti determina
l’annullamento del divenire). Come afferma Jacques Monod: « Il caso è captato, conservato e
riprodotto dal meccanismo dell’invarianza e trasformato in ordine, regola necessità.» (Monod 1970,
85) È bene dunque ribadire quanto affermato sulla innovazione fondamentale, per la scienza,
introdotta dalla teoria evoluzionistica come formulata da Darwin: «La novità è essenzialmente nel
fatto che, per la prima volta nel pensiero umano, il tempo fa il suo ingresso in maniera massiccia nel
modo di considerare l’andamento delle cose.» (Boncinelli 2012, 10).
Il legame caso e necessità nel fattore tempo costituisce una triangolazione (caso – tempo –
necessità) che porta a rivedere, ripensare e ridefinire il modo con cui la scienza, nei suoi vari settori
di indagine, costruisce le proprie teorie su dati di esperienza e con enunciati di necessità. La
contingenza, come dato empirico e teorico vincolante, trova espressione nelle forme della continuità
e della costanza scientifica (legge) sulla base di motivazioni e dimostrazioni fornite da più ambiti
scientifici. Osservazioni possono essere tratte (senza pretese di completezza) dal campo della logica
(a partire da quella aristotelica), della biologia, dell’ontologia (nella direzione dell’ontologia dei
fatti), della stessa teologia o, in generale, dell’impostazione culturale di metodo che guida la
riflessione di carattere etico antropologico.
Per l’ingresso della contingenza in ogni ambito scientifico: «… la scienza appunto del contingente
deve in definitiva essere integrata con la più convenzionale scienza della teoria generale, perché
soltanto così si potrà comprendere nel migliore dei modi possibili sia i modelli sia la grande parata,
con le loro differenti caratteristiche e gradi di prevedibilità.» (Gould Stephen Jay 2007 L’equilibrio
punteggiato, codice edizioni, Torino 2008, XXII)
3.3.1. la contingenza: una definizione e una opportunità logica, una situazione storica ricorrente e
quotidiana.
3.3.1.1. Aristotele, nelle opere destinate al tema della logica delinea i tratti di quella che viene
chiamata “logica modale”. Essa studia il modo con cui il predicato si rapporta al soggetto di cui si
predica; si danno i casi di un legame necessario, possibile, impossibile. La catalogazione modale
può riarticolarsi in modo più strutturato: il legame è possibile o impossibile; il legame possibile è
necessario (ciò che è necessario è infatti anche possibile) o soltanto possibile (accade ma non
necessariamente) e, in tal caso o “accade per lo più” (è la situazione delle realtà fisiche), o accade
accidentalmente, cioè in modo contingente. La contingenza non è la negazione della logica e della
conoscenza, ma una modalità logica che permette di cogliere ed esprimere il modo di essere di
realtà non determinabili per il numero indefinito (indefinibile) dei suoi elementi o momenti
occorrenti. Nella sua Fisica Aristotele si occupa a lungo di termini che sembrano comportare la
negazione della scienza e della conoscenza: “caso” e “fortuna”; ricorrenti nel linguaggio quotidiano,
essi non sono fuori dall’ambito “scientifico”, indicano, forse in modo non definitivo, situazioni che
rimandano, per la propria spiegazione alla dottrina delle cause e, rispettivamente, alla causa
materiale e alla causa finale. «[195 b 31] Anche fortuna e caso [e týche kai tò autómaton] sono
annoverate tra le cause: molte cose esistono e si generano per fortuna o per caso. In qualche modo
dunque anche fortuna e caso sono fra le cause.» (Aristotele, Fisica) “La fortuna… ha a che fare con
la scelta, quindi si riferisce solo agli enti che hanno la capacità di agire. Il caso, invece, vale per tutti
gli altri esseri.” (L.Ruggiu da sintesi II, 6, p. 71)
3.3.1.2. Il ricorrere storico quotidiano della contingenza e le reazioni di fronte al suo comparire. «È
il momento dell’entrata in scena della contingenza, cioè dell’attributo che da Aristotele in poi
associamo agli enti la cui esistenza non è necessaria ma possibile, in quanto né giustificata né
negata da alcunché di necessario e di esterno a essa. È dunque una categoria di possibilità e di
autonomia. Quando due catene causali indipendenti come abbiamo visto si incontrano, producono
un evento che definiamo “casuale”, ma che sarebbe più corretto definire “contingente", perché
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frutto dell'interferenza non necessaria fra due dinamiche che, avendo per conto proprio una loro
logica, l'hanno reso possibile. Se in una giornata decisamente sfortunata un uomo porta a passeggio
il suo cane e transita sotto una grondaia proprio nel momento in cui sta cadendo una grossa tegola,
diciamo che si è trattato di morte “accidentale”. Che cosa è successo? La catena causale che ha
portato quell’uomo a uscire con il cane proprio a quell’ora e a fare proprio quel tragitto (e prima
ancora a prendere con sé un cane pur abitando in un condominio, a trasferirsi in quella città, e così
via) incrocia beffardamente un’altra catena causale, che dalla mancata manutenzione porta al
deterioramento di un vecchio tetto, da questo al distacco delle tegole, al loro lento scivolamento
verso il basso durante le giornate di pioggia e di neve, e infine al colpo di vento che innesca la
caduta finale di una di esse lungo la verticale che termina proprio in quel punto del marciapiede in
quel momento. Una coincidenza sfortunata: ma in che senso esattamente?
Se guardiamo dentro ciascuna delle due catene causali, tutto ha una logica e un filo, tanto che ci
viene facile ricostruire la linea delle cause e delle conseguenze che hanno portato a un certo esito.
Ma quando le due linee si incrociano, l’evento che si produce nella congiunzione ci appare invero
improbabile e “casuale”. Ciò è dovuto al fatto che le due catene causali sono del tutto indipendenti
l’una dall’altra. Sono autonome e la loro congiunzione è solo possibile. Tuttavia, l’effetto della
contingenza è così straniante che la nostra mente è portata a rovesciarlo. Quante volte, in evenienze
analoghe, abbiamo sentito un commento di questo tipo: “Certo però, era proprio il suo destino”.
Perché se l’uomo quel giorno non avesse deciso di cambiare strada, se non fosse uscito mezz’ora
prima del solito, se non avesse trovato la serratura ghiacciata, se l'edicolante non l’avesse trattenuto
per fare quattro chiacchiere, se, se, se... non sarebbe successo niente.
L’intromissione dell'inaspettato si trasforma nella faccia spietata di un fato amaro. Ci concentriamo
sul numero di coincidenze che malignamente hanno congiurato contro quell’uomo. Di questo passo
ci convinciamo che “non può essere stato un caso”, che deve esserci sotto qualcosa, che le due
catene causali in realtà erano legate, che quella tegola conteneva un messaggio, un segno, il
compimento di un destino. È uno schema di ragionamento, tipicamente umano, che fa sì che ciò che
appare molto improbabile ci sembri anche impossibile, e che come tale debba allora essere spiegato
attraverso un disegno, un piano, l’intenzione di qualcuno (Girotto, Pievani, Vallortigara, 2008). ln
realtà gli eventi improbabili accadono sempre, sono la norma, e non hanno bisogno di finalità
intrinseche. E quando partecipiamo a milioni alla lotteria sappiamo addirittura che un evento
altamente improbabile, una vincita, succederà sicuramente a uno dei giocatori.» (Pievani 2011, 114116)
3.3.2. le basi empiriche biologiche della contingenza. Le osservazioni di Darwin pongono al centro
della propria analisi il tema della estrema e imprevedibile varietà fenomenica delle forme del
vivente, ed è a questa varietà che viene consegnata la logica dell’evoluzione e della conseguente
definizione delle specie. Il dato empirico della estrema varietà quale si manifesta nella osservazione
dei viventi, nei diversi contesti ambientali, nei diversi momenti storici, nei diversi modi con cui
entrano in contatto con le tecniche umane, impone lo strumento logico della contingenza per
cogliere la vera essenza dell’evoluzione e, in essa, la vera natura del vivente. Cioè, la contingenza
come definizione strutturale del vivente. L’introduzione di un principio intelligente ed operante
secondo un piano rende incomprensibile la varietà senza fine delle forme del vivente e rischia di
consegnarla ad una impressione di assurda inutilità.
«Contingenza allora non è sinonimo né di “puro caso”, anche se i due concetti sono piuttosto vicini
e li si può talvolta confondere, né tantomeno di impossibilità di spiegare e di comprendere il
processo storico. La contingenza non contraddice il fatto che la selezione naturale sia il motore di
fondo dell’evoluzione. Non contravviene ad alcuna legge fisica e non esclude alcuno dei molteplici
meccanismi di base dell'evoluzione. È dunque errato associare la contingenza evolutiva all’idea che
il successo o l’insuccesso nella lotta per la sopravvivenza siano dovuti al puro caso insensato, da
intendersi quale opposto dell’adattamento funzionale, come sostenne nel 1995 il filosofo Daniel
Dennett in un’acre e mal posta polemica con Gould. Se un evento accidentale può dare avvio a
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nuovi taxa e cambiare il volto della storia naturale e se i prodotti dell’evoluzione dipendono
sensibilmente dalla variazione di una o più condizioni iniziali a un certo tempo, allora significa che
il processo è intrinsecamente imprevedibile e irripetibile, benché ciò non escluda che l’intero
processo sia retrospettivamente intelligibile. La contingenza è dunque meno implicata con il “puro
caso" di quanto non sembri, ed è semmai più imparentata con il significato di fondo di ciò che noi
chiamiamo, semplicemente, “storia”.
L’intelligibilità di un processo storico si ottiene attraverso la comparazione e la concordanza di dati
eterogenei, attraverso inferenze verso la spiegazione migliore (Okasha, 2002) e attraverso
l’individuazione, quando va bene, di schemi ricorrenti e pattern sottesi. La contingenza è la scienza
del dettaglio e come tale possiede sia un’accezione epistemologica, che dipende dalle nostre
capacità di osservazione (cioè l’imprevedibilità della traiettoria evolutiva), sia un’accezione
ontologica, che dipende dalla natura del processo evolutivo (cioè un insieme di interrelazioni
causali eterogenee nelle quali il singolo evento può essere dirimente per il risultato finale). Certo,
entrambe le accezioni sono esposte all’obiezione classica del dio onnisciente: è soltanto perché non
conosciamo tutte le singole cause delle mutazioni che le definiamo casuali; è soltanto perché non
conosciamo in modo infinitamente preciso tutte le catene causali che i loro intrecci ci sembrano
fortuiti; è soltanto perché non conosciamo esattamente i dettagli di ogni discendenza di cause ed
effetti che il singolo evento deragliatore ci sembra aleatorio. Ma il test del dio onnisciente gode
dello stesso grado di inutilità convenzionale del test del film della vita.
Noi non siamo onniscienti e non abbiamo la macchina del tempo: nonostante ciò, siamo interessati a
capire perché la storia naturale è andata in un certo modo. La teoria dell’evoluzione ci soccorre e ci
offre risposte esaurienti, per quanto incomplete come è normale che sia nella scienza. Da queste si
evince che la selezione non è un ingegnere ideale impegnato in un lavoro di “ricerca e sviluppo” di
soluzioni ottimali, bensì, per restare nell’ambito delle metafore antropomorfe, un artigiano
ingegnoso che fa quello che può con il materiale a disposizione (Jacob, 1978) e trova di volta in
volta compromessi accettabili ed economici con gli altri fattori di cambiamento, finché uno
smottamento esterno non cambia di nuovo le regole del gioco. L'evoluzione non segue dunque
ascese sconfinate per raggiungere picchi di massima efficienza, ma si addentra nei mille rivoli e
meandri del fiume della contingenza.
Se nonostante tutto ciò, ed è un “nonostante” alquanto impegnativo, intendiamo sostenere che nella
storia naturale si nasconde una necessità, o una direzione — o una “freccia del tempo” sotto le
mentite spoglie di “tendenze" — allora dobbiamo trovare elementi che mostrino come l’esito attuale
fosse in qualche modo privilegiato fra gli altri, fosse più probabile, in quanto sospinto da una logica
interna dell’evoluzione. Se poi ancora — ed è un “nonostante” questa volta temerario —
intendiamo sostenere che nella storia naturale si nasconde non solo una necessità ma anche una
finalità, dobbiamo trovare elementi che mostrino come il suo esito attuale fosse non soltanto l’unico
possibile, ma addirittura il fine ultimo del processo stesso. Dobbiamo cioè dimostrare che il
presente realizzato ha causato il processo stesso, attirandolo a sé fin dall'inizio. In entrambi i casi,
cruda necessità o finalità intenzionale, l’onere della prova spetta a chi le ipotizza. Ed è qui che ogni
“teleologia evoluzionistica” si scontra con la dura realtà delle evidenze in nostro possesso. Evidenze
che testimoniano, oltre ogni ragionevole dubbio, del carattere radicalmente contingente della storia
naturale che ha portato fino a noi e della vertiginosa sequenza di biforcazioni, di catastrofi, di
estinzioni, di perturbazioni e di deviazioni che hanno plasmato il corso dell’evoluzione.» (Pievani
2011, 126-128)
3.3.2.1. La formula recente dell’“equilibrio punteggiato”. Proposto all'inizio degli anni Settanta del
XX secolo da Stephen Jay Gould e da Niles Eldredge, il concetto di equilibrio punteggiato ha
segnato una svolta decisiva negli studi dedicati all’evoluzione delle specie. In quegli anni era
predominante l’immagine del processo evolutivo come una progressione graduale e cumulativa di
caratteri, un meccanismo di lento e inesorabile avanzamento. La documentazione fossile sembrava
però non confermare questa ipotesi; il dato empirico ricavabile dalle analisi sul campo dipingeva un
quadro differente, formato da lunghi periodi di stasi, che potevano durare milioni di anni,
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intervallati da bruschi e rapidi eventi di speciazione, ovvero i processi biologici ed ecologici
“punteggiati” che portano alla formazione di nuove specie. La scoperta di Gould ed Eldredge riuscì
a spiegare la mancanza di reperti fossili che documentassero il passaggio necessariamente graduale
tra una specie e l’altra, e a riavvicinare in questo modo i dati effettivi della paleontologia alla teoria
dell'evoluzione. Gould è ritornato su quel tema nel suo capolavoro La struttura della teoria
dell’evoluzione … omaggio a uno dei pensatori più influenti del secolo che si è appena chiuso e alla
potente intuizione che un secolo e mezzo fa portò Charles Darwin a ridisegnare e a ripensare il
nostro rapporto con la Terra e con gli esseri viventi che la popolano […] ... sottolineando la
centralità della contingenza storica in ogni analisi teorica e nel modo di intendere l’evoluzione e i
risultati del processo.» Gould Stephen Jay 2007 L’equilibrio punteggiato, codice edizioni, Torino
2008, seconda di copertina e VIII) Tesi che, accanto alla piena valorizzazione delle ricerche e teorie
del “genio” di Darwin, si accompagna a due prese di posizione: [1] alla critica nei confronti delle
teorie degli adattamenti dovuti alla selezione naturale; critica generale all’adattazionismo per i molti
dubbi di metodo e i difficili riscontri empirici geologici e biologici; [2] inoltre, la tesi degli
“equilibri punteggiati” esclude l’idea di risolvere le discontinuità formulando l’ipotesi o avviando la
ricerca dell’anello mancante. Osserva Giulio Barsanti: «Nel 1972 Niles Eldredge e Stephen Gould
contestano che l’evoluzione sia prevalentemente filetica (rappresentabile con linee oblique),
affermando che essa avviene, nella maggioranza dei casi, per speciazione — e speciazione
improvvisa. È la teoria degli «equilibri punteggiati», con cui si tenta di render conto della mancanza
di forme intermedie fra i reperti fossili (la cui serie palesa molte lacune e transizioni morfologiche
repentine) in modo diverso da quello tradizionale. La spiegazione convenzionale (gradualistica)
consisteva nell’assumere che le forme intermedie fossero esistite ma che solo una loro piccola parte
ci fosse nota (Lamarck, Darwin) o avesse potuto fossilizzarsi (Darwin). La teoria di Eldredge e
Gould concede invece ai fossili piena attendibilità: se osserviamo sostituzioni improvvise di specie,
e nessun cambiamento all’interno di esse, possiamo pensare che l’evoluzione consista di lunghi
periodi di stabilità intervallati («punteggiati») da bruschi fenomeni di mutamento. I cipressi e gli
eucalipti di Darwin diventano cactus.» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 372)
3.3.3. la prospettiva ontologica implicita nell’evoluzione: la centralità della contingenza è, come
corrispettivo ontologico, la centralità della variazione. Sulle variazioni, sul loro studio, sulla loro
lettura, interpretazione e gestione scientifica si fonda e si gioca l’intera teoria evoluzionistica.
Oggetto di registrazione e studio non è dunque certamente la specie; la sua definizione è oscura, i
suoi confini empirici non sono mai univocamente definiti e non esiste per sé in quanto la sua
nozione rimanda ad una realtà generale o generico; esistono infatti soltanto i viventi individuali o
singolari nella dinamica del loro contesto ambientale. In termini metafisici: la biologia
evoluzionistica non fa riferimento ad una ontologia di carattere sostanzialistico, ma ad una
ontologia fattuale (ontologia dei fatti e non delle cose o delle sostanze) e alla conseguente
contingenza che una simile base richiede (anche per questa prospettiva di fondo, oltre che per il ben
più rilevante riscontro empirico e richiamo ai dati reali, risultano inconciliabili tra loro una
impostazione evoluzionistica e una impostazione fissista creazionista sul tema del vivente).
Lo stesso Darwin affronta con lucida consapevolezza metodologica il problema centrale della
biologia nella registrazione dei fatti, delle varianti e nella individuazione delle specie sia nel campo
dell’allevamento (più o meno domestico) sia nel contesto naturale: «Penso che queste
considerazioni diano una spiegazione più esatta di un fatto che è già stato rilevato altre volte, cioè
che non si sa nulla dell'origine o della storia delle nostre razze domestiche. Ma, a dire il vero, non si
può affermare che una razza, così come il dialetto di una lingua, ha un'origine ben definita.»
(Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980, 136); «Prima di applicare agli organismi allo
stato di natura i principi puntualizzati nel capitolo precedente, dobbiamo discutere brevemente il
fatto se detti organismi vadano incontro a variazioni. Per trattare idoneamente l'argomento,
occorrerebbe dare un lungo elenco di nudi fatti, che rimando alla mia opera futura. Qui non parlerò
neppure delle varie definizioni del termine «specie» che sono state date finora. Per ora non vi è
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definizione che abbia soddisfatto tutti i naturalisti. In genere il termine contiene un elemento
imponderabile, ossia un atto separato di creazione.» (Darwin 1859 L’origine delle specie da
Barsanti 1980, 138)
È l’ampiezza imprevedibile e continua delle varianti a rendere necessaria ma non definibile in
termini di essenza il concetto stesso di specie, o far decidere tra specie o variante, quando cioè una
variante va intesa come una nuova specie; l’intera indagine della biologia evoluzionistica si gioca
sullo studio delle varianti e sulla loro valutazione in termini di rilevanza o irrilevanza, normalità o
“mostruosità”, in campo tecnico-umano e in campo naturale; resta, quindi, sempre aperta la
possibilità di definire un dato come variante o come specie e trovare su questo terreno l’accordo
stabile tra gli studiosi. «Anche il termine «varietà» è quasi altrettanto difficile a definirsi, però in
questo caso, anche se ben di rado è possibile comprovarla, si presume sempre una discendenza
comune. Abbiamo poi quelle che vengono chiamate mostruosità, che, però, tendono a diventare
varietà. Secondo me per mostruosità si deve intendere una considerevole deviazione strutturale,
limitata a qualche parte, dannosa o inutile per la specie e che, in genere, non si riproduce. […]
Quando un giovane naturalista si accinge a studiare un gruppo di organismi, che gli sono
assolutamente sconosciuti, a tutta prima incontra molte incertezze nello stabilire quali differenze
debbano essere considerate specifiche e quali semplici variazioni. Questo perché non sa nulla della
quantità e del tipo di variazioni cui va soggetto il gruppo, il che, per lo meno, dimostra quanto sia
diffusa la variazione. Se, però, concentra la sua attenzione su un'unica classe, nell’ambito di
un'unica regione, ben presto saprà orientarsi nella sistematica della maggior parte delle forme
incerte. In linea di massima tenderà a suddividere i generi in molte specie, perché, analogamente
all'allevatore di colombi o di polli cui ho accennato prima, rimarrà impressionato dal gran numero
di differenze nelle forme che studia in continuazione, mentre ha scarse conoscenze di ordine
generale sulle analoghe variazioni di altri gruppi in altri paesi, che gli permetterebbero di correggere
le prime impressioni. A mano a mano che amplierà il campo di osservazione, troverà un sempre
maggior numero di casi difficili, perché si imbatterà in un numero sempre maggiore di forme
strettamente affini. Ma se arriverà a estendere di molto le sue osservazioni, alla fine riuscirà, nella
maggior parte dei casi, a decidere quali forme vanno considerate varietà e quali specie; però
realizzerà il suo intento solo ammettendo una notevole variabilità e, assai spesso, la veridicità di
questa ammissione sarà messa in discussione da altri naturalisti. […] Si dedurrà, da queste
considerazioni, che io considero il termine specie come una definizione arbitraria che, per motivi di
convenienza, serve a designare un gruppo di individui strettamente simili fra di loro, per cui la
specie non differisce gran che dalla varietà, intendendosi con questo termine le forme meno distinte
e più fluttuanti. Inoltre, anche il termine varietà viene applicato arbitrariamente e per pura praticità
nei confronti delle semplici variazioni individuali. » (Darwin 1859 L’origine delle specie da
Barsanti 1980, 138-140) «Cionondimeno, a mio vedere, le varietà sono specie in via di formazione
o, come le ho chiamate, specie incipienti.» (Darwin 1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980,
153) «Ed ora qualche parola sulle circostanze molto favorevoli o contrarie al potere selettivo
dell'uomo. Naturalmente un'elevata tendenza alla variabilità è favorevole, in quanto offre
abbondanti materiali sui quali applicare la selezione. Comunque anche le semplici differenze
individuali bastano in larga misura, se trattate con estrema oculatezza, ad accumulare una grande
quantità di modificazioni praticamente in qualsiasi direzione voluta dall'uomo. Ma le variazioni
chiaramente utili o piacevoli per l’uomo compaiono solo occasionalmente. Perciò la possibilità che
compaiano è tanto più grande quanto più alto è il numero di individui che vengono allevati. Ne
consegue che questo è un elemento della massima importanza per ottenere buoni risultati.» (Darwin
1859 L’origine delle specie da Barsanti 1980, 137)
3.3.4. la prospettiva teologica della contingenza; non la negazione della teoria evoluzionistica che
fa leva sul concetto di caso in nome di convinzioni di carattere teologico, ma al contrario, l’ipotesi
di una riscrittura della stessa teologia a partire dallo statuto epistemologico e dagli esiti scientifici
della biologia evoluzionistica e del ruolo in essa svolto dalla casualità.
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3.3.4.1. Una premessa a fugare l’apparente stranezza. Non vi è teologia che non nasca,
storicamente, sullo sfondo di un’impostazione della cultura di carattere filosofico e relativa al
momento storico in cui quella filosofia prende forma. Basta richiamare le molte matrici teoriche
filosofiche della teologia sopraggiunte nel corso della storia della cultura occidentale e negli ambiti
della sua diffusione: platoniche e poi neoplatoniche, aristoteliche e poi scolastiche e neoscolastiche,
stoiche, gnostiche, razionalistiche, liberali, modernistiche, hegeliane, positivistiche, ermeneutiche,
della storia … e, recentemente, della secolarizzazione (nell’area europea), della liberazione
(nell’area sudamericana e africana), della “morte di Dio”, della demitizzazione, dopo Auschwitz, su
basi sociologiche, psicanalitiche ecc. Il tradizionale scontro tra creazionismo ed evoluzionismo
abbandona il momento dello scontro, la fase del poco convincente concordismo (essenza del
pensiero di rilevanti filosofi e teologi come Bergson, Theilard de Chardin), per valorizzare con
pienezza le opportunità teologiche derivanti dalla biologia evoluzionistica e dalle sue coordinate di
metodo. Al centro di questa produttività e di una utile ricostruzione si collocano alcuni concetti
centrali per entrambi: il concetto di “contingenza” e i termini correlati di occasione, possibilità; i
termini patto, alleanza, partecipazione ecc.; in altri termini, la teologia non è formulabile
necessariamente secondo un impianto creazionistico, peraltro fissista e di carattere metafisico
sostanzialistico; ritenere obbligatoria questa impostazione risulta irrispettoso, oltre che per la
scienza, per la stessa bibbia e per la stessa tradizione filosofica cui si pensa di fare riferimento a
propria giustificazione e legittimazione. La teologia recupera la propria autentica funzione e
creatività, anche su base biblica, quando smette di definirsi in contrasto o in rivendicazioni di
autonomia nei confronti della scienza.
3.3.4.2. Né sudditanze, né superiorità, per la teologia come per la filosofia, e perché ogni disciplina
rispetti se stessa. «… non chiederemo alla filosofia di essere assorbita in un rapporto di continuità
stretta con la scienza, ma soltanto di elaborare tesi che, senza sudditanze, siano però compatibili con
i dati scientifici a disposizione. Nel loro essere fonti legittime di conoscenza e di ricerca autonoma,
ci chiederemo se alcune filosofie e teologie che affrontano la novità evoluzionistica contemporanea
rispettino davvero questa clausola liberale oppure no.» (Pievani 2011, 144) Nella contrapposizione
ideologica va in scena il rifiuto delle discipline contrapposte a mettersi in discussione e a rispettare
il valore della concretezza, della ragione, della realtà. «È interessante notare che solitamente in
queste prese di posizione non una sola parola viene spesa per discutere di come, all’inverso, la
teologia debba rimettersi in discussione alla luce di ciò che scopriamo nella scienza. Non una
parola, come se la rinuncia al creazionismo scientifico americano fosse più che sufficiente. I
“limiti” sono sempre quelli della scienza, mai delle altre forme di sapere. Finanche il pericolo di
diventare un “dogma” sarebbe della scienza, e non di qualcun altro.» (Pievani 2011, 166-167)
3.3.4.3. Un esempio nella nuova direzione (e il pensiero va alla molte innovative strade che la
teologia ha percorso nel secolo passato, il ‘900, e sta ancora percorrendo): «Questo sforzo
intellettuale produce ardimentose e interessanti concezioni, come quella della contrazione di Dio
che renderebbe possibile l’esistenza autonoma dell’Universo e persino il suo svolgersi contingente,
una sorta di autorinuncia all’onnipotenza da parte di una divinità sommamente buona e amorevole
che “si lascia sorprendere” dalla contingenza del mondo. Ci si può spingere fino a immaginare,
come fa il padre gesuita George V Coyne, ex direttore della Specola Vaticana, un Dio immanente
nell’evoluzione e non più autocratico, che nemmeno avrebbe saputo prevedere la nostra comparsa
nell’Universo: “Non poteva sapere ciò che non era conoscibile e la comparsa degli esseri umani non
è stata soltanto il risultato di processi necessari, ma di una mescolanza di caso e necessità e di un
Universo molto fertile” (cit. in Chiaberge, 2008, p. 40). Cosi Dio sperava e pregava affinché noi
comparissimo, e la contingenza dell'evoluzione lo ha accontentato: “Dio sperava che noi saremmo
un giorno esistiti. Potrebbe aver pregato perché diventassimo una realtà vivente. Ma non avrebbe
potuto rendere necessario questo esito, perché ha fatto un Universo che non ci ha determinati solo
attraverso processi di necessità” (ibidem, p. 41). Questo Dio partecipativo e non più onnisciente che
spera nella contingenza favorevole è senz’altro molto diverso da quello che ci hanno insegnato a
scuola, ammette Coyne, e non combacia con l'idea che vi siano stati misteriosi “salti ontologici” nel
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corso dell’evoluzione. Non è più nemmeno, alla lettera, un panteismo spinoziano …» (Pievani
2011, 160)
3.3.5. Il contesto che sorregge una nuova relazione tra gli ambiti culturali (scientifici, umanistici,
letterari, religiosi…), senza contrapposizioni escludenti, infondate e lesive: «È dunque tempo di
uscire dal fraintendimento secondo cui una naturalizzazione, senza sconti, dell’identità umana
significherebbe una “riduzione” della sua multidimensionalità e uno svilimento della sua ricchezza.
Lo spazio di un “naturalismo liberale” è sufficientemente ampio per contenere una pluralità di
forme di comprensione del fenomeno umano, che siano rigorosamente compatibili con i dati
sperimentali ma non interamente riducibili a essi (McDowell in De Caro, Macarthur, 2004). Si
garantisce così l’autonomia di saperi umanistici che — argomentando ragioni, valori e significati —
dialoghino con i risultati scientifici, nel contesto di un naturalismo evoluzionistico compiuto, che
rifiuta cioè il ricorso a entità soprannaturali o a dualismi ontologici. Al contrario, è proprio la fuga
in essenze totalizzanti — mondane o ultramondane che siano, ma pur sempre incuranti delle
conoscenze scientifiche — a trasformare l’identità umana in un fantasma esangue, in un pupazzo
senza storia, preda di autoproclamate necessità.» (Pievani 2011, 201)
3.3.5.1. la ragione di fondo, il legame indistinguibile natura-cultura: «Liberiamo allora il campo da
un ingombro filosofico inutile: usare le categorie di naturale e di innaturale è un passo falso che
innesca errori epistemologici a catena, perché ormai i nostri comportamenti e i nostri mezzi sono un
impasto inestricabile di biologia e di cultura, di fisiologia ereditata e di artificio. Non saremmo
umani se non avessimo fin dall’inizio perturbato la natura, anche solo per conoscerla meglio. L'uso
nostalgico della categoria di “naturale” e di “biologico" spazia ormai dall’alimentazione alla
teologia senza soluzioni di continuità.» (Pievani 2011, 202) (cfr. Latour Bruno 1999 Politiche della
natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina editore, Milano 2000)
4. dall’evoluzionismo biologico, sui fondamenti empirici e sistemici delineati da
Darwin, la prospettiva morale e il futuro specifico dell’umanità in termini di etica
civile.
«È chiaro infatti che le due ipotesi estreme e antitetiche … — il “puro caso ” da una parte e la dura
necessità dall’altra — godono entrambe di un vantaggio impalpabile: la deresponsabilizzazione.
Tanto il meramente fortuito quanto l’inevitabile non sono controllabili da un agente, e non
dipendono da noi. Se siamo figli dell’aleatorietà più assoluta o viceversa di leggi inflessibili, se non
persino di un disegno, non possiamo più farci nulla. Rilassiamoci: è tutto già scritto, o nulla potrà
mai esserlo. La falsa dicotomia offre inoltre un indiscutibile vantaggio retorico: se polarizziamo la
discussione attorno a due fuochi antagonistici (da una parte il “puro caso”, dall’altro il disegno di
una mente superiore) e approfittiamo maliziosamente delle nostre repulsioni cognitive per
presentare una delle due alternative come spaventevole e improbabile (ma come, tutto questo, e la
meravigliosa natura umana, frutto del puro caso?), sarà gioco facile condurre per mano i nostri
interlocutori, in cerca di consolazione, verso la (presunta) alternativa opposta, il piano preordinato.
Eh sì, non può essere frutto del caso, dunque non resta che abbandonarci fiduciosi al disegno! La
contingenza è più impegnativa, sotto tutti i punti di vista, perché non fornisce scorciatoie. Ci
distoglie sia dall’alibi del “puro caso” sia dalle uscite di sicurezza finalistiche e antiscientifiche. Ci
prende gentilmente per le spalle e ci chiede di guardare dritte negli occhi le evidenze raccolte, per il
momento, dalla scienza. Il potere causale del singolo evento cambia infatti la prospettiva: se il
passato era aperto, e a maggior ragione lo è il futuro, le scelte contano. Il processo è influenzabile,
la storia si può cambiare, tocca a noi, specie biologica e culturale al contempo. Ne siamo
responsabili, e forse questo non piace. […] Il problema della contingenza è che si sottrae alla
dicotomia e svela l’inganno del “senso”: il senso unico mentale di chi argomenta che la storia ha
“senso” solo se asservita a un progetto che la trascende, altrimenti si va contromano. La
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contingenza, come vedremo nel prossimo capitolo, riscatta invece la storia e le dà un senso proprio,
autonomo, un senso di emancipazione e di responsabilità al contempo. La contingenza non ci
condanna affatto all’insensatezza, semmai il contrario: libera la storia da imposizioni di senso prive
di riscontro e le restituisce il suo senso più profondo, quello della rilevanza del singolo evento,
quello della pertinenza delle nostre scelte, dell’importanza democratica di ogni singolo dettaglio
potenzialmente influente. Ci mostra che dobbiamo sottrarci all’abbraccio stritolante dei due opposti
e, pur con tutte le salutari inquietudini, rinunciare a scorciatoie filosofiche che si presentano con
fattezze invitanti ma in realtà ingannevoli. È a queste vie troppo facili che dedicheremo il capitolo,
prima di passare agli argomenti in positivo che candidano l’insospettabile e fragile contingenza a
valido fondamento secolare di virtù morali e di vita autentica.» (Pievani 2011, 145-146,147)
4.1. la prospettiva morale inclusa nell’evoluzionismo (darwiniano): «Dove ci scopriamo liberi e
responsabili in un vasto Universo che avrebbe potuto benissimo fare a meno di noi, ma che ci ha
permesso di concepire, fra l’altro, la giustizia, e dove si ipotizza a dispetto di molti profeti di
sventura che proprio la contingenza e l’imprevedibilità del nostro divenire evolutivo siano
fondamento robusto e maturo di virtù morali e di “vita autentica”.» (Pievani 2011, 195)
4.1.1. la domanda contesto (ad hominem): «Perché mai dovrebbe avere più “senso” una storia dove
tutto sta scritto fin dall’inizio, dove non possiamo partecipare come reali soggetti autonomi ma solo
essere spettatori adoranti, dove il contrario di un evento realizzatosi era impensabile e
contraddittorio? E non dovrebbe invece avere più “senso” una storia che si snoda mentre succede,
una storia dove nessuno sa mai dove andrà a infilarsi una vicenda apparentemente insignificante,
una storia contingente e libera che cresce insieme ai suoi stessi protagonisti? Ha più “senso” una
storia prevedibile, schiacciata sotto le travi pericolanti della necessità, o una storia all’insegna della
possibilità, una storia, come scrive Robert Musil, capace grazie ai suoi sbandamenti di portarci in
luoghi che non conoscevamo e finanche in territori stupefacenti dove non desideravamo andare?»
(Pievani 2011, 197-198)
«Possiamo insomma svelare le anomalie presenti nelle grandi narrazioni che l’emisfero sinistro —
anche degli scienziati, come abbiamo visto — ha imposto all’evoluzione. Possiamo da qui spingerci
a immaginare quanto sarebbe più emancipante un'alternativa ben fondata: quella di chi accetta la
contingenza della nostra presenza, cogliendone il fascino e il messaggio morale.» (Pievani 2011,
213) « È profondamente scorretto che l’idea dell’indifferenza dell’Universo verso le nostre sorti —
come presupposto di libertà e al contempo di responsabilità verso se stessi e verso la natura —
venga automaticamente tacciata di essere una minaccia per la dignità umana o di rappresentare
finanche un messaggio di disperazione e di solitudine senza fine che non soddisferebbe nemmeno la
ragione.» (Pievani 2011, 213) « “Quanto più l’Universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare
senza scopo. Ma se non c’è conforto nei risultati della nostra ricerca, c’è almeno qualche
consolazione nella ricerca stessa. Gli uomini e le donne non si accontentano di consolarsi con miti
di dei e di giganti o di restringere il loro pensiero alle faccende della vita quotidiana; costruiscono
anche telescopi e satelliti e acceleratori, e siedono alla scrivania per ore interminabili nel tentativo
di decifrare il senso dei dati raccolti. Lo sforzo di capire l'Universo è tra le pochissime cose che
innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, conferendole un po’ della dignità della
tragedia” (1977, p. 170)… Steven Weinberg, premio Nobel nel 1979 per la scoperta della teoria
unificata delle interazioni deboli ed elettromagnetiche.» (Pievani 2011, 213-214)
4.1.2. Una filosofia antitotalitaria, una filosofia della contingenza. «Nell'incertezza e
nell’ambivalenza della nostra condizione scopriamo infatti che non vi era alcuna inesorabile
necessità storica inscritta nel peculiare corso di eventi che si è realizzato: il presente non è una
chiave di lettura retrospettiva necessitante del passato, al quale viene tolta la valenza di
giustificazione del presente. Possiamo fare a meno di grandi racconti edificanti, la cui struttura
mostra in ultima analisi “uno schema di tipo teologico”, e sostituirli con una molteplicità di storie.
Presumere di possedere la “logica profonda della storia” — sia essa una verità terrena o una
rivelazione ultramondana — è stata la premessa di ogni pensiero totalitario (Rossi, 2008). La
contingenza funge da efficace antidoto contro i semi di qualsiasi ambizione totalizzante. Con il suo
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sospetto verso le predizioni futurologiche e le presunzioni di dominare il senso della storia, essa
suggerisce di rifuggire dalla dicotomia fra la disillusione cinica e distruttiva, da una parte (i tanti
profeti di sventura, le previsioni onniscienti di “destini”, la fine della storia), e dall'altra le speranze
eccessive, le escatologie laiche e salvifiche, i tanti paradisi in Terra crollati sotto il loro stesso peso,
la fiducia smisurata nella storia e nel potere performativo di chi è convinto di poter andare oltre gli
attuali limiti biologici. Il controllo della storia rischia di rivelarsi tanto illusorio quanto la nostra
ambizione di dominare i processi naturali su vasta scala e di addomesticarli per garantire uno
sviluppo economico indefinito. Chi conosce la contingenza dovrebbe coltivare previsioni a breve
termine, ipotesi ragionevoli per orientarsi nell’incertezza, cautele nei confronti delle possibili
reazioni di sistemi complessi il cui funzionamento non conosciamo abbastanza, senza con ciò
escludere l’elaborazione di principi etici e di valori che fungano da guida e da orizzonte di azione.»
(Pievani 2011, 215-216)
4.1.3. Una filosofia, un’ontologia e un’etica del divenire: “divenienti umani”, la tensione verso la
propria forma (come da impostazione aristotelica) nella “umiltà” e possibilità evoluzionistica.
«Questa “ etica del finito ” e questa sobrietà di fondo nei confronti di ogni escatologia implicano
che per noi “divenienti umani” — più che “esseri umani” una volta per tutte — è possibile essere
“autentici” rinunciando al proprio bisogno di certezza, di fondazione, di sicurezza, qualora riposto
inopportunamente nella storia naturale o in surrogati moderni dello schema teologico del progresso
(Natoli, 2010).» (Pievani 2011,216)
4.1.4. L’opportunità, la fondatezza epistemologica e il beneficio etico dell’antifinalismo (sia
endogeno che, a maggior ragione, esogeno o trascendente), contro un’etica che fa ricorso o tenta di
fondarsi su di un presunta natura in sé ora descritta in negativo, ora in positivo, non sulla base della
sua osservazione ma delle opportunità dell’etica che si vuole propagandare; («Basti pensare a come
ondeggiano nell'immaginario scientifico e popolare le raffigurazioni dei nostri cugini primati,
scimmie assassine in certi periodi e scimmie empatiche in altri (Barsanti, 2009)» Pievani 2011, 217218). «È infatti un non senso giustificare sul piano naturalistico perché scegliamo il bene e la
giustizia anziché il male e la sopraffazione, giacché lì risiede proprio la specificità umana, la novità
evolutiva (naturale e culturale) della comparsa della specie umana, capace di riflettere sulla propria
storia, sui propri limiti, sui propri vincoli non invincibili. Dunque non è vero che senza una finalità
insita nella natura non può esistere l’etica, semmai il contrario: è proprio perché non esiste una
finalità in natura che l'etica assume il suo valore e la sua indipendenza, come “novità” evolutiva
umana.» (Pievani 2011, 216-217)
4.2. la prospettiva di un “umanesimo evoluzionistico”, formulato con i tratti della democrazia,
fondato sul rispetto e sulla dinamica della evoluzione aperta alla possibilità (prospettiva ricavata
dalle riflessioni di John Rawls su di un “contratto sociale” perenne e originario stipulato nelle
condizioni di un “velo di ignoranza”), per uscire da ipotetici stati di natura descritti ad hoc ora in
negativo ora in positivo. «In altre parole, la specie umana elabora un grande esperimento mentale di
fratellanza democratica per fondare principi ragionevoli di giustizia e imporsi il dovere di
considerare gli altri sempre come individui liberi ed eguali. Come ogni altra grande conquista della
nostra intelligenza simbolica, questo risultato (cioè raggiungere insieme un principio razionale di
giustizia sociale, costantemente riveduto e affinato, ma imparziale) è in parte fondato sui nostri
precursori naturali prosociali, comportamentali e cognitivi, e in parte li contesta e li supera. È un
processo di continuità e di innovazione al contempo. Ma non solo, essa è in grado di cambiare la
nicchia “ecologica”, sociale e naturale, che ci circonda e che a sua volta ci condizionerà. Le
diversità individuali sono di per sé un fatto naturale e arbitrario, ma le società umane possono
decidere di trattare queste diseguaglianze in modo differente (giusto o ingiusto) rispetto a come le
tratta la natura. Detto in altri termini, si stipula insieme un patto originario che prevede il dovere
umano, tipicamente umano, di lottare per una società migliore — che non significa necessariamente
fuga “utopica", ma che i sistemi sociali e di sviluppo non sono da considerarsi immutabili, bensì in
evoluzione essi stessi e modellabili dalle nostre scelte razionali — in cui i meno avvantaggiati dalle
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contingenze della nascita, sostiene Rawls, possano contare sul primato della loro dignità, sulla loro
autonomia kantiana di individui liberi, su pari opportunità, diritti di cittadinanza e rispetto di sé
come bene primario.» (Pievani 2011, 219)
4.3. La rinuncia ai “grandi racconti” e alla corrispettiva “grande domanda”. La filosofia della
contingenza e l’etica della partecipazione nel contesto della evoluzione come campo di possibilità,
comporta la rinuncia ai “grandi racconti”, diventa la rinuncia alle domande totali, alla “grande
domanda” del senso del tutto. Domande totali, iniziali o finali, che per lo più, quando non si
presentano come punti prospettici di un possibile progetto, sono false domande; si tratta infatti di
domande che nascono allo scopo di proporre risposte già formulate e a disposizione; sono dunque
domande di tipo retorico; aprono, sorreggono e intendono diffondere o propagandare impianti
ideologici preformati e infondati. In tal caso, la rinuncia alle grandi narrazioni non appare come
rinuncia ma come conquista; essa si basa infatti sulla comprensione della non ammissibilità di
quelle domande totali per il loro intrinseco e irredimibile “non-senso” (il richiamo va alle posizioni
filosofiche espresse da Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus).
«Tuttavia, la rinuncia ai “ grandi racconti” resta un compito controintuitivo perché va contro le
preferenze cognitive ed emotive profonde di una mente che cerca “iconografie della speranza” per
distogliere lo sguardo dall’evidenza della nostra perifericità nelle storie dell’evoluzione. Per evitare
questo dovremmo mostrare sempre che la contingenza esalta quel “senso della possibilità” di cui
scrive Musil all'inizio di L'uomo senza qualità e offre un'ottima opportunità di emancipazione. Se il
possibile è la norma della convivenza umana significa che è nelle nostre “potenti facoltà” (senza
sopravvalutarle) far evolvere e migliorare le società per dare dignità a questa presenza
improbabile.» (Pievani 2011, 223) Di contro, invece: «siamo ciechi dinanzi al caso e alle grandi
deviazioni del corso degli eventi prodotte da circostanze di scarsa prevedibilità e al contempo di
enorme impatto, che psicologicamente cerchiamo sempre di addomesticare a posteriori dando loro
un “senso” estrapolato dalla storia pregressa. […] All’opposto di chi pensa che l’imprevedibilità
tolga “senso” a quanto accaduto, la contingenza restituisce in realtà il massimo valore alla storia che
si è realizzata e al “cigno nero” che improvvisamente fa la sua comparsa, entra in relazione con una
trama di altre circostanze impreviste e diventa una grande deviazione. Se in miriadi di occasioni
siamo stati vicinissimi all’essere cancellati come possibilità futura, dato che il corso degli eventi
avrebbe potuto imboccare un’altra strada, non meno ragionevole e comprensibile a posteriori della
nostra, significa che esistono biblioteche intere di storie irrealizzate che non contemplano la
presenza di Shakespeare, di Leonardo da Vinci, di Giotto, di Mozart, dei vaccini e degli antibiotici,
di Mandela, di Leonard Cohen, e dell’11 settembre. Intere biblioteche di altri mondi privi del
tessuto sterminato di atti di meschinità e di gentilezza, di gesti di viltà e di bontà, che ci fanno
essere umani.» (Pievani 2011, 223-224)
4.4. contingenza e libertà, quindi etica. «Siamo liberi e responsabili, in questo frammento di
tempo che è dato in dono di vivere. Nella contingenza dei nostri cammini individuali, condividiamo
un’appartenenza naturale e planetaria. Dentro questa cornice di condivisione possiamo cogliere le
opportunità della nostra unicità evolutiva, in quanto titolari della norma morale che decidiamo
liberamente di darci e capaci di immaginare ciò che ancora non esiste, capaci cioè di scommettere
sulla solidarietà e sulla giustizia, nei confronti dei nostri simili e del resto del vivente, come scelte
virtuose, e dall’esito incerto come ogni scommessa. Per onorare l’appartenenza di specie, ci
accorgiamo che cogliere la ricchezza della contingenza non significa per nulla affogare la storia
naturale nell’intimidazione del “puro e cieco caso”, ma al contrario significa apprezzare la
fisionomia particolare di un processo il quale rispetta al suo interno vincoli, regole, schemi ripetuti,
e tuttavia resta intrinsecamente imprevedibile, privo di una necessità a priori, soggetto al potere
causale del singolo evento. […] Inoltre, contingenza non significa affatto che la provvisoria
permanenza di un essere pensante — il quale tradisce troppo spesso il suo participio di specie —
debba venir banalmente goduta nell’immanenza dell’effimero: essa al contrario immerge il
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frammento di esistenza singolare nel tempo profondo della continuità evolutiva e ci pone davanti ai
doveri e alle responsabilità che abbiamo sia verso le generazioni passate, dalle quali ereditiamo un
mondo che non ci appartiene, sia verso le generazioni future, dalle quali prendiamo in prestito un
mondo che egualmente non ci appartiene. È una forma di scetticismo razionale e attivo, per nulla
rassegnato e per nulla disperato. La contingenza richiede quindi un’etica non soltanto della
prossimità spaziotemporale e della solidarietà fra chi condivide un tratto di strada, in un mondo che
sappiamo non essere infinito, ma richiede anche, e forse principalmente, un’etica della
lungimiranza.» (Pievani 2011, 225-226)
«La capacità di pensare la contingenza e la finitudine induce all’azione, non alla rassegnazione. Se
non ora quando? Sapere che il futuro non nasconde una filigrana di necessità, e che siamo come un
lampo in una lunga notte, è alimento essenziale per questa fiducia.» (Pievani 2011, 227)
«È il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, di un’evoluzione non necessaria ma
possibile. Nella meraviglia di questo esistere non pianificato si aprono le opportunità di decidere del
proprio futuro. Ed è una possibilità realmente e compiutamente etica proprio perché non la
deleghiamo al senso ultimo di un presunto ordine naturale necessitante. Dipende da noi. Siamo
liberi e responsabili di fronte a questa possibilità, non certo pretendendo di cambiare
velleitariamente la natura umana dall’oggi al domani, ma sperando ragionevolmente di condizionare
la sua ulteriore evoluzione, naturale e culturale, a favore di migliori condizioni di esistenza, di
dignità per ogni essere umano e di convivenza con l'insieme degli ecosistemi che ci permettono di
sopravvivere. C’è poi un impegno etico, nei confronti dell’Universo, che dobbiamo onorare.
Dobbiamo sollevare l`Universo dalle nostre pretese, smettendola di rifugiarci in tautologie
rassicuranti …» (Pievani 2011, 233)
«… e pur tuttavia speranze umane, tipicamente umane (perché non basate su fantomatiche logiche
del mondo), speranze di specie, speranze su generazioni a venire, speranze che danno un senso
solidale, tutto nostro, a ciò che di per sé un senso non ce l’ha. L’impossibilità di dirigere la storia e
di rimuovere la contingenza non annulla quindi il dominio delle finalità, ma lo attribuisce
propriamente alle intenzioni umane, alla nostra capacità di darci fini perseguibili e limitati. Nei
confronti della credulità umana possiamo infatti avere un atteggiamento scientifico e capire perché
siamo “nati per credere”. […] Crediamo allora nel futuro, se proprio dobbiamo credere a qualcosa.
Perché adesso sappiamo che nessuna necessità ce lo può rubare.» (Pievani 2011, 235-236)
5. fare scienza nella rivoluzione epistemologica ad opera della biologia
evoluzionistica secondo il modello portato a chiarezza da Charles Darwin
(La rivoluzione epistemologica nella biologia evoluzionistica: aspetti di metodo)
5.1. esperienza e teoria legate ad una identica sorte di successo conoscitivo, poiché non
esistono prove “nude e verginali” per lo scopritore.
Il lavoro dello scienziato nell’operare di Darwin: “struttura interpretativa” in progressiva
definizione per “fatti curiosi”, geologici e biologici, in progressiva emersione; o come nasce e
prende forma, con aggiustamenti continui, una teoria. «Nulla meglio del passaggio di Darwin alle
Galapagos mostra come nella scienza le prove non si presentino nude e verginali al loro scopritore.
Non avendo a disposizione una struttura interpretativa adeguata, ciò che virtualmente è l'evidenza di
una nuova grande teoria appare a prima vista come un disordinato insieme di fatti curiosi, di
stranezze naturalistiche associate a scenari geologici ottimamente descritti. Il talento di Darwin è
però quello di non rimuovere gli indizi stravaganti, di curare con grande perizia le osservazioni sul
campo, di rimuginare meticolosamente su di esse, di provare a reinterpretarle a più riprese e di
compararle con altre. […] … mentre ripensa a quanto ha osservato e si accorge di quale distanza
separa la confutazione di una vecchia idea fallimentare dalla costruzione di una teoria
alternativa…» (Pievani 2012, 26-27)
5.1.1. la scienza è consegnata ai mutamenti del reale.
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«È partito con una concezione del mondo ed è tornato con una completamente nuova, per quanto
ancora incerta, che contempla esplicitamente la trasformazione dei viventi, la loro parentela storica
e il loro adeguarsi alle mutevoli circostanze ambientali. È stato un viaggio di iniziazione, un
romanzo di formazione da cui nascerà una rivoluzione scientifica. […] Non è consapevole di essere
in procinto di costruire una teoria che cambierà per sempre il modo di concepire la natura. In pochi
mesi, però, scrivendo i suoi pensieri giorno per giorno, segretamente, su piccoli taccuini tascabili,
innalza un’architettura di idee che porterà per la prima volta uno scienziato a comprendere non
soltanto la realtà dell’evoluzione biologica, ma anche il suo meccanismo fondamentale. È l'inizio
del secondo viaggio, il viaggio mentale della scoperta.» (Pievani 2012, 29, 30)
Non si tratta di edifici teorici, empiricamente fondati, che si presentano come depositari della verità
inequivocabilmente e definitivamente raggiunta, ma di procedure di ricerca che rendono possibile la
conoscenza scientifica. Darwin «Sa porsi le domande giuste, più che dare le risposte corrette.»
(Pievani 2012, 34)
5.1.2. le due classiche coordinate di metodo (esperienza e teoria, induzione e deduzione) e il loro
continuo rimando per la reciproca e momentanea validità.
«In questi Taccuini centrali Darwin mostra anche un interesse crescente per questioni
epistemologiche, con apprezzamenti sempre più marcati per un metodo in parte ipotetico-deduttivo
e in parte induttivo, in cui si susseguano confluenze di induzioni (mettere in ordine fatti sparsi),
spiegazioni (le cause o leggi che producono il cambiamento delle specie) e previsioni su fatti non
ancora noti. […] Prima che i fatti siano raggruppati e dei nominati, non vi può essere predizione.
L'unico vantaggio di scoprire leggi è prevedere che cosa accadrà e vedere una connessione tra fatti
sparsi» (Taccuino D, p, 67). Prende forma la peculiare metodologia darwiniana, descritta tempo
dopo anche dal figlio Francis: né ingenuo induttivismo da raccoglitore di fatti curiosi, né
deduttivismo speculativo e astratto da filosofo sistematico, bensì una miscela potente di acume
osservativo e di sintesi teoriche. […] Cerca sempre di anticipare gli avversari, immaginando le loro
obiezioni per prevenirle. È significativo che durante il processo di scoperta lo scienziato stia
riflettendo razionalmente sul proprio metodo. In un corpo a corpo incessante, vede schemi di
connessione tra fatti sparsi, armato dei quali torna poi alle osservazioni, e poi di nuovo alla teoria in
un andirivieni di revisioni, errori rivelatori, congetture e confutazioni. Più che un’epifania, sembra
una lotta, la scalata di una vetta controintuitiva, così poco inconscia che ne coglie subito le
implicazioni filosofiche: se ho visto bene, nota quasi impaurito, vuol dire che non vi è finalità
intrinseca nella storia della natura e che la teologia naturale poggia su piedi d’argilla. […] …
(aggiungendo, per contrasto, che il problema della teologia naturale era proprio quello di non
riuscire a predire nulla e di non avere quindi lo status di una spiegazione scientifica).» (Pievani
2012, 48-49)
5.2. il movimento della scienza: informazioni, programmi, significato; queste tre coordinate del
movimento della scienza e il loro legame - riferimento alla biologia evoluzionista: informazione,
conservazione, evoluzione (in particolare: le tesi di Hutten H. Ernest 1974 La scienza
contemporanea. Informazione, spiegazione e significato, Armando editore, Roma 1975).
5.2.1. Impostata su basi genetiche ed ereditarie la teoria dell’evoluzione diventa una teoria della
conservazione: la casualità della variazione introdotta («il caso acchiappato al volo» Jacques
Monod) ha effetti evolutivi solo se viene registrata, viene conservata e moltiplicata attraverso la
trasmissione ereditaria; il vivente è dunque un meccanismo di conservazione (vedi gli effetti
reduplicativi e moltiplicatori del DNA)
«Si deve dunque ammettere che la sequenza ‘casuale’ di ciascuna proteina sia riprodotta, migliaia o
milioni di volte, ad ogni generazione, in ogni organismo e in ogni cellula, da un meccanismo ad alta
fedeltà il quale garantisce l’invarianza delle strutture.» (Monod, Jacques 1970 Il caso e la necessità,
Mondadori, Milano, p. 84)
5.2.2. in questo contesto prende nuova forma il dibattito sulla contrapposizione e relazione tra
ambiente ed eredità (storicamente i dualismi tra innatismo ed empirismo, tra carattere o scelta …
34
dualismi alla radice di infiniti dibattiti generati dalla semplificata formulazione del tema). Sul tema
una recente composizione: «i geni sono fatti per raccogliere i suggerimenti dell’ambiente. …la
conoscenza del genoma ha effettivamente cambiato tutto… arricchendo i termini della disputa su
entrambi i fronti, fino a farli incontrare nel mezzo… Non si tratta più di contrapporre eredità e
ambiente … sono i geni che mettono la mente umana in condizione di apprendere, ricordare, imitare
“imprintarsi”, assorbire cultura e esprimere istinti. I geni sono al tempo stesso causa e conseguenza
delle nostre azioni.» (Ridley Matt Il gene agile. La nuova alleanza tra ereditarietà e ambiente,
Adelphi, Milano 2005, pp. 17-21)
5.2.3. informazioni – programmi – significato. Le tre parole definiscono il vivente nella sua essenza
di relazione ambientale. Raccoglie le informazioni, le trasforma in programmi (il patrimonio
genetico), il programma svolge la funzione significante: attribuisce significato all’informazione nel
contesto di una gestione teleonomica del dato ambientale.
«L’evoluzione è sia sviluppo che differenziazione. Il dinosauro si estinse a causa del troppo
sviluppo (e organizzazione) e dell’insufficiente differenziazione. Gli insetti hanno mantenuto il loro
basso stato perché divennero troppo specializzati, in modo da poter sopravvivere solo attraverso lo
sviluppo « artificiale » di colonie, come i formicai. La libertà dovuta all’organizzazione caratterizza
l’evoluzione come un processo informazionale. …… il significato è mediato da relazioni e dato
mediante regole, i vincoli, o informazione immagazzinata, ci permettono di classificare i simboli e
assegnare loro un significato… Si genera quindi informazione se il reticolo dell’informazione
immagazzinata — la struttura della ridondanza — è in grado di mutare l’incertezza in informazione
imponendo delle regole.» (Hutten, E.H. 1974 La scienza contemporanea. Informazione,
spiegazione e significato, Armando, Roma 1975, pp. 155,156,158).
5.2.4. La biologia diventa contesto di definizione e scoperta della contemporanea epistemologia;
il vivente, definito strutturalmente dall’evoluzione, si presenta come modello culturale per il sistema
della complessità. Due esempi di legame tra processi epistemologici e processi evolutivi.
5.2.4.1. «La massa reale, o quantità, di innovazione che si verifica, in un dato campo, in qualsiasi
periodo può essere distinta dalla direzione cui questa innovazione prevalentemente tende; ed
entrambe possono essere distinte a loro volta dai criteri di selezione che determinano quali varianti
vengono perpetuate all’interno della tradizione.» (Stephen Toulmin in Lakatos Imre, Musgrave
Alan (a cura di) 1970 Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1986, p. 116-117)
Non bisogna quindi confondere quindi l’accumulo dei dati con la direzione dello sviluppo; a legare
i due ambiti sono criteri di selezione definiti da variabili imprevedibili, presenti nella stessa
tradizione.
5.2.4.2. «Per riuscire ad adattarsi in modo efficace, i sistemi devono spostarsi verso condizioni
lontane dall’equilibrio, dove hanno la flessibilità sufficiente per trasformarsi ma, anche, la stabilità
necessaria per conservare i cambiamenti e le modificazioni. […] Stuart Kauffman osserva «Se la
scienza del XVIII secolo, seguendo la rivoluzione newtoniana, è stata caratterizzata dallo sviluppo
delle scienze della semplicità organizzata mentre quella del XIX secolo, attraverso la meccanica
statistica, si è concentrata sulla complessità disorganizzata, le scienze del XX e del XXI secolo sono
destinate a confrontarsi con la complessità organizzata. In nessun luogo questo confronto è
altrettanto evidente che nella biologia.» Come suggerisce il titolo del libro (Origins of Order. SelfOrganisation and Selection in Evolution), Kauffman considera il processo stesso dell’evoluzione un
sistema autorganizzato. I dibattiti tra i neodarwiniani e i biologi che s’ispirano alla teoria della
complessità ripropongono importanti aspetti della polemica che oppose Darwin ai suoi avversari,
testimoniando l’ancora attuale significato filosofico e teologico di un’antica controversia.» (Taylor
Mark C. 2001 L’emergere della cultura a rete, Codice, Torino 2005, p. 219, 220)
5.2.5. Una rivoluzione per inglobamento. Questo il movimento scientifico proprio della teoria
evoluzionistica di Darwin con riferimento al momento storico in cui viene formulata e alla modalità
per trattamento e lettura dei dati. In forma di bilancio di metodo, osserva Giulio Barsanti:
«Rivoluzioni per rigetto e per inglobamento. L'opera darwiniana può essere considerata un
eccezionale lavoro di sintesi, anche se straordinariamente ingegnoso», che ricorda il fenomeno che
35
si verifica quando, «in una soluzione soprasatura, la lenta crescita di concentrazione delle sostanze
determina bruscamente [...] una transizione dallo stato liquido al conglomerato cristallino», e perciò
non si configura affatto come una rivoluzione nel senso classico e usuale del termine ( una
rivoluzione per rigetto della tradizione), bensì come una rivoluzione per inglobamento (in questo
caso, del lamarckismo). Ciò, unitamente al fatto che Darwin fosse «un naturalista vecchio stile»,
che più che di microscopio lavorava di macroscopio, irrita assai coloro — e non sono pochi — che
considerano l'opera di Darwin rivoluzionaria per essere egli riuscito ad "anticipare" o "precorrere",
per esempio, soluzioni genetistiche (che erano allora impensabili); ma essi farebbero meglio a
meditare su quanto è straordinario il fatto che una rivoluzione per inglobamento della tradizione non
cessi, per ciò stesso, di configurarsi come una rivoluzione — la rivoluzione consistente nel
passaggio da un meccanismo istruttivo, come si dice oggi, al meccanismo selettivo.
Molti elementi della teoria darwiniana erano già noti o comunque accettati: ma il fatto che essa
consistesse, come fu detto, nella «riunione sintetica e il ponderato paragone di una quantità di fatti
conosciuti da molto tempo» e di loro interpretazioni che erano (come la teoria dell’ereditarietà dei
caratteri acquisiti) largamente condivise, non significa che essa fosse un «uovo di Colombo», una
soluzione scontata e perfino banale. Si è detto che la lotta per l’esistenza era un luogo comune «fin
dall’inizio dell’Ottocento»: ebbene va anche sottolineato che tutti coloro che ne avevano parlato
l’avevano considerata, con l'eccezione del solo Wallace, come un fenomeno che garantiva non
l’evoluzione ma al contrario la fissità delle specie. Si pensi a Blyth: la circostanza che «il più forte
deve sempre prevalere sul più debole» ha l’effetto di «preservare le caratteristiche del tipo», ovvero
di «conservare le qualità originarie, senza deformazioni o scadimenti, fin nella più remota
posterità», perché il naturalista inglese assume che sia quella «normale» la condizione più
«vantaggiosa», e perciò che «ogni individuo che devia dalla condizione normale» sia un individuo
«incapace» di qualche prestazione essenziale.» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 251-253)
5.3. la direzione corretta del metodo scientifico generale, suggerito / indicato
dall’evoluzionismo di Darwin e dalla sua forte avversione a lettura di carattere finalistico o
immaginate come ordinate secondo un piano intelligente e preordinato.
Osserva il filosofo fisico epistemologo contemporaneo Thomas Kuhn: «Venticinque anni fa, a due
pagine dalla fine de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, scrissi: “se impareremo a sostituire
l'evoluzione verso ciò che vogliamo conoscere con l'evoluzione a partire da ciò che conosciamo, nel
corso di tale processo potrà dissolversi un gran numero di problemi inquietanti”. Questa
osservazione aveva un proposito filosofico: allo scopo di capire il progresso scientifico non
abbiamo bisogno di supporre che la scienza si avvicini sempre di più alla verità; gli stessi
fenomeni derivano dalla supposizione che la scienza, in qualsiasi momento, evolva semplicemente
dalla sua posizione attuale sotto la pressione della argomentazioni e delle osservazioni attualmente
disponibili. […] È troppo facile imprigionare l’evidenza che ci viene dalla storia all’interno di un
modello predeterminato.» (Kuhn S. Thomas 2000 Dogma contro critica. Mondi possibili nella
storia della scienza, Raffaello Cortina editore, Milano , saggio (1984) Rivisitare Plank, 82-83, 84)
«Anziché concepire il progresso scientifico come un processo teleologico, vale a dire un processo
diretto verso un fine, dovremmo pensare al progresso scientifico analogamente al modo in cui la
teoria evoluzionistica di Darwin pensa all’evoluzione. La teoria darwiniana dell’evoluzione afferma
che non esiste alcuno scopo verso il quale l'evoluzione è diretta. In modo analogo, nello sviluppo
scientifico non c'è alcun “insieme di finalità” che costituirebbe “una verità scientifica stabilita una
volta per tutte” cui la scienza si avvicina. Secondo Kuhn una cosa del genere semplicemente non
esiste. Egli sottolinea comunque che questo non implica che non ci sia alcun progresso nella
scienza. Un tale progresso esiste, ma non nella forma di un incremento di verosimilitudine, o di un
avvicinamento alla Verità. Ha piuttosto luogo un progresso nel senso di “un incremento
dell’articolazione e della specializzazione” della conoscenza scientifica. La caratterizzazione,
ampiamente diffusa, della teoria di Kuhn come interamente relativistica è quindi falsa.» (Kuhn S.
Thomas 2000 Dogma contro critica. Mondi possibili nella storia della scienza, Raffaello Cortina
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editore, Milano, Prefazione di Paul Hoyningen-Huene, p. XIV). E il passaggio già citato: «…
questo processo è un progresso, nel senso in cui si può definire progresso la stessa evoluzione
darwiniana, ossia come un progresso da qualcosa, e non verso qualcosa.» (Kuhn S. Thomas, 1997,
La tensione essenziale e altri saggi, Einaudi, Torino 2006, (Prefazione) di Carlo Bartocci e Giulio
Giorello, Tradizione e iconoclastia, XVIII).
5.4. un legame sempre più evidente: evoluzionismo, scienza e tecnologia.
Tecnologia e evoluzione: come cambia l’evoluzione in rapporto alla progressiva invasività della
tecnologia e l’attenuazione in essa della componente di casualità, la seguente citazione:
Khanna Ayesha, Khanna Parag 2013 L’età ibrida. Il potere della tecnologia nella competizione
globale, Codice, Torino (pagine in […])
«Al contempo il nostro rapporto con la tecnologia sta oltrepassando il livello puramente strumentale
per entrare nella sfera esistenziale. L’influenza delle tecnologie, fuori e dentro di noi, segue un
andamento centripeto in costante accelerazione. Esternamente, la tecnologia non si limita più a
elaborare le nostre istruzioni in una modalità a senso unico, ma sempre più spesso ci fornisce un
feedback intelligente. Da un utilizzo della tecnologia all’unico scopo di dominare la natura stiamo
passando alla trasformazione di noi stessi in una struttura pronta ad essere plasmata dalle
tecnologie, integrandole dentro di noi fisicamente. Non solo usiamo la tecnologia: la assorbiamo.
Nell’età ibrida, quindi, la natura umana cessa di essere una verità distinta e immutabile.
L’economista e premio Nobel Robert Fogel, della University of Chicago, ha dimostrato che le
innovazioni mediche e nutrizionali introdotte a partire dalla rivoluzione industriale, per esempio le
vaccinazioni e gli alimenti integrati con vitamine, ci hanno resi diversi non solo dagli altri
mammiferi, ma perfino dai nostri stessi antenati. L’evoluzione darwiniana non sarebbe in grado di
spiegare questo aspetto, ma quella che Fogel chiama tecnofisio evoluzione lo è. L’evoluzione non
deve per forza essere accidentale e contingente, ma può essere indirizzata e tecnologicamente
assistita. È in atto un tentativo sistematico, frutto dell’unione di genetica, neuroscienze, biologia
sintetica e altre discipline scientifiche, volto a infrangere i codici dei legami gene-comportamento e
ad aumentare la nostra capacità di potenziarci. Oggi la nostra intrusione consapevole nel processo
evolutivo ha fatto di noi ciò che Juan Enriquez, imprenditore nel settore delle biotecnologie, chiama
Homo evolutis [sic]. [8-9]
I semi di quasi tutto quello che avverrà nell’età ibrida sono stati piantati e stanno germinando
dappertutto: una rapida evoluzione dei nostri corpi e delle nostre relazioni sociali, un esplosivo
incremento delle possibilità di scelta in tutti gli aspetti della nostra vita e nuove opportunità per un
attivismo di massa capace di trascendere le nostre istituzioni tradizionali. [9]
Il termine evoluzione sarà in grado di descrivere il nostro rapporto con la tecnologia, oggi sempre
più profondo, o dovremo invece parlare di co-evoluzione umano-tecnologica? [10]
Anziché vedere la tecnologia e l’umanità come due sfere distinte, dobbiamo considerare sempre di
più il fitto legame sociotecnologico in cui entrambe si plasmano reciprocamente. La coesistenza
uomo-tecnologia è così diventata co-evoluzione umano-tecnologica. [14]
Dalla terapia al potenziamento del corpo [62]
Tutti i nostri processi biologici naturali sono sempre più soggetti all’intrusione tecnologica.
L’industria biofarmaceutica Proteus Biochemical, per esempio, introduce all’interno dei farmaci
sensori che, una volta ingeriti, inviano segnali e attivano dei patch per la diagnostica sulla pelle che
misurano reazioni e parametri vitali del corpo. Tecnologie sempre più sofisticate stanno inoltre
spingendo le nostre capacità mediche oltre il confine tra terapia e potenziamento del corpo: lo scopo
è migliorare le nostre abilità fisiche e cognitive al di là del geneticamente determinato. Mentre i vari
settori della medicina creano reciproche sinergie, i laboratori privati portano avanti ricerche
all’avanguardia e le aziende operanti nel campo della salute raccolgono e condividono dati, il nostro
sistema medico sta diventando sempre più generativo, e implicitamente favorisce questo passaggio
verso una cultura del potenziamento. [62]
37
Ci stiamo avvicinando alla possibilità non solo di riparare i nostri corpi, ma di migliorarli. La
biomeccatronica, per esempio, è una scienza applicata interdisciplinare che unisce biologia,
ingegneria elettronica e fisica meccanica per creare protesi artificiali efficienti quasi come gli arti
umani. [63]
Un altro settore ibrido nato di recente è la bioingegneria, in cui si impiegano cellule staminali per
creare nuovi microbi e tessuti che, con la stampa molecolare, possono generare organi o parti del
corpo praticamente dal nulla. [63]
Curiosamente, potrebbero essere proprio i pazienti affetti da gravi patologie i primi a godere dei
risultati di questa nuova frontiera del potenziamento biomeccatronico e bioingegneristico, dal
momento che esso va a incidere proprio sulle terapie salvavita per quei pazienti. Agli amputati
vengono impiantate protesi che un giorno potrebbero permettere loro di correre più velocemente di
quanto facessero con le loro gambe, e le trasfusioni di sangue potrebbero essere arricchite con
nanorobot respirociti che filtrano l’ossigeno con un’efficienza centinaia di volte superiore a quella
dei globuli rossi. Questo significa che potremo correre come degli sprinter o nuotare sott’acqua per
ore. [64]»
Su queste componenti prende nuovamente evidenza ed efficacia la natura aperta della teoria
evoluzionistica, che rifiuta ogni forma di dogmatizzazione (quale tal volta implicitamente
acquisisce quando la si affronta nella improponibile e inutile contrapposizione tra evoluzionismo e
creazionismo). «Il «mastino di Darwin» aveva lucidamente percepito il pericolo, e s’era
raccomandato: «la storia ci insegna che le nuove verità hanno il frequente destino di cominciare
come eresie e di finire come superstizioni; e oggi è facile prevedere che, di qui a vent’anni, i ragazzi
della nuova generazione, cresciuti nel clima attuale, correranno il pericolo di accettare le teorie
dell’Origine delle specie con tanto poca riflessione, e fors’anche tanto poco fondamento, quanto gli
uomini della vecchia le rifiutavano vent'anni fa. Preghiamo ardentemente che non sia così, perché la
mentalità scientifica è più importante dei suoi prodotti, e verità professate in modo irrazionale
possono essere più nocive degli errori razionali. (Huxley, Thomas Henry 1880, The coming of age
of the Origin of species)» (Barsanti 2005, Una lunga pazienza cieca, 369)
6 Epilogo : elogio della contingenza delle variazioni e dei minimi: coleotteri e vermi
6.1. una smodata predilezione per i coleotteri
« “una storia, forse apocrifa, secondo cui l'autorevole biologo inglese J.B.S. Haldane si trovò un
giorno in compagnia di un gruppo di teologi. Essendogli stato chiesto che cosa si potrebbe dedurre
in conclusione circa la natura del Creatore a partire dallo studio della Sua creazione, si racconta che
Haldane abbia risposto: ‘Una smodata predilezione per i coleotteri’”.» (Pievani 2011, 230)
Qui Haldane, autore della prima teoria matematica della selezione naturale e artificiale (Haldane,
1932), fece notare che considerando l’esistenza di 400mila specie di coleotteri allora nominate, a
fronte dei quattromila e poco più mammiferi e di un solo rappresentante rimasto del genere Homo,
il problema teologico di spiegare i 400mila tentativi di fare un coleottero perfetto era alquanto
preoccupante. […] Chiunque osservi onestamente l'albero della vita sa che noi siamo alla periferia
dell’impero della biodiversità e che ci siamo fatti largo fin qui in virtù di una congerie di
circostanze favorevoli, nonostante la smodata predilezione dell’evoluzione verso coleotteri,
icneumonidi e altri insetti (il cui numero di specie attualmente stimato è esorbitante e avrebbe assai
compiaciuto Haldane). Al “cospetto” della Terra e della sua diversità lussureggiante (in gran parte
microscopica), chi oserebbe ancora dire — scriveva nei taccuini giovanili un appassionato
collezionista di coleotteri fin da ragazzo, di nome Darwin — che l’intelletto è l’unico scopo di
questo mondo? Ebbene, lo spodestamento dal baricentro della biodiversità reca con sé non soltanto
un’inevitabile inquietudine ma anche una conquista nobilitante: il senso di appartenenza a una
grande storia naturale comune, che non è fatta a nostra immagine e somiglianza.» (Pievani
2011,230-231)
38
6.2. elogio del verme
«Fu però altrettanto scettico nei confronti di coloro che volevano coinvolgerlo in battaglie militanti
e spregiudicate a favore dell’ateismo. In occasione del congresso della federazione internazionale
dei liberi pensatori tenutosi a Londra nel 1881, Darwin accettò dopo molte insistenze di avere a
pranzo a Down House il giovane zoologo di idee socialiste Edward Aveling e il fisiologo tedesco
Ludwig Büchner […] Un guizzo però lo rianimò quando lo scalpitante Aveling si mostrò deluso
nello scoprire che il grande naturalista inglese, in un periodo di tale fermento sociale e intellettuale,
aveva deciso di dedicare le sue ormai declinanti energie a un libro sui lombrichi. Darwin lo fulminò
facendogli notare che, in fondo, aveva iniziato a occuparsi di lombrichi da quando aveva trent’anni.
Quello era il suo mestiere.» (Pievani 2012, 137)
«Musica per lombrichi.» Nel 1881 Darwin pubblica uno studio dal titolo: La formazione della terra
vegetale per l’azione dei lombrichi con osservazioni intorni ai loro costumi.
«Questo interesse di ricerca finale di Darwin, alla soglia del congedo terreno, potrebbe apparire in
effetti come una manifestazione di eccentricità: un piccolo trattatello, uscito nell’ottobre del 1881,
sulla «formazione della terra vegetale per azione dei lombrichi, con osservazioni sulle loro
abitudini». Sorprendendo il suo stesso autore, va a ruba in pochi giorni e vende migliaia di copie in
varie edizioni successive. Si commetterebbe però un errore a considerarla un'opera bizzarra degli
anni crepuscolari. È, al contrario, un lucido compendio della visione darwiniana, un inno a quei
«meravigliosi dettagli» e ai «fatti apparentemente insignificanti» grazie ai quali la natura esprime la
sua creatività, un’illustrazione di come il reiterarsi di minuscole attività quotidiane (i movimenti e il
metabolismo dei vermi) possa a lungo termine riuscire addirittura a modellare la campagna inglese.
«Ciò che è umile può spiegare ciò che è grande», scrisse in quei giorni.
Ancora una volta, è questione di scale temporali e spaziali, talvolta difficili da percepire a causa
della loro enormità. La potenza del lombrico si esplica attraverso il ripetersi di modeste attività che,
prese singolarmente, sembrerebbero incapaci di qualsiasi effetto significativo e invece,
accumulandosi nello spazio e nel tempo, possono produrre enormi cambiamenti. Riciclando
sostanze, raffinandole, dissodando la terra vegetale, decomponendo le foglie, disgregando le
componenti rocciose, inglobando i corpi in superficie, producendo humus, questi vermi plasmano
letteralmente il paesaggio. Darwin coccola i suoi lombrichi e li sottopone a strani esperimenti.
Attorniato dagli sguardi un po’ perplessi dei figli, espone i lombrichi alla luce e fa sentire loro le
vibrazioni del pianoforte, per vedere l’effetto che fa. È convinto che abbiano, a modo loro,
comportamenti intelligenti e «qualità mentali». Del resto, già nei «taccuini metafisici» aveva
riconosciuto una dignità al verme che si rivolta se calpestato e in una delle sue prime
comunicazioni, alla Geological Society nel 1837, aveva parlato dei «poteri mentali» delle forme più
primitive di esseri. Ma, soprattutto, è tornato qui al suo primo e mai abbandonato messaggio
continuista, quello del saggio giovanile sugli atolli corallini del 1842 e della graduale trasmutazione
delle varietà e delle specie descritta nell’Origine: minuscole azioni, ripetute e incessanti, proiettate
nell’immensità del tempo geologico, sono causa di gloriose imprese evoluzionistiche.
La risposta all’incalzare del filosofo militante svela così tutta la sua portata. Per come Darwin
scriveva e sceglieva i suoi temi concettuali, non esistono «opere minori». L’umiltà del lombrico è
un’ironica denuncia contro qualsiasi pretesa umana di sentirsi padroni della storia naturale o, ancor
peggio, suo inevitabile compimento. Nelle creature più disprezzate e silenziose c’è il segreto
dell'evoluzione — scrive Darwin nella prefazione — cioè «gli effetti di una causa costantemente
ricorrente». Il messaggio della storia naturale del lombrico era per lui più potente di qualsiasi
sistema filosofico costruito a priori. Occorre uno sguardo laterale, non antropocentrico, e assai
lungimirante, per calcolare gli effetti a lungo termine del tempo, per avvertire la nostra posizione
periferica e contingente nel grande albero della biodiversità passata e presente, per capire come la
vita incessantemente rigenera se stessa nei cicli e ricicli della sua materia. […] Charles R. Darwin ci
ha insegnato che cosa tiene insieme un cirripede, un corallo, un’orchidea, una primula e un essere
umano.» (Pievani 2012, 138-141)
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6.2.1. Un precedente illustre: Aristotele, De partibus animalium: «Non si deve dunque nutrire un
infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili, in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di
meraviglioso.»
Altri spunti metodologicamente utili:
Bonaiuti Mauro 2013 La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati
Boringhieri, Torino (Prefazione di Serge Latouche)
Latour Bruno 1999 Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina
editore, Milano 2000
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