NOTA INTRODUTTIVA
Questo libro nasce da un singolare incontro fra esperienze didattiche
diverse: la trattazione della problematica della comunicazione all’interno di un
corso di formazione tecnica superiore (IFTS) con i relativi risvolti in un ambito
sociale avanzato qual è quello attuale, caratterizzato dall’ipermedialità e dal
“diluvio informazionale” (per riprendere una celebre definizione di Levy) e la
parallela attività didattica di sociologia della religione nella Facoltà teologica di
Padova. Due temi, due ambiti sostanzialmente diversi, con prospettive diverse.
Eppure, la considerazione metodologica e manualistica costituita dalla prima
parte finisce per illuminare in maniera suggestiva l’originale opera di
ripensamento in chiave critica di alcuni fatti della contemporaneità (o della
società che ama definirsi complessa) in maniera così stringente che i due autori
hanno pensato di farne un corpo unico. Ne è nato un testo agile,
necessariamente didattico nella prima parte, argomentativo, ragionato nella
seconda.
1
Antonio Lionello ha curato i capitoli dedicati alle sezioni della comunicazione
ipermediale. Giuseppe Manzato ha curato i capitoli della sezione critica.
Gli autori ringraziano il chiarissimo professor Ulderico Bernardi per
avere impreziosito questo lavoro con la sua erudita presentazione. Si ringrazia
inoltre il dottor Gianni Costantini e la dottoressa Annalisa Mauriello per la
supervisione al testo. Si ringrazia, inoltre, Carlo Melina, laureando in Scienze
della Comunicazione all’Università di Bologna per il contributo nella stesura
del capitolo Vivere on–line.
2
PREFAZIONE
Communicatio facit civitatem. Ora più che mai, in una società
che si trova a fronteggiare processi d’una invasività mai prima conosciuta.
Il dialogo, l’interazione fra soggetti rischiano d’essere travolti da un uso
spregiudicato ed iperaccentrato d’ogni strumento di comunicazione
sociale.
Uno degli aspetti che creano maggiore preoccupazione in chi ha
a cuore la promozione della persona umana, rispettata e onorata nella sua
appartenenza sociale e culturale. L’inciviltà, la volgarità, talvolta la
disumanità che la comunicazione assume nella nostra epoca
sfacciatamente rivolta all’esibizionismo e alla spettacolarità, è sotto gli
occhi dell’opinione pubblica. Che intuisce, pur con scarse possibilità di
opporsi, i pericoli conseguenti allo stravolgimento del dialogo, dal quale
vengono estromessi miliardi di esseri umani., lasciando campo unicamente
ai detentori del potere tecnologico e informativo.
Una situazione senza scampo, che accresce il divario tra le
diverse aree del pianeta, mentre esaspera gli squilibri, e con questi
l’insofferenza verso chi mostra di tenere in nessun conto il principio
basilare del dialogo universale. Che ammonisce: chi scambia, cambia! Da
cui discendono l’efficacia e la valorialità della comunicazione reale, nella
sua essenza generativa di spirito di comunità, e l’adattamento reciproco, su
cui fonda la stabile e positiva relazione tra popoli, culture e generazioni.
È questo lo scenario ideale entro cui si collocano le
ricerche, e il presente lavoro, di Antonio Lionello e Giuseppe Manzato.
Un ambito benemerito d’indagine nel momento in cui
preme la necessità di individuare i punti di crisi del sistema internazionale
di relazioni, tra i quali, senza ombra di dubbio, si colloca con una sua
vistosità la problematica della comunicazione. Da cui viene a dipendere il
grado di conoscenza reciproca, che è, comunque, la premessa d’ogni
dialogo concreto, e la costruzione o ri-costruzione della comunità
mondiale in termini reali e non virtuali. Per tentare di sconfiggere o quanto
meno di allentare la morsa dei cento affanni - dalla guerra alla fame, dalla
salute alla mancanza d’istruzione - che affliggono larga parte dell’umanità.
Importante il richiamo, da parte degli autori, alla necessità
di preservare le comunità locali dallo sradicamento, indotto da una lettura
del divenire appiattita sull’unica dimensione dell’avanzamento
tecnologico, nell’indifferenza alle esigenze d’ordine umanistico,
sentimentale, antropologico, spirituale.
3
Nodo d’una riflessione critica più vasta, che s’allarga ad
individuare i diversi aspetti d’una fenomenologia complessa, impasto di
conquiste scientifiche e di costi umani. Particolare attenzione viene
prestata, e giustamente, ai giovani. Cioè a chi si colloca anagraficamente
alla frontiera del futuro, con tutte le opportunità e le responsabilità che
questa posizione comporta.
Pare doveroso a chi introduce, su gentile sollecitazione
degli Autori, segnalare come questo libro di Lionello e Manzato si presti a
una duplice, vantaggiosa, possibilità di utilizzazione: didattica, in primo
luogo, per un’adeguata preparazione degli studenti; ma poi anche quale
valido strumento di conoscenza, per qualsiasi persona che avverta il
bisogno di orientarsi dentro a questioni oggi all’apice del dibattito
mondiale. Coinvolgendo problemi di potere e di servizio, di formazione e
d’informazione, di governabilità e di emancipazione umana.
Ca’ Foscari, dicembre 2003.
Ulderico Bernardi
4
SEZIONE 1
LA COMUNICAZIONE
E LA COMUNICAZIONE DI MASSA
5
6
1. COMUNICAZIONE
E TEORIA DELL’INFORMAZIONE
Affrontare in una prospettiva sociologica il tema della comunicazione
richiede preliminarmente che se ne definisca il concetto. Sebbene la
comunicazione sia un fenomeno centrale della vita sociale, essa è stata
affrontata dalla sociologia in tempi relativamente recenti. Discipline come la
psicologia, la semiotica, l’ingegneria, la linguistica e la filosofia, invece, se ne
sono occupate fin dalle loro origini.
Il tema della comunicazione è divenuto centrale in sociologia quando
sono diventati oggetto di studio i mass media. In via del tutto generale e
preliminare potremmo definire la comunicazione il passaggio o trasferimento
di informazioni da un soggetto (la fonte, l’emittente) ad un altro (il ricevente, il
destinatario), per mezzo di veicoli di varia natura: ottici, acustici, elettrici,
idraulici. L’informazione trasmessa può essere codificata oppure no. Nel primo
caso l’informazione intenzionalmente codificata può riguardare oggetti (segni)
che «stanno per» un determinato evento, idea, oggetto (che soltanto quello e
non altri rappresentano). In tale accezione, che è quella che ci riguarda, il
campo della comunicazione si restringe alle informazioni linguistiche e non
linguistiche, verbali e non verbali, intenzionalmente e stabilmente sistemate in
uno o più codici.
Le prime ricerche in ambito massmediologico hanno assunto il modello
informazionale come base delle investigazioni dei processi comunicativi. Il
modello informazionale è quello derivante dalla teoria dell’informazione di
Shannon e Weaver1 elaborata nel 1949. Il termine comunicazione è assunto
dagli autori nel senso ampio per comprendervi tutti i procedimenti attraverso i
quali un pensiero può influenzarne un altro. In tal senso vengono compresi
non solo il linguaggio scritto e parlato, ma anche la musica, le arti figurative, il
teatro, la danza e, di fatto, qualunque comportamento umano. Nella sua forma
semplificata il modello è costituito da una fonte di informazione che emette un
messaggio che viene codificato in un segnale attraverso un apparato
trasmittente. Il segnale viene veicolato attraverso un canale (il quale può essere
disturbato da un rumore) al termine del quale è posto un apparato ricevente
che decodifica il messaggio rendendolo disponibile per il destinatario.
C. E. SHANNON – W. WEAVER, La teoria matematica delle comunicazioni, Bompiani,
Milano 1971 tr. it. di Paolo Cappelli (Titolo originale dell’opera: The Mathematical Theory
of Communication, University of Illinois Press 1949).
1
7
Schema di Shannon e Weaver
Messaggio
Fonte
Segnale
Trasmittente
Segnale ricevuto
Canale
Ricettore
Messaggio
Destinatario
Rumore
Segnale: in una relazione Io-Tu il segnale è qualsiasi cosa detta, fatta o
mostrata (o anche non detta, non fatta, o non mostrata) che proviene dal Tu e
che colpisce un organo di senso: tanto ciò che si dice effettivamente, quanto
ciò che si potrebbe dire. L’informazione è una misura della libertà di scelta che
si ha quando si sceglie un messaggio. Il concetto di informazione non si applica
ai messaggi particolari (come vorrebbe il concetto di significato), ma piuttosto
all’informazione intesa come un tutto. L’unità di informazione sta ad indicare
che in questa situazione si ha una quantità di libertà nella scelta del messaggio
che è conveniente considerare come una quantità standard o unitaria.
Rumore: in rapporto all’informazione (che ha comunque un contenuto
significativo) contrapponiamo il rumore come ciò a cui non siamo in grado di
assegnare un significato (“Ti sono grato” può essere un rumore per il premio
Nobel australiano che non conosce una parola di italiano).
Codice: l’espressione “Ti sono grato” ha significato per un bambino italiano
perché conosce il codice. Più i codici che conosciamo sono molteplici ed estesi,
più riusciamo a trarre informazione dall’ambiente che ci circonda.
Canale: il canale è una via attraverso la quale le informazioni possono essere
trasmesse dall’emittente al ricevente.
Il modello ebbe una grande fortuna anche al di fuori dell’ambito
informatico a motivo della sua semplicità e generale applicabilità a forme
comunicative fra animali, fra uomini, fra macchina e uomo e fra macchine. Il
successo e la diffusione di questo modello sono legati all’intreccio fecondo con
le funzioni linguistiche (funzione emotiva, conativa, fatica, metalinguistica,
poetica, referenziale), individuate dal linguista Jakobson che ne hanno
permesso un largo utilizzo all’interno delle problematiche della comunicazione.
Occorre tuttavia sottolineare il limite di questo modello: esso
presuppone infatti che l’informazione venga trasferita integralmente, mentre, in
8
realtà, possono accadere delle distorsioni o delle «decodifiche aberranti»2.
Inoltre questo modello non tiene in considerazione i contenuti semantici dei
messaggi. Al fine di superare tali limitazioni si è reso necessario inserire il
problema della significazione: il modello informazionale è stato così integrato
dal modello semiotico-informazionale. Il modello mette in discussione due
presupposti fondamentali: 1) quello secondo cui l’informazione è definibile
come ciò che rimane costante attraverso tutte le operazioni reversibili di
codifica e traduzione 2) quello secondo cui l’informazione si propaga secondo
un codice uniforme e comune a emittente e ricevente.
Schema di Eco-Fabbri
canale
Messaggio =
sig.ante + sig.ato
Fonte
Codice
Messaggio =
sig.ante
Destinatario
Messaggio
=sig.ato
Codice
ottocodici
Sottocodici
Tra il messaggio codificato alla fonte e il messaggio ricevuto da destinatario
possono intercorrere molti elementi di difformità. Il modello di Eco e Fabbri
deriva dall’intersezione del problema della significazione con quello
comunicativo elaborato dalla teoria dell’informazione. La chiave centrale di
questo modello è costituita dalla decodifica da non intendersi come operazione
complementare alla codifica. Scrivono Eco e Fabbri: «A seconda delle diverse
situazioni socio-culturali, esiste una diversità di codici, ovvero di regole di
competenza e di interpretazione. E il messaggio ha una forza significante che
può essere riempita con diversi significati, purché esistano diversi codici che
2
La problematica della decodifica aberrante è stata sviluppata da U. ECO et al. in Prima
proposta per un modello di ricerca interdisciplinare sul rapporto televisione/pubblico,
Perugia 1965; ECO, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968; U. ECO, Trattato di
semiotica generale, Bompiani, Milano 1975; STUART HALL, “Le message televisuel:
codage et décodage”, Education et culture, 5; P. FABBRI, “Le comunicazioni di massa in
Italia: sguardo semiotico e malocchio della sociologia”, Versus 5, 1973.
9
stabiliscono diverse regole di correlazione tra dati significanti e dati significati.
E qualora esistano codici di base accettati da tutti, si hanno differenze nei
sottocodici, per cui una stessa parola, capìta da tutti nel suo significato
denotativo più diffuso, può connotare per gli uni una cosa e per gli altri
un’altra»3. Per intendere compiutamente il passo che abbiamo letto ricordiamo
che significanti sono cose, significanti sono idee. Significati e significato sono
legati insieme dal segno che rappresenta la loro totalità. Per esempio: la forma
significante “mulino” denota ciò che comunemente intendiamo per mulino (il
luogo dove si macina il grano). Ma può assumere varie connotazioni:
(artigianalità, ambiente polveroso, naturalezza, ecc.). Il modello semioticoinformazionale dimostra che nella comunicazione il significato finale del
messaggio deriva dal convergere di una serie di fattori diversi. Dimostra, altresì,
che possono darsi varie forme di incomprensioni riconducibili alla seguente
casistica:
1. incomprensione del messaggio per totale carenza di codice.
2. incomprensione del messaggio per disparità dei codici.
3. incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali.
4. rifiuto del messaggio per delegittimazione dell’emittente.
La prima forma di incomprensione accade quando il messaggio arriva
come segnale fisico, ma non viene decodificato e quindi passa come rumore.
Il secondo caso avviene quando il codice dell’emittente non è ben
conosciuto dal ricevente, oppure quando alle unità del codice vengono
attribuiti significati che mutano completamente nel contesto in cui appaiono.
Nella terza fattispecie il destinatario è in possesso del codice dell’emittente
e interpreta correttamente il messaggio secondo le modalità di chi lo ha
emesso, ma è mosso da esigenze che sono in conflitto con il tipo di
persuasione che l’emittente vorrebbe ingenerare, poiché lo interpreta secondo
le proprie aspettative.
Il quarto caso accade quando pur essendoci completa comprensione del
messaggio secondo le modalità di codifica dell’emittente, il sistema di credenze
o le pressioni circostanziali del destinatario sono forti con quelle dell’emittente
e viene a generarsi un volontario stravolgimento del senso.
U. ECO e PAOLO FABBRI, “Progetto di ricerca sull’utilizzazione dell’informazione
ambientale”, Problemi dell’informazione 4, pp. 561-2.
3
10
2. LA COMUNICAZIONE DI MASSA
Se si considera l’entità dei flussi di informazione che attraversano
quotidianamente la molteplicità di canali di comunicazione non è improprio
definire la nostra epoca come “ipermediale” o “ipercomunicativa”. Con questi
aggettivi si intende sottolineare il fatto che viviamo immersi in un flusso
incessante di informazioni, di messaggi multisensoriali provenienti da fonti
diverse, con una continuità, un’intensità ed un’ampiezza che non si sono
sperimentate nelle epoche precedenti. Giornali e riviste, CD e video di tutti i
tipi, televisioni che trasmettono 24 ore su 24, emittenti radiofoniche che
diffondono notizie e musica giorno e notte, cartelloni pubblicitari, fax, telefoni
cellulari, Internet rappresentano ormai gli strumenti che mediano il nostro
rapporto con una realtà che non è più quella della comunità locale nella quale
viviamo fisicamente (il quartiere, il paese ecc.) ma il mondo intero. Questo
processo si presenta come proteiforme, anche se presenta un denominatore
comune: il tele-vedere.
2.1 Una definizione di «comunicazione di massa»
Il termine “comunicazione di massa” fu coniato alla fine degli anni ’30.
I primi studi scientifici sui mass media rientrano nel filone della bullet theory
(teoria della pallottola), detta anche dell’ago ipodermico. I media vengono
considerati potenti strumenti di persuasione che agiscono su riceventi passivi e
inermi. Il contenuto inviato penetra l’individuo, gli viene , per così dire,
inoculato, per cui ne risulta persuaso. Durante la prima guerra mondiale,
stampa e cinema, mobilitati nella propaganda delle nazioni in guerra, avevano
dato grande prova della loro capacità di influenzare le “masse”. Questo effetto
uscì rafforzato dagli avvenimenti in Unione Sovietica e nella Germania nazista,
dove i mezzi di comunicazione furono messi al servizio della propaganda dei
partiti al potere.
Col trascorrere del tempo il termine «comunicazione di massa» ha
assunto molte connotazioni, per cui è difficile assumere una definizione che
possa essere accettata da tutti. Anche il termine massa è di per sé carico di
valori e appare controverso. Anche se il termine comunicazione non ha ancora
una definizione pacifica si può partire da quella proposta da Gerbner: lo
studioso parla della comunicazione come interazione sociale tramite messaggi4.
4
G. GERBNER, Mass Media and Human Communication Theory, in F.E.X. Dance (a cura
di), New York, Holt, Rinehart and Winston 1967, pp. 40-57.
11
Janowitz ha proposto una caratterizzazione delle comunicazioni di
massa in rapporto alle istituzioni e alle tecniche grazie alle quali gruppi
specializzati impiegano strumenti (stampa, radio, film, ecc.) per diffondere un
contenuto simbolico a pubblici ampi, eterogenei e fortemente dispersi5. La
difficoltà nell’accettare questa o analoghe definizioni risiede nel fatto che la
comunicazione è considerata dal lato della trasmissione dell’emittente invece di
essere intesa nell’accezione più ampia del termine che racchiude i concetti di
risposta, partecipazione e interazione.
L’esperienza quotidiana della comunicazione di massa è assai varia: tale
termine indica una condizione e un processo in teoria possibili, ma raramente
reperibili in forma pura. La comunicazione di massa è un esempio di quello che
Max Weber definiva un ideal-tipo, cioè un costrutto concettuale che accentua o
porta al limite le uniformità riscontrabili in un gran numero di fenomeni
empirici e che può perciò servire come termine di confronto per saggiare il
significato dei fenomeni stessi.
Una buona definizione di comunicazione di massa può essere quella
proposta da McQuail. Lo studioso di Amsterdam parla di «processo mediante il
quale messaggi sonori e/o visivi prodotti e trasmessi da una fonte impersonale
raggiungono in un tempo molto breve un certo numero di persone (audience)
disperse su un territorio più o meno esteso, dall’ambito locale al mondo
intero»6.
2.2 Il concetto di massa
Il termine unisce una serie di concetti importanti per capire come è
stato spesso interpretato il processo della comunicazione di massa fino ai nostri
giorni. Originariamente il termine massa aveva una connotazione negativa in
quanto era riferito alla moltitudine o alla folla giudicata rozza, ignorante e
potenzialmente irrazionale. Occorre osservare che i confini dei concetti di folla
e massa non appaiono univocamente definiti e l’uso corrente dei due termini si
confonde con l’uso scientifico. L’etimologia dei due termini può aiutare. Folla
deriva da “follare”, verbo che contiene l’idea del premere, dello stringere e
rimanda al vocabolo latino fullo, “lavandaio” o “sgrassatore di panni”. Massa
rinvia invece ai vocaboli greci mãza, “impasto per il pane”, mássein, l’azione
dell’impastare, parole che suggeriscono i caratteri dell’elasticità e
dell’adattamento a forme diverse. L’origine dei termini si riflette nella
distinzione, oggi generalmente accettata, secondo la quale la nozione di “folla”
indica un’aggregazione momentanea di individui, mentre il concetto di “massa”
5
M. JANOWITZ, The Study of Mass Communication, in International Enciclopedia of the
Social Sciences, vol. 3, pp. 41-53.
6
D. MAC QUAIL, Sociologia dei media, Il Mulino, Bologna 2001, p. 35.
12
si riferisce alla maggioranza della popolazione considerata senza riferimento
alla diversità di funzioni e ruoli sociali e, cioè, come insieme omogeneo.
La massa è composta da individui «anonimi» e isolati che non si
conoscono e non interagiscono fra loro. Essa è quindi ben diversa da una
comunità o da un gruppo ed esiste, come formazione sociale, solo nel
momento in cui condivide informazioni, gusti, stili di comportamento,
consumi. Un’edizione del telegiornale può essere vista da milioni di persone
molto diverse per età, classe sociale, categoria professionale, formazione
culturale: soggetti che hanno ben poco in comune, se non il fatto di ricevere
contemporaneamente le stesse informazioni e di esporsi, quindi, alla
comunicazione di massa. La bibita più famosa del mondo è consumata
indistintamente da individui che appartengono a tradizioni e culture
diversissime; ciclicamente, i giovani dell’Occidente hanno gli stessi miti
musicali e vestono in modo simile; durante i campionati mondiali di calcio o le
olimpiadi, centinaia di milioni di persone vedono, ascoltano e discutono le
stesse cose: sono tutti esempi di fenomeni di massa.
È evidente il collegamento strettissimo tra la società di massa, nata con
l’espansione industriale, la produzione e la commercializzazione di beni per
mercati sempre più vasti, e la comunicazione di massa: l’una non potrebbe
esistere senza l’altra. Il fatto che esistano un consumo di massa, una cultura di
massa, un’opinione di massa dipende in larga misura dalla possibilità di
informare e di influenzare un vasto pubblico attraverso i mezzi di
comunicazione.
La struttura tipica della comunicazione di massa è identificabile
nell’asimmetria tra emittente e ricevente: da una parte c’è una fonte
impersonale, distante, che seleziona, confeziona e trasmette messaggi, dall’altra
un vasto pubblico che li riceve, li assimila e li interpreta. Queste sono le
caratteristiche fondamentali di radio, televisione, giornali, videocassette,
cinema, Cd-Rom, dischi, ma anche del libro, che può essere considerato il più
antico mass media. Uno strumento di comunicazione come il telefono, invece,
pur essendo largamente diffuso, non è normalmente considerato di massa in
quanto prevede una relazione personale, un’interazione tra individuo e
individuo.
Alcuni sociologi sostengono che, a rigore, quella di massa non potrebbe
essere definita «comunicazione», proprio perché il processo comunicativo ha
un andamento circolare con un ritorno di informazioni (feedback) dal ricevente
all’emittente, cosa che avviene nelle relazioni interpersonali, ma non nel
rapporto media-pubblico (nonostante molte trasmissioni radio televisive
abbiano introdotto le telefonate degli ascoltatori per dare il senso di una
partecipazione attiva dell’audience). In realtà, una sorta di circolarità è presente
13
anche nelle comunicazioni di massa dal momento che si può parlare di reazioni
più o meno significative del pubblico ai messaggi (per. es. in termini di
gradimento, di opinione, di azione) che possono riflettersi poi sulle successive
scelte operate dall’emittente. In seguito considereremo alcune tesi del pensiero
critico che sottolineano il carattere tautologico della comunicazione di massa7.
Conclusivamente, il pubblico di massa si presenta:
 molto numeroso
 disperso
 non interattivo e anonimo
 eterogeneo
 non organizzato
2.3 Concentrazione e imperialismo dell’informazione
La gestione delle comunicazioni appare fortemente concentrata: una piccola
parte della popolazione di alcuni paesi a sviluppo avanzato ha la proprietà e controlla i
mezzi di comunicazione, la produzione del materiale culturale e l’approvvigionamento di
informazioni. La maggior parte delle notizie diffuse nel mondo da quotidiani, radio e
televisioni provengono da quattro agenzie di stampa: la Reuter britannica, la AFP
(Agence France Presse) francese, la UPI (United Press International) e la AP (Associated
Press), entrambe statunitensi.
2.4 Il processo della comunicazione di massa
Quasi tutti i messaggi dei mass media non sono indirizzati a nessuno in
particolare e la distanza fisica tra emittente e ricevente è quasi incolmabile, accresciuta da
un divario sociale perché in genere l’emittente ha maggiore prestigio, potere, risorse,
abilità e autorità del ricevente (asimmetria). I pubblici sono visti come ampi aggregati di
spettatori dispersi e passivi, senza reali possibilità di interloquire o partecipare: il ricevente
non ha nessun contatto o quasi con i suoi simili e non ne conosce l’identità.
Seguendo McQuail8 possiamo identificare le seguenti caratteristiche:





7
8
distribuzione e ricezione su ampia scala
flusso unidirezionale
relazione asimmetrica
impersonale e anonima
contenuti standardizzati
U. GALIMBERTI, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2000.
D. MAC QUAIL, Sociologia dei media, op. cit., pp. 56-7.
14
3. LE FUNZIONI DEI MEDIA
I media svolgono nella società funzioni ben identificabili: informare,
intrattenere, influenzare e vendere. Se si considerano i media attuali, in
particolare la televisione, ci si rende conto che divertire e vendere appaiono
obiettivi prioritari. Ciò vale non solo per le emittenti private che si sostentano
esclusivamente grazie alle entrate garantite dalla vendita degli spazi pubblicitari,
ma in modo crescente ciò vale anche per le reti che svolgono servizio pubblico.
Lo stesso si può dire per la radio (soprattutto per le emittenti private) e per le
riviste, sempre più infarcite di comunicati pubblicitari. Nonostante ciò va però
notato che le funzioni che i mezzi di comunicazione di massa svolgono per la
società e per l’individuo sono ben più articolate.
3.1 Pro o contro i media
Il ruolo dei media nella società di massa è oggetto di valutazioni molto
diverse: si va da un atteggiamento molto critico, che vede nei media solo
potenti strumenti di persuasione, di alienazione, di involgarimento del gusto, di
impoverimento della cultura, ad una adesione entusiastica alla civiltà
multimediale, vista come una straordinaria conquista di libertà. I primi si suole
definirli come apocalittici, i secondi come integrati9.
Le prese di posizione pro o contro i media si sono sviluppate
soprattutto in relazione alla televisione, il mezzo che più ha influito sulle
abitudini della gente e che ha prodotto, nel bene e nel male, una vera e propria
«rivoluzione culturale».
Sono stati prodotti molti argomenti favorevoli o contrari alla
comunicazione di massa e tutti sembrano avere un qualche fondamento.
Considereremo solo quelli più ricorrenti, tenendo presente che non è
necessario schierarsi decisamente da una parte o dall’altra, ma che è anche
importante avere consapevolezza sia dei pregi sia dei limiti dei media, strumenti
che ormai occupano un ruolo centrale nella nostra vita quotidiana.
3.2 Argomenti a favore
Secondo i loro sostenitori, ai mezzi di comunicazione di massa vanno
riconosciuti i questi meriti.
9
U. ECO, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964.
15

Innalzano il livello di istruzione e allargano l’orizzonte culturale del
pubblico.
E’ indubitabile che soprattutto strumenti come la radio e la televisione abbiano
favorito un vasto processo di alfabetizzazione, abbiano promosso la lingua
nazionale in strati sociali che facevano uso del solo dialetto, abbiano diffuso
conoscenze (di tipo scientifico, storico, politico, economico, artistico ecc.) che
un tempo erano ad esclusivo appannaggio delle classi colte.

Tengono costantemente informati sui problemi della società e del
mondo contemporaneo.
Soprattutto grazie alla televisione, il mondo intero è entrato nelle case: tutto ciò
che di rilevante avviene nel globo viene fatto conoscere a tutti in tempo reale
(mentre accade). I media hanno così accresciuto e diffuso il livello di
consapevolezza delle persone riguardo ai problemi della società contemporanea
permettendo una partecipazione più attiva alla vita sociale.

Favoriscono la conoscenza, il rispetto delle altre culture e aiutano
l’integrazione sociale.
In tutti questi anni i mezzi di comunicazione di massa, in particolare la
televisione, hanno documentato la diversità delle situazioni sociali e culturali
riscontrabili nelle varie aree del mondo e all’interno del nostro paese.
Conoscere la diversità aiuta a rispettare e ad accettare la diversità stessa, ad
abbattere i pregiudizi nei confronti di coloro che manifestano opinioni,
credenze, stili di vita diversi dai nostri. Non c’è dubbio che la crescita di un
atteggiamento rispettoso e tollerante nei confronti della diversità è anche
merito dei media.

La funzione di intrattenimento è sempre stata centrale nei media
radiotelevisivi fin dal loro debutto.
I media offrono occasioni di svago a chi non potrebbe altrimenti permettersele.
3.3. Argomenti contro
I detrattori, per parte loro, mettono l’accento sulle seguenti «colpe» dei media.

Diffondono una cultura superficiale e abituano alla passività mentale.
La cultura di massa è sempre stata vista dalla classe intellettuale come fumo
negli occhi e considerata come un surrogato della vera cultura. Secondo questo
punto di vista, i media non favoriscono la riflessione, l’approfondimento critico
dei problemi ma, al contrario, diffondono frammenti di sapere superficiale,
16
“usa e getta”. La qualità dei programmi trasmessi dalle varie emittenti o della
carta stampata a grande diffusione non può che essere scadente dal momento
che, per avere una vasta audience, i media devono assecondare i gusti, le
tendenze e il linguaggio della maggioranza del pubblico. E’ un dato di fatto che
nelle ore di punta le televisioni trasmettono i programmi più leggeri, mentre
quelli più impegnativi vengono proposti quasi sempre in seconda serata o a
notte fonda. Si tratta di una scelta quasi obbligata: una emittente che decidesse
di mandare in onda alle 21 un programma sulla storia della pittura o un’opera
teatrale farebbe un fiasco colossale che pagherebbe caro soprattutto in termini
economici.
Inoltre media come la radio e la televisione inibiscono un atteggiamento attivo
e creativo del pubblico che non può far altro che «subire» passivamente ciò che
viene proposto.

Alimentano bisogni artificiali e propongono stili di vita consumistici.
Dal variopinto mondo dei media, della televisione, delle riviste, delle radio
sembra emergere una figura di uomo ideale: il consumatore. C’è sempre
qualcosa di nuovo da sperimentare, qualche «tendenza» da seguire. Se il motore
dell’economia è il consumo, i media sono il più straordinario procacciatore di
clienti per le imprese.
Gli studiosi di comunicazione si sono sempre posti questo
interrogativo: i media si limitano a rispecchiare il comportamento delle persone
o sono le persone a modellare il loro comportamento in base alle suggestioni
che ricevono dai media? Una domanda analoga la si può formulare a proposito
del rapporto produzione-consumo: è il mondo della produzione a inventare
nuovi bisogni per commerciare nuovi prodotti o è il consumatore esigente che
costringe il mondo della produzione ad aggiornarsi?
A questo tipo di domande non è possibile dare una risposta univoca e
definitiva. Ci limitiamo a suggerire che si tratta di processi circolari, nel senso
che se è vero che i media rispecchiano i gusti e le opinioni della società, è
altrettanto vero che li alimentano e li condizionano.

Distruggono le differenze culturali imponendo gli stessi modelli di
comportamento: favoriscono, cioè, il conformismo.
La comunicazione di massa sembra corrodere progressivamente tutte le
tradizioni locali e le sub-culture popolari che, fino a pochi decenni fa, erano
diffuse e vive nel paese. Le abitudini, gli interessi, le esperienze, le opinioni si
vanno sempre più uniformando. Non c’è molta differenza tra il modo di vivere
di chi abita in una metropoli e quello di chi vive in un piccolo centro. Bambini
17
dei paesi più disparati guardano i cartoni animati giapponesi, bevono CocaCola, giocano con la Barbie e mangiano hamburger e patatine.

Sono potenti strumenti di controllo sociale.
Si ritiene comunemente che i mezzi di comunicazione di massa esercitino una
notevole influenza sulle opinioni, gli atteggiamenti e i comportamenti della
gente, per cui chi detiene il potere mediatico (istituzioni o privati che siano) ha
la facoltà di controllare e condizionare gli individui e i gruppi sociali.
18
4. POTERE E INFLUENZA DEI MEDIA
Il potere di influenza dei media è stato a lungo studiato da sociologi ed
esperti di comunicazione nel corso del ‘900. Ne sono nate interpretazioni
molto diverse anche in rapporto alle epoche storiche nelle quali sono state
elaborate: chi ha immaginato un’influenza diretta dei media su un pubblico
passivo che si lascia facilmente condizionare; chi ha invece sottolineato il ruolo
attivo dell’audience, che non sarebbe affatto manipolabile a piacimento; chi ha
sostenuto che gli effetti dei media sul pubblico si vedono solo nel lungo
periodo.
4.1 Rapporti media-società
L’universalità, la popolarità e il carattere pubblico hanno alcune
conseguenze per l’organizzazione politica e la vita culturale delle società
contemporanee. Rispetto alla politica i mass media sono diventati col tempo un
elemento essenziale del processo democratico, in quanto forniscono un’arena
per il dibattito, danno visibilità ai candidati e diffondono una pluralità di
informazioni e opinioni. I media sono un mezzo per esercitare il potere grazie
all’accesso relativamente privilegiato che i politici e i governanti possono
richiedere loro come legittimo diritto10.
I media costituiscono - rispetto alla cultura - una fonte importante di
definizioni e immagini della realtà sociale e l’espressione più diffusa di
un’identità comune. Sono il principale mezzo di intrattenimento e di svago che
fornisce, più di ogni altra istituzione, l’ambiente culturale condiviso per la
maggior parte delle persone. Inoltre i media stanno acquisendo una sempre
maggiore importanza economica: le industrie mediali crescono, si diversificano
e consolidano il proprio potere nel mercato. Nel bene o nel male, la
democrazia (e il suo contrario) dipende sempre di più dai mass media a livello
nazionale e internazionale; quando si affrontano i problemi sociali più
importanti è impossibile prescindere dal loro ruolo.
Quali sono i livelli di incidenza elettorale o sul modo di governare? E la
moderna tecnologia non pone in essere la tecnopolitica? E’ difficile accertarlo,
ma non possiamo esimerci di porci queste domande.Tutte le principali
questioni sociali – che riguardano la distribuzione e l’esercizio del potere e i
processi di integrazione e cambiamento - ruotano intorno alla comunicazione e
più precisamente intorno ai messaggi veicolati dai mezzi di comunicazione
pubblici sotto forma di informazioni, opinioni, notizie o intrattenimento.
10
G. SARTORI, Democrazia Cosa è, Rizzoli, Milano1994 e Homo videns. Televisione e
post-pensiero, Laterza, Bari-Roma 1999.
19
4.2 Media e società
Quando si studiano i media si possono seguire due principali
prospettive in relazione al rapporto media/società: un approccio socio-centrico
e un approccio media-centrico. Esiste una seconda linea di demarcazione
determinata dalla predilezione da parte dei teorici rispettivamente per il mondo
della cultura (e delle idee) o per il riconoscimento della centralità dei fattori
materiali. Dalla combinazione di questi approcci scaturiscono quattro modelli
teorici così rappresentabili.
Media-centrico
Culturalista
Materialista
Socio-centrico
Schema tratto da McQuail, Sociologia dei media
1) La prospettiva media-culturalista si caratterizza per l’attenzione rivolta
al contenuto e alla ricezione dei messaggi dei media, influenzati dal
contesto personale immediato.
2) L’approccio media-materialista si distingue perché il focus è incentrato
sugli aspetti politico-economici e tecnologici dei media in questione.
3) La prospettiva socio-culturalista sottolinea l’influenza dei fattori sociali
sulla produzione e ricezione dei media e le funzioni di questi ultimi
nella vita sociale.
4) La prospettiva socio-materialista, infine, è definita dalla considerazione
dei media come «riflesso delle condizioni economiche e materiali della
società».
5. SCIENZA DELLA COMUNICAZIONE E STUDIO DELLA
COMUNICAZIONE DI MASSA
Lo studio della comunicazione di massa non è che un’area delle scienze
sociali e non esaurisce assolutamente il campo di indagine sulla comunicazione
umana. Interessa qui invece caratterizzare la scienza della comunicazione in
termini rigorosi, per indicare gli assi e le linee metodologiche da seguire nel
corso di questa sezione. Assumiamo pertanto la definizione di Berger-Chaffee
secondo cui la scienza della comunicazione può essere definita come «il
tentativo di capire la produzione, il consumo e gli effetti dei sistemi di simboli e
20
segnali sulla base di teorie verificabili contenenti legittime generalizzazioni che
spieghino i fenomeni legati alla produzione, al consumo e agli effetti»11.
I recenti sviluppi della tecnologia hanno reso più confusa la linea di
demarcazione tra comunicazione pubblica e privata e comunicazione di massa
e interpersonale, rendendo con ciò più difficile definire il campo di
applicazione della ricerca sulla comunicazione di massa.
Nel 1948, il grande sociologo americano Harold Laswell propone un modello
per l’analisi sociopolitica della comunicazione di massa12 che diverrà poi celebre
come modello delle 5 W della comunicazione. In quel modello, infatti, Laswell
chiariva che per descrivere adeguatamente un fenomeno di comunicazione
occorre rispondere a 5 domande che, nella lingua inglese, sono appunto
introdotte da 5 W: chi (Who), dice cosa (What), attraverso quale canale
(through Which channel), a chi (to Whom) e con quale effetto (with which
effect)?
1. Chi comunica a chi?
Fonti e riceventi
2. Perché?
Funzioni e scopi
3. In che modo?
Canali, linguaggi, codici
4. Su che cosa?
Contenuto e tipi di informazione
5. Con quali effetti?
Intenzionali e inintenzionali
5.1 Approccio strutturale, comportamentale e culturale
E’ possibile identificare tre approcci – tra loro alternativi – su cui è
possibile costituire una scienza della comunicazione: l’approccio strutturale,
l’approccio comportamentale e l’approccio culturale.
L’approccio strutturale deriva in linea di massima dalla sociologia, ma
riceve apporti dalla storia, dal diritto e dall’economia. Il suo punto di partenza è
socio-centrico. L’attenzione è rivolta soprattutto ai sistemi e alle organizzazioni
mediali e ai loro rapporti con la società. Quando sorgono questioni di
contenuto, il fuoco tende a spostarsi sugli effetti della struttura sociale e dei
sistemi e dei sistemi mediali sui contenuti.
11
C.R. BERGER e S. H. CHAFFEE, The Study of Communication as a Science, in C.R.
Berger e S.H. Chaffee (a cura di) Handbook of Communication Science, Beverly Hills (CA)
–London, Sage, pp. 15-19.
12
H. LASWELL, The Structure and Function of Communication in Society, in L.
BRYSON (Ed.), The Communication of Ideas, New York, Harper, 1948
21
L’approccio comportamentale è radicato principalmente nella
psicologia e nella psicologia sociale, ma è anche rappresentato da una variante
sociologica. In generale, l’oggetto di interesse è il comportamento umano
individuale, specialmente per quanto riguarda la scelta, il consumo e la risposta
ai messaggi della comunicazione (cioè l’uso e l’effetto dei mezzi di
comunicazione di massa).
L’approccio culturale ha le sue radici negli studi umanistici,
nell’antropologia
e nella sociolinguistica. Nonostante le sue enormi
potenzialità è stato in genere applicato a problemi di significato e linguaggio,
alle minuzie di particolari contesti sociali ed esperienze culturali. Tranne poche
eccezioni, tende a essere media-centrico, sensibile alle differenze tra media e
contesti comunicativi, più interessato alla comprensione in profondità di casi e
situazioni particolari o unici che non alle generalizzazioni.
5.2 Comunicazione e cultura. Prime riflessioni su media e società
Storicamente, la prima questione culturale affrontata dalla teoria dei
media è stata quella del carattere della nuova cultura di massa, resa possibile
dalla comunicazione di massa. Un secondo tema riguarda le possibili
conseguenze delle nuove tecnologie. Un terzo tema, gli aspetti economicopolitici della produzione organizzata della cultura. Un risvolto importante è la
mercificazione della cultura sotto forma del software prodotto dall’hardware
della comunicazione, venduto e scambiato su mercati sempre più globali
Nonostante gli enormi cambiamenti dei media, della tecnologia e anche
della società, e nonostante la nascita di una scienza della comunicazione, i
termini del dibattito sulla rilevanza sociale dei media sono rimasti pressoché
immutati. Fin dall’inizio del secolo XX furono tre correnti di pensiero ad
affermarsi: la prima riguardava la questione del potere dei nuovi mezzi di
comunicazione; la seconda, quella dell’integrazione o disgregazione sociale; la
terza la questione dell’acculturamento (o dell’abbrutimento) del pubblico. In
genere, le condizioni perché si affermasse il potere dei mezzi di comunicazione
erano individuate in un’industria dei media nazionale capace di raggiungere la
maggioranza della popolazione, un certo grado di controllo monopolistico o
autoritario al vertice o al centro, un pubblico affezionato ai media e sensibile al
loro fascino. Il rapporto tra mezzi di comunicazione popolari e integrazione
sociale era facilmente concettualizzabile in termini negativi e individualistici
(più solitudine, criminalità e immoralità), ma non era impossibile immaginare
anche un contributo positivo della comunicazione moderna alla coesione e alla
comunanza. I mass media potevano favorire un nuovo tipo di coesione in
grado di unire i singoli individui in una comune esperienza nazionale, cittadina
e locale; e ancora, appoggiare i movimenti di riforma sociale e la nuova
22
democrazia politica. I media potevano essere decisivi per l’educazione delle
masse, integrando e potenziando le nuove istituzioni della scolarità di massa.
5.3 Potere e disuguaglianza
I media operano in società dove il potere è distribuito in modo ineguale
tra individui, gruppi e classi. Poiché i media sono sempre legati in qualche
modo alla struttura dominante di potere economico e politico, questo rapporto
solleva parecchi interrogativi: chi controlla i media e nell’interesse di chi? quale
visione del mondo (della realtà sociale) viene offerta? Fino a che punto i media
raggiungono gli obiettivi che si prefiggono? i mass media favoriscono, oppure
no, l’eguaglianza sociale?
Fonte sociale
EGEMONIA
Classe o élite dominante
Media
Proprietà concentrata
Produzione
Standardizzata,
moltiplicata, controllata
Selettivi e decisi dall’alto
Contenuto e
visione del
mondo
Pubblico
Effetti
PLURALISMO
Gruppi e interessi politici,
sociali, culturali, antagonistici
Molti e indipendenti l’uno
dall’altro
Creativa, libera, originale
Visioni diverse e antagoniste,
sensibili alla domanda del
pubblico
Dipendente, passivo,
Frammentato, selettivo,
organizzato su larga scala reattivo e attivo
Forti e a favore dell’ordine Numerosi, senza una
sociale vigente
direzione coerente o
prevedibile, ma spesso
assenti
Schema tratto da McQuail
Cit.
5.4 Teoria funzionalista
L’approccio funzionalista nello studio dei mass media sottolinea
l’apporto positivo da essi svolto in ordine al buon funzionamento del sistema
sociale. Rilevante appare il fattore relativo all’integrazione degli elementi
costituenti la società, la cooperazione fra gli stessi, la possibilità di favorire
l’ordine, il controllo e la stabilità del sistema, senza precludere la possibilità
della mobilitazione intesa come passaggio flessibile da uno status all’altro. I
media favoriscono l’integrazione culturale, ossia l’unificazione delle
conoscenze, dei principi, i valori, le norme, le credenze, le abitudini di vita, i
23
modi di fare e di rapportarsi gli uni agli altri. I media svolgono una rilevante
funzione nel garantire la continuità della cultura e dei valori vigenti all’interno
della società. Tra le funzioni messe in evidenza vi è, ancora, il conferimento di
status a persone di cui i media si interessano rendendole celebri e l’effetto
moralizzatore ottenuto divulgando e additando malefatte e comportamenti
devianti di alcuni. Autori come Lazarsfeld e Merton hanno indicato come la
funzione ricreativa svolta dai media vada incontro ai bisogni estetici e
all’esigenza di riposarsi e allentare le tensioni.
5.5 Teoria marxista dei media
L’approccio marxista allo studio dei media fa capo all’ipotesi euristica desunta
dal materialismo storico secondo cui il mondo delle idee è il riflesso della
struttura economica. Questo si traduce nella prospettiva per cui i media, al pari
della scuola e in genere delle agenzie di socializzazione, sono mezzi di
riproduzione dei rapporti di dominio. Non fanno che perpetuare le condizioni
socio-culturali esistenti e per questa via assicurano che squilibri economici,
sfruttamento e oppressione restino invariati. I media sono in mano alla
borghesia ed operano nell’interesse della borghesia incoraggiando la falsa
coscienza della classe operaia. Nella sua forma più radicale gli interpreti
marxisti denunciano la negazione dell’accesso ai media all’opposizione politica.
5.6 Determinismo tecnologico
Come abbiamo visto sopra, il primato conferito alla struttura economica può
aprire all’approccio marxista, ma anche al primato delle strutture
economiche come fattore causale delle trasformazioni all’opera nella
società. L’ipotesi euristica del determinismo tecnologico sottolinea come le
rivoluzioni nella comunicazione portino a rivoluzioni nella società. Nel
corso di questo testo avremo modo di soffermarci sulle trasformazioni in
atto negli stili cognitivi, nel modo di comunicare inter-personale, nel modo
in cui si trasmette il sapere nella società.
24
SEZIONE 2
NUOVI MEDIA E NUOVE TECNOLOGIE DELLA
COMUNICAZIONE
25
26
1. I NUOVI MEDIA
La teoria della comunicazione di massa è continuamente reinterpretata
alla luce delle nuove tecnologie e delle loro applicazioni. Un aspetto
particolarmente innovativo sul piano delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (ICT) è senz’altro la digitalizzazione. Si tratta di un processo
attraverso cui tutti i testi (intesi come significati simbolici in ogni forma
codificata e registrata) possono essere tradotti in un codice binario e sottoposti
allo stesso processo di produzione, distribuzione e memorizzazione.
Poiché un mezzo incarna anche un insieme di relazioni sociali che
interagiscono con le caratteristiche della nuova tecnologia, si capisce
l’importanza di un ripensamento in chiave sociologica dell’avvento dei nuovi
media. Va osservato, peraltro, che i nuovi media non hanno soppiantato i
vecchi media. Pertanto possono essere visti in un’ottica della compresenza
piuttosto che in un’ottica della sostituzione.
Tentiamo di individuare le conseguenze rivoluzionarie che la
digitalizzazione sta operando.
Allo stato attuale si possono azzardare alcune ipotesi sulla base
dell’esperienza storica precedente e delle tendenze attuali.
Consideriamo le caratteristiche principali delle istituzioni mediali (che
qui enucleiamo):
1-2. L’attività principale è la produzione e la distribuzione di contenuti
simbolici;
3. i media operano all’interno della sfera pubblica e sono regolati di
conseguenza;
4. la partecipazione come emittente o ricevente è volontaria;
5. i media hanno una organizzazione professionale e burocratica.
Internet differisce in tre dei cinque punti individuati relativamente ai mass
media.
Come rileva McQuail, «Internet non ha a che fare soltanto con la
produzione e la distribuzione dei messaggi, ma anche con la loro elaborazione,
il loro scambio e la loro memorizzazione. In secondo luogo, i nuovi media
hanno a che fare sia con la comunicazione privata che con quella pubblica, e
sono regolati (o meno) di conseguenza»13.
I tentativi di descrivere i nuovi media sono stati molti, soprattutto per
quanto riguarda Internet, ma la difficoltà sta nell’incertezza circa i loro utilizzi
futuri e le forme istituzionali che potranno assumere. Il computer, nel suo uso
come mezzo di comunicazione, ha portato a numerose possibilità di utilizzo,
13
MC QUAIL, Sociologia dei media, op. cit., p. 115.
27
nessuna delle quali è predominante. Allo stato attuale si può convenire con le
osservazioni di McQuail laddove indica i fattori innovativi della comunicazione
attraverso la rete: «Internet supera i limiti dei modelli della stampa e del sistema
radiotelevisivo in quanto 1) permette le conversazioni da molti a molti; 2)
rende simultaneamente possibile la ricezione, l’elaborazione e la redistribuzione
di oggetti culturali; 3) comporta la dislocazione comunicativa ulteriore rispetto
ai confini nazionali e alle relazioni spaziali territorializzate tipiche della
modernità; 4) fornisce un contatto globale istantaneo e, infine 5) immette il
soggetto moderno/tardo moderno in una rete interconnessa»14.
1.1 Le nuove tecnologie della comunicazione
Questa parte del volume si propone di affrontare il tema
dell'innovazione tecnologia in campo comunicativo. Tutto l'universo della
comunicazione è stato sensibilmente influenzato, negli ultimi anni,
dall'intervento di novità tecniche che hanno rivoluzionato le caratteristiche
riguardanti le modalità operative e gli aspetti culturali messi in gioco.
L'invenzione fondamentale è stata senza dubbio quella della trasformazione
della forma del segnale dal suo tradizionale modello analogico in quello
numerico. Si parla pertanto di rivoluzione del digitale. Essa ha prodotto
rimarchevoli conseguenze tanto nel campo della diffusione-distribuzione,
quanto in quello della costruzione dei segni e dei simboli coinvolti nei diversi
linguaggi e nei relativi messaggi.
A questa radicale trasformazione tecnologica dell'esercizio
comunicativo si debbono aggiungere le invenzioni delle fibre ottiche e dei
satelliti, che hanno a loro volta incrementato la possibilità quantitativa della
diffusione di segnali. La metafora della rete è la più adeguata a rappresentare la
realtà del virtuale. La rete di canali e di "vie" di comunicazione si è fatta
sempre più fitta e ricca di messaggi e di unità di informazioni. Queste
innovazioni comportano vantaggi indiscutibili e notevoli progressi dal punto di
vista socio-culturale. Implicano altresì competenze rilevanti di accesso ai nuovi
media e responsabilizzazioni al livello del senso critico, al fine di evitare assurde
dipendenze e il pericolo di essere usati dagli stessi mezzi.
1.2 Le reti.
Il connubio tra il mondo della comunicazione e quello della telematica
porta a sottolineare il concetto di trasmissione. Se la propagazione del sapere è
14
Ibidem.
28
un dato centrale nella comunicazione intesa in senso tradizionale, lo diventa in
modo ancor più accentuato nel momento in cui si ha a che fare con delle
innovazioni tecnologiche incentrate proprio sul tentativo di ampliare le
possibilità di trasmissione. Negroponte contrappone alla condizione di
"nomadismo" dell'uomo post-moderno, obbligato a viaggi continui, la
possibilità imminente, grazie al potenziamento delle reti di comunicazione,
della "presenza" intesa come "stare a casa". Il punto che spesso si trascura è
che oggi è possibile spostarsi liberamente proprio perché possediamo i sistemi
migliori per restare in contatto con la nostra base di operazioni"15. La mobilità,
messa in gioco dalla trasmissione telematica dei dati, diventa allora un percorso
che si svolge restando nello stesso luogo fisico.
Il concetto di rete evade ben presto da un ambito puramente tecnico,
per arrivare a significare un universo in cui tutto è legato, se non in profondità,
almeno in estensione, in cui il valore è dato anche dallo stabilirsi di un
collegamento, di un rapporto. Le reti annullano le distanze tra l'utente e
l'archivio e la distinzione tra i vari tipi di dati.
Le reti locali possono connettere i loro estremi con fibre ottiche,
mentre per le grandi distanze è necessario ricorrere ai satelliti.
Il rapporto di proporzionalità inversa tra complessità (di costruzione,
soprattutto per ciò che concerne il software) e facilità (di uso) è una costante
delle tecnologie moderne. Lo ha rilevato in un suo romanzo Milan Kundera,
descrivendo gli albori della rivoluzione industriale, e insieme il crepuscolo della
civiltà pretecnologica: "Goethe (…) visse in quel breve momento della storia in
cui il livello tecnico dava già alla vita una certa comodità, ma l'uomo colto
poteva ancora capire tutti gli strumenti che usava. Goethe sapeva con che cosa
e come era costruita la casa in cui abitava, sapeva perché faceva luce la lampada
a petrolio, conosceva il principio del cannocchiale (…), certo non poteva fare il
chirurgo, ma aveva assistito ad alcune operazioni e quando era ammalato
poteva intendersi con il medico usando un vocabolario da esperto. Il mondo
degli oggetti della tecnica era per lui comprensibile e interamente dischiuso al
suo sguardo"16. Le parole del romanziere descrivono meglio di qualunque dotto
trattato la fase cruciale che il cammino tecnologico dell'Occidente sta
attraversando: quella in cui la complessità delle macchine sta per raggiungere il
limite della comprensibilità per gli intellettuali colti. Da allora in poi, la
macchina ha avuto una sua storia impermeabile alle coscienze, se non alle
azioni degli uomini. Possiamo anche andare un po’ oltre l'intuizione del
romanziere ceco, per osservare che il vero nodo del problema consiste
nell'irrilevanza della comprensione del funzionamento di una macchina rispetto
15
16
N. NEGROPONTE, Essere digitali, Sperling &Kupler 1995, pp. 59-60.
M. KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano 1999, p. 90.
29
alla facilità del suo uso: è insomma principalmente un fatto ergonomico a
comandare il rapporto utilizzazione/conoscenza tra l'uomo e le tecnologie.
L'esplosione del virtuale si è verificata grazie a due fattori: l'enorme
sviluppo della potenza di calcolo dei computer e l'interconnessione
generalizzata dei calcolatori tra loro, specialmente grazie a Internet. La
rivoluzione del virtuale poggia su quattro principali tappe tecnologiche: a)
l'apparizione del trattamento digitale dell'immagine; b) la possibilità di
interagire in tempo reale; c) il sentimento di immersione nell'immagine, grazie
alle tecniche di visualizzazione stereoscopica o altre; d) lo sviluppo delle
tecniche di telepresenza e di televirtualità.
Stiamo vivendo un momento eccezionale nella storia della
rappresentazione. Viviamo un momento paragonabile a quello della
apparizione della stampa. Con Internet, con lo sviluppo delle tecnologie del
virtuale, abbiamo al tempo stesso un sistema di distribuzione e di accesso
all'informazione di una potenza senza pari, ma anche un nuovo modo di
rappresentare il mondo. Nessun sistema di rappresentazione è indipendente da
una ideologia implicita. I nuovi sistemi di rappresentazione non sono
evidentemente esenti da una nuova ideologia. Ma è sempre meno semplice
decifrarla. Quando un grande come Leonardo da Vinci si è misurato con la
prospettiva, il suo modo di operare poteva sembrare difficile da capire per i
suoi contemporanei, perché era in un certo senso la matematica più complessa
del suo tempo che lui metteva in immagini. Nelle nuove tecnologie del visuale
e del virtuale, che si stanno sviluppando, c'è anche molta matematica, ma una
matematica più sottile, più nascosta. La prospettiva, in un certo senso, si dà a
vedere in quanto modello di rappresentazione. Con il virtuale abbiamo a che
fare con tecniche che sono essenzialmente linguistiche e criptiche per chi
voglia comprenderle. Sicché, ci sono due facce del virtuale: la faccia visibile e
quella invisibile, come in un iceberg. La faccia visibile è la più piccola, e si lascia
scorgere facilmente, ma nasconde, appunto, quella che non si mostra. E ciò
che del virtuale non si vede nel visuale, ciò che si può solo indovinare o intuire
è il campo più complesso che lo spirito umano abbia mai inventato. Da una
parte c'è l'aumento incredibile della potenza dei calcolatori. Una sola cifra per
fissare le idee: è un luogo comune, ma è opportuno ricordarlo: in trent'anni,
dalla fine degli anni Sessanta fino a oggi, la potenza dei calcolatori si è
moltiplicata per dieci alla settima, cioè per dieci milioni. Questo vuol dire che
calcolatori che occupavano uno spazio pari a quello di Villa Medici, ormai si
possono trovare su una semplice scrivania, possono essere regalati ai ragazzi
per Natale. Questo è il primo punto. Il secondo è l'interconnessione
generalizzata dei calcolatori tra loro, specialmente grazie a Internet.
Internet costituisce una rivoluzione incredibile per due ragioni: la prima è
che permette una diminuzione dei costi di comunicazione estremamente
30
importante - nell'ordine di mille o diecimila volte meno - in rapporto al
telefono, e la seconda è che Internet permette, grazie alla diminuzione dei costi,
lo sviluppo di una comunità mondiale. Per usare una metafora forse un po'
ampollosa, ma che a mio avviso contiene una parte di verità, vorrei citare il
termine di "noosfera", di Teilhard de Chardin17. Internet è un modo di
concretizzare nella realtà questa intuizione della "noosfera" a cui pensava
Teilhard de Chardin. Per noosfera si intende il termine con cui il filosofo
definisce l’insieme di tecnologie, codici e sistemi di comunicazione che
ricoprono il mondo come un immenso sistema pensante artificiale. Teilhard de
Chardin scriveva mezzo secolo prima di Internet, ma ebbe folgoranti intuizioni
sul futuro dei calcolatori, che emettevano i primi vagiti.
1.3 Prima tappa Trattamento virtuale delle immagini18
La maniera in cui l'immagine di sintesi, l'immagine virtuale, l'immagine digitale
si sviluppa nello spazio sociale è straordinariamente varia. Immagini virtuali si
trovano nei posti di comando dei generali a cinque stelle che dirigono la
Guerra del Golfo, ma vengono usate anche dagli psichiatri, dai ragazzi, dagli
astrofisici, si trovano praticamente dappertutto. Illustrarne le varie applicazioni
in maniera esaustiva sarebbe impossibile qui. La rivoluzione del virtuale poggia
su quattro principali tappe tecnologiche.
1. Apparizione del trattamento digitale dell'immagine. L'immagine ormai può
essere generata per mezzo di operazioni linguistiche astratte. Con il digitale
l'immagine è diventata un linguaggio non in senso metaforico, ma nel senso
stretto della parola. E' questa la rottura fondamentale in rapporto con le
tecniche del passato. L'immagine digitale è innanzitutto una scrittura: si
scrivono delle immagini battendo su una tastiera. Non è una metafora. Non è
tanto la metafora dell'immagine come scrittura nel senso vago dell'espressione,
è veramente la possibilità di giocare con le immagini come si gioca con gli
aggettivi, con i verbi, con le parole. E' proprio questo che si fa, quando si
programmano delle scene, quando si creano, a partire da manipolazioni
linguistiche, dei mondi virtuali. Finora le immagini, l'immagine del pittore,
l'immagine del cineasta, l'immagine del fotografo, l'immagine del "videasta" o,
se si preferisce, della televisione, partecipavano della materialità del mondo. Il
pittore manipola dei pigmenti. Si stabilisce dunque un contatto tra la volontà
18
Philippe Queau, su http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio. Questo paragrafo è un
adattamento di un intervento svoltosi a Villa Medici a Roma il 15 dicembre 1995
nell’ambito di una conferenza organizzata dal Centro Culturale francese.
31
del pittore e una materialità che gli oppone resistenza. Il fotografo, come il
cineasta o il "videasta" gioca con dei fotoni. Ci sono dei fotoni che vengono a
imprimersi su una superficie fotosensibile, che si tratti della gelatina
fotochimica, del tubo elettronico della videocamera o della pellicola
cinematografica. In tutti i casi l'immagine un tempo era legata alla materialità,
alla concretezza del mondo reale. Con l'immagine virtuale, con l'immagine di
sintesi, non sono più dei fotoni o dei pigmenti che creano l'immagine, ma delle
pure operazioni linguistiche. E in questo modo l'immagine appartiene
interamente al regno del linguaggio. Questo è assolutamente fondamentale, in
senso buono e in senso cattivo. In senso buono: ci offre la libertà del
linguaggio, la sovrana libertà dell'espressione, separata da ogni rapporto con il
reale; in senso cattivo: l'inconveniente è che proprio perché è privata di ogni
relazione con il reale ne perde il sostanzioso midollo. Quindi il dibattito che si
potrebbe sviluppare eventualmente è: che cosa si guadagna, che cosa si perde a
rifugiarsi così nel regno dei linguaggi simbolici astratti, quando si vogliono fare
delle immagini?
2. La possibilità di interagire in tempo reale, cioè senza dimensione temporale
addizionale. Si può agire sull'immagine nell'immediatezza della volontà di agire.
Questo è certamente noto almeno da una trentina d'anni per i simulatori di
volo, ma ormai queste tecniche di interazione in tempo reale sono a
disposizione anche dei bambini di cinque anni, e a buon prezzo.
3. Il sentimento di immersione nell'immagine grazie alle tecniche di
visualizzazione stereoscopica o altre, come gli schermi giganti.
4. Lo sviluppo delle tecniche di telepresenza e di televirtualità. Esse consistono
essenzialmente nella congiunzione delle reti come Internet con le tecniche
precedenti.
5. L'abolizione della distanza. Si tratta quindi di una rivoluzione assolutamente
radicale dell'immagine. Per quale ragione? Non certo essenzialmente per una
ragione tecnologica, ma piuttosto per una ragione d'ordine epistemologico o
filosofico. Classicamente, i rapporti tra l'immagine e il linguaggio, l'immagine e
il modello, l'immagine e il luogo e infine tra l'immagine e la rappresentazione, e
più precisamente tra la rappresentazione e la presenza, erano caratterizzati dalla
distanza. Ormai assistiamo a una specie di fusione, nei quattro ordini di cui
abbiamo parlato: l'immagine e il linguaggio si fondono, l'immagine e il modello
dell'immagine si fondono. Il modello del pittore, ontologicamente parlando,
non ha la stessa natura dell'immagine che il pittore ne trae. Ora invece, nel
quadro del virtuale, il modello è altrettanto virtuale dell'immagine generata per
mezzo di quel modello. Dunque sul piano ontologico l'immagine virtuale, così
come il modello che le dà origine, sono costituiti della stessa sostanza
immateriale. Di fatto c'è una specie di confusione intrinseca, di ibridazione del
livello dell'immagine con il livello del modello e questo fatto si traduce in
32
proprietà del tutto nuove: come, per esempio, la possibilità di ottenere una
retroazione del livello di rappresentazione delle immagini sul livello di
rappresentazione del modello, cosa che si può osservare tipicamente
nell'intelligenza artificiale, nel riconoscimento di forme, eccetera. Ho parlato
dell'immagine e del luogo. Se classicamente eravamo posizionati davanti alle
immagini, eravamo situati in un rapporto frontale con le immagini; ormai si
può entrare "nell'immagine" e anche qui si sviluppa una forma di confusione
tra l'immagine come luogo e l'immagine come superficie; tra l'immagine come
schermo e l'immagine come spazio. La quarta forma di confusione - e uso di
proposito la parola "confusione" - è quella tra presenza e rappresentazione. Si
può dire che classicamente l'immagine si dà come una rappresentazione
dell'assenza, della distanza, dell'oblio, della memoria. L'immagine è un modo
per introdurre una pseudopresenza, non è altro che una ri-presentazione. Con
l'immagine di telepresenza, con l'immagine di televirtualità noi abbiamo a che
fare con pure rappresentazioni che sono al tempo stesso delle presenze. E, a
differenza del presentatore della televisione, che non è mai presente, che non è
presente allo spettatore, ma che dà soltanto l'illusione della presenza, voi avete
a che fare con dei cloni che vi parlano, che sono ben presenti, come la voce
telefonica, che è là nel vostro orecchio ed esprime una presenza, un ascolto,
una realtà ontologica dell'ascolto. In realtà nel campo della televirtualità
abbiamo ormai una specie di spazio intermedio di presenza, che è al tempo
stesso virtuale e reale. E sempre più il rischio che correremo nella civiltà del
virtuale è il rischio della confusione.
Ho usato parecchie volte questo termine di "confusione" tra immagine
e linguaggio, tra immagine e luogo, tra immagine e presenza, tra immagine e
modello. Nel movimento generale della rivoluzione del virtuale, questo
movimento indebolirà, cancellerà, annienterà i confini troppo netti, che la
nostra cultura aveva l'abitudine di tracciare tra i poli, i diversi poli che ho
menzionato. Con le tecnologie del virtuale - e lo si può vedere fin d'ora, per
esempio, con la pratica multimediale della manipolazione di immagini - la
barriera tra il reale e il virtuale tende a crollare. Quando, come si è fatto qualche
tempo fa, a Antenne 2 o a France 2, semplicemente perché mancano le
immagini per illustrare un servizio e manca il tempo di procurarsele, nel giro di
qualche minuto si dotano di barbe islamiche degli uomini della Francia
settentrionale per far credere che si sono intervistati degli Islamici, e si illustra
così un servizio sull'Islam, si vede bene fino a che punto la frontiera tra verità e
finzione sfumi del tutto. Le stesse tecniche che permettono di realizzare gli
effetti speciali per i film di "fiction" sono usate ordinariamente per illustrare dei
servizi dal vero.
Possiamo avere un’idea della potenza della fibra istituendo il seguente
paragone: se immaginiamo che il filo del telefono che oggi arriva nelle nostre
33
case, un doppino di rame, sia un sentiero largo 60 centimetri, una fibra ottica
dal diametro di un capello in proporzione equivale a un autostrada larga (non
lunga!) 1200 chilometri. E’ facile quindi immaginare quante informazioni
potranno presto confluire nelle nostre case. In termini tecnici, una fibra può
portare circa 1000 miliardi di bit al secondo. Ciò equivale a trasmettere tutti in
numeri del Wall Street Journal finora pubblicati in un secondo19.
1.4 Le autostrade dell'informazione.
Bisogna rendersi conto che questi mezzi di rappresentazione sono assai più
potenti nel loro impatto sociale ed economico di quanto non si potrebbe
credere. Le autostrade informatiche hanno già causato una specie di
cortocircuito generalizzato sul nostro pianeta. Facciamo alcuni esempi: una
azienda tedesca come Siemens fa tutta la sua manutenzione teleinformatica
nelle Filippine. La Swissair fa la raccolta dei dati contabili e la gestione delle
prenotazioni di volo, nelle Filippine. Il governo canadese ha firmato un
contratto con una grande azienda indiana di consulenze a Bombay, affinché si
occupi delle pratiche di previdenza sociale. Tutti questi esempi ci servono solo
di riferimento per una realtà più generalizzata di telelavoro, di telepresenza, di
televirtualità del lavoro di gruppo, attraverso reti estremamente potenti, per la
loro capacità di rappresentazione e anche estremamente economiche per i costi
di funzionamento. Caso tipico: un collegamento con Internet costa circa 50 F.
al mese. Oggi ci si può abbonare a Internet con 50 euro al mese in Paesi come
la Francia, l'Italia e evidentemente gli Stati Uniti. Con un collegamento che
costa 50 euro al mese si può telefonare in tutto il mondo, si possono
recuperare immagini video in tempo reale della CNN su Internet o si possono
fare anche delle teleconferenze. Se si trae la logica conclusione da questo uso
generalizzato di immagini, sempre più convincenti dal punto di vista del
realismo, dal punto di vista delle prestazioni interattive, ci si trova davanti a un
corto circuito planetario che sta per verificarsi e che si propagherà a interi
settori delle nostre economie europee. Si pensi alle banche, alle assicurazioni, al
settore di tutti coloro che si occupano di manipolazione dell'informazione e,
last but not least il settore dell'immateriale. Intendiamo riferirci alla cybereconomy. E' il settore più facilmente virtualizzabile sulle reti mondiali. Noi
andiamo verso forme avanzate di economia virtuale, di cyber-economia, che
accompagnano la tendenza correlativa alla gestione planetaria dei movimenti di
capitale. Ogni giorno avvengono sulle reti internazionali di cambio bancario
scambi finanziari per tremila miliardi di dollari. Di questi tremila miliardi di
dollari, in media solo l'1% viene investito in operazioni che si possono
19
Questi dati sono stati desunti da P. BIANUCCI, Senza frontiere, in AA.VV. (a cura di J.
Jacobelli) La svolta della TV, Laterza, Bari-Roma 1997, p. 22.
34
chiamare reali, cioè corrispondenti a operazioni commerciali reali, come la
compravendita di prodotti. Il rimanente 99% corrisponde unicamente a
manovre speculative, basate spesso su modelli matematici, su modelli essi stessi
virtuali. Cioè sono rappresentazioni astratte di una modellizzazione astratta del
valore che i capitali rappresentano. Si può dire che oggi c'è una specie di
accresciuta coesione tra virtualizzazione dell'economia, virtualizzazione della
sfera speculativa e virtualizzazione dei mezzi di rappresentazione.
1.5 Un nuovo modello di società.
La rivoluzione del virtuale si riassume in due caratteristiche essenziali: la
prima è che si tratta veramente dell'apparizione di una nuova scrittura, di una
nuova maniera di rappresentare il mondo, che vale per fare la guerra, per
speculare, per fare dei film, per la creazione artistica; la seconda riguarda la
nascita di un nuovo modello di società.
Si tratta di un nuovo modo di rappresentare il mondo, altrettanto
nuovo, in rapporto all'economia del XX secolo, all'economia dell'era
industriale, quanto lo è stato l'apparizione della stampa alla fine del XV secolo.
Come l'apparizione della stampa si è sviluppata parallelamente alla scoperta
dell'America, alla Riforma e alla Controriforma, e più in generale alla nascita del
capitalismo mercantile, così oggi l'apparizione del virtuale, come tecnica di
rappresentazione estremamente potente, economica, generalizzata a tutto il
pianeta, sta dando vita non soltanto ad un nuovo rapporto con il sapere e con
la rappresentazione, ma anche - fatto più importante - a un rapporto nuovo
con il politico. La "deregulation" che Europa e Stati Uniti si propongono in
materia di telecomunicazioni, non è che una forma di remissione della sfera del
politico in rapporto a una rivoluzione che non è solo di ordine tecnologico, ma
che è anche dell'ordine della rappresentazione. Una rivoluzione la cui essenza
non è esclusivamente tecnologica, ma riguarda ugualmente il nostro modo di
considerare il mondo, il nostro modo di rappresentarlo. Un solo esempio, per
visualizzare il problema: quando, durante la Guerra del Golfo, ricevevamo
informazioni su quello che accadeva sul terreno, vedevamo sul piccolo
schermo delle videoimmagini, cosiddette reali, che non rappresentavano nulla,
poiché erano solo il segno, l'immagine, della mancanza di intelligibilità di quello
che stava effettivamente accadendo sul terreno: avevamo quindi delle immagini
reali totalmente prive di intelligibilità. Viceversa i generali che conducevano
quella guerra erano circondati da immagini virtuali: quelle degli Hawks, quelle
dei radar, quelle degli infrarossi, quelle dei cacciabombardieri, quelle delle carte
elettroniche multidimensionali che tappezzavano i quartieri generali; tutte
quelle immagini erano sintetiche, virtuali, astratte, ma veicolavano intelligibilità.
Oggi c’è concesso dire che nessuna immagine è più vera, nel senso in cui
35
poteva essere vera un tempo: tutte le immagini, e sempre più quelle che presto
ci raggiungeranno come telespettatori medi, saranno interamente composte per
mezzo di manipolazioni linguistiche di simboli astratti e sarà sempre più
difficile distinguere il loro grado di realtà. Il problema oggi non è più stabilire
se un'immagine è vera o no, perché non ha più senso parlare di immagine vera.
Ormai la sola questione che varrà la pena di essere posta è: le immagini che ci
vengono proposte sono intelligibili o no? Soltanto nella misura in cui come
cittadini, come artisti, come creatori, come lavoratori della nuova era che si sta
annunciando saremo capaci di rispondere alla domanda: "Qual è il grado di
intelligibilità di una certa immagine?", ci troveremo o nel campo degli eletti del
virtuale o, sfortunatamente, e sottolineo con forza sfortunatamente, nel campo
dei futuri esclusi, dei proletari del virtuale. Per riassumere, non si tratta soltanto
di nuove tecnologie, ma di un nuovo modello di società, che si sta costituendo,
e alla quale non siamo per niente preparati, tenuto conto della velocità
incredibile degli sviluppi che hanno avuto luogo sotto i nostri occhi. Soltanto
un anno fa nessuno avrebbe immaginato che sarebbe stato possibile mettere su
Internet delle trasmissioni televisive, cosa invece oggi possibile. Nessuno
immaginava, solo un anno fa, che sarebbe stato così facile usare la realtà
virtuale, il mondo tridimensionale "on-line", sulle reti tipo Internet. Solo
qualche anno fa nessuno, a parte qualche specialista, un ristretto numero di
esperti, conosceva Internet; certamente non i politici e nemmeno il grande
pubblico.
1.6 L'impatto sociale delle nuove tecnologie
Secondo Giuseppe De Rita, direttore del Censis, «Dobbiamo ragionare in
termini di valutazione complessiva della società. La società odierna, secondo
coloro che vivono l'eccesso della realtà tecnologica, è una società
continuamente "up growing". L'eccesso, l'andare avanti, l'avere di più, il volere
di più, più informazioni, più elementi, più "bit", più "ram", tutto di più. La
società americana ha sempre vissuto di "up growing". Ma nella società europea
è valsa più che altro una logica di "down growing", di assestamento su livelli
medi di comportamenti, di valori. E' pensabile una trasformazione
sostanzialmente legata al continuo "up growing", al rampantismo continuo, al
griffaggio continuo, all'esasperato protagonismo continuo? Non si può essere
deterministi: siccome c'è l'innovazione, cambierà la società. Il rapporto è
sempre estremamente differenziato. Non c'è autoreferenzialità, ma dialettica
storicistica. E nella cultura collettiva di tutti quanti noi c'è più "down growing"
che "up growing"». Dove stanno i punti pragmatici di connessione fra
l'innovazione tecnologica del campo informativo e la realtà sociale?
Probabilmente la rivoluzione informativa creerà ulteriore spinta a uno
squilibrio a favore dell'economia finanziaria sull'economia reale. Inoltre la
36
struttura sociale sarà giocata non più in termini di segmenti generazionali di età,
ma di segmenti generazionali di computer. Il meccanismo della cultura
fondamentale porta a una sorta di giovanilismo. Se andiamo nel "campus" di
Microsoft a Seattle, tutti sono fra i venti, venticinque, massimo trent'anni,
superata tale età vanno altrove. Ciò significa che c'è una sorta di
schiacciamento verso i giovani del processo di trasformazione, con una sorta di
marginalizzazione degli anziani, e, siccome il meccanismo è sempre
autogenerante, si rischia che il meccanismo sia anche sociale. Aumenta il
meccanismo dei lavori delocalizzati: oggi voi potete avere a disposizione un
programmatore di Singapore, un ingegnere indiano, un contabile di Hong
Kong, un grafico indonesiano. Passando all'ambito scolastico, quando si
sottolinea con enfasi "l'imparare ad imparare" non è raro registrare nell'attività
didattica una destituzione del ruolo formativo dell'insegnante e della
conoscenza reale dei contenuti, come se lo strumento potesse sostituire il
lavoro di paziente ripresa personale. Dalle certezze formative si passa alla
navigazione a vista.
1.7 Il potere della rete
Storicamente l'informazione è stata potere e tutt’oggi è potere. La
televisione generava potere, il giornale generava potere. La rivoluzione
dell'informazione è ancora potere? Una rivoluzione che porta in rete, che fa
simultaneità, che elimina la sequenza, che elimina la mediazione, per certi versi,
perché ognuno fa per proprio conto, che elimina la finalità, che sembra sempre
un continuo gioco, fa ancora potere? La grande rete influisce su questo punto
cruciale della società moderna che è il potere? Qui le ipotesi sono tre. Secondo
la prima, la cultura della rivoluzione dell'informazione è una cultura libertaria,
individualista, e quindi bisogna far propria tale logica libertaria e individualista.
Il potere sta nel singolo e chi vuole potere, chi vuole essere eletto Presidente
degli Stati Uniti o Presidente della Repubblica Italiana, deve andarselo a cercare
in un mare di individualismo. Ciò che possiamo intravedere nel futuro è una
società ulteriormente individualistica. Credo che se ad uno di questi ragazzi
americani che navigano dodici ore su ventiquattro nella rete si ricordasse una
frase di Lévinas per cui "Il volto di Dio comincia dal volto dell'altro", questi, in
risposta, alzerebbe le spalle: chi è l'altro? chi se ne frega dell'altro? Una forma di
estraneità totale alla stessa solidarietà, quindi al rapporto, alla coesione sociale.
Ci troveremo in una realtà di caos, perché l'individualismo crea una
proliferazione di diritti e di attese tipicamente individuali e quindi difficilmente
controllabili in termini di potere. Questa è la prima ipotesi, ipotesi non di
secondaria importanza e probabile.
La seconda ipotesi, invece, sostiene che la rivoluzione della società
dell'informazione porterà ad un autoritarismo soft, perché una società di quel
37
genere sarà propensa alla democrazia diretta, sarà propensa a pensare alla rete
come quarto potere, sarà propensa a dire: non abbiamo più incentivi a mediare,
basta essere in rete. Potremo fare - dice uno di questi guru - un referendum al
giorno, perché stiamo in rete. Potremo chiedere: "Vi va il caffé o l'orzo?" e
sapremo tutti, immediatamente, cosa preferiamo, se l'orzo o il caffé. Una
democrazia diretta, quindi, probabilmente plebiscitaria, tendente a usare lo
strumento informativo tecnologico per poter imporre, non un autoritarismo
forte, di violenza fisica, ma intriso di una sorta di partecipazione emotiva in
rete. Del resto ne abbiamo avuto un sentore con il popolo dei fax. "Ah, il
popolo dei fax": quattrocento persone che mandano un fax diventano il
popolo dei fax! Ciò è il sintomo simbolico della possibilità di fare democrazia
diretta, forse anche plebiscitaria, di fare autoritarismo soft. La terza ipotesi ci
parla di una miscela fra l'individualismo individuale, personalizzato, e
l'autoritarismo soft. E' in fondo il formarsi di dimensioni intermedie, di
istituzioni leggere, di forme fluide ed aperte.
1.8 Internet e il pluralismo
Secondo la concezione funzionalista i mass media esercitano una
funzione di unificazione culturale e linguistica. Vale anche per Internet la stessa
osservazione? La centralità dell’inglese, sia pur tecnico, che si usa nella Rete ne
è una riprova? Le cose stanno veramente così? È effettivamente percepibile
questa spinta verso una forma di unificazione culturale oppure le culture della
Rete sono diversificate e non necessariamente convergenti verso un modello
linguistico e culturale americano?
La risposta è problematica. Secondo Furio Colombo «Uno strumento crea
senza dubbio delle affinità fra chi usa lo strumento. Tutti i camionisti del
mondo hanno qualcosa in comune tra loro più di quanto ce l’abbiano
addirittura con i loro vicini di casa nelle rispettive città o villaggi in cui vivono e
abitano quando non fanno i camionisti e questo vale per un'infinità di altre
professioni. Basta vedere i congressi medici internazionali in cui di colpo i
medici formano una cittadinanza propria che diventa subito forte nel momento
in cui stanno insieme e indipendentemente dal fatto che uno venga da Hong
Kong e l'altro venga da Boston. Fatalmente la pratica di professioni affini e
l'uso di strumenti affini rende affini anche le persone. Si creerà anche un
accostamento nelle qualità espressive, perché non c'è dubbio che lo strumento
in sé invita ad alcune forme di espressività piuttosto che ad altre. L'uso della
lingua, qualunque sia la lingua, è un po' diverso da come si fa sul foglio quando
si dice: “Prendo carta, penna e calamaio e mi metto a scrivere” o quando si
parla estemporaneamente. Il microfono ha inventato nuovi modi di parlare,
allo stesso modo li inventerà il computer. Nei paesi televisivamente maturi, e il
38
nostro è già un paese televisivamente maturo, si nota spessissimo che quando il
cronista raccoglie le opinioni dei cittadini, essi sono già in grado di darle molto
bene, brevi e chiare, perché hanno visto tanta televisione e hanno imparato che
non bisogna fare tante chiacchiere. Si dicono le due cose che si hanno a cuore e
che si vuole dire in quel particolare momento. Anni fa era molto più difficile
passare un microfono in mezzo a una folla di quanto non sia diventato adesso.
Dunque una forma di affinità e un modo di esprimersi relativamente
omogeneo fatalmente avverrà con l'espandersi del mezzo. Non credo che
questo fenomeno formerà una cultura unitaria, nel senso profondo della
parola. Credo invece che darà più spazio alla formazione delle culture
periferiche, delle culture originali. Avranno decisamente più spazio perché lo
strumento è agile, flessibile, e le ospita in maniera naturale. All'inizio della
televisione nel nostro paese, parlare in televisione voleva dire parlare in un
certo modo, con certe vocali, con certe consonanti, con certe caratteristiche di
pronuncia che facevano da filtro: se non le avevi, non entravi; se avevi la erre
moscia non potevi parlare a un microfono. Tutto ciò è del tutto assente in
queste nuove tecnologie. È tutto accettato perché è tutto facile e qui vale la
pena di ricordare l'indimenticabile frase di Einstein al quale domandavano: “Ma
lei come si orienta quando deve scegliere per una nuova sperimentazione?” e
lui rispondeva: “Non si può rifiutare ciò che è tecnicamente facile”. Questa
nuova tecnologia di cui stiamo parlando è tipicamente facile. Pertanto è
benevola e facilita l’ingresso di nuove espressioni, di nuove voci, di nuove
culture. Per questa ragione, avremo più pluralismo culturale. Abbiamo una
tecnologia che non invita a omogeneizzare e a omologare, ma piuttosto a
esprimersi con diversità»20.
1.9 Modello unidirezionale e polidirezionale
Dal punto di vista dei linguaggi televisione e Internet sono molto
diversi: una comunicazione dall'alto e unidirezionale quella televisiva,
comunicazione polidirezionale quella del modello Internet. Nel futuro è lecito
aspettarsi una prevalenza del modello polidirezionale. Secondo Colombo,
infatti, «nel momento in cui si rompe la circolazione monodirezionale, per
forza prevale la circolazione a due, a tre, a molte vie. Dipende dalla elasticità
tecnologica. Attualmente l'elasticità tecnologica è grande, la possibilità di
cambiamento è altrettanto grande e dunque c'è da aspettarsi, primo, che
avvenga; secondo, che avvenga molto presto; terzo, che il nuovo prevalga sul
vecchio»21.
20
21
FURIO COLOMBO in http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.
Ibidem.
39
1.10 Tecnologie della comunicazione e mutamenti della struttura
economica e sociale
La digitalizzazione di tutto il sistema televisivo permetterà la
costituzione di più canali audio, anche con lingue diverse - CNN International,
EuroNews, per fare alcuni esempi-. E’ facile identificare alcune "persistenze"
per cui non verranno meno le televisioni cosiddette generaliste, locali, regionali.
La trasformazione più sensibile si verificherà a livello del televisore,
dell'apparecchio ricettore, nel caso di una digitalizzazione diffusa, perché il
televisore sarà un apparecchio che raccoglie soltanto immagini provenienti
dall'esterno ma anche immagini provenienti dall'interno prodotte
appositamente dall'utente stesso e questo attraverso l'integrazione con il
computer, l'integrazione con cassette e con compact disc. E' necessario tenere
conto soprattutto che il televisore digitale è come un computer e quindi il
blocco, la "scatola", conterrà le funzioni del computer, le funzioni di pertinenza
televisiva e le funzioni, soprattutto, di costruzione di una specie di testo
personale derivato dalla combinazione di parti testuali alcune provenienti
dall'esterno, rispetto ed altre provenienti dall'interno.
1.11 Caratteristiche dell’ipertesto
L’ipertesto presenta alcune caratteristiche strutturali che lo possono
rendere particolarmente adatto come strumento metacognitivo aiutando a
riflettere sull’apprendimento e sulle logiche di connessione dei progressivi
blocchi di sapere, quando è realizzato dagli stessi utenti.
Peraltro le caratteristiche, individuate ad abundantiam dagli studiosi di
semiotica, della comunicazione e di didattica, sono: 1. l’organizzazione
modulare e reticolare del contenuto; 2. presenza di diverse tipologie di legami
che connettono i moduli testuali; 3. assenza di una direzione unica e obbligata;
4. interattività del rapporto di fruizione.
Come per ogni prodotto comunicativo, l’ipertesto può essere analizzato
a partire da una prospettiva storica che ne ricostruisca il percorso evolutivo;
può essere analizzato da un punto di vista strutturale che ne metta in luce le
principali caratteristiche; può essere interpretato a partire dal contesto delle
produzioni testuali in cui si colloca.
A noi interessa mettere in evidenza come nell’ipertesto il carattere che
definisce l’organizzazione del contenuto è la connettività reticolare,
attraverso cui i singoli nodi (testi) sono connessi in una rete di relazioni che
conferisce loro un senso ulteriore rispetto alla somma delle singole parti.
Nella sua dimensione informatica è possibile definire l’ipertesto come
un programma software che consente di navigare all’interno di un corpus di
informazioni testuali, senza alcun vincolo di sequenzialità, secondo itinerari
40
associativi predisposti dall’autore rispetto ai quali è possibile un’interazione di
tipo esplorativo e navigazionale.
Si definiscono ipertesti aperti o dinamici quelli in cui l’utente può
intervenire sia costruendo nuovi legami associativi o variando quelli esistenti
che vengono conservati in memoria, sia aggiungendo propri moduli informativi
o nuovi legami. Il vero contenuto dell’ipertesto è costituito non tanto dalle
unità testuali che lo compongono, quanto dai legami che vengono istituiti fra di
esse.
Una delle caratteristiche fondamentali dell’ipertesto è dunque la
connettività. L’ipertesto estende il concetto di testualità – o meglio di
conoscenze strutturate e leggibili in un’unica consultazione – oltre i confini che
le sono stati riconosciuti sino a ora, e questa è resa possibile dalla connessione
dei moduli (dei singoli testi) operata dai link.
La struttura connettiva si configura non solo come un reticolo di
possibilità di percorso per il lettore, ma anche come l’esplicitazione di una rete
di relazioni che legano i testi, ciascuno dei quali acquista un senso anche in
quanto collegato ad alcuni e non a tutti. La connettività ipertestuale è
orientata ed è frutto di atti di selezione e gerarchizzazione dei testi. La
configurazione “spaziale” definisce le caratteristiche dell’ipertesto come
oggetto da esplorare, secondo una logica di percorrenza e di interpretazione dei
percorsi.
1.12 Aspetti cognitivi, pedagogici e didattici dell’ipertesto
Come ha osservato Weissberg22, i new media infrangono le barriere tra
dentro e fuori rispetto al testo; il regime interattivo impone all’utente di non
limitarsi a guardare, ma di agire, di passare da spettatore a spett-attore, di
entrare nel testo perché esso possa attualizzare le proprie potenzialità.
In primo luogo la connettività può essere considerata quasi uno
specchio dell’attività cognitiva. In secondo luogo, l’istituzione di nessi funziona
in senso metatestuale, come disvelamento del progetto di organizzazione dei
materiali.
Gli ipertesti possono essere utilizzati come strumento e sussidio per la
didattica e per l’apprendimento. I due aspetti sono correlati, ma non
coincidenti. Sul primo versante, il sistema ipertestuale consente un valido
supporto per l’archiviazione dei materiali in corso, archiviazione che rende
molto agevole la consultazione. Il sistema ipertestuale funziona inoltre come
motore verso l’interdisciplinarietà. Ha scritto Landow23 che «la modalità
J.L. WEISSBERG, “Le compact réel/virtuel”, in AA.VV., 1989, pp. 7-28.
G. P. LANDOW (ED.), Hyper/Text/Theory, Baltimore, The J. Hopkins University Press,
1994.
22
23
41
connettiva incoraggia autore e lettore a violare i confini disciplinari».
L’ipertesto è inoltre uno stimolo nell’attività di ricerca, poiché la sua stessa
struttura spinge ad articolare il materiale e a connetterlo.
L’interattività dei sistemi propone un nuovo modo di apprendere, in cui
i ruoli di discente e di insegnante chiedono di essere ridefiniti.
Connessa a questa idea c’è quella del sapere come territorio da
percorrere e dell’apprendimento come accesso al sapere secondo le modalità
dell’esplorazione e della scoperta. Pur nel riconoscimento del maggior grado
di partecipazione attiva dello studente allo scambio, sembra però essenziale
ribadire la funzione di guida da parte dell’insegnante; costui non si limita più a
tramandare dei contenuti, ma assume il ruolo di “navigatore” evidenziando le
potenzialità del mezzo e creando non solo una abitudine all’uso dell’ipertesto,
ma una familiarità alle logiche della connettività, in modo da guidare gli
studenti a costruirsi dei quadri concettuali di riferimento.
Riportiamo di seguito alcuni brani di una interessante intervista rilasciata da
Peppino Ortoleva su Mediamente:
«D. Quali sono gli elementi di novità di un ipertesto?
R. Nella tradizione occidentale, dalla stampa in avanti, ci sono affermati
essenzialmente tre modelli di organizzazione del messaggio.
Il primo è quello classico del testo. La caratteristica fondamentale del
testo - il libro, e dopo il libro l'opera musicale e, ancora, il film -, è lo sviluppo
della storia con un inizio e una fine ben distinti, con un ordine interno che è
sempre uguale a se stesso, con una sua coerenza nel tempo. In questa
prospettiva l'ipertesto non è niente di tutto questo, perché esso ha un inizio,
nel senso che noi entriamo nell'ipertesto, ma non ha una fine predeterminata.
La fine è quella che scegliamo noi sulla base del tempo che abbiamo a
disposizione, come quando spegniamo il televisore, o anche semplicemente
sulla base del fatto che il percorso conoscitivo che ci interessava ci sembra di
averlo compiuto tutto. Ciò significa che l'ipertesto non è uguale a se stesso, lo è
solo oggettivamente; quello che è contenuto dentro il CD ROM o in rete è
sempre lo stesso, ma nella nostra esperienza di lettori l'ipertesto è
soggettivamente diverso; inoltre esso, soprattutto, non ha un ordine
prestabilito al proprio interno, ne ha infiniti che possono essere scelti a
seconda delle diverse occasioni. Tutti questi elementi dei quali sto parlando
rappresentano delle novità abbastanza considerevoli, che trasformano
l'ipertesto in un testo che, come la rete telefonica, possiede delle centraline di
commutazione al proprio interno. La rete telefonica è un sistema fisso che però
può essere attivato lungo direttrici ogni volta differenti. L'ipertesto ha i links
che svolgono la stessa funzione: sono come delle centraline telefoniche che
42
collegano i vari punti del testo. Non a caso, la centralina telefonica, il sistema
telefonico, è, negli ultimi decenni, la metafora più usata per fare un parallelo
fisico con la mente umana. L'ipertesto, in certa misura, trasforma ogni testo in
una rete potenzialmente attivabile a livello neuronale. Si dice spesso che
l'autore dell'ipertesto, il vero autore dell'ipertesto, sia il lettore; questo non è
affatto vero. Il lettore, semplicemente, segue alcune delle strade che l'ipertesto
gli permette di percorrere, poi segue mentalmente alcune strade sue. L'ipertesto
ha tre autori: uno è l'autore dell'ipertesto propriamente detto, colui che
seleziona l'informazione e seleziona anche i links.
Il secondo modello è il lettore, che può essere paragonato quasi
all'esecutore di un'opera musicale, perché, sostanzialmente, ha un testo di base
nel quale seleziona la sua modalità di esecuzione;
Il terzo modello di organizzazione del messaggio è legato all’autore. Si
dimentica troppo spesso che è colui che ha costruito il software ipertestuale il
quale permette tutto quello che abbiamo descritto. Il software è, per certi versi,
il vero autore di ogni ipertesto.
D. La domanda che occorre porsi di fronte l’utilizzo dell’ipertesto riguarda il
fatto se questa quantità enorme di informazioni possa offrire al lettore un
supporto nella scelta delle stesse o se rischi, invece, di farlo perdere nei suoi
meandri.
R. Un buon ipertesto non solo non è una macchina per distrarre il lettore, ma
dovrebbe essere una macchina, in qualche misura, per fargli selezionare
l'informazione sulla base delle sue esigenze (questo succede già in rete). I siti
ben "ipertestualizzati" aiutano moltissimo il lettore a trovare l'informazione che
a lui serve. Da questo punto di vista l'ipertesto, certo, garantisce moltissima
informazione, ma in più dovrebbe fornire delle chiavi di accesso che aiutino il
lettore nel percorso che ha scelto. In molti casi, quello che è stato usato di più,
finora, dell'ipertesto, prescindendo da una multimedialità spettacolare, un po'
televisiva, è proprio il link come piacere in sé: "Quante belle possibilità ho!" In
una fase matura i links saranno offerti per aiutare il lettore a selezionare
l'informazione che gli interessa e a procedere oltre con la propria
intelligenza»24.
1.13 La società sintetica
Le nuove tecnologie della comunicazione determinano direttamente dei
mutamenti nella struttura economica e sociale in direzione di una società
sintetica. Secondo Bettetini questo è vero in diverse accezioni. Innanzitutto si
24
P. ORTOLEVA in http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio [con alcuni
adattamenti nostri].
43
intende per comunicazione sintetica la velocità, l'accelerazione degli scambi
comunicativi. Ma per "sintetica" intendiamo anche la sintesi di apparecchiature
diverse che fino a poco tempo fa erano considerate assolutamente non
reciprocamente interferenti e che, con l'avvento delle nuove tecnologie
possono, in realtà, interagire. E, ancora, "sintetica" anche nel senso di
ricreazione di immagini, di oggetti fondamentalmente molto vicini all'originale:
il sintetico si contrappone al reale o all'oggetto vero, all'oggetto-punto e alla
riproduzione dell'oggetto in rapporto alla vecchia riproduzione delle tecnologie
tradizionali. Questa società sintetica indubbiamente avrà dei vantaggi al suo
interno, rispetto a quella attuale, nello scambio di informazione e nello scambio
dei processi economici, ma comporterà, allo stesso tempo, anche il rischio che
la comunicazione si trasformi in un nuovo tipo di potere esercitato soprattutto
dai centri d'informatica e dai centri di irradiazione delle notizie25.
1.14 Multimedialità e l'interattività
La multimedialità è il ricorso contemporaneo a più media per condurre
a un certo tipo di dialogo. Gli ipertesti possono essere soltanto scritti, con
rinvii e con percorsi tra vari testi, o dotati di immagini tanto statiche quanto
dinamiche. Per quanto riguarda il suono non si tratta di una novità comportata
dalle nuove tecnologie perché già il teatro e il cinema, in fondo, possono essere
considerati come multimediali. Il fatto è che le nuove tecnologie si dovrebbero
usare con sapienza espressiva molto più marcata. Per quanto riguarda
l'interattività, questa può essere definita come la disponibilità di un sistema
elettronico per rispondere alle richieste dell'utente. Sono sistemi interattivi tutti
quelli che riescono a stabilire un rapporto con l'utente in una specie di
simulazione della interazione vera personale, dello scambio a livello
conversativo. Quindi, mentre nel testo tradizionale – esiste infatti interazione
anche nel rapporto con un testo tradizionale sia scritto, sia filmato, sia
televisivo- ci troviamo di fronte a uno stato di sapere conservato nel testo e ad
un "saper fare", cioè alla distribuzione del sapere nel testo stesso, alle modalità
di distribuzione del sapere nel testo, di contro quando abbiamo a che fare con
le nuove tecnologie ci si trova di fronte ad un "saper essere", ad un "saper fare"
e anche ad un "saper agire": un saper utilizzare tecnicamente queste
apparecchiature e soprattutto a saperle utilizzare dal punto di vista creativo e
progettuale. Le moderne tecnologie dovranno essere utilizzate con intelligenza
e non con casualità, altrimenti si potrebbe verificare il rischio di uno zapping
non pilotato, non diretto da esigenze vere, di carattere culturale, psicologico e
anche di carattere emotivo. L'emozione, in fondo, se governata è uno
strumento di conoscenza molto importante.
25
BETTETINI in http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.
44
3. VIVERE ON-LINE
In questo capitolo si vogliono considerare gli effetti che la
Comunicazione Mediata dal Computer genera sulle attitudini relazionali, sulla
personalità e sulle abitudini di vita degli utenti finali. Nel percorso d’analisi si
prendono le mosse dalla primaria considerazione di quelle che sono le nuove
dinamiche di autorappresentazione degli individui in società, delle modalità di
rapporto con l’altro e con gli altri, evidenziando le differenze fra le peculiarità
dei terreni on-line ed off-line; grazie all’apporto di studi più completi e
rappresentativi è possibile rilevare come l’individuo in rete possegga maggiori
opportunità di “mascherarsi”, di posizionarsi, di definire se stesso e, soprattutto,
di riproporsi, di quante ne provveda la vita reale.
Fatta chiarezza sulla situazione dell’individuo off-line e sulle risorse che
la rete gli fornisce e quindi sul background dell’utente e sulle possibilità che si
trova di fronte man mano che acquisisce dimestichezza con il medium e con i
simboli che lo popolano, è opportuno abbozzare una tassonomia delle modalità
di utilizzo di tali risorse e focalizzare l’attenzione sulle differenze fra gli usi della
rete a seconda dell’alfabetizzazione informatica dei fruitori e dei contesti virtuali
- socialmente o personalmente orientati - di utilizzo.
Pur con alcune riserve, è possibile individuare due tendenze relative
agli effetti sulle pratiche di interpretazione di sé e sulle attitudini relazionali degli
individui esposti all’uso del mezzo, definibili come due estremi lungo un
continuum. In prossimità dell’estremo on-line on-line si dislocano gli utenti che
patiscono un isolamento dal terreno non virtuale dell’esperienza che rischia di
venire inglobata quasi totalmente all’interno dell’interfaccia del loro personal
computer; in corrispondenza dell’estremo on-line off-line sono stati collocati
coloro i quali, anche se heavy-users - quindi al di là del tempo effettivo di utilizzo
del medium - traggono dalla rete nuovi stimoli per affacciarsi al di fuori dello
schermo con un più ampio bagaglio di esperienze vissute.
3.1 La rete ed il mondo
Gli utenti della rete, anche se non in esclusiva, si confrontano
quotidianamente con una realtà sociale in cui le comunità o in genere i gruppi
di aggregazione spontanea soffrono un serio ridimensionamento sia dal punto
di vista del loro numero che della vitalità.
Pur assistendo alla nascita di nuove comunità “reali”, non ultimo lo
sviluppo dell’associazionismo a scopo benefico, no-profit o deliberatamente
volontaristico, è fuor di dubbio che a livello di modi di vita, stili e consumi, la
45
posizione nei confronti dell’altro e degli altri sia di maggiore chiusura rispetto al
passato e che l’individuo affronti la vita secondo una prospettiva sempre più
self-oriented. I nuovi beni tecnologici, in particolare, sono chiaramente orientati
verso la possibilità di intervento dell’utente singolo (per ora canali tematici e
narrow-casting, nel prossimo futuro la TV on-demand). A livello di comunità
religiose, a scapito delle religioni secolari, il bilancio dei nuovi accoliti è positivo
per credenze e culti di tipo contemplativo-spirituale e naturalistico che
prevedono un rapporto diretto, non mediato da una comunità, fra l’individuo e
la divinità; tuttavia, i recenti sconvolgimenti politici mediorientali, polarizzando
lo scontro fra appartenenti a religioni diverse, tenderanno a mantenere netti i
confini fra membri di comunità religiose differenti.
Il pacchetto Internet (nel senso di CPU, tastiera, mouse, schermo e
modem) è quello che fra questi, superato solo dal telefono cellulare, si impone,
spesso invasivamente, nella quotidianità del proprietario, generando talvolta
anche patologie più o meno lievi.
L’accesso alla rete di reti prevede la partecipazione da parte dell’utente ad un
repertorio di documenti on-line, nonché di avanzate tecnologie di scambio e
comunicazione con altri utenti.
Questo patrimonio di risorse permette agli internauti di condividere sia la
fruizione e la produzione di contenuti di vario tipo, sia di vivere e condividere
esperienze di relazioni private o pubbliche.
Nato come luogo di scambio di
informazioni
e destinato
originariamente ad una utenza piuttosto ristretta ed edotta, Internet si è imposto
quando, da parte di alcuni imprenditori del settore, si è intuita la possibilità di
estenderne e facilitare l’accesso al pubblico di massa; questi se ne è appropriato
rapidamente anche, e soprattutto, per fini relazionali più che, come da più parti
si era previsto, per acquisti on-line o transazioni bancarie.
Fatto curioso è che non solo l’uso della rete di reti è volto alla
comunicazione fra utenti, ma anche, e non secondariamente, alla ricerca di un
gruppo di appartenenza, pur in un ambiente artificialmente generato 26. Pensato
come strumento user-oriented, Internet si profila come un luogo di contatto non
solo con dati, ma soprattutto con individui.
3.2 Trame di rapporti
26
T. CONKAR, J. M. NOYES & C. KIMBLE, CLIMATE: A framework for developing
holistic requirements analysis in virtual environments. Interacting with Computers 1999,
11 (4), pp. 387-402.
46
Fra le trame di rapporti nate in rete le più strette sono quelle interne alla
comunità virtuali, fatta forse eccezione per le love-story sbocciate in chat, seguite
successivamente da incontri fisici di persone.
Da luoghi di discussione e dibattito sincroni (chat) ed asincroni (mailinglist, forum, ecc.), a gruppi di appassionati che collaborano anche alla gestione di
siti web più o meno aggiornati e tecnicamente efficienti, svariate sono le
esperienze che persone fisicamente lontane fanno dell’altro e degli altri, grazie alla
mediazione del computer.
I luoghi di scambio pubblico on-line permettono agli utenti di vivere delle
esperienze percepite come il risultato del contatto con testi prodotti da persone
(reali o presunte tali) e come relazioni con altrettante persone (chiaramente
anche queste reali o così presunte). Poco importa se ad interloquire siano
persone esistenti ed individuabili da un nome o invece siano le loro
rappresentazioni virtuali (avatar).
Si tratta di esperienze avvertite come reali e che realmente influiscono sulle
idee, sugli stili di vita, sui modi, sul tempo e sulla bolletta degli utenti; si
potrebbe dire quindi che influiscano sia su aspetti della vita on-line che di quella
off-line, anche se in fondo preferisco non fare troppo affidamento su questa
distinzione che mi pare artificiosa, visto che di vita, anche a livello cognitivo,
l’uomo ne ha a disposizione una sola; semmai sono le pratiche sociali e
comunicative che si differenziano nei momenti on o off-line, secondo una
prospettiva che genera commistione fra i due ambiti, per cui i diversi
atteggiamenti tendono a mescolarsi.
Così come a livello cognitivo - nel rapporto with the net - succede a chi
usa frequentemente dei software di avere una concezione più elastica della
realtà, simile a quella del software che adopera, (mi è capitato dopo molte ore
passate al computer di cercare - chissà dove - il tasto Ctrl+Z anche quando, in
momenti di vita “reale”, avevo salato troppo l’acqua per la pasta!), parimenti, a
livello relazionale, i più svariati atteggiamenti ed effetti delle situazioni esperite
on-line si ripercuotono anche al di fuori; si pensi, per esempio, al senso di selfefficacy che scaturisce dal sapersi parte di comunità decisionali o gestori di siti
web, al piacere derivato dal saper condurre a termine con successo interazioni in
chat, alla riproposizione di stili espositivi e modi di dire tipici del linguaggio online in altri ambiti e, non ultimo, alla possibilità di esercitare le proprie attitudini
relazionali (come in una palestra sociale) secondo la forma del moratorium27.
3.3 Comunita’ on-line
I fruitori di Internet non solo partecipano con altri delle loro avventure
on-line o meno, ma delimitano spazi e difendono da attacchi esterni i luoghi ed i
27
L. PACCAGNELLA, La comunicazione al computer, Il Mulino, Bologna 2000
47
modi di manifestazione di queste esperienze. Ci si riferisce agli appartenenti a
comunità virtuali come a coloro i quali, in una massa diversificata, creano e si
collocano all’interno di un gruppo, non esclusivamente per appartenenza
religiosa od etnica, ma, soprattutto, per fini ludici o deliberatamente relazionali,
per la necessità di darsi un’appartenenza.
Si utilizza un’accezione allargata di comunità virtuale che permette di
coinvolgere le più svariate tipologie di individui-utenti: da chi, spesso inesperto,
scrive qualche e-mail ad amici e chatta su siti che permettono di creare una
mini-presentazione di sé visibile a chi possiede - gratuitamente - un account; da
chi partecipa alla vita di comunità globali ad accesso free, sostenuto da grossi
provider (ad esempio Digiland, Fortunecity, Geocities, Xoom, ecc.) e comunità
di esperti in Information Technology, grafica o programmazione, fino a chi si
sofferma su spazi dedicati all’incontro ed allo scambio di materiale per adulti.
L’uso di un’accezione allargata di comunità virtuale è motivato dal fatto
che, in rete, l’anonimato e l’assenza di contatto fisico o diretto fra individui
generano dei processi di costruzione dell’immagine di sé, non tanto come il
prodotto di interazioni con singoli (come avviene nelle interazioni off-line),
quanto piuttosto come il risultato cumulativo delle diverse interazioni con la
comunità (o le comunità) di riferimento. L’interattività offerta dalla rete risiede
nella possibilità di avere scambi rapidi e numerosi non esclusivamente one to one.
In questo senso la definizione operativa di comunità virtuale è sia di tipo
qualitativo che quantitativo, nel senso che si considera appartenente a comunità
virtuali chi ha contatti con altri utenti della rete con una certa frequenza.
3.4 Identita’ frammentata
Se “comunicare vuol dire”, in rete o meno, “definirsi in termini di status
e potere comunicativo, connotare il proprio modo di porsi rispetto alle relazioni
che si instaurano”28, quello che ci si chiede è quanto le esperienze on-line
confluiscano o modifichino lo statuto delle interazioni e della socialità off-line e
quanto siano funzionali all’auto-definizione del soggetto post-moderno.
A questo proposito Grandi29 osserva non solo la fluidità e
l’indeterminatezza di alcune categorie considerate centrali nella definizione
dell’identità, ma conferma anche la frammentazione dell’identità medesima. Le
cause di tale frazionamento sono da ricercare sia nei diversi e molti ruoli che
ciascuno ricopre nella società odierna, sia nella confluenza di comunicazioni e
sollecitazioni di vario tipo provenienti da fonti diverse tra loro.
28
G. BETTETINI, S. GARASSINI, B. GASPARINI, N. VITTADINI, I nuovi strumenti del
comunicare, Bompiani, Milano 2001
29 G. CELIANI e R. GRANDI (a cura di), Moda: regole e rappresentazioni. Il
cambiamento, il sistema, la comunicazione, Franco Angeli, Milano 1995, p. 65.
48
Se l’identità non è unitaria, Wilson30 (1993) propone come misura della
personalità l’alternativa del concetto di stile, che, con la sua fluidità, offre una
nuova modalità di rappresentazione che supera la stagnante fissità delle “old
fashioned ideas of personality and core identity”. Se non esiste più la necessità
di un’identità stabile, un surrogato è offerto da nuove forme di autodefinizione,
basate su elementi di stile, non identificabili nelle classiche categorie di genere
(estrazione sociale, sesso, età) ma come posizionalità.
Coerentemente con la loro definizione, le posizioni sono sottoposte a
rapido deterioramento e necessitano di continue modifiche e successivi
riposizionamenti.
Della Computer Mediated Communication si è detto che offre agli utenti di
reti la possibilità di sopravvalutare la propria importanza, ma anche di assumere
comportamenti meno responsabili, di avere sempre una seconda chance. Si è
detto anche che può esprimere molto efficacemente differenziazioni di status
sociale. In realtà l’anonimato visivo della CMC permette agli utenti di assumere
atteggiamenti irresponsabili e mutevoli nei contesti in cui è coinvolta la loro
identità personale, ma anche di conformarsi scrupolosamente all’osservanza
delle norme e di mantenere un ruolo coerente nel tempo, in contesti che
enfatizzino l’identità sociale.
Si può aggiungere, inoltre, una prospettiva di analisi trasversale basata
sulla familiarità col medium: in qualsiasi contesto, chi sa interpretare ed
utilizzare meglio i linguaggi ed i simboli della rete (dalla conoscenza degli
emoticon e delle formule abbreviative nelle chat, alla netiquette nelle comunicazioni
formali, al grado di conoscenza dei linguaggi e dei software fra appassionati o
fra utenti di Mud) ha un vantaggio anche gerarchico sugli altri. Da questo punto
di vista la CMC è un’attività fortemente auto-referenziale.
In che modo le caratteristiche della CMC si intessono con le peculiarità
dei soggetti-utenti? In rete è consentito assumere posizioni molto diverse, è
possibile riformularle o crearne di nuove tramite un vasto uso di elementi di
stile, è possibile migliorarsi man mano che si apprendono le modalità d’uso del
mezzo e degli strumenti che offre per comunicare; talvolta l’anonimato
garantisce un’immagine talmente deindividuata e deindividuabile, che l’utente
può, persino, e capita molto di frequente, modificare, nella presentazione di sé,
sia il genere sessuale che l’età.
3.5 Usi relazionali
In quali modi le interazioni on-line, in contesti non socialmente orientati,
possono modificare la fiducia nelle proprie capacità relazionali?
30
E. WILSON, Fashion and Postmodern Body, in J. ASH e E. WILSON (eds), Chic
Thrills. A Fashion Reader, University of California Press, Berkeley 1993.
49
Le interazioni on-line sanzionate negativamente vengono, quasi sempre,
subito interrotte e dimenticate, ed in ogni caso non intaccano l’immagine
pubblica di chi ne è coinvolto; quando per esempio si perde la faccia in chat,
l’esperienza è individuale, mentre se ciò accadesse nella vita off-line, il senso di
disapprovazione saprebbe essere più duraturo, venire ricordato ed incorporato
dall’immagine stessa della persona con cui si sono avuti degli attriti, la quale
potrebbe, a sua volta, diffondere ad altri individui il proprio giudizio negativo.
On-line, invece, la possibilità di avere sempre nuovi ed infiniti account
permette di ripartire da capo ogni qual volta lo si desideri o le situazioni lo
richiedano. Questa opportunità può implicare due atteggiamenti fra loro
opposti, considerabili come due estremi di un continuum in cui si vogliano
eventualmente collocare le conseguenze che le interazioni on-line hanno sulle
predisposizioni individuali alla socialità off-line.
Se non affiora un rifiuto del medium, l’utente in rete ha due modi di
interpretare le sue interazioni on-line: o sceglie di sfruttare la fluidità e la facilità
offerte dalla tecnologia come unico strumento per vivere esperienze di contatto
disteso e personale con altre “persone”, cui potrà forse seguire un incontro
fisico, oppure, forte delle sperimentazioni attuate secondo la forma del
moratorium, può utilizzare la rete come test della personalità e degli atteggiamenti,
come luogo dove trovare nuovi stimoli e risorse in termini anche di autostima
(ed in questo secondo caso il fine, o meglio l’effetto è che si vive in maniera
migliore la propria socialità off-line).
In realtà, difficilmente si può immaginare che esistano degli individui del
tutto simili al secondo tipo descritto, cioè utenti che sappiano imparare a trasferire in
toto l’allentamento del controllo emotivo anche nella vita off-line, o che gironzolino
per la rete esclusivamente in cerca di nuovi stili da riproporre a se stessi per crearsi una
nuova e più compiaciuta identità personale. Sicuramente c’è chi assimila atteggiamenti
più disinibiti, chi si arricchisce di nuove tecniche espressive ed apprende
comportamenti adeguati ai contesti, specie in riferimento ai gruppi di adolescenti; c’è
chi, specie se geograficamente isolato, si appropria, confrontandosi con gli altri utenti,
di tecniche simboliche, la conoscenza delle quali gli sarebbe, altrimenti, stata preclusa.
Più facile è credere che ci siano degli individui del primo tipo, talmente rassicurati e
supportati dalle opportunità offerte dalla rete, da racchiudere la loro socialità quasi
esclusivamente nel medium, tanto da dimostrare un atteggiamento anche patologico
(in questo caso l’effetto della CMC è deleterio, nel senso che esula l’utente dalla realtà
dei rapporti off-line). Si tratta prevedibilmente di individui insicuri, eventualmente già
poco inseriti od avvezzi ad interazioni, che, grazie all’anonimato della rete, trovano
modo di adeguare le manifestazioni visibili della loro identità a quelle caratteristiche
che sentono di non possedere nella loro vita off-line, e che, quando organizzano degli
incontri reali con persone conosciute, per esempio, in chat, soffrono di una certa
50
difficoltà e spaesamento dovuti al fatto che le rappresentazioni di sé date on-line
differiscono sensibilmente dall’aspetto reale.
L’essenza di Internet è la sua indeterminatezza, non solo per l’incertezza
circa il futuro, ma anche per la sua qualità tipicamente postmoderna. Internet
incorpora radio, cinema e televisione e ne permette la loro distribuzione.
51
4. IL VILLAGGIO GLOBALE
Quando si parla di mediologia il riferimento a Mc Luhan è d’obbligo.
Lo studioso canadese (1911-1980) rileva la centralità dei linguaggi tanto nell’era
contemporanea quanto nelle epoche precedenti. La civiltà dell’oralità ha
lasciato il posto alla civiltà della scrittura, la civiltà della stampa ha soppiantato
quella della scrittura e oggi quella della stampa ha fatto spazio alla civiltà
elettrica della televisione (e, aggiungiamo noi, della rete Internet). Nello scritto
Gli strumenti del comunicare31 McLuhan parla di un'epoca elettrica che si
sostituisce alla passata epoca meccanica e traccia un accurato ritratto di un
uomo nuovo, un abitante del villaggio globale, ancora sospeso tra le due
tecnologie e tra due modi diversi di agire e pensare. Quest'uomo vive in
un'unica realtà, il mondo intero ed è attore e spettatore e deve lavorare per
costruire le proprie responsabilità perché davanti a lui si presenta una realtà
ricca di scambi, influenze, confronti tra tutte le sue parti improvvisamente
collegate l'una con l'altra da un afflusso continuo di dati; un'interconnessione
che lo costringe ad essere vigile per prevenire la distruzione di una qualsiasi
parte dell'organismo che può risultare fatale per il tutto.
Il "villaggio globale" è il fortunato ossimoro inventato dallo studioso
canadese per descrivere la situazione contraddittoria in cui viviamo. Siamo di
fronte a termini che esprimono una contraddizione: il "villaggio" esprime
qualcosa di piccolo, mentre l’aggettivo "globale" sta a significare l'intero
pianeta. McLuhan ha forzato il linguaggio per meglio esprimere una situazione
nuova e difficilmente rappresentabile. Per capire cosa intende Marshall
McLuhan possiamo immaginare il mondo popolato da giganteschi dinosauri, o
da gatti con gli stivali, che con pochi balzi lo percorrono da un capo all'altro.
Quello che prima era gigantesco, ora, grazie alle nostre potenti invenzioni
tecnologiche - i magici stivali - è diventato piccolissimo, percorribile in lungo e
in largo. La metafora degli stivali prende in considerazione solo l'ambito degli
spostamenti, ma quello che rende il mondo un villaggio globale non è solo la
possibilità di muoversi rapidamente da un punto all'altro. Mc Luhan afferma
che per creare un mondo globale c'è bisogno di una fusione organica tra tutte
le funzioni frammentarie e lo spazio totale. Il villaggio globale è la forma che la
nostra società sta prendendo sotto la spinta dei nuovi media.
McLuhan attribuisce alle tecnologie della comunicazione il potere di
configurare la realtà sociale complessiva: «Il suo concetto di galassia è una
metafora per indicare l’influenza globale che i media esercitano sulla civiltà. La
scrittura, la stampa, i media elettronici, creano un sistema culturale, un modo di
31
M. MC LUHAN, Gli strumenti del comunicare, Il saggiatore, Milano 2002
52
percepire la realtà, da cui viene informata l’esperienza di vita degli individui»32.
Il merito della ricerca di McLuhan è di interpretare questa fase di transizione in
stretta analogia con lo stato di smarrimento che si era verificato nel momento
in cui la civiltà della scrittura si sostituiva alla civiltà dell’oralità.
In effetti, la scrittura fu un’esperienza traumatica perché attraverso la
doppia articolazione linguistica si opera una disgiunzione tra il piano della
comunicazione e il piano dell’esperienza fisica. L’invenzione della scrittura
fonetica dissolse l’incanto dell’immediatezza con l’ambiente che caratterizzava
il mondo popolato dalla cultura dell’oralità. Se infatti nelle culture dell’oralità il
sistema percettivo era egemonizzato dall’udito, nella civiltà della scrittura è
dominante quello della vista. Nell’era elettrica avviene un nuovo
rovesciamento: i media elettronici recuperano l’importanza della sensazione
auditiva, portando l’individuo fuori dal dominio della scrittura. McLuhan era
convinto che l’oralità dell’audiovisivo permettesse il recupero della genuinità
dei rapporti interpersonali: il fascino immutato dell’oralità primaria.
Il sociologo canadese ha molto insistito sulla capacità
dell’alfabetizzazione di strutturare i sistemi istituzionali e culturali. E’ grazie ai
media che la civiltà prende forma, è per effetto della trasformazione dei media
che essa entra in crisi. Dalla scrittura nascono la riproducibilità tecnica,
l’educazione di massa, la visione prospettica e, in generale, un nuovo modo di
organizzare il comportamento sociale. «La scrittura fonetica nasce come
tecnologia, per essere quindi coerentemente sostituita da una tecnologia più
avanzata, come quella dei media elettronici»33.
I media sono «potenti protesi», prolungamenti dei nostri sensi che ci
permettono di vedere lontanissimo, di ascoltare e di inviare messaggi in ogni
angolo della terra. E’ come se la nostra vista e il nostro udito si fossero dilatati
a dismisura facendo del mondo intero il nostro ambiente di vita.
Questa immersione in una dimensione comunicativa planetaria appare,
soprattutto alle giovani generazioni, un fatto del tutto naturale, scontato. In
realtà, esso rappresenta una delle più grandi rivoluzioni della storia umana, una
rivoluzione destinata in futuro a sviluppi imprevedibili sul piano delle
trasformazioni sociali e culturali, anche se già ora è possibile individuare alcune
linee di sviluppo. E' sempre più evidente che non sono più le istituzioni sociali
tradizionali (la famiglia, la comunità, l’appartenenza religiosa, l’etnia) a fornire
modelli di comportamento e di identificazione sociale, ma piuttosto sono i
contenitori collettivi della comunicazione di massa a proporre e a diffondere
mode, stili di vita, linguaggi, esperienze culturali da consumare velocemente.
S. ABRUZZESE - A. MICONI, Zapping. Sociologia dell’esperienza televisiva, Liguori,
Napoli 2001, p. 78
33
Ibidem, p. 85
32
53
Per quanto possiamo sentirci persone libere, capaci di determinare
autonomamente le nostre scelte, sta di fatto che gli argomenti di cui
discutiamo, le nostre conoscenze, le nostre opinioni, i nostri gusti prendono
forma in quest’orizzonte comunicativo globale. Se per un giorno provassimo
ad annotare le cose su cui abbiamo riflettuto o di cui abbiamo parlato con gli
altri, ci accorgeremmo che buona parte dei nostri discorsi fanno riferimento,
direttamente o indirettamente, a ciò che abbiamo appreso dai media. Anche
molte semplici scelte quotidiane vengono influenzate dalla stampa, dalla radio
o dalla TV: gli acquisti che facciamo, la musica che ascoltiamo, i film che
decidiamo di andare a vedere. Nessuno nel nostro tempo, tranne qualche
improbabile eremita, può sottrarsi al circuito della comunicazione complessiva,
anche perché farlo significherebbe perdere il contatto con la realtà.
Profeticamente McLuhan sottolineò come il mondo occidentale, dopo
essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente
meccanici, fosse ormai entrato in una fase di implosione: «Nelle ere della
meccanica avevamo operato un'estensione del nostro corpo in senso spaziale.
Oggi, dopo oltre un secolo d'impiego tecnologico dell'elettricità abbiamo
esteso il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno
per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio.
Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell'estensione dell'uomo:
quella, cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di
conoscenza verrà collettivamente esteso all'intera società umana, proprio come,
tramite i vari media abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi»34.
4.1 Il medium è il messaggio.
Una delle tesi più suggestive e geniali di McLuhan è quella che
identifica la luce elettrica come un medium di comunicazione anche se non ha
un contenuto. La sua osservazione è una riprova di come la gente trascuri
l'esame dei media. «Soltanto quando viene usata per diffondere il nome di una
marca, ci si accorge che la luce elettrica è un medium. Ci si accorge, cioè, non
della luce ma del suo contenuto, in altre parole di quello che è di fatto un altro
medium»35. La luce elettrica dimostra che il messaggio si identifica col medium
perché esso cambia orari e, in un certo senso, perfino stagioni: la luce elettrica
modifica di minuto in minuto l’ambiente in cui l’uomo normalmente stabilisce
e sviluppa le sue relazioni interpersonali. Infine, è la luce elettrica che plasma
pressoché ogni attività nel cosiddetto tempo libero. La tesi secondo cui il
medium è il messaggio è giustificata dal fatto che il contenuto di un medium è
sempre un altro medium: «Può risultare illuminante l'esempio della luce
34
35
MCLUHAN, Gli strumenti del comunicare, op. cit., p. 9.
Ibidem, p. 17.
54
elettrica. Essa è informazione allo stato puro. E' un medium, per così dire,
senza messaggio, a meno che non lo si impieghi per formulare qualche
annuncio verbale o qualche nome»36. Il messaggio di un medium o di una
tecnologia stabilisce un mutamento nel modo di percepire il nostro rapporto
con il mondo e con gli altri, le proporzioni e il ritmo: «La ferrovia non ha
introdotto nella società né il movimento, né il trasporto, né la ruota, né la
strada, ma ha accellerato e allargato le proporzioni di funzioni umane già
esistenti creando città di tipo totalmente nuovo e nuove forme di lavoro e di
svago»37 .
4.2 Media caldi e freddi
La differenza tra media caldi e media freddi è una delle classiche
differenze introdotte da McLuhan e una delle più discusse. «C'è un principio
base che distingue un medium "caldo" come la radio o il cinema, da un
medium "freddo" come il telefono o la TV. E' caldo il medium che estende un
unico senso fino a un' "alta definizione": fino allo stato, cioè, in cui si è
abbondantemente colmi di dati. Da un punto di vista visivo, una fotografia è
un fattore di "alta definizione", mentre un cartoon comporta una "bassa
definizione", in quanto contiene una quantità limitata di informazioni visive. Il
telefono è un medium freddo, o a bassa definizione, perché attraverso
l'orecchio si riceve una scarsa quantità di definizioni, e altrettanto dicasi,
ovviamente, di ogni espressione orale rientrante nel discorso in generale perché
offre poco ed esige un grosso contributo da parte dell'ascoltatore. Viceversa i
media caldi non lasciano molto spazio che il pubblico debba colmare o
completare; comportano perciò una limitata partecipazione, mentre i media
freddi implicano un alto grado di partecipazione o di completamento da parte
del pubblico. E' naturale quindi che un medium caldo come la radio abbia
sull'utente effetti molto diversi da quelli di un media freddo come il telefono»38.
Per chiarire ulteriormente la differenza fra media freddi e media caldi si può
ricorrere alla metafora degli occhiali da vista e degli occhiali da sole; i primi
presentano un messaggio a bassa definizione e lasciano molto spazio alla
possibilità di completamento dell’informazione; i secondi impegnano i nostri
sensi con molte informazioni e un forte coinvolgimento.
McLuhan parlava dei media come estensioni dell’uomo, estensioni
fisiche. Per esempio, il piede viene esteso attraverso la ruota, la ruota
ulteriormente si estende attraverso il treno, poi diventa automobile e, attraverso
36
Ibidem, p. 16.
Ibidem, p. 16.
38
Ibidem, p. 31.
37
55
queste forme di estensione fisica, l’uomo si impadronisce della realtà che ha
attorno a sé. Oltre alle estensioni fisiche, ci sono anche le estensioni percettive,
le estensioni psicologiche. I nuovi media penetrano dentro i canali della nostra
percezione e arrivano più direttamente alla organizzazione della nostra
conoscenza: «I nuovi media e le nuove tecnologie con cui amplifichiamo ed
estendiamo noi stessi costituiscono una sorta di enorme operazione chirurgica
collettiva eseguita sul corpo sociale con la più totale assenza di precauzioni
antisettiche. Se le operazioni sono necessarie, deve essere presa in
considerazione la possibilità inevitabile di infettare, nel corso dell'intervento,
l'intero sistema. Quando si opera nella società con una nuova tecnologia non è
infatti l'area incisa quella che viene maggiormente toccata. La zona dell'urto e
dell'incisione è intorpidita. Quello che cambia è l'intero sistema. L'effetto della
radio è visivo, quello della fotografia auditivo. Ogni nuovo trauma sposta i
rapporti tra i sensi. Ciò che oggi cerchiamo è un modo per controllare questi
spostamenti nell'ambito del mondo psichico e sociale o per evitarli
completamente. Avere una malattia senza i suoi sintomi significa esserne
immunizzati. Ma nessuna società è mai stata così cosciente delle proprie azioni
da arrivare all'immunità di fronte alle sue nuove estensioni o tecnologie»39.
39
Ibidem, p. 75.
56
57
SEZIONE 3
TEORIE DEI MEDIA
58
59
1. IL PENSIERO CRITICO
1.1 I primi studi
Nell’ambito della letteratura sociologica è prevalente la chiave interpretativa
“apocalittica”. In questa sezione passeremo in rassegna alcuni autori che
appartengono al filone del pensiero negativo, ossia a un tipo di analisi critica
della cultura industriale e di massa. Il punto di vista comune delle teorie critiche
consiste nell’inconciliabilità dell’azione tecnologica con il comportamento
sociale. Secondo la prospettiva critica del pensiero negativo la cultura di massa
nasce come espressione del potere industriale e pertanto ogni gratificazione
provata dall’individuo in questo sistema non può che essere superficiale,
manipolata in anticipo, funzionale all’occultamento di problemi superiori.
All’interno del pensiero critico l’espressione “industria culturale” gode di un
largo successo: essa condensa il carattere di asservimento della cultura alle
logiche del mercato. Il concetto, come è noto, era stato coniato dalla Scuola di
Francoforte nel 1944 ed aveva un’accezione negativa; esso allude alla
preordinata integrazione, dall’alto, dei suoi consumatori. Il consumatore non è
tanto il soggetto di tale industria, quanto il suo oggetto. L’industria culturale
suscita i bisogni e determina i consumi degli individui, rendendoli passivi ed
etero-diretti, annullandoli come persone e riducendoli ad una massa informe:
«l’industria culturale, la società ultraorganizzata, l’economia pianificata hanno
beffardamente realizzato l’uomo come essere generico:privo di coscienza
individuale, di iniziativa morale autonoma, manipolato a piacere»40. Anche il
tempo del divertimento, il momento della libera creatività individuale, è
divenuto qualcosa di programmato poiché è l’industria culturale che stabilisce
modalità e orari del divertimento stesso.
La concezione della Scuola di Francoforte è riconducibile al giudizio di
fondo secondo cui la società contemporanea è il campo di esercizio di
un’autorità assoluta, subdola, di cui i media costituiscono la più efficace arma di
penetrazione. Come mai un pensiero così semplificato ha esercitato un’enorme
influenza sulla cultura europea? La fortuna è legata a fattori politici (e
generazionali) tipici degli anni ’60 e ’70, ma anche alla efficace azione
divulgativa e alla capacità di proporre formule linguisticamente brillanti
(Adorno parlava di “strapotenza estraniata delle cose”, di “demitizzazione”, di
“arcaica innocenza”; Marcuse parlava di “verità poetica”, di “pensiero
positivo”, di “Grande Rifiuto”).
40
ADORNO-HORKHEIMER, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997.
60
La critica di Adorno alla società avanzata procede attraverso una
successione di aforismi, di frasi apodittiche, di monogrammi: «Da ogni
spettacolo cinematografico mi accorgo di ritornare, nonostante ogni vigilanza,
più stupido e più cattivo»41. La critica di Adorno diviene la contestazione
globale della cultura di massa come falsa coscienza, come occultamento dei
traumi della modernità «L’industria culturale pretende ipocritamente di
regolarsi sui consumatori e di fornire loro ciò che desiderano (…) anziché
adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea e le reinventa. Essa gliele inculca,
conducendosi come se fosse anch’essa un cliente»42.
L’idea di Adorno e Horkheimer è che il principio estetico kantiano –
“l’affermazione storica dell’immagine prodotta secondo i moduli dell’intelletto
conforme al quale dovrà essere contemplata”- sia stato realizzato dall’industria
di Holliwood. L’immagine destinata al consumo di massa viene
standardizzata, di fatto censurata in anticipo, rispetto al momento della sua
circolazione effettiva. Essa è prodotta sulla base delle richieste del mercato,
del suo destino prevedibile. Un film superficiale non è soltanto più vendibile,
è anche veicolo di un’ideologia organica all’imperativo consumistico che la
produzione inocula nei soggetti sociali. L’interpretazione dei francofortesi
deforma in senso negativo il rapporto tra produzione e consumo, tra desiderio
e gratificazione consumistica, ma non può negare l’evidenza di questo
rapporto.
Sulla stessa lunghezza d’onda si sviluppa il pensiero di Marcuse, anche
se più ragionato e completo, sul piano scientifico riproduce le stesse carenze
di fondo. Marcuse denuncia la nascita del pensiero unico come espressione
della società industriale avanzata. Il sistema tecnologico ha la capacità di far
apparire razionale ciò che è irrazionale e di stordire l’individuo in un frenetico
universo consumistico. La stessa tolleranza di cui mena vanto tale società è
unicamente una “tolleranza repressiva” poiché il suo permissivismo funziona
soltanto a proposito di ciò che non mette in discussione il sistema stesso. La
trasformazione della razionalità scientifica in potere politico ha tolto la
possibilità di intervento a tutte le voci antitetiche del pensiero umanistico,
della letteratura e dell’arte.
1.2 Il tecnopolio
Postman si inserisce nel solco degli autori apocalittici per l’acceso rifiuto
della tecnologia moderna in nome del tentativo di preservare l’integrità delle
culture umanistiche, attraverso un’accentuata esasperazione delle qualità
negative del progresso, mettendo in rilievo l’eccedenza di tecnologia e la
41
42
ADORNO, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1966, p. 17.
Ibidem, pp. 241-2.
61
tendenza tipica del mondo capitalista alla formazione del monopolio: «il
tecnopolio è una condizione culturale e mentale consistente nella deificazione
della tecnologia. Il che significa che la cultura ricerca nella tecnologia la
propria giustificazione, trova soddisfazione nella tecnologia e prende ordini
dalla tecnologia (…) la tecnologia fa aumentare la scorta delle informazioni
disponibili; mentre la scorta aumenta, i meccanismi di controllo risultano
insufficienti e ne sono necessari altri per trattare le nuove informazioni. Se
anche i nuovi meccanismi di controllo sono prodotti tecnici, determinano un
ulteriore aumento della scorta delle informazioni. Quando questa scorta non è
più controllabile, si verifica un crollo generale della tranquillità psichica e della
finalità sociale. La gente, priva di difese, non ha modo di dare un senso alle
proprie esperienze, perde la capacità di ricordare e non riesce a immaginare un
futuro dotato di logica»43.
1.3 I persuasori occulti
Anche Vance Packard si muove in una direzione determinata dalla
diffidenza verso la mostruosità del progresso. In I persuasori occulti44 l’autore
indaga le strategie di manipolazione dei comportamenti individuali e collettivi
sviluppate intorno alla passività del consumatore. In particolare, il pubblicitario
era visto come un “persuasore occulto” che possedeva potenti e paurosi
strumenti, con i quali era in grado di influenzare il comportamento degli
individui, di guidare gli acquisti quotidiani e di manipolare i bisogni stessi della
gente, creandone di nuovi al punto da spingere le persone a cambiare i loro
atteggiamenti nei confronti dei prodotti in funzione delle esigenze del mercato:
«L’impiego della psicanalisi di massa nelle grandi offensive di persuasione sta
ormai alla base di una industria multimiliardaria. E i persuasori di professione
non hanno esitato a servirsene, avidi come sono di tutto ciò che possa aiutarli a
propagandare con maggiore efficacia le loro merci – siano esse manufatti, idee,
ideali, atteggiamenti, candidati o stati d’animo (…) Due terzi delle cento
maggiori agenzie pubblicitarie d’America hanno condotto campagne “in
profondità” di questo tipo, basandosi su concetti strategici ispirati a quella che
gli specialisti del marketing chiamano “analisi motivazionale»45.
La persuasione è una strategia invisibile e i media sono i suoi esecutori.
La strategia di persuasione si fonda sulla soddisfazione (almeno apparente) di
otto fondamentali bisogni dell’inconscio individuale e collettivo:
43
N. POSTMAN, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri,
Torino 1993, p. 70-71.
44
V. PACKARD, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1989.
45
Ibidem, pp. 5-6.
62
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sicurezza emotiva: questo bisogno può influire, ad esempio,
nell’acquisto di un frigorifero, che rappresenta per molti la sicurezza
che in casa ci sia sempre da mangiare;
stima e considerazione: questo bisogno può venir soddisfatto
dall’acquisto, ad esempio, di una macchina nuova, che permette al
suo possessore di conferirgli uno status più elevato;
esigenze dell’ego: l’esempio di Packard si riferisce a quel fenomeno
per cui alcuni scrittori pagano gli editori per veder le proprie opere
pubblicate;
impulsi creativi: l’esempio riportato dall’autore si riferisce
all’innovazione dei preparati “istantanei” per la preparazione dei
dolci. Le massaie erano inizialmente molto ostili perché
percepivano il rischio di una riduzione degli elogi; il problema fu
risolto mettendo sul mercato dei preparati che prevedessero
l’intervento attivo e personale delle massaie;
speculazione sull’affetto: gli agenti pubblicitari di Liberace (un
celebre pianista-cantante della televisione), durante la trasmissione
dell’esibizione del cantante, proiettavano le immagini della madre
intenta ad ascoltare il figlio dalla sua sedia a dondolo.
senso di potenza: il fascino che esercita sugli individui qualsiasi
prodotto che sembri offrire un aumento della potenza personale,
rappresenta per la pubblicità un prezioso campo di sfruttamento;
legami familiari: le ricerche motivazionali hanno dimostrato che il
riferimento a tradizioni di famiglia, a usi e modi di produzione dei
tempi passati, risulta di grande efficacia sul piano della persuasione
e della suggestione;
bisogno di immortalità: secondo Packard ciò che attira un uomo ad
acquistare un’assicurazione sulla vita è l’implicita prospettiva di
immortalità attraverso il perpetuarsi della sua influenza.
Questi bisogni esprimono la debolezza dei consumatori: con la sua
esemplificazione Packard ha voluto mostrare come bisogni, nostalgie, desideri,
aspirazioni dell’inconscio possono servire ai pubblicitari per potenziare la forza
di attrazione dei prodotti, promettendo al pubblico di soddisfarli mediante
l’uso dell’oggetto e del suo valore simbolico. Packard si muove alla ricerca dei
nervi scoperti del consumatore collettivo, della sua vulnerabilità.
1.4 Il virtuale e il reale
Baudrillard (nato a Reims 1929) è un sociologo che ha consacrato la sua
opera all’analisi della società contemporanea studiando in particolare la società
63
dei consumi: i suoi miti, le sue strutture. Il consumo è trattato nei suoi lavori
come un ‘linguaggio sociale’ qualcosa che tende ad aumentare i desideri degli
individui piuttosto che a soddisfarli. La sua concezione di fondo è che la
produzione di massa abbia trasformato il piacere in un dovere, addestrando i
cittadini ad un comportamento di consumo funzionale all’assorbimento
passivo dei beni immessi sul mercato. Il suo punto di vista è che la domanda
sociale è una conseguenza dell’offerta. Questo condizionamento non coinvolge
tanto le situazioni specifiche di bisogno, quanto la generale propensione al
consumo, che queste situazioni rendono visibile.
In un’intervista rilasciata su Mediamente, significativamente intitolata Il virtuale ha
assorbito il reale, il filosofo francese, alla domanda se l'immersione totale nello
schermo e nel computer da parte del soggetto possa implicare la scomparsa
della realtà in un generico non-luogo, ha risposto:
«La realtà è già scomparsa in certo modo, ma perché essa in fin dei conti, non è
mai altro che l'effetto di uno stimolo, di un modello. C'è un modello di realtà,
un principio di realtà, che è stato costruito e che si può scomporre molto
rapidamente. E' in effetti una sorta di costruzione quella che si è sgretolata
sotto la spinta delle tecnologie moderne, delle nuove tecnologie in particolare.
Ciò che viene chiamata la realtà virtuale ha senza dubbio un carattere generale
e in qualche modo ha assorbito, si è sostituita alla realtà nella misura in cui nella
virtualità tutto è il risultato di un intervento, è oggetto di varie operazioni.
Insomma tutto si può realizzare di fatto, anche cose che in precedenza si
opponevano l'una all'altra: da una parte c'era il mondo reale, e dall'altra
l'irrealtà, l'immaginario, il sogno, eccetera. Nella dimensione virtuale tutto
questo viene assorbito in egual misura, tutto quanto viene realizzato, iperrealizzato. A questo punto la realtà in quanto tale viene a perdere ogni
fondamento, davvero si può dire che non vi siano più riferimenti al mondo
reale. E infine tutto vi si trova in qualche modo programmato o promosso
dentro una superformula, che è quella appunto del virtuale, delle tecnologie
digitali e di sintesi. Accade effettivamente che a un certo punto il reale ci sta
pur sempre di fronte, e noi ci confrontiamo con esso, mentre con il virtuale
non ci si confronta. Nel virtuale ci si immerge, ci si tuffa dentro lo schermo. Lo
schermo è un luogo di immersione, ed ovviamente di interattività, poiché al
suo interno si può fare quel che si vuole; ma in esso ci si immerge, non si ha
più la distanza dello sguardo, della contraddizione che è propria della realtà. In
fondo tutto ciò che esisteva nel reale si situava all'interno di un universo
differenziato, mentre quello virtuale è un universo integrato. Di certo qui le
care vecchie contraddizioni fra realtà e immaginazione, vero e falso, e via
dicendo, vengono in certo modo sublimate dentro uno spazio di iper-realtà che
64
ingloba tutto, ivi compreso un qualcosa che sembrava essenziale come il
rapporto fra soggetto e oggetto. Voglio dire che nella dimensione virtuale non
c'è più né soggetto né oggetto, ma entrambi, in via di principio, sono elementi
interattivi. Parlo in termini un po' approssimativi perché non appartengo
completamente a questo mondo, non ne faccio parte, ma in ogni caso posso
parlarne nonostante tutto, e mi sembra di vedere determinate cose che
succedono al suo interno. In questo universo il soggetto non ha più una sua
posizione propria, una condizione vera, in quanto soggetto, di un sapere o di
un potere o di una storia. C'è invece un'interazione, che vuol dire in fin dei
conti uno svolgimento o un riavvolgimento di tutte le azioni possibili. Nella
realtà virtuale tutto è effettivamente possibile, ma la posizione del soggetto è
pericolosamente minacciata, se non eliminata».
Nel mito della caverna si ritrova la chiave interpretativa per la
comprensione del conflitto fra reale e virtuale. Riprende il filosofo francese:
«L'immagine di Platone è diversa in quanto si riferisce alla figura di una nascita,
di qualcosa di irreale in quanto ombra di qualcosa, ma tuttavia il mito parla
comunque dell'essere. Ci sono ombre che si muovono in circolo e noi non
siamo che il riflesso di un'altra sorgente, che esiste altrove, una fonte luminosa
dinanzi alla quale però si interpone un corpo, e le ombre sfilano. Nel mondo
virtuale, invece, direi che non ci sono né apparenze né essere, non esistono
ombre giacché l'essere è trasparente, in un certo senso questo è il dominio della
trasparenza totale. Noi siamo perciò come attraversati in qualche modo dai
messaggi, dall'informazione, dai megahertz o che so io, da tutto quel che si
vuole, poiché noi stessi siamo trasparenti all'interno della realtà virtuale, non
abbiamo più un ombra. La nostra, se si vuole, è tipicamente l'epoca dell'uomo
che ha perduto l'ombra. La famosa frase, "egli ha smarrito la sua ombra", è una
metafora che sta a indicare che abbiamo perso l'opacità, e in fondo l'essere
stesso, lo spessore dell'essere, la sua profondità. Al contempo si è perduto
anche il significato che l'ombra aveva un tempo, vale a dire la negatività, la
morte. Del resto è vero che di fatto ci troviamo dentro a un sistema che si
prefigge di eliminare la morte, nel quale non ci dovrà più essere nulla di
negativo, come la fine dell'esistenza e l'ombra. Un sistema totalmente operativo
e positivo al cui interno noi saremo tutti trasparenti, comunicativi, interattivi.
In questo ambito, perciò, non credo ci sia una scena in cui compaiono queste
ombre platoniche. Non so in che contesto ne avevo parlato, ma in ogni caso
non sussiste alcun rapporto fra le due immagini se non di contrapposizione,
non vi sono analogie».
65
Nel suo libro Il delitto perfetto46 troviamo la ricostruzione di un delitto,
ovvero la morte della realtà e lo sterminio delle illusioni ad opera dei media e
delle nuove tecnologie.
Continua Baudrillard: «A proposito del titolo, si è trattato in effetti
dell'uccisione della realtà, e più ancora che della realtà, a mio parere, delle
illusioni. Voglio dire che la perdita più grave è senz'altro quella dell'illusione,
vale a dire di una parte diversa del nostro rapporto con l'esistente. Il concetto
di realtà è relativamente recente, contiene un sistema di valori solo da poco
consolidatosi. Per contro, mi sembra che l'illusione sia parte integrante
dell'organizzazione simbolica del mondo, ed è perciò assai più dinamica. È
l'illusione vitale di cui parla Nietzsche, costituita da apparenze, fantasie, e tutto
ciò che può essere la forma di una proiezione, come una scena diversa da
quella della realtà. E mi pare che essa sia stata completamente eliminata da
questa operazione del virtuale che, in parole semplici, io chiamo "delitto" ma
che in fondo non è che una metafora un poco esagerata e forse persino non
troppo giusta, nella misura in cui non si tratta in realtà di un crimine o di un
assassinio in senso simbolico. Quando Nietzsche diceva "Dio è morto", ad
esempio, intendeva identificare con l'uccisione di Dio una rivoluzione positiva,
se così posso esprimermi, mentre nell'altro caso non abbiamo un omicidio ma
una eliminazione, una scomparsa, un annullamento, cosa alquanto più grave.
Quanto all'aggettivo "perfetto", esso denota come il vero delitto, come sto per
dire, consista nella perfezione, perché vuol dire che è quest'ultima il risultato
finale. Questo universo reale, imperfetto e contraddittorio, pieno di negatività,
di morte, viene depurato, lo si rende "clean", pulito; lo si riproduce in maniera
identica ma dentro a una formula perfetta. Così avremo bambini perfetti grazie
alla manipolazione genetica, avremo un pensiero perfetto grazie all'intelligenza
artificiale, e così via. La perfezione è dunque questo ideale in certo modo
perverso che rappresenta il vero delitto. A mio avviso, insomma, il delitto
consiste nella perfezione di questa specie di modello ideale che si vuole
sostituire alla realtà e al contempo all'illusione».
La posizione di Baudrillard nei confronti dei media è estremamente
critica. I rischi maggiori per una società dell'informazione come la nostra sono
quelli di rendere l’accadimento incomprensibile: «I media si frappongono in
maniera tale fra la realtà e il soggetto, che, mi pare, non ci sono più interpretazioni
possibili in quanto l'informazione rende l'accadimento incomprensibile. L'evento storico
non si sa più cosa sia quando passa attraverso i media, in breve si ha una
transustanziazione di questo tipo in tutto ciò che i media fanno, così che ne
46
J. BAUDRILLARD, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Raffaello
Cortina, Milano1996.
66
risulta quel che io chiamerei una simulazione, un simulacro, e perciò non esiste
più né il vero né il falso: non si sa più quale sia il principio della verità. Questo
è certamente un dato importante; ma infine, c'è davvero bisogno della verità?
In fin dei conti, l'obiettivo dei media non è stato forse di eliminare
effettivamente il principio morale e filosofico della verità, per installare al suo
posto una realtà completamente ingiudicabile, una situazione di incertezza che,
se si vuole, può ben essere immorale e difficile da sopportare, ma che in certo
modo è ironica? Se guardiamo alla cosa con ironia, scopriamo che i media si
sono dedicati a smontare questo principio di verità, autorità e certezza che
rappresenta del resto, bisogna dire, il fondamento di tutta una civiltà dal
carattere autoritario e moralmente rigoroso. Dunque i media svolgono anche
questa funzione di scomposizione, e si possono interpretare nell'altro senso.
Allo stesso modo tutta la tecnica in generale, non solo i media, ma gli strumenti
tecnici, le macchine, eccetera, sono in certo senso anch'essi dei mezzi per
togliere realtà al mondo, e inoltre, come ho detto, per instaurare una sorta di
incertezza, di gioco, e finalmente di amoralità delle cose. E forse in tal modo
essi ci liberano dal dovere di attenerci ai principi di verità, di obiettività, e di
tutti i princìpi su cui è fondata la nostra morale. Tutto questo, evidentemente, è
per noi destabilizzante, non c'è alcun dubbio, ma è sempre la stessa storia: da
una parte si perde, in misura enorme, ma se si sa affrontare la situazione in una
certa prospettiva si può pervenire a un'interpretazione ironica, nel senso che
l'ironia può ispirare una visuale totalmente relativizzata e destabilizzata. Si può
perdere, certamente, ma forse si possono anche trovare nuove regole per
giocare. Sono perciò radicalmente critico contro i media nel quadro del sistema
dei valori umanistici, ossia quello che noi conosciamo e che è nostro: a questo
livello bisogna essere assolutamente critici e addirittura spietati. Se però si
affronta la questione diversamente, e ci si pone al di là della fine, al di là di quel
principio, in un eventuale altro universo, allora non si può dire: può darsi che i
media, la tecnica, eccetera non siano che operatori di qualcosa che non so
descrivere, di un gioco, di ironia, non so».
Per quanto riguarda Internet il filosofo francese svolge queste
interessanti osservazioni circa il carattere di fascinazione svolto dal new media
sottoponendo a dura critica il presunto carattere interattivo: «In Internet c'è
un'interazione, che non è in alcun modo una relazione duale poiché non è
fondata sull'alterità, e non è nemmeno una relazione di confronto, di sfida,
eccetera. Abbiamo invece un rapporto di immersione, di interazione: là dentro
non esiste seduzione, al massimo si produce, evidentemente a livello collettivo,
una reazione di fascinazione, ma come avviene al cospetto di un universo
feticcio, di un oggetto d'adorazione. Non dico questo per negare [questa realtà],
anche se è vero che non vi partecipo, non le appartengo, e in un certo senso
sono dunque un cattivo giudice e parlo per partito preso; ma quel che mi
67
sembra chiarissimo è che per esserci una seduzione bisogna che ci sia una
scena della seduzione, e dei veri attori, non semplicemente degli interattivi, ma
attori che mettano in gioco la propria identità al fine della seduzione. Sia nella
seduzione amorosa che di altro genere, artistico, estetico, o altro, si verifica una
messa in gioco dell'identità, e persino una perdita dell'identità ma nel contesto
di un rapporto duale. Poi esiste un piacere della seduzione che non ha nulla a
che vedere con il fascino dello schermo e dell'operazione su Internet. C'è
relazione di attrazione, e questo è evidente, la cosiddetta fascinazione collettiva,
questo può essere. Occorre trasferirsi sul piano dell'ironia e dirsi: "Tutto questo
non è forse un'altra scena su cui noi rappresentiamo la commedia di Internet e
di tutto il mondo virtuale, della cibernetica, eccetera?" A livello collettivo forse
anche questo è soltanto un grande gioco, che non occorre necessariamente
prendere del tutto sul serio, così come ogni giorno si dà la commedia della
politica e di un mucchio di altre cose. Ebbene, esiste una scena della politica, la
quale però è ormai diventata l'ambientazione di un teatro se non comico,
almeno, in ogni caso, molto meno drammatico, senza dubbio. Internet è
nuovo, originale se si vuole, ma come dico, ne esiste già una replica nei media.
Internet stesso si trova già sdoppiato nel commento mediatico che se ne fa e
nel suo consumo globale, e pertanto Internet stesso non è già più Internet, ma
è stato attirato nel sistema della simulazione, e in fondo è già stato trasformato.
Si entra nella cultura del Web, del Net, e al contempo si è già nell'iper-realtà di
queste stesse entità, perché in quel senso non ci si ferma, ed è un bene: voglio
dire che altrimenti si potrebbe credere che Internet sia la rivoluzione tecnica,
l'ultima, quella definitiva, e si potrebbe pensare "Siamo arrivati, ci siamo,
questo è veramente il progresso assoluto, e si è completato". Ebbene, questo
sarebbe la morte, in un certo senso, ma fortunatamente Internet sta
ridiventando l'oggetto di un gioco, e in fin dei conti si consuma un po' al modo
in cui certe persone pagano per un telefonino cellulare solo per far vedere di
averlo. Possono essere milioni le persone che si comportano così, si può creare
in tal modo una nuova cultura, un nuovo ambiente, ma nonostante tutto
bisogna stare bene attenti a non prendere troppo sul serio l'idea che i
fondamenti dell'uomo e della sua civiltà saranno rivoluzionati da una tecnica,
qualunque essa sia, anche Internet (…) A questo punto, perciò, il vero
problema è sapere dove si arriverà, data l'accelerazione con cui si sviluppano
quelle tecnologie: perché è vero che questo progresso vorticoso c'è stato nel
corso degli ultimi anni, diciamo nell'ultimo ventennio, ma del resto tutte queste
cose venivano già osservate e analizzate fin dagli anni Sessanta, e dunque di
tempo ne è passato parecchio. Ora però si sta verificando una tale
accelerazione che ci si domanda in effetti se non stia prendendo forma una
configurazione tipica del caos, vale a dire un'accelerazione e una turbolenza tali
che non si sa fin dove si andrà avanti e a quale termine si arriverà naturalmente,
68
con grande rapidità, come a un muro, o a qualcosa di simile al crollo totale
della realtà»47.
1.5 Un genocidio psichico?
Il sociologo italiano Ferrarotti ha preconizzato la possibilità di un
genocidio psichico : «C’è il rischio di un azzeramento di tradizioni storiche e
culturali depositarie di valori originali e positivi. Senza una rapida, meditata
inversione di tendenza, non è infondato temere un processo di “colonizzazione
interiore” che si potrà forse un giorno, retrospettivamente, valutare nei suoi
drammatici contorni di genocidio psichico»48.
Procedendo per generalizzazioni, si possono identificare i seguenti fattori
quali elementi caratterizzanti la cultura di tipo apocalittico:
- l’idea della superiorità della scrittura sull’immagine;
- l’idea che la televisione sia un pericolo per la democrazia;
- l’idea che la televisione nasca soltanto come tecnologia, per poi imporsi
ad un pubblico passivo, piuttosto che da una storia sociale che ne aveva
già evocato e preparato la presenza.
1.6 Homo videns
E’ lecito domandarsi se il video stia trasformando l’homo sapiens in un
homo videns nel quale la parola è spodestata dall’immagine? In altre parole: è
lecito formulare il problema se il primato dell’immagine può portare a un
vedere senza capire?
Nel caso della televisione l’utente è portato a vedere cose da ogni dove
(tele = da lontano), da qualsiasi luogo e da ogni distanza. Nella televisione
prevale il vedere sul parlare poiché la voce in campo è secondaria, è in funzione
dell’immagine, commenta l’immagine. Per il telespettatore contano più le
immagini che le cose dette in parole. «La televisione non è soltanto strumento
di comunicazione: è anche paideia, uno strumento antropogenetico, un medium
che genera un nuovo anthropos, un nuovo tipo di essere umano»49. L’immagine
deve essere spiegata e la spiegazione che ne viene data sul video è
costitutivamente insufficiente.
47
J.BAUDRILLARD, in http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.
F. FERRAROTTI, Genocidio psichico? In AA.VV. La svolta della Tv, cit., p. 60.
49
G. SARTORI, Homo videns, Laterza, Bari-Roma 1999, p. 17.
48
69
Nella nostra società – in cui ciò che conta veramente è l’apparire per
essere – l’immagine assume una grandissima importanza. Il sapere percorre
sentieri tortuosi e alternativi, non passa più dalla memoria, dall’utilizzo di
nozioni acquisite. Si preferisce privilegiare la rappresentazione iconica dei
contenuti da trasmettere. Con l’uso sapiente dei contenuti iconici, la loro alta
carica di rappresentatività, la narrazione per immagini contamina i processi
mnemonici al punto tale da venire implicati quasi esclusivamente nel
riconoscimento e nella significazione delle immagini stesse, o di ciò che viene
trasmesso attraverso un uso sapiente dei processi di simbolizzazione. Quello
che si profila all’orizzonte è una società che si fonda sull’immagine che può
essere più immediata, in quanto la comunicazione è in grado di manipolare le
nostre sensazioni, rivolgendosi cioè direttamente alla sfera della nostra
emotività, ma anche per questo più incosciente.
Ma nell’età multimediale la televisione non è più la regina di questa
multimedialità: il nuovo sovrano è il computer che ha il potere di unificare
parola, suono, immagini e di introdurre realtà simulate, realtà virtuali.. Se la
televisione ci fa vedere immagini di cose reali, il computer cibernetico ci fa
vedere “immagini immaginarie”. La realtà virtuale è una irrealtà che viene
creata sul video e che è realtà soltanto sul video. Le nuove frontiere sono
Internet e ciberspazio. Se nell’uso del televisore lo spettatore rimane passivo,
in questo spazio multimediale il rapporto si fa interattivo. La televisione
fornisce prodotti di massa che raggiungono larghi pubblici, mentre Internet
produce prodotti su misura. Il problema è se Internet produrrà o no crescita
culturale. Si tratta di sapere se Internet verrà usato come strumento di sapere.
Per molti è l’occasione di riempire il loro tempo vuoto in compagnia di anime
gemelle…Per questo tipo di utente Internet è soprattutto un terrific way to waste
time, un tessuto impalpabile fatto di niente.
Si potrebbe chiosare la posizione degli apocalittici con la nota parafrasi di
G. Anders: «E' vero, la situazione del secolo XX si distingue
fondamentalmente da quella del XIX secolo. Se in una delle frasi più famose
del secolo scorso si diceva che la maggioranza dell'umanità di allora "non aveva
niente da perdere tranne le sue catene, oggi bisogna dire che la maggioranza
crede di possedere tutto grazie alle sue catene (di cui non si accorge). Dato che
fa parte della natura di queste catene il non essere avvertite da chi le porta,
naturalmente non si arriva mai alla paura di perderle»50.
50
G. ANDERS, L'uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell'epoca della
terza rivoluzione industriale (1980), Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 47.
70
1.7 L'evanescenza dell'identità
La riflessione di Umberto Galimberti si dilata al di là della problematica
strettamente mediologica e, a partire da un’impostazione filosofica, l’autore
mette in luce il problema della tecnica come elemento causale e originario della
perdita di identità che caratterizza l’uomo moderno. «In un mondo dove gli
oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all'obsolescenza immediata,
l'individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua
identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quel senso costante
che è alla base della propria identità si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che
sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la tecnica
diffonde come immagine del mondo. Costruendo infatti un mondo di illimitate
possibilità, che vanno dall'ingegneria genetica ai viaggi nello spazio, dalla
comunicazione totale alla distruzione di massa, la tecnica sposta la realtà del
mondo in quella dimensione onirica dove l'individuo percepisce solo il riflesso
dei suoi desideri e delle sue paure, in un'atmosfera dove il sogno del mondo,
che spesso sconfina nell'incubo, sfugge in ogni caso alla comprensione e alle
pratiche di controllo. Priva di un mondo costante, durevole e rassicurante nella
sua solidità, l'identità diventa incerta e problematica, non perché l'individuo
non appartiene più a precise categorie sociali, ma perché non abita più in un
mondo stabile e dotato di esistenza indipendente»51. Il pensiero di Galimberti è
espressione di un pensiero critico che raggiunge punti di radicale messa in
discussione della tecnica. La messa in guardia dai pericoli dell’omologazione è
affascinante (per la struttura argomentativa ed evocativa del discorso) e nello
stesso tempo drammatica. E’ difficile non riconoscere il valore estraniante
prodotto dal potenziamento dei mezzi di comunicazione. La perdita
dell’identità produce un processo di omologazione delle condotte di massa per
cui si può parlare di “trasformazione antropologica” indotta dai mass media.
L’analisi di Galimberti si salda alla visione apocalittica con cui già la Scuola di
Francoforte e Pasolini (con strumenti assai diversi), denunciavano
l’omologazione culturale. Si è presi dall’ansia di essere uguali gli uni agli altri nel
consumare, come se ciascuno obbedisse all’ordine di un Potere che ha deciso
che noi siamo tutti uguali. Questo invade anche il piano del pensiero e il luogo
dove si formano giudizi, albergano i desideri. Ciò toglie alla radice la possibilità
di una identità e quindi il riconoscimento dell’alterità. Il dialogo diventa un
monologo: «La società conformista, nonostante l'enorme quantità di voci
diffuse dai media, o forse proprio per questo, parla nel suo insieme solo con se
stessa. Alla base infatti di chi parla e di chi ascolta non c'è, come nell'epoca pretecnologica, una diversa esperienza del mondo, perché sempre più identico è il
mondo a tutti fornito dai media, così sempre più identiche sono le parole
51
U. GALIMBERTI, Psiche e techne, op. cit., pp. 613-4.
71
messe a disposizione per descriverlo. Il risultato è una sorta di comunicazione
tautologica, dove chi ascolta finisce con l'ascoltare le identiche cose che
potrebbe ascoltare da chiunque»52. Il tratto che contraddistingue l’epoca in cui
viviamo è la cultura del relativismo che sembra la forma moderna della
tolleranza: «La cultura del relativismo, generata dalla cultura del narcisismo può
ammantarsi di tolleranza, ma, sotto questa parola, ciò che passa è in realtà la
cultura dell'irrilevanza della scelta, se non addirittura quella dell'impotenza»53.
Una significativa esemplificazione di questa affermazione è data dalla libertà
sessuale propria della maggioranza. In realtà il relativismo vissuto è una
convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica
irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Non esistono “matrimoni
incondizionati”, ma solo “innamoramenti fatui”. Il risultato di una libertà
sessuale “regalata” dal potere –scriveva già Pasolini- è una vera e propria
nevrosi: «La facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità “indotta” e
imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente
l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza»54.
52
Ibidem, p. 625.
Ibidem, p. 590
54
P. P. PASOLINI, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990, p. 99.
53
72
73
2. INTEGRATI
2.1 Gli studi di Morin
Gli studi di Morin55 si situano in ottica giustificazionista o, per meglio
dire, costituiscono una forma di legittimazione del consumo culturale di massa.
Morin ne accetta l’evidenza storica, l’esistenza di fatto. L’industria culturale
esiste, circonda e alimenta l’esperienza quotidiana dell’uomo occidentale. Il
sociologo francese ha messo in luce le qualità positive dell’intrattenimento
collettivo. Descrive le qualità globali della comunicazione audiovisiva. Presta
attenzione alle dimensioni tecnologiche, alle sue grazie, alle sue ragioni sociali.
Non nega che la cultura di massa nasca come interesse strategico della
produzione industriale, come allargamento dei mercati economici. Ma la
cultura di massa nasce anche come urgenza sociale e come desiderio. Se gli
intellettuali non comprendono la complessità delle culture contemporanee,
Morin vuole invece rendere giustizia al loro fascino. Oggetto dello studio di
Morin è infatti la dialettica tra produzione e fruizione, tra centro e periferia. La
cultura di massa è il risultato di un compromesso tra la standardizzazione del
prodotto industriale e le esigenze della creatività, tra la massificazione del
consumo e il desiderio di differenziazione individuale. Ma la cultura di massa è
desiderio e insieme organizzazione burocratica, investimento razionale. Se la
televisione ha portato a compimento la democratizzazione della vita culturale,
nello stesso tempo si è fatta apparato, regime istituzionale. Morin analizza il
rapporto dialettico tra produzione e consumo, in cui il principio di seduzione che
aveva animato la storia moderna del gusto mantiene la sua integrità, ma viene
insidiato e contrastato dalle necessità della tecnica. «La cultura di massa, in
certo senso, è l’erede e la continuatrice del movimento culturale delle società
occidentali. Nella cultura di massa confluiscono la corrente popolare e la
corrente borghese, l’una dapprima dominante, l’altra sviluppatasi in seguito. La
cultura di massa integra questi contenuti per poi disintegrarli e operare una
nuova metamorfosi»56. Attraverso il movimento reale e la presenza viva, la
cultura di massa ritrova un carattere della cultura orale, folclorica o ancora
arcaica: la presenza visibile degli esseri e delle cose, la presenza permanente del
mondo invisibile. I canti, le danze, i mimi, i ritmi della radio, della televisione,
del cinema, risuscitano feste, danze, mimi, ritmi degli antichi folclori (…) Ma in
compenso la cultura di massa spezza l’unità della cultura arcaica, quando in uno
stesso luogo tutti partecipavano e come attori e come spettatori alla festa, al
rito, alla cerimonia. Separa fisicamente spettatori e attori. Lo spettatore non
55
56
E. MORIN, L’industria culturale, Il Mulino, Bologna 1963
MORIN, op. cit., p. 61.
74
partecipa se non psichicamente allo spettacolo televisivo, al film, alla
trasmissione radiofonica; e nei grandi spettacoli sportivi, anche se è
fisicamente presente, non gioca57.
2.2 Tecnologia e intelligenza collettiva
Esistono modi diversi di pensare la tecnica. Soltanto in alcuni casi
l’analisi della tecnica è stata interpretata nella complessità dei suoi fattori, fino a
comprender l’intero panorama di invenzioni che ha attraversato la
civilizzazione. Gli autori della Scuola di Toronto –Innis, McLuhan, Havelockavevano insistito molto sulla tecnica come agente di strutturazione delle culture
sociali. Ma lo avevano fatto con un atteggiamento ideologicamente più
equilibrato rispetto, ad esempio, alla Scuola di Francoforte. E, soprattutto, non
avevano limitato la loro analisi alle tecniche della televisione, della radio,
dell’industria moderna, ma l’avevano estesa coerentemente alle tecniche della
civiltà umanistica e dell’alfabeto fonetico.
2.3 L’intelligenza collettiva
Pierre Levy ipotizza la creazione di un nuovo spazio antropologico in cui
tutti i saperi della società vengono messi in comune, grazie all'informatica:
l'intelligenza collettiva appunto. L’idea centrale di Levy è che l’evoluzione
dell’uomo, tutta la storia, sia essenzialmente una storia di tecnologie. «Dati,
testi, immagini, suoni, messaggi di ogni genere vengono digitalizzati e, sempre
più di frequente, prodotti direttamente in forma digitale. Gli strumenti di
trattamento automatico dell’informazione, applicandosi ai messaggi, divengono
d’uso comune un po’ in tutti i settori dell’attività umana. La realizzazione della
connessione telefonica dei terminali e delle memorie informatiche, l’estensione
delle reti di trasmissione digitale ampliano, giorno dopo giorno, un cyberspazio
mondiale, nel quale ciascun elemento d’informazione si trova virtualmente in
contato con qualunque altro e con tutto l’insieme. Queste tendenze
fondamentali, già in atto da più di venticinque anni, produrranno, nei prossimi
decenni, i loro effetti in misura via via crescente. L’evoluzione in corso
converge verso la costituzione di un nuovo ambito di comunicazione, di
pensiero e di lavoro per le società umane»58.
La definizione di "intelligenza collettiva" di Pierre Levy non è abbastanza
convincente. E’ vero da un lato che egli ha colto il fenomeno della progressiva
integrazione di diverse figure all'interno del lavoro intellettuale, ma in certo
senso lo ha idealizzato. Dalla sua concezione emerge una sorta di nuovo
intellettuale a molte teste. Indubbiamente questo concetto produce una sorta di
57
58
Ibidem.
P. LÉVY, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 13-14.
75
fascinazione reale del nostro tempo. Così come negli anni Sessanta con i
Beatles abbiamo cominciato a essere affascinati dall'idea che i prodotti culturali
della nostra epoca fossero costruiti da gruppi e non più da singoli individui;
così la nuova produzione culturale collettiva è un luogo dove avvengono forme
di collaborazione e forme di conflitto, forme di creazione comune e forme,
invece, di sterilità, dovute anche alla difficoltà di lavorare insieme. La
tecnologia è chiamata a garantire la collaborazione: il gruppo collabora anche in
quanto il software usato, la rete stessa, che collega tra di loro le diverse
postazioni di lavoro, consentono una circolazione fluida delle idee e del lavoro.
La tecnologia aiuta, ma la chimica del funzionamento di un buon collettivo non
è più semplice come non in passato. Appare più complessa perché occorre che
ciascuno dei membri del collettivo dia il massimo delle sue capacità, accettando
contemporaneamente che il prodotto non sia firmato solo da lui, ma che si
tratti di un prodotto unitario e globale. Ciò richiede, per esempio, delle capacità
organizzative e delle capacità psicologiche di grande complessità, che forse, per
certi versi, ci riportano a delle esperienze passate importanti.
2.4 Gli studi di Eco
Nel 1964 Umberto Eco rilevava come fosse difficilmente
comprensibile il giudizio negativo che i francofortesi avevano attribuito ai
processi comunicativi. Se è vero, da un lato, che i mass media propongono in
maniera massiccia e senza discriminazione vari elementi di informazione in cui
non viene distinto il dato valido da quello di pura curiosità e di trattenimento,
dall’altro, non si può negare che «questa accumulazione di informazione possa
risolversi in formazione». Eco sembra prospettare la possibilità che il flusso di
dati quantitativi possa modellarsi in termini qualitativi59.
I mass media offrono una ricchezza di informazioni e di dati sul
mondo che contribuiscono a sensibilizzare l’uomo contemporaneo nei
confronti di ciò che lo circonda, anche se non suggeriscono criteri di
discriminazione. Annota Eco: «Se questa è l’epoca delle grandi follie totalitarie,
non è anche l’epoca dei grandi mutamenti sociali e delle rinascite nazionali dei
popoli sottosviluppati? Segno che i grandi canali di comunicazione diffondono
informazioni indiscriminate ma provocano sommovimenti culturali di un
qualche rilievo»60.
I mezzi di massa, ancora, hanno fornito nuovi linguaggi, nuovi modi di
parlare, nuovi schemi percettivi, operando un rinnovamento stilistico tale da
esercitare significative ripercussioni sulle arti superiori.
59
60
U. ECO, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964 p. 42-43.
Ibidem, p. 45.
76
77
SEZIONE 4
LA PUBBLICITA’
78
79
1. LA PUBBLICITA’
La pubblicità è una delle tante forme di comunicazione tra gli uomini.
La pubblicità può essere definita in termini molto semplici e generali come
sistema di tecniche di comunicazione persuasiva, utili a promuovere consumi.
Ragionare sulla comunicazione persuasiva permette di conoscere le
tecniche, di capire come e perché funzionano e, una volta capito come mai
sono efficaci, di individuare intenzioni e obiettivi. Richiamando il concetto di
comunicazione espresso all’inizio della nostra trattazione, chiamiamo
comunicazione ogni scambio di segnali che avviene tra organismi (almeno
due), ciascuno dei quali percepisce l’altro e retroagisce all’informazione che
questo gli trasmette. Se gli organismi coinvolti sono complessi, complessa sarà
la comunicazione prodotta. Poiché non si può esistere senza comunicare, come
afferma Paul Watzlawick, occorre operare una distinzione fra ciò che è
l’esprimere se stessi e ciò che è il trasmettere qualcosa a qualcuno. Noi comunichiamo
con parole e comportamento: la parte verbale della comunicazione dice
qualcosa, la parte non verbale suggerisce qualcosa.
1.1 Persuasione ed efficacia della persuasione
La pubblicità quindi pone il problema della comunicazione e della sua
efficacia. L’efficacia è data dalla persuasività del messaggio e dalla sua ricezione.
Come si fa a risultare persuasivi? Come è possibile modificare, attraverso la
persuasione, decisioni e comportamenti? Dietro ogni decisione c’è un giudizio
e dietro ogni giudizio c’è un’emozione. Il percorso della persuasione segue le
scorciatoie delle emozioni, glissando (o by-passando) l’autostrada della ragione.
La decisione è la formulazione di un giudizio in merito all’attuazione o meno di un’azione.
La decisione non è spontanea, ma presuppone una riflessione e una considerazione delle
conseguenze che si rendono possibili in seguito alla scelta effettuata. La scelta, a sua volta, si
orienta verso quell’alternativa che, secondo la previsione, procura maggior piacere, ricompensa
o utilità61. Decidiamo dopo aver giudicato e giudichiamo dopo aver riflettuto
sulle conseguenze. La comunicazione persuasiva influisce sul funzionamento
della nostra mente, ma dal punto di vista degli studi sull’efficacia è più
interessante rendersi conto di che cosa agisce sul funzionamento della nostra
mente quando giudica facendo riferimento al contesto culturale, alle emozioni,
agli affetti, ai valori in modo da poter, in qualche modo, anticipare le
conseguenze che ci portano a decidere in una certa direzione.
Ragionare sulla comunicazione persuasiva ci consente, avendo capito le
tecniche e la loro efficacia, di smontare i messaggi e individuare intenzioni e
61
Dizionario di psicologia, Garzanti.
80
obiettivi. Occorre intuizione per individuare argomenti persuasivi tuttavia, c’è
bisogno di una tecnica e di una capacità progettuale per strutturarli in un
discorso.
1.2 Marketing
La parola deriva dall’inglese to market (vendere). In realtà, come nota
Philip Kotler62, il marketing va la di là del semplice atto di vendita e assume un
significato che inerisce lo scambio sociale. Il marketing è un processo sociale e
manageriale mediante il quale una persona o un gruppo ottiene ciò che
costituisce oggetto dei propri bisogni e desideri creando, offrendo e
scambiando prodotti e valori con altri. Il marketing management è un processo di
analisi, pianificazione, realizzazione e controllo che si riferisce a idee, beni e
servizi e si basa sulla nozione di scambio. L’obiettivo dell’intero processo è il
conseguimento di un certo grado di soddisfazione per tutte le parti coinvolte.
L’attività di marketing si basa propriamente sulle necessità dell’acquirente,
mentre l’attività di vendita si fonda sulle necessità del venditore. Nell’attività di
marketing è fondamentale gestire la domanda: più la si conosce più si è in grado
di produrre offerte che soddisfino i bisogni e i desideri del pubblico. I criteri
del marketing – nel loro punto sintetico riguardano la proposta di qualcosa che
persuade – possono essere applicati oltre all’offerta di beni di consumo,
all’offerta di intrattenimento, di informazione, di cultura, di politica. Ragionare
in termini di marketing significa individuare l’offerta di qualcosa che abbia le
caratteristiche necessarie a suscitare una domanda tale da rendere conveniente
la produzione e garantire il successo per quanto riguarda le vendite.
Il piano di marketing deve analizzare il contesto in cui opera l’impresa,
individuare problemi e opportunità, definire gli obiettivi finanziari e
commerciali, le strategie per raggiungerli. Le scelte strategiche riguardano la
gestione delle quattro “p”: product, price, place, promotion.
Il marketing serve a produrre ciò che potenzialmente si vende, la
pubblicità serve a vendere effettivamente ciò che si produce.
1.3 Brevi cenni di storia della pubblicità
La pubblicità ha preso forma progressivamente. Nell’antichità le numerose
insegne utilizzate dai commercianti per attirare i clienti rappresentavano già un
tipo di comunicazione vicino alla pubblicità contemporanea. A Pompei, in
Egitto, in Cina per vendere beni e servizi occorreva metterli in una luce
favorevoli. I primi esempi di pubblicità di cui si ha prova si ritrovano nel
popolo dei Fenici, i quali erano soliti lasciare delle grandi scritte lungo le strade
62
P. Kotler, Marketing management,Vol.II, ISEDI Petrini editore, Torino 1996.
81
più importanti elencando la merce in vendita. Anche i Greci e i Romani
facevano uso di manifesti e insegne. I ritrovamenti di Pompei testimoniano di
iscrizioni che annunciavano eventi, magnificavano i servizi offerti dalle terme,
l'onestà dei prezzi e non solo. Si faceva pubblicità anche su vasi, bassorilievi e
pergamene, spesso per propaganda politica. La pubblicità diviene una
professione probabilmente con i primi imbonitori medievali. I venditori di
pozioni magiche, banditori, strilloni che smerciavano i loro prodotti alle fiere e
nelle piazze dei paesi. Fino all'avvento della stampa la pubblicità era cosa loro.
E tutto era naturalmente consegnato all'arte dell'eloquio e della retorica.
1.3.1 L’avvento della stampa
Il primo annuncio stampato di cui si abbia traccia apparve in
Inghilterra: è un volantino del 1473 che pubblicizzava un libro di precetti
religiosi dell'editore-tipografo William Caxton. Il 17 ottobre 1482 Jean du Pré
realizza il primo manifesto della storia, per il grande perdono di Notre Dame
de Reims. Nel 1498 Pierre Le Caron pubblica un piccolo manifesto per
l’entrata di Luigi XII a Parigi. Ma è solamente molti anni più tardi che nacque
la moderna pubblicità con l'uscita delle Gazzette settimanali, le vere antenate
dei nostri giornali. In Germania e Olanda nel 1609, in Francia nel 1620, in
Inghilterra nel 1622. In Italia nel 1639 nasce la Gazzetta di Genova. Il primo
quotidiano della storia viene pubblicato a Lipsia nel 1660. Il primo annuncio
pubblicitario apparve sulla Gazette Hebdomadaire, il 30 maggio 1631 (secondo
altri nel 1629 sul Mercurius britannicus).
Da quel momento, le iniziative simili si moltiplicarono a dismisura
grazie anche allo sviluppo del commercio e delle attività artigianali.
1.3.2 I primi manifesti
Dalla seconda metà dell'ottocento, la pubblicità esce dai quotidiani e arriva
sui manifesti, dove trova la sua forma di espressione migliore. Grazie alla
cromolitografia che è una tecnica che permetteva di produrre manifesti di
grande formato a colori, illustratori e artisti affermati poterono realizzare dei
veri e propri capolavori. Nel 1866 Jules Cheret disegna le prime affiches per il
profumiere Rimmel. Il pittore Toulouse-Lautrec fu autore di una trentina di
manifesti per spettacoli, libri e cosmetici. Edoard Manet nel 1868 realizzò a
Parigi il manifesto Les chats per il libro dal titolo omonimo dello scrittore
Champfleury. Fortunato Depero nel 1919 diede vita alla Casa d’arte futurista,
produttrice di manifesti per la pubblicità definendo quest’ultima “arte
gioconda, spavalda-esilarante-ottimista”. Negli anni Venti lavorarono per la
pubblicità anche il dadaista Man Ray e il surrealista René Magritte. Lo stesso
Filippo Tommaso Marinetti si cimentò direttamente nell’arte pubblicitaria
componendo negli anni trenta per Snia Viscosa quelli che ha chiamato “poemi
82
industriali”: Il poema del vestito di latte, Il poema di Torre Viscosa, Il poema non umano
dei tecnicismi. La pubblicità stessa fu influenzata dal futurismo, come testimonia
il manifesto fatto uscire dall’azienda AEG per una nuova lampadina,
contenente uno slogan “rubato” dal titolo di un importante testo di Marinetti :
Uccidiamo il chiaro di luna. L’industriale Davide Campari ricorse a numerosi artisti
nel tentativo di creare pubblicità insolite e singolari. Il sodalizio sicuramente
più significativo e fruttuoso è stato quello con Depero, al quale commissionò
una lunga serie di annunci pubblicitari. Nel 1926 Depero portò alla Biennale di
Venezia un dipinto, Squisito al selz, che rappresentava i tavolini di un caffè con
un Bitter Campari, dedicato proprio al commendator Campari.
Anche D’Annunzio prestò la sua genialità e il suo talento artistico
nell’ambito pubblicitario: ricordiamo, fra le altre, la pubblicità prodotta per il
liquore Aurun, l’amaro Montenegroi, i biscotti Saiwa e il conio del marchio La
Rinascente.
1.3.3 Le prime agenzie pubblicitarie
Il salto di qualità dalla segnalazione dell’esistenza di merci alla
formulazione di messaggi appositamente progettati per promuovere le merci su
vasta scala è legato all’avvento dell’industria e dall’espansione dei mezzi di
comunicazione di massa. Le moderne agenzie di pubblicità nascono negli Stati
Uniti. Volney Palmer apre nel 1840 un'agenzia che tuttavia era una semplice
concessionaria: acquistava in blocco spazi pubblicitari sui maggiori quotidiani
per rivenderli ai suoi clienti. Dal 1860 le concessionarie iniziano ad offrire, per
favorire l'acquisto degli spazi, anche la creazione del testo, l'impaginazione
dell'annuncio e le illustrazioni. La Carlton & Smith, fondata nel 1864, viene
acquisita dalla J. Walter Thompson, per molti anni la prima in assoluto e ancora
oggi una delle prime agenzie internazionali. All'inizio del ventesimo secolo le
agenzie già possiedono una struttura ben precisa, con regole e ruoli che si
vanno definendo sempre più distintamente. Tra gli anni trenta e quaranta, le
agenzie assumono definitivamente quel modello operativo che è valido ancora
ai nostri giorni. La pubblicità viene commissionata dalle aziende agli specialisti
di settore per raggiungere obiettivi di tipo commerciale: incrementare le
vendite, migliorare l’immagine dei prodotti, contrastare le iniziative dei
concorrenti.
1.3.4 L’industria pubblicitaria
La pubblicità assunse a partire dagli anni Venti e Trenta del Novecento,
la natura di un vero e proprio sistema industriale e di comunicazione che
contribuì in maniera determinante alla nascita di una cultura di massa e della
società dei consumi. Dopo aver recepito i dettami della razionalizzazione del
lavoro (taylorizzazione), le imprese migliorarono l’ambiente interno attraverso
83
l’introduzione della catena di montaggio, ma contemporaneamente si
trovarono di fronte alla necessità di migliorare il loro ambiente esterno, lo spazio
che chiamiamo mercato. La nascita del marketing è legata all’esigenza,
percepita dai grandi industriali e dagli imprenditori di favorire la nascita
nell’ambiente esterno di una domanda di massa per i beni che venivano
prodotti.
Lo sviluppo di una cultura di marketing e contestualmente l’adozione
della psicologia comportamentista portarono nei primi decenni del Novecento
ad un cambiamento della concezione vigente nelle aziende a proposito del
ruolo del manifesto commerciale. Alla pubblicità puramente artistica o
generalmente tendente ad affermare e far ricordare una marca o un prodotto
subentrò infatti un orientamento che mirava a illustrare ed esaltare le qualità e
le prestazioni del prodotto. Il messaggio pubblicitario assunse un aspetto più
articolato e completo.
L’utilizzo massiccio della radio per fare pubblicità stimolò una
rivalutazione dell’uso della parola anche nei manifesti. Alla fine degli anni venti
comparvero slogans famosi che ebbero un tale successo da essere impiegati per
parecchi anni: “Brill la perla dei lucidi” (1927) “Chi beve birra, campa
cent’anni” (1929) , “Un Ramazzotti fa sempre bene” (1934).
1.3.4 Carosello
La nascita della televisione ha aperto un nuovo canale di diffusione dei
messaggi pubblicitari. Carosello nasce il 3 febbraio 1957 alle 20.50. Gli esordi
sono difficili: ogni scenetta doveva essere approvata da una speciale
commissione della Sacis. Le scenette erano in bianco e nero. I pubblicitari
cercavano di fondere armoniosamente scenetta e messaggio pubblicitario
rispettando i vincoli di una censura che vietava di usare una certa terminologia.
I limiti pubblicitari imponevano che la réclame del prodotto durasse al
massimo trentacinque secondi su due minuti e quindici secondi di ogni
Carosello: il famoso “codino”. Quando i primi quattro episodi di Carosello
vanno in onda, gli abbonati alla televisione sono 3.666.161. Il titolo del
programma rievocava un celebre film musicale da poco uscito, Carosello
napoletano. Carosello diviene in breve il programma più seguito della
televisione di Stato, unica trasmissione interamente ideata, scritta e diretta da
privati. Per molti giovani alle prime armi fu anche una scuola per imparare un
mestiere. Nel 1961 l’ascolto di carosello saliva a 7 milioni e 800 mila spettatori.
Nel 1963 la vecchia sigla viene cambiata con disegni eseguiti a tempera da
Manfredo Manfredi, raffiguranti quattro celebri piazze di città italiane: Venezia,
Siena, Napoli e Roma. Nel 1974 diviene più corto: ogni scenetta dura un
minuto e quaranta secondi, mentre il costo per la realizzazione si aggira dai tre
84
ai cinque milioni. Il primo gennaio 1977 va in onda l’ultimo Carosello: una
Raffaella Carrà commossa recita l’addio al programma brindando con lo Stock
e ringraziando tutti quelli che vi avevano lavorato. Gli ultimi ascolti di carosello
parlavano di 19 milioni di italiani, fra cui 9 milioni di bambini.
Carosello si colloca a metà tra l’intrattenimento (per dissimulare il
proprio intento commerciale) e la comunicazione commerciale. In realtà, da
punto di vista pubblicitario, Carosello non sempre si rivelò uno strumento
efficace. Spesso accadeva infatti che la scenetta presentata o la forte personalità
del personaggio impiegato monopolizzassero l’attenzione dello spettatore e
dunque il prodotto non venisse memorizzato63.
Certamente Carosello svolse per gli italiani una funzione pedagogica e
sociale importante, in quanto indicò come la via della modernizzazione fosse
compatibile con i valori tradizionali64. Inoltre presentò un mondo consumistico
di felicità e benessere estremamente affascinante per una popolazione che
proveniva dai disagi della guerra65. Progressivamente Carosello cominciò a
costituire un vincolo per il mondo aziendale, in quanto insufficiente rispetto
alle esigenze di un’economia che cresceva a grande velocità.
Dopo gli anni del boom economico il mondo della pubblicità
attraversò in tutti i paesi industrializzati una crisi sia economica che culturale. I
pubblicitari subirono numerose critiche da parte degli intellettuali, dei giovani e
delle numerose persone che all’epoca condividevano le ideologie
anticonsumistiche e marxiste. I pubblicitari attuarono quello che Robert
Goldman con un gioco di parole ha denominato “femminismo delle merci”
per indicare che, come nel capitalismo secondo Marx il “feticismo” delle merci
nasconde i rapporti tra gli esseri umani e li trasforma in rapporti tra cose, così
la pubblicità quando si appropria delle critiche femministe rivolte a se stessa le
indebolisce trasformandole in oggetti di consumo.
La “rivoluzione sessuale” ebbe riflessi sulla pubblicità. Negli annunci
erano spesso presenti donne ammiccanti ed aggressive sul piano sessuale, che
lanciavano richiami espliciti all’altro sesso. Chi non ricorda la pubblicità della
benzina BP? La ragazza sexi dai riccioli rossi veniva affiancata all’invito
“scappa con superissima!”. O chi non ricorda la bionda tedesca della birra
Peroni che, col busto nudo e avvinghiata ad un’enorme bottiglia di birra
proclamava “chiamami Peroni sarò la tua birra”?
V. CODELUPPI, Che cos’è la pubblicità, Carocci, Roma 2001, p. 27.
F. COLOMBO, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’ottocento
agli anni novanta, Bompiani, Milano 1998, p. 264.
65
CODELUPPI, op. cit., p. 27.
63
64
85
1.4 Gli anni ottanta
Nel 1976 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 202 metteva fine al
monopolio della Rai. Nel 1977 si ha l’innovazione della Tv a colori. All’inizio
degli anni ’80 la proliferazione di Tv private rivoluziona il mercato della
pubblicità e dei media.
Il 1° gennaio 1977 si ebbe la soppressione di Carosello, divenuto ormai
troppo limitato rispetto alle esigenze di comunicazione delle imprese. Per i
pubblicitari l’inizio degli anni Ottanta fu una specie di primavera creativa:
giravano tanti soldi, le aziende erano pronte a rischiare investendo in campagne
innovative.
La ricerca dello slogan ad effetto e, in generale, la parola, furono
l’elemento dominante la migliore pubblicità degli anni Settanta. Negli anni
Ottanta è l’immagine ad imporsi. I messaggi chiedono una complicità che va
oltre l’adesione a una proposta di vendita e passa attraverso la seduzione
narrativa ed estetica e il gusto dell’intrattenimento. La pubblicità si configura
essa stessa come oggetto di consumo.
Negli anni Ottanta, la pubblicità diventa particolarmente invadente nel
mezzo televisivo attraverso l’interruzione dei programmi. Le conseguenze di
questa nuova modalità sono state la frammentazione della struttura dei singoli
programmi e la creazione di un unico flusso omogeneo di trasmissione. Questo
ha determinato a sua volta una rivoluzione nel linguaggio pubblicitario
rendendolo decisamente più aggressivo nei confronti dello spettatore. Una
delle possibili soluzioni è stata quella di catturare l’attenzione dello spettatore
attraverso «immagini velocissime con continui cambi di scena oppure con
l’utilizzo di suoni iniziali particolarmente evidenti come il pianto di un
bambino, il clacson di un’automobile o la sirena di una fabbrica; in altre
circostanze si gioca sul senso di suspence, o addirittura di disagio, provocato da
certe situazioni di pericolo o di dolore»66. In quegli anni la comparsa della
marca viene ad assumere un ruolo decisivo nella comunicazione pubblicitaria.
La marca infatti è come un indice dello status sociale. Nello stesso tempo
diviene un fattore che si ammanta di potenti valenze simboliche e culturali, e
un punto di riferimento insostituibile per le scelte dei consumatori.
1.5 Gli anni novanta
All’inizio degli anni ’90 cambiano molte cose: svanisce l’illusione che sia
la professionalità a garantire il business delle agenzie (si scoprono giri di
bustarelle legate all’attribuzione di budget pubblicitari); svanisce la quota di
66
G. SARTORI, La grande sorella. Il mondo cambiato dalla televisione, Mondatori, Milano
1989, p. 215.
86
prestigio legata al possesso esclusivo di know-how pubblicitario perché le
conoscenze di marketing e comunicazione sono diffuse nelle imprese e questo
permette loro di discutere alla pari con le proposte delle agenzie. Nei primi
anni Novanta vanno in crisi anche i consumi, l’idea del prodotto di marca e di
qualità. Proliferano gli hard discount. Il sistema pubblicitario si assesta
diversamente anche sul piano finanziario, per esempio con acquisizioni e
fusioni che coinvolgono le maggiori agenzie internazionali. Per quanto riguarda
la Tv, l’incremento del numero di canali, l’adozione del telecomando e la
possibilità conseguente di effettuare lo zapping favorisce la nascita della
“neotelevisione” (per distinguerla dalla televisione tradizionale in cui il
telespettatore era in un certo senso costretto a guardare i programmi, in quanto
le sue possibilità di scelta erano limitate a pochissimi canali). Viene a ribaltarsi il
rapporto esistente tra il mezzo ed il suo destinatario, poiché il ruolo di
quest’ultimo diviene fondamentale. Questo processo si è ulteriormente
intensificato perché il sistema delle comunicazioni ha incominciato modificare
la sua natura, passando dalla fase dei canali televisivi di massa a quella dei canali
tematici e personalizzati (Tele +, Stream, MTV).
1.6 Gli ultimi sviluppi
La saturazione dei principali canali disponibili determinata dalla
crescente mole di messaggi in circolazione nelle società attuali porta ad una
elevata concentrazione del numero di spots nell’intervallo di tempo. Ciò
implica, da un lato, una continua frammentazione delle trasmissioni, dall’altro
un uso dello spazio dedicato alla pubblicità ad alta concentrazione di spots.
Una delle caratteristiche emergenti della pubblicità odierna è lo
sviluppo della “metapubblicità”. Con questo termine si intende una pubblicità
che possiede una coscienza metalinguistica di se stessa. Allo stato attuale la
pubblicità, infatti, secondo Yves Krief67, rimette in discussione i ruoli
tradizionali del testo e dell'immagine e, soprattutto, diviene autoreferenziale e
autoriflessiva perché annulla la gerarchia esistente tra se stessa e il prodotto a
favore di quest'ultimo. Tende infatti ad avere come oggetto di significazione
sempre meno il prodotto da pubblicizzare e sempre più i discorsi relativi a tale
prodotto.
La pubblicità utilizza modalità di persuasione sempre più sottili e
coinvolgenti. Rispetto al passato assume la tendenza a realizzare quello che
viene chiamato il “connessionismo”, cioè la crescente interrelazione con gli
67
Y. KRIEF, Jeux de pub: les conditions post-modernes de la publicité, Sémiotique II,
Irep, Paris, 1983.
87
altri media e con le altre strutture di comunicazione attive nella società. La
pubblicità ha assunto una pervasività rilevante del territorio mediatico: non
solo gli spazi dello schermo televisivo, del cinema, della radio (dei media
tradizionali), ma anche quelli presenti nei nuovi media.
Gli sviluppi della psicologia della comunicazione portano a considerare
il funzionamento della pubblicità nei termini di uno strumento che opera non
determinando direttamente delle azioni negli individui, ma stimolando il crearsi
di un ambiente mentale, di un contesto culturale e di una disposizione d’animo
favorevoli, tali per cui i prodotti non esistono se non nella misura in cui
trovano posto nella cornice simbolica e culturale creata dalla marca. La marca
assume un peso simbolico, rappresenta un mondo che sollecita ad un’adesione.
Associando ai prodotti significati ed immagini immateriali, i pubblicitari mirano
a proporre il prodotto non come semplice e reale oggetto, ma secondo tutto
l’alone che lo circonda in termini di valore emotivo, simbolico, sociale (e le
gratificazioni e le promesse di cui si fa portatore). Il consumatore cerca nei
prodotti pubblicizzati oltre alla soddisfazione di bisogni funzionali, la
soddisfazione di desideri indotti dal contesto sociale e che rivestono un valore
sociale: il successo, il potere, il prestigio, la bellezza, la salute. Solitamente non
acquista un prodotto se prima questo non è stato dotato di specifici significati
da parte della pubblicità e del marketing aziendale68.
La pubblicità opera in questo processo di attribuzione di senso
limitandosi a catturare i significati già esistenti nell’immaginario collettivo o
procedendo ad una costruzione di tali significati. Per ottenere i suoi scopi
comunque, fa parlare il prodotto da sé, nel caso che questo abbia un’identità
sufficientemente forte, oppure lo presenta insieme ad un oggetto, ad una o più
persone o ad una situazione affettiva i cui significati sociali siano già noti al
consumatore. Questo significa che, per il consumatore, l’acquisizione del
prodotto è un modo per essere (o per apparire), insomma di assumere una
visibilità.
La pubblicità prima estetizza il prodotto trasformandolo in una qualità
desiderabile per il consumatore, poi, una volta che tale qualità è stata trasferita
al consumatore mediante l’acquisto, estetizza il consumatore, perché
l’esibizione del prodotto posseduto rende l’individuo desiderabile69. I
consumatori non assorbono passivamente i significati ed i valori attribuiti ai
valori della pubblicità, ma attraverso la funzione interpretativa che svolgono
contribuiscono concretamente al funzionamento di questo processo. Si può
dunque ritenere che la pubblicità sia molto meno penetrante di quello che
abitualmente si crede. D’altro lato, è dimostrato che i suoi messaggi hanno
68
69
Ibidem, p. 46.
Ibidem, p. 47.
88
efficacia soltanto se operano, congiuntamente ad essa, altre pratiche di
marketing. Il mondo ideale che la pubblicità mette in scena rappresenta un
modello che influenza i comportamenti adottati nella vita quotidiana e uno
strumento potente di promozione e legittimazione ideologica della cultura del
consumo.
Le caratteristiche che consentono alla pubblicità di esercitare effetti
sulla società possono essere identificate nella
 pervasività
 ripetitività
 elevata professionalità (richiesta per la sua produzione)
 composizione di un pubblico formato da individui isolati e sempre più
estranei rispetto ai valori ed alle istituzioni sociali tradizionali.
La vera natura del ruolo sociale esercitato dalla pubblicità può dunque
essere ritenuto quello di essere uno specchio deformante rispetto ai valori
sociali: un ruolo legato alla capacità della pubblicità stessa di produrre una
raffigurazione ridotta e semplificata della realtà sociale.
La necessità di comunicare velocemente e a un livello estremamente
semplice, privo di ambiguità, fa in modo che le espressioni facciali, le pose, i
comportamenti e le situazioni reali dei soggetti rappresentati tendano a un
elevato grado di standardizzazione. Si crea quel fenomeno che Goffman ha
denominato “iperritualizzazione” e che consiste nella produzione di
rappresentazioni pubbliche delle persone, delle attività e delle situazioni
fortemente stereotipate. Per questo facilita il processo di comprensione dello
spettatore, attivando in lui conoscenze largamente diffuse.
In definitiva, potremmo dire che la natura della pubblicità è di essere uno
strumento di costruzione della realtà sociale. In quanto tale, viene fortemente
influenzata da come la realtà è percepita dai soggetti, ma produce a sua volta
un’influenza su tale percezione.
1.7 Il linguaggio
Come funziona la lingua della pubblicità? Riprendendo la teoria di
Jakobson sulla classificazione delle funzioni dei segni linguistici (funzione
denotativa o referenziale, funzione conativa o imperativa, funzione
metalinguistica, funzione emotiva e espressiva, funzione estetica o poetica)
sembrerebbe evidente che la funzione prevalente sia quella conativa (o
imperativa) visto che il fine ultimo di ogni comunicazione pubblicitaria è quello
di indurre il ricevente ad acquistare il prodotto. In realtà la funzione conativa
89
appare mascherata sotto altre funzioni, diventando così una funzione di
sfondo. Alcuni esempi possono illustrarlo70.
-Funzione denotativa o referenziale (illustra le doti del prodotto)
La protezione antirughe del retinolo. La sicurezza Lancome
- Funzione conativa o imperativa (che spinge all’acquisto del prodotto)
Brindate Gancia, Entra nel club Nokia. Tu e il tuo Nokia avete solo da guadagnarci.
Che mondo sarebbe senza nutella?
Funzione metalinguistica (in maniera autoreferenziale si rivolge al prodotto
stesso)
O così, o Pomì. Trony, non ci sono paragoni.
- Funzione emotiva o espressiva (si prefigge di evocare, più che
informare): Liebig ti ama.
Gillette: il meglio di un uomo. Loréal: perché voi valet.; Denim, per l’uomo che non deve
chiedere mai.
- Funzione estetica o poetica
Asti spumante. Un mondo unico, unico al mondo. Sky, Se tu ami il calcio, il calcio ama
te. Conto arancio, mettevelo nella zucca.
Nel linguaggio della pubblicità si persegue il più alto livello d’intensità
espressiva e di suggestione psicologica. Per questo si ricorre a neologismi (es.:
mangiaebevi), giochi linguistici (es.: mia moglie aspetta un Philco), superlativi,
termini stranieri (es.: Rex, Cholorodent, After Eight), a rime, assonanze,
metonimie, figure sintattiche e figure semantiche.
1.8 Il problema dell’efficacia
Il concetto di efficacia è in relazione con i molteplici obiettivi che le
imprese affidano alla pubblicità. E’ possibile sintetizzare tali obiettivi
considerando che la pubblicità è una forma particolare di comunicazione che
deve raggiungere degli obiettivi aziendali concreti. Si può distinguere così, al
suo interno, tra il piano propriamente comunicativo relativo alla situazione di
esposizione al messaggio e quello della situazione d’acquisto.
Ne deriva che sul piano comunicativo gli obiettivi della pubblicità sono:
- attirare l’attenzione su di sé;
- far comprendere le informazioni sul prodotto trasmesse;
- ottenere l’adesione al contenuto del messaggio.
Sul piano della situazione d’acquisto, invece, gli obiettivi sono relativi
soprattutto a:
F. R. Puggelli, L’occulto del linguaggio. Psicologia della pubblicità, Franco Angeli,
Milano 2000, p. 27 (con alcune integrazioni ed esempi nostri).
70
90
far scattare una motivazione d’acquisto relativa alla categoria di
prodotto/marca;
- suscitare un atteggiamento favorevole verso il prodotto/marca;
- stimolare la propensione all’acquisto del prodotto/marca.
Se dunque la pubblicità è un tipo particolare di comunicazione che opera
principalmente su due piani differenti tra loro come quello comunicativo e
quello della situazione d’acquisto, sono almeno due i tipi di efficacia che deve
simultaneamente tentare di raggiungere. Ma sino a che non si potrà disporre di
modelli teorici, che possano consentire di comprendere il funzionamento della
pubblicità, non sarà possibile mettere a punto anche precisi strumenti di
misurazione e verifica di tale efficacia. Le imprese, pertanto fanno ricorso a
metodologie di ricerca elementari e semplificate che si sono formate
soprattutto nel corso degli anni trenta e quaranta del Novecento, quando il
marketing si è concretamente istituzionalizzato nel mondo aziendale e si è
posto il problema di verificare l’efficacia delle sue azioni mediante
l’effettuazione di appositi test di controllo.
Giampaolo Fabris71 propone un modello di efficacia semplice e
funzionale: è il modello delle quattro “i”: impatto, interesse, informazione e
identificazione; e delle quattro “c”: comprensione, credibilità, coerenza,
convinzione. Il modello individua le principali variabili che operano nel
processo comunicativo della pubblicità. Non si tratta di un ordine sequenziale
perché il processo di persuasione avviene in realtà in modo differenziato nei
diversi segmenti della popolazione, sulla base della tipologia dei prodotti, in
rapporto alla situazione in cui avviene l’esposizione, a seconda del medium che
la pubblicità veicola. Impatto ed interesse sono Primari Affective Reaction.
Trasgressione, originalità, espedienti ed artifici diventano spesso fini a se stessi:
scambiando il mezzo per il fine possono generare pericolosi effetti boomerang
sul contenuto della comunicazione. «Perché un messaggio abbia qualche
possibilità di sopravvivere all’indifferenza generale, di fronte all’affollamento
pubblicitario ed alla selezione attiva dei consumatori non basta che sia buono,
bisogna che sia eccezionale. Bisogna che catturi l’attenzione. La pubblicità
moderna deve colpire e stupire»72. Talvolta anche dei particolari insignificanti e
marginali possono divenire il centro focale d’attenzione.
L’interesse può riguardare il messaggio, la situazione “creata”, aspetti
particolari del comunicato, il prodotto in quanto tale. L’accusa più frequente
alla pubblicità – di essere noiosa e stupida – è vinta nella misura in cui si
presenta come interessante e divertente.
-
71
72
G. FABRIS, La pubblicità. Teorie e prassi, Milano, Angeli, 2002, pp. 351-363.
B. BROCHAND e J.LENDREVIE, Le regole del gioco, Lupetti & Co., Milano 1986.
91
1.9 Le teorie tradizionali
Sono state individuate diverse fasi di sviluppo della pubblicità sorrette
da teorie e metodologie comunicative di fondo estremamente differenziate: la
pubblicità persuasiva, la pubblicità meccanicistica, la pubblicità suggestiva, la
pubblicità proiettiva. Passiamo in rassegna ciascuna di queste tipologie
individuando il tratto di fondo.
1.10 Un balzo all’indietro: la pubblicità persuasiva.
Nel primo periodo di esistenza la pubblicità era costituita
prevalentemente da réclame, ovvero da annunci elementari e puramente
informativi che parlavano a pochi privilegiati e cercavano di promuovere le
vendite attraverso argomentazioni razionali e la valorizzazione delle funzioni o
del contenuto tecnico dei prodotti. Il consumatore veniva considerato un
essere ragionevole e cosciente al quale ci si deve rivolgere conducendolo per
mano, mostrandogli cioè che ha un bisogno da soddisfare e motivando il fatto
che il prodotto pubblicizzato non soltanto è in grado di soddisfarlo, ma può
farlo meglio degli altri73. A tale scopo, veniva spesso impiegato il meccanismo
narrativo della prova o della dimostrazione delle possibilità d’impiego. Il
modello teorico porta il nome di AIDA sigla formata dalle iniziali delle quattro
fasi che lo caratterizzano: Attenzione, Interesse, Desiderio, Acquisto. Si tratta
di un modello basato sull’idea che la pubblicità è in grado di condurre il
consumatore all’atto d’acquisto attraversando varie fasi di elaborazione mentale
(dalla percezione della réclame, alla convinzione e, infine, all’acquisto).
Questa metodologia è limitata dal fatto che oggi il potenziale
consumatore è bombardato da ogni sorta di rumori e interferenze. La
comunicazione pubblicitaria deve essere tale da distinguersi con particolari
suoni, figure, forme: deve cioè influire sui sensi perché il destinatario ne sia
attratto. L’attenzione, perciò, non solo deve essere suscitata, ma deve anche
essere mantenuta e perché ciò avvenga il messaggio deve contenere elementi in
grado di suscitare interesse e curiosità. L’interesse non è però generico:
l’interesse è destato dai vantaggi che il possesso di quello specifico oggetto
realizza. E’ a questo punto che la comunicazione pubblicitaria localizza i suoi
attributi, in quanto il desiderio è un bisogno appreso e non innato e va quindi
sostenuto fino all’atto dell’acquisto.
La concezione persuasiva della pubblicità ha subito numerose critiche
per il suo ignorare che la decisione d’acquisto non costituisce quasi mai il
risultato di un processo logico di convinzione; infatti, secondo alcuni è il frutto
di un più o meno lungo periodo di maturazione dell’individuo nel quale si
mescolano strettamente pulsioni affettive, reazioni emozionali e pressioni
73
CODELUPPI, Che cos’è la pubblicità, op. cit., p. 78.
92
sociali. Le argomentazioni di tipo razionale sarebbero invece utilizzate dal
consumatore soprattutto come giustificazioni a posteriori dell’acquisto
compiuto.
1.11 Riflessi condizionati: la pubblicità meccanicistica
E’ la fase fortemente influenzata dalle teorie di Pavlov relative al
riflesso condizionato e dal pensiero beahaviorista degli psicologi Watson e
Skinner (il primo dei quali ha lavorato presso l’agenzia di pubblicità J. Walter
Thompson). Il behaviorismo venne a lungo considerato come la teoria
psicologica di base della pubblicità. Perché un organismo sia condizionato deve
essere in condizione di bisogno, perciò la pubblicità deve far leva su bisogni
fisiologici molto precisi. Lo spot (stimolo) dovrà indurre il consumatore
all’acquisto (risposta vòlta al soddisfacimento del bisogno). In tale fase il
consumatore veniva ancora considerato come un soggetto passivo vulnerabile
e facilmente condizionabile, con una sfera psichica su cui la pubblicità può
incidere con qualsiasi tipo di segno e di messaggio per indurre il consumatore
all’azione. Nella comunicazione pubblicitaria veniva valorizzato soprattutto il
valore d’uso del prodotto e si ricercava l’impatto anziché una convinzione
razionale, cercando di instaurare, attraverso la ripetizione ossessiva dei
messaggi, un rapporto diretto di causa-effetto con il consumatore. Il messaggio
doveva essere semplice e di facile comprensione al fine di ottenere un elevato
impatto e per conservare intatta la sua identità nel tempo. A tale scopo
venivano molto sfruttate le componenti elementari ed immediate del linguaggio
pubblicitario, come i logotipi, i grafismi di marca e gli slogan.
In realtà, come rileva Codeluppi, «si tratta di una concezione che tende
a perder d’efficacia quando la pubblicità si trova a dover interagire con modelli
d’acquisto che sono già definiti nella mente del consumatore, cosa che in realtà
succede nella maggior parte dei casi. Inoltre non è vero che il consumatore è
un soggetto puramente passivo. Egli svolge anzi un ruolo attivo perché sia le
passate esperienze, sia i precedenti modelli d’acquisto, sia le pulsioni affettive
individuali, interagiscono sempre con le proposte ricevute da parte dei
messaggi pubblicitari»74
1.12 Le ricerche motivazionali e la pubblicità suggestiva
Negli anni cinquanta e sessanta si è affermata la fase della pubblicità
suggestiva, che ha utilizzato i risultati delle “ricerche motivazionali”, tese a
scoprire le ragioni profonde che guidano i comportamenti individuali. La
psicologia sottostante questo orientamento ha indicato ai pubblicitari la
possibilità di produrre sogni e simboli d’evasione, rispondendo in tal modo ai
74
Ibidem, p. 80.
93
desideri più profondi e irrazionali del soggetto. Fu in tale fase che si mise in
evidenza che le motivazioni di consumo di tipo cosciente sono
razionalizzazioni e giustificazioni successive all’acquisto che hanno lo scopo di
salvaguardare l’equilibrio psicologico del soggetto. La motivazione inconscia
rappresenta, invece, uno stato di dissociazione e di tensione conflittuale che
mette in movimento il soggetto sino a che esso non sia riuscito a raggiungere
un nuovo equilibrio.
1.13 Dentro i processi mentali
Dopo gli anni ’60, a seguito della svolta cognitivista in psicologia,
affermatasi in contrapposizione al comportamentismo e al suo modello di
connessioni semplici e dirette tra stimoli e risposte, viene delineandosi in
ambito pubblicitario una concezione che considera il consumatore come un
individuo orientato a un obiettivo, che tenta di soddisfare i propri bisogni
attraverso la ricerca di informazioni sul prodotto e l’acquisto finale del migliore
a disposizione. Il consumatore è visto come un essere più razionale e
complesso di quanto avvenisse nella prospettiva comportamentistica. I
cognitivisti focalizzano la propria attenzione sulle variabili che intervengono
nella mente del consumatore e che influenzano la modalità attraverso la quale
egli risponderà al testo pubblicitario e alle altre attività di promozione75.
1.14 La pubblicità proiettiva
Se nelle forme precedenti è possibile identificare una modalità di
comunicazione di tipo "funzionale", che decanta cioè le caratteristiche e
funzioni del prodotto in oggetto in modo tale da spingere il potenziale
consumatore all'acquisto, nel modello di pubblicità "proiettiva" lo spot mostra
un luogo, una situazione sociale o un gruppo al quale sarebbe bello appartenere
e che presenta caratteristiche assai lontane da quelle dello spettatore. La
pubblicità di questo tipo tende a proiettare il potenziale consumatore in un
mondo di gente benestante e caratterizzata da elevato tenore di vita, dove tutto
è luccicante, bello, elegante. Quasi sempre, perciò, queste pubblicità offrono
suggestione, incanto, modelli di uomo e donna verso i quali tendere e ai quali
desiderare di assomigliare. Succede, infatti, molto frequentemente che la
desiderabilità di una situazione proposta dai media provochi un subconscio
meccanismo di identificazione con la situazione proposta, tale da indurre nello
spettatore una conseguente ed inconsapevole aspettativa verso se stesso, dalla
quale il soggetto riesce a liberarsi soltanto attraverso l'imitazione del
comportamento in questione.
75
F. R. PUGGELLI, L’occulto del linguaggio, op. cit., p. 63.
94
La concezione denominata proiettiva considera la pubblicità come un
valore aggiunto di tipo sociale al prodotto (di tradizione, di modernità, di
elitarismo, di democrazia ecc.). Questa interpretazione ha valorizzato
l’influenza dell’ambiente sociale e delle relazioni interpersonali sugli schemi di
pensiero e di reazione degli individui e ha portato ad adottare spesso una
visione di tipo pedagogico che attribuisce un potente ruolo alle norme di
comportamento e alle regole d’integrazione, di partecipazione e
d’acculturazione76.
1.15 La pubblicità nell’epoca di Internet77
Una delle novità più interessanti relative alla pubblicità interattiva è
legata alla fase creativa: il messaggio è mirato ad uno specifico fruitore e non ad
uno spettatore medio. E’ lecito porre questa domanda: così come la pubblicità
televisiva ha sottratto parte del mercato a quella cartacea, la pubblicità su
Internet farà lo stesso rispetto a quella televisiva?
Il dato più significativo ed emergente è che la soluzione più intelligente
per le aziende è quella di costruire sempre una campagna pubblicitaria con una
finestra televisiva e un sito Internet che raccolga tutte le informazioni relative al
prodotto e alla società produttrice. Probabilmente la pubblicità su Internet non
sarà pervasiva come quella televisiva e potrà essere largamente più informativa.
Nel momento presente la pubblicità via Internet espone il consumatore ad un
acquisto impulsivo. Infatti nell’atto stesso in cui si fruisce il messaggio
commerciale si può acquistare il prodotto. Occorre altresì aggiungere che per
ora si vende ben poco, direttamente, su Internet. Si è investito molto sul
problema della sicurezza, sul problema della tutela del copyright e della difesa da
infrazioni di tutte le transazioni. Il tema del commercio elettronico (e-commerce)
comincia ad "ingranare" adesso. Chi fa pubblicità online è (tenuto) stimolato a
creare degli spot ricchi di informazione e di piacevole fruizione e, nello stesso
tempo, a indirizzare il messaggio ad un pubblico di cui conosce bene il target.
Ciò è molto diverso dal tradizionale modo di fare pubblicità, perché in questo
caso bisogna poter progettare, dal punto di vista tecnologico, una pubblicità
che cambia a seconda di quale utente singolo può avere davanti; e anche dal
punto di vista estetico e artistico cambierà radicalmente, perché è necessario
conoscere l'utente, i suoi gusti, la sua provenienza culturale e geografica.
L'interattività ottenibile tramite Internet permette di essere più precisi e di
cogliere con più precisione l’efficacia: la celebre battuta secondo cui metà di ciò
CODELUPPI, Che cos’è la pubblicità, op. cit., pp. 81-82.
HERMAN ZAMPARIOLO, su http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio [testo
ristrutturato e rielaborato].
76
77
95
che si investe in pubblicità è da buttare, ma non si sa quale sia la parte buona,
consiglia di dimenticare parzialmente questa affermazione.
Il problema di come attirare l'attenzione di chi è sottoposto ad uno
spot via Internet oscilla sempre: da un lato, non possiamo fermare l'attenzione
dell'utente perché lo zapping via Internet, ovviamente, è ancora più facile di
quello televisivo. D'altra parte, già oggi, questi piccoli "banner" che segnalano
un poco la presenza di un nome, di un marchio, di fatto rallentano lo zapping.
Probabilmente non si arriverà ad una forma pubblicitaria pesantemente
intrusiva come quella televisiva, certamente la linea di sviluppo sarà quella di
individuare modalità espressive e artistiche dotate di grande gusto estetico.
Sul piano pratico, una azienda per fare una convincente pubblicità
online deve permettere all’utente di poter cogliere informazioni di carattere
economicistico (prezzo, catalogo, listino, prestazioni) e nello stesso tempo
esercitare un forte richiamo di tipo estetico, tale da premiare l’intrattenimento,
l’uso ripetuto e il richiamo.
96
97
SEZIONE 5
LA MICROSOCIOLOGIA
98
99
1. IL TEATRO DEL QUOTIDIANO
Nel suo famoso libro La vita quotidiana come rappresentazione78 Goffman
analizza la comunicazione interpersonale nella vita quotidiana mutuando dalla
rappresentazione teatrale gli elementi per una disamina del comportamento
sociale degli individui. Questa sezione si inserisce nell’economia del testo per
offrire al lettore la possibilità di riflettere, anche, sugli effetti socializzanti e
comportamentali indotti dalla comunicazione ipermediale. Con questa opera
Goffman ha voluto scrivere quasi un manuale per illustrare una delle
prospettive sociologiche attraverso le quali si può studiare la vita sociale, in
particolare quel tipo di vita sociale che si svolge entro i confini fisici di un
edificio, di una fabbrica, ma anche nei luoghi della socialità pubblica. Viene
descritto un gruppo di caratteristiche che costituiscono uno schema di
riferimento nell'analisi di ogni sistema sociale (sia familiare, industriale o
commerciale).
La prospettiva utilizzata è quella della rappresentazione teatrale e quindi
i principi che ne derivano sono di tipo drammaturgico. Goffman prende in
esame il modo in cui un individuo, in normali situazioni, presenta se stesso e le
sue azioni agli altri; il modo in cui guida e controlla le impressioni che costoro
si fanno di lui; il genere di cose che può o non può fare mentre svolge la sua
rappresentazione in loro presenza. Il limite di questo modello è costituito dal
fatto che il palcoscenico presenta delle finzioni, mentre la vita cose vere.
Inoltre in teatro un attore si presenta nelle vesti di un personaggio che si riflette
nei personaggi interpretati dagli altri attori e il pubblico costituisce un terzo
elemento dell'interazione: un elemento essenziale, che, tuttavia, se la
rappresentazione fosse realtà, non avrebbe occasione di esistere. Nella vita
quotidiana i tre elementi si riducono a due soli; la parte rappresentata da un
individuo è adattata alle parti rappresentate dagli altri, ma questi, a loro volta,
costituiscono anche il pubblico.
Erving Goffman nacque in Canada nel 1922. Studiò alle Università di
Toronto e di Chicago. Condusse ricerche empiriche a Shetland Isle e indirizzò i
suoi interessi verso i problemi dell’interazione. Insegnò nelle Università della
California e della Pennsylvania. Nel 1956 diede alle stampe il libro The
Presentation of Self in Everyday Life, tradotto in italiano con il titolo La vita
quotidiana come rappresentazione. In quest’opera l’autore sostiene il punto di vista
della “drammaturgia”, secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini
78
E. GOFFMAN, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969.
Traduzione italiana di Margherita Ciacci. (Ed. Originale: The Presentation of Self in
Everyday Life, Garden City, N.Y., Doubleday, 1959).
100
della rappresentazione teatrale. L’idea non è nuova. Shakespeare, in una sua
opera ( A piacer Vostro 1623) aveva fatto dire a un suo personaggio: “Tutto il
mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi
hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona nella vita rappresenta
diverse parti”.
L’originalità di Goffman muove dal presupposto che quando un
individuo è in presenza di altri abbia molte ragioni per cercare di controllare le
impressioni che essi ricevono dalla situazione. Egli definisce la
“rappresentazione” come tutta quella attività che un individuo svolge durante
un periodo caratterizzato da una sua continua presenza dinanzi a un gruppo di
osservatori, tale da avere una certa influenza su di essi”. Siano esse in “buona
o in mala fede” le rappresentazioni sono comunque necessarie, sostiene lo
studioso. La “facciata”, definita come l’equipaggiamento espressivo di tipo
standardizzato che l’individuo impiega intenzionalmente o involontariamente
durante la propria rappresentazione, è comunque necessaria.79
1.1 Ruolo, faccia, controllo delle impressioni
Dall’ambientazione teatrale ha origine il concetto di “ruolo sociale”,
largamente usato in sociologia nello studio dell’interazione e in altri ambiti. Per
ruolo, s’intende l’insieme delle aspettative socialmente definite che soggetti
collocati in una determinata posizione sociale, o che occupano un determinato
status, sono tenuti a rispettare. Essere un docente, per esempio, significa saper
rispondere nei fatti, cioè con i comportamenti, a ciò che la società si attende a
proposito di tale ruolo. Nel modello drammaturgico la vita sociale è vista come
una “commedia” intepretata da attori che recitano su un palcoscenico, anzi, su
molti palcoscenici diversi, poiché il comportamento varia dal ruolo che viene
interpretato in quel particolare momento e luogo. Gli esseri umani, inoltre,
sono molto sensibili a “come vengono visti” dagli altri. A tale scopo, ricorrono
a molteplici forme di controllo delle impressioni per suscitare negli astanti, le
sensazioni, le considerazioni, gli effetti desiderati; talvolta, si tratta di
comportamenti calcolati ma, generalmente, sono privi di partecipazione
cosciente: se sono un docente universitario mi abbiglierò secondo certe regole
per affrontare l’aula e, in modo diverso, per una festa in campagna. Sono scelte
che implicano una certa dose di meccanicità. In modo implicito, poco sopra, si
è già accennato al concetto di faccia che, permette di tener conto delle
caratteristiche individuali di ogni persona. La faccia è per Goffman l’immagine
che ciascuna persona vuol dare di sé nelle sue interazioni quotidiane con gli
altri. Per essere presentata con successo, la faccia deve però corrispondere
all’idea che gli altri si sono fatti di quella persona durante le precedenti
79
A. IZZO, Storia del Pensiero Sociologico, il Mulino, Bologna 1991, pp. 397-398.
101
occasioni di incontro e di interazione. La faccia, dunque, non fa riferimento
tanto e solo alle cose da fare in una certa posizione ma, piuttosto, al modo di
farle. Due insegnanti, per esempio, possono svolgere la loro attività con lo
stesso successo e soddisfacendo le aspettative di ruolo, ma ciascuno mette in
gioco la propria personale faccia: poniamo che in un caso sia autoritaria e
nell’altro democratica. In certo senso, tale “faccia” è trasversale ai diversi ruoli
che ciascuna persona interpreta; è probabile cioè, che un insegnante autoritario
assuma comportamenti di tipo autoritario anche fuori dell’aula, in casa, o in
altre situazioni. Al riguardo Goffman sostiene che ciascuno di noi non può
mettere in scena numerose facce, ma tende piuttosto a rendere coerente in
circostanze differenti l’immagine fondamentale di sé che gli è più congeniale, la
propria “faccia” individuale”.80
Nota curiosa: alcuni soggetti sono “specialisti” nel controllo della
propria espressione facciale e nell’accorta gestione dell’interazione con gli altri.
I diplomatici, per esempio. Un buon diplomatico, deve dare l’impressione di
trovarsi a proprio agio anche nell’interazione con soggetti che trova ripugnanti.
Saper padroneggiare ad alto livello questa capacità, può influire sul destino di
intere nazioni.
1.2 Ribalta e retroscena
Secondo l’autore in questione, gran parte della vita sociale può essere
divisa fra ribalta e retroscena. La ribalta è costituita da quelle circostanze sociali o
incontri in cui gli individui agiscono secondo ruoli formalizzati o codificati: si
tratta cioè, di rappresentazioni sceniche. I retroscena sono quegli spazi in cui
gli individui approntano gli “arredi scenici” e si preparano all’interazione che
dovrà avvenire in contesti più formali. Ricordano ciò che avviene “dietro le
quinte” di un teatro o “a macchina spenta” su un set cinematografico. Quando
sono al “sicuro fuori scena” le persone possono rilassarsi e dare spazio a
sentimenti e modi di comportarsi che tengono sotto controllo quando si
trovano “in scena”. Accade così che una cameriera sia la gentilezza in persona
quando serve i clienti in sala, per diventare sguaiata e aggressiva una volta
oltrepassata la soglia della cucina. Sono probabilmente molto pochi i ristoranti
in cui i clienti mangerebbero volentieri se potessero vedere tutto ciò che
succede al di là di quella soglia. Nelle parole di Goffman, nei retroscena è
consentito: «…imprecare, fare espliciti commenti a sfondo sessuale,
mugugnare, borbottare e urlare, dar prova di trascurare la presenza del
80
VOLONTÈ, LUNGHI, MAGATTI, MORA, Concetti, metodi, temi di Sociologia,
Einaudi Scuola, Torino 2002, p. 86.
102
prossimo con atti secondari ma potenzialmente simbolici, coinvolgere se stessi
in atti fisici come canterellare, fischiare, rosicchiare, ruttare o avere flatulenze».
1.3 L’adozione di ruoli temporanei: l’invasione della sfera intima
James Henslin e Mae Briggs hanno studiato un tipo d’incontro molto
specifico e delicato, quello tra una donna e un medico nel corso di una visita
ginecologica. Tenuto conto che molti ginecologi sono di sesso maschile,
l’esperienza in questione è carica di potenziali ambiguità e imbarazzi, poiché
nella cultura occidentale, il contatto sessuale e la vista dei genitali rientrano di
norma nell’ambito dei rapporti sessuali.
Adottando la metafora drammaturgica hanno suggerito che ciascuna fase della
visita può essere intesa come una “scena” distinta, in cui la parte svolta dagli attori cambia
mano a mano che l’episodio si sviluppa. Il prologo: la donna entra nella sala d’attesa e si
prepara ad assumere il ruolo di paziente rinunciando temporaneamente alla propria identità
di sempre. Prima scena: la donna entra in ambulatorio e il medico assume toni distaccati e
professionali, trattando però la donna affabilmente e ascoltando ciò che riferisce. Se è
necessaria una visita, lo comunica alla paziente e lascia la stanza. Seconda scena: uscito il
medico entra l’infermiera che svolge l’importante ruolo di “assistente di scena”.
Tranquillizza la paziente comportandosi come una confidente ben consapevole delle
situazioni che le donne debbono affrontare; svolge cioè il ruolo essenziale nell’aiutare la
paziente a trasformarsi da “persona” a “non persona”, vale a dire in un corpo che deve
essere esaminato in una sua parte. L’infermiera piega la biancheria e fa in modo di sottrarla
alla vista del medico, giacché la maggior parte delle donne non ama esporre la propria
biancheria intima alla vista altrui. Poi accompagna la donna al lettino e copre gran parte del
corpo. Scena principale: il medico entra nella stanza per esaminare la paziente. La presenza
dell’infermiera assicura che l’interazione fra medico e paziente sia priva di implicazioni
sessuali e garantisce testimonianza legale nel caso che il medico sia accusato di condotta
non professionale. L’esame procede come se la personalità della paziente fosse assente; lo
sguardo degli attori è impedito dalla la posizione del medico, sistemato su un basso
sgabello, e dal fatto che il lenzuolo copre il corpo della paziente lasciando scoperta solo
l’area genitale. La donna collabora a diventare temporaneamente una “non persona”,
rinunciando alla conversazione – salvo laconiche risposte alle richieste di tipo sanitario – e
limitando al minimo i movimenti.
Ultimato l’esame, nell’intervallo fra questa scena e quella finale,
l’infermiera aiuta la paziente a ridiventare una persona in senso pieno. Dopo
essersi rivestita si prepara per la scena finale. Il medico riferisce i risultati
dell’esame trattando la paziente come una persona perfettamente responsabile
in tutto e per tutto e si cura, attraverso modi e atteggiamenti appropriati, di far
comprendere che il suo atteggiamento verso di lei non è stato in alcun modo
modificato dal contatto intimo con il suo corpo. L’epilogo ha luogo nel
103
momento in cui la donna lascia lo studio del medico recuperando la propria
identità di sempre.81
81
Tratto da: A. GIDDENS, Sociologia, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 104-106.
104
SEZIONE 6
UNO SGUARDO CRITICO
105
106
1. DALL’HOMO SAPIENS ALL’HOMO VIDENS:
UNA PARABOLA DECADENTE
1.1 La televisione come necessità
La costruzione dell’Europa, dell’Occidente, ha una radice medievale: la lectio
communis dei monasteri benedettini, raffinati custodi della parola, universale
primo della civiltà. La parola è, soprattutto, verbo di Dio. Per questo,
l’impareggiabile arte degli amanuensi ne cura la trascrizione con la delicatezza e
la riverenza che si conviene al Sacro. Ma è anche essenza feconda che istruisce
e costruisce la communitas, il sentimento di appartenenza alla comunità.
Dopo Gutemberg la parola corre veloce, libera, extra moenia ma, in questa corsa
“rompe” il senso della communitas. Che è sentimento sociale già nell’antica
accezione aristotelica. Senza Gutemberg la Riforma non avrebbe incontrato
rapida diffusione e fortuna. E Riforma protestante, sul piano sociale, significa
ascesa della borghesia mercantile europea, portatrice di quei caratteri
anticomunitari ravvisabili nell’individualismo e nella competizione capitalistica
moderna. La borghesia mercantile europea è annunciatrice della
contemporanea cultura del “frammento”, da intendersi non come
valorizzazione del particolare in relazione costante con l’universale, ma come
affermazione del particolarismo nettamente separato e allontanato
dall’universale. E’ la logica dell’immanente, della prevalenza particolaristica del
proprio specifico interesse materiale, la logica bassa e solitaria della prevalenza
del “proprio orto”, del tutti contro tutti; esasperata dal primato dell’immagine.
Soprattutto dell’immagine televisiva che ha soppiantato il primato fecondo e
comunitario della parola e, soppiantata la parola, ha provocato lo smarrimento
del segno originario della civilitas. Di questo, si proverà a dire.
Premessa: l’homo sapiens è un animale simbolico, e la sua capacità simbolica,
che abbraccia tutte le forme della vita culturale si esprime attraverso il
linguaggio, cioè mediante la capacità di comunicare grazie ad una articolazione
di suoni e segni “significanti”, provvisti di significato. La caratteristica che lo
distingue da qualsiasi specie di essere vivente, oltre al comunicare, è la capacità
di parlare con se stesso, di se stesso; la capacità di riflettere: di pensare. Dicono
ancora gli studiosi: “le civiltà si sviluppano con la scrittura, ed è il passaggio
dalla comunicazione orale alla parola scritta che sviluppa una civiltà.
Leggere e avere qualcosa da leggere era sino alla fine del Quattrocento
privilegio di pochissimi dotti. L’homo sapiens che moltiplica il proprio sapere è
dunque il cosiddetto “uomo di Gutemberg”… E dunque è con Gutemberg che
107
la trasmissione scritta della cultura diventa potenzialmente accessibile a tutti.
Dopo la stampa, con il telegrafo e il telefono, comincia l’era delle
comunicazioni immediate…La radio, anch’essa un eliminatore di distanze,
aggiunge un nuovo elemento: una voce facile da diffondere in tutte le case. La
radio è il primo formidabile diffusore di comunicazioni; ma un diffusore che
non intacca la natura simbolica dell’uomo. Siccome la radio “parla”, diffonde
pur sempre cose dette in parole. E dunque libri, giornali, telefono, radio, sono
tutti – in concordanza – elementi portanti della comunicazione linguistica. La
rottura avviene alla metà del secolo XX secolo, con la televisione. La
televisione – lo dice il nome – è “vedere da lontano” (tele), e cioè portare al
cospetto di un pubblico di spettatori cose da vedere da dovunque, da qualsiasi
luogo e distanza. E nella televisione il vedere prevale sul parlare, nel senso che
la voce in campo, o di un parlante, è secondaria, sta in funzione dell’immagine,
commenta l’immagine. Ne consegue che il telespettatore è più un animale
vedente che non un animale simbolico. Per lui le cose raffigurate in immagini
contano e pesano più delle cose dette in parole. E questo è un radicale
rovesciamento di direzione, perché mentre la capacità simbolica distanzia l’homo
sapiens dall’animale, il vedere lo riavvicina alle sue capacità ancestrali, al genere
di cui l’homo sapiens è specie”82.
Il fatto: un bambino di 6-7 anni “tira” la tonaca del parroco che sta per
lasciare la sua abitazione dopo aver impartito la tradizionale “benedizione della
casa”. “Facciamo una preghiera per il grande fratello”, implora il piccolo. Il
parroco, perplesso risponde, “tuo fratello più grande è qui, ha pregato con
noi!” “Ma no, no – incalza il bambino – una preghiera per “quelli della casa,
che non hanno la televisione!” Il parroco non coglie il senso della richiesta e,
lasciando un sorriso incerto, se ne va. Solo qualche giorno più tardi, riferito il
singolare episodio a un confratello, il parroco – che il buon Dio ha preservato
da inutili e offensive (offensive per il ben dell’intelletto) frequentazioni
televisive – comprende “l’arcano”.
L’homo videns va cresciuto con attenzione sin dall’infanzia. Nel caso
specifico, il dato sociologicamente interessante – e preoccupante – va letto
nella necessità dell’oggetto. La televisione è necessaria, insostituibile, “bene”
prezioso e diffuso, di cui non è possibile fare a meno. Perciò si deve pregare
per chi ne è privo. E’ un dovere “cristiano”. La necessità irrinunciabile del
mezzo televisivo. L’elettrodomestico deificato. E’ questo l’elemento
metabolizzato, anche dai bambini, che rappresentano la continuità della ricomparsa specie “dell’uomo che vede”. Ri-comparsa, perché anche i primitivi,
anche i progenitori illetterati dell’era pre-gutemberghiana, imparavano
vedendo. Ma loro potrebbero vantare una miriade di giustificazioni, giacché
82
G. SARTORI, Homo videns, televisione e post-pensiero, op. cit., pp. 6-8.
108
potevano apprendere, conoscere – solo – per mezzo del “vedere”. Il salto
involutivo della nostra epoca è evidente.
L’innocente protagonista della vicenda avverte la necessità della
superficie visiva. Per sua fortuna il “contenuto” dello specifico programma (se
si può chiamare così) gli rimane inconoscibile. E’ ignorato, in fondo, anche dai
18 milioni di italiani – cresciuti nel Paese di Dante, Petrarca…Leopardi,
Manzoni… – che hanno assistito, che hanno visto beatamente la celebrazione
del vuoto più assoluto. Del resto l’homo videns , che annega nel triviale, vive tale
condizione perché è espropriato della facoltà di capire. Ma, procediamo per
gradi, osservando la genesi del ri-nato homo videns. Seguiamo lo scorrevole
ragionamento di Giovanni Sartori al quale è stata “rubata” la traccia
fondamentale di questo capitolo: «…La parola è un “simbolo” tutto risolto in
quel che significa, in quel che fa capire. E la parola fa capire soltanto se capìta,
e cioè se conosciamo la lingua alla quale appartiene; altrimenti è lettera morta,
un segno o un suono qualsiasi. Per contro l’immagine è pura e semplice
rappresentazione visiva. L’immagine si vede e basta; e per vederla basta la vista,
basta non essere ciechi. L’immagine non si vede in cinese, arabo o inglese.
Ripeto: si vede e basta. Mentre la parola è parte integrante e costitutiva di un
universo simbolico, l’immagine non lo è. E’ chiaro, allora, che il caso della
televisione non può essere trattato per analogia, e cioè come se la televisione
fosse una prosecuzione e un mero ampliamento degli strumenti di
comunicazione che l’hanno preceduta. Con la televisione ci avventuriamo in un
nuovo radicalmente nuovo. La televisione non è un’aggiunta; è soprattutto una
sostituzione che ribalta il rapporto tra capire e vedere. Fino ad oggi il mondo,
gli eventi del mondo, ci venivano raccontati (per iscritto); oggi ci vengono fatti
vedere, e il racconto (la loro spiegazione) è quasi soltanto in funzione delle
immagini che appaiono sul video. Ma se questo è vero ne discende che la
televisione sta producendo una permutazione, una metamorfosi, che investe la
natura stessa dell’homo sapiens. La televisione non è soltanto strumento di
comunicazione; è anche, al tempo stesso, paidèia, uno strumento
“antropogenetico”, un medium che genera un nuovo ànthropos, un nuovo tipo
umano. Una tesi che si fonda, in premessa, sul puro e semplice antefatto che i
nostri bambini guardano la televisione, per ore e ore, prima di imparare a
leggere e a scrivere. Curiosamente, questa esposizione è messa sotto accusa
soprattutto perché (si dice) abitua il bambino alla violenza e lo rende, da adulto,
più violento. Dico curiosamente perché qui uno spicchio del problema
sostituisce e nasconde il problema. L’argomento che un bambino sotto i tre
anni non capisce quel che sta vedendo ma a tanta maggior ragione “assorbe” la
violenza, come un modello eccitante e magari vincente di vita adulta, è
sicuramente vero. Ma perché limitarlo alla violenza? La verità più grande, e di
109
insieme, è che il bambino la cui prima scuola (la scuola divertente che precede
la scuola noiosa) è la televisione, è un animale simbolico che riceve il suo
imprint, il suo stampo formativo, da immagini di un mondo tutto centrato sul
vedere. In questa paidèia la predisposizione alla violenza è, dicevo, soltanto uno
spicchio del problema. E il problema di fondo è che la televisione ha allevato e
sta allevando l’uomo che non legge, la torpidità mentale, il “rammollito da
video”, l’addetto a vita ai videogames. “In principio era la parola”: così il Vangelo
di Giovanni. Oggi si dovrebbe dire che “in principio è l’immagine”. E con
l’immagine che scavalca la parola si insedia una cultura giovanile descritta
benissimo da Alberoni (1997): I ragazzi camminano nel mondo adulto della
scuola, dello Stato , della professione come clandestini. A scuola ascoltano
pigramente lezioni… che lestamente dimenticano. Non leggono i giornali…Si
barricano nella propria camera coi poster dei loro eroi, guardano i propri
spettacoli, camminano per strada immersi nella propria musica. Si risvegliano
soltanto quando si ritrovano in discoteca la notte. Quando, finalmente,
assaporano l’ebbrezza di assieparsi l’un sull’altro, la beatitudine di esistere come
un unico corpo collettivo danzante.
Non saprei raffigurare meglio il video-bambino, e cioè il bambino
allevato dal video-vedere. Questo bambino diventa mai adulto? In qualche
modo, per forza. Ma si tratta pur sempre di un adulto che resta sordo, a vita,
agli stimoli del leggere e del sapere trasmessi dalla cultura scritta. Gli stimoli ai
quali continua a rispondere, da grande, sono quasi soltanto audio-visivi. E
dunque il video-bambino non cresce più di tanto. A trent’anni si ritrova ad
essere un adulto impoverito, educato dal messaggio “la cultura che barba” di
Ambra Angiolini (l’enfant prodige che anima il grande villaggio vacanze
televisivo), e quindi un adulto segnato a vita da atrofia culturale”. Il termine
cultura possiede due significati, chiarisce il noto sociologo. “Nella sua
accezione antropologico-sociologica sta per dire che qualsiasi essere umano
vive nella sfera di una sua cultura. Se l’uomo è, come è, un animale simbolico,
ne deriva eo ipso che vive in un contesto connettivo di valori, credenze,
concezioni e, insomma, di simbolizzazioni che ne costituiscono la cultura. In
questa accezione generica, quindi, anche il primitivo o l’analfabeta possiedono
cultura. Ed è in questa accezione che oggi parliamo, ad esempio, di una cultura
dello svago, di una cultura dell’immagine e di una cultura giovanile. Ma cultura
è anche sinonimo di “sapere”: una persona colta è una persona che sa, di buone
letture o comunque bene informata. In questa accezione stretta e apprezzativa
la cultura è dei “colti”, non degli ignoranti. E questa è l’accezione che ci
consente di parlare (senza contraddizioni) di una “cultura dell’incultura” e così
di atrofia e povertà culturale. E’ esatto che le società sono sempre state
plasmate dalla cultura dei media mediante i quali comunicano più che dal
contenuto della comunicazione. L’alfabeto per esempio, è una tecnologia
110
assorbita dal bambino… per osmosi, per così dire. Ma è inesatto che
“l’alfabeto e la stampa hanno promosso un processo di frammentazione, di
specialismo e di distacco, mentre la tecnologia elettronica promuove
unificazione e coinvolgimento”. Semmai è vero il contrario. Né queste
considerazioni possono dimostrare una qualsiasi superiorità della cultura audiovisuale sulla cultura scritta. Il messaggio, con il quale la nuova cultura si
raccomanda e auto-elogia, è che la cultura del libro è dei pochi (elitista), mentre
la cultura audio-visiva è dei molti. Ma il numero dei fruitori – pochi o molti –
non modifica la natura e il valore di una cultura. E se il costo di una cultura di
tutti è il declassamento in una sotto-cultura che è poi – qualitativamente –
“incultura” (ignoranza culturale), allora l’operazione è soltanto in perdita. Tutti
incolti è forse meglio di pochi colti? Vogliamo una cultura nella quale nessuno
sa nulla? Insomma, se il maestro sa più dell’allievo, allora dobbiamo
ammazzare il maestro; e chi non ragiona così è un elitista. Ma questa è una
logica di chi non ha logica»83.
Sartori evidenzia il segno dominante di una illogicità che, diversamente,
potremmo leggere come il trionfo del relativismo culturale assoluto. In altre
parole, una sottocultura capace di ingenerare un nuovo ànthropos, un nuovo tipo
umano, tutto proiettato e risolto dentro ai registri dell’innovazione, di ciò che
muta, e completamente oscurato della e nella dimensione fondamentale del suo
stesso farsi uomo: quella delle sue proprie specificità culturali, che riassumono
significati,conoscenze, saperi e, soprattutto, sicuri valori di riferimento,
traghettati nel movimento perenne e “naturale” della tradizione da altre
generazioni di esseri umani che lo hanno preceduto, nella consapevolezza della
relazione indisgiungibile e indissolubile fra chi c’è stato, chi c’è e chi ci sarà; fra
ciò che resta e ciò che viene. Detta con verso più sociologico: il tradere che si
perpetua grazie alla irrinunciabile congiunzione dinamica e dialettica fra
persistenze culturali e mutamenti sociali.
Il nuovo tipo umano della “terza rivoluzione tecnologica”, già
espropriato della dignità di persona e ridotto a individuo da consumo
(consumato e consumante) dalle propaggini del mai sopito positivismo
scientista iniettate di un liberismo troppo spesso becero e inumano, rischia
pure di cedere la propria figliolanza storica e culturale alle effimere astrazioni di
una virtualità multimediale, invasiva e innaturale. In sostanza, la temperie
culturale delineata dal sociologo toscano inaugura il dispiegarsi di una
weltanschauung dominata dal virtuale e indirizzata a rescindere i vincoli comunitari
che orientano l’uomo nelle vie della realtà sociale indicando i termini del senso
ultimo e necessario dell’umano esistere. Ne deriva il rischio, questo sì, reale,
83
G. SARTORI, Homo videns…op. cit., pp.13-7.
111
della perdita d’identità, che conduce allo smarrimento del senso della vita con
tutto ciò che ne consegue: dai crescenti e diffusi disturbi della personalità
all’accelerazione di comportamenti devianti che, troppo spesso, rievocano
un’età primigenia e terribile (genitori che uccidono i figli e viceversa), fino alla
decostruzione dei nessi che garantiscono la dignità della persona umana,
provocata dal consumo di droghe e dalla pratica di varie “prostituzioni”,
materiali e morali; per non dire dell’autoannientamento, il suicidio che,
notoriamente, interessa i segmenti più indifesi della società: giovanissimi e
anziani.
Circa le modalità che attentano alla pur faticosa quanto necessaria
ricerca del senso dell’umano exsistere nell’epoca dell’ultramodernità, è
chiarificatrice l’accorta lettura di Ulderico Bernardi, antropologo e sociologo
veneto, esponente di primo piano di una sociologia qualitativa, che non esiterei
a definire sociologia personalista. Profondo conoscitore delle dinamiche socioculturali, il pensatore veneto avverte: «Nell’analisi sociale del quotidiano va
ricercato l’equilibrio o lo squilibrio delle relazioni tra le istituzioni, con il loro
interesse al mutamento, con il loro tempo lineare di “progresso”, con la loro
logica pianificatrice, razionalizzante, egalitarista, unificante; e la comunità,
vocata alla continuità, fatta di persone che hanno una visione circolare del
tempo, con le sue mediazioni, con la sua socialità extra-istituzionale, con forme
di solidarietà spontanea, con le loro percezioni della gerarchia fondata sul
valore morale, della diversità come principio di armonia. Questa tensione
comunitaria è destinata ad accrescersi quanto più il tempo sociale del lavoro
obbligato si restringe. Di là dal riprodurre se stesse, le persone acquistano
sempre maggiore coscienza della impossibilità di comprendere il senso della
vita individuale fuori dal complesso inestricabile di relazioni che travalicano il
presente per comporsi nei mille fili intrecciati delle generazioni, a formare la
solida fune che dalla Origine è lanciata a superare l’abisso del nulla
individualistico, l’angoscia mortale del vuoto egoistico, dove nessuna cultura
alligna. Nei bisogni emergenti l’uomo contemporaneo, l’Homo tecnologicus della
società telematica, si scopre ancora Homo simbolicus, bisognoso di agganci
all’invisibile mediante segni, riti, gesti che inverano il suo legame con la
comunità di ogni tempo. E’ la visione religiosa dell’eterno presente, così come
è stata proposta da Agostino: “E’ una improprietà dire, ci sono tre tempi, il passato, il
presente, il futuro. Avremmo piuttosto ragione di dire, ci sono tre tempi: il presente degli
avvenimenti passati, il presente degli avvenimenti presenti, il presente degli avvenimenti futuri.
In effetti queste tre cose sono nell’anima e non le vedo altrove. Il presente del passato o
memoria, il presente del presente o intuizione, il presente del futuro o attesa ».
(Sant’Agostino, Confessiones, Liber XI, caput XX).
112
Memoria, intuizione e attesa, compresenti, nel divenire. Una esigenza
che il nostro tempo non considera, mostrando di apprezzare in maggior luogo
il pensiero fondato sull’idea del trasformare, nel pragmatismo che permea
l’educazione, la comunicazione, l’informazione. Tutto concorre a richiamare
l’attenzione sul mutamento, mentre trascura l’idea del conoscere, del meditare,
del contemplare, che ha nutrito millenni di pensiero centrato sul valore di
continuità, su ciò che persiste, che non muta. Nella realtà sociale
contemporanea, la carenza di autorità morale fa insorgere anche in molta parte
delle giovani generazioni la domanda di conoscenza sulla trasformazione.
Affiora il bisogno di senso, quello che nel linguaggio dei Media si definisce
“qualità della vita”: ambito complesso, che si estende all’insieme delle relazioni
esistenziali con il visibile e l’invisibile, con il presente storico e il dominio
simbolico. In uno sforzo che per taluni è motivo di scoramento, di sfiducia e di
abbandono, così che finiscono per trasferire il senso delle ore, da quelle che
esauriscono gran parte delle proprie giornate, nella vita familiare, nel lavoro, a
quella manciata di ore del fine settimana, votate alla smemoratezza,
all’ammazzamento del tempo e di se stessi, nel rumore ossessivo di una musica
che porta a godere la schiuma dei giorni e non il loro vero sapore. E come la
schiuma, è effimero il significato esistenziale di questi atti, così che non di rado
la tragica consapevolezza porta alla cancellazione dell’essere».84
La nozione di individuo è il risultato delle tracce culturali che, pur su
direzioni divergenti, assommano positivismo scientista e materialismo storico.
Differisce dal concetto di persona, poiché espulge dal proprio sé, la dimensione
fondamentale che fa di uomo, appunto, una persona, cioè l’anima, o spirito o,
ancora, solo laicamente, il principio vitale. L’individuo, in sostanza, è un essere
abbandonato al proprio presente che, nella logica dell’ultramodernità
tecnoeconomica, va vissuto hic et nunc, senza legami al passato o rimandi al
futuro. E’deprivato della possibilità di una relazione intima e feconda con il
radicalmente altro, esigenza presente negli esseri umani di ogni tempo e spazio.
L’età che segna il primato del secolo, spoglia gli individui della tensione
primeva ed escatologica (spesso surrogata attraverso forme arcaiche di
superstizione) che ha guidato l’umanità nella realizzazione di leggi morali,
opere d’arte, splendide civiltà e… perfino sogni, in nome di una rassicurante
promessa e/o percezione d’eternità.
Reso monco dell’anima, l’individuo viaggia in solitudine, arrancando fra
modalità comportamentali figlie di un’economia sempre più asservita alle
nuove tecnologie; modalità difficili da raggiungere, e da spiegare, anche nei
termini dell’economia classica. “L’uomo nuovo”, costruito dal totalitarismo
84
U. BERNARDI, La nuova insalatiera etnica, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 77-78.
113
della techne, non ha radici. E’ sradicato. E’affidatario e confidante in una
materialità che, da sempre, non basta e non dà risposte significanti alla ricerca
di senso. E’ un individuo globale, fatto di caratteri troppo diversi,
eccessivamente visibili, superficiali, incapaci di corroborare in profondità. E
non è mai un olismo. E’ “troppi”, virtualmente vicinissimi e in realtà
lontanissimi, quando non in aperta competizione fra loro; e non è nessuno. E il
vuoto d’identità, il vuoto d’anima, lascia spazio alle derive – troppo spesso
tragiche – indicate, peraltro senza enfasi catastrofiche, dagli intellettuali qui
interrogati.
1.2 Il verso subdolo del “persuasore”: come l’homo videns diventa merce
Il video-bambino dello “stadio” tecnologico-televisivo subisce pure
uno svezzamento innaturale. Basti pensare che, a Roma, 6 bambini su 10
“crescono” con la televisione in camera.
Il pensiero logico è il risultato delle umane capacità di astrazione, del capire per
concetti, che non si vedono. Anche un cieco può astrarre, può pensare. La
soluzione virtuosa, semmai, è data dal “sapere vedendo” congiunto al “sapere
per concetti”. L’illogicità stabilizzata sul “visibile” è caratteristica dominante del
tipo umano che si va affermando.
Ancora nel lontano 1962 il solito Giovanni Sartori, nella “Rassegna
Italiana di Sociologia”, scriveva: «Tanto il propagandista, quanto l’educatore,
influenzano e persuadono. Ma l’educatore valorizza la potenzialità umana
dell’uomo, il propagandista ne sfrutta la debolezza. L’educatore parla “sopra la
testa” dei discenti per elevarli a sé, il propagandista aggiusta il suo messaggio,
potremmo dire, all’altezza della cintura dei riceventi: l’educatore cerca la verità,
il propagandista no»85.
Pochi anni prima, certo professor Bryson della Columbia University si
trovò a presiedere una speciale équipe di ricerca sull’orientamento dei consumi:
«se voi siete dei Social Engineers – scriveva ai collaboratori – tengo ad avvertirvi
che è indispensabile una analisi preliminare dei tre livelli in cui, in una società
come la nostra, si manifesta l’assenso. Esclusa la natura umana, dove ben poco
si può fare per manipolare la gente, restano: il livello culturale, dove si formano
e si modificano le idee del pubblico ma, soprattutto, il terzo livello, vale a dire
la zona in cui l’individuo opera le proprie scelte, le quali, sono spesso
determinate da impulsi che non hanno alcun fondamento razionale. A questo
G. SARTORI, Sociologia della propaganda, “Rivista Italiana di Sociologia”, III, 4,
(1962), p. 189.
85
114
livello – sostiene Bryson – è relativamente facile manipolare gli uomini»86.
Nell’età industriale, il primo a ricorrere a codici comunicativi capaci di
stimolare le pulsioni inconsce, specie quella libidica, fu Benjamin Day, un
giovane tipografo di New York che offrì ai “lavorati”, agli alienati della neonata
società industriale di massa, un paradiso artificiale sotto le spoglie del suo
giornale, il “New York Sun” introducendovi il “gossip”, il pettegolezzo, il
sensazionalismo, la notizia capace di suscitare curiosità morbosa. Insomma,
quella che noi oggi chiamiamo, cronaca “rosa e nera”. Tutt’ora le più lette.
Benjamin Day garantì queste “dis-trazioni” alle masse alienate da un modello
lavorativo disumanizzante e fino ad allora sconosciuto, inventando la “penny
press”, il giornale che proponeva il paradiso artificiale, venduto dagli strilloni a
un penny, e perciò acquisibile da chiunque. La stampa divenne sottosistema del
sistema economico-industriale che ne sosteneva i costi e, per mezzo della
stessa, pubblicizzava i propri prodotti. L’operaio, l’impiegato, nello stesso
tempo in cui “ricomponevano” la loro frustrazione grazie alla distrazione
sensazionalistica, diventavano – inconsapevolmente – potenziali acquirenti e
consumatori dei prodotti delle aziende che garantivano la vita del giornale.
Un’inconsapevole trasformazione in merce di consumo e di scambio. Così è
stato. E così è.
L’Europa, il giornalismo europeo ha appreso e affinato la lezione di
Benjamin Day. Tutt’ora, infatti, la carta stampata impiega le collaudate tecniche
sensazionalistiche di “rosa” o di “nera”, molto spesso “gonfiando” o
letteralmente costruendo notizie “incerte”, per mezzo dei menzionati codici di
attivazione delle leve di sicuro effetto manipolatorio. Dopo la rivoluzione
elettronica, travasare le metodologie di manipolazione sul video del televisore o
del computer è stato un gioco da ragazzi. Al punto che, persino le guerre, nella
loro atroce e assurda realtà (purché distanti), diventano un evento mediatico.
Lo si è visto nell’ultimo decennio e lo si sta vedendo ancora.
L’Europa, l’Italia, copiano gli Stati Uniti – la “madre” di tutte le società
di massa – prendendo il peggio, ovviamente. Non Carlo Marx, ma gli Stati
Uniti hanno realizzato il “comunismo”, attraverso l’omologazione culturale, la
globalizzazione dei consumi, dei costumi, degli stili di vita. Più indietro,
Giovanni Sartori segnalava che «il propagandista aggiusta il suo messaggio
all’altezza della cintura dei riceventi». Al riguardo, diverse voci sostengono, per
esempio, che il controllo strumentale della componente libidica sia sempre
stato esercizio della Chiesa. Può darsi che sull’argomento della sessualità, la
86
E. MASCILLI MIGLIORINI, La Comunicazione istantanea, Guida editori, Napoli 1989,
p. 51.
115
Chiesa non sempre abbia adoperato codici comunicativi adeguati al messaggio
evangelico. Ma ben altro e ben altri sono i controllori della sessualità che si
traduce in valore di mercato. Ne tracciò un profilo nitido in tempi maturi per la
società di massa statunitense, e attualissimo per l’Europa che ne è l’inseguitrice,
un grande pensatore della Scuola di Francoforte, Herbert Marcuse. Scrive il
filosofo tedesco in L’uomo a una dimensione, la “bibbia” dei giovani del
sessantotto europeo: «…E’ stato spesso notato che la civiltà industriale
avanzata opera con un grado più elevato di libertà sessuale, “opera” nel senso
che quest’ultima diventa un valore di mercato ed un fattore di costumi sociali.
Senza che cessi di essere uno strumento di lavoro, si permette al corpo di
esibire i propri aspetti sessuali nella vita quotidiana come nelle relazioni di
lavoro. E’ questo uno dei risultati unici della società industriale, reso possibile
dalla riduzione del lavoro fisico sporco e pesante; dalla disponibilità di capi
d’abbigliamento belli e a buon mercato, di cure di bellezza, di igiene fisica; dalle
esigenze dell’industria pubblicitaria, ecc. La segretaria e la commessa
sessualmente attraenti, il giovane dirigente ed il sorvegliante belli e virili sono
merci che vanno benissimo sul mercato, ed il fatto di avere un’amante come si
conviene – prerogativa un tempo di re, principi e signori – facilita la carriera
persino dei funzionari di minor grado nella comunità degli affari. Il
funzionalismo, indossati panni d’artista, giova a promuovere detta tendenza.
Negozi ed uffici si aprono alla vista con immense vetrate e pongono in mostra
il loro personale; nell’interno, i banconi alti e le divisioni non trasparenti stanno
scomparendo. L’erosione della privacy nei mastodontici edifici d’abitazione
come nelle case suburbane spezza la barriera che prima separava l’individuo
dall’esistenza pubblica e rende più visibili le attraenti qualità delle altre mogli e
degli altri mariti. Questa socializzazione non contraddice ma anzi completa la
deerotizzazione dell’ambiente. Il sesso è integrato nelle relazioni di lavoro
come nelle relazioni pubbliche, e per tal via gli si permette di trovar più
facilmente soddisfazione (controllata). Il progresso tecnico ed una vita più
confortevole permettono di includere sistematicamente certe componenti
libidiche nel regno della produzione e dello scambio di merci. Ma per quanto
possa essere controllata la mobilitazione dell’energia istintuale (in certi casi si
tratta di “organizzazione scientifica del lavoro” applicata alla libido), per
quanto possa servire a sostenere lo status quo, - prosegue il filosofo tedesco essa rappresenta pur sempre una gratificazione per gli individui amministrati,
così come li diverte far scattare il fuoribordo, spingere sull’aiuola la falciatrice a
motore e guidare l’auto ad alta velocità. Questa mobilitazione ed
amministrazione della libido può valere a spiegare in gran parte l’ossequio
volontario, l’assenza di terrore, l’armonia prestabilita tra bisogni individuali e
desideri, scopi ed aspirazioni socialmente richiesti. La conquista tecnologica e
116
politica dei fattori trascendenti nell’esistenza umana, così caratteristica della
civiltà industriale avanzata, si afferma nella sfera degli istinti, offrendo
soddisfazioni tali da indurre alla sottomissione e indebolire la razionalità della
protesta. La gamma delle soddisfazioni socialmente permesse e desiderabili è
stata molto ampliata, ma per loro tramite il principio di piacere viene ridotto,
privato delle istanze inconciliabili con la società stabilita. Grazie a questo
processo di adattamento, il piacere genera sottomissione. In contrasto con i
piaceri della desublimazione ben adattata, la sublimazione conserva la
coscienza delle rinunce cui la società repressiva costringe l’individuo, e per tal
via conserva il bisogno di liberazione. La perdita di coscienza dovuta alle
libertà di gratificazione concesse da una società non libera dà origine ad una
coscienza felice che facilita l’accettazione dei misfatti di questa società. E’ un
indice del declino dell’autonomia e della comprensione. La sublimazione
richiede alto grado di autonomia e di comprensione, essendo una mediazione
tra il conscio e l’inconscio, tra processi primari e processi secondari, tra
l’intelletto e l’istinto, tra la rinuncia e la ribellione. Nelle sue forme più
compiute come nell’opera artistica, la sublimazione diventa il potere cognitivo
che sconfigge le forze repressive nel mentre cede ad esse. Alla luce della
funzione cognitiva di questa forma di sublimazione, la desublimazione che si
sparge con tanta rapidità nella società industriale avanzata rivela la sua funzione
veramente conformista. Codesta liberazione di sessualità (e di aggressività)
libera gli impulsi istintuali da gran parte dell’infelicità e dello scontento che
riflettono il potere repressivo dell’universo di soddisfazioni stabilite. Esiste
certo una diffusa infelicità; e la coscienza felice è piuttosto precaria, crosta
sottile che copre paura, frustrazione, disgusto. Tale infelicità si presta
facilmente ad essere mobilitata per fini politici; senza spazio per uno sviluppo
consapevole, essa può divenire una riserva d’energia istintuale disponibile per la
rinascita di un modo di vivere e di morire di tipo fascista. Vi sono però molti
modi in cui l’infelicità sottesa alla coscienza felice può venir trasformata in
fonte di forza e di coesione per l’ordine sociale. I conflitti dell’individuo
infelice sembrano ora assai più suscettibili di cura di quanto non fossero quelli
che produssero quel “disagio della civiltà” di cui parla Freud, e sembra si possa
definirli in modo più adeguato nei termini della “personalità nevrotica del
nostro tempo” anziché nei termini dell’eterna lotta tra Eros e Thanatos»87.
1.3. Quanto è vera la tv – verità?
Marcuse, una delle figure più autorevoli della famosa Scuola di
Francoforte, non si stupirebbe nell’apprendere che la civiltà industriale del
87
H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1991, pp. 93-5.
117
postmoderno avanzato si affaccenda nella costruzione di strategie per “curare
la personalità nevrotica del nostro tempo”. Con risultati soddisfacenti, nei
termini del controllo sociale. Una di queste “cure” è la Tv-verità o Tv-realtà.
Umberto Folena con occhiata precisa e radente ci aiuta a capire il “tipo italico
televisivo”, catturato dalla tv-verità e dalle terapie “curative” messe in atto da
questa: «il Grande Fratello è stata l’apoteosi della cosiddetta tv-verità,
traduzione italiana, anche se approssimativa, dell’inglese reality-tv. La tv della
realtà. La tv che afferma di dire la realtà, rappresentare la realtà, raccontare la
realtà. Realtà fatta di gente normale. La gente davanti alla tv, la gente –
soprattutto – dentro la tv. Fin qui nulla di strano. E’ quello che tutti vediamo, o
abbiamo sentito, e sappiamo. Perché parlare ancora di tv? Non diciamo spesso
che dovremmo parlarne di meno, per aiutarla a superare il suo delirio di
onnipotenza? Certo. Ma qui parleremo di tv per parlare di noi. Dei nostri
comportamenti. E di ciò che li determina. Da dove arriva la tv-verità? E’ figlia
diretta, legittima, prediletta della neotv, quella che trionfa tra la fine degli anni
Settanta e i primi anni Ottanta, con l’affermazione, anche in Italia, della tvcommerciale, della concorrenza, dell’ingresso massiccio degli inserzionisti
pubblicitari. La paleo-tv, quella per capirci del Canale Nazionale, della tv dei
ragazzi, di Studio Uno, raccontava soltanto la realtà. E neppure tutta… Quanto
alla gente, per la paleo-tv è un soggetto distinto: la tv narra, la gente guarda e
ascolta. Emittente e destinatario della comunicazione sono ben separati. La
neo-tv, invece, non solo accorcia le distanze, ma le annulla. Perché? La neo-tv
ha un bisogno disperato di telespettatori. Più ne ha, più acquistano valore i suoi
spazi pubblicitari. Un segnale interessante: ai tempi della paleo-tv c’era l’indice
di gradimento. Era sì importante sapere quanti telespettatori seguissero un
programma, ma soprattutto se quel programma era loro piaciuto. Un alto
ascolto, infatti, non era prova automatica di un alto gradimento. La neo-tv non
elimina il gradimento, no. Ma lo riduce all’indice di ascolto, al cosiddetto
audience (la quantità di telespettatori sintonizzati) e allo share (la percentuale di
telespettatori sintonizzati su un programma sul totale dei telespettatori). Da
anni diamo per scontato, del tutto arbitrariamente, che un alto ascolto sia
indice di alto gradimento. Il pubblico, poverino, viene trattato a un tanto al
chilo. Ai signori della tv non interessa che cosa tu pensi, basta che tu ci sia.
Meglio: è quello che interessa ai signori della pubblicità. Dimmi quanti contatti
hai, e ti dirò quanti soldi vali. E la realtà? E’ vero che l’unica realtà è quella che
finisce dentro la tv? Vero o falso che sia, è ciò di cui pare fermamente convinta
una fetta consistente di italiani. Sono gli italiani che cercano spasmodicamente,
freneticamente, ossessivamente di finire dentro la tv. Come protagonisti di un
talk-show o di un quiz, come semplici figuranti, come banalissimo pubblico
docile al direttore di scena che suggerisce applausi e risate. Sarebbe interessante
118
seguire il pubblico, quello che fa semplicemente massa, le comparse insomma,
minuto per minuto, dal momento in cui entrano negli studi. Lo sguardo, il
passo…Una riverenza, un rispetto, una beatitudine, la consapevolezza di vivere
un momento storico di cui narreranno per anni a parenti e amici, anche loro in
religioso ascolto Fatto sta che fanno di tutto per andarci. Anche le cose
meno nobili. Ad esempio, vediamo un numero inesauribile di italiani che
vanno in tv a litigare, a insultarsi, a riconciliarsi tra lacrime e abbracci,
raccontando di fronte a milioni di sconosciuti i fatti propri, anche i più intimi e
scabrosi, senza un filo di pudore. Perché lo fanno? E perché lo fanno fare ad
altri? Ci sono infatti dei genitori che si servono dei figli per conquistarsi il loro
ritaglio di “realtà”, esibendoli in tv, e riservando a se stessi solo una breve
inquadratura tra il pubblico. Li riconosci subito, i genitori del pargolo che
sembra una foca ammaestrata, per l’occhio tronfio e compiaciuto. Trionfa
l’impudicizia. Ed eccoci al Grande Fratello. Potrebbe essere letto anche come
l’affronto più sfacciato della neo-tv, che dice: la realtà la creo io, dal nulla.
Volete la prova? Prendo dieci perfetti sconosciuti, assolutamente privi di
qualità, e solo grazie alla mia forza ne faccio dieci divi popolarissimi. La
realtà reale non è sempre così interessante, e gli italiani – quanti saranno? Tanti
o pochi, sono sempre troppi – lo sanno. Sanno di non vivere vite
appassionanti, esistenze da romanzo capaci di tenere incollati i telespettatori. E
allora esagerano. O inventano. Non ci toglieremo mai di dosso il dubbio se i
dieci del Grande Fratello, nel loro appartamento di Cinecittà, fossero del tutto
liberi e spontanei o ricevessero dei “suggerimenti” da parte degli autori del
programma. O perfino recitassero a soggetto, seguendo un copione che per
ciascuno di loro prevedesse precise caratteristiche. Il palestrato, la gatta
morta…Ma di dubbi non dovremmo averne. I giornali lo dicevano da anni.
Avevano mosso denunce precise, almeno quelli meno farciti di pubblicità. Ma
c’è voluta un’altra trasmissione televisiva, Striscia la Notizia, perché tutti lo
vedessimo e sentissimo: signori che si presentano in tv con confessioni diverse,
nomi diversi, biografie diverse, ma sempre lo stesso signore… La tv-verità – è
più che un sospetto – è “in verità” una solenne patacca. Eppure loro, i signori
della tv, dall’alto dei loro scranni, negano. Negano tutto. Negano l’evidenza. In
qualsiasi azienda se sbagli paghi. Non in tv. Sempre che gli ascolti tengano. Ed
ecco il punto dolente. La gente sa. Ben dieci milioni di telespettatori seguono
Striscia la notizia. Eppure la tv-patacca non conosce calo di ascolti. E’ tutta una
bufala, ma milioni di italiani continuano a godersela. Perché? Difficile dirlo.
Forse, ma è solo un’ipotesi, finiamo per credere a ciò che desideriamo credere.
 E gli italiani che ci vanno in tv? Perché? Altra domanda difficile. Forse, ed
è un’altra ipotesi, è in continuo aumento la percentuale di drogati. Non solo né
soprattutto di sostanza. No, drogati di eccezionalità. A troppi italiani la vita
119
appare squallida, banale, troppo lontana da quella – e sappiamo quanto sia finta
– dei divi, della gente qualunque gettata dentro lo schermo che ne emerge ricca
di denaro e notorietà. La televisione droga chi la guarda, e richiede dosi sempre
più massicce. E chi la fa. Chi la fa è anche chi la guarda, ed ecco il Dna della
neo-tv. A che pro? Ecco, a questa domanda non è poi difficile rispondere. Lo
scopo della neo-tv è avere più telespettatori il più a lungo possibile. Ma perché
aspira agli ascolti sempre più alti e prolungati? Perché i telespettatori, e il loro
tempo, sono merce. Merce che le tv vendono agli inserzionisti pubblicitari. E
poi ci dicono che le televisioni sono gratuite… Ci succhiano anni della nostra
vita, di cui fanno commercio (dieci milioni di telespettatori, compri questo
spazio, conviene!), potrebbero almeno darci programmi belli, educati,
intelligenti. E invece ci rifilano patacche, che noi ci godiamo beati. Noi…
Diciamo molti italiani. Troppi. E la chiamano tv-verità. Finiamo in bocca al
lupo, e dobbiamo pure sorridere, se no il lupo diventa triste»88.
Drogati di eccezionalità e affetti da dipendenza dal “paradiso artificiale”, che ci
regala un’immaginifica irrealtà che siamo disposti a considerare reale. Incapaci
di distinguere vero da falso, al punto che abbiamo annientato anche la feconda
voce del dubbio; che è sussurro di criticità, di libertà.
Ma è pur vero che la tv fa compagnia ai vecchi, distrae i bambini, e non solo.
Assolve cioè un importante ruolo sociale nell’epoca individualistica e
frammentata; è una sorta di dama di compagnia videoelettronica. E sa offrire al
pubblico, senza dubbio, anche buona informazione e programmi di sicuro
interesse (magari a orari irraggiungibili). Salvo poi tributare riconoscimenti di
prestigio a trasmissioni demenziali e ai loro protagonisti. Ma, come ci ha
spiegato Folena, sono le trasmissioni più gettonate. Il primato – al solito –
spetta alla merce che ha maggior valore. Nel caso della tv, i programmi
d’intrattenimento, privilegiati dai palinsesti delle diverse reti. E l’individuo della
terza cultura tecnologica sembra contagiato da una forma insaziabile di festa e
divertimento, dalla voglia continua di essere “intrattenuto e distratto”. Ed ecco
che il “persuasore”, chi fa la tv, s’insinua con pervasiva invadenza sul tempo
libero della gente, presentandosi come il “gran giullare” della fiera dei
divertimenti, pronto a saziare l’inesauribile bisogno di evasione e di “paradiso”.
E, de-vertere, significa, regalare agli individui un mondo irreale, virtuale panacea
per dolori, frustrazioni e insoddisfazioni. Allontanandoli però – in pari tempo –
anche dalla riflessione impegnata, dall’attenzione critica… dalla libertà. Così
facendo, il “persuasore” contribuisce alla fluida perpetuazione dei sistemi
dominanti, evitando possibili e salutari “perturbazioni”; se è vero che l’uomo
non è solo un animale da consumo, videodeterminato.
88
U.FOLENA, Finta come la tv-verità, “San Francesco”, LXXXI, 5, (2001), pp. 34-38.
120
1.4 L’ansia del paradiso artificiale risolta nel grigio paradosso della festa
solitaria
Il “gran giullare” somministra l’illusione che la vita sia una festa ininterrotta,
partecipata da tante personcine belle, eleganti, sempre sorridenti e mai
affaticate. Tanto che, figli e nipoti di generazioni di operai e contadini si sono
trasformati in “raffinati” frequentatori – e “consumatori” – di centri
commerciali, dove anche il cibo sa di pubblicità. Sofisticati come sono,
“schifano” l’arcaico odore del fritto e del pesce fatto in casa e optano sicuri per
il preconfezionato e il “già cotto”. Tutti carini e delicati come tante eleganti
scatoline infiocchettate (ma vuote), adesso credono che, grazie a scienza e
tecnologia, anche le mucche odorino di caramella! Il “gran giullare” è garante
dell’esistenza del paradiso artificiale dove trovano riposo angosce, frustrazioni,
insoddisfazioni; in ultima istanza, le coscienze svuotate di tanti “schiavi
sublimati”, per parafrasare Marcuse. I “sacerdoti” di una religiosità laica e
libertaria decompongono il senso religioso originario della festa, per
ricostruirlo dentro una nuova dimensione, tutta mercantile. Come s’intuisce,
per festa, non s’intende l’atteggiamento gioioso verso la vita che dovrebbe
distinguere i cristiani, secondo l’esortazione di Paolo di Tarso.
Adesso, per fare un esempio, più che celebrare la festa di “tutti i santi”,
si celebra la festa pagana – ma globalizzata, perciò ineludibile – di Halloween.
Anni addietro – si ricorderà – c’era la festa di “Ognissanti” e il giorno per
ricordare i defunti. Il secondo è stato cancellato per le esigenze produttivocommerciali del Paese. Per tradurlo, quand’è possibile, nel tassello
indispensabile al classico “ponte” feriale. La giornata in cui si onoravano i
defunti – pratica antichissima e non necessariamente solo cristiana – si
trasforma, spesso, nell’ennesima occasione “godereccia”. Su questa
trasformazione, che si è compiuta, gioco-forza, nel secolo appena sfumato, può
dire meglio la penna analitica di Marcello Veneziani: «Il Novecento è stato il
secolo ludico per eccellenza. Anzi non si comprende appieno lo spirito del
secolo se non si risale al suo desiderio dionisiaco di trasgressione e di
scatenamento delle energie “represse”, alla sua pulsione edonistica estesa oltre i
limiti della festa tradizionale. La festa come anello di congiunzione tra i sogni
solitari e i sogni d’evasione della società opulenta. La festa ha subito nel
Novecento un’accelerazione intensiva ed estensiva senza precedenti, sia che si
consideri il rapido e contagioso declino di feste con tradizioni anche millenarie,
sia che si consideri il rapido e contagioso fiorire di nuove feste secolari e
profane. Da un lato nel giro di pochi anni numerose feste che avevano
rappresentato per secoli una valvola rituale di espressione comunitaria, di
integrazione e riconoscimento simbolico, sono state soppresse (soprattutto
121
nella prima metà del secolo), hanno subìto un rapido declino o addirittura sono
scomparse (soprattutto nella seconda metà del secolo), sopravvivendo solo a
volte e riemergendo come carcasse turistiche prive di anima: feste in larga parte
di origine religiosa e segnatamente cristiano-pagana hanno subìto in pochi
decenni un declino che non ha precedenti, o un rilancio improvviso nel segno
del folclore più artificioso. Dall’altro lato il Novecento ha prodotto la più alta
concentrazione di feste di origine politica, civica, spettacolare e infine
mercantile. Non dimentichiamo che il Novecento è il secolo del cinema,
della tv e dello sport di massa, ovvero delle occasioni ludiche al di fuori della
cornice tradizionale o territoriale. Proviamo allora a stabilire alcune differenze
tra la festa come era stata concepita nei secoli precedenti e la festa come si
presenta nel Novecento. La distinzione originaria nasce con il passaggio
nell'epoca della secolarizzazione, come la definisce Del Noce: ovvero la festa,
fino al compimento della secolarizzazione, segnava la continuità tra la
dimensione religiosa e la dimensione profana; era l’anello di congiunzione tra
vitalismo e trascendenza. Le feste della rivoluzione francese nascevano come
imitazioni della simbologia religiosa, come tentativi di emulazione e di
sostituzione del calendario tradizionale e dei riti religiosi, nel tentativo di
riannodarsi alle tradizioni pagane e precristiane. Comunque, nonostante
l’esperienza rivoluzionaria francese, la festa aveva conservato fino al nostro
secolo un senso etimologicamente religioso, nel senso appunto di re-ligare.
Anche laddove persistevano tradizioni pagane, anche laddove la festa aveva
origini civiche e profane, persino nelle feste che ritualizzavano tendenze
anomiche e orgiastiche, prevaleva l’idea di complementarietà con il sacro, ove
la stessa trasgressione era giocata all’interno di una comunità e del suo
orizzonte di valori condivisi.  Nel nostro secolo la festa assume invece
progressivamente un significato sostitutivo della religione, o di aperta
liberazione dal sacro. Ma nella seconda metà del secolo – precisa Veneziani avviene anche un altro sostanziale rovesciamento della concezione della festa
rispetto al modo di intenderla dei secoli precedenti: la festa non è più concepita
come l’interruzione periodica di una consuetudine, l’eccezionale che ritempra
l’ordinario e l’ordinato; ma al contrario si tende a viverla come la dimensione
propria, autentica, quotidiana della vita, rispetto a cui la vita ordinaria, il lavoro,
i rapporti sociali e famigliari appaiono come alienanti. La festa viene intesa
come il tempo dell’autenticità, una specie di aletheia gioiosa che disvela il senso
della vita; il resto appare come il tempo della noia, della ripetitività e della
coazione. Questo rovesciamento comporta una sostanziale rivoluzione: la
perdita dei giorni, dei riti, degli spazi e dei luoghi della festa e la loro
confusione con gli altri giorni. Si perdono così le ultime tracce di irruzione
dell’eccezionale, di inserzione della trascendenza nell’immanenza del fluire
ordinario della vita, e scompare l’ultima frattura del tempo lineare nella
122
ripetizione circolare di un tempo mitico. Lo sviluppo tecnologico e l’eclisse
del sacro hanno ormai travolto in Occidente la dimensione propria della festa.
La televisione, lo spettacolo sportivo, la festa usata come attrattiva e linguaggio
pubblicitario, prolungano lo stato ludico, debordando dai luoghi e dai tempi
istituzionali della festa, tendono a far perdere, fino a invertire, il rapporto tra
l’evento festivo e la vita ordinaria. Un esempio attinto dalla cronaca più bassa è
il prolungamento della spettacolarizzazione calcistica fuori dai luoghi e dai
giorni previsti: il calcio si prolunga fuori degli stadi e la sua festa esce ormai dal
confine domenicale per diventare appuntamento quasi quotidiano. Tutto
questo produce una banalizzazione della festa, la perdita della dimensione
rituale catartica e anche del suo ruolo di integrazione comunitaria. Panem et
circenses finisce col diventare panis est circenses.
La festa alla fine del Novecento non è più intesa come un veicolo di
integrazione comunitaria ma come un veicolo di integrazione nei consumi.
Attraverso la festa si promuove il consumo di alcune merci, si vende l’oggetto
della festa ma attraverso una forma di individualismo di massa, di narcisismo di
massa; la festa non fa comunità, ma la disgrega, induce a svincolarsi. Esempio
residuale della festa come integrazione di massa è lo stadio, che ripercorre le
forme di integrazione ludica tradizionali, che andavano dal teatro al certame,
dal colosseo alla corrida. Figurazione della festa come luogo di solitudine di
massa è la discoteca, tempio profano del Novecento (con i suoi riti e, al limite, i
suoi sacrifici umani ottenuti attraverso l’ebbrezza della droga e della velocità)
ove gli altri regrediscono ad ombre ed ove ci si balla addosso; la collettività si
riduce a sfondo con cui non si comunica, il massimo d’apertura è la tribù, il
clan. La festa contemporanea non produce solo integrazione nella tribù ma
omologazione e standard globali, non esalta l’appartenenza comunitaria ma
l’uniformarsi a una tendenza. Non rafforza il legame sociale ma il vincolo
temporale, omologa alla moda, cioè al conformismo del momento. Esempio
compiuto della festa come gioco solitario in cui l’altro, ma anche l’io, regredisce
a uno stadio virtuale o larvale è la festa vissuta attraverso la televisione.
Rispetto alla festa di cui si è passivi spettatori, la “festa” via internet
risulta essere già un passo avanti, una presenza più attiva e interattiva e non
solamente voyeurista. I media sono luoghi che producono compagnia per chi è
solo, ma producono solitudine tra chi è in compagnia. Dal punto di vista dello
spettacolo, il Novecento è il secolo che nasce con la festa collettiva del cinema
e finisce con la festa solitaria della videocassetta. O della coralità invisibile nella
rete internet. Una moltitudine di solitudini. Che si incrociano occasionalmente
nei siti»89.
89
M.VENEZIANI, Il Secolo sterminato…op. cit. pp. 224-237.
123
Dopo un pregevolissimo spaccato storico-sociologico e gnoseologico –
sul quale volentieri si è indugiato – da ultimo, Veneziani schiaccia il tasto della
festa solitaria via internet. Appena introdotta, la rete che “cambia il mondo” ha
fornito a “impegnati” studenti e a “zelanti” impiegati opportunità impensabili
di “studio e informazione”. Che lasciamo all’immaginazione del lettore. Ma
internet – si dice – è strumento più democratico della tv. Perché la seconda è
unidirezionale mentre il primo è interattivo. Il trionfo della democrazia
interattiva delle solitudini.
Con la complicità dell’invisibile. Internet è talmente democratico che ci
salta sopra di tutto, come avverte Giorgio Bocca: «sono saltati su internet i
venditori di droga, i pedofili, i pornografi. Riviste in carta patinata ci mostrano
Seth Warshavsky, un ventisettenne padrone della Società Internet
Entertainment Group, nel suo studio hollywoodiano circondato da biondone
formose. A due milioni l’ora offre spettacoli di spogliarello. La diffusione della
criminalità nella rete è già materia di romanzi popolari»90. La democrazia
dell’invisibile reca nello stesso conio terminologico una contraddizione
sostanziale; che allude alla libertà di violare l’altro più che alla libertà nel
rispetto dell’altro.
Che fare, dunque, dinnanzi all’insopprimibile pervasività multimediale?
Dirò un’ovvietà. Un’ovvietà che non diventa mai prassi, però. Nuove
tecnologie e media di massa non vanno azzerati ma controllati. Se non altro
perché nella nostra epoca hanno acquisito le caratteristiche dell’indispensabile.
Non siamo più capaci di fare a meno delle loro articolazioni, anche sul piano
dell’utilità sociale e pubblica. Si tratta di utilizzarli per ciò che sono:
elettrodomestici al servizio dell’uomo. Il punto dolente, com’è noto, è l’uomo –
il tipo di umanità – non i mezzi tecnologici o multimediali. Del resto, lo diceva
già Lasarzfeld, la comunicazione multimediale influenza e manipola chi si lascia
influenzare e manipolare. L’uomo capace di discernimento dispone degli
elettrodomestici multimediali con libertà e distacco. La maggioranza, invece –
come si conviene nella cultura di massa – sembra fagocitata dai media e dalle
tecnologie, incapace di discernimento e, di conseguenza, incapace di libertà. La
maggioranza può essere, allora, tributaria dei media nella decadenza civile in
atto. Tributaria della sconfitta della civiltà con ciò che ne consegue.
90
G.BOCCA, Pandemonio…op. cit., p.29.
124
2. SUL CONCETTO DI MASSA
Piuttosto che di “masse”, a dire il vero, i primi sociologi parlano di
“folle”. Verso la fine del diciannovesimo secolo il tema della folla diventa
ricorrente nella sociologia e nella psicologia sociale: in Italia si può citare
Sighele, in Francia bisogna senz’altro ricordare Gustave Le Bon con la sua
Psicologia delle Folle (1895).
Ciò che colpisce gli intellettuali è soprattutto il carattere irrazionale che
sembrano assumere gli uomini quando si radunano in folla; la perdita da parte
loro dei segni di una personalità autonoma, la violenza di cui diventano capaci.
Per una chiarificazione del fenomeno, diviene fondamentale il concetto di
“anima superindividuale delle folle”: l’individuo, “assemblato” in una folla, o in
una massa, proietta la propria “anima”, la propria essenza o coscienza, oltre se
stesso, in una dimensione, potremmo dire, metasociale. Da una parte
identificandosi con la personalità autoritaria di un capo, dall’altra, sentendosi
parte di un corpo più grande e invincibile”, che funziona da solido “ombrello”
protettivo. Esemplificando: l’anima superindividuale svolge la funzione
psicologica di garantire l’individuo dalle conseguenze di comportamenti
devianti (che, se isolato, difficilmente metterebbe in atto), perseguibili mediante
l’esercizio delle sanzioni che, in questi casi, le istituzioni attivano per ristabilire
l’ordine sociale. L’anima superindividuale è – per esempio – il paravento
psicologico delle orde di teppisti da stadio: la folla li rende difficilmente
indentificabili e, di conseguenza, difficilmente perseguibili. Si tratta della stessa
sensazione psicologica che accompagnò le folle dei rivoluzionari francesi, allorché
persone caratterialmente e normalmente miti, si trasformarono in belve capaci
di violenze inaudite; e fu ancora l’anima superindividuale a guidare il
comportamento dei partecipanti ai “campi di maggio”, durante il fenomeno
nazionalsocialista della nazionalizzazione delle masse, o dell’epopea leninista
che preannunciò la “rivoluzione d’ottobre”.
Gli eventi storici del novecento hanno dimostrato che il
comportamento delle folle o masse è fortemente influenzato dalla figura del
leader carismatico - vedi Max Weber - ( e dall’uso dei madia di massa) e dai
riferimenti di valore che da questi promanano. Esempio: se in particolari
momenti storici, legati a crisi economiche e disorientamenti culturali, i vari
Hitler, Franco, Mussolini, Lenin e Stalin lanciano invettive contro i governi
tradizionali e contro le minoranze (ebrei, zingari, omosessuali ecc.), facendo
ampio uso di un linguaggio violentissimo indirizzato a trasformare queste
ultime (le minoranze) nella figura del “capro espiatorio”, è evidente che la
massa assumerà comportamenti violenti. E così è stato. Ma se il leader è
125
Giovanni Paolo II, la massa diventa veicolo di fratellanza universale: basti
pensare alle giornate mondiali della gioventù.
Al di qua delle spiegazioni proposte, ciò che è vero in queste descrizioni è il
riconoscimento di una novità nel panorama sociale: da un lato, l’agglomerarsi
in città di una folla di persone relativamente anonime le une rispetto alle altre,
dall’altro la possibilità che queste folle si organizzino in manifestazioni
collettive imponenti.
2.1 La “massa” nelle culture di sinistra e di destra
A cavallo fra ottocento e novecento, e per tutto il primo ventennio del
nuovo secolo ( e anche oltre) a manifestare, tuttavia, non sono folle
indifferenziate: sono piuttosto i lavoratori che, riunendosi in sindacati e
spesso sotto la guida di partiti riformisti o rivoluzionari, premono per la
soddisfazione di nuovi diritti. Alla nozione di “folla”, gli intellettuali di sinistra
(si ricordino almeno Lukacs, ungherese, e Gramsci, italiano) contrappongono
così il concetto di “massa”, intendendo con ciò, innanzitutto questo: la
presenza nella società industriale di una maggioranza di lavoratori che, per
quanto indispensabili alla produzione e riproduzione della società, non vedono
riconosciuti i propri diritti alla rappresentanza politica, all’educazione e a
standard di vita superiori alla mera sussistenza. (Per quanto riguarda l’Italia, si
ricordi a proposito del diritto di voto, che un primo allargamento venne
“adoperato” da quel grande statista liberale che fu Giovanni Giolitti con
l’introduzione del suffragio universale maschile nel 1912). Se per coloro che si
ispirano a Marx o ad altre correnti del pensiero rivoluzionario il problema è
quello di organizzare queste “masse” in una forza compatta e autoconsapevole,
per i riformisti si tratta essenzialmente di promuovere gradualmente una
completa partecipazione dei lavoratori ai meccanismi della democrazia e della
condivisione dei vantaggi che derivano dallo sviluppo industriale. Per entrambi,
in ogni caso, il richiamo alle “masse” ha una valenza positiva, non disgiunta
dal riconoscimento della necessità di un’educazione diffusa: le lotte per
l’accesso universale e obbligatorio all’istruzione si affiancano così a quelle per la
riduzione degli orari di lavoro, per l’aumento dei salari, per l’estensione del
diritto di voto.
E’ a tutto ciò, che esplicitamente o implicitamente, si oppongono
coloro che sottolineano il carattere “irrazionale” e “violento” delle
manifestazioni inedite della vita sociale di cui sono testimoni in quell’epoca ( si
pensi, ad esempio, alla più grande insurrezione operaia in Italia – Torino 1920
– di cui fu ispiratore e teorico Antonio Gramsci, arrestato dal regime fascista
nel ’26).
126
E’ vero comunque che, anche quando viene usato con una valenza positiva, il
termine “massa” conserva alcuni connotati altrettanto problematici, tipici della
“folla”. La parola massa rimanda pur sempre all’idea di un insieme di persone
indifferenziato e confuso, dove i singoli appaiono privi di legami comunitari, di
tradizioni proprie e, in fin dei conti, di capacità di giudizio. Non a caso, sarà in
questo modo, che la nozione di massa verrà utilizzata più tardi da chi teorizzerà
la “società di massa” (McLuhan, Scuola di Francoforte, Wright Mills, Riesman,
Bordieu, Baudrillard, Habermas, solo per citarne alcuni). Quest’ultima
espressione, tuttavia, non sarà usata per descrivere la società degli anni a
cavallo fra Ottocento e Novecento, quanto per parlare dei decenni successivi:
da un lato, in particolare, per descrivere la società posta in essere dal
capitalismo avanzato (la nostra), e dall’altro all’interno dei tentativi di rendere
conto dell’emergere del fascismo e del nazionalsocialismo. Soffermiamoci sul
fascismo. Tra il 1925 e il 1943 il fascismo si costituì in Italia come una dittatura
e, nello stesso periodo, movimenti di stampo fascista furono attivi in molti
paesi europei: Austria, Ungheria, la Spagna di Franco (al potere nel ’39), la
Germania dove con il nazionalsocialismo raggiunse le forme più radicali, senza
dimenticare l’esperienza di Salazar in Portogallo, dopo la seconda guerra
mondiale.
La caratteristica delle dittature moderne è quella di non fondarsi
unicamente sulla violenza, ma anche sulla ricerca del consenso popolare. Tale
consenso viene ricercato soprattutto attraverso l’instaurazione di un rapporto
privilegiato tra il leader e le masse. Si tratta di un rapporto di tipo emotivo, che
presuppone da un lato l’utilizzo di rituali e di mezzi di propaganda efficaci ( si
pensi al largo uso di simboli, divise e parate militari che ebbero forte valenza
nell’accreditare il nazionalsocialismo nell’immaginario collettivo, come forza di
massa organizzata), ma dall’altro anche la disponibilità dei soggetti a proiettare
sul leader una forte carica affettiva. E’ questa disponibilità che mette in gioco il
concetto di “massa”: saltando a piè pari tutte le istituzioni e le associazioni della
società civile, il leader si propone a ciascuno come referente unico, unica
incarnazione dell’autorità. Ma ciò è possibile solo se gli individui rinunciano
effettivamente, tanto alla propria individualità concreta, quanto – almeno in
certa misura – al valore del proprio legame con gli altri; e ciò corrisponde
appunto, alla loro riduzione a membri di una “massa”. Al tempo stesso,
l’appello indifferenziato del leader contribuisce a trasformare i singoli in atomi
di una massa anonima, legata soltanto attraverso l’identificazione con il capo. Il
discorso è circolare: il fascismo (e non solo) presuppone la massa e,
contemporaneamente, la riproduce.91
91
P. JEDLOWSKI, Il mondo in questione, Carocci, Roma 1998, pp. 163-165.
127
2.2 La “massa” nel capitalismo avanzato
Per il concetto di “massa” nel capitalismo avanzato, qualche cenno
sulla Scuola di Francoforte.
La Scuola di Francoforte costituisce una delle imprese collettive più
rilevanti del pensiero sociale del XX secolo. Prende il nome dall’Istituto per la
ricerca sociale che venne fondato a Francoforte del 1923. Con l’avvento del
nazismo l’Istituto venne chiuso. I suoi membri si trasferirono dapprima a
Ginevra, poi, definitivamente negli Stati Uniti. I componenti più noti furono:
Carl Grunberg, Max Horkheimer, Theodor Wiesengrund Adordo, Herbert
Marcuse, Erich Fromm, Walter Benjamin, Friedrich Pollock (l’economista del
gruppo) e Leo Lowenthal (interessato alla sociologia della letteratura). L’ultimo
esponente famoso è Jurgen Habermas. Questi importanti filosofi sociali, che
nacquero con origini marxiane, orientarono i loro interessi di studio alla società
di massa e all’industria culturale che la sorregge fino ad elaborare una teoria
critica della modernità occidentale: una critica del predominio della “razionalità
strumentale” che riprende e radicalizza il pensiero di Weber sulla
razionalizzazione. Più tardi la critica non risparmierà né il totalitarismo
staliniano, né la società occidentale politicamente e culturalmente bloccata.
Dice Marcuse nelle sue opere più famose (Eros e civiltà 1955, L’uomo a una
dimensione 1964 “la bibbia dei sessantottini europei”): garantita l’alternanza di
governo le politiche non mutano di segno. Considerazione attualissima.
Pensiamo alle recenti riforme sulla scuola: governi di colore diverso che
producono soluzioni pressoché identiche. Sul versante della critica all’industria
culturale – altro tema di forte attualità – i pensatori di “Francoforte”, Marcuse
in testa, utilizzano anche gli strumenti della psicanalisi. Freud aveva
giustamente osservato che il progresso della civilizzazione ha comportato un
forte controllo degli impulsi libidici. La funzione di questo controllo è stata
soprattutto quella di permettere lo sviluppo crescente del dominio degli uomini
sulla natura. Con il capitalismo, tuttavia, lo sviluppo delle forze produttive è
tale da permettere, almeno potenzialmente, di ridurre questo controllo e
lasciare spazio a una umanità capace di entrare con la natura in un rapporto
non più solo antagonistico, ma “conciliato”: è “l’edonismo” , un termine che
viene spesso stravolto, ma che per Marcuse rimanda essenzialmente a questo:
la capacità degli uomini di godere della propria vita e di essere felici entro i
limiti che la vita stessa pone, all’interno di un quadro sociale sgombrato
dall’ingiustizia. Questo l’intendimento. Ma è necessario notare, che l’edonismo
marcusiano non corrisponde allo scatenamento della sessualità. A proposito
dell’aumento della libertà dei costumi sessuali che caratterizza la società
contemporanea, il filosofo tedesco parlerà anzi di una “desublimazione
128
repressiva”. La sublimazione era per Freud il processo con cui l’uomo devia la
pulsione sessuale dalla sua meta originaria e la trasforma in energia creatrice di
cultura. Parlare di desublimazione repressiva significa, invece, alludere ad un
accesso socialmente legittimato alla sessualità che non corrisponde a nulla di
creativo, bensì allo sviluppo di una logica della “prestazione” (traslazione
delle regole economiche del capitalismo anche in ambito sessuale), che
riproduce anche in campo sessuale la logica repressiva dominante. Sulla
realistica attualità di tale analisi, è sufficiente ricordare il bailamme che investe
l’uso di pilloline varie, atte a garantire prestazioni e controprestazioni alla
bisogna.
Marcuse non dimentica, peraltro, gli effetti degli status symbol, propinati
come modelli ideali da raggiungere e perseguire, dai moderni mezzi di
comunicazione (e manipolazione) di massa: l’abitudine a guardare con curiosità
quasi morbosa “l’erba del vicino”, la moglie del vicino, l’auto di lusso del
vicino, l’abito del vicino ecc. E chi non raggiunge tali obiettivi? ( Si rammenti la
“frustrazione per disorientamento” in Norman O. Brown e “l’anomia come
causa della devianza” in Robert K. Merton).
Non distanti dal professor Marcuse, Bordieu e Baudrillard puntano
l’indice sui medesimi effetti prodotti dall’industria culturale dei giorni nostri
che, potremmo riassumere con questa intuizione: nella odierna società di
massa, gli strumenti della multimedialità, utilizzando le stesse metodologie
comunicative di cui si è detto poco sopra (codici erotici, esaltazione della
ricchezza materiale, esibizione del denaro ecc.), anziché operare per
trasformare la massa in energia, producono sempre più massa; intesa in
quell’accezione negativa che rimanda alla mancanza di capacità di giudizio, di
spirito critico, in ultima istanza, di vera libertà.
2.3 Televisione e nuovi media: qualche danno pedagogico e sociale
Fino agli anni ottanta del novecento, resistevano ancora le appendici
del fondamento della cultura europea, ravvisabili nel sentimento della
communitas, assai prolifico per la vita sociale, profuso dalla tradizione benedettina.
Ogni mamma di quartiere, o del piccolo paese di provincia, conosceva le
destinazioni ludiche dei propri figli e dei figli delle altre mamme. Eventuali
incidenti, o turbolenze esterne alla “comunità di destino” ( come le
diversificate proposte devianti offerte ai giovani da questa ultramodernità)
erano facilmente arginabili. Il tempo libero dei ragazzi si consumava fra le
scorribande di strada e il campo di calcio della parrocchia, in un rapporto
naturale fra uomo e ambiente che, ormai, sembra solo il ricordo di un’età
lontanissima e perduta. In caso di pericolo, scattava un’automatica solidarietà
fra i membri della comunità, acculturati a una “cordata di sicurezza” che legava
129
a tutto tondo – per ogni attività del vivere sociale – famiglia, parrocchia, scuola,
organizzazioni sportive, autorità locali.
Gli anni ottanta segnarono l’avvento delle televisioni commerciali, e
con esso nuovi orientamenti socializzanti indirizzati all’omologazione culturale,
sul terreno della “visione televisiva”, del consumo, della vita sociale e del
divertimento. Soprattutto, del divertimento. Le televisioni profusero il modus
vivendi dei Paesi economicamente dominanti, in particolare del Giappone e
degli Stati Uniti. Accadde così che anche l’Occidente, anche l’Italia, anche il
cattolicissimo Veneto, in meno di due decenni abbracciassero i modelli di
socialità proprii di altre culture. Una sonnacchiosa acquiescenza – peraltro
alimentata dalla velocissima invasione delle nuove tecnologie del comunicare –
ha trasformato i cattolici d’Italia sul calco dei protestanti d’America. E, a
differenza dei benedettini, l’humus culturale dei padri pellegrini che
occuparono il “nuovo continente”, trae radici dal lascito teologico luterano –
calvinista che, al sentimento della communitas preferisce quello di individualità. Se
poi, per individualità, intendiamo un tipo umano plasmato dalle e sulle regole
dell’economia di mercato, possibilmente deprivata di ogni fondamento etico,
otteniamo l’individualismo.
La coscienza del neo individualista non è comunitaria, è isolata. La
mamma del quartiere, in genere, non solo non conosce la destinazione ludica
dei figli delle altre mamme ma, fatica ad essere informata su quella dei propri.
Ma per “fortuna”, oggi, se succede qualcosa di pericoloso o potenzialmente
drammatico, c’è il telefonino. Se un ragazzino ritarda il suo rientro a casa,
infatti, non si cerca più dai vicini, dal parroco o nel campo sportivo. Setacciate
senza successo le frequentatissime sale pullulanti di videogiochi – altra attività
modernissima e completamente innaturale – scatta l’allarme ai carabinieri, alla
polizia, al telefono antipedofili e altro ancora. Per fortuna c’è il
telefonino…prodotto superfluo degli indotti dell’artificialità tecnologico–
economica, che ha assunto la condizione filosofica della necessità, anzi, della
indispensabilità. In verità, il telefonino cellulare, divenuto ormai
ineluttabilmente irrinunciabile, annuncia il segno profondo di una
antropogenesi, l’affermazione dell’individuo “felicemente” isolato, o vista da
altra visione del mondo, dell’uomo che finalmente può bastare a se stesso.
Quest’idea, che racchiude in sé, germi della presunzione illuministica e
potivistico–scientista, come di quella marxiana ed evoluzionista, pare
dominante e pervasiva. In realtà si tratta di una frode culturale che regge questa
ultramodernità. E’ una pretesa innaturale (se è vero che l’uomo è egoista, è
altrettanto vero che è un essere sociale, come insegna il Maestro di color che
sanno), antireligiosa e antisociale, anche sotto il profilo laico. Ma intanto è
passata, è stata ben digerita, interiorizzata. “Vittime” privilegiate, i giovani (ma
non solo), perfino i bambini delle elementari, che addestrati come sono alla
130
scuola “sapiente” della tivù, che precede la scuola noiosa dello studio e della
fatica, apprendono con facilità conoscenza e uso delle nuove tecnologie,
assieme a qualche anglismo, faticando – per contro – ad apprendere un uso
corretto, parlato e scritto, della lingua italiana. Per quanto riguarda l’incidenza
pedagogica dei new media e della televisione, un primo avvertimento
preoccupante viene da Neil Postman: «Mentre prima dell’era dei media
elettronici era consuetudine che i bambini si avvicinassero gradualmente, per
passi successivi – ad esempio nell’ambito della scuola – e in maniera
confacente al loro grado di sviluppo, ai “segreti” del mondo degli adulti, lo
spettacolo offertoci dal mondo dei nuovi media è cambiato radicalmente: per
loro tramite i bambini ottengono risposte a interrogativi mai posti e la categoria
dell’infanzia, intesa come specifico teatro di esperienze di socializzazione, viene
progressivamente meno, amalgamata qual è in un surrogato elettronico del
mondo, indistinto dal punto di vista della classe di età e permeato da messaggi
pubblicitari».92 La tesi dello scomparire dell’infanzia non va sottovalutata: la
pubblicità, la televisione via cavo, la commercializzazione e la privatizzazione
del mondo dei media stanno ad indicare che alcuni (troppi) elementi “dell’era
americana” sono entrati a far parte dell’ambiente europeo di socializzazione
(atteggiamento consumistico, ambienti musicali ecc.).
Bambini col cellulare che scimmiottano gli adulti, gli adulti della tivù,
soprattutto. Bambini col cellulare che, in un rapporto circolare col medium,
come gli adulti – e sospinti dagli adulti – entrano in competizione per entrare
nella pancia della tivù. Bambini…e giovani che gareggiano per emulare i
“maestri del sapere” che abbondano nella tivù. Giovani indaffarati a emulare
codici comunicativi e, ancor più, stili per apparire, propinati dai personaggi
televisivi. E chi non ci riesce? Al limite si getta dal terrazzo, o si consuma nel
degrado dei surrogati notturni, a base di “ultrasuoni”, alcol, droghe e forme
orgiastiche che richiamano un’era remota, sodomitica e pre–civile. Ne
conseguono anche morti tragiche, nella follia delle strade della notte. Ma
l’individualismo ultramoderno, per sua stessa genesi poco incline al senso
dell’altro, raccoglie ogni evento, anche tragico, come conseguenza del fato, come
sacrificio ineluttabile sull’altare del divertimento, dell’esigenza – altrettanto
innaturale e inumana – della festa continua. Il nuovo ànthropos, incapace di
solidarietà e compassione, è funzionale al “reggimento” di questa
ultramodernità globalizzante e omologante. E l’effetto più devastante della
mistificazione dell’idea di globale si legge nello sradicamento dell’uomo dallo
specifico culturale che gli è proprio per nascita, per destino. Ogni essere umano
92
N. POSTMAN, Provocazioni: obiezioni di coscienza in tema di linguaggio, tecnologia,
educazione, Armando, Roma 1989, p.86
131
è figlio di un luogo, di una storia, di una comunità di affetti o di destino, non il
risultato di un’astrazione globale. Può essere cittadino del mondo, in quanto
appartenente all’umanità intera. Ma non sarà un buon cittadino del mondo,
non avrà cura dei diversi, se non avrà appreso prima, l’attenzione per i simili, la
cura delle radici: in altre parole, il senso di appartenenza. Che il bisogno di
radicamento sia indispensabile a una vita sociale capace di produrre senso,
significati, lo dimostra “l’avventura” di tanti ex emigranti che, lasciati figli e
nipoti nel Paese che li ha ospitati per quasi tutta la vita, decidono di ritornare al
luogo natìo. E’ il “cruccio” fecondo della vicenda intellettuale di Ulderico
Bernardi, sociologo dell’Università di Venezia, ed è anche il presupposto
essenziale a una società multietnica pacifica: conoscere e conservare il
patrimonio delle proprie tradizioni, proteggendolo dalle intrusioni multimediali
di una globalizzazione strumentale e fasulla. La globalizzazione,
l’europeizzazione, sono prima di tutto, e soprattutto, un fatto economico, anzi,
finanziario, difficilmente intelligibile – peraltro – con le categorie dell’economia
classica. Lo sradicamento è funzionale all’idea del globale a tutti i costi, ed è in pari
tempo, il costo peggiore richiesto ad un gruppo umano. Così Simone Weil,
brillantissima e altrettanto sfortunata pensatrice francese, tanto cara al
sociologo e antropologo veneto: «lo sradicamento induce angoscia e genera
aggressività, e costituisce di gran lunga la più pericolosa malattia delle società
umane, perché si moltiplica da sola»93. Gli sradicati hanno solo due possibilità:
o perpetuare lo sradicamento, non avendo altro destino che sradicare, oppure
l’annichilimento morale e sociale, come per gli schiavi dell’antica Roma (o gli
schiavi sublimati del capitalismo avanzato, come ammonisce Marcuse).
Lo sradicamento sottolinea la perdita d’identità propinata
dall’omologazione multimediale, indifferente alle differenze, alle diversità, a
cominciare dai generi: maschi che “femminizzano”, basti pensare ai centri
estetici per le pratiche di abbronzatura o depilazione (per la giustificazione
concettuale di tali pratiche applicate ai maschi, qualche imbelle da palestra ha
liberamente interpretato perfino Lévi Strauss, magari rielaborando qualche
“dotto” commento tratto dalle significative riviste da barberia), e femmine che
mascolinizzano, con qualche difficoltà in più; perché dentro a culture a
dominanza maschile è oggettivamente più difficoltoso per una donna,
raggiungere i presunti successi di un uomo. Allontanato il ruolo identitario di
sposa e madre, la donna gareggia con l’uomo per i ruoli “di prestigio”, senza
dimenticare, possibilmente, il concetto estetico della bellezza femminile, anche
S.WEIL, L’enracinement. Prelude a une declaration des devoirs envers l’etre humain,
(1943), Gallimard, Paris, 1949; tr.it. di F. Fortini, La prima radice, Edizioni di comunità,
Milano 1973, p. 89.
93
132
questo rimanipolato secondo i modelli propinati dalle varie divette multimediali.
Ma non tutte diventano manager, professioniste di successo o veline …alle
“sfortunate”, rimane lo sradicamento che, spesso, assume i connotati della
bulimia o della anoressia, giusto per fare un esempio. Altro esempio che si
inserisce in questo triste solco della sottocultura dell’homo videns – come insegna
Sartori – è individuabile nel fenomeno piuttosto diffuso, della ricerca del
partner via internet. La rete, per sua stessa funzione, spersonalizzante, consente
di rinunciare all’esposizione fisica; al rischio di esposizione fisica, specie se ci si
considera poco avvenenti, o non corrispondenti ai criteri dominanti criteri di
apparenza. Luogo precipuo dell’irrealtà, concede sogni irreali, almeno fino a
quando non viene richiesta la “rivelazione”. A questo punto, sovente, le crisi di
identità esplodono, accompagnate da ormai diffusissime crisi depressive. Si alza
il sipario, e il “luogo” presentato, venduto come la via del villaggio globale
elettronico (altra mistificazione ben pubblicizzata), la strada dove tutti
incontrano tutti in un mondo felicemente irreale, mostra la sua faccia – questa
sì reale – fatta di miriadi di solitudini, incapaci di comunicare e abbandonate
nelle loro angosce. L’uomo di quest’epoca, risultato della sommatoria fra
evoluzionismo animale e “rivoluzionismo” elettronico, più individuo che
persona, fondamentalmente privo di lucida cognizione e affinato intelletto,
perché espropriato di memoria e di futuro, cioè di senso dell’altro, disvela in toto la
frode culturale dell’essere umano che può badare a se stesso.
2.4 Media di massa e scuola di massa: alcune considerazioni
Si dà per scontato che qualsiasi innovazione tecnologica significhi un
progresso. Anche la televisione, anche internet, dunque, significano un
progredire, quantomeno se ci riferiamo alla loro diffusione. Ma un progresso
che comporta una diffusione, un aumento, una crescita quantitativa, insomma,
è sempre un progresso? Giovanni Sartori, erudito professore, formato allo
studio d’altri tempi, suggerisce un avvertimento: «un miglioramento che sia
soltanto quantitativo non è un miglioramento; è soltanto un’estensione, una
maggiore grandezza o inclusione. Il progresso di una epidemia, e cioè la sua
diffusione, non è – per così dire – un progresso che aiuta il progresso.
L’avvertenza è, dunque, che un aumento quantitativo non migliora nulla se non
è accompagnato da un progresso sostanziale. Il che equivale a dire che un
aumento quantitativo non è un progresso qualitativo, e cioè un progresso nel
senso positivo e apprezzativo del termine. E mentre un progresso qualitativo
può fare a meno dell’aumento quantitativo ( e cioè restare nell’ambito dei
pochi), non è vero il contrario: la diffusione in estensione di qualcosa è
133
progresso solo se il contenuto di quella diffusione è positivo, o quantomeno
non dà perdita, se non è in perdita».94
Ora, se i più intendono la televisione come un medium che garantisce
possibilità ludiche, di spettacolo, come un progresso, nulla da obiettare; a patto
che non tutto sia trasformato in spettacolo. Ciò che emerge, invece, è la
tendenza dei palinsesti televisivi a spettacolarizzare ogni evento mediatico, dalle
partite di calcio ai miracoli, con una forza implosiva e distraente che inebria i
telespettatori del fascino del “visibile” sottraendoli costantemente al ricordo di
una quotidianità, spesso grigia e insoddisfacente. E’ la logica del paradiso
artificiale, che promuove la palingenesi dell’homo videns con tutto ciò che
consegue – come più volte ha dimostrato Sartori – e, prima di tutto,
l’impoverimento delle capacità di capire. Va da sé che meno uno capisce, meno
sarà capace di obiezioni critiche e, tale diminuzione, nel complesso, significherà
una perdita di libertà. Primo, grave regresso.
La televisione spettacolo, inoltre, ha prodotto una mutazione dei
comportamenti sociali, annullando tutta una serie di regole e di aspettative
socialmente inespresse ma interiorizzate da tutti, come un certo senso del
pudore, della discrezione e di quelle che, sicuramente fino ai fatidici anni
ottanta, andavano sotto il nome di buone maniere. Oggi, in televisione, si può
lavare ogni tipo di panno sporco, anzi, è diventata quasi una moda raccontare a
mezzo mondo i fatti propri. Un uso che, con automatica immediatezza, l’homo
videns ripropone nella realtà; una realtà quasi sempre meno reale e meno
“autorevole” della realtà televisiva. Al proposito è sufficiente rilevare che una
notizia trattata sul giornale, gode di un credito due volte inferiore rispetto alla
medesima notizia trattata in tivù. Un dato che la dice lunga in ordine
all’influenza del mezzo televisivo sull’opinione pubblica. Ma tant’è. Qualche
tempo fa, quando – per esempio - si viaggiava in treno, ci si curava di moderare
il tono della voce e di non dare segni di esuberanza in mezzo a sconosciuti, né
tantomeno di informare i viaggiatori sulla propria situazione sentimentale, o
sulle problematiche lavorative, memori, fra l’altro, del segreto d’ufficio. Adesso,
appartiene alla normalità raccontare via telefonino a interi vagoni i propri
impegni serali, le turbe amorose, vicende di pseudostudio universitario
(completamente ignari e indifferenti al fatto che anche qualche docente
universitario viaggia treno) e altro ancora. La considerazione più penosa però –
anche questa risultato della comunicazione multimediale in genere e non solo
televisiva – si ascrive all’uso orripilante della lingua italiana. Dato che fa specie,
se gli attori dello spappolamento dell’idioma di Dante e “compagni” sono
studenti universitari. Più indietro si è accennato al fatto che i bambini e i
94
G. SARTORI, Homo videns, op. cit. pp. 19-20.
134
giovani preferiscono la “scuola” televisiva alla scuola dei maestri e dei
professori. Spesso e volentieri perciò gli insegnanti vengono sostituiti dai più
attraenti “nani televisivi”, dai calciatori e dalle ballerine. E i risultati, almeno in
ordine all’uso della lingua, si vedono proprio tutti. Ma dire lingua, dire lessico e
grammatica, non rimanda solo a un dettaglio formale. Vale la pena di ricordare
agli autori delle ultime riforme di scuola e università (europeizzate, cioè
distrutte sotto il profilo qualitativo), e alla improvvida pletora di psicopedagogisti , loro consulenti, che povertà di linguaggio significa povertà intellettuale,
come ammoniva Vygotskij e, per questa via, povertà culturale. In altre parole:
la conoscenza rende liberi, l’ignoranza rende schiavi. Dunque l’incremento
dell’istruzione non accresce la libertà dei popoli? Vale quanto detto per la
televisione. Se l’aumento dell’istruzione si riferisce ad un aumento del tempo
trascorso a scuola o all’università, senza che a questo si accompagni una
crescita sostanziale, il risultato sarà positivo in quantità, non certo in qualità.
Ma una strana congiuntura storica che mette assieme l’eredità del positivismo
scientista (fermo su ciò che è misurabile, quantificabile, appunto) e quella del
giacobinismo garantista e internazionalista, ha prodotto in piena linea con i
tempi e i metodi dell’Europa Globale, l’opzione quantitativa; sacrificando, alla
causa di un improbabile universo culturale europeo, lo specifico della
tradizione culturale scolastica e universitaria, italiana. Lontani da infausti
nazionalismi, si vorrebbe solo qui ricordare che in Italia è nata la prima
Università del mondo, e che mediocri laureati italiani, all’estero ricoprono
incarichi di prestigio o sono titolari di cattedre universitarie; i migliori, dirigono
i dipartimenti e vincono i premi Nobel. Sembra paradossale: in nome
dell’Unione Europea si è pensato di dequalificare la formazione dei diplomati e
dei laureati italiani; o, meglio, con la scusa della storiella ormai consunta della
specializzazione facilitiamo lo studio universitario adeguandolo al resto dei
Paesi Europei (fatta eccezione, forse, solo per la Germania), e otterremo un
maggior numero di laureati “specialisti”(che suona anche tanto democratico!),
che ci garantiranno pure maggior forza “contrattuale” sul tavolo della casa
comune europea. Più laureati e più specialisti. Ma allora è garantita sia la
democrazia – le pari opportunità – sia la qualità! Per la qualità manca un
pezzetto. E questo pezzetto – sicuramente per le lauree umanistiche ed
economico–umanistiche – fa differenza, e non poca. Basti pensare che solo
fermandoci alla quantità dello studio, i dottori di precedente “fattura” possono
vantare una conoscenza assai più ampia e approfondita dei neolaureati postriforma; non si sono mai sostenuti esami all’università, apponendo crocette su
ipotetici test di conoscenza, poiché il presupposto era che un laureato desse
prova di saper “leggere, scrivere e far di conto”, dimostrando effettiva elevata
istruzione. Non è più così. In ordine alle esigenza di democrazia, ci riserviamo
un commento conclusivo. A sostegno delle obiezioni avanzate e a maggior
135
chiarezza del lettore proponiamo un commento di Carlo Sini, filosofo
dell’Università di Milano: «Il tentativo dell’Unione Europea è quello di mettersi
insieme per costruire una sorta di diga economica: se siamo tanti, possiamo
influire in maniera sensibile sul mercato finanziario. L’azione coordinata delle
banche centrali dei paesi europei può dar luogo, infatti, a un volume
d’intervento paragonabile a quello degli Stati Uniti, del Giappone ecc. Ecco,
l’Unione Europea è principalmente e sostanzialmente questo; il resto sono
parole e buone intenzioni verbali. Per un altro verso, l’Unione Europea è il
tentativo di creare una situazione di stabilità e di riequilibrio di fronte al
fenomeno, peraltro inarrestabile, della globalizzazione, così che esso consenta
al sistema e alla macchina capitalistica di continuare a essere in Occidente e nel
mondo, quello che è. Cioè un sistema che garantisce ai paesi più industrializzati
del pianeta un alto ed esclusivo livello di benessere. Per esempio (ed è un
esempio non poco significativo), un sistema che consenta di retribuire
globalmente moltissimo, cioè troppo, i suoi lavoratori e dipendenti. Anche da
noi ci sono situazioni di grande povertà e fasce di retribuzione molto modeste
rispetto al costo della vita, ma è un fatto che, mediamente, gli stipendi degli
statali, degli operai, degli impiegati dei paesi occidentali sono a dir poco
triplicati rispetto a quelli del resto della terra, del cosiddetto terzo mondo, dove
peraltro godere di uno stipendio è già un raro privilegio. Se parliamo di diritti
umani globali, viviamo quindi, in un regime di totale disequilibrio, e anche di
ingiustizia. In termini generali e appunto, globali, i nostri operai guadagnano
più di ciò che producono. Ognuno di noi, dipendente, salariato o dirigente che
sia, guadagna quello che non produce…Questa è l’Unione Europea; i suoi
scopi, facilmente condivisibili, e infatti largamente condivisi da un punto di
vista pragmatico, sono però privi di qualsiasi principio ideale, morale, di
progresso, d’invenzione, in una parola di civiltà e, meno che meno, di “spirito
europeo”. Affermare il contrario è fare delle chiacchiere”.
Dopo l’illustrazione lapidaria e precisa circa i reali intendimenti,
squisitamente economico–finanziari, che conducono all’Unione Europea e alla
globalizzazione mondiale, Carlo Sini toglie la maschera ai ridondanti e
frequenti ritornelli sulla tutela delle culture locali, dimostrando, nei fatti e,
specificamente, in ordine all’istruzione, che è vero l’esatto contrario». Le
nazioni finanziariamente più ricche guidano la locomotiva e impongono poi,
oltre al resto, tutta una serie di divieti, spesso anche demenziali (altro che
integrazione delle culture e salvaguardia dei valori storici e locali!). Si va dalla
proibizione dei forni a legna (cosa possono capire di come si fa una buona
pizza dalle parti di Amburgo…) al sistema universitario fondato sui “crediti”, la
cui demenzialità, soprattutto per le discipline umanistiche, oltrepassa la soglia
del credibile e del comune buon senso. Infatti, non mi è riuscito di crederci
136
sino a che non l’ho letto con i miei occhi (ma quanti in Italia ne sono davvero
al corrente, nonostante il gran parlare della stampa sulla famosa riforma
dell’università?). In due parole: il sistema prevede che lo studente consegua un
certo numero di crediti per laurearsi (già la parola crediti, questo gergo da
bancari, è un'altra di quelle invenzioni che parlano da sole). Quindi, ogni esame
sostenuto vale un certo numero di crediti. Per esempio; 9 crediti per l’esame di
filosofia teoretica. Bene. I crediti sono agganciati a un numero fisso di ore,
stabilito in modo convenzionalmente omogeneo. Per esempio: ogni credito è
uguale a 25 ore. Ora, cosa credete voi? A 25 ore di lezione, di seminario, di
esercitazione? Anche, ma per di più alle ore che lo studente impiegherà per
prepararsi all’esame, cioè per studiare. Come? In un’ora si considera possa
imparare in media 4 o 5 pagine. Non chiedetemi quale studente, con quali doti
di intelletto, volontà o vocazione, e non chiedetemi 4 pagine di che; questo
infatti non è previsto e non conta. Credo però che 4 pagine di un romanzo di
Liala o della Divina commedia, o della logica di Hegel, faccia una bella
differenza. Non interessa. Interessa il conto totale, che anzitutto dà il seguente
risultato. Per sostenere un esame di filosofia teoretica non sarà possibile
richiedere lo studio di più di 400 pagine circa. Fino all’altro giorno, se ne
studiavano obbligatoriamente almeno 1000. E poi, ognuno approfondiva
secondo i suoi interessi, le sue necessità, i consigli del docente, le sue
curiosità». La troncatura qualitativa si commenta da sola. «Non mangeremo
più la pizza, ma qualcosa che le somiglia molto da lontano e che sembra fatta
ad Amburgo – incalza Sini – e non avremo laureati in “Scienze umanistiche”
(altra dizione esemplare: la parola scienza dà garanzie e ispira serietà e fiducia,
come per la pubblicità del dentifricio) che abbiano letto un intero trattato di
filosofia o i poemi dell'Ariosto e del Tasso (notoriamente oltre le 400 pagine e
francamente un po’ lunghetti), ma solo qualche florilegio antologico, cioè un
riassunto espressamente composto per i nostri scienziati umanistici (le case
editrici, fiutato l’affare, si stanno scatenando in proposito), notoriamente
cagionevoli e delicati soprattutto nell’uso della vista. Se questi sono effetti o
conseguenze della nostra entrata nell’Europa della cultura comune, forse non è
insensato o peregrino pensare che avremmo avuto molto più vantaggio e
interesse a dire: no grazie. Fatevi l’Unione Europea, con tanti auguri; noi ci
teniamo le nostre università, i nostri licei, le nostre industrie, le nostre
fabbriche, il nostro turismo, la nostra campagna, le nostre pizze con i forni a
legna, pronti allo scambio con chiunque, pronti a imparare da chiunque, aperti
a chiunque ci sia amico e desiderosi di sempre nuovi amici, nella convinzione
che proprio questo sia il nostro modo, per tenere viva appunto, l’Europa, la
sua ricchezza multiforme, le sue tradizioni comuni e diverse, la sua storia
millenaria di continua trasformazione e confronto con le altre civiltà vicine e
137
lontane; nella convinzione che questa sia l’eredità spirituale e materiale
dell’Europa da salvare, e non un’unità astratta e miope, stabilita dai direttori di
banca e dal listino dei cambi. Ma per poter fare questa scelta l’Italia avrebbe
dovuto ancora possedere una coscienza civile e politica che l’uniformità
televisiva dell’informazione idiota e strumentale e l’interesse egoistico dei nuovi
ricchi di questo secolo, neppure lontanamente parenti dei mecenati del
Rinascimento, hanno largamente cancellato. Forse per sempre».95 Ma non vi è
dubbio, che il pessimo coniugio fra “miracolismo” liberista vestito di
totalitarismo tecnologico e giacobinismo garantista, rimane e rimarrà
completamente indifferente all’indignata e articolata ironia di Carlo Sini. I
“reggitori” dell’ultramodernità hanno definitivamente imboccato la via
quantitativa della storia, garantendo il perpetuarsi della cultura all’ammasso, in
perfetta linea con l’ammonimento hobbesiano: nella società moderna l’uomo vale per
il prezzo che ha. Per quanto vale, per quanto ha, non per ciò che sa. Nelle civiltà
comunitarie, allorché sopravveniva uno straniero benestante gli veniva chiesto
conto del come avesse fatto fortuna, delle ragioni etiche e qualitative della sua
ricchezza. Oggi, invece, conta: “quanto ricco sei, quanto soldi hai”. Questa
visione del mondo capovolta, deve molto della sua fortuna ai media di massa,
televisione in testa che, come è noto, costituiscono il sottosistema di un sistema
economico e finanziario, ancor più e ancor prima che politico. Come si è visto,
anche i codici comunicativi dell’economia dominante anziché porsi in relazione
feconda con i codici dell’istruzione e della cultura alta, vi si sono sovrapposti,
riducendo anche l’università a impresa. Ma l’università è (o era ) il luogo dove
si formano le menti migliori, e non un opificio industriale. Il verso totalizzante,
che sottende all’idea irreale della uniformità e dell’universalità delle culture,
plasmato di false garanzie di democraticità, assicura ai giovani un prolungato e
sicuro “soggiorno” di studio, incurante della qualità dello stesso. Sarà poi
ancora il mercato a decidere quali saranno i migliori laureati; magari quelli
“sfornati” dalle migliori università che, sicuramente (guarda caso ancora un
dato quantitativo), saranno quelle dove si paga di più. Tutto si tiene. Nel
frattempo, si evitano indesiderati aumenti del tasso di disoccupazione e si
consente alle università, poste, come le aziende, in concorrenza fra loro, di
sopravvivere, visto che (altro dato economico significativo) l’offerta di studio si
è moltiplicata e la domanda diminuisce, perché i giovani d’oggi sono davvero
pochini rispetto a 20 anni fa ( per una più dettagliata lettura sull’argomento che,
accanto alle dinamiche economiche, tocca i ruoli dei docenti e delle famiglie, si
rimanda volentieri a un precedente lavoro: Generazioni al Margine, Il Segno dei
Gabrielli, S. Pietro in Cariano (VR), 2002).
95
C. SINI, La libertà, la finanza, la comunicazione, Spirali, Milano 2001, pp.29-33.
138
Il dominio tecnoeconomico, che poggia dunque sul verso
“quantitativo” della storia, si propone di raggiungere mercati sempre nuovi. Per
questo, grazie all’azione dei media di massa, tende all’annientamento di ogni
patrimonio culturale locale, alimentando con la mistificazione del globale, il
concetto falso e illogico della universalità delle culture. Accanto a Carlo Sini,
anche Ulderico Bernardi ribadisce ad ogni piè sospinto che le diversità sono
ricchezza e che non esiste una cultura universale (che mondo noioso se
fossimo tutti uguali!). Esistono semmai, alcuni valori universali, e una miriade
di universi culturali – possibilmente – in relazione fra loro. Non è escluso,
perciò, che proprio l’omologazione culturale, filtrata attraverso lo
schiacciamento del “sapere alto”, che riduce le capacità conoscitive, cioè
critiche e libere degli uomini, costituisca l’esito funzionale di un’idea e a un’idea
inesistente; quella della cultura universale, appunto. Al riguardo, è sufficiente
pensare alla valenza attribuita all’informatica e all’inglese, presentati con la
fastidiosissima quanto tenace tecnica del martellamento pubblicitario, come la
nuova quint’essenza dello scibile umano. Più omologazione di così!
Lungi dall’apparire come i demonizzatori in toto della tivù (c’è stata
anche la televisione pedagogica del maestro Manzi, che diede significativo
contributo all’alfabetizzazione del Paese), né come i detrattori a priori delle
recenti riforme universitarie (il plurale è d’obbligo per il segno politico diverso,
anche se nella sostanza sono pressoché uguali), ci sia solo consentita qualche
breve riflessione sulle scelte pedagogiche e sul concetto di democrazia nello
studio, di diritto allo studio. La stagione degli “specialismi” – con qualche
riserva – si può accogliere per quanto riguarda le facoltà scientifiche e le
correlate esigenze del mercato. L’obiezione, a modesto parere di chi scrive,
inconfutabile, interessa il terreno delle facoltà umanistiche, oggettivamente
dequalificate. Le indicazioni di Carlo Sini e una miriadi di commenti reali ( non
di “radio” studentesca), sottolineano una realtà formativa in decadenza. Ora,
sorvolando sul fatto – non secondario – che metà dei laureati di quarant’anni di
età non svolgono un’attività corrispondete al titolo di studio, e che moltissimi
fra i neolaureati, specie nelle “scienze umane”, non troveranno la fortuna
professionale nemmeno di qualche buon diplomato di vent’anni fa (non è una
pretesa profetica: misureremo il tutto fra pochi anni!), ci permettiamo un cenno
sulla tanto decantata equità sociale dell’istruzione di massa, con riferimento
preciso, nella fattispecie, all’istruzione universitaria. A costo di sembrare
antidemocratici, tocca sottoscrivere le considerazione di Francesco Alberoni a
proposito di ricerca e università. Scrive il noto sociologo: Nel delicato passaggio
dal centralismo statale al federalismo e alla devoluzione, bisogna che il governo e il
Parlamento facciano prevalere il principio secondo cui lo Stato centrale ha il diritto e il dovere
di finanziare e tutelare le istituzioni scientifiche, formative e culturali di importanza
nazionale e di fama internazionale. Quelle che non possono essere divise, duplicate e che,
139
perdute, sono un danno per tutti…Ricordiamo che la grande scienza e la grande arte sono,
per loro natura, d’élite, e non possono essere lasciate in balia dei mediocri e in preda agli
appetiti e agli interessi particolari. Nella storia ci sono sempre stati costruttori e predatori. I
costruttori hanno edificato città, acquedotti, magnifici monumenti, creato manufatti preziosi. I
predatori nomadi non ne capivano nemmeno la funzione. Perciò saccheggiavano rubando quel
che potevano portare via e, il resto, lo davano alle fiamme. I tempi sono cambiati, sono
cambiati i protagonisti, i metodi, le giustificazioni, ma ci sono sempre costruttori e ci sono
sempre predoni.
Quel che Alberoni sostiene per la ricerca, vale per l’università. Se questa
deve ancora consegnare alla società le menti migliori ( non insuperbite ma
capaci di lavorare per un mondo sempre migliore! ), allora dev’essere protetta
statualmente, e non abbandonata alle dinamiche troppo spesso perverse del
mercato. Avessero fatto almeno questo, i “giacobini”. Ché è proprio della loro
cultura!
Non si tratta di celebrare l’elogio del classismo: forti motivazioni infatti
indirizzate nell’alveo di studio corrispondente alla propria vocazione o
proclività e il doveroso impegno richiesto dalla hegeliana fatica del concetto, hanno
consentito a migliaia di laureati – figli del Popolo – di raccogliere ottimi risultati
nello studio e nell’esercizio delle professioni (non erano richieste particolari
genialità!).
L’università va “protetta”, sempre – è ovvio – se il verso qualitativo
dell’istruzione, come delle relazioni umane, ha ancora un senso. Diversamente,
accettiamo con triste rassegnazione il passare di quest’epoca decadente. Per
quanto riguarda, infine, l’equità sociale dell’istruzione, bisognerà ancora
parafrasare in qualche modo Alberoni, affermando che garantire titoli di studio
a chiunque non è un atto di democrazia, ma significa trasformare i luoghi
deputati al sapere in agenzie di controllo sociale; nel senso che se allo studio
non corrisponde sostanza e sapere critico, la perpetuazione dei sistemi
dominanti – giusta o sbagliata che sia – non incontra mai motivi di
“turbamento”, di confronto, di dubbio, di crescita (non è che sia proprio
questa la morale di tutta la storiella?). L’unico atto di democrazia, consiste nel
garantire concretamente, effettivamente, anche ai figli delle classi meno
abbienti, dei contadini, degli operai, degli impiegati o del “ceto” medio – se
capaci e meritevoli – di diventare parti delle élite. Quelle che hanno prodotto
“cose belle”, nelle arti, nelle lettere, nelle scienze e nel pensiero. E, di solito, chi
è capace di realizzare “cose belle”, è anche piuttosto umile.
Per intanto, sempre parlando di giovani – che sono la realtà sociale
emergente, biologicamente prorompente, ma socialmente frammentata e
insicura – tocca considerare che il totalitarismo tecnologico, banditore di
felicità individuali e collettive, propugnatore di efficaci “medicamenti” per
coscienze e corpi, dal positivismo in qua, e rafforzato oggi dall’alleanza con i
140
new media, non “rilascia” i benefici promessi. Paul Virilio, filosofo francese di
origine italiana, dipinto come catastrofista ma, a ben vedere, capace di analisi
lucida e realista, taglia secco al riguardo, e senza sconti. La catastrofe
dell’umanità non è più imminente. E’ e basta. Qui e adesso: un lavoro in corso.
Fare finta di niente è la peggiore delle ipocrisie; anzi, no, la peggiore è
l’ottimismo: ché oggi non esistono più pessimisti e ottimisti, soltanto realisti e
bugiardi, pragmatici e mentitori. Ché questo mondo, dove il futuro non è più
un orizzonte praticabile, sta andando al suicidio: a Haifa come a Jenin, nel
World Trade Center come nello stupro/omicidio dell’ultimo borgo di
provincia. Di tutto ciò dobbiamo ringraziare il progresso senza regole, il
“vietato vietare” che ha permesso all’integralismo tecnico e scientifico di
imprigionarci (questa è anche l’opinione di Umberto Galimberti), garantendoci
l’illusione che si sia noi a utilizzarlo, mentre accade il contrario: ché noi illusi di
esserci, in realtà stiamo sparendo dentro il suo totalitarismo. Sono proprio i
giovani che trasmettono il sentimento di deriva che pervade questa società. Se
la mia generazione aveva di fronte un avvenire ridente e quasi ludico, questi
ragazzi hanno un sentimento del tragico che sembra molto in linea con l’oggi”.
Giovani malamente adulti, ammorbati da un’apatia coscienziale e affetti da
“ictus della conoscenza”, capaci di devianze terrificanti; e adulti infantilizzati,
videolesi da pretesa di giovanilismo perpetuo.
Circa alcuni delitti in serie di questi anni, gli psichiatri spiegano: i
protagonisti agiscono come se non avessero futuro; la distruttività scatta
quando il singolo si sente morto socialmente, quando sente di non esistere più.
Il delitto è vissuto come una sorta di apocalisse, nella quale tutti devono
morire, compresi se stessi. Ancora l’indice accusatore cade sulla tecnologia
multimediale e sulla televisione. Marco Lodoli, insegnate e scrittore, comunica
un pensiero atroce: “è in corso un genocidio di cui pochi si rendono conto. A
essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti (basti pensare agli effetti
delle droghe chimiche che in discoteca circolano come fossero caramelle alla
menta!), il bene di ogni società che vuol distendersi verso il futuro. Troppi
giovani sono perduti in una demenza progressiva e spaventosa. Crescono
rintronati dalla televisione, dalla pubblicità e dai miti bugiardi, da una promessa
di felicità a buon mercato”.
Crescono incapaci di distinguere il lecito nel possibile – aggiungerebbe
Ulderico Bernardi – poiché la confusione multimediale, si adopera in nome di
tutte le libertà, cioè del relativismo assoluto, per propinare paradisi artificiali
inesistenti, irrealtà reali solo sul video, azioni coercitive che esaltano ipotetici
successi individuali che, comunque apparterranno a pochi (pochi sulla terra
possiedono un aereo personale; pochi trascorrono la vita fra colazioni alla
“mulino bianco” e campi da golf, e pochi giocano a pallone come Roberto
Baggio) e intanto corrompono il sentimento di appartenenza a una comunità di
141
affetti, con l’annuncio falso e strumentale che basta volere, tutto è possibile!
Manca perciò il filtro fra ciò che è lecito e ciò che è possibile: perché è
possibile correre a 200 all’ora con l’auto ma non è lecito, dato il rischio di
mettere in pericolo la vita degli altri e la propria. E’ possibile assumere extasy,
ma non è lecito autodistruggersi ( o se volete, cinicamente, diventare un peso
sociale), almeno per quella visione del mondo fondata sul ricordo, a dire, su ciò
che come esseri umani ci unisce ai predecessori e ai sopravvenuti, a coloro che
nascono adesso. A meno che non si decida di cancellare una storia millenaria
per la conquista dei diritti civili e sociali, e di inaugurare la riedizione della
barbarie primitiva, del bellum omnium contra omnes.
Diagnosi di questo tipo, smontano sul nascere il pretestuoso annuncio
della moltiplicazione dei canali digitali come evento di grande pluralismo. Senza
considerare che anche sulle televisioni “ci salta su di tutto” (pornofili, pedofili,
ecc., e se ne ha voglia di invocare le autorità di controllo!), l’unico evento certo,
sarà l’accelerazione dell’inebetimento collettivo. Anche questo funzionale alla
tecnoeconomia? Il filosofo francese Virilio conferma: «La situazione è grave,
perché i ragazzi sono molto sensibili al bluff della propaganda scientifica – non
c’è solo la conoscenza scientifica, c’è anche la propaganda – fino a trasformarsi
in vere e proprie vittime delle nuove tecnologie, che possiamo chiamare
genericamente cybermondo (e il cybermondo è pieno zeppo di orchi!
Aggiungiamo). Ne divengono dipendenti. E’ come una droga che
spersonalizza. Tu pensi di giocare a un videogame o col telefonino, ma è la
tecnologia che gioca con te. Pensi di usarla ma è lei che ti usa. C’è stato il
tempo delle rivoluzioni, da quella americana a quella francese, fino a quella
russa, passando per quella industriale e dei trasporti: il primo orizzonte della
modernità. Poi c’è stato il tempo del terrore, delle guerre mondiali, calde e
fredde: il secondo orizzonte. Questo è il tempo dell’incidente, dell’ultimo
orizzonte, quello della fine. Non del mondo o della storia, ma del futuro. Di un
futuro deciso dall’uomo. Le catastrofi artificiali, attribuibili al progresso senza
regole, unica legge di un mondialismo senza legge, superano ormai, per
numero, quelle naturali. Scienza e tecnologia sono vittime della loro stessa
crescita, ché la quantità l’ha vinta sulla qualità. E scienza e tecnologia sono pure
rovina sociale, visto che il controllo globale dell’umanità non ha portato la
liberazione, ma piuttosto la divisione dappertutto: tra popoli, regioni, città,
Paesi, razze, religioni. Ma anche, e soprattutto, tra sessi, generazioni, fino in
seno alla famiglia».96
Il commento non potrà che essere ammonimento. Se non si vorrà che
la curva decadente, raggiunga voragini di sradicamento ancor più diffuse e
96
P. VIRILIO, L’incidente del futuro, R. Cortina, Milano 2002, pp. 77-79.
142
pronunciate, se si vorrà risalire la china in cerca di una nuova auspicabile
rinascenza, bisognerà adoperarsi con decisione sul versante della qualità. A
partire dalla qualità della vita, che significa in primis, tutela e rispetto della stessa,
dal suo stadio embrionale al suo tramonto; qualità dell’ecosistema; qualità nella
redistribuzione delle risorse, per evitare prospettive conflittuali fra i popoli;
qualità della scienza e della tecnologia; qualità delle attività produttive e dei
rapporti umani, informati da quella relazione feconda fra realtà sensibile e
realtà eterna che, per millenni, ha accompagnato il fare dell’uomo; qualità
dell’istruzione e, finalmente, qualità dei nuovi strumenti del “visibile” che, a
tutt’oggi, rischiano di espropriarci anche dei sogni. Se non si vorrà che i
posteri, raccontino anche di questa, come di un’era primigenia e terribile.
Quantomeno, ci riconoscano come appartenenti al genere dell’umanità.
2.5 Per un’etica planetaria del mercato
L’individuo competitore di questa nostra ultramodernità, quello che
“istintivamente” vede nell’altro un concorrente (quando non un avversario o
un nemico) ancor prima che una persona, è il risultato del parossismo positivo –
scientista, ancor più che dei lasciti del calvinismo; è l’esito del trionfo totalizzante
della tecnoeconomia. Totalizzazione, omologazione, globalizzazione. Termini
ricorrenti, adoperati ormai in modo indistinto, che rimandano con decisione
all’azione diffusiva e implosiva della tivù e dei nuovi media, incaricati di
diffondere il totalitarismo tecnoeconomico attraverso l’omologazione dei
consumi e degli stili di vita, con il conseguente annientamento delle specificità
culturali, proprie di ogni popolo. Del resto, l’individualista del mondo
tecnoeconomico e multimediale, vive proiettato nell’hic et nunc, spesso crasso,
volgare e godereccio, dimentico delle proprie radici e delle fatiche dei
predecessori e, forse peggio, indifferente al futuro di chi verrà, di chi nasce
adesso.
Sugli effetti di questa vision du monde interviene ancora il Nostro
antropologo e sociologo veneto, Ulderico Bernardi: «Oggi si fa più intensa
riflessione sulla memoria collettiva che è poi altro nome per intedere il
patrimonio culturale ereditario. Un approfondimento che si allarga al
significato della tradizione e al valore cardine della continuità. In ogni società
stabile, dove il “consenso attraverso il tempo” si mantiene fra le generazioni,
nella coerenza delle innovazioni dentro al mutamento sociale, anche l’elevato
tasso di associazionismo e di volontariato altruistico, indica la costanza di
riferimento al valore di continuità nella cultura di appartenenza. Al contrario
un tasso contenuto manifesta in qualche misura il distacco dall’appartenenza,
143
ed è indice di possibili degenerazioni. Queste possono andare dal “familismo”,
come riduzione dello spirito di comunità al breve cerchio della consanguineità
(le ricerche di Banfield del primo dopoguerra nel sud italiano, e il degrado
successivo), al vero e proprio sradicamento: quel lasciar cadere o lasciarsi
sottrarre ( dalle circostanze storiche, da una organizzazione politica ostile al
mantenimento della identità culturale nella tradizione e protesa alla costruzione
del cosiddetto “uomo nuovo”) il senso della patria, il valore della continuità nel
tempo, al di là dei limiti della esistenza umana. Quel valore che costituisce per
Simone Weil “il bene più prezioso dell’uomo, nell’ordine temporale”. La
continuità nel tempo è memoria incarnata. E a giusto titolo, poiché si traduce
in iniziativa personale, coerente alla assunzione di responsabilità soggettive, che
garantiscono il radicamento nella propria cultura».97
Qual è il mercato possibile, allora, per ridimensionare il dominio
totalizzante della tecnoeconomia e contenere i rischi di una propagazione dello
sradicamento, male sociale per eccellenza nella analisi di Simone Weil, capace di
accelerare l’infausta frammentazione dei legami sociali, con tutto ciò che ne
consegue?
Friedrich August Von Hayek (1899-1992) premio Nobel per
l’economia nel 1974, maestro del pensiero liberale e critico sulle esasperazioni
del liberalismo, nelle sue opere si è battuto fortemente contro l’idea di applicare
la tecnica dell’ingegnere alla soluzione dei problemi sociali. Si trattava di
contrastare la pianificazione centralizzata che costituiva l’asse portante del
totalitarismo, eufemisticamente definito “socialismo reale”. Ma il suo pensiero
si rivolge anche contro lo storicismo in economia che porta a ragionare in
termini di eventi unici. Riflessioni applicabili a un’attualità segnata dal dominio
del mercato tecnologicamente supportato. Nonostante la disfatta del marxismo
(siamo certi che le ideologie muoiano anche nel cuore degli uomini?), si fatica
ad abbandonare l’assioma che da Saint Simon passa in Lenin, della società
immaginata (o realizzata) come una grande azienda. Le tecniche non vanno
demonizzate, ma canalizzate da uomini di buona volontà per la vita sociale
moderna di altri uomini di buona volontà. La tecnica è un prodotto dell’homo
sapiens, e per scongiurare effetti disumani, è il caso che l’homo sapiens non
diventi un prodotto della tecnica. Raccomanda Von Hayek: «La società libera
si basa sulla divisione del potere. E’ per questo che può utilizzare più sapere di
quanto non ne potrebbe contenere il più saggio dei governanti. La sua forza
poggia sulla presa di coscienza dei limiti della scienza, (della tecnica e del
mercato, si può aggiungere). Il liberale sa – continua il premio Nobel – che il
mercato, al pari della scienza, è sempre innocente. Se qualcuno realizza profitti
97
U. BERNARDI, La nuova insalatiera etnica, op. cit. pp. 133-134.
144
vendendo armi o spacciando droga, colpevole non è il mercato, colpevoli sono
quelle persone che vendono e comprano armi, o spacciano droga, e disumana è
la loro etica. Da riformare in questo caso, non è dunque il mercato ma l’etica; e
inefficaci sono stati profeti, maestri e predicatori. Né è da pensare che il
mercato neghi la solidarietà. La Grande società, non solo può essere solidale
perché è ricca e quindi può permetterselo; essa deve essere solidale perché
avendo spezzato i vincoli che tenevano uniti gli individui nel piccolo gruppo,
cancella quella relativa sicurezza e quella protezione di cui godeva il debole: da
qui il dovere dello Stato di venire incontro ai bisognosi d’aiuto. Mercato e
solidarietà sono coniugabili. Non coniugabili sono, invece, mercato e
dissipazione delle risorse, mercato e corruzione, vale a dire mercato e
statalismo. E, da ultimo, il liberale non è anticlericale: a differenza del
razionalismo della Rivoluzione francese, il vero liberalismo non ha niente
contro la religione, e io non posso che deplorare l’anticlericalismo militante ed
essenzialmente illiberale che ha animato tanta parte del XIX secolo».98 Il
problema, dunque, è di natura etica. E politica. Di un’etica capace di rendere il
mercato solidale, anzi, compassionevole, nel senso etimologico e cristiano del
“patire assieme” ai bisognosi. E di una politica, finalmente capace di governare
l’economia; la tecnoeconomia. Specie in una realtà che, piaccia o meno, si farà
sempre più, multietnica. Ferruccio Bresolin, erudito economista dell’Università
di Venezia riferisce che fino al 1850 il rapporto di crescita popolazione/reddito
ha fatto registrare un “encefalogramma piatto”. Dal 1850 a oggi il PIL
mondiale è cresciuto di 19 volte e la popolazione di 6. Il 29 per cento che
costituisce la popolazione più ricca ha visto aumentare il proprio reddito di 6
volte; il resto della popolazione mondiale di circa 3 volte. L’Occidente ha
sviluppato elevatissima conoscenza in ogni ambito del sapere, e umanistico e
scientifico, ma dispone di poche risorse naturali. Il cosiddetto Terzo mondo
non ha sviluppato conoscenza ma dispone di incommensurabili risorse
naturali. Di qui, la “giustificazione” di tutte le imprese coloniali; almeno in
parte. Fino ad oggi, l’Occidente, meglio, le multinazionali occidentali o,
comunque, del Primo mondo, hanno drenato dal terzo risorse – materie prime
e prodotti agroalimentari, pressoché a costo zero – senza curarsi di assicurare
lo sviluppo di un tenore di vita dignitoso in quelle aree. Fatta eccezione per i
vari sanguinari africani, asiatici, sudamericani ecc. Adesso, succede che al
Primo mondo non bastano più le risorse naturali, ma servono le risorse umane,
la forza lavoro. Il Primo mondo “invecchia”, e i pochi figli, divenuti tutti dei
potenziali manager, “scolarizzano” fino a “tarda età”. Peraltro con esiti
paradossali: chi frequenta le scuole professionali – considerate a torto scuole
98
F. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, ed. italiana: La società libera, Vallecchi,
Firenze 1969, pp. 166-167.
145
“inferiori” – acquisisce mediamente ottima preparazione professionale, impara
a lavorare in buona sostanza; parte dei diplomati, invece, non impara a lavorare
e faticano assai nella difficile arte della conoscenza, nel senso che a stento
sanno leggere e scrivere. Ebbene, i terzomondiali sono necessari alle nostre
industrie ma, per evitare futuribili scenari conflittuali (storia insegna), è
indispensabile costruire in fretta dinamiche di integrazione sociale, magari sul
modello australiano, che prevede una struttura sovraetnica di valori condivisi
da tutti, a cominciare dai diritti fondamentali dell’uomo e da quelli proprii della
tradizione Occidentale (democrazia rappresentativa costituzionale, libertà di
religione) fino all’accettazione del libero mercato e, in pari tempo, garantire la
tutela degli specifici patrimoni culturali. Servono soldi e politiche
“comunitarie” ma, la fretta è cattiva consigliera e il tempo è tiranno.
Naturalmente, per facilitare un’esigenza così articolata e complessa, è
irrinunciabile una politica delle ”quote d’ingresso”. E qui iniziano i problemi
veri. L’immigrazione serve ma fa anche paura. Sembra un paradosso ma
purtroppo è così. La politica delle quote è importante perché, fra l’altro, serve a
contenere la paura del diverso e, con essa, il montare delle xenofobie. Ma è
assai difficile regolare i flussi. E’ difficile regolamentare il flusso della miseria e
della fame. Specie se prima li hai depredati e dopo hai fatto veder loro un
paradiso terrestre; per giunta irreale. Sì, poiché è noto che nel terzo mondo,
come nei paesi dell’economia in piano (ex Unione Sovietica), si muore di fame
ma non c’è buco abitabile che non disponga di una “parabolica”. Forse, per
tempo, bisognerebbe aver considerato i suggerimenti di certe associazioni
impegnate sul mondo del lavoro e del volontariato, promanazioni, soprattutto
del mondo cattolico (ricordo documenti delle Acli già negli anni settanta, solo
per fare un esempio). Lo sviluppo economico in loco, senza sradicare gli
uomini dalla propria terra, storia, cultura, tradizioni. La Comunità
internazionale avrebbe dovuto prodigarsi con sincero interesse per trasferire
democrazia e conoscenza, accettando, se del caso, anche livelli di vita meno
opulenti; che per l’Occidente non avrebbero significato povertà. Ora, accanto
ai processi di integrazione, che non saranno facili (specie con la cultura
islamica), sarebbe opportuno non sciupare il contributo emerso in occasione
del recente Forum Mondiale Nord-Sud, svoltosi lo scorso mese di ottobre nella
Pontifica Università Regina Apostolorum di Roma e promosso dalle Scuole
Mondiali di etica ed economia, filiazioni della Scuola di Etica ed Economia di
Bassano del Grappa istituita dai docenti universitari, Ulderico Bernardi e
Ferruccio Bresolin e dal professionista Tullio Chiminazzo, che potremmo
riassumere con questo avvertimento: o, accanto ai capitali, siamo disposti a
trasferire nei paesi poveri anche la conoscenza, al fine di favorirne lo sviluppo,
oppure attendiamoci un esodo biblico verso l’Europa, assolutamente non
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regolamentabile o prevedibile, e che nessun esercito del mondo (Dio non
voglia) potrà fermare.
A conclusione del paragrafo, quale occasione di riflessione e traccia per
una pista forse ancora percorribile, si propone una sintesi del documento finale
del Forum, inviato a tutti i Capi di Stato e di Governo del Mondo: I delegati del
movimento mondiale delle Scuole di Etica ed Economia, considerato, che per effetto
dell’accelerazione della mobilità umana e dell’evoluzione tecnologica diventa fondamentale per
ogni cultura del mondo consolidare la propria identità culturale e sociale, ai fini di una
feconda partecipazione al dialogo planetario; rifiutando ogni tentazione di autarchia
economica che può solo aumentare la povertà e la chiusura localistica; vedono nelle Scuole
di Etica ed Economia lo strumento più efficace per la diffusione delle conoscenze e della
cultura di responsabilità imprenditoriale, fattore questo che può far decollare sistemi economici
altrimenti emarginati, attraverso una crescita endogena ed auto propulsiva, fondata sui valori
proposti dalla dottrina sociale della Chiesa, che guarda al lavoro umano come ad un altissimo
valore non riducibile alla sola dimensione di necessità. La progettualità etica ha quale
presupposto la valorizzazione delle risorse umane e naturali in ogni comunità locale che abbia
la volontà di costituire quell’accumulazione primaria di capitale “sociale” che è fattore
essenziale, insieme alla moralità delle istituzioni, per realizzare uno sviluppo equilibrato.
L’intento collettivo dei partecipanti al secondo Forum mondiale “Nord-Sud”, in una
prospettiva di formazione consapevole della complessità dei fenomeni interagenti nella realtà
contemporanea, che vede milioni di uomini ed una pluralità di culture sempre più a contatto
– per effetto delle migrazioni economiche, della ricerca di rifugio politico, per la fenomenologia
turistica – è quello di propiziare non una società mondiale di consumatori ma una realtà
planetaria che veda la crescita del tenore di vita di tutti gli esseri umani.
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3. APPENDICE
Forse perché ti hanno insegnato a onorare il padre e la madre. Forse
perché sei nato in Occidente in un tempo di pace e ti hanno insegnato che la
tolleranza, anzi, il rispetto è un valore da vivere ovunque, nei confronti di
chiunque, perché tutti gli uomini sono figli di Dio. Forse perché hai compreso
che era cosa buona indossare l’uniforme e fare il soldato, non per la guerra,
anche se si fatica a crederci, né per i soldi, ma semplicemente per restituire
qualcosa a quelli che sono morti per la tua libertà; anche per la tua libertà. Per
quel sentimento di legame a una comunità di affetti che sorregge la “continuità
attraverso il tempo”, come la chiama Ulderico Bernardi, e che non ti fa sentire
solo, e ti fa pensare che non tutto finisce, non tutto passa, e che la
stupefacente, benefica invasione di colori delle giornate d’autunno che dagli
occhi vanno direttamente al cuore per solleticare la memoria, ha la forza e la
gioia dell’Eterno. Forse perché c’è stato un certo Gesù di Nazareth che, fra le
altre, ha fatto una fatica imponderabile per divinizzare il corpo, e allora quando lo
violentano, lo dissacrano, lo svendono il corpo, fai fatica anche tu a non
provare disprezzo. Quando ti dicono che in Parlamento Europeo ci sono voci
“possibiliste” circa l’accettazione di una "dose minima di pedofilia”, che
potrebbe significare, quantomeno, una riduzione della pena, fai fatica a non
montare in collera viscerale, autentica. Certo, Robert K. Merton, brillante
sociologo e scrittore americano, specialista dell’analisi funzionale, sosteneva, a
ragione, che non tutte le istituzioni svolgono funzioni immutabili e
indispensabili e che i fenomeni sociali non sono immutabili.99 Ma se tocchi i
bambini fai un salto nel terrore della notte dei tempi e in un batter d’occhio
annienti il cammino della civiltà. Ché non è nella civiltà violentare la parte di te
che continua. Come non è nella natura affidarli a “coppie di uguali”, dello
stesso sesso; capaci d’affetto fin che si vuole.
Bisogna fare attenzione al fatto che i fenomeni non sono immutabili e
certe istituzioni non indispensabili, perché, su questa strada, fra qualche tempo
a qualcuno potrebbe venire in mente che potremmo riproporre la
legalizzazione della prostituzione infantile! E mi pare che si sia già “visto”, e
che sia appartenuto ad un’età ancora primeva e terribile, nonostante la Firenze
del Quattrocento. E, per bandire tale pratica barbara, immorale e pre – civile, ci
volle l’opera tenace di una straordinaria figura del Rinascimento, Girolamo
Savonarola, uno di quei rari spiriti eletti che fanno della cultura del mondo, un
sentiero alto. Altro che prete oscurantista! Perciò, se si parla di civiltà, ci deve
pur essere un’istituzione indispensabile, almeno per proteggere i bambini. Non
99
R.K. MERTON, Teoria e struttura sociale (1968), il Mulino, Bologna 1970, pp. 98-100
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solo per proteggere i cani! Cominciando, magari, a cancellare l’equivoco
terminologico: pedofilia, infatti, sta per “amore per i fanciulli, verso i fanciulli”;
mentre, come suggerisce Umberto Galimberti, bisognerebbe attribuire alle
aberrazioni sessuali “coperte” da tale equivoco, la loro giusta dominazione:
pederastia, o pederastìa.
Forse per quel Gesù di Nazareth che ha divinizzato il corpo, pensi a
quelli morti per la libertà e la democrazia, a quelli che si sono massacrati tra
fratelli dimentichi della Sua pietà, della pietas cristiana, ammorbati dall’odio e
dalla vendetta. O all’esercito degli straccioni, come li appella Carlo Sgorlon, che
esprimendo barbarie inaudite e sconosciute ai soldati italiani hanno riempito le
foibe dell’Istria e del Carso di corpi…ancora corpi che, in gran misura, con i
fascisti non c’entravano niente. E pensi che quasi tutti quelli nelle foibe, come
quelli in Africa, o come i tuoi fratelli Alpini in Grecia, Albania, Russia, sono
morti stringendo in mano un pezzo di rosario, o portando sul corpo, sul petto
il segno di quel Gesù di Nazareth. E allora ti ricordi che l’Occidente è
tollerante e ha rispetto, per via di quella croce. Anche se c’è ancora chi invoca
John Locke per escludere i cattolici dal principio generale di tolleranza, come
fossero cittadini di uno stato straniero. E ti ricordi che non ci sono i tabù
alimentari né si lapidano le adultere; e le donne hanno la stessa dignità degli
uomini, anche se c’è voluto del tempo…sempre per via di quella croce. Che
tocca sopportare anche il relativismo assoluto che invoca tutte le libertà,
comprese le contraddizioni, cioè le violazioni del primo principio etico e laico
della cultura Occidentale. Che tocca sopportare, a volte, un senso di
abbandono esistenziale, risultato del totalitarismo di tutti gli “ismi”, compresi
quelli culturali, economici, tecnologici, delle multinazionali, della
multimedialità, della tecnoeconomia. E, accettare, pure coloro che pensano che
lo Stato sia un dimensione astorica, astratta, metasociale, dal quale promanano
tutte le provvidenze, come in una fiaba… sempre per quella croce. E ti sorge il
dubbio che una certa aura decadente che tocca questa parte di mondo, abbia
radici nella dimenticanza, nello smarrimento della propria identità. A
cominciare da talune confusioni storiche e culturali. Come se il trinomio
giacobino: libertà, fraternità, uguaglianza, assunto della modernità laica, fosse
un conio originale di Gian Giacomo Rousseau, e non concetti che hanno
cambiato la storia dell’umanità proprio perché arrivati direttamente da quello
che ci è andato, su quella croce. E la dimenticanza e nell’uomo e ne’ popoli perde e la
libertà e la nazione; perché il senso della nazione non è che memoria, scriveva un grande
della letteratura italiana, certo Niccolò Tommaseo.100 Forse perché ti hanno
insegnato il perdono, sempre per quella croce, ma è davvero dura perdonare i
traditori e i rinnegati di questa fantomatica Unione Europea. Ché già ti tocca
100
N. TOMMASEO, Del presente e dell’avvenire, Sansoni, Firenze 1968, Tomo I, p. 8.
150
star zitto quando sai di qualche pseudoinsegnante di religione nel mondo laico,
agnostico o ateo, che testimonia poco e striscia molto lungo le pareti della
scuola…ché tanto lo stipendio non è male se poi basta fare poco o nulla. Forse
perché devi aspettarti un intellettuale laico, un professore come Galli Della
Loggia che vada a spiegare perfino ai preti che il simbolo della croce è un
simbolo identitario perché simbolo religioso e non viceversa. E sì che i mass
media occidentali non li trattano granché bene i preti. Quando poi ne colgono
qualcuno in atteggiamento diciamo così, poco morale, si scatenano le false
coscienze, si danno grancasse alle dissonanze cognitive, per giustificare le
proprie ipocrisie e miserie. I media occidentali in genere, diversamente dalle
altre religioni, riservano al Cristianesimo un trattamento assai sprezzante. Dice
Ratzinger che c'è un odio di sé dell'Occidente che è strano e che si può
considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta, pieno di
comprensione di aprirsi a valori esterni, ma non ama più se stesso; così la
multiculturalità diventa solo rinuncia a se stessi. Forse perché un laicismo ateo
e massonico tenta di cancellare ogni riferimento fondante e ineluttabile
dell‘Europa moderna e civile, mentre qualche saggio musulmano afferma che la
perdita di identità dell’Occidente fa male anche ai mussulmani perché li rende
insicuri. La paura della secolarizzazione? Peggio, del secolarismo? Forse per
questa Europa vile e cristofobica… e c’è voluto un ebreo per segnare
l’irrinunciabilità della radice cristiana:” Un’Europa che non ha paura né imbarazzo a
riconoscere il Cristianesimo come uno degli elementi centrali nell’evolvere della propria civiltà,
è un’Europa che nel discorso pubblico sul proprio passato e sul proprio futuro recupera la
ricchezza che può essere offerta da un confronto con una delle sue principali tradizioni
intellettuali e spirituali: la sua eredità cristiana, particolarmente viva nell’epoca postconciliare,
e con un Pontefice che per la profondità del suo magistero non è secondo a nessuno nella
circostanza storica attuale”.101 E, a proposito di ebrei, è bastato qualche decennio
in questa Europa “televisiva” e smemorata per ridare fiato all’odio antisemita: e
allora ti sembra che non sia più finita, e che la storia non sia stata per nulla
maestra, e che troppo presto si sia celebrata la fine delle ideologie; mentre sono
lì, che allignano nel cuore degli uomini, pronte a riesplodere.
Forse perché mi hanno sempre parlato dell’Occidente predone – che è
anche vero – ma è anche vero che i Paesi Islamici dispongono del quaranta per
cento delle risorse del pianeta con il venti per cento della popolazione
mondiale. “E che ciò non ha significato benessere e modernizzazione per i
popoli. Le caste al potere si sono ubriacate di privilegi e abusi. Mentre lo
scontento delle plebi veniva aizzato contro l’Occidente e contro Israele (unica
democrazia in un mare di dispotismi) presentati come causa della miseria e
dell’oppressione”. E allora non sono colpevoli solo i predoni occidentali, ma
101
J. H. H. WEILER, Un’Europa cristiana, Jean Monnet Center, New York 2003, p. 14.
151
anche i sanguinari e gli sfruttatori che proclamano la “guerra santa” dalla
“Casa dell’Islam”! Forse perché c’è voluto un giornalista coraggioso come
Antonio Socci, per ricordarci che dei 70 milioni di cristiani ammazzati in
duemila anni, oltre 45 sono stati martirizzati nel XX secolo102, e che forse è
diffusa una profonda intolleranza anticristiana di cui diversi rinnegati europei,
dalle istituzioni ai media, non danno conto. Forse perché è giusto lasciar
pregare i credenti di un’altra religione anche se bloccano una città. Se sei
liberale e tollerante, è giusto. Ma ti aspetteresti almeno un po’ di reciprocità. Ti
aspetteresti che almeno nei paesi musulmani, definiti “moderati”, attribuzione
giornalistica, concettualmente sbagliata, falsa e strumentale, poiché, anche nella
scienza politica, il concetto di “moderazione” è legato a quello di democrazia.
Ed è piuttosto arduo e scientificamente rischioso attribuire il concetto di
democrazia a sistemi di governo che ricordano da vicino le monarchie assolute
o gli assolutismi di Stato (salvo poche eccezioni). Al riguardo si consiglia la
lettura di Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu (De l’esprit des lois
1748). Ti aspetteresti, insomma, almeno in questi “paesi moderati”, che si
esercitasse il principio della reciprocità; per esempio che non ci fossero
migliaia di conversioni forzate di cristiani all’Islam (l’Egitto “moderato”), o che
un cristiano possa leggere il vangelo a casa propria senza incorrere in un
arresto. Nell’Egitto moderato e nella moderata Tunisia, non esiste una sola
licenza edilizia per la costruzione di chiese, di luoghi di culto cristiani. E mi
pare, che nelle “terre degli infedeli” le moschee si possano costruire! E allora ti
viene il dubbio che l’islam della migrazione economica stia “coltivando
l’entrismo”, contando sul differenziale demografico. Ma è vero che i fenomeni
non sono immutabili. Anche da noi, infatti, i buoni lavoratori, gli immigrati
islamici di buona volontà, iniziano ad adattarsi alla nostra natalità; cioè alla
denatalità. In Veneto nascono circa 43 mila bambini all’anno (metà rispetto agli
anni del baby boom), e solo il 7 per cento sono figli di immigrati, i quali
contribuiranno a questa “stabilità”; diversamente, già nel 2015 noi
scenderemmo a 30 mila nati per anno. E, forse, ancora una volta per quella
famosa croce, penso che ogni musulmano di pace e buona volontà, sia mio
fratello, e che possa avere rispetto di quella croce più di tanti Occidentali
rinnegati. Certo, i cristiani devono essere ottimisti, costruttori di pace, portatori
di pace. Però è necessario che uomini e donne possano contare su effettive pari
dignità; che Stato e religione rimangano separati; che non vi sia costrizione
alcuna nella religione (lo dice anche il Corano). Però, per essere certo di questa
pace, vorrei incontrare gli eredi di una cultura che va da Avicenna a Mahfuz,
dai saggi di Cordoba a Ibn Khaldun, ai Sufi; non gli invasati dei campi di
Peshawar, plagiati e mentalmente devastati, come hanno riferito più volte le
102
A. SOCCI, I nuovi perseguitati, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2002, pp. 72-73.
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loro stesse madri; né i portatori di morte di Nassiryia, ché l’idea di un paradiso
popolato di sangue e odio, non pare granché mistica. All’Europa dei rinnegati,
vale la pena di ricordare che anche questi, nostri ragazzi, avevano la croce sul
petto, che è ciò che è sempre stata: un simbolo d’amore, un simbolo di vera
pace. Con quella piccola croce sospesa fra spalla e cuore, Teresa di Calcutta ha
amato e si è fatta amare da mussulmani e indù.
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