NOTA INTRODUTTIVA Questo libro nasce da un singolare incontro fra esperienze didattiche diverse: la trattazione della problematica della comunicazione all’interno di un corso di formazione tecnica superiore (IFTS) con i relativi risvolti in un ambito sociale avanzato qual è quello attuale, caratterizzato dall’ipermedialità e dal “diluvio informazionale” (per riprendere una celebre definizione di Levy) e la parallela attività didattica di sociologia della religione nella Facoltà teologica di Padova. Due temi, due ambiti sostanzialmente diversi, con prospettive diverse. Eppure, la considerazione metodologica e manualistica costituita dalla prima parte finisce per illuminare in maniera suggestiva l’originale opera di ripensamento in chiave critica di alcuni fatti della contemporaneità (o della società che ama definirsi complessa) in maniera così stringente che i due autori hanno pensato di farne un corpo unico. Ne è nato un testo agile, necessariamente didattico nella prima parte, argomentativo, ragionato nella seconda. 1 Antonio Lionello ha curato i capitoli dedicati alle sezioni della comunicazione ipermediale. Giuseppe Manzato ha curato i capitoli della sezione critica. Gli autori ringraziano il chiarissimo professor Ulderico Bernardi per avere impreziosito questo lavoro con la sua erudita presentazione. Si ringrazia inoltre il dottor Gianni Costantini e la dottoressa Annalisa Mauriello per la supervisione al testo. Si ringrazia, inoltre, Carlo Melina, laureando in Scienze della Comunicazione all’Università di Bologna per il contributo nella stesura del capitolo Vivere on–line. 2 PREFAZIONE Communicatio facit civitatem. Ora più che mai, in una società che si trova a fronteggiare processi d’una invasività mai prima conosciuta. Il dialogo, l’interazione fra soggetti rischiano d’essere travolti da un uso spregiudicato ed iperaccentrato d’ogni strumento di comunicazione sociale. Uno degli aspetti che creano maggiore preoccupazione in chi ha a cuore la promozione della persona umana, rispettata e onorata nella sua appartenenza sociale e culturale. L’inciviltà, la volgarità, talvolta la disumanità che la comunicazione assume nella nostra epoca sfacciatamente rivolta all’esibizionismo e alla spettacolarità, è sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Che intuisce, pur con scarse possibilità di opporsi, i pericoli conseguenti allo stravolgimento del dialogo, dal quale vengono estromessi miliardi di esseri umani., lasciando campo unicamente ai detentori del potere tecnologico e informativo. Una situazione senza scampo, che accresce il divario tra le diverse aree del pianeta, mentre esaspera gli squilibri, e con questi l’insofferenza verso chi mostra di tenere in nessun conto il principio basilare del dialogo universale. Che ammonisce: chi scambia, cambia! Da cui discendono l’efficacia e la valorialità della comunicazione reale, nella sua essenza generativa di spirito di comunità, e l’adattamento reciproco, su cui fonda la stabile e positiva relazione tra popoli, culture e generazioni. È questo lo scenario ideale entro cui si collocano le ricerche, e il presente lavoro, di Antonio Lionello e Giuseppe Manzato. Un ambito benemerito d’indagine nel momento in cui preme la necessità di individuare i punti di crisi del sistema internazionale di relazioni, tra i quali, senza ombra di dubbio, si colloca con una sua vistosità la problematica della comunicazione. Da cui viene a dipendere il grado di conoscenza reciproca, che è, comunque, la premessa d’ogni dialogo concreto, e la costruzione o ri-costruzione della comunità mondiale in termini reali e non virtuali. Per tentare di sconfiggere o quanto meno di allentare la morsa dei cento affanni - dalla guerra alla fame, dalla salute alla mancanza d’istruzione - che affliggono larga parte dell’umanità. Importante il richiamo, da parte degli autori, alla necessità di preservare le comunità locali dallo sradicamento, indotto da una lettura del divenire appiattita sull’unica dimensione dell’avanzamento tecnologico, nell’indifferenza alle esigenze d’ordine umanistico, sentimentale, antropologico, spirituale. 3 Nodo d’una riflessione critica più vasta, che s’allarga ad individuare i diversi aspetti d’una fenomenologia complessa, impasto di conquiste scientifiche e di costi umani. Particolare attenzione viene prestata, e giustamente, ai giovani. Cioè a chi si colloca anagraficamente alla frontiera del futuro, con tutte le opportunità e le responsabilità che questa posizione comporta. Pare doveroso a chi introduce, su gentile sollecitazione degli Autori, segnalare come questo libro di Lionello e Manzato si presti a una duplice, vantaggiosa, possibilità di utilizzazione: didattica, in primo luogo, per un’adeguata preparazione degli studenti; ma poi anche quale valido strumento di conoscenza, per qualsiasi persona che avverta il bisogno di orientarsi dentro a questioni oggi all’apice del dibattito mondiale. Coinvolgendo problemi di potere e di servizio, di formazione e d’informazione, di governabilità e di emancipazione umana. Ca’ Foscari, dicembre 2003. Ulderico Bernardi 4 SEZIONE 1 LA COMUNICAZIONE E LA COMUNICAZIONE DI MASSA 5 6 1. COMUNICAZIONE E TEORIA DELL’INFORMAZIONE Affrontare in una prospettiva sociologica il tema della comunicazione richiede preliminarmente che se ne definisca il concetto. Sebbene la comunicazione sia un fenomeno centrale della vita sociale, essa è stata affrontata dalla sociologia in tempi relativamente recenti. Discipline come la psicologia, la semiotica, l’ingegneria, la linguistica e la filosofia, invece, se ne sono occupate fin dalle loro origini. Il tema della comunicazione è divenuto centrale in sociologia quando sono diventati oggetto di studio i mass media. In via del tutto generale e preliminare potremmo definire la comunicazione il passaggio o trasferimento di informazioni da un soggetto (la fonte, l’emittente) ad un altro (il ricevente, il destinatario), per mezzo di veicoli di varia natura: ottici, acustici, elettrici, idraulici. L’informazione trasmessa può essere codificata oppure no. Nel primo caso l’informazione intenzionalmente codificata può riguardare oggetti (segni) che «stanno per» un determinato evento, idea, oggetto (che soltanto quello e non altri rappresentano). In tale accezione, che è quella che ci riguarda, il campo della comunicazione si restringe alle informazioni linguistiche e non linguistiche, verbali e non verbali, intenzionalmente e stabilmente sistemate in uno o più codici. Le prime ricerche in ambito massmediologico hanno assunto il modello informazionale come base delle investigazioni dei processi comunicativi. Il modello informazionale è quello derivante dalla teoria dell’informazione di Shannon e Weaver1 elaborata nel 1949. Il termine comunicazione è assunto dagli autori nel senso ampio per comprendervi tutti i procedimenti attraverso i quali un pensiero può influenzarne un altro. In tal senso vengono compresi non solo il linguaggio scritto e parlato, ma anche la musica, le arti figurative, il teatro, la danza e, di fatto, qualunque comportamento umano. Nella sua forma semplificata il modello è costituito da una fonte di informazione che emette un messaggio che viene codificato in un segnale attraverso un apparato trasmittente. Il segnale viene veicolato attraverso un canale (il quale può essere disturbato da un rumore) al termine del quale è posto un apparato ricevente che decodifica il messaggio rendendolo disponibile per il destinatario. C. E. SHANNON – W. WEAVER, La teoria matematica delle comunicazioni, Bompiani, Milano 1971 tr. it. di Paolo Cappelli (Titolo originale dell’opera: The Mathematical Theory of Communication, University of Illinois Press 1949). 1 7 Schema di Shannon e Weaver Messaggio Fonte Segnale Trasmittente Segnale ricevuto Canale Ricettore Messaggio Destinatario Rumore Segnale: in una relazione Io-Tu il segnale è qualsiasi cosa detta, fatta o mostrata (o anche non detta, non fatta, o non mostrata) che proviene dal Tu e che colpisce un organo di senso: tanto ciò che si dice effettivamente, quanto ciò che si potrebbe dire. L’informazione è una misura della libertà di scelta che si ha quando si sceglie un messaggio. Il concetto di informazione non si applica ai messaggi particolari (come vorrebbe il concetto di significato), ma piuttosto all’informazione intesa come un tutto. L’unità di informazione sta ad indicare che in questa situazione si ha una quantità di libertà nella scelta del messaggio che è conveniente considerare come una quantità standard o unitaria. Rumore: in rapporto all’informazione (che ha comunque un contenuto significativo) contrapponiamo il rumore come ciò a cui non siamo in grado di assegnare un significato (“Ti sono grato” può essere un rumore per il premio Nobel australiano che non conosce una parola di italiano). Codice: l’espressione “Ti sono grato” ha significato per un bambino italiano perché conosce il codice. Più i codici che conosciamo sono molteplici ed estesi, più riusciamo a trarre informazione dall’ambiente che ci circonda. Canale: il canale è una via attraverso la quale le informazioni possono essere trasmesse dall’emittente al ricevente. Il modello ebbe una grande fortuna anche al di fuori dell’ambito informatico a motivo della sua semplicità e generale applicabilità a forme comunicative fra animali, fra uomini, fra macchina e uomo e fra macchine. Il successo e la diffusione di questo modello sono legati all’intreccio fecondo con le funzioni linguistiche (funzione emotiva, conativa, fatica, metalinguistica, poetica, referenziale), individuate dal linguista Jakobson che ne hanno permesso un largo utilizzo all’interno delle problematiche della comunicazione. Occorre tuttavia sottolineare il limite di questo modello: esso presuppone infatti che l’informazione venga trasferita integralmente, mentre, in 8 realtà, possono accadere delle distorsioni o delle «decodifiche aberranti»2. Inoltre questo modello non tiene in considerazione i contenuti semantici dei messaggi. Al fine di superare tali limitazioni si è reso necessario inserire il problema della significazione: il modello informazionale è stato così integrato dal modello semiotico-informazionale. Il modello mette in discussione due presupposti fondamentali: 1) quello secondo cui l’informazione è definibile come ciò che rimane costante attraverso tutte le operazioni reversibili di codifica e traduzione 2) quello secondo cui l’informazione si propaga secondo un codice uniforme e comune a emittente e ricevente. Schema di Eco-Fabbri canale Messaggio = sig.ante + sig.ato Fonte Codice Messaggio = sig.ante Destinatario Messaggio =sig.ato Codice ottocodici Sottocodici Tra il messaggio codificato alla fonte e il messaggio ricevuto da destinatario possono intercorrere molti elementi di difformità. Il modello di Eco e Fabbri deriva dall’intersezione del problema della significazione con quello comunicativo elaborato dalla teoria dell’informazione. La chiave centrale di questo modello è costituita dalla decodifica da non intendersi come operazione complementare alla codifica. Scrivono Eco e Fabbri: «A seconda delle diverse situazioni socio-culturali, esiste una diversità di codici, ovvero di regole di competenza e di interpretazione. E il messaggio ha una forza significante che può essere riempita con diversi significati, purché esistano diversi codici che 2 La problematica della decodifica aberrante è stata sviluppata da U. ECO et al. in Prima proposta per un modello di ricerca interdisciplinare sul rapporto televisione/pubblico, Perugia 1965; ECO, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968; U. ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975; STUART HALL, “Le message televisuel: codage et décodage”, Education et culture, 5; P. FABBRI, “Le comunicazioni di massa in Italia: sguardo semiotico e malocchio della sociologia”, Versus 5, 1973. 9 stabiliscono diverse regole di correlazione tra dati significanti e dati significati. E qualora esistano codici di base accettati da tutti, si hanno differenze nei sottocodici, per cui una stessa parola, capìta da tutti nel suo significato denotativo più diffuso, può connotare per gli uni una cosa e per gli altri un’altra»3. Per intendere compiutamente il passo che abbiamo letto ricordiamo che significanti sono cose, significanti sono idee. Significati e significato sono legati insieme dal segno che rappresenta la loro totalità. Per esempio: la forma significante “mulino” denota ciò che comunemente intendiamo per mulino (il luogo dove si macina il grano). Ma può assumere varie connotazioni: (artigianalità, ambiente polveroso, naturalezza, ecc.). Il modello semioticoinformazionale dimostra che nella comunicazione il significato finale del messaggio deriva dal convergere di una serie di fattori diversi. Dimostra, altresì, che possono darsi varie forme di incomprensioni riconducibili alla seguente casistica: 1. incomprensione del messaggio per totale carenza di codice. 2. incomprensione del messaggio per disparità dei codici. 3. incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali. 4. rifiuto del messaggio per delegittimazione dell’emittente. La prima forma di incomprensione accade quando il messaggio arriva come segnale fisico, ma non viene decodificato e quindi passa come rumore. Il secondo caso avviene quando il codice dell’emittente non è ben conosciuto dal ricevente, oppure quando alle unità del codice vengono attribuiti significati che mutano completamente nel contesto in cui appaiono. Nella terza fattispecie il destinatario è in possesso del codice dell’emittente e interpreta correttamente il messaggio secondo le modalità di chi lo ha emesso, ma è mosso da esigenze che sono in conflitto con il tipo di persuasione che l’emittente vorrebbe ingenerare, poiché lo interpreta secondo le proprie aspettative. Il quarto caso accade quando pur essendoci completa comprensione del messaggio secondo le modalità di codifica dell’emittente, il sistema di credenze o le pressioni circostanziali del destinatario sono forti con quelle dell’emittente e viene a generarsi un volontario stravolgimento del senso. U. ECO e PAOLO FABBRI, “Progetto di ricerca sull’utilizzazione dell’informazione ambientale”, Problemi dell’informazione 4, pp. 561-2. 3 10 2. LA COMUNICAZIONE DI MASSA Se si considera l’entità dei flussi di informazione che attraversano quotidianamente la molteplicità di canali di comunicazione non è improprio definire la nostra epoca come “ipermediale” o “ipercomunicativa”. Con questi aggettivi si intende sottolineare il fatto che viviamo immersi in un flusso incessante di informazioni, di messaggi multisensoriali provenienti da fonti diverse, con una continuità, un’intensità ed un’ampiezza che non si sono sperimentate nelle epoche precedenti. Giornali e riviste, CD e video di tutti i tipi, televisioni che trasmettono 24 ore su 24, emittenti radiofoniche che diffondono notizie e musica giorno e notte, cartelloni pubblicitari, fax, telefoni cellulari, Internet rappresentano ormai gli strumenti che mediano il nostro rapporto con una realtà che non è più quella della comunità locale nella quale viviamo fisicamente (il quartiere, il paese ecc.) ma il mondo intero. Questo processo si presenta come proteiforme, anche se presenta un denominatore comune: il tele-vedere. 2.1 Una definizione di «comunicazione di massa» Il termine “comunicazione di massa” fu coniato alla fine degli anni ’30. I primi studi scientifici sui mass media rientrano nel filone della bullet theory (teoria della pallottola), detta anche dell’ago ipodermico. I media vengono considerati potenti strumenti di persuasione che agiscono su riceventi passivi e inermi. Il contenuto inviato penetra l’individuo, gli viene , per così dire, inoculato, per cui ne risulta persuaso. Durante la prima guerra mondiale, stampa e cinema, mobilitati nella propaganda delle nazioni in guerra, avevano dato grande prova della loro capacità di influenzare le “masse”. Questo effetto uscì rafforzato dagli avvenimenti in Unione Sovietica e nella Germania nazista, dove i mezzi di comunicazione furono messi al servizio della propaganda dei partiti al potere. Col trascorrere del tempo il termine «comunicazione di massa» ha assunto molte connotazioni, per cui è difficile assumere una definizione che possa essere accettata da tutti. Anche il termine massa è di per sé carico di valori e appare controverso. Anche se il termine comunicazione non ha ancora una definizione pacifica si può partire da quella proposta da Gerbner: lo studioso parla della comunicazione come interazione sociale tramite messaggi4. 4 G. GERBNER, Mass Media and Human Communication Theory, in F.E.X. Dance (a cura di), New York, Holt, Rinehart and Winston 1967, pp. 40-57. 11 Janowitz ha proposto una caratterizzazione delle comunicazioni di massa in rapporto alle istituzioni e alle tecniche grazie alle quali gruppi specializzati impiegano strumenti (stampa, radio, film, ecc.) per diffondere un contenuto simbolico a pubblici ampi, eterogenei e fortemente dispersi5. La difficoltà nell’accettare questa o analoghe definizioni risiede nel fatto che la comunicazione è considerata dal lato della trasmissione dell’emittente invece di essere intesa nell’accezione più ampia del termine che racchiude i concetti di risposta, partecipazione e interazione. L’esperienza quotidiana della comunicazione di massa è assai varia: tale termine indica una condizione e un processo in teoria possibili, ma raramente reperibili in forma pura. La comunicazione di massa è un esempio di quello che Max Weber definiva un ideal-tipo, cioè un costrutto concettuale che accentua o porta al limite le uniformità riscontrabili in un gran numero di fenomeni empirici e che può perciò servire come termine di confronto per saggiare il significato dei fenomeni stessi. Una buona definizione di comunicazione di massa può essere quella proposta da McQuail. Lo studioso di Amsterdam parla di «processo mediante il quale messaggi sonori e/o visivi prodotti e trasmessi da una fonte impersonale raggiungono in un tempo molto breve un certo numero di persone (audience) disperse su un territorio più o meno esteso, dall’ambito locale al mondo intero»6. 2.2 Il concetto di massa Il termine unisce una serie di concetti importanti per capire come è stato spesso interpretato il processo della comunicazione di massa fino ai nostri giorni. Originariamente il termine massa aveva una connotazione negativa in quanto era riferito alla moltitudine o alla folla giudicata rozza, ignorante e potenzialmente irrazionale. Occorre osservare che i confini dei concetti di folla e massa non appaiono univocamente definiti e l’uso corrente dei due termini si confonde con l’uso scientifico. L’etimologia dei due termini può aiutare. Folla deriva da “follare”, verbo che contiene l’idea del premere, dello stringere e rimanda al vocabolo latino fullo, “lavandaio” o “sgrassatore di panni”. Massa rinvia invece ai vocaboli greci mãza, “impasto per il pane”, mássein, l’azione dell’impastare, parole che suggeriscono i caratteri dell’elasticità e dell’adattamento a forme diverse. L’origine dei termini si riflette nella distinzione, oggi generalmente accettata, secondo la quale la nozione di “folla” indica un’aggregazione momentanea di individui, mentre il concetto di “massa” 5 M. JANOWITZ, The Study of Mass Communication, in International Enciclopedia of the Social Sciences, vol. 3, pp. 41-53. 6 D. MAC QUAIL, Sociologia dei media, Il Mulino, Bologna 2001, p. 35. 12 si riferisce alla maggioranza della popolazione considerata senza riferimento alla diversità di funzioni e ruoli sociali e, cioè, come insieme omogeneo. La massa è composta da individui «anonimi» e isolati che non si conoscono e non interagiscono fra loro. Essa è quindi ben diversa da una comunità o da un gruppo ed esiste, come formazione sociale, solo nel momento in cui condivide informazioni, gusti, stili di comportamento, consumi. Un’edizione del telegiornale può essere vista da milioni di persone molto diverse per età, classe sociale, categoria professionale, formazione culturale: soggetti che hanno ben poco in comune, se non il fatto di ricevere contemporaneamente le stesse informazioni e di esporsi, quindi, alla comunicazione di massa. La bibita più famosa del mondo è consumata indistintamente da individui che appartengono a tradizioni e culture diversissime; ciclicamente, i giovani dell’Occidente hanno gli stessi miti musicali e vestono in modo simile; durante i campionati mondiali di calcio o le olimpiadi, centinaia di milioni di persone vedono, ascoltano e discutono le stesse cose: sono tutti esempi di fenomeni di massa. È evidente il collegamento strettissimo tra la società di massa, nata con l’espansione industriale, la produzione e la commercializzazione di beni per mercati sempre più vasti, e la comunicazione di massa: l’una non potrebbe esistere senza l’altra. Il fatto che esistano un consumo di massa, una cultura di massa, un’opinione di massa dipende in larga misura dalla possibilità di informare e di influenzare un vasto pubblico attraverso i mezzi di comunicazione. La struttura tipica della comunicazione di massa è identificabile nell’asimmetria tra emittente e ricevente: da una parte c’è una fonte impersonale, distante, che seleziona, confeziona e trasmette messaggi, dall’altra un vasto pubblico che li riceve, li assimila e li interpreta. Queste sono le caratteristiche fondamentali di radio, televisione, giornali, videocassette, cinema, Cd-Rom, dischi, ma anche del libro, che può essere considerato il più antico mass media. Uno strumento di comunicazione come il telefono, invece, pur essendo largamente diffuso, non è normalmente considerato di massa in quanto prevede una relazione personale, un’interazione tra individuo e individuo. Alcuni sociologi sostengono che, a rigore, quella di massa non potrebbe essere definita «comunicazione», proprio perché il processo comunicativo ha un andamento circolare con un ritorno di informazioni (feedback) dal ricevente all’emittente, cosa che avviene nelle relazioni interpersonali, ma non nel rapporto media-pubblico (nonostante molte trasmissioni radio televisive abbiano introdotto le telefonate degli ascoltatori per dare il senso di una partecipazione attiva dell’audience). In realtà, una sorta di circolarità è presente 13 anche nelle comunicazioni di massa dal momento che si può parlare di reazioni più o meno significative del pubblico ai messaggi (per. es. in termini di gradimento, di opinione, di azione) che possono riflettersi poi sulle successive scelte operate dall’emittente. In seguito considereremo alcune tesi del pensiero critico che sottolineano il carattere tautologico della comunicazione di massa7. Conclusivamente, il pubblico di massa si presenta: molto numeroso disperso non interattivo e anonimo eterogeneo non organizzato 2.3 Concentrazione e imperialismo dell’informazione La gestione delle comunicazioni appare fortemente concentrata: una piccola parte della popolazione di alcuni paesi a sviluppo avanzato ha la proprietà e controlla i mezzi di comunicazione, la produzione del materiale culturale e l’approvvigionamento di informazioni. La maggior parte delle notizie diffuse nel mondo da quotidiani, radio e televisioni provengono da quattro agenzie di stampa: la Reuter britannica, la AFP (Agence France Presse) francese, la UPI (United Press International) e la AP (Associated Press), entrambe statunitensi. 2.4 Il processo della comunicazione di massa Quasi tutti i messaggi dei mass media non sono indirizzati a nessuno in particolare e la distanza fisica tra emittente e ricevente è quasi incolmabile, accresciuta da un divario sociale perché in genere l’emittente ha maggiore prestigio, potere, risorse, abilità e autorità del ricevente (asimmetria). I pubblici sono visti come ampi aggregati di spettatori dispersi e passivi, senza reali possibilità di interloquire o partecipare: il ricevente non ha nessun contatto o quasi con i suoi simili e non ne conosce l’identità. Seguendo McQuail8 possiamo identificare le seguenti caratteristiche: 7 8 distribuzione e ricezione su ampia scala flusso unidirezionale relazione asimmetrica impersonale e anonima contenuti standardizzati U. GALIMBERTI, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2000. D. MAC QUAIL, Sociologia dei media, op. cit., pp. 56-7. 14 3. LE FUNZIONI DEI MEDIA I media svolgono nella società funzioni ben identificabili: informare, intrattenere, influenzare e vendere. Se si considerano i media attuali, in particolare la televisione, ci si rende conto che divertire e vendere appaiono obiettivi prioritari. Ciò vale non solo per le emittenti private che si sostentano esclusivamente grazie alle entrate garantite dalla vendita degli spazi pubblicitari, ma in modo crescente ciò vale anche per le reti che svolgono servizio pubblico. Lo stesso si può dire per la radio (soprattutto per le emittenti private) e per le riviste, sempre più infarcite di comunicati pubblicitari. Nonostante ciò va però notato che le funzioni che i mezzi di comunicazione di massa svolgono per la società e per l’individuo sono ben più articolate. 3.1 Pro o contro i media Il ruolo dei media nella società di massa è oggetto di valutazioni molto diverse: si va da un atteggiamento molto critico, che vede nei media solo potenti strumenti di persuasione, di alienazione, di involgarimento del gusto, di impoverimento della cultura, ad una adesione entusiastica alla civiltà multimediale, vista come una straordinaria conquista di libertà. I primi si suole definirli come apocalittici, i secondi come integrati9. Le prese di posizione pro o contro i media si sono sviluppate soprattutto in relazione alla televisione, il mezzo che più ha influito sulle abitudini della gente e che ha prodotto, nel bene e nel male, una vera e propria «rivoluzione culturale». Sono stati prodotti molti argomenti favorevoli o contrari alla comunicazione di massa e tutti sembrano avere un qualche fondamento. Considereremo solo quelli più ricorrenti, tenendo presente che non è necessario schierarsi decisamente da una parte o dall’altra, ma che è anche importante avere consapevolezza sia dei pregi sia dei limiti dei media, strumenti che ormai occupano un ruolo centrale nella nostra vita quotidiana. 3.2 Argomenti a favore Secondo i loro sostenitori, ai mezzi di comunicazione di massa vanno riconosciuti i questi meriti. 9 U. ECO, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964. 15 Innalzano il livello di istruzione e allargano l’orizzonte culturale del pubblico. E’ indubitabile che soprattutto strumenti come la radio e la televisione abbiano favorito un vasto processo di alfabetizzazione, abbiano promosso la lingua nazionale in strati sociali che facevano uso del solo dialetto, abbiano diffuso conoscenze (di tipo scientifico, storico, politico, economico, artistico ecc.) che un tempo erano ad esclusivo appannaggio delle classi colte. Tengono costantemente informati sui problemi della società e del mondo contemporaneo. Soprattutto grazie alla televisione, il mondo intero è entrato nelle case: tutto ciò che di rilevante avviene nel globo viene fatto conoscere a tutti in tempo reale (mentre accade). I media hanno così accresciuto e diffuso il livello di consapevolezza delle persone riguardo ai problemi della società contemporanea permettendo una partecipazione più attiva alla vita sociale. Favoriscono la conoscenza, il rispetto delle altre culture e aiutano l’integrazione sociale. In tutti questi anni i mezzi di comunicazione di massa, in particolare la televisione, hanno documentato la diversità delle situazioni sociali e culturali riscontrabili nelle varie aree del mondo e all’interno del nostro paese. Conoscere la diversità aiuta a rispettare e ad accettare la diversità stessa, ad abbattere i pregiudizi nei confronti di coloro che manifestano opinioni, credenze, stili di vita diversi dai nostri. Non c’è dubbio che la crescita di un atteggiamento rispettoso e tollerante nei confronti della diversità è anche merito dei media. La funzione di intrattenimento è sempre stata centrale nei media radiotelevisivi fin dal loro debutto. I media offrono occasioni di svago a chi non potrebbe altrimenti permettersele. 3.3. Argomenti contro I detrattori, per parte loro, mettono l’accento sulle seguenti «colpe» dei media. Diffondono una cultura superficiale e abituano alla passività mentale. La cultura di massa è sempre stata vista dalla classe intellettuale come fumo negli occhi e considerata come un surrogato della vera cultura. Secondo questo punto di vista, i media non favoriscono la riflessione, l’approfondimento critico dei problemi ma, al contrario, diffondono frammenti di sapere superficiale, 16 “usa e getta”. La qualità dei programmi trasmessi dalle varie emittenti o della carta stampata a grande diffusione non può che essere scadente dal momento che, per avere una vasta audience, i media devono assecondare i gusti, le tendenze e il linguaggio della maggioranza del pubblico. E’ un dato di fatto che nelle ore di punta le televisioni trasmettono i programmi più leggeri, mentre quelli più impegnativi vengono proposti quasi sempre in seconda serata o a notte fonda. Si tratta di una scelta quasi obbligata: una emittente che decidesse di mandare in onda alle 21 un programma sulla storia della pittura o un’opera teatrale farebbe un fiasco colossale che pagherebbe caro soprattutto in termini economici. Inoltre media come la radio e la televisione inibiscono un atteggiamento attivo e creativo del pubblico che non può far altro che «subire» passivamente ciò che viene proposto. Alimentano bisogni artificiali e propongono stili di vita consumistici. Dal variopinto mondo dei media, della televisione, delle riviste, delle radio sembra emergere una figura di uomo ideale: il consumatore. C’è sempre qualcosa di nuovo da sperimentare, qualche «tendenza» da seguire. Se il motore dell’economia è il consumo, i media sono il più straordinario procacciatore di clienti per le imprese. Gli studiosi di comunicazione si sono sempre posti questo interrogativo: i media si limitano a rispecchiare il comportamento delle persone o sono le persone a modellare il loro comportamento in base alle suggestioni che ricevono dai media? Una domanda analoga la si può formulare a proposito del rapporto produzione-consumo: è il mondo della produzione a inventare nuovi bisogni per commerciare nuovi prodotti o è il consumatore esigente che costringe il mondo della produzione ad aggiornarsi? A questo tipo di domande non è possibile dare una risposta univoca e definitiva. Ci limitiamo a suggerire che si tratta di processi circolari, nel senso che se è vero che i media rispecchiano i gusti e le opinioni della società, è altrettanto vero che li alimentano e li condizionano. Distruggono le differenze culturali imponendo gli stessi modelli di comportamento: favoriscono, cioè, il conformismo. La comunicazione di massa sembra corrodere progressivamente tutte le tradizioni locali e le sub-culture popolari che, fino a pochi decenni fa, erano diffuse e vive nel paese. Le abitudini, gli interessi, le esperienze, le opinioni si vanno sempre più uniformando. Non c’è molta differenza tra il modo di vivere di chi abita in una metropoli e quello di chi vive in un piccolo centro. Bambini 17 dei paesi più disparati guardano i cartoni animati giapponesi, bevono CocaCola, giocano con la Barbie e mangiano hamburger e patatine. Sono potenti strumenti di controllo sociale. Si ritiene comunemente che i mezzi di comunicazione di massa esercitino una notevole influenza sulle opinioni, gli atteggiamenti e i comportamenti della gente, per cui chi detiene il potere mediatico (istituzioni o privati che siano) ha la facoltà di controllare e condizionare gli individui e i gruppi sociali. 18 4. POTERE E INFLUENZA DEI MEDIA Il potere di influenza dei media è stato a lungo studiato da sociologi ed esperti di comunicazione nel corso del ‘900. Ne sono nate interpretazioni molto diverse anche in rapporto alle epoche storiche nelle quali sono state elaborate: chi ha immaginato un’influenza diretta dei media su un pubblico passivo che si lascia facilmente condizionare; chi ha invece sottolineato il ruolo attivo dell’audience, che non sarebbe affatto manipolabile a piacimento; chi ha sostenuto che gli effetti dei media sul pubblico si vedono solo nel lungo periodo. 4.1 Rapporti media-società L’universalità, la popolarità e il carattere pubblico hanno alcune conseguenze per l’organizzazione politica e la vita culturale delle società contemporanee. Rispetto alla politica i mass media sono diventati col tempo un elemento essenziale del processo democratico, in quanto forniscono un’arena per il dibattito, danno visibilità ai candidati e diffondono una pluralità di informazioni e opinioni. I media sono un mezzo per esercitare il potere grazie all’accesso relativamente privilegiato che i politici e i governanti possono richiedere loro come legittimo diritto10. I media costituiscono - rispetto alla cultura - una fonte importante di definizioni e immagini della realtà sociale e l’espressione più diffusa di un’identità comune. Sono il principale mezzo di intrattenimento e di svago che fornisce, più di ogni altra istituzione, l’ambiente culturale condiviso per la maggior parte delle persone. Inoltre i media stanno acquisendo una sempre maggiore importanza economica: le industrie mediali crescono, si diversificano e consolidano il proprio potere nel mercato. Nel bene o nel male, la democrazia (e il suo contrario) dipende sempre di più dai mass media a livello nazionale e internazionale; quando si affrontano i problemi sociali più importanti è impossibile prescindere dal loro ruolo. Quali sono i livelli di incidenza elettorale o sul modo di governare? E la moderna tecnologia non pone in essere la tecnopolitica? E’ difficile accertarlo, ma non possiamo esimerci di porci queste domande.Tutte le principali questioni sociali – che riguardano la distribuzione e l’esercizio del potere e i processi di integrazione e cambiamento - ruotano intorno alla comunicazione e più precisamente intorno ai messaggi veicolati dai mezzi di comunicazione pubblici sotto forma di informazioni, opinioni, notizie o intrattenimento. 10 G. SARTORI, Democrazia Cosa è, Rizzoli, Milano1994 e Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Bari-Roma 1999. 19 4.2 Media e società Quando si studiano i media si possono seguire due principali prospettive in relazione al rapporto media/società: un approccio socio-centrico e un approccio media-centrico. Esiste una seconda linea di demarcazione determinata dalla predilezione da parte dei teorici rispettivamente per il mondo della cultura (e delle idee) o per il riconoscimento della centralità dei fattori materiali. Dalla combinazione di questi approcci scaturiscono quattro modelli teorici così rappresentabili. Media-centrico Culturalista Materialista Socio-centrico Schema tratto da McQuail, Sociologia dei media 1) La prospettiva media-culturalista si caratterizza per l’attenzione rivolta al contenuto e alla ricezione dei messaggi dei media, influenzati dal contesto personale immediato. 2) L’approccio media-materialista si distingue perché il focus è incentrato sugli aspetti politico-economici e tecnologici dei media in questione. 3) La prospettiva socio-culturalista sottolinea l’influenza dei fattori sociali sulla produzione e ricezione dei media e le funzioni di questi ultimi nella vita sociale. 4) La prospettiva socio-materialista, infine, è definita dalla considerazione dei media come «riflesso delle condizioni economiche e materiali della società». 5. SCIENZA DELLA COMUNICAZIONE E STUDIO DELLA COMUNICAZIONE DI MASSA Lo studio della comunicazione di massa non è che un’area delle scienze sociali e non esaurisce assolutamente il campo di indagine sulla comunicazione umana. Interessa qui invece caratterizzare la scienza della comunicazione in termini rigorosi, per indicare gli assi e le linee metodologiche da seguire nel corso di questa sezione. Assumiamo pertanto la definizione di Berger-Chaffee secondo cui la scienza della comunicazione può essere definita come «il tentativo di capire la produzione, il consumo e gli effetti dei sistemi di simboli e 20 segnali sulla base di teorie verificabili contenenti legittime generalizzazioni che spieghino i fenomeni legati alla produzione, al consumo e agli effetti»11. I recenti sviluppi della tecnologia hanno reso più confusa la linea di demarcazione tra comunicazione pubblica e privata e comunicazione di massa e interpersonale, rendendo con ciò più difficile definire il campo di applicazione della ricerca sulla comunicazione di massa. Nel 1948, il grande sociologo americano Harold Laswell propone un modello per l’analisi sociopolitica della comunicazione di massa12 che diverrà poi celebre come modello delle 5 W della comunicazione. In quel modello, infatti, Laswell chiariva che per descrivere adeguatamente un fenomeno di comunicazione occorre rispondere a 5 domande che, nella lingua inglese, sono appunto introdotte da 5 W: chi (Who), dice cosa (What), attraverso quale canale (through Which channel), a chi (to Whom) e con quale effetto (with which effect)? 1. Chi comunica a chi? Fonti e riceventi 2. Perché? Funzioni e scopi 3. In che modo? Canali, linguaggi, codici 4. Su che cosa? Contenuto e tipi di informazione 5. Con quali effetti? Intenzionali e inintenzionali 5.1 Approccio strutturale, comportamentale e culturale E’ possibile identificare tre approcci – tra loro alternativi – su cui è possibile costituire una scienza della comunicazione: l’approccio strutturale, l’approccio comportamentale e l’approccio culturale. L’approccio strutturale deriva in linea di massima dalla sociologia, ma riceve apporti dalla storia, dal diritto e dall’economia. Il suo punto di partenza è socio-centrico. L’attenzione è rivolta soprattutto ai sistemi e alle organizzazioni mediali e ai loro rapporti con la società. Quando sorgono questioni di contenuto, il fuoco tende a spostarsi sugli effetti della struttura sociale e dei sistemi e dei sistemi mediali sui contenuti. 11 C.R. BERGER e S. H. CHAFFEE, The Study of Communication as a Science, in C.R. Berger e S.H. Chaffee (a cura di) Handbook of Communication Science, Beverly Hills (CA) –London, Sage, pp. 15-19. 12 H. LASWELL, The Structure and Function of Communication in Society, in L. BRYSON (Ed.), The Communication of Ideas, New York, Harper, 1948 21 L’approccio comportamentale è radicato principalmente nella psicologia e nella psicologia sociale, ma è anche rappresentato da una variante sociologica. In generale, l’oggetto di interesse è il comportamento umano individuale, specialmente per quanto riguarda la scelta, il consumo e la risposta ai messaggi della comunicazione (cioè l’uso e l’effetto dei mezzi di comunicazione di massa). L’approccio culturale ha le sue radici negli studi umanistici, nell’antropologia e nella sociolinguistica. Nonostante le sue enormi potenzialità è stato in genere applicato a problemi di significato e linguaggio, alle minuzie di particolari contesti sociali ed esperienze culturali. Tranne poche eccezioni, tende a essere media-centrico, sensibile alle differenze tra media e contesti comunicativi, più interessato alla comprensione in profondità di casi e situazioni particolari o unici che non alle generalizzazioni. 5.2 Comunicazione e cultura. Prime riflessioni su media e società Storicamente, la prima questione culturale affrontata dalla teoria dei media è stata quella del carattere della nuova cultura di massa, resa possibile dalla comunicazione di massa. Un secondo tema riguarda le possibili conseguenze delle nuove tecnologie. Un terzo tema, gli aspetti economicopolitici della produzione organizzata della cultura. Un risvolto importante è la mercificazione della cultura sotto forma del software prodotto dall’hardware della comunicazione, venduto e scambiato su mercati sempre più globali Nonostante gli enormi cambiamenti dei media, della tecnologia e anche della società, e nonostante la nascita di una scienza della comunicazione, i termini del dibattito sulla rilevanza sociale dei media sono rimasti pressoché immutati. Fin dall’inizio del secolo XX furono tre correnti di pensiero ad affermarsi: la prima riguardava la questione del potere dei nuovi mezzi di comunicazione; la seconda, quella dell’integrazione o disgregazione sociale; la terza la questione dell’acculturamento (o dell’abbrutimento) del pubblico. In genere, le condizioni perché si affermasse il potere dei mezzi di comunicazione erano individuate in un’industria dei media nazionale capace di raggiungere la maggioranza della popolazione, un certo grado di controllo monopolistico o autoritario al vertice o al centro, un pubblico affezionato ai media e sensibile al loro fascino. Il rapporto tra mezzi di comunicazione popolari e integrazione sociale era facilmente concettualizzabile in termini negativi e individualistici (più solitudine, criminalità e immoralità), ma non era impossibile immaginare anche un contributo positivo della comunicazione moderna alla coesione e alla comunanza. I mass media potevano favorire un nuovo tipo di coesione in grado di unire i singoli individui in una comune esperienza nazionale, cittadina e locale; e ancora, appoggiare i movimenti di riforma sociale e la nuova 22 democrazia politica. I media potevano essere decisivi per l’educazione delle masse, integrando e potenziando le nuove istituzioni della scolarità di massa. 5.3 Potere e disuguaglianza I media operano in società dove il potere è distribuito in modo ineguale tra individui, gruppi e classi. Poiché i media sono sempre legati in qualche modo alla struttura dominante di potere economico e politico, questo rapporto solleva parecchi interrogativi: chi controlla i media e nell’interesse di chi? quale visione del mondo (della realtà sociale) viene offerta? Fino a che punto i media raggiungono gli obiettivi che si prefiggono? i mass media favoriscono, oppure no, l’eguaglianza sociale? Fonte sociale EGEMONIA Classe o élite dominante Media Proprietà concentrata Produzione Standardizzata, moltiplicata, controllata Selettivi e decisi dall’alto Contenuto e visione del mondo Pubblico Effetti PLURALISMO Gruppi e interessi politici, sociali, culturali, antagonistici Molti e indipendenti l’uno dall’altro Creativa, libera, originale Visioni diverse e antagoniste, sensibili alla domanda del pubblico Dipendente, passivo, Frammentato, selettivo, organizzato su larga scala reattivo e attivo Forti e a favore dell’ordine Numerosi, senza una sociale vigente direzione coerente o prevedibile, ma spesso assenti Schema tratto da McQuail Cit. 5.4 Teoria funzionalista L’approccio funzionalista nello studio dei mass media sottolinea l’apporto positivo da essi svolto in ordine al buon funzionamento del sistema sociale. Rilevante appare il fattore relativo all’integrazione degli elementi costituenti la società, la cooperazione fra gli stessi, la possibilità di favorire l’ordine, il controllo e la stabilità del sistema, senza precludere la possibilità della mobilitazione intesa come passaggio flessibile da uno status all’altro. I media favoriscono l’integrazione culturale, ossia l’unificazione delle conoscenze, dei principi, i valori, le norme, le credenze, le abitudini di vita, i 23 modi di fare e di rapportarsi gli uni agli altri. I media svolgono una rilevante funzione nel garantire la continuità della cultura e dei valori vigenti all’interno della società. Tra le funzioni messe in evidenza vi è, ancora, il conferimento di status a persone di cui i media si interessano rendendole celebri e l’effetto moralizzatore ottenuto divulgando e additando malefatte e comportamenti devianti di alcuni. Autori come Lazarsfeld e Merton hanno indicato come la funzione ricreativa svolta dai media vada incontro ai bisogni estetici e all’esigenza di riposarsi e allentare le tensioni. 5.5 Teoria marxista dei media L’approccio marxista allo studio dei media fa capo all’ipotesi euristica desunta dal materialismo storico secondo cui il mondo delle idee è il riflesso della struttura economica. Questo si traduce nella prospettiva per cui i media, al pari della scuola e in genere delle agenzie di socializzazione, sono mezzi di riproduzione dei rapporti di dominio. Non fanno che perpetuare le condizioni socio-culturali esistenti e per questa via assicurano che squilibri economici, sfruttamento e oppressione restino invariati. I media sono in mano alla borghesia ed operano nell’interesse della borghesia incoraggiando la falsa coscienza della classe operaia. Nella sua forma più radicale gli interpreti marxisti denunciano la negazione dell’accesso ai media all’opposizione politica. 5.6 Determinismo tecnologico Come abbiamo visto sopra, il primato conferito alla struttura economica può aprire all’approccio marxista, ma anche al primato delle strutture economiche come fattore causale delle trasformazioni all’opera nella società. L’ipotesi euristica del determinismo tecnologico sottolinea come le rivoluzioni nella comunicazione portino a rivoluzioni nella società. Nel corso di questo testo avremo modo di soffermarci sulle trasformazioni in atto negli stili cognitivi, nel modo di comunicare inter-personale, nel modo in cui si trasmette il sapere nella società. 24 SEZIONE 2 NUOVI MEDIA E NUOVE TECNOLOGIE DELLA COMUNICAZIONE 25 26 1. I NUOVI MEDIA La teoria della comunicazione di massa è continuamente reinterpretata alla luce delle nuove tecnologie e delle loro applicazioni. Un aspetto particolarmente innovativo sul piano delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) è senz’altro la digitalizzazione. Si tratta di un processo attraverso cui tutti i testi (intesi come significati simbolici in ogni forma codificata e registrata) possono essere tradotti in un codice binario e sottoposti allo stesso processo di produzione, distribuzione e memorizzazione. Poiché un mezzo incarna anche un insieme di relazioni sociali che interagiscono con le caratteristiche della nuova tecnologia, si capisce l’importanza di un ripensamento in chiave sociologica dell’avvento dei nuovi media. Va osservato, peraltro, che i nuovi media non hanno soppiantato i vecchi media. Pertanto possono essere visti in un’ottica della compresenza piuttosto che in un’ottica della sostituzione. Tentiamo di individuare le conseguenze rivoluzionarie che la digitalizzazione sta operando. Allo stato attuale si possono azzardare alcune ipotesi sulla base dell’esperienza storica precedente e delle tendenze attuali. Consideriamo le caratteristiche principali delle istituzioni mediali (che qui enucleiamo): 1-2. L’attività principale è la produzione e la distribuzione di contenuti simbolici; 3. i media operano all’interno della sfera pubblica e sono regolati di conseguenza; 4. la partecipazione come emittente o ricevente è volontaria; 5. i media hanno una organizzazione professionale e burocratica. Internet differisce in tre dei cinque punti individuati relativamente ai mass media. Come rileva McQuail, «Internet non ha a che fare soltanto con la produzione e la distribuzione dei messaggi, ma anche con la loro elaborazione, il loro scambio e la loro memorizzazione. In secondo luogo, i nuovi media hanno a che fare sia con la comunicazione privata che con quella pubblica, e sono regolati (o meno) di conseguenza»13. I tentativi di descrivere i nuovi media sono stati molti, soprattutto per quanto riguarda Internet, ma la difficoltà sta nell’incertezza circa i loro utilizzi futuri e le forme istituzionali che potranno assumere. Il computer, nel suo uso come mezzo di comunicazione, ha portato a numerose possibilità di utilizzo, 13 MC QUAIL, Sociologia dei media, op. cit., p. 115. 27 nessuna delle quali è predominante. Allo stato attuale si può convenire con le osservazioni di McQuail laddove indica i fattori innovativi della comunicazione attraverso la rete: «Internet supera i limiti dei modelli della stampa e del sistema radiotelevisivo in quanto 1) permette le conversazioni da molti a molti; 2) rende simultaneamente possibile la ricezione, l’elaborazione e la redistribuzione di oggetti culturali; 3) comporta la dislocazione comunicativa ulteriore rispetto ai confini nazionali e alle relazioni spaziali territorializzate tipiche della modernità; 4) fornisce un contatto globale istantaneo e, infine 5) immette il soggetto moderno/tardo moderno in una rete interconnessa»14. 1.1 Le nuove tecnologie della comunicazione Questa parte del volume si propone di affrontare il tema dell'innovazione tecnologia in campo comunicativo. Tutto l'universo della comunicazione è stato sensibilmente influenzato, negli ultimi anni, dall'intervento di novità tecniche che hanno rivoluzionato le caratteristiche riguardanti le modalità operative e gli aspetti culturali messi in gioco. L'invenzione fondamentale è stata senza dubbio quella della trasformazione della forma del segnale dal suo tradizionale modello analogico in quello numerico. Si parla pertanto di rivoluzione del digitale. Essa ha prodotto rimarchevoli conseguenze tanto nel campo della diffusione-distribuzione, quanto in quello della costruzione dei segni e dei simboli coinvolti nei diversi linguaggi e nei relativi messaggi. A questa radicale trasformazione tecnologica dell'esercizio comunicativo si debbono aggiungere le invenzioni delle fibre ottiche e dei satelliti, che hanno a loro volta incrementato la possibilità quantitativa della diffusione di segnali. La metafora della rete è la più adeguata a rappresentare la realtà del virtuale. La rete di canali e di "vie" di comunicazione si è fatta sempre più fitta e ricca di messaggi e di unità di informazioni. Queste innovazioni comportano vantaggi indiscutibili e notevoli progressi dal punto di vista socio-culturale. Implicano altresì competenze rilevanti di accesso ai nuovi media e responsabilizzazioni al livello del senso critico, al fine di evitare assurde dipendenze e il pericolo di essere usati dagli stessi mezzi. 1.2 Le reti. Il connubio tra il mondo della comunicazione e quello della telematica porta a sottolineare il concetto di trasmissione. Se la propagazione del sapere è 14 Ibidem. 28 un dato centrale nella comunicazione intesa in senso tradizionale, lo diventa in modo ancor più accentuato nel momento in cui si ha a che fare con delle innovazioni tecnologiche incentrate proprio sul tentativo di ampliare le possibilità di trasmissione. Negroponte contrappone alla condizione di "nomadismo" dell'uomo post-moderno, obbligato a viaggi continui, la possibilità imminente, grazie al potenziamento delle reti di comunicazione, della "presenza" intesa come "stare a casa". Il punto che spesso si trascura è che oggi è possibile spostarsi liberamente proprio perché possediamo i sistemi migliori per restare in contatto con la nostra base di operazioni"15. La mobilità, messa in gioco dalla trasmissione telematica dei dati, diventa allora un percorso che si svolge restando nello stesso luogo fisico. Il concetto di rete evade ben presto da un ambito puramente tecnico, per arrivare a significare un universo in cui tutto è legato, se non in profondità, almeno in estensione, in cui il valore è dato anche dallo stabilirsi di un collegamento, di un rapporto. Le reti annullano le distanze tra l'utente e l'archivio e la distinzione tra i vari tipi di dati. Le reti locali possono connettere i loro estremi con fibre ottiche, mentre per le grandi distanze è necessario ricorrere ai satelliti. Il rapporto di proporzionalità inversa tra complessità (di costruzione, soprattutto per ciò che concerne il software) e facilità (di uso) è una costante delle tecnologie moderne. Lo ha rilevato in un suo romanzo Milan Kundera, descrivendo gli albori della rivoluzione industriale, e insieme il crepuscolo della civiltà pretecnologica: "Goethe (…) visse in quel breve momento della storia in cui il livello tecnico dava già alla vita una certa comodità, ma l'uomo colto poteva ancora capire tutti gli strumenti che usava. Goethe sapeva con che cosa e come era costruita la casa in cui abitava, sapeva perché faceva luce la lampada a petrolio, conosceva il principio del cannocchiale (…), certo non poteva fare il chirurgo, ma aveva assistito ad alcune operazioni e quando era ammalato poteva intendersi con il medico usando un vocabolario da esperto. Il mondo degli oggetti della tecnica era per lui comprensibile e interamente dischiuso al suo sguardo"16. Le parole del romanziere descrivono meglio di qualunque dotto trattato la fase cruciale che il cammino tecnologico dell'Occidente sta attraversando: quella in cui la complessità delle macchine sta per raggiungere il limite della comprensibilità per gli intellettuali colti. Da allora in poi, la macchina ha avuto una sua storia impermeabile alle coscienze, se non alle azioni degli uomini. Possiamo anche andare un po’ oltre l'intuizione del romanziere ceco, per osservare che il vero nodo del problema consiste nell'irrilevanza della comprensione del funzionamento di una macchina rispetto 15 16 N. NEGROPONTE, Essere digitali, Sperling &Kupler 1995, pp. 59-60. M. KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano 1999, p. 90. 29 alla facilità del suo uso: è insomma principalmente un fatto ergonomico a comandare il rapporto utilizzazione/conoscenza tra l'uomo e le tecnologie. L'esplosione del virtuale si è verificata grazie a due fattori: l'enorme sviluppo della potenza di calcolo dei computer e l'interconnessione generalizzata dei calcolatori tra loro, specialmente grazie a Internet. La rivoluzione del virtuale poggia su quattro principali tappe tecnologiche: a) l'apparizione del trattamento digitale dell'immagine; b) la possibilità di interagire in tempo reale; c) il sentimento di immersione nell'immagine, grazie alle tecniche di visualizzazione stereoscopica o altre; d) lo sviluppo delle tecniche di telepresenza e di televirtualità. Stiamo vivendo un momento eccezionale nella storia della rappresentazione. Viviamo un momento paragonabile a quello della apparizione della stampa. Con Internet, con lo sviluppo delle tecnologie del virtuale, abbiamo al tempo stesso un sistema di distribuzione e di accesso all'informazione di una potenza senza pari, ma anche un nuovo modo di rappresentare il mondo. Nessun sistema di rappresentazione è indipendente da una ideologia implicita. I nuovi sistemi di rappresentazione non sono evidentemente esenti da una nuova ideologia. Ma è sempre meno semplice decifrarla. Quando un grande come Leonardo da Vinci si è misurato con la prospettiva, il suo modo di operare poteva sembrare difficile da capire per i suoi contemporanei, perché era in un certo senso la matematica più complessa del suo tempo che lui metteva in immagini. Nelle nuove tecnologie del visuale e del virtuale, che si stanno sviluppando, c'è anche molta matematica, ma una matematica più sottile, più nascosta. La prospettiva, in un certo senso, si dà a vedere in quanto modello di rappresentazione. Con il virtuale abbiamo a che fare con tecniche che sono essenzialmente linguistiche e criptiche per chi voglia comprenderle. Sicché, ci sono due facce del virtuale: la faccia visibile e quella invisibile, come in un iceberg. La faccia visibile è la più piccola, e si lascia scorgere facilmente, ma nasconde, appunto, quella che non si mostra. E ciò che del virtuale non si vede nel visuale, ciò che si può solo indovinare o intuire è il campo più complesso che lo spirito umano abbia mai inventato. Da una parte c'è l'aumento incredibile della potenza dei calcolatori. Una sola cifra per fissare le idee: è un luogo comune, ma è opportuno ricordarlo: in trent'anni, dalla fine degli anni Sessanta fino a oggi, la potenza dei calcolatori si è moltiplicata per dieci alla settima, cioè per dieci milioni. Questo vuol dire che calcolatori che occupavano uno spazio pari a quello di Villa Medici, ormai si possono trovare su una semplice scrivania, possono essere regalati ai ragazzi per Natale. Questo è il primo punto. Il secondo è l'interconnessione generalizzata dei calcolatori tra loro, specialmente grazie a Internet. Internet costituisce una rivoluzione incredibile per due ragioni: la prima è che permette una diminuzione dei costi di comunicazione estremamente 30 importante - nell'ordine di mille o diecimila volte meno - in rapporto al telefono, e la seconda è che Internet permette, grazie alla diminuzione dei costi, lo sviluppo di una comunità mondiale. Per usare una metafora forse un po' ampollosa, ma che a mio avviso contiene una parte di verità, vorrei citare il termine di "noosfera", di Teilhard de Chardin17. Internet è un modo di concretizzare nella realtà questa intuizione della "noosfera" a cui pensava Teilhard de Chardin. Per noosfera si intende il termine con cui il filosofo definisce l’insieme di tecnologie, codici e sistemi di comunicazione che ricoprono il mondo come un immenso sistema pensante artificiale. Teilhard de Chardin scriveva mezzo secolo prima di Internet, ma ebbe folgoranti intuizioni sul futuro dei calcolatori, che emettevano i primi vagiti. 1.3 Prima tappa Trattamento virtuale delle immagini18 La maniera in cui l'immagine di sintesi, l'immagine virtuale, l'immagine digitale si sviluppa nello spazio sociale è straordinariamente varia. Immagini virtuali si trovano nei posti di comando dei generali a cinque stelle che dirigono la Guerra del Golfo, ma vengono usate anche dagli psichiatri, dai ragazzi, dagli astrofisici, si trovano praticamente dappertutto. Illustrarne le varie applicazioni in maniera esaustiva sarebbe impossibile qui. La rivoluzione del virtuale poggia su quattro principali tappe tecnologiche. 1. Apparizione del trattamento digitale dell'immagine. L'immagine ormai può essere generata per mezzo di operazioni linguistiche astratte. Con il digitale l'immagine è diventata un linguaggio non in senso metaforico, ma nel senso stretto della parola. E' questa la rottura fondamentale in rapporto con le tecniche del passato. L'immagine digitale è innanzitutto una scrittura: si scrivono delle immagini battendo su una tastiera. Non è una metafora. Non è tanto la metafora dell'immagine come scrittura nel senso vago dell'espressione, è veramente la possibilità di giocare con le immagini come si gioca con gli aggettivi, con i verbi, con le parole. E' proprio questo che si fa, quando si programmano delle scene, quando si creano, a partire da manipolazioni linguistiche, dei mondi virtuali. Finora le immagini, l'immagine del pittore, l'immagine del cineasta, l'immagine del fotografo, l'immagine del "videasta" o, se si preferisce, della televisione, partecipavano della materialità del mondo. Il pittore manipola dei pigmenti. Si stabilisce dunque un contatto tra la volontà 18 Philippe Queau, su http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio. Questo paragrafo è un adattamento di un intervento svoltosi a Villa Medici a Roma il 15 dicembre 1995 nell’ambito di una conferenza organizzata dal Centro Culturale francese. 31 del pittore e una materialità che gli oppone resistenza. Il fotografo, come il cineasta o il "videasta" gioca con dei fotoni. Ci sono dei fotoni che vengono a imprimersi su una superficie fotosensibile, che si tratti della gelatina fotochimica, del tubo elettronico della videocamera o della pellicola cinematografica. In tutti i casi l'immagine un tempo era legata alla materialità, alla concretezza del mondo reale. Con l'immagine virtuale, con l'immagine di sintesi, non sono più dei fotoni o dei pigmenti che creano l'immagine, ma delle pure operazioni linguistiche. E in questo modo l'immagine appartiene interamente al regno del linguaggio. Questo è assolutamente fondamentale, in senso buono e in senso cattivo. In senso buono: ci offre la libertà del linguaggio, la sovrana libertà dell'espressione, separata da ogni rapporto con il reale; in senso cattivo: l'inconveniente è che proprio perché è privata di ogni relazione con il reale ne perde il sostanzioso midollo. Quindi il dibattito che si potrebbe sviluppare eventualmente è: che cosa si guadagna, che cosa si perde a rifugiarsi così nel regno dei linguaggi simbolici astratti, quando si vogliono fare delle immagini? 2. La possibilità di interagire in tempo reale, cioè senza dimensione temporale addizionale. Si può agire sull'immagine nell'immediatezza della volontà di agire. Questo è certamente noto almeno da una trentina d'anni per i simulatori di volo, ma ormai queste tecniche di interazione in tempo reale sono a disposizione anche dei bambini di cinque anni, e a buon prezzo. 3. Il sentimento di immersione nell'immagine grazie alle tecniche di visualizzazione stereoscopica o altre, come gli schermi giganti. 4. Lo sviluppo delle tecniche di telepresenza e di televirtualità. Esse consistono essenzialmente nella congiunzione delle reti come Internet con le tecniche precedenti. 5. L'abolizione della distanza. Si tratta quindi di una rivoluzione assolutamente radicale dell'immagine. Per quale ragione? Non certo essenzialmente per una ragione tecnologica, ma piuttosto per una ragione d'ordine epistemologico o filosofico. Classicamente, i rapporti tra l'immagine e il linguaggio, l'immagine e il modello, l'immagine e il luogo e infine tra l'immagine e la rappresentazione, e più precisamente tra la rappresentazione e la presenza, erano caratterizzati dalla distanza. Ormai assistiamo a una specie di fusione, nei quattro ordini di cui abbiamo parlato: l'immagine e il linguaggio si fondono, l'immagine e il modello dell'immagine si fondono. Il modello del pittore, ontologicamente parlando, non ha la stessa natura dell'immagine che il pittore ne trae. Ora invece, nel quadro del virtuale, il modello è altrettanto virtuale dell'immagine generata per mezzo di quel modello. Dunque sul piano ontologico l'immagine virtuale, così come il modello che le dà origine, sono costituiti della stessa sostanza immateriale. Di fatto c'è una specie di confusione intrinseca, di ibridazione del livello dell'immagine con il livello del modello e questo fatto si traduce in 32 proprietà del tutto nuove: come, per esempio, la possibilità di ottenere una retroazione del livello di rappresentazione delle immagini sul livello di rappresentazione del modello, cosa che si può osservare tipicamente nell'intelligenza artificiale, nel riconoscimento di forme, eccetera. Ho parlato dell'immagine e del luogo. Se classicamente eravamo posizionati davanti alle immagini, eravamo situati in un rapporto frontale con le immagini; ormai si può entrare "nell'immagine" e anche qui si sviluppa una forma di confusione tra l'immagine come luogo e l'immagine come superficie; tra l'immagine come schermo e l'immagine come spazio. La quarta forma di confusione - e uso di proposito la parola "confusione" - è quella tra presenza e rappresentazione. Si può dire che classicamente l'immagine si dà come una rappresentazione dell'assenza, della distanza, dell'oblio, della memoria. L'immagine è un modo per introdurre una pseudopresenza, non è altro che una ri-presentazione. Con l'immagine di telepresenza, con l'immagine di televirtualità noi abbiamo a che fare con pure rappresentazioni che sono al tempo stesso delle presenze. E, a differenza del presentatore della televisione, che non è mai presente, che non è presente allo spettatore, ma che dà soltanto l'illusione della presenza, voi avete a che fare con dei cloni che vi parlano, che sono ben presenti, come la voce telefonica, che è là nel vostro orecchio ed esprime una presenza, un ascolto, una realtà ontologica dell'ascolto. In realtà nel campo della televirtualità abbiamo ormai una specie di spazio intermedio di presenza, che è al tempo stesso virtuale e reale. E sempre più il rischio che correremo nella civiltà del virtuale è il rischio della confusione. Ho usato parecchie volte questo termine di "confusione" tra immagine e linguaggio, tra immagine e luogo, tra immagine e presenza, tra immagine e modello. Nel movimento generale della rivoluzione del virtuale, questo movimento indebolirà, cancellerà, annienterà i confini troppo netti, che la nostra cultura aveva l'abitudine di tracciare tra i poli, i diversi poli che ho menzionato. Con le tecnologie del virtuale - e lo si può vedere fin d'ora, per esempio, con la pratica multimediale della manipolazione di immagini - la barriera tra il reale e il virtuale tende a crollare. Quando, come si è fatto qualche tempo fa, a Antenne 2 o a France 2, semplicemente perché mancano le immagini per illustrare un servizio e manca il tempo di procurarsele, nel giro di qualche minuto si dotano di barbe islamiche degli uomini della Francia settentrionale per far credere che si sono intervistati degli Islamici, e si illustra così un servizio sull'Islam, si vede bene fino a che punto la frontiera tra verità e finzione sfumi del tutto. Le stesse tecniche che permettono di realizzare gli effetti speciali per i film di "fiction" sono usate ordinariamente per illustrare dei servizi dal vero. Possiamo avere un’idea della potenza della fibra istituendo il seguente paragone: se immaginiamo che il filo del telefono che oggi arriva nelle nostre 33 case, un doppino di rame, sia un sentiero largo 60 centimetri, una fibra ottica dal diametro di un capello in proporzione equivale a un autostrada larga (non lunga!) 1200 chilometri. E’ facile quindi immaginare quante informazioni potranno presto confluire nelle nostre case. In termini tecnici, una fibra può portare circa 1000 miliardi di bit al secondo. Ciò equivale a trasmettere tutti in numeri del Wall Street Journal finora pubblicati in un secondo19. 1.4 Le autostrade dell'informazione. Bisogna rendersi conto che questi mezzi di rappresentazione sono assai più potenti nel loro impatto sociale ed economico di quanto non si potrebbe credere. Le autostrade informatiche hanno già causato una specie di cortocircuito generalizzato sul nostro pianeta. Facciamo alcuni esempi: una azienda tedesca come Siemens fa tutta la sua manutenzione teleinformatica nelle Filippine. La Swissair fa la raccolta dei dati contabili e la gestione delle prenotazioni di volo, nelle Filippine. Il governo canadese ha firmato un contratto con una grande azienda indiana di consulenze a Bombay, affinché si occupi delle pratiche di previdenza sociale. Tutti questi esempi ci servono solo di riferimento per una realtà più generalizzata di telelavoro, di telepresenza, di televirtualità del lavoro di gruppo, attraverso reti estremamente potenti, per la loro capacità di rappresentazione e anche estremamente economiche per i costi di funzionamento. Caso tipico: un collegamento con Internet costa circa 50 F. al mese. Oggi ci si può abbonare a Internet con 50 euro al mese in Paesi come la Francia, l'Italia e evidentemente gli Stati Uniti. Con un collegamento che costa 50 euro al mese si può telefonare in tutto il mondo, si possono recuperare immagini video in tempo reale della CNN su Internet o si possono fare anche delle teleconferenze. Se si trae la logica conclusione da questo uso generalizzato di immagini, sempre più convincenti dal punto di vista del realismo, dal punto di vista delle prestazioni interattive, ci si trova davanti a un corto circuito planetario che sta per verificarsi e che si propagherà a interi settori delle nostre economie europee. Si pensi alle banche, alle assicurazioni, al settore di tutti coloro che si occupano di manipolazione dell'informazione e, last but not least il settore dell'immateriale. Intendiamo riferirci alla cybereconomy. E' il settore più facilmente virtualizzabile sulle reti mondiali. Noi andiamo verso forme avanzate di economia virtuale, di cyber-economia, che accompagnano la tendenza correlativa alla gestione planetaria dei movimenti di capitale. Ogni giorno avvengono sulle reti internazionali di cambio bancario scambi finanziari per tremila miliardi di dollari. Di questi tremila miliardi di dollari, in media solo l'1% viene investito in operazioni che si possono 19 Questi dati sono stati desunti da P. BIANUCCI, Senza frontiere, in AA.VV. (a cura di J. Jacobelli) La svolta della TV, Laterza, Bari-Roma 1997, p. 22. 34 chiamare reali, cioè corrispondenti a operazioni commerciali reali, come la compravendita di prodotti. Il rimanente 99% corrisponde unicamente a manovre speculative, basate spesso su modelli matematici, su modelli essi stessi virtuali. Cioè sono rappresentazioni astratte di una modellizzazione astratta del valore che i capitali rappresentano. Si può dire che oggi c'è una specie di accresciuta coesione tra virtualizzazione dell'economia, virtualizzazione della sfera speculativa e virtualizzazione dei mezzi di rappresentazione. 1.5 Un nuovo modello di società. La rivoluzione del virtuale si riassume in due caratteristiche essenziali: la prima è che si tratta veramente dell'apparizione di una nuova scrittura, di una nuova maniera di rappresentare il mondo, che vale per fare la guerra, per speculare, per fare dei film, per la creazione artistica; la seconda riguarda la nascita di un nuovo modello di società. Si tratta di un nuovo modo di rappresentare il mondo, altrettanto nuovo, in rapporto all'economia del XX secolo, all'economia dell'era industriale, quanto lo è stato l'apparizione della stampa alla fine del XV secolo. Come l'apparizione della stampa si è sviluppata parallelamente alla scoperta dell'America, alla Riforma e alla Controriforma, e più in generale alla nascita del capitalismo mercantile, così oggi l'apparizione del virtuale, come tecnica di rappresentazione estremamente potente, economica, generalizzata a tutto il pianeta, sta dando vita non soltanto ad un nuovo rapporto con il sapere e con la rappresentazione, ma anche - fatto più importante - a un rapporto nuovo con il politico. La "deregulation" che Europa e Stati Uniti si propongono in materia di telecomunicazioni, non è che una forma di remissione della sfera del politico in rapporto a una rivoluzione che non è solo di ordine tecnologico, ma che è anche dell'ordine della rappresentazione. Una rivoluzione la cui essenza non è esclusivamente tecnologica, ma riguarda ugualmente il nostro modo di considerare il mondo, il nostro modo di rappresentarlo. Un solo esempio, per visualizzare il problema: quando, durante la Guerra del Golfo, ricevevamo informazioni su quello che accadeva sul terreno, vedevamo sul piccolo schermo delle videoimmagini, cosiddette reali, che non rappresentavano nulla, poiché erano solo il segno, l'immagine, della mancanza di intelligibilità di quello che stava effettivamente accadendo sul terreno: avevamo quindi delle immagini reali totalmente prive di intelligibilità. Viceversa i generali che conducevano quella guerra erano circondati da immagini virtuali: quelle degli Hawks, quelle dei radar, quelle degli infrarossi, quelle dei cacciabombardieri, quelle delle carte elettroniche multidimensionali che tappezzavano i quartieri generali; tutte quelle immagini erano sintetiche, virtuali, astratte, ma veicolavano intelligibilità. Oggi c’è concesso dire che nessuna immagine è più vera, nel senso in cui 35 poteva essere vera un tempo: tutte le immagini, e sempre più quelle che presto ci raggiungeranno come telespettatori medi, saranno interamente composte per mezzo di manipolazioni linguistiche di simboli astratti e sarà sempre più difficile distinguere il loro grado di realtà. Il problema oggi non è più stabilire se un'immagine è vera o no, perché non ha più senso parlare di immagine vera. Ormai la sola questione che varrà la pena di essere posta è: le immagini che ci vengono proposte sono intelligibili o no? Soltanto nella misura in cui come cittadini, come artisti, come creatori, come lavoratori della nuova era che si sta annunciando saremo capaci di rispondere alla domanda: "Qual è il grado di intelligibilità di una certa immagine?", ci troveremo o nel campo degli eletti del virtuale o, sfortunatamente, e sottolineo con forza sfortunatamente, nel campo dei futuri esclusi, dei proletari del virtuale. Per riassumere, non si tratta soltanto di nuove tecnologie, ma di un nuovo modello di società, che si sta costituendo, e alla quale non siamo per niente preparati, tenuto conto della velocità incredibile degli sviluppi che hanno avuto luogo sotto i nostri occhi. Soltanto un anno fa nessuno avrebbe immaginato che sarebbe stato possibile mettere su Internet delle trasmissioni televisive, cosa invece oggi possibile. Nessuno immaginava, solo un anno fa, che sarebbe stato così facile usare la realtà virtuale, il mondo tridimensionale "on-line", sulle reti tipo Internet. Solo qualche anno fa nessuno, a parte qualche specialista, un ristretto numero di esperti, conosceva Internet; certamente non i politici e nemmeno il grande pubblico. 1.6 L'impatto sociale delle nuove tecnologie Secondo Giuseppe De Rita, direttore del Censis, «Dobbiamo ragionare in termini di valutazione complessiva della società. La società odierna, secondo coloro che vivono l'eccesso della realtà tecnologica, è una società continuamente "up growing". L'eccesso, l'andare avanti, l'avere di più, il volere di più, più informazioni, più elementi, più "bit", più "ram", tutto di più. La società americana ha sempre vissuto di "up growing". Ma nella società europea è valsa più che altro una logica di "down growing", di assestamento su livelli medi di comportamenti, di valori. E' pensabile una trasformazione sostanzialmente legata al continuo "up growing", al rampantismo continuo, al griffaggio continuo, all'esasperato protagonismo continuo? Non si può essere deterministi: siccome c'è l'innovazione, cambierà la società. Il rapporto è sempre estremamente differenziato. Non c'è autoreferenzialità, ma dialettica storicistica. E nella cultura collettiva di tutti quanti noi c'è più "down growing" che "up growing"». Dove stanno i punti pragmatici di connessione fra l'innovazione tecnologica del campo informativo e la realtà sociale? Probabilmente la rivoluzione informativa creerà ulteriore spinta a uno squilibrio a favore dell'economia finanziaria sull'economia reale. Inoltre la 36 struttura sociale sarà giocata non più in termini di segmenti generazionali di età, ma di segmenti generazionali di computer. Il meccanismo della cultura fondamentale porta a una sorta di giovanilismo. Se andiamo nel "campus" di Microsoft a Seattle, tutti sono fra i venti, venticinque, massimo trent'anni, superata tale età vanno altrove. Ciò significa che c'è una sorta di schiacciamento verso i giovani del processo di trasformazione, con una sorta di marginalizzazione degli anziani, e, siccome il meccanismo è sempre autogenerante, si rischia che il meccanismo sia anche sociale. Aumenta il meccanismo dei lavori delocalizzati: oggi voi potete avere a disposizione un programmatore di Singapore, un ingegnere indiano, un contabile di Hong Kong, un grafico indonesiano. Passando all'ambito scolastico, quando si sottolinea con enfasi "l'imparare ad imparare" non è raro registrare nell'attività didattica una destituzione del ruolo formativo dell'insegnante e della conoscenza reale dei contenuti, come se lo strumento potesse sostituire il lavoro di paziente ripresa personale. Dalle certezze formative si passa alla navigazione a vista. 1.7 Il potere della rete Storicamente l'informazione è stata potere e tutt’oggi è potere. La televisione generava potere, il giornale generava potere. La rivoluzione dell'informazione è ancora potere? Una rivoluzione che porta in rete, che fa simultaneità, che elimina la sequenza, che elimina la mediazione, per certi versi, perché ognuno fa per proprio conto, che elimina la finalità, che sembra sempre un continuo gioco, fa ancora potere? La grande rete influisce su questo punto cruciale della società moderna che è il potere? Qui le ipotesi sono tre. Secondo la prima, la cultura della rivoluzione dell'informazione è una cultura libertaria, individualista, e quindi bisogna far propria tale logica libertaria e individualista. Il potere sta nel singolo e chi vuole potere, chi vuole essere eletto Presidente degli Stati Uniti o Presidente della Repubblica Italiana, deve andarselo a cercare in un mare di individualismo. Ciò che possiamo intravedere nel futuro è una società ulteriormente individualistica. Credo che se ad uno di questi ragazzi americani che navigano dodici ore su ventiquattro nella rete si ricordasse una frase di Lévinas per cui "Il volto di Dio comincia dal volto dell'altro", questi, in risposta, alzerebbe le spalle: chi è l'altro? chi se ne frega dell'altro? Una forma di estraneità totale alla stessa solidarietà, quindi al rapporto, alla coesione sociale. Ci troveremo in una realtà di caos, perché l'individualismo crea una proliferazione di diritti e di attese tipicamente individuali e quindi difficilmente controllabili in termini di potere. Questa è la prima ipotesi, ipotesi non di secondaria importanza e probabile. La seconda ipotesi, invece, sostiene che la rivoluzione della società dell'informazione porterà ad un autoritarismo soft, perché una società di quel 37 genere sarà propensa alla democrazia diretta, sarà propensa a pensare alla rete come quarto potere, sarà propensa a dire: non abbiamo più incentivi a mediare, basta essere in rete. Potremo fare - dice uno di questi guru - un referendum al giorno, perché stiamo in rete. Potremo chiedere: "Vi va il caffé o l'orzo?" e sapremo tutti, immediatamente, cosa preferiamo, se l'orzo o il caffé. Una democrazia diretta, quindi, probabilmente plebiscitaria, tendente a usare lo strumento informativo tecnologico per poter imporre, non un autoritarismo forte, di violenza fisica, ma intriso di una sorta di partecipazione emotiva in rete. Del resto ne abbiamo avuto un sentore con il popolo dei fax. "Ah, il popolo dei fax": quattrocento persone che mandano un fax diventano il popolo dei fax! Ciò è il sintomo simbolico della possibilità di fare democrazia diretta, forse anche plebiscitaria, di fare autoritarismo soft. La terza ipotesi ci parla di una miscela fra l'individualismo individuale, personalizzato, e l'autoritarismo soft. E' in fondo il formarsi di dimensioni intermedie, di istituzioni leggere, di forme fluide ed aperte. 1.8 Internet e il pluralismo Secondo la concezione funzionalista i mass media esercitano una funzione di unificazione culturale e linguistica. Vale anche per Internet la stessa osservazione? La centralità dell’inglese, sia pur tecnico, che si usa nella Rete ne è una riprova? Le cose stanno veramente così? È effettivamente percepibile questa spinta verso una forma di unificazione culturale oppure le culture della Rete sono diversificate e non necessariamente convergenti verso un modello linguistico e culturale americano? La risposta è problematica. Secondo Furio Colombo «Uno strumento crea senza dubbio delle affinità fra chi usa lo strumento. Tutti i camionisti del mondo hanno qualcosa in comune tra loro più di quanto ce l’abbiano addirittura con i loro vicini di casa nelle rispettive città o villaggi in cui vivono e abitano quando non fanno i camionisti e questo vale per un'infinità di altre professioni. Basta vedere i congressi medici internazionali in cui di colpo i medici formano una cittadinanza propria che diventa subito forte nel momento in cui stanno insieme e indipendentemente dal fatto che uno venga da Hong Kong e l'altro venga da Boston. Fatalmente la pratica di professioni affini e l'uso di strumenti affini rende affini anche le persone. Si creerà anche un accostamento nelle qualità espressive, perché non c'è dubbio che lo strumento in sé invita ad alcune forme di espressività piuttosto che ad altre. L'uso della lingua, qualunque sia la lingua, è un po' diverso da come si fa sul foglio quando si dice: “Prendo carta, penna e calamaio e mi metto a scrivere” o quando si parla estemporaneamente. Il microfono ha inventato nuovi modi di parlare, allo stesso modo li inventerà il computer. Nei paesi televisivamente maturi, e il 38 nostro è già un paese televisivamente maturo, si nota spessissimo che quando il cronista raccoglie le opinioni dei cittadini, essi sono già in grado di darle molto bene, brevi e chiare, perché hanno visto tanta televisione e hanno imparato che non bisogna fare tante chiacchiere. Si dicono le due cose che si hanno a cuore e che si vuole dire in quel particolare momento. Anni fa era molto più difficile passare un microfono in mezzo a una folla di quanto non sia diventato adesso. Dunque una forma di affinità e un modo di esprimersi relativamente omogeneo fatalmente avverrà con l'espandersi del mezzo. Non credo che questo fenomeno formerà una cultura unitaria, nel senso profondo della parola. Credo invece che darà più spazio alla formazione delle culture periferiche, delle culture originali. Avranno decisamente più spazio perché lo strumento è agile, flessibile, e le ospita in maniera naturale. All'inizio della televisione nel nostro paese, parlare in televisione voleva dire parlare in un certo modo, con certe vocali, con certe consonanti, con certe caratteristiche di pronuncia che facevano da filtro: se non le avevi, non entravi; se avevi la erre moscia non potevi parlare a un microfono. Tutto ciò è del tutto assente in queste nuove tecnologie. È tutto accettato perché è tutto facile e qui vale la pena di ricordare l'indimenticabile frase di Einstein al quale domandavano: “Ma lei come si orienta quando deve scegliere per una nuova sperimentazione?” e lui rispondeva: “Non si può rifiutare ciò che è tecnicamente facile”. Questa nuova tecnologia di cui stiamo parlando è tipicamente facile. Pertanto è benevola e facilita l’ingresso di nuove espressioni, di nuove voci, di nuove culture. Per questa ragione, avremo più pluralismo culturale. Abbiamo una tecnologia che non invita a omogeneizzare e a omologare, ma piuttosto a esprimersi con diversità»20. 1.9 Modello unidirezionale e polidirezionale Dal punto di vista dei linguaggi televisione e Internet sono molto diversi: una comunicazione dall'alto e unidirezionale quella televisiva, comunicazione polidirezionale quella del modello Internet. Nel futuro è lecito aspettarsi una prevalenza del modello polidirezionale. Secondo Colombo, infatti, «nel momento in cui si rompe la circolazione monodirezionale, per forza prevale la circolazione a due, a tre, a molte vie. Dipende dalla elasticità tecnologica. Attualmente l'elasticità tecnologica è grande, la possibilità di cambiamento è altrettanto grande e dunque c'è da aspettarsi, primo, che avvenga; secondo, che avvenga molto presto; terzo, che il nuovo prevalga sul vecchio»21. 20 21 FURIO COLOMBO in http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio. Ibidem. 39 1.10 Tecnologie della comunicazione e mutamenti della struttura economica e sociale La digitalizzazione di tutto il sistema televisivo permetterà la costituzione di più canali audio, anche con lingue diverse - CNN International, EuroNews, per fare alcuni esempi-. E’ facile identificare alcune "persistenze" per cui non verranno meno le televisioni cosiddette generaliste, locali, regionali. La trasformazione più sensibile si verificherà a livello del televisore, dell'apparecchio ricettore, nel caso di una digitalizzazione diffusa, perché il televisore sarà un apparecchio che raccoglie soltanto immagini provenienti dall'esterno ma anche immagini provenienti dall'interno prodotte appositamente dall'utente stesso e questo attraverso l'integrazione con il computer, l'integrazione con cassette e con compact disc. E' necessario tenere conto soprattutto che il televisore digitale è come un computer e quindi il blocco, la "scatola", conterrà le funzioni del computer, le funzioni di pertinenza televisiva e le funzioni, soprattutto, di costruzione di una specie di testo personale derivato dalla combinazione di parti testuali alcune provenienti dall'esterno, rispetto ed altre provenienti dall'interno. 1.11 Caratteristiche dell’ipertesto L’ipertesto presenta alcune caratteristiche strutturali che lo possono rendere particolarmente adatto come strumento metacognitivo aiutando a riflettere sull’apprendimento e sulle logiche di connessione dei progressivi blocchi di sapere, quando è realizzato dagli stessi utenti. Peraltro le caratteristiche, individuate ad abundantiam dagli studiosi di semiotica, della comunicazione e di didattica, sono: 1. l’organizzazione modulare e reticolare del contenuto; 2. presenza di diverse tipologie di legami che connettono i moduli testuali; 3. assenza di una direzione unica e obbligata; 4. interattività del rapporto di fruizione. Come per ogni prodotto comunicativo, l’ipertesto può essere analizzato a partire da una prospettiva storica che ne ricostruisca il percorso evolutivo; può essere analizzato da un punto di vista strutturale che ne metta in luce le principali caratteristiche; può essere interpretato a partire dal contesto delle produzioni testuali in cui si colloca. A noi interessa mettere in evidenza come nell’ipertesto il carattere che definisce l’organizzazione del contenuto è la connettività reticolare, attraverso cui i singoli nodi (testi) sono connessi in una rete di relazioni che conferisce loro un senso ulteriore rispetto alla somma delle singole parti. Nella sua dimensione informatica è possibile definire l’ipertesto come un programma software che consente di navigare all’interno di un corpus di informazioni testuali, senza alcun vincolo di sequenzialità, secondo itinerari 40 associativi predisposti dall’autore rispetto ai quali è possibile un’interazione di tipo esplorativo e navigazionale. Si definiscono ipertesti aperti o dinamici quelli in cui l’utente può intervenire sia costruendo nuovi legami associativi o variando quelli esistenti che vengono conservati in memoria, sia aggiungendo propri moduli informativi o nuovi legami. Il vero contenuto dell’ipertesto è costituito non tanto dalle unità testuali che lo compongono, quanto dai legami che vengono istituiti fra di esse. Una delle caratteristiche fondamentali dell’ipertesto è dunque la connettività. L’ipertesto estende il concetto di testualità – o meglio di conoscenze strutturate e leggibili in un’unica consultazione – oltre i confini che le sono stati riconosciuti sino a ora, e questa è resa possibile dalla connessione dei moduli (dei singoli testi) operata dai link. La struttura connettiva si configura non solo come un reticolo di possibilità di percorso per il lettore, ma anche come l’esplicitazione di una rete di relazioni che legano i testi, ciascuno dei quali acquista un senso anche in quanto collegato ad alcuni e non a tutti. La connettività ipertestuale è orientata ed è frutto di atti di selezione e gerarchizzazione dei testi. La configurazione “spaziale” definisce le caratteristiche dell’ipertesto come oggetto da esplorare, secondo una logica di percorrenza e di interpretazione dei percorsi. 1.12 Aspetti cognitivi, pedagogici e didattici dell’ipertesto Come ha osservato Weissberg22, i new media infrangono le barriere tra dentro e fuori rispetto al testo; il regime interattivo impone all’utente di non limitarsi a guardare, ma di agire, di passare da spettatore a spett-attore, di entrare nel testo perché esso possa attualizzare le proprie potenzialità. In primo luogo la connettività può essere considerata quasi uno specchio dell’attività cognitiva. In secondo luogo, l’istituzione di nessi funziona in senso metatestuale, come disvelamento del progetto di organizzazione dei materiali. Gli ipertesti possono essere utilizzati come strumento e sussidio per la didattica e per l’apprendimento. I due aspetti sono correlati, ma non coincidenti. Sul primo versante, il sistema ipertestuale consente un valido supporto per l’archiviazione dei materiali in corso, archiviazione che rende molto agevole la consultazione. Il sistema ipertestuale funziona inoltre come motore verso l’interdisciplinarietà. Ha scritto Landow23 che «la modalità J.L. WEISSBERG, “Le compact réel/virtuel”, in AA.VV., 1989, pp. 7-28. G. P. LANDOW (ED.), Hyper/Text/Theory, Baltimore, The J. Hopkins University Press, 1994. 22 23 41 connettiva incoraggia autore e lettore a violare i confini disciplinari». L’ipertesto è inoltre uno stimolo nell’attività di ricerca, poiché la sua stessa struttura spinge ad articolare il materiale e a connetterlo. L’interattività dei sistemi propone un nuovo modo di apprendere, in cui i ruoli di discente e di insegnante chiedono di essere ridefiniti. Connessa a questa idea c’è quella del sapere come territorio da percorrere e dell’apprendimento come accesso al sapere secondo le modalità dell’esplorazione e della scoperta. Pur nel riconoscimento del maggior grado di partecipazione attiva dello studente allo scambio, sembra però essenziale ribadire la funzione di guida da parte dell’insegnante; costui non si limita più a tramandare dei contenuti, ma assume il ruolo di “navigatore” evidenziando le potenzialità del mezzo e creando non solo una abitudine all’uso dell’ipertesto, ma una familiarità alle logiche della connettività, in modo da guidare gli studenti a costruirsi dei quadri concettuali di riferimento. Riportiamo di seguito alcuni brani di una interessante intervista rilasciata da Peppino Ortoleva su Mediamente: «D. Quali sono gli elementi di novità di un ipertesto? R. Nella tradizione occidentale, dalla stampa in avanti, ci sono affermati essenzialmente tre modelli di organizzazione del messaggio. Il primo è quello classico del testo. La caratteristica fondamentale del testo - il libro, e dopo il libro l'opera musicale e, ancora, il film -, è lo sviluppo della storia con un inizio e una fine ben distinti, con un ordine interno che è sempre uguale a se stesso, con una sua coerenza nel tempo. In questa prospettiva l'ipertesto non è niente di tutto questo, perché esso ha un inizio, nel senso che noi entriamo nell'ipertesto, ma non ha una fine predeterminata. La fine è quella che scegliamo noi sulla base del tempo che abbiamo a disposizione, come quando spegniamo il televisore, o anche semplicemente sulla base del fatto che il percorso conoscitivo che ci interessava ci sembra di averlo compiuto tutto. Ciò significa che l'ipertesto non è uguale a se stesso, lo è solo oggettivamente; quello che è contenuto dentro il CD ROM o in rete è sempre lo stesso, ma nella nostra esperienza di lettori l'ipertesto è soggettivamente diverso; inoltre esso, soprattutto, non ha un ordine prestabilito al proprio interno, ne ha infiniti che possono essere scelti a seconda delle diverse occasioni. Tutti questi elementi dei quali sto parlando rappresentano delle novità abbastanza considerevoli, che trasformano l'ipertesto in un testo che, come la rete telefonica, possiede delle centraline di commutazione al proprio interno. La rete telefonica è un sistema fisso che però può essere attivato lungo direttrici ogni volta differenti. L'ipertesto ha i links che svolgono la stessa funzione: sono come delle centraline telefoniche che 42 collegano i vari punti del testo. Non a caso, la centralina telefonica, il sistema telefonico, è, negli ultimi decenni, la metafora più usata per fare un parallelo fisico con la mente umana. L'ipertesto, in certa misura, trasforma ogni testo in una rete potenzialmente attivabile a livello neuronale. Si dice spesso che l'autore dell'ipertesto, il vero autore dell'ipertesto, sia il lettore; questo non è affatto vero. Il lettore, semplicemente, segue alcune delle strade che l'ipertesto gli permette di percorrere, poi segue mentalmente alcune strade sue. L'ipertesto ha tre autori: uno è l'autore dell'ipertesto propriamente detto, colui che seleziona l'informazione e seleziona anche i links. Il secondo modello è il lettore, che può essere paragonato quasi all'esecutore di un'opera musicale, perché, sostanzialmente, ha un testo di base nel quale seleziona la sua modalità di esecuzione; Il terzo modello di organizzazione del messaggio è legato all’autore. Si dimentica troppo spesso che è colui che ha costruito il software ipertestuale il quale permette tutto quello che abbiamo descritto. Il software è, per certi versi, il vero autore di ogni ipertesto. D. La domanda che occorre porsi di fronte l’utilizzo dell’ipertesto riguarda il fatto se questa quantità enorme di informazioni possa offrire al lettore un supporto nella scelta delle stesse o se rischi, invece, di farlo perdere nei suoi meandri. R. Un buon ipertesto non solo non è una macchina per distrarre il lettore, ma dovrebbe essere una macchina, in qualche misura, per fargli selezionare l'informazione sulla base delle sue esigenze (questo succede già in rete). I siti ben "ipertestualizzati" aiutano moltissimo il lettore a trovare l'informazione che a lui serve. Da questo punto di vista l'ipertesto, certo, garantisce moltissima informazione, ma in più dovrebbe fornire delle chiavi di accesso che aiutino il lettore nel percorso che ha scelto. In molti casi, quello che è stato usato di più, finora, dell'ipertesto, prescindendo da una multimedialità spettacolare, un po' televisiva, è proprio il link come piacere in sé: "Quante belle possibilità ho!" In una fase matura i links saranno offerti per aiutare il lettore a selezionare l'informazione che gli interessa e a procedere oltre con la propria intelligenza»24. 1.13 La società sintetica Le nuove tecnologie della comunicazione determinano direttamente dei mutamenti nella struttura economica e sociale in direzione di una società sintetica. Secondo Bettetini questo è vero in diverse accezioni. Innanzitutto si 24 P. ORTOLEVA in http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio [con alcuni adattamenti nostri]. 43 intende per comunicazione sintetica la velocità, l'accelerazione degli scambi comunicativi. Ma per "sintetica" intendiamo anche la sintesi di apparecchiature diverse che fino a poco tempo fa erano considerate assolutamente non reciprocamente interferenti e che, con l'avvento delle nuove tecnologie possono, in realtà, interagire. E, ancora, "sintetica" anche nel senso di ricreazione di immagini, di oggetti fondamentalmente molto vicini all'originale: il sintetico si contrappone al reale o all'oggetto vero, all'oggetto-punto e alla riproduzione dell'oggetto in rapporto alla vecchia riproduzione delle tecnologie tradizionali. Questa società sintetica indubbiamente avrà dei vantaggi al suo interno, rispetto a quella attuale, nello scambio di informazione e nello scambio dei processi economici, ma comporterà, allo stesso tempo, anche il rischio che la comunicazione si trasformi in un nuovo tipo di potere esercitato soprattutto dai centri d'informatica e dai centri di irradiazione delle notizie25. 1.14 Multimedialità e l'interattività La multimedialità è il ricorso contemporaneo a più media per condurre a un certo tipo di dialogo. Gli ipertesti possono essere soltanto scritti, con rinvii e con percorsi tra vari testi, o dotati di immagini tanto statiche quanto dinamiche. Per quanto riguarda il suono non si tratta di una novità comportata dalle nuove tecnologie perché già il teatro e il cinema, in fondo, possono essere considerati come multimediali. Il fatto è che le nuove tecnologie si dovrebbero usare con sapienza espressiva molto più marcata. Per quanto riguarda l'interattività, questa può essere definita come la disponibilità di un sistema elettronico per rispondere alle richieste dell'utente. Sono sistemi interattivi tutti quelli che riescono a stabilire un rapporto con l'utente in una specie di simulazione della interazione vera personale, dello scambio a livello conversativo. Quindi, mentre nel testo tradizionale – esiste infatti interazione anche nel rapporto con un testo tradizionale sia scritto, sia filmato, sia televisivo- ci troviamo di fronte a uno stato di sapere conservato nel testo e ad un "saper fare", cioè alla distribuzione del sapere nel testo stesso, alle modalità di distribuzione del sapere nel testo, di contro quando abbiamo a che fare con le nuove tecnologie ci si trova di fronte ad un "saper essere", ad un "saper fare" e anche ad un "saper agire": un saper utilizzare tecnicamente queste apparecchiature e soprattutto a saperle utilizzare dal punto di vista creativo e progettuale. Le moderne tecnologie dovranno essere utilizzate con intelligenza e non con casualità, altrimenti si potrebbe verificare il rischio di uno zapping non pilotato, non diretto da esigenze vere, di carattere culturale, psicologico e anche di carattere emotivo. L'emozione, in fondo, se governata è uno strumento di conoscenza molto importante. 25 BETTETINI in http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio. 44 3. VIVERE ON-LINE In questo capitolo si vogliono considerare gli effetti che la Comunicazione Mediata dal Computer genera sulle attitudini relazionali, sulla personalità e sulle abitudini di vita degli utenti finali. Nel percorso d’analisi si prendono le mosse dalla primaria considerazione di quelle che sono le nuove dinamiche di autorappresentazione degli individui in società, delle modalità di rapporto con l’altro e con gli altri, evidenziando le differenze fra le peculiarità dei terreni on-line ed off-line; grazie all’apporto di studi più completi e rappresentativi è possibile rilevare come l’individuo in rete possegga maggiori opportunità di “mascherarsi”, di posizionarsi, di definire se stesso e, soprattutto, di riproporsi, di quante ne provveda la vita reale. Fatta chiarezza sulla situazione dell’individuo off-line e sulle risorse che la rete gli fornisce e quindi sul background dell’utente e sulle possibilità che si trova di fronte man mano che acquisisce dimestichezza con il medium e con i simboli che lo popolano, è opportuno abbozzare una tassonomia delle modalità di utilizzo di tali risorse e focalizzare l’attenzione sulle differenze fra gli usi della rete a seconda dell’alfabetizzazione informatica dei fruitori e dei contesti virtuali - socialmente o personalmente orientati - di utilizzo. Pur con alcune riserve, è possibile individuare due tendenze relative agli effetti sulle pratiche di interpretazione di sé e sulle attitudini relazionali degli individui esposti all’uso del mezzo, definibili come due estremi lungo un continuum. In prossimità dell’estremo on-line on-line si dislocano gli utenti che patiscono un isolamento dal terreno non virtuale dell’esperienza che rischia di venire inglobata quasi totalmente all’interno dell’interfaccia del loro personal computer; in corrispondenza dell’estremo on-line off-line sono stati collocati coloro i quali, anche se heavy-users - quindi al di là del tempo effettivo di utilizzo del medium - traggono dalla rete nuovi stimoli per affacciarsi al di fuori dello schermo con un più ampio bagaglio di esperienze vissute. 3.1 La rete ed il mondo Gli utenti della rete, anche se non in esclusiva, si confrontano quotidianamente con una realtà sociale in cui le comunità o in genere i gruppi di aggregazione spontanea soffrono un serio ridimensionamento sia dal punto di vista del loro numero che della vitalità. Pur assistendo alla nascita di nuove comunità “reali”, non ultimo lo sviluppo dell’associazionismo a scopo benefico, no-profit o deliberatamente volontaristico, è fuor di dubbio che a livello di modi di vita, stili e consumi, la 45 posizione nei confronti dell’altro e degli altri sia di maggiore chiusura rispetto al passato e che l’individuo affronti la vita secondo una prospettiva sempre più self-oriented. I nuovi beni tecnologici, in particolare, sono chiaramente orientati verso la possibilità di intervento dell’utente singolo (per ora canali tematici e narrow-casting, nel prossimo futuro la TV on-demand). A livello di comunità religiose, a scapito delle religioni secolari, il bilancio dei nuovi accoliti è positivo per credenze e culti di tipo contemplativo-spirituale e naturalistico che prevedono un rapporto diretto, non mediato da una comunità, fra l’individuo e la divinità; tuttavia, i recenti sconvolgimenti politici mediorientali, polarizzando lo scontro fra appartenenti a religioni diverse, tenderanno a mantenere netti i confini fra membri di comunità religiose differenti. Il pacchetto Internet (nel senso di CPU, tastiera, mouse, schermo e modem) è quello che fra questi, superato solo dal telefono cellulare, si impone, spesso invasivamente, nella quotidianità del proprietario, generando talvolta anche patologie più o meno lievi. L’accesso alla rete di reti prevede la partecipazione da parte dell’utente ad un repertorio di documenti on-line, nonché di avanzate tecnologie di scambio e comunicazione con altri utenti. Questo patrimonio di risorse permette agli internauti di condividere sia la fruizione e la produzione di contenuti di vario tipo, sia di vivere e condividere esperienze di relazioni private o pubbliche. Nato come luogo di scambio di informazioni e destinato originariamente ad una utenza piuttosto ristretta ed edotta, Internet si è imposto quando, da parte di alcuni imprenditori del settore, si è intuita la possibilità di estenderne e facilitare l’accesso al pubblico di massa; questi se ne è appropriato rapidamente anche, e soprattutto, per fini relazionali più che, come da più parti si era previsto, per acquisti on-line o transazioni bancarie. Fatto curioso è che non solo l’uso della rete di reti è volto alla comunicazione fra utenti, ma anche, e non secondariamente, alla ricerca di un gruppo di appartenenza, pur in un ambiente artificialmente generato 26. Pensato come strumento user-oriented, Internet si profila come un luogo di contatto non solo con dati, ma soprattutto con individui. 3.2 Trame di rapporti 26 T. CONKAR, J. M. NOYES & C. KIMBLE, CLIMATE: A framework for developing holistic requirements analysis in virtual environments. Interacting with Computers 1999, 11 (4), pp. 387-402. 46 Fra le trame di rapporti nate in rete le più strette sono quelle interne alla comunità virtuali, fatta forse eccezione per le love-story sbocciate in chat, seguite successivamente da incontri fisici di persone. Da luoghi di discussione e dibattito sincroni (chat) ed asincroni (mailinglist, forum, ecc.), a gruppi di appassionati che collaborano anche alla gestione di siti web più o meno aggiornati e tecnicamente efficienti, svariate sono le esperienze che persone fisicamente lontane fanno dell’altro e degli altri, grazie alla mediazione del computer. I luoghi di scambio pubblico on-line permettono agli utenti di vivere delle esperienze percepite come il risultato del contatto con testi prodotti da persone (reali o presunte tali) e come relazioni con altrettante persone (chiaramente anche queste reali o così presunte). Poco importa se ad interloquire siano persone esistenti ed individuabili da un nome o invece siano le loro rappresentazioni virtuali (avatar). Si tratta di esperienze avvertite come reali e che realmente influiscono sulle idee, sugli stili di vita, sui modi, sul tempo e sulla bolletta degli utenti; si potrebbe dire quindi che influiscano sia su aspetti della vita on-line che di quella off-line, anche se in fondo preferisco non fare troppo affidamento su questa distinzione che mi pare artificiosa, visto che di vita, anche a livello cognitivo, l’uomo ne ha a disposizione una sola; semmai sono le pratiche sociali e comunicative che si differenziano nei momenti on o off-line, secondo una prospettiva che genera commistione fra i due ambiti, per cui i diversi atteggiamenti tendono a mescolarsi. Così come a livello cognitivo - nel rapporto with the net - succede a chi usa frequentemente dei software di avere una concezione più elastica della realtà, simile a quella del software che adopera, (mi è capitato dopo molte ore passate al computer di cercare - chissà dove - il tasto Ctrl+Z anche quando, in momenti di vita “reale”, avevo salato troppo l’acqua per la pasta!), parimenti, a livello relazionale, i più svariati atteggiamenti ed effetti delle situazioni esperite on-line si ripercuotono anche al di fuori; si pensi, per esempio, al senso di selfefficacy che scaturisce dal sapersi parte di comunità decisionali o gestori di siti web, al piacere derivato dal saper condurre a termine con successo interazioni in chat, alla riproposizione di stili espositivi e modi di dire tipici del linguaggio online in altri ambiti e, non ultimo, alla possibilità di esercitare le proprie attitudini relazionali (come in una palestra sociale) secondo la forma del moratorium27. 3.3 Comunita’ on-line I fruitori di Internet non solo partecipano con altri delle loro avventure on-line o meno, ma delimitano spazi e difendono da attacchi esterni i luoghi ed i 27 L. PACCAGNELLA, La comunicazione al computer, Il Mulino, Bologna 2000 47 modi di manifestazione di queste esperienze. Ci si riferisce agli appartenenti a comunità virtuali come a coloro i quali, in una massa diversificata, creano e si collocano all’interno di un gruppo, non esclusivamente per appartenenza religiosa od etnica, ma, soprattutto, per fini ludici o deliberatamente relazionali, per la necessità di darsi un’appartenenza. Si utilizza un’accezione allargata di comunità virtuale che permette di coinvolgere le più svariate tipologie di individui-utenti: da chi, spesso inesperto, scrive qualche e-mail ad amici e chatta su siti che permettono di creare una mini-presentazione di sé visibile a chi possiede - gratuitamente - un account; da chi partecipa alla vita di comunità globali ad accesso free, sostenuto da grossi provider (ad esempio Digiland, Fortunecity, Geocities, Xoom, ecc.) e comunità di esperti in Information Technology, grafica o programmazione, fino a chi si sofferma su spazi dedicati all’incontro ed allo scambio di materiale per adulti. L’uso di un’accezione allargata di comunità virtuale è motivato dal fatto che, in rete, l’anonimato e l’assenza di contatto fisico o diretto fra individui generano dei processi di costruzione dell’immagine di sé, non tanto come il prodotto di interazioni con singoli (come avviene nelle interazioni off-line), quanto piuttosto come il risultato cumulativo delle diverse interazioni con la comunità (o le comunità) di riferimento. L’interattività offerta dalla rete risiede nella possibilità di avere scambi rapidi e numerosi non esclusivamente one to one. In questo senso la definizione operativa di comunità virtuale è sia di tipo qualitativo che quantitativo, nel senso che si considera appartenente a comunità virtuali chi ha contatti con altri utenti della rete con una certa frequenza. 3.4 Identita’ frammentata Se “comunicare vuol dire”, in rete o meno, “definirsi in termini di status e potere comunicativo, connotare il proprio modo di porsi rispetto alle relazioni che si instaurano”28, quello che ci si chiede è quanto le esperienze on-line confluiscano o modifichino lo statuto delle interazioni e della socialità off-line e quanto siano funzionali all’auto-definizione del soggetto post-moderno. A questo proposito Grandi29 osserva non solo la fluidità e l’indeterminatezza di alcune categorie considerate centrali nella definizione dell’identità, ma conferma anche la frammentazione dell’identità medesima. Le cause di tale frazionamento sono da ricercare sia nei diversi e molti ruoli che ciascuno ricopre nella società odierna, sia nella confluenza di comunicazioni e sollecitazioni di vario tipo provenienti da fonti diverse tra loro. 28 G. BETTETINI, S. GARASSINI, B. GASPARINI, N. VITTADINI, I nuovi strumenti del comunicare, Bompiani, Milano 2001 29 G. CELIANI e R. GRANDI (a cura di), Moda: regole e rappresentazioni. Il cambiamento, il sistema, la comunicazione, Franco Angeli, Milano 1995, p. 65. 48 Se l’identità non è unitaria, Wilson30 (1993) propone come misura della personalità l’alternativa del concetto di stile, che, con la sua fluidità, offre una nuova modalità di rappresentazione che supera la stagnante fissità delle “old fashioned ideas of personality and core identity”. Se non esiste più la necessità di un’identità stabile, un surrogato è offerto da nuove forme di autodefinizione, basate su elementi di stile, non identificabili nelle classiche categorie di genere (estrazione sociale, sesso, età) ma come posizionalità. Coerentemente con la loro definizione, le posizioni sono sottoposte a rapido deterioramento e necessitano di continue modifiche e successivi riposizionamenti. Della Computer Mediated Communication si è detto che offre agli utenti di reti la possibilità di sopravvalutare la propria importanza, ma anche di assumere comportamenti meno responsabili, di avere sempre una seconda chance. Si è detto anche che può esprimere molto efficacemente differenziazioni di status sociale. In realtà l’anonimato visivo della CMC permette agli utenti di assumere atteggiamenti irresponsabili e mutevoli nei contesti in cui è coinvolta la loro identità personale, ma anche di conformarsi scrupolosamente all’osservanza delle norme e di mantenere un ruolo coerente nel tempo, in contesti che enfatizzino l’identità sociale. Si può aggiungere, inoltre, una prospettiva di analisi trasversale basata sulla familiarità col medium: in qualsiasi contesto, chi sa interpretare ed utilizzare meglio i linguaggi ed i simboli della rete (dalla conoscenza degli emoticon e delle formule abbreviative nelle chat, alla netiquette nelle comunicazioni formali, al grado di conoscenza dei linguaggi e dei software fra appassionati o fra utenti di Mud) ha un vantaggio anche gerarchico sugli altri. Da questo punto di vista la CMC è un’attività fortemente auto-referenziale. In che modo le caratteristiche della CMC si intessono con le peculiarità dei soggetti-utenti? In rete è consentito assumere posizioni molto diverse, è possibile riformularle o crearne di nuove tramite un vasto uso di elementi di stile, è possibile migliorarsi man mano che si apprendono le modalità d’uso del mezzo e degli strumenti che offre per comunicare; talvolta l’anonimato garantisce un’immagine talmente deindividuata e deindividuabile, che l’utente può, persino, e capita molto di frequente, modificare, nella presentazione di sé, sia il genere sessuale che l’età. 3.5 Usi relazionali In quali modi le interazioni on-line, in contesti non socialmente orientati, possono modificare la fiducia nelle proprie capacità relazionali? 30 E. WILSON, Fashion and Postmodern Body, in J. ASH e E. WILSON (eds), Chic Thrills. A Fashion Reader, University of California Press, Berkeley 1993. 49 Le interazioni on-line sanzionate negativamente vengono, quasi sempre, subito interrotte e dimenticate, ed in ogni caso non intaccano l’immagine pubblica di chi ne è coinvolto; quando per esempio si perde la faccia in chat, l’esperienza è individuale, mentre se ciò accadesse nella vita off-line, il senso di disapprovazione saprebbe essere più duraturo, venire ricordato ed incorporato dall’immagine stessa della persona con cui si sono avuti degli attriti, la quale potrebbe, a sua volta, diffondere ad altri individui il proprio giudizio negativo. On-line, invece, la possibilità di avere sempre nuovi ed infiniti account permette di ripartire da capo ogni qual volta lo si desideri o le situazioni lo richiedano. Questa opportunità può implicare due atteggiamenti fra loro opposti, considerabili come due estremi di un continuum in cui si vogliano eventualmente collocare le conseguenze che le interazioni on-line hanno sulle predisposizioni individuali alla socialità off-line. Se non affiora un rifiuto del medium, l’utente in rete ha due modi di interpretare le sue interazioni on-line: o sceglie di sfruttare la fluidità e la facilità offerte dalla tecnologia come unico strumento per vivere esperienze di contatto disteso e personale con altre “persone”, cui potrà forse seguire un incontro fisico, oppure, forte delle sperimentazioni attuate secondo la forma del moratorium, può utilizzare la rete come test della personalità e degli atteggiamenti, come luogo dove trovare nuovi stimoli e risorse in termini anche di autostima (ed in questo secondo caso il fine, o meglio l’effetto è che si vive in maniera migliore la propria socialità off-line). In realtà, difficilmente si può immaginare che esistano degli individui del tutto simili al secondo tipo descritto, cioè utenti che sappiano imparare a trasferire in toto l’allentamento del controllo emotivo anche nella vita off-line, o che gironzolino per la rete esclusivamente in cerca di nuovi stili da riproporre a se stessi per crearsi una nuova e più compiaciuta identità personale. Sicuramente c’è chi assimila atteggiamenti più disinibiti, chi si arricchisce di nuove tecniche espressive ed apprende comportamenti adeguati ai contesti, specie in riferimento ai gruppi di adolescenti; c’è chi, specie se geograficamente isolato, si appropria, confrontandosi con gli altri utenti, di tecniche simboliche, la conoscenza delle quali gli sarebbe, altrimenti, stata preclusa. Più facile è credere che ci siano degli individui del primo tipo, talmente rassicurati e supportati dalle opportunità offerte dalla rete, da racchiudere la loro socialità quasi esclusivamente nel medium, tanto da dimostrare un atteggiamento anche patologico (in questo caso l’effetto della CMC è deleterio, nel senso che esula l’utente dalla realtà dei rapporti off-line). Si tratta prevedibilmente di individui insicuri, eventualmente già poco inseriti od avvezzi ad interazioni, che, grazie all’anonimato della rete, trovano modo di adeguare le manifestazioni visibili della loro identità a quelle caratteristiche che sentono di non possedere nella loro vita off-line, e che, quando organizzano degli incontri reali con persone conosciute, per esempio, in chat, soffrono di una certa 50 difficoltà e spaesamento dovuti al fatto che le rappresentazioni di sé date on-line differiscono sensibilmente dall’aspetto reale. L’essenza di Internet è la sua indeterminatezza, non solo per l’incertezza circa il futuro, ma anche per la sua qualità tipicamente postmoderna. Internet incorpora radio, cinema e televisione e ne permette la loro distribuzione. 51 4. IL VILLAGGIO GLOBALE Quando si parla di mediologia il riferimento a Mc Luhan è d’obbligo. Lo studioso canadese (1911-1980) rileva la centralità dei linguaggi tanto nell’era contemporanea quanto nelle epoche precedenti. La civiltà dell’oralità ha lasciato il posto alla civiltà della scrittura, la civiltà della stampa ha soppiantato quella della scrittura e oggi quella della stampa ha fatto spazio alla civiltà elettrica della televisione (e, aggiungiamo noi, della rete Internet). Nello scritto Gli strumenti del comunicare31 McLuhan parla di un'epoca elettrica che si sostituisce alla passata epoca meccanica e traccia un accurato ritratto di un uomo nuovo, un abitante del villaggio globale, ancora sospeso tra le due tecnologie e tra due modi diversi di agire e pensare. Quest'uomo vive in un'unica realtà, il mondo intero ed è attore e spettatore e deve lavorare per costruire le proprie responsabilità perché davanti a lui si presenta una realtà ricca di scambi, influenze, confronti tra tutte le sue parti improvvisamente collegate l'una con l'altra da un afflusso continuo di dati; un'interconnessione che lo costringe ad essere vigile per prevenire la distruzione di una qualsiasi parte dell'organismo che può risultare fatale per il tutto. Il "villaggio globale" è il fortunato ossimoro inventato dallo studioso canadese per descrivere la situazione contraddittoria in cui viviamo. Siamo di fronte a termini che esprimono una contraddizione: il "villaggio" esprime qualcosa di piccolo, mentre l’aggettivo "globale" sta a significare l'intero pianeta. McLuhan ha forzato il linguaggio per meglio esprimere una situazione nuova e difficilmente rappresentabile. Per capire cosa intende Marshall McLuhan possiamo immaginare il mondo popolato da giganteschi dinosauri, o da gatti con gli stivali, che con pochi balzi lo percorrono da un capo all'altro. Quello che prima era gigantesco, ora, grazie alle nostre potenti invenzioni tecnologiche - i magici stivali - è diventato piccolissimo, percorribile in lungo e in largo. La metafora degli stivali prende in considerazione solo l'ambito degli spostamenti, ma quello che rende il mondo un villaggio globale non è solo la possibilità di muoversi rapidamente da un punto all'altro. Mc Luhan afferma che per creare un mondo globale c'è bisogno di una fusione organica tra tutte le funzioni frammentarie e lo spazio totale. Il villaggio globale è la forma che la nostra società sta prendendo sotto la spinta dei nuovi media. McLuhan attribuisce alle tecnologie della comunicazione il potere di configurare la realtà sociale complessiva: «Il suo concetto di galassia è una metafora per indicare l’influenza globale che i media esercitano sulla civiltà. La scrittura, la stampa, i media elettronici, creano un sistema culturale, un modo di 31 M. MC LUHAN, Gli strumenti del comunicare, Il saggiatore, Milano 2002 52 percepire la realtà, da cui viene informata l’esperienza di vita degli individui»32. Il merito della ricerca di McLuhan è di interpretare questa fase di transizione in stretta analogia con lo stato di smarrimento che si era verificato nel momento in cui la civiltà della scrittura si sostituiva alla civiltà dell’oralità. In effetti, la scrittura fu un’esperienza traumatica perché attraverso la doppia articolazione linguistica si opera una disgiunzione tra il piano della comunicazione e il piano dell’esperienza fisica. L’invenzione della scrittura fonetica dissolse l’incanto dell’immediatezza con l’ambiente che caratterizzava il mondo popolato dalla cultura dell’oralità. Se infatti nelle culture dell’oralità il sistema percettivo era egemonizzato dall’udito, nella civiltà della scrittura è dominante quello della vista. Nell’era elettrica avviene un nuovo rovesciamento: i media elettronici recuperano l’importanza della sensazione auditiva, portando l’individuo fuori dal dominio della scrittura. McLuhan era convinto che l’oralità dell’audiovisivo permettesse il recupero della genuinità dei rapporti interpersonali: il fascino immutato dell’oralità primaria. Il sociologo canadese ha molto insistito sulla capacità dell’alfabetizzazione di strutturare i sistemi istituzionali e culturali. E’ grazie ai media che la civiltà prende forma, è per effetto della trasformazione dei media che essa entra in crisi. Dalla scrittura nascono la riproducibilità tecnica, l’educazione di massa, la visione prospettica e, in generale, un nuovo modo di organizzare il comportamento sociale. «La scrittura fonetica nasce come tecnologia, per essere quindi coerentemente sostituita da una tecnologia più avanzata, come quella dei media elettronici»33. I media sono «potenti protesi», prolungamenti dei nostri sensi che ci permettono di vedere lontanissimo, di ascoltare e di inviare messaggi in ogni angolo della terra. E’ come se la nostra vista e il nostro udito si fossero dilatati a dismisura facendo del mondo intero il nostro ambiente di vita. Questa immersione in una dimensione comunicativa planetaria appare, soprattutto alle giovani generazioni, un fatto del tutto naturale, scontato. In realtà, esso rappresenta una delle più grandi rivoluzioni della storia umana, una rivoluzione destinata in futuro a sviluppi imprevedibili sul piano delle trasformazioni sociali e culturali, anche se già ora è possibile individuare alcune linee di sviluppo. E' sempre più evidente che non sono più le istituzioni sociali tradizionali (la famiglia, la comunità, l’appartenenza religiosa, l’etnia) a fornire modelli di comportamento e di identificazione sociale, ma piuttosto sono i contenitori collettivi della comunicazione di massa a proporre e a diffondere mode, stili di vita, linguaggi, esperienze culturali da consumare velocemente. S. ABRUZZESE - A. MICONI, Zapping. Sociologia dell’esperienza televisiva, Liguori, Napoli 2001, p. 78 33 Ibidem, p. 85 32 53 Per quanto possiamo sentirci persone libere, capaci di determinare autonomamente le nostre scelte, sta di fatto che gli argomenti di cui discutiamo, le nostre conoscenze, le nostre opinioni, i nostri gusti prendono forma in quest’orizzonte comunicativo globale. Se per un giorno provassimo ad annotare le cose su cui abbiamo riflettuto o di cui abbiamo parlato con gli altri, ci accorgeremmo che buona parte dei nostri discorsi fanno riferimento, direttamente o indirettamente, a ciò che abbiamo appreso dai media. Anche molte semplici scelte quotidiane vengono influenzate dalla stampa, dalla radio o dalla TV: gli acquisti che facciamo, la musica che ascoltiamo, i film che decidiamo di andare a vedere. Nessuno nel nostro tempo, tranne qualche improbabile eremita, può sottrarsi al circuito della comunicazione complessiva, anche perché farlo significherebbe perdere il contatto con la realtà. Profeticamente McLuhan sottolineò come il mondo occidentale, dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente meccanici, fosse ormai entrato in una fase di implosione: «Nelle ere della meccanica avevamo operato un'estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo d'impiego tecnologico dell'elettricità abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell'estensione dell'uomo: quella, cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all'intera società umana, proprio come, tramite i vari media abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi»34. 4.1 Il medium è il messaggio. Una delle tesi più suggestive e geniali di McLuhan è quella che identifica la luce elettrica come un medium di comunicazione anche se non ha un contenuto. La sua osservazione è una riprova di come la gente trascuri l'esame dei media. «Soltanto quando viene usata per diffondere il nome di una marca, ci si accorge che la luce elettrica è un medium. Ci si accorge, cioè, non della luce ma del suo contenuto, in altre parole di quello che è di fatto un altro medium»35. La luce elettrica dimostra che il messaggio si identifica col medium perché esso cambia orari e, in un certo senso, perfino stagioni: la luce elettrica modifica di minuto in minuto l’ambiente in cui l’uomo normalmente stabilisce e sviluppa le sue relazioni interpersonali. Infine, è la luce elettrica che plasma pressoché ogni attività nel cosiddetto tempo libero. La tesi secondo cui il medium è il messaggio è giustificata dal fatto che il contenuto di un medium è sempre un altro medium: «Può risultare illuminante l'esempio della luce 34 35 MCLUHAN, Gli strumenti del comunicare, op. cit., p. 9. Ibidem, p. 17. 54 elettrica. Essa è informazione allo stato puro. E' un medium, per così dire, senza messaggio, a meno che non lo si impieghi per formulare qualche annuncio verbale o qualche nome»36. Il messaggio di un medium o di una tecnologia stabilisce un mutamento nel modo di percepire il nostro rapporto con il mondo e con gli altri, le proporzioni e il ritmo: «La ferrovia non ha introdotto nella società né il movimento, né il trasporto, né la ruota, né la strada, ma ha accellerato e allargato le proporzioni di funzioni umane già esistenti creando città di tipo totalmente nuovo e nuove forme di lavoro e di svago»37 . 4.2 Media caldi e freddi La differenza tra media caldi e media freddi è una delle classiche differenze introdotte da McLuhan e una delle più discusse. «C'è un principio base che distingue un medium "caldo" come la radio o il cinema, da un medium "freddo" come il telefono o la TV. E' caldo il medium che estende un unico senso fino a un' "alta definizione": fino allo stato, cioè, in cui si è abbondantemente colmi di dati. Da un punto di vista visivo, una fotografia è un fattore di "alta definizione", mentre un cartoon comporta una "bassa definizione", in quanto contiene una quantità limitata di informazioni visive. Il telefono è un medium freddo, o a bassa definizione, perché attraverso l'orecchio si riceve una scarsa quantità di definizioni, e altrettanto dicasi, ovviamente, di ogni espressione orale rientrante nel discorso in generale perché offre poco ed esige un grosso contributo da parte dell'ascoltatore. Viceversa i media caldi non lasciano molto spazio che il pubblico debba colmare o completare; comportano perciò una limitata partecipazione, mentre i media freddi implicano un alto grado di partecipazione o di completamento da parte del pubblico. E' naturale quindi che un medium caldo come la radio abbia sull'utente effetti molto diversi da quelli di un media freddo come il telefono»38. Per chiarire ulteriormente la differenza fra media freddi e media caldi si può ricorrere alla metafora degli occhiali da vista e degli occhiali da sole; i primi presentano un messaggio a bassa definizione e lasciano molto spazio alla possibilità di completamento dell’informazione; i secondi impegnano i nostri sensi con molte informazioni e un forte coinvolgimento. McLuhan parlava dei media come estensioni dell’uomo, estensioni fisiche. Per esempio, il piede viene esteso attraverso la ruota, la ruota ulteriormente si estende attraverso il treno, poi diventa automobile e, attraverso 36 Ibidem, p. 16. Ibidem, p. 16. 38 Ibidem, p. 31. 37 55 queste forme di estensione fisica, l’uomo si impadronisce della realtà che ha attorno a sé. Oltre alle estensioni fisiche, ci sono anche le estensioni percettive, le estensioni psicologiche. I nuovi media penetrano dentro i canali della nostra percezione e arrivano più direttamente alla organizzazione della nostra conoscenza: «I nuovi media e le nuove tecnologie con cui amplifichiamo ed estendiamo noi stessi costituiscono una sorta di enorme operazione chirurgica collettiva eseguita sul corpo sociale con la più totale assenza di precauzioni antisettiche. Se le operazioni sono necessarie, deve essere presa in considerazione la possibilità inevitabile di infettare, nel corso dell'intervento, l'intero sistema. Quando si opera nella società con una nuova tecnologia non è infatti l'area incisa quella che viene maggiormente toccata. La zona dell'urto e dell'incisione è intorpidita. Quello che cambia è l'intero sistema. L'effetto della radio è visivo, quello della fotografia auditivo. Ogni nuovo trauma sposta i rapporti tra i sensi. Ciò che oggi cerchiamo è un modo per controllare questi spostamenti nell'ambito del mondo psichico e sociale o per evitarli completamente. Avere una malattia senza i suoi sintomi significa esserne immunizzati. Ma nessuna società è mai stata così cosciente delle proprie azioni da arrivare all'immunità di fronte alle sue nuove estensioni o tecnologie»39. 39 Ibidem, p. 75. 56 57 SEZIONE 3 TEORIE DEI MEDIA 58 59 1. IL PENSIERO CRITICO 1.1 I primi studi Nell’ambito della letteratura sociologica è prevalente la chiave interpretativa “apocalittica”. In questa sezione passeremo in rassegna alcuni autori che appartengono al filone del pensiero negativo, ossia a un tipo di analisi critica della cultura industriale e di massa. Il punto di vista comune delle teorie critiche consiste nell’inconciliabilità dell’azione tecnologica con il comportamento sociale. Secondo la prospettiva critica del pensiero negativo la cultura di massa nasce come espressione del potere industriale e pertanto ogni gratificazione provata dall’individuo in questo sistema non può che essere superficiale, manipolata in anticipo, funzionale all’occultamento di problemi superiori. All’interno del pensiero critico l’espressione “industria culturale” gode di un largo successo: essa condensa il carattere di asservimento della cultura alle logiche del mercato. Il concetto, come è noto, era stato coniato dalla Scuola di Francoforte nel 1944 ed aveva un’accezione negativa; esso allude alla preordinata integrazione, dall’alto, dei suoi consumatori. Il consumatore non è tanto il soggetto di tale industria, quanto il suo oggetto. L’industria culturale suscita i bisogni e determina i consumi degli individui, rendendoli passivi ed etero-diretti, annullandoli come persone e riducendoli ad una massa informe: «l’industria culturale, la società ultraorganizzata, l’economia pianificata hanno beffardamente realizzato l’uomo come essere generico:privo di coscienza individuale, di iniziativa morale autonoma, manipolato a piacere»40. Anche il tempo del divertimento, il momento della libera creatività individuale, è divenuto qualcosa di programmato poiché è l’industria culturale che stabilisce modalità e orari del divertimento stesso. La concezione della Scuola di Francoforte è riconducibile al giudizio di fondo secondo cui la società contemporanea è il campo di esercizio di un’autorità assoluta, subdola, di cui i media costituiscono la più efficace arma di penetrazione. Come mai un pensiero così semplificato ha esercitato un’enorme influenza sulla cultura europea? La fortuna è legata a fattori politici (e generazionali) tipici degli anni ’60 e ’70, ma anche alla efficace azione divulgativa e alla capacità di proporre formule linguisticamente brillanti (Adorno parlava di “strapotenza estraniata delle cose”, di “demitizzazione”, di “arcaica innocenza”; Marcuse parlava di “verità poetica”, di “pensiero positivo”, di “Grande Rifiuto”). 40 ADORNO-HORKHEIMER, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997. 60 La critica di Adorno alla società avanzata procede attraverso una successione di aforismi, di frasi apodittiche, di monogrammi: «Da ogni spettacolo cinematografico mi accorgo di ritornare, nonostante ogni vigilanza, più stupido e più cattivo»41. La critica di Adorno diviene la contestazione globale della cultura di massa come falsa coscienza, come occultamento dei traumi della modernità «L’industria culturale pretende ipocritamente di regolarsi sui consumatori e di fornire loro ciò che desiderano (…) anziché adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea e le reinventa. Essa gliele inculca, conducendosi come se fosse anch’essa un cliente»42. L’idea di Adorno e Horkheimer è che il principio estetico kantiano – “l’affermazione storica dell’immagine prodotta secondo i moduli dell’intelletto conforme al quale dovrà essere contemplata”- sia stato realizzato dall’industria di Holliwood. L’immagine destinata al consumo di massa viene standardizzata, di fatto censurata in anticipo, rispetto al momento della sua circolazione effettiva. Essa è prodotta sulla base delle richieste del mercato, del suo destino prevedibile. Un film superficiale non è soltanto più vendibile, è anche veicolo di un’ideologia organica all’imperativo consumistico che la produzione inocula nei soggetti sociali. L’interpretazione dei francofortesi deforma in senso negativo il rapporto tra produzione e consumo, tra desiderio e gratificazione consumistica, ma non può negare l’evidenza di questo rapporto. Sulla stessa lunghezza d’onda si sviluppa il pensiero di Marcuse, anche se più ragionato e completo, sul piano scientifico riproduce le stesse carenze di fondo. Marcuse denuncia la nascita del pensiero unico come espressione della società industriale avanzata. Il sistema tecnologico ha la capacità di far apparire razionale ciò che è irrazionale e di stordire l’individuo in un frenetico universo consumistico. La stessa tolleranza di cui mena vanto tale società è unicamente una “tolleranza repressiva” poiché il suo permissivismo funziona soltanto a proposito di ciò che non mette in discussione il sistema stesso. La trasformazione della razionalità scientifica in potere politico ha tolto la possibilità di intervento a tutte le voci antitetiche del pensiero umanistico, della letteratura e dell’arte. 1.2 Il tecnopolio Postman si inserisce nel solco degli autori apocalittici per l’acceso rifiuto della tecnologia moderna in nome del tentativo di preservare l’integrità delle culture umanistiche, attraverso un’accentuata esasperazione delle qualità negative del progresso, mettendo in rilievo l’eccedenza di tecnologia e la 41 42 ADORNO, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1966, p. 17. Ibidem, pp. 241-2. 61 tendenza tipica del mondo capitalista alla formazione del monopolio: «il tecnopolio è una condizione culturale e mentale consistente nella deificazione della tecnologia. Il che significa che la cultura ricerca nella tecnologia la propria giustificazione, trova soddisfazione nella tecnologia e prende ordini dalla tecnologia (…) la tecnologia fa aumentare la scorta delle informazioni disponibili; mentre la scorta aumenta, i meccanismi di controllo risultano insufficienti e ne sono necessari altri per trattare le nuove informazioni. Se anche i nuovi meccanismi di controllo sono prodotti tecnici, determinano un ulteriore aumento della scorta delle informazioni. Quando questa scorta non è più controllabile, si verifica un crollo generale della tranquillità psichica e della finalità sociale. La gente, priva di difese, non ha modo di dare un senso alle proprie esperienze, perde la capacità di ricordare e non riesce a immaginare un futuro dotato di logica»43. 1.3 I persuasori occulti Anche Vance Packard si muove in una direzione determinata dalla diffidenza verso la mostruosità del progresso. In I persuasori occulti44 l’autore indaga le strategie di manipolazione dei comportamenti individuali e collettivi sviluppate intorno alla passività del consumatore. In particolare, il pubblicitario era visto come un “persuasore occulto” che possedeva potenti e paurosi strumenti, con i quali era in grado di influenzare il comportamento degli individui, di guidare gli acquisti quotidiani e di manipolare i bisogni stessi della gente, creandone di nuovi al punto da spingere le persone a cambiare i loro atteggiamenti nei confronti dei prodotti in funzione delle esigenze del mercato: «L’impiego della psicanalisi di massa nelle grandi offensive di persuasione sta ormai alla base di una industria multimiliardaria. E i persuasori di professione non hanno esitato a servirsene, avidi come sono di tutto ciò che possa aiutarli a propagandare con maggiore efficacia le loro merci – siano esse manufatti, idee, ideali, atteggiamenti, candidati o stati d’animo (…) Due terzi delle cento maggiori agenzie pubblicitarie d’America hanno condotto campagne “in profondità” di questo tipo, basandosi su concetti strategici ispirati a quella che gli specialisti del marketing chiamano “analisi motivazionale»45. La persuasione è una strategia invisibile e i media sono i suoi esecutori. La strategia di persuasione si fonda sulla soddisfazione (almeno apparente) di otto fondamentali bisogni dell’inconscio individuale e collettivo: 43 N. POSTMAN, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 70-71. 44 V. PACKARD, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1989. 45 Ibidem, pp. 5-6. 62 - - - - - - - - sicurezza emotiva: questo bisogno può influire, ad esempio, nell’acquisto di un frigorifero, che rappresenta per molti la sicurezza che in casa ci sia sempre da mangiare; stima e considerazione: questo bisogno può venir soddisfatto dall’acquisto, ad esempio, di una macchina nuova, che permette al suo possessore di conferirgli uno status più elevato; esigenze dell’ego: l’esempio di Packard si riferisce a quel fenomeno per cui alcuni scrittori pagano gli editori per veder le proprie opere pubblicate; impulsi creativi: l’esempio riportato dall’autore si riferisce all’innovazione dei preparati “istantanei” per la preparazione dei dolci. Le massaie erano inizialmente molto ostili perché percepivano il rischio di una riduzione degli elogi; il problema fu risolto mettendo sul mercato dei preparati che prevedessero l’intervento attivo e personale delle massaie; speculazione sull’affetto: gli agenti pubblicitari di Liberace (un celebre pianista-cantante della televisione), durante la trasmissione dell’esibizione del cantante, proiettavano le immagini della madre intenta ad ascoltare il figlio dalla sua sedia a dondolo. senso di potenza: il fascino che esercita sugli individui qualsiasi prodotto che sembri offrire un aumento della potenza personale, rappresenta per la pubblicità un prezioso campo di sfruttamento; legami familiari: le ricerche motivazionali hanno dimostrato che il riferimento a tradizioni di famiglia, a usi e modi di produzione dei tempi passati, risulta di grande efficacia sul piano della persuasione e della suggestione; bisogno di immortalità: secondo Packard ciò che attira un uomo ad acquistare un’assicurazione sulla vita è l’implicita prospettiva di immortalità attraverso il perpetuarsi della sua influenza. Questi bisogni esprimono la debolezza dei consumatori: con la sua esemplificazione Packard ha voluto mostrare come bisogni, nostalgie, desideri, aspirazioni dell’inconscio possono servire ai pubblicitari per potenziare la forza di attrazione dei prodotti, promettendo al pubblico di soddisfarli mediante l’uso dell’oggetto e del suo valore simbolico. Packard si muove alla ricerca dei nervi scoperti del consumatore collettivo, della sua vulnerabilità. 1.4 Il virtuale e il reale Baudrillard (nato a Reims 1929) è un sociologo che ha consacrato la sua opera all’analisi della società contemporanea studiando in particolare la società 63 dei consumi: i suoi miti, le sue strutture. Il consumo è trattato nei suoi lavori come un ‘linguaggio sociale’ qualcosa che tende ad aumentare i desideri degli individui piuttosto che a soddisfarli. La sua concezione di fondo è che la produzione di massa abbia trasformato il piacere in un dovere, addestrando i cittadini ad un comportamento di consumo funzionale all’assorbimento passivo dei beni immessi sul mercato. Il suo punto di vista è che la domanda sociale è una conseguenza dell’offerta. Questo condizionamento non coinvolge tanto le situazioni specifiche di bisogno, quanto la generale propensione al consumo, che queste situazioni rendono visibile. In un’intervista rilasciata su Mediamente, significativamente intitolata Il virtuale ha assorbito il reale, il filosofo francese, alla domanda se l'immersione totale nello schermo e nel computer da parte del soggetto possa implicare la scomparsa della realtà in un generico non-luogo, ha risposto: «La realtà è già scomparsa in certo modo, ma perché essa in fin dei conti, non è mai altro che l'effetto di uno stimolo, di un modello. C'è un modello di realtà, un principio di realtà, che è stato costruito e che si può scomporre molto rapidamente. E' in effetti una sorta di costruzione quella che si è sgretolata sotto la spinta delle tecnologie moderne, delle nuove tecnologie in particolare. Ciò che viene chiamata la realtà virtuale ha senza dubbio un carattere generale e in qualche modo ha assorbito, si è sostituita alla realtà nella misura in cui nella virtualità tutto è il risultato di un intervento, è oggetto di varie operazioni. Insomma tutto si può realizzare di fatto, anche cose che in precedenza si opponevano l'una all'altra: da una parte c'era il mondo reale, e dall'altra l'irrealtà, l'immaginario, il sogno, eccetera. Nella dimensione virtuale tutto questo viene assorbito in egual misura, tutto quanto viene realizzato, iperrealizzato. A questo punto la realtà in quanto tale viene a perdere ogni fondamento, davvero si può dire che non vi siano più riferimenti al mondo reale. E infine tutto vi si trova in qualche modo programmato o promosso dentro una superformula, che è quella appunto del virtuale, delle tecnologie digitali e di sintesi. Accade effettivamente che a un certo punto il reale ci sta pur sempre di fronte, e noi ci confrontiamo con esso, mentre con il virtuale non ci si confronta. Nel virtuale ci si immerge, ci si tuffa dentro lo schermo. Lo schermo è un luogo di immersione, ed ovviamente di interattività, poiché al suo interno si può fare quel che si vuole; ma in esso ci si immerge, non si ha più la distanza dello sguardo, della contraddizione che è propria della realtà. In fondo tutto ciò che esisteva nel reale si situava all'interno di un universo differenziato, mentre quello virtuale è un universo integrato. Di certo qui le care vecchie contraddizioni fra realtà e immaginazione, vero e falso, e via dicendo, vengono in certo modo sublimate dentro uno spazio di iper-realtà che 64 ingloba tutto, ivi compreso un qualcosa che sembrava essenziale come il rapporto fra soggetto e oggetto. Voglio dire che nella dimensione virtuale non c'è più né soggetto né oggetto, ma entrambi, in via di principio, sono elementi interattivi. Parlo in termini un po' approssimativi perché non appartengo completamente a questo mondo, non ne faccio parte, ma in ogni caso posso parlarne nonostante tutto, e mi sembra di vedere determinate cose che succedono al suo interno. In questo universo il soggetto non ha più una sua posizione propria, una condizione vera, in quanto soggetto, di un sapere o di un potere o di una storia. C'è invece un'interazione, che vuol dire in fin dei conti uno svolgimento o un riavvolgimento di tutte le azioni possibili. Nella realtà virtuale tutto è effettivamente possibile, ma la posizione del soggetto è pericolosamente minacciata, se non eliminata». Nel mito della caverna si ritrova la chiave interpretativa per la comprensione del conflitto fra reale e virtuale. Riprende il filosofo francese: «L'immagine di Platone è diversa in quanto si riferisce alla figura di una nascita, di qualcosa di irreale in quanto ombra di qualcosa, ma tuttavia il mito parla comunque dell'essere. Ci sono ombre che si muovono in circolo e noi non siamo che il riflesso di un'altra sorgente, che esiste altrove, una fonte luminosa dinanzi alla quale però si interpone un corpo, e le ombre sfilano. Nel mondo virtuale, invece, direi che non ci sono né apparenze né essere, non esistono ombre giacché l'essere è trasparente, in un certo senso questo è il dominio della trasparenza totale. Noi siamo perciò come attraversati in qualche modo dai messaggi, dall'informazione, dai megahertz o che so io, da tutto quel che si vuole, poiché noi stessi siamo trasparenti all'interno della realtà virtuale, non abbiamo più un ombra. La nostra, se si vuole, è tipicamente l'epoca dell'uomo che ha perduto l'ombra. La famosa frase, "egli ha smarrito la sua ombra", è una metafora che sta a indicare che abbiamo perso l'opacità, e in fondo l'essere stesso, lo spessore dell'essere, la sua profondità. Al contempo si è perduto anche il significato che l'ombra aveva un tempo, vale a dire la negatività, la morte. Del resto è vero che di fatto ci troviamo dentro a un sistema che si prefigge di eliminare la morte, nel quale non ci dovrà più essere nulla di negativo, come la fine dell'esistenza e l'ombra. Un sistema totalmente operativo e positivo al cui interno noi saremo tutti trasparenti, comunicativi, interattivi. In questo ambito, perciò, non credo ci sia una scena in cui compaiono queste ombre platoniche. Non so in che contesto ne avevo parlato, ma in ogni caso non sussiste alcun rapporto fra le due immagini se non di contrapposizione, non vi sono analogie». 65 Nel suo libro Il delitto perfetto46 troviamo la ricostruzione di un delitto, ovvero la morte della realtà e lo sterminio delle illusioni ad opera dei media e delle nuove tecnologie. Continua Baudrillard: «A proposito del titolo, si è trattato in effetti dell'uccisione della realtà, e più ancora che della realtà, a mio parere, delle illusioni. Voglio dire che la perdita più grave è senz'altro quella dell'illusione, vale a dire di una parte diversa del nostro rapporto con l'esistente. Il concetto di realtà è relativamente recente, contiene un sistema di valori solo da poco consolidatosi. Per contro, mi sembra che l'illusione sia parte integrante dell'organizzazione simbolica del mondo, ed è perciò assai più dinamica. È l'illusione vitale di cui parla Nietzsche, costituita da apparenze, fantasie, e tutto ciò che può essere la forma di una proiezione, come una scena diversa da quella della realtà. E mi pare che essa sia stata completamente eliminata da questa operazione del virtuale che, in parole semplici, io chiamo "delitto" ma che in fondo non è che una metafora un poco esagerata e forse persino non troppo giusta, nella misura in cui non si tratta in realtà di un crimine o di un assassinio in senso simbolico. Quando Nietzsche diceva "Dio è morto", ad esempio, intendeva identificare con l'uccisione di Dio una rivoluzione positiva, se così posso esprimermi, mentre nell'altro caso non abbiamo un omicidio ma una eliminazione, una scomparsa, un annullamento, cosa alquanto più grave. Quanto all'aggettivo "perfetto", esso denota come il vero delitto, come sto per dire, consista nella perfezione, perché vuol dire che è quest'ultima il risultato finale. Questo universo reale, imperfetto e contraddittorio, pieno di negatività, di morte, viene depurato, lo si rende "clean", pulito; lo si riproduce in maniera identica ma dentro a una formula perfetta. Così avremo bambini perfetti grazie alla manipolazione genetica, avremo un pensiero perfetto grazie all'intelligenza artificiale, e così via. La perfezione è dunque questo ideale in certo modo perverso che rappresenta il vero delitto. A mio avviso, insomma, il delitto consiste nella perfezione di questa specie di modello ideale che si vuole sostituire alla realtà e al contempo all'illusione». La posizione di Baudrillard nei confronti dei media è estremamente critica. I rischi maggiori per una società dell'informazione come la nostra sono quelli di rendere l’accadimento incomprensibile: «I media si frappongono in maniera tale fra la realtà e il soggetto, che, mi pare, non ci sono più interpretazioni possibili in quanto l'informazione rende l'accadimento incomprensibile. L'evento storico non si sa più cosa sia quando passa attraverso i media, in breve si ha una transustanziazione di questo tipo in tutto ciò che i media fanno, così che ne 46 J. BAUDRILLARD, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Raffaello Cortina, Milano1996. 66 risulta quel che io chiamerei una simulazione, un simulacro, e perciò non esiste più né il vero né il falso: non si sa più quale sia il principio della verità. Questo è certamente un dato importante; ma infine, c'è davvero bisogno della verità? In fin dei conti, l'obiettivo dei media non è stato forse di eliminare effettivamente il principio morale e filosofico della verità, per installare al suo posto una realtà completamente ingiudicabile, una situazione di incertezza che, se si vuole, può ben essere immorale e difficile da sopportare, ma che in certo modo è ironica? Se guardiamo alla cosa con ironia, scopriamo che i media si sono dedicati a smontare questo principio di verità, autorità e certezza che rappresenta del resto, bisogna dire, il fondamento di tutta una civiltà dal carattere autoritario e moralmente rigoroso. Dunque i media svolgono anche questa funzione di scomposizione, e si possono interpretare nell'altro senso. Allo stesso modo tutta la tecnica in generale, non solo i media, ma gli strumenti tecnici, le macchine, eccetera, sono in certo senso anch'essi dei mezzi per togliere realtà al mondo, e inoltre, come ho detto, per instaurare una sorta di incertezza, di gioco, e finalmente di amoralità delle cose. E forse in tal modo essi ci liberano dal dovere di attenerci ai principi di verità, di obiettività, e di tutti i princìpi su cui è fondata la nostra morale. Tutto questo, evidentemente, è per noi destabilizzante, non c'è alcun dubbio, ma è sempre la stessa storia: da una parte si perde, in misura enorme, ma se si sa affrontare la situazione in una certa prospettiva si può pervenire a un'interpretazione ironica, nel senso che l'ironia può ispirare una visuale totalmente relativizzata e destabilizzata. Si può perdere, certamente, ma forse si possono anche trovare nuove regole per giocare. Sono perciò radicalmente critico contro i media nel quadro del sistema dei valori umanistici, ossia quello che noi conosciamo e che è nostro: a questo livello bisogna essere assolutamente critici e addirittura spietati. Se però si affronta la questione diversamente, e ci si pone al di là della fine, al di là di quel principio, in un eventuale altro universo, allora non si può dire: può darsi che i media, la tecnica, eccetera non siano che operatori di qualcosa che non so descrivere, di un gioco, di ironia, non so». Per quanto riguarda Internet il filosofo francese svolge queste interessanti osservazioni circa il carattere di fascinazione svolto dal new media sottoponendo a dura critica il presunto carattere interattivo: «In Internet c'è un'interazione, che non è in alcun modo una relazione duale poiché non è fondata sull'alterità, e non è nemmeno una relazione di confronto, di sfida, eccetera. Abbiamo invece un rapporto di immersione, di interazione: là dentro non esiste seduzione, al massimo si produce, evidentemente a livello collettivo, una reazione di fascinazione, ma come avviene al cospetto di un universo feticcio, di un oggetto d'adorazione. Non dico questo per negare [questa realtà], anche se è vero che non vi partecipo, non le appartengo, e in un certo senso sono dunque un cattivo giudice e parlo per partito preso; ma quel che mi 67 sembra chiarissimo è che per esserci una seduzione bisogna che ci sia una scena della seduzione, e dei veri attori, non semplicemente degli interattivi, ma attori che mettano in gioco la propria identità al fine della seduzione. Sia nella seduzione amorosa che di altro genere, artistico, estetico, o altro, si verifica una messa in gioco dell'identità, e persino una perdita dell'identità ma nel contesto di un rapporto duale. Poi esiste un piacere della seduzione che non ha nulla a che vedere con il fascino dello schermo e dell'operazione su Internet. C'è relazione di attrazione, e questo è evidente, la cosiddetta fascinazione collettiva, questo può essere. Occorre trasferirsi sul piano dell'ironia e dirsi: "Tutto questo non è forse un'altra scena su cui noi rappresentiamo la commedia di Internet e di tutto il mondo virtuale, della cibernetica, eccetera?" A livello collettivo forse anche questo è soltanto un grande gioco, che non occorre necessariamente prendere del tutto sul serio, così come ogni giorno si dà la commedia della politica e di un mucchio di altre cose. Ebbene, esiste una scena della politica, la quale però è ormai diventata l'ambientazione di un teatro se non comico, almeno, in ogni caso, molto meno drammatico, senza dubbio. Internet è nuovo, originale se si vuole, ma come dico, ne esiste già una replica nei media. Internet stesso si trova già sdoppiato nel commento mediatico che se ne fa e nel suo consumo globale, e pertanto Internet stesso non è già più Internet, ma è stato attirato nel sistema della simulazione, e in fondo è già stato trasformato. Si entra nella cultura del Web, del Net, e al contempo si è già nell'iper-realtà di queste stesse entità, perché in quel senso non ci si ferma, ed è un bene: voglio dire che altrimenti si potrebbe credere che Internet sia la rivoluzione tecnica, l'ultima, quella definitiva, e si potrebbe pensare "Siamo arrivati, ci siamo, questo è veramente il progresso assoluto, e si è completato". Ebbene, questo sarebbe la morte, in un certo senso, ma fortunatamente Internet sta ridiventando l'oggetto di un gioco, e in fin dei conti si consuma un po' al modo in cui certe persone pagano per un telefonino cellulare solo per far vedere di averlo. Possono essere milioni le persone che si comportano così, si può creare in tal modo una nuova cultura, un nuovo ambiente, ma nonostante tutto bisogna stare bene attenti a non prendere troppo sul serio l'idea che i fondamenti dell'uomo e della sua civiltà saranno rivoluzionati da una tecnica, qualunque essa sia, anche Internet (…) A questo punto, perciò, il vero problema è sapere dove si arriverà, data l'accelerazione con cui si sviluppano quelle tecnologie: perché è vero che questo progresso vorticoso c'è stato nel corso degli ultimi anni, diciamo nell'ultimo ventennio, ma del resto tutte queste cose venivano già osservate e analizzate fin dagli anni Sessanta, e dunque di tempo ne è passato parecchio. Ora però si sta verificando una tale accelerazione che ci si domanda in effetti se non stia prendendo forma una configurazione tipica del caos, vale a dire un'accelerazione e una turbolenza tali che non si sa fin dove si andrà avanti e a quale termine si arriverà naturalmente, 68 con grande rapidità, come a un muro, o a qualcosa di simile al crollo totale della realtà»47. 1.5 Un genocidio psichico? Il sociologo italiano Ferrarotti ha preconizzato la possibilità di un genocidio psichico : «C’è il rischio di un azzeramento di tradizioni storiche e culturali depositarie di valori originali e positivi. Senza una rapida, meditata inversione di tendenza, non è infondato temere un processo di “colonizzazione interiore” che si potrà forse un giorno, retrospettivamente, valutare nei suoi drammatici contorni di genocidio psichico»48. Procedendo per generalizzazioni, si possono identificare i seguenti fattori quali elementi caratterizzanti la cultura di tipo apocalittico: - l’idea della superiorità della scrittura sull’immagine; - l’idea che la televisione sia un pericolo per la democrazia; - l’idea che la televisione nasca soltanto come tecnologia, per poi imporsi ad un pubblico passivo, piuttosto che da una storia sociale che ne aveva già evocato e preparato la presenza. 1.6 Homo videns E’ lecito domandarsi se il video stia trasformando l’homo sapiens in un homo videns nel quale la parola è spodestata dall’immagine? In altre parole: è lecito formulare il problema se il primato dell’immagine può portare a un vedere senza capire? Nel caso della televisione l’utente è portato a vedere cose da ogni dove (tele = da lontano), da qualsiasi luogo e da ogni distanza. Nella televisione prevale il vedere sul parlare poiché la voce in campo è secondaria, è in funzione dell’immagine, commenta l’immagine. Per il telespettatore contano più le immagini che le cose dette in parole. «La televisione non è soltanto strumento di comunicazione: è anche paideia, uno strumento antropogenetico, un medium che genera un nuovo anthropos, un nuovo tipo di essere umano»49. L’immagine deve essere spiegata e la spiegazione che ne viene data sul video è costitutivamente insufficiente. 47 J.BAUDRILLARD, in http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio. F. FERRAROTTI, Genocidio psichico? In AA.VV. La svolta della Tv, cit., p. 60. 49 G. SARTORI, Homo videns, Laterza, Bari-Roma 1999, p. 17. 48 69 Nella nostra società – in cui ciò che conta veramente è l’apparire per essere – l’immagine assume una grandissima importanza. Il sapere percorre sentieri tortuosi e alternativi, non passa più dalla memoria, dall’utilizzo di nozioni acquisite. Si preferisce privilegiare la rappresentazione iconica dei contenuti da trasmettere. Con l’uso sapiente dei contenuti iconici, la loro alta carica di rappresentatività, la narrazione per immagini contamina i processi mnemonici al punto tale da venire implicati quasi esclusivamente nel riconoscimento e nella significazione delle immagini stesse, o di ciò che viene trasmesso attraverso un uso sapiente dei processi di simbolizzazione. Quello che si profila all’orizzonte è una società che si fonda sull’immagine che può essere più immediata, in quanto la comunicazione è in grado di manipolare le nostre sensazioni, rivolgendosi cioè direttamente alla sfera della nostra emotività, ma anche per questo più incosciente. Ma nell’età multimediale la televisione non è più la regina di questa multimedialità: il nuovo sovrano è il computer che ha il potere di unificare parola, suono, immagini e di introdurre realtà simulate, realtà virtuali.. Se la televisione ci fa vedere immagini di cose reali, il computer cibernetico ci fa vedere “immagini immaginarie”. La realtà virtuale è una irrealtà che viene creata sul video e che è realtà soltanto sul video. Le nuove frontiere sono Internet e ciberspazio. Se nell’uso del televisore lo spettatore rimane passivo, in questo spazio multimediale il rapporto si fa interattivo. La televisione fornisce prodotti di massa che raggiungono larghi pubblici, mentre Internet produce prodotti su misura. Il problema è se Internet produrrà o no crescita culturale. Si tratta di sapere se Internet verrà usato come strumento di sapere. Per molti è l’occasione di riempire il loro tempo vuoto in compagnia di anime gemelle…Per questo tipo di utente Internet è soprattutto un terrific way to waste time, un tessuto impalpabile fatto di niente. Si potrebbe chiosare la posizione degli apocalittici con la nota parafrasi di G. Anders: «E' vero, la situazione del secolo XX si distingue fondamentalmente da quella del XIX secolo. Se in una delle frasi più famose del secolo scorso si diceva che la maggioranza dell'umanità di allora "non aveva niente da perdere tranne le sue catene, oggi bisogna dire che la maggioranza crede di possedere tutto grazie alle sue catene (di cui non si accorge). Dato che fa parte della natura di queste catene il non essere avvertite da chi le porta, naturalmente non si arriva mai alla paura di perderle»50. 50 G. ANDERS, L'uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale (1980), Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 47. 70 1.7 L'evanescenza dell'identità La riflessione di Umberto Galimberti si dilata al di là della problematica strettamente mediologica e, a partire da un’impostazione filosofica, l’autore mette in luce il problema della tecnica come elemento causale e originario della perdita di identità che caratterizza l’uomo moderno. «In un mondo dove gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all'obsolescenza immediata, l'individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quel senso costante che è alla base della propria identità si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la tecnica diffonde come immagine del mondo. Costruendo infatti un mondo di illimitate possibilità, che vanno dall'ingegneria genetica ai viaggi nello spazio, dalla comunicazione totale alla distruzione di massa, la tecnica sposta la realtà del mondo in quella dimensione onirica dove l'individuo percepisce solo il riflesso dei suoi desideri e delle sue paure, in un'atmosfera dove il sogno del mondo, che spesso sconfina nell'incubo, sfugge in ogni caso alla comprensione e alle pratiche di controllo. Priva di un mondo costante, durevole e rassicurante nella sua solidità, l'identità diventa incerta e problematica, non perché l'individuo non appartiene più a precise categorie sociali, ma perché non abita più in un mondo stabile e dotato di esistenza indipendente»51. Il pensiero di Galimberti è espressione di un pensiero critico che raggiunge punti di radicale messa in discussione della tecnica. La messa in guardia dai pericoli dell’omologazione è affascinante (per la struttura argomentativa ed evocativa del discorso) e nello stesso tempo drammatica. E’ difficile non riconoscere il valore estraniante prodotto dal potenziamento dei mezzi di comunicazione. La perdita dell’identità produce un processo di omologazione delle condotte di massa per cui si può parlare di “trasformazione antropologica” indotta dai mass media. L’analisi di Galimberti si salda alla visione apocalittica con cui già la Scuola di Francoforte e Pasolini (con strumenti assai diversi), denunciavano l’omologazione culturale. Si è presi dall’ansia di essere uguali gli uni agli altri nel consumare, come se ciascuno obbedisse all’ordine di un Potere che ha deciso che noi siamo tutti uguali. Questo invade anche il piano del pensiero e il luogo dove si formano giudizi, albergano i desideri. Ciò toglie alla radice la possibilità di una identità e quindi il riconoscimento dell’alterità. Il dialogo diventa un monologo: «La società conformista, nonostante l'enorme quantità di voci diffuse dai media, o forse proprio per questo, parla nel suo insieme solo con se stessa. Alla base infatti di chi parla e di chi ascolta non c'è, come nell'epoca pretecnologica, una diversa esperienza del mondo, perché sempre più identico è il mondo a tutti fornito dai media, così sempre più identiche sono le parole 51 U. GALIMBERTI, Psiche e techne, op. cit., pp. 613-4. 71 messe a disposizione per descriverlo. Il risultato è una sorta di comunicazione tautologica, dove chi ascolta finisce con l'ascoltare le identiche cose che potrebbe ascoltare da chiunque»52. Il tratto che contraddistingue l’epoca in cui viviamo è la cultura del relativismo che sembra la forma moderna della tolleranza: «La cultura del relativismo, generata dalla cultura del narcisismo può ammantarsi di tolleranza, ma, sotto questa parola, ciò che passa è in realtà la cultura dell'irrilevanza della scelta, se non addirittura quella dell'impotenza»53. Una significativa esemplificazione di questa affermazione è data dalla libertà sessuale propria della maggioranza. In realtà il relativismo vissuto è una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Non esistono “matrimoni incondizionati”, ma solo “innamoramenti fatui”. Il risultato di una libertà sessuale “regalata” dal potere –scriveva già Pasolini- è una vera e propria nevrosi: «La facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità “indotta” e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza»54. 52 Ibidem, p. 625. Ibidem, p. 590 54 P. P. PASOLINI, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990, p. 99. 53 72 73 2. INTEGRATI 2.1 Gli studi di Morin Gli studi di Morin55 si situano in ottica giustificazionista o, per meglio dire, costituiscono una forma di legittimazione del consumo culturale di massa. Morin ne accetta l’evidenza storica, l’esistenza di fatto. L’industria culturale esiste, circonda e alimenta l’esperienza quotidiana dell’uomo occidentale. Il sociologo francese ha messo in luce le qualità positive dell’intrattenimento collettivo. Descrive le qualità globali della comunicazione audiovisiva. Presta attenzione alle dimensioni tecnologiche, alle sue grazie, alle sue ragioni sociali. Non nega che la cultura di massa nasca come interesse strategico della produzione industriale, come allargamento dei mercati economici. Ma la cultura di massa nasce anche come urgenza sociale e come desiderio. Se gli intellettuali non comprendono la complessità delle culture contemporanee, Morin vuole invece rendere giustizia al loro fascino. Oggetto dello studio di Morin è infatti la dialettica tra produzione e fruizione, tra centro e periferia. La cultura di massa è il risultato di un compromesso tra la standardizzazione del prodotto industriale e le esigenze della creatività, tra la massificazione del consumo e il desiderio di differenziazione individuale. Ma la cultura di massa è desiderio e insieme organizzazione burocratica, investimento razionale. Se la televisione ha portato a compimento la democratizzazione della vita culturale, nello stesso tempo si è fatta apparato, regime istituzionale. Morin analizza il rapporto dialettico tra produzione e consumo, in cui il principio di seduzione che aveva animato la storia moderna del gusto mantiene la sua integrità, ma viene insidiato e contrastato dalle necessità della tecnica. «La cultura di massa, in certo senso, è l’erede e la continuatrice del movimento culturale delle società occidentali. Nella cultura di massa confluiscono la corrente popolare e la corrente borghese, l’una dapprima dominante, l’altra sviluppatasi in seguito. La cultura di massa integra questi contenuti per poi disintegrarli e operare una nuova metamorfosi»56. Attraverso il movimento reale e la presenza viva, la cultura di massa ritrova un carattere della cultura orale, folclorica o ancora arcaica: la presenza visibile degli esseri e delle cose, la presenza permanente del mondo invisibile. I canti, le danze, i mimi, i ritmi della radio, della televisione, del cinema, risuscitano feste, danze, mimi, ritmi degli antichi folclori (…) Ma in compenso la cultura di massa spezza l’unità della cultura arcaica, quando in uno stesso luogo tutti partecipavano e come attori e come spettatori alla festa, al rito, alla cerimonia. Separa fisicamente spettatori e attori. Lo spettatore non 55 56 E. MORIN, L’industria culturale, Il Mulino, Bologna 1963 MORIN, op. cit., p. 61. 74 partecipa se non psichicamente allo spettacolo televisivo, al film, alla trasmissione radiofonica; e nei grandi spettacoli sportivi, anche se è fisicamente presente, non gioca57. 2.2 Tecnologia e intelligenza collettiva Esistono modi diversi di pensare la tecnica. Soltanto in alcuni casi l’analisi della tecnica è stata interpretata nella complessità dei suoi fattori, fino a comprender l’intero panorama di invenzioni che ha attraversato la civilizzazione. Gli autori della Scuola di Toronto –Innis, McLuhan, Havelockavevano insistito molto sulla tecnica come agente di strutturazione delle culture sociali. Ma lo avevano fatto con un atteggiamento ideologicamente più equilibrato rispetto, ad esempio, alla Scuola di Francoforte. E, soprattutto, non avevano limitato la loro analisi alle tecniche della televisione, della radio, dell’industria moderna, ma l’avevano estesa coerentemente alle tecniche della civiltà umanistica e dell’alfabeto fonetico. 2.3 L’intelligenza collettiva Pierre Levy ipotizza la creazione di un nuovo spazio antropologico in cui tutti i saperi della società vengono messi in comune, grazie all'informatica: l'intelligenza collettiva appunto. L’idea centrale di Levy è che l’evoluzione dell’uomo, tutta la storia, sia essenzialmente una storia di tecnologie. «Dati, testi, immagini, suoni, messaggi di ogni genere vengono digitalizzati e, sempre più di frequente, prodotti direttamente in forma digitale. Gli strumenti di trattamento automatico dell’informazione, applicandosi ai messaggi, divengono d’uso comune un po’ in tutti i settori dell’attività umana. La realizzazione della connessione telefonica dei terminali e delle memorie informatiche, l’estensione delle reti di trasmissione digitale ampliano, giorno dopo giorno, un cyberspazio mondiale, nel quale ciascun elemento d’informazione si trova virtualmente in contato con qualunque altro e con tutto l’insieme. Queste tendenze fondamentali, già in atto da più di venticinque anni, produrranno, nei prossimi decenni, i loro effetti in misura via via crescente. L’evoluzione in corso converge verso la costituzione di un nuovo ambito di comunicazione, di pensiero e di lavoro per le società umane»58. La definizione di "intelligenza collettiva" di Pierre Levy non è abbastanza convincente. E’ vero da un lato che egli ha colto il fenomeno della progressiva integrazione di diverse figure all'interno del lavoro intellettuale, ma in certo senso lo ha idealizzato. Dalla sua concezione emerge una sorta di nuovo intellettuale a molte teste. Indubbiamente questo concetto produce una sorta di 57 58 Ibidem. P. LÉVY, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 13-14. 75 fascinazione reale del nostro tempo. Così come negli anni Sessanta con i Beatles abbiamo cominciato a essere affascinati dall'idea che i prodotti culturali della nostra epoca fossero costruiti da gruppi e non più da singoli individui; così la nuova produzione culturale collettiva è un luogo dove avvengono forme di collaborazione e forme di conflitto, forme di creazione comune e forme, invece, di sterilità, dovute anche alla difficoltà di lavorare insieme. La tecnologia è chiamata a garantire la collaborazione: il gruppo collabora anche in quanto il software usato, la rete stessa, che collega tra di loro le diverse postazioni di lavoro, consentono una circolazione fluida delle idee e del lavoro. La tecnologia aiuta, ma la chimica del funzionamento di un buon collettivo non è più semplice come non in passato. Appare più complessa perché occorre che ciascuno dei membri del collettivo dia il massimo delle sue capacità, accettando contemporaneamente che il prodotto non sia firmato solo da lui, ma che si tratti di un prodotto unitario e globale. Ciò richiede, per esempio, delle capacità organizzative e delle capacità psicologiche di grande complessità, che forse, per certi versi, ci riportano a delle esperienze passate importanti. 2.4 Gli studi di Eco Nel 1964 Umberto Eco rilevava come fosse difficilmente comprensibile il giudizio negativo che i francofortesi avevano attribuito ai processi comunicativi. Se è vero, da un lato, che i mass media propongono in maniera massiccia e senza discriminazione vari elementi di informazione in cui non viene distinto il dato valido da quello di pura curiosità e di trattenimento, dall’altro, non si può negare che «questa accumulazione di informazione possa risolversi in formazione». Eco sembra prospettare la possibilità che il flusso di dati quantitativi possa modellarsi in termini qualitativi59. I mass media offrono una ricchezza di informazioni e di dati sul mondo che contribuiscono a sensibilizzare l’uomo contemporaneo nei confronti di ciò che lo circonda, anche se non suggeriscono criteri di discriminazione. Annota Eco: «Se questa è l’epoca delle grandi follie totalitarie, non è anche l’epoca dei grandi mutamenti sociali e delle rinascite nazionali dei popoli sottosviluppati? Segno che i grandi canali di comunicazione diffondono informazioni indiscriminate ma provocano sommovimenti culturali di un qualche rilievo»60. I mezzi di massa, ancora, hanno fornito nuovi linguaggi, nuovi modi di parlare, nuovi schemi percettivi, operando un rinnovamento stilistico tale da esercitare significative ripercussioni sulle arti superiori. 59 60 U. ECO, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964 p. 42-43. Ibidem, p. 45. 76 77 SEZIONE 4 LA PUBBLICITA’ 78 79 1. LA PUBBLICITA’ La pubblicità è una delle tante forme di comunicazione tra gli uomini. La pubblicità può essere definita in termini molto semplici e generali come sistema di tecniche di comunicazione persuasiva, utili a promuovere consumi. Ragionare sulla comunicazione persuasiva permette di conoscere le tecniche, di capire come e perché funzionano e, una volta capito come mai sono efficaci, di individuare intenzioni e obiettivi. Richiamando il concetto di comunicazione espresso all’inizio della nostra trattazione, chiamiamo comunicazione ogni scambio di segnali che avviene tra organismi (almeno due), ciascuno dei quali percepisce l’altro e retroagisce all’informazione che questo gli trasmette. Se gli organismi coinvolti sono complessi, complessa sarà la comunicazione prodotta. Poiché non si può esistere senza comunicare, come afferma Paul Watzlawick, occorre operare una distinzione fra ciò che è l’esprimere se stessi e ciò che è il trasmettere qualcosa a qualcuno. Noi comunichiamo con parole e comportamento: la parte verbale della comunicazione dice qualcosa, la parte non verbale suggerisce qualcosa. 1.1 Persuasione ed efficacia della persuasione La pubblicità quindi pone il problema della comunicazione e della sua efficacia. L’efficacia è data dalla persuasività del messaggio e dalla sua ricezione. Come si fa a risultare persuasivi? Come è possibile modificare, attraverso la persuasione, decisioni e comportamenti? Dietro ogni decisione c’è un giudizio e dietro ogni giudizio c’è un’emozione. Il percorso della persuasione segue le scorciatoie delle emozioni, glissando (o by-passando) l’autostrada della ragione. La decisione è la formulazione di un giudizio in merito all’attuazione o meno di un’azione. La decisione non è spontanea, ma presuppone una riflessione e una considerazione delle conseguenze che si rendono possibili in seguito alla scelta effettuata. La scelta, a sua volta, si orienta verso quell’alternativa che, secondo la previsione, procura maggior piacere, ricompensa o utilità61. Decidiamo dopo aver giudicato e giudichiamo dopo aver riflettuto sulle conseguenze. La comunicazione persuasiva influisce sul funzionamento della nostra mente, ma dal punto di vista degli studi sull’efficacia è più interessante rendersi conto di che cosa agisce sul funzionamento della nostra mente quando giudica facendo riferimento al contesto culturale, alle emozioni, agli affetti, ai valori in modo da poter, in qualche modo, anticipare le conseguenze che ci portano a decidere in una certa direzione. Ragionare sulla comunicazione persuasiva ci consente, avendo capito le tecniche e la loro efficacia, di smontare i messaggi e individuare intenzioni e 61 Dizionario di psicologia, Garzanti. 80 obiettivi. Occorre intuizione per individuare argomenti persuasivi tuttavia, c’è bisogno di una tecnica e di una capacità progettuale per strutturarli in un discorso. 1.2 Marketing La parola deriva dall’inglese to market (vendere). In realtà, come nota Philip Kotler62, il marketing va la di là del semplice atto di vendita e assume un significato che inerisce lo scambio sociale. Il marketing è un processo sociale e manageriale mediante il quale una persona o un gruppo ottiene ciò che costituisce oggetto dei propri bisogni e desideri creando, offrendo e scambiando prodotti e valori con altri. Il marketing management è un processo di analisi, pianificazione, realizzazione e controllo che si riferisce a idee, beni e servizi e si basa sulla nozione di scambio. L’obiettivo dell’intero processo è il conseguimento di un certo grado di soddisfazione per tutte le parti coinvolte. L’attività di marketing si basa propriamente sulle necessità dell’acquirente, mentre l’attività di vendita si fonda sulle necessità del venditore. Nell’attività di marketing è fondamentale gestire la domanda: più la si conosce più si è in grado di produrre offerte che soddisfino i bisogni e i desideri del pubblico. I criteri del marketing – nel loro punto sintetico riguardano la proposta di qualcosa che persuade – possono essere applicati oltre all’offerta di beni di consumo, all’offerta di intrattenimento, di informazione, di cultura, di politica. Ragionare in termini di marketing significa individuare l’offerta di qualcosa che abbia le caratteristiche necessarie a suscitare una domanda tale da rendere conveniente la produzione e garantire il successo per quanto riguarda le vendite. Il piano di marketing deve analizzare il contesto in cui opera l’impresa, individuare problemi e opportunità, definire gli obiettivi finanziari e commerciali, le strategie per raggiungerli. Le scelte strategiche riguardano la gestione delle quattro “p”: product, price, place, promotion. Il marketing serve a produrre ciò che potenzialmente si vende, la pubblicità serve a vendere effettivamente ciò che si produce. 1.3 Brevi cenni di storia della pubblicità La pubblicità ha preso forma progressivamente. Nell’antichità le numerose insegne utilizzate dai commercianti per attirare i clienti rappresentavano già un tipo di comunicazione vicino alla pubblicità contemporanea. A Pompei, in Egitto, in Cina per vendere beni e servizi occorreva metterli in una luce favorevoli. I primi esempi di pubblicità di cui si ha prova si ritrovano nel popolo dei Fenici, i quali erano soliti lasciare delle grandi scritte lungo le strade 62 P. Kotler, Marketing management,Vol.II, ISEDI Petrini editore, Torino 1996. 81 più importanti elencando la merce in vendita. Anche i Greci e i Romani facevano uso di manifesti e insegne. I ritrovamenti di Pompei testimoniano di iscrizioni che annunciavano eventi, magnificavano i servizi offerti dalle terme, l'onestà dei prezzi e non solo. Si faceva pubblicità anche su vasi, bassorilievi e pergamene, spesso per propaganda politica. La pubblicità diviene una professione probabilmente con i primi imbonitori medievali. I venditori di pozioni magiche, banditori, strilloni che smerciavano i loro prodotti alle fiere e nelle piazze dei paesi. Fino all'avvento della stampa la pubblicità era cosa loro. E tutto era naturalmente consegnato all'arte dell'eloquio e della retorica. 1.3.1 L’avvento della stampa Il primo annuncio stampato di cui si abbia traccia apparve in Inghilterra: è un volantino del 1473 che pubblicizzava un libro di precetti religiosi dell'editore-tipografo William Caxton. Il 17 ottobre 1482 Jean du Pré realizza il primo manifesto della storia, per il grande perdono di Notre Dame de Reims. Nel 1498 Pierre Le Caron pubblica un piccolo manifesto per l’entrata di Luigi XII a Parigi. Ma è solamente molti anni più tardi che nacque la moderna pubblicità con l'uscita delle Gazzette settimanali, le vere antenate dei nostri giornali. In Germania e Olanda nel 1609, in Francia nel 1620, in Inghilterra nel 1622. In Italia nel 1639 nasce la Gazzetta di Genova. Il primo quotidiano della storia viene pubblicato a Lipsia nel 1660. Il primo annuncio pubblicitario apparve sulla Gazette Hebdomadaire, il 30 maggio 1631 (secondo altri nel 1629 sul Mercurius britannicus). Da quel momento, le iniziative simili si moltiplicarono a dismisura grazie anche allo sviluppo del commercio e delle attività artigianali. 1.3.2 I primi manifesti Dalla seconda metà dell'ottocento, la pubblicità esce dai quotidiani e arriva sui manifesti, dove trova la sua forma di espressione migliore. Grazie alla cromolitografia che è una tecnica che permetteva di produrre manifesti di grande formato a colori, illustratori e artisti affermati poterono realizzare dei veri e propri capolavori. Nel 1866 Jules Cheret disegna le prime affiches per il profumiere Rimmel. Il pittore Toulouse-Lautrec fu autore di una trentina di manifesti per spettacoli, libri e cosmetici. Edoard Manet nel 1868 realizzò a Parigi il manifesto Les chats per il libro dal titolo omonimo dello scrittore Champfleury. Fortunato Depero nel 1919 diede vita alla Casa d’arte futurista, produttrice di manifesti per la pubblicità definendo quest’ultima “arte gioconda, spavalda-esilarante-ottimista”. Negli anni Venti lavorarono per la pubblicità anche il dadaista Man Ray e il surrealista René Magritte. Lo stesso Filippo Tommaso Marinetti si cimentò direttamente nell’arte pubblicitaria componendo negli anni trenta per Snia Viscosa quelli che ha chiamato “poemi 82 industriali”: Il poema del vestito di latte, Il poema di Torre Viscosa, Il poema non umano dei tecnicismi. La pubblicità stessa fu influenzata dal futurismo, come testimonia il manifesto fatto uscire dall’azienda AEG per una nuova lampadina, contenente uno slogan “rubato” dal titolo di un importante testo di Marinetti : Uccidiamo il chiaro di luna. L’industriale Davide Campari ricorse a numerosi artisti nel tentativo di creare pubblicità insolite e singolari. Il sodalizio sicuramente più significativo e fruttuoso è stato quello con Depero, al quale commissionò una lunga serie di annunci pubblicitari. Nel 1926 Depero portò alla Biennale di Venezia un dipinto, Squisito al selz, che rappresentava i tavolini di un caffè con un Bitter Campari, dedicato proprio al commendator Campari. Anche D’Annunzio prestò la sua genialità e il suo talento artistico nell’ambito pubblicitario: ricordiamo, fra le altre, la pubblicità prodotta per il liquore Aurun, l’amaro Montenegroi, i biscotti Saiwa e il conio del marchio La Rinascente. 1.3.3 Le prime agenzie pubblicitarie Il salto di qualità dalla segnalazione dell’esistenza di merci alla formulazione di messaggi appositamente progettati per promuovere le merci su vasta scala è legato all’avvento dell’industria e dall’espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Le moderne agenzie di pubblicità nascono negli Stati Uniti. Volney Palmer apre nel 1840 un'agenzia che tuttavia era una semplice concessionaria: acquistava in blocco spazi pubblicitari sui maggiori quotidiani per rivenderli ai suoi clienti. Dal 1860 le concessionarie iniziano ad offrire, per favorire l'acquisto degli spazi, anche la creazione del testo, l'impaginazione dell'annuncio e le illustrazioni. La Carlton & Smith, fondata nel 1864, viene acquisita dalla J. Walter Thompson, per molti anni la prima in assoluto e ancora oggi una delle prime agenzie internazionali. All'inizio del ventesimo secolo le agenzie già possiedono una struttura ben precisa, con regole e ruoli che si vanno definendo sempre più distintamente. Tra gli anni trenta e quaranta, le agenzie assumono definitivamente quel modello operativo che è valido ancora ai nostri giorni. La pubblicità viene commissionata dalle aziende agli specialisti di settore per raggiungere obiettivi di tipo commerciale: incrementare le vendite, migliorare l’immagine dei prodotti, contrastare le iniziative dei concorrenti. 1.3.4 L’industria pubblicitaria La pubblicità assunse a partire dagli anni Venti e Trenta del Novecento, la natura di un vero e proprio sistema industriale e di comunicazione che contribuì in maniera determinante alla nascita di una cultura di massa e della società dei consumi. Dopo aver recepito i dettami della razionalizzazione del lavoro (taylorizzazione), le imprese migliorarono l’ambiente interno attraverso 83 l’introduzione della catena di montaggio, ma contemporaneamente si trovarono di fronte alla necessità di migliorare il loro ambiente esterno, lo spazio che chiamiamo mercato. La nascita del marketing è legata all’esigenza, percepita dai grandi industriali e dagli imprenditori di favorire la nascita nell’ambiente esterno di una domanda di massa per i beni che venivano prodotti. Lo sviluppo di una cultura di marketing e contestualmente l’adozione della psicologia comportamentista portarono nei primi decenni del Novecento ad un cambiamento della concezione vigente nelle aziende a proposito del ruolo del manifesto commerciale. Alla pubblicità puramente artistica o generalmente tendente ad affermare e far ricordare una marca o un prodotto subentrò infatti un orientamento che mirava a illustrare ed esaltare le qualità e le prestazioni del prodotto. Il messaggio pubblicitario assunse un aspetto più articolato e completo. L’utilizzo massiccio della radio per fare pubblicità stimolò una rivalutazione dell’uso della parola anche nei manifesti. Alla fine degli anni venti comparvero slogans famosi che ebbero un tale successo da essere impiegati per parecchi anni: “Brill la perla dei lucidi” (1927) “Chi beve birra, campa cent’anni” (1929) , “Un Ramazzotti fa sempre bene” (1934). 1.3.4 Carosello La nascita della televisione ha aperto un nuovo canale di diffusione dei messaggi pubblicitari. Carosello nasce il 3 febbraio 1957 alle 20.50. Gli esordi sono difficili: ogni scenetta doveva essere approvata da una speciale commissione della Sacis. Le scenette erano in bianco e nero. I pubblicitari cercavano di fondere armoniosamente scenetta e messaggio pubblicitario rispettando i vincoli di una censura che vietava di usare una certa terminologia. I limiti pubblicitari imponevano che la réclame del prodotto durasse al massimo trentacinque secondi su due minuti e quindici secondi di ogni Carosello: il famoso “codino”. Quando i primi quattro episodi di Carosello vanno in onda, gli abbonati alla televisione sono 3.666.161. Il titolo del programma rievocava un celebre film musicale da poco uscito, Carosello napoletano. Carosello diviene in breve il programma più seguito della televisione di Stato, unica trasmissione interamente ideata, scritta e diretta da privati. Per molti giovani alle prime armi fu anche una scuola per imparare un mestiere. Nel 1961 l’ascolto di carosello saliva a 7 milioni e 800 mila spettatori. Nel 1963 la vecchia sigla viene cambiata con disegni eseguiti a tempera da Manfredo Manfredi, raffiguranti quattro celebri piazze di città italiane: Venezia, Siena, Napoli e Roma. Nel 1974 diviene più corto: ogni scenetta dura un minuto e quaranta secondi, mentre il costo per la realizzazione si aggira dai tre 84 ai cinque milioni. Il primo gennaio 1977 va in onda l’ultimo Carosello: una Raffaella Carrà commossa recita l’addio al programma brindando con lo Stock e ringraziando tutti quelli che vi avevano lavorato. Gli ultimi ascolti di carosello parlavano di 19 milioni di italiani, fra cui 9 milioni di bambini. Carosello si colloca a metà tra l’intrattenimento (per dissimulare il proprio intento commerciale) e la comunicazione commerciale. In realtà, da punto di vista pubblicitario, Carosello non sempre si rivelò uno strumento efficace. Spesso accadeva infatti che la scenetta presentata o la forte personalità del personaggio impiegato monopolizzassero l’attenzione dello spettatore e dunque il prodotto non venisse memorizzato63. Certamente Carosello svolse per gli italiani una funzione pedagogica e sociale importante, in quanto indicò come la via della modernizzazione fosse compatibile con i valori tradizionali64. Inoltre presentò un mondo consumistico di felicità e benessere estremamente affascinante per una popolazione che proveniva dai disagi della guerra65. Progressivamente Carosello cominciò a costituire un vincolo per il mondo aziendale, in quanto insufficiente rispetto alle esigenze di un’economia che cresceva a grande velocità. Dopo gli anni del boom economico il mondo della pubblicità attraversò in tutti i paesi industrializzati una crisi sia economica che culturale. I pubblicitari subirono numerose critiche da parte degli intellettuali, dei giovani e delle numerose persone che all’epoca condividevano le ideologie anticonsumistiche e marxiste. I pubblicitari attuarono quello che Robert Goldman con un gioco di parole ha denominato “femminismo delle merci” per indicare che, come nel capitalismo secondo Marx il “feticismo” delle merci nasconde i rapporti tra gli esseri umani e li trasforma in rapporti tra cose, così la pubblicità quando si appropria delle critiche femministe rivolte a se stessa le indebolisce trasformandole in oggetti di consumo. La “rivoluzione sessuale” ebbe riflessi sulla pubblicità. Negli annunci erano spesso presenti donne ammiccanti ed aggressive sul piano sessuale, che lanciavano richiami espliciti all’altro sesso. Chi non ricorda la pubblicità della benzina BP? La ragazza sexi dai riccioli rossi veniva affiancata all’invito “scappa con superissima!”. O chi non ricorda la bionda tedesca della birra Peroni che, col busto nudo e avvinghiata ad un’enorme bottiglia di birra proclamava “chiamami Peroni sarò la tua birra”? V. CODELUPPI, Che cos’è la pubblicità, Carocci, Roma 2001, p. 27. F. COLOMBO, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’ottocento agli anni novanta, Bompiani, Milano 1998, p. 264. 65 CODELUPPI, op. cit., p. 27. 63 64 85 1.4 Gli anni ottanta Nel 1976 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 202 metteva fine al monopolio della Rai. Nel 1977 si ha l’innovazione della Tv a colori. All’inizio degli anni ’80 la proliferazione di Tv private rivoluziona il mercato della pubblicità e dei media. Il 1° gennaio 1977 si ebbe la soppressione di Carosello, divenuto ormai troppo limitato rispetto alle esigenze di comunicazione delle imprese. Per i pubblicitari l’inizio degli anni Ottanta fu una specie di primavera creativa: giravano tanti soldi, le aziende erano pronte a rischiare investendo in campagne innovative. La ricerca dello slogan ad effetto e, in generale, la parola, furono l’elemento dominante la migliore pubblicità degli anni Settanta. Negli anni Ottanta è l’immagine ad imporsi. I messaggi chiedono una complicità che va oltre l’adesione a una proposta di vendita e passa attraverso la seduzione narrativa ed estetica e il gusto dell’intrattenimento. La pubblicità si configura essa stessa come oggetto di consumo. Negli anni Ottanta, la pubblicità diventa particolarmente invadente nel mezzo televisivo attraverso l’interruzione dei programmi. Le conseguenze di questa nuova modalità sono state la frammentazione della struttura dei singoli programmi e la creazione di un unico flusso omogeneo di trasmissione. Questo ha determinato a sua volta una rivoluzione nel linguaggio pubblicitario rendendolo decisamente più aggressivo nei confronti dello spettatore. Una delle possibili soluzioni è stata quella di catturare l’attenzione dello spettatore attraverso «immagini velocissime con continui cambi di scena oppure con l’utilizzo di suoni iniziali particolarmente evidenti come il pianto di un bambino, il clacson di un’automobile o la sirena di una fabbrica; in altre circostanze si gioca sul senso di suspence, o addirittura di disagio, provocato da certe situazioni di pericolo o di dolore»66. In quegli anni la comparsa della marca viene ad assumere un ruolo decisivo nella comunicazione pubblicitaria. La marca infatti è come un indice dello status sociale. Nello stesso tempo diviene un fattore che si ammanta di potenti valenze simboliche e culturali, e un punto di riferimento insostituibile per le scelte dei consumatori. 1.5 Gli anni novanta All’inizio degli anni ’90 cambiano molte cose: svanisce l’illusione che sia la professionalità a garantire il business delle agenzie (si scoprono giri di bustarelle legate all’attribuzione di budget pubblicitari); svanisce la quota di 66 G. SARTORI, La grande sorella. Il mondo cambiato dalla televisione, Mondatori, Milano 1989, p. 215. 86 prestigio legata al possesso esclusivo di know-how pubblicitario perché le conoscenze di marketing e comunicazione sono diffuse nelle imprese e questo permette loro di discutere alla pari con le proposte delle agenzie. Nei primi anni Novanta vanno in crisi anche i consumi, l’idea del prodotto di marca e di qualità. Proliferano gli hard discount. Il sistema pubblicitario si assesta diversamente anche sul piano finanziario, per esempio con acquisizioni e fusioni che coinvolgono le maggiori agenzie internazionali. Per quanto riguarda la Tv, l’incremento del numero di canali, l’adozione del telecomando e la possibilità conseguente di effettuare lo zapping favorisce la nascita della “neotelevisione” (per distinguerla dalla televisione tradizionale in cui il telespettatore era in un certo senso costretto a guardare i programmi, in quanto le sue possibilità di scelta erano limitate a pochissimi canali). Viene a ribaltarsi il rapporto esistente tra il mezzo ed il suo destinatario, poiché il ruolo di quest’ultimo diviene fondamentale. Questo processo si è ulteriormente intensificato perché il sistema delle comunicazioni ha incominciato modificare la sua natura, passando dalla fase dei canali televisivi di massa a quella dei canali tematici e personalizzati (Tele +, Stream, MTV). 1.6 Gli ultimi sviluppi La saturazione dei principali canali disponibili determinata dalla crescente mole di messaggi in circolazione nelle società attuali porta ad una elevata concentrazione del numero di spots nell’intervallo di tempo. Ciò implica, da un lato, una continua frammentazione delle trasmissioni, dall’altro un uso dello spazio dedicato alla pubblicità ad alta concentrazione di spots. Una delle caratteristiche emergenti della pubblicità odierna è lo sviluppo della “metapubblicità”. Con questo termine si intende una pubblicità che possiede una coscienza metalinguistica di se stessa. Allo stato attuale la pubblicità, infatti, secondo Yves Krief67, rimette in discussione i ruoli tradizionali del testo e dell'immagine e, soprattutto, diviene autoreferenziale e autoriflessiva perché annulla la gerarchia esistente tra se stessa e il prodotto a favore di quest'ultimo. Tende infatti ad avere come oggetto di significazione sempre meno il prodotto da pubblicizzare e sempre più i discorsi relativi a tale prodotto. La pubblicità utilizza modalità di persuasione sempre più sottili e coinvolgenti. Rispetto al passato assume la tendenza a realizzare quello che viene chiamato il “connessionismo”, cioè la crescente interrelazione con gli 67 Y. KRIEF, Jeux de pub: les conditions post-modernes de la publicité, Sémiotique II, Irep, Paris, 1983. 87 altri media e con le altre strutture di comunicazione attive nella società. La pubblicità ha assunto una pervasività rilevante del territorio mediatico: non solo gli spazi dello schermo televisivo, del cinema, della radio (dei media tradizionali), ma anche quelli presenti nei nuovi media. Gli sviluppi della psicologia della comunicazione portano a considerare il funzionamento della pubblicità nei termini di uno strumento che opera non determinando direttamente delle azioni negli individui, ma stimolando il crearsi di un ambiente mentale, di un contesto culturale e di una disposizione d’animo favorevoli, tali per cui i prodotti non esistono se non nella misura in cui trovano posto nella cornice simbolica e culturale creata dalla marca. La marca assume un peso simbolico, rappresenta un mondo che sollecita ad un’adesione. Associando ai prodotti significati ed immagini immateriali, i pubblicitari mirano a proporre il prodotto non come semplice e reale oggetto, ma secondo tutto l’alone che lo circonda in termini di valore emotivo, simbolico, sociale (e le gratificazioni e le promesse di cui si fa portatore). Il consumatore cerca nei prodotti pubblicizzati oltre alla soddisfazione di bisogni funzionali, la soddisfazione di desideri indotti dal contesto sociale e che rivestono un valore sociale: il successo, il potere, il prestigio, la bellezza, la salute. Solitamente non acquista un prodotto se prima questo non è stato dotato di specifici significati da parte della pubblicità e del marketing aziendale68. La pubblicità opera in questo processo di attribuzione di senso limitandosi a catturare i significati già esistenti nell’immaginario collettivo o procedendo ad una costruzione di tali significati. Per ottenere i suoi scopi comunque, fa parlare il prodotto da sé, nel caso che questo abbia un’identità sufficientemente forte, oppure lo presenta insieme ad un oggetto, ad una o più persone o ad una situazione affettiva i cui significati sociali siano già noti al consumatore. Questo significa che, per il consumatore, l’acquisizione del prodotto è un modo per essere (o per apparire), insomma di assumere una visibilità. La pubblicità prima estetizza il prodotto trasformandolo in una qualità desiderabile per il consumatore, poi, una volta che tale qualità è stata trasferita al consumatore mediante l’acquisto, estetizza il consumatore, perché l’esibizione del prodotto posseduto rende l’individuo desiderabile69. I consumatori non assorbono passivamente i significati ed i valori attribuiti ai valori della pubblicità, ma attraverso la funzione interpretativa che svolgono contribuiscono concretamente al funzionamento di questo processo. Si può dunque ritenere che la pubblicità sia molto meno penetrante di quello che abitualmente si crede. D’altro lato, è dimostrato che i suoi messaggi hanno 68 69 Ibidem, p. 46. Ibidem, p. 47. 88 efficacia soltanto se operano, congiuntamente ad essa, altre pratiche di marketing. Il mondo ideale che la pubblicità mette in scena rappresenta un modello che influenza i comportamenti adottati nella vita quotidiana e uno strumento potente di promozione e legittimazione ideologica della cultura del consumo. Le caratteristiche che consentono alla pubblicità di esercitare effetti sulla società possono essere identificate nella pervasività ripetitività elevata professionalità (richiesta per la sua produzione) composizione di un pubblico formato da individui isolati e sempre più estranei rispetto ai valori ed alle istituzioni sociali tradizionali. La vera natura del ruolo sociale esercitato dalla pubblicità può dunque essere ritenuto quello di essere uno specchio deformante rispetto ai valori sociali: un ruolo legato alla capacità della pubblicità stessa di produrre una raffigurazione ridotta e semplificata della realtà sociale. La necessità di comunicare velocemente e a un livello estremamente semplice, privo di ambiguità, fa in modo che le espressioni facciali, le pose, i comportamenti e le situazioni reali dei soggetti rappresentati tendano a un elevato grado di standardizzazione. Si crea quel fenomeno che Goffman ha denominato “iperritualizzazione” e che consiste nella produzione di rappresentazioni pubbliche delle persone, delle attività e delle situazioni fortemente stereotipate. Per questo facilita il processo di comprensione dello spettatore, attivando in lui conoscenze largamente diffuse. In definitiva, potremmo dire che la natura della pubblicità è di essere uno strumento di costruzione della realtà sociale. In quanto tale, viene fortemente influenzata da come la realtà è percepita dai soggetti, ma produce a sua volta un’influenza su tale percezione. 1.7 Il linguaggio Come funziona la lingua della pubblicità? Riprendendo la teoria di Jakobson sulla classificazione delle funzioni dei segni linguistici (funzione denotativa o referenziale, funzione conativa o imperativa, funzione metalinguistica, funzione emotiva e espressiva, funzione estetica o poetica) sembrerebbe evidente che la funzione prevalente sia quella conativa (o imperativa) visto che il fine ultimo di ogni comunicazione pubblicitaria è quello di indurre il ricevente ad acquistare il prodotto. In realtà la funzione conativa 89 appare mascherata sotto altre funzioni, diventando così una funzione di sfondo. Alcuni esempi possono illustrarlo70. -Funzione denotativa o referenziale (illustra le doti del prodotto) La protezione antirughe del retinolo. La sicurezza Lancome - Funzione conativa o imperativa (che spinge all’acquisto del prodotto) Brindate Gancia, Entra nel club Nokia. Tu e il tuo Nokia avete solo da guadagnarci. Che mondo sarebbe senza nutella? Funzione metalinguistica (in maniera autoreferenziale si rivolge al prodotto stesso) O così, o Pomì. Trony, non ci sono paragoni. - Funzione emotiva o espressiva (si prefigge di evocare, più che informare): Liebig ti ama. Gillette: il meglio di un uomo. Loréal: perché voi valet.; Denim, per l’uomo che non deve chiedere mai. - Funzione estetica o poetica Asti spumante. Un mondo unico, unico al mondo. Sky, Se tu ami il calcio, il calcio ama te. Conto arancio, mettevelo nella zucca. Nel linguaggio della pubblicità si persegue il più alto livello d’intensità espressiva e di suggestione psicologica. Per questo si ricorre a neologismi (es.: mangiaebevi), giochi linguistici (es.: mia moglie aspetta un Philco), superlativi, termini stranieri (es.: Rex, Cholorodent, After Eight), a rime, assonanze, metonimie, figure sintattiche e figure semantiche. 1.8 Il problema dell’efficacia Il concetto di efficacia è in relazione con i molteplici obiettivi che le imprese affidano alla pubblicità. E’ possibile sintetizzare tali obiettivi considerando che la pubblicità è una forma particolare di comunicazione che deve raggiungere degli obiettivi aziendali concreti. Si può distinguere così, al suo interno, tra il piano propriamente comunicativo relativo alla situazione di esposizione al messaggio e quello della situazione d’acquisto. Ne deriva che sul piano comunicativo gli obiettivi della pubblicità sono: - attirare l’attenzione su di sé; - far comprendere le informazioni sul prodotto trasmesse; - ottenere l’adesione al contenuto del messaggio. Sul piano della situazione d’acquisto, invece, gli obiettivi sono relativi soprattutto a: F. R. Puggelli, L’occulto del linguaggio. Psicologia della pubblicità, Franco Angeli, Milano 2000, p. 27 (con alcune integrazioni ed esempi nostri). 70 90 far scattare una motivazione d’acquisto relativa alla categoria di prodotto/marca; - suscitare un atteggiamento favorevole verso il prodotto/marca; - stimolare la propensione all’acquisto del prodotto/marca. Se dunque la pubblicità è un tipo particolare di comunicazione che opera principalmente su due piani differenti tra loro come quello comunicativo e quello della situazione d’acquisto, sono almeno due i tipi di efficacia che deve simultaneamente tentare di raggiungere. Ma sino a che non si potrà disporre di modelli teorici, che possano consentire di comprendere il funzionamento della pubblicità, non sarà possibile mettere a punto anche precisi strumenti di misurazione e verifica di tale efficacia. Le imprese, pertanto fanno ricorso a metodologie di ricerca elementari e semplificate che si sono formate soprattutto nel corso degli anni trenta e quaranta del Novecento, quando il marketing si è concretamente istituzionalizzato nel mondo aziendale e si è posto il problema di verificare l’efficacia delle sue azioni mediante l’effettuazione di appositi test di controllo. Giampaolo Fabris71 propone un modello di efficacia semplice e funzionale: è il modello delle quattro “i”: impatto, interesse, informazione e identificazione; e delle quattro “c”: comprensione, credibilità, coerenza, convinzione. Il modello individua le principali variabili che operano nel processo comunicativo della pubblicità. Non si tratta di un ordine sequenziale perché il processo di persuasione avviene in realtà in modo differenziato nei diversi segmenti della popolazione, sulla base della tipologia dei prodotti, in rapporto alla situazione in cui avviene l’esposizione, a seconda del medium che la pubblicità veicola. Impatto ed interesse sono Primari Affective Reaction. Trasgressione, originalità, espedienti ed artifici diventano spesso fini a se stessi: scambiando il mezzo per il fine possono generare pericolosi effetti boomerang sul contenuto della comunicazione. «Perché un messaggio abbia qualche possibilità di sopravvivere all’indifferenza generale, di fronte all’affollamento pubblicitario ed alla selezione attiva dei consumatori non basta che sia buono, bisogna che sia eccezionale. Bisogna che catturi l’attenzione. La pubblicità moderna deve colpire e stupire»72. Talvolta anche dei particolari insignificanti e marginali possono divenire il centro focale d’attenzione. L’interesse può riguardare il messaggio, la situazione “creata”, aspetti particolari del comunicato, il prodotto in quanto tale. L’accusa più frequente alla pubblicità – di essere noiosa e stupida – è vinta nella misura in cui si presenta come interessante e divertente. - 71 72 G. FABRIS, La pubblicità. Teorie e prassi, Milano, Angeli, 2002, pp. 351-363. B. BROCHAND e J.LENDREVIE, Le regole del gioco, Lupetti & Co., Milano 1986. 91 1.9 Le teorie tradizionali Sono state individuate diverse fasi di sviluppo della pubblicità sorrette da teorie e metodologie comunicative di fondo estremamente differenziate: la pubblicità persuasiva, la pubblicità meccanicistica, la pubblicità suggestiva, la pubblicità proiettiva. Passiamo in rassegna ciascuna di queste tipologie individuando il tratto di fondo. 1.10 Un balzo all’indietro: la pubblicità persuasiva. Nel primo periodo di esistenza la pubblicità era costituita prevalentemente da réclame, ovvero da annunci elementari e puramente informativi che parlavano a pochi privilegiati e cercavano di promuovere le vendite attraverso argomentazioni razionali e la valorizzazione delle funzioni o del contenuto tecnico dei prodotti. Il consumatore veniva considerato un essere ragionevole e cosciente al quale ci si deve rivolgere conducendolo per mano, mostrandogli cioè che ha un bisogno da soddisfare e motivando il fatto che il prodotto pubblicizzato non soltanto è in grado di soddisfarlo, ma può farlo meglio degli altri73. A tale scopo, veniva spesso impiegato il meccanismo narrativo della prova o della dimostrazione delle possibilità d’impiego. Il modello teorico porta il nome di AIDA sigla formata dalle iniziali delle quattro fasi che lo caratterizzano: Attenzione, Interesse, Desiderio, Acquisto. Si tratta di un modello basato sull’idea che la pubblicità è in grado di condurre il consumatore all’atto d’acquisto attraversando varie fasi di elaborazione mentale (dalla percezione della réclame, alla convinzione e, infine, all’acquisto). Questa metodologia è limitata dal fatto che oggi il potenziale consumatore è bombardato da ogni sorta di rumori e interferenze. La comunicazione pubblicitaria deve essere tale da distinguersi con particolari suoni, figure, forme: deve cioè influire sui sensi perché il destinatario ne sia attratto. L’attenzione, perciò, non solo deve essere suscitata, ma deve anche essere mantenuta e perché ciò avvenga il messaggio deve contenere elementi in grado di suscitare interesse e curiosità. L’interesse non è però generico: l’interesse è destato dai vantaggi che il possesso di quello specifico oggetto realizza. E’ a questo punto che la comunicazione pubblicitaria localizza i suoi attributi, in quanto il desiderio è un bisogno appreso e non innato e va quindi sostenuto fino all’atto dell’acquisto. La concezione persuasiva della pubblicità ha subito numerose critiche per il suo ignorare che la decisione d’acquisto non costituisce quasi mai il risultato di un processo logico di convinzione; infatti, secondo alcuni è il frutto di un più o meno lungo periodo di maturazione dell’individuo nel quale si mescolano strettamente pulsioni affettive, reazioni emozionali e pressioni 73 CODELUPPI, Che cos’è la pubblicità, op. cit., p. 78. 92 sociali. Le argomentazioni di tipo razionale sarebbero invece utilizzate dal consumatore soprattutto come giustificazioni a posteriori dell’acquisto compiuto. 1.11 Riflessi condizionati: la pubblicità meccanicistica E’ la fase fortemente influenzata dalle teorie di Pavlov relative al riflesso condizionato e dal pensiero beahaviorista degli psicologi Watson e Skinner (il primo dei quali ha lavorato presso l’agenzia di pubblicità J. Walter Thompson). Il behaviorismo venne a lungo considerato come la teoria psicologica di base della pubblicità. Perché un organismo sia condizionato deve essere in condizione di bisogno, perciò la pubblicità deve far leva su bisogni fisiologici molto precisi. Lo spot (stimolo) dovrà indurre il consumatore all’acquisto (risposta vòlta al soddisfacimento del bisogno). In tale fase il consumatore veniva ancora considerato come un soggetto passivo vulnerabile e facilmente condizionabile, con una sfera psichica su cui la pubblicità può incidere con qualsiasi tipo di segno e di messaggio per indurre il consumatore all’azione. Nella comunicazione pubblicitaria veniva valorizzato soprattutto il valore d’uso del prodotto e si ricercava l’impatto anziché una convinzione razionale, cercando di instaurare, attraverso la ripetizione ossessiva dei messaggi, un rapporto diretto di causa-effetto con il consumatore. Il messaggio doveva essere semplice e di facile comprensione al fine di ottenere un elevato impatto e per conservare intatta la sua identità nel tempo. A tale scopo venivano molto sfruttate le componenti elementari ed immediate del linguaggio pubblicitario, come i logotipi, i grafismi di marca e gli slogan. In realtà, come rileva Codeluppi, «si tratta di una concezione che tende a perder d’efficacia quando la pubblicità si trova a dover interagire con modelli d’acquisto che sono già definiti nella mente del consumatore, cosa che in realtà succede nella maggior parte dei casi. Inoltre non è vero che il consumatore è un soggetto puramente passivo. Egli svolge anzi un ruolo attivo perché sia le passate esperienze, sia i precedenti modelli d’acquisto, sia le pulsioni affettive individuali, interagiscono sempre con le proposte ricevute da parte dei messaggi pubblicitari»74 1.12 Le ricerche motivazionali e la pubblicità suggestiva Negli anni cinquanta e sessanta si è affermata la fase della pubblicità suggestiva, che ha utilizzato i risultati delle “ricerche motivazionali”, tese a scoprire le ragioni profonde che guidano i comportamenti individuali. La psicologia sottostante questo orientamento ha indicato ai pubblicitari la possibilità di produrre sogni e simboli d’evasione, rispondendo in tal modo ai 74 Ibidem, p. 80. 93 desideri più profondi e irrazionali del soggetto. Fu in tale fase che si mise in evidenza che le motivazioni di consumo di tipo cosciente sono razionalizzazioni e giustificazioni successive all’acquisto che hanno lo scopo di salvaguardare l’equilibrio psicologico del soggetto. La motivazione inconscia rappresenta, invece, uno stato di dissociazione e di tensione conflittuale che mette in movimento il soggetto sino a che esso non sia riuscito a raggiungere un nuovo equilibrio. 1.13 Dentro i processi mentali Dopo gli anni ’60, a seguito della svolta cognitivista in psicologia, affermatasi in contrapposizione al comportamentismo e al suo modello di connessioni semplici e dirette tra stimoli e risposte, viene delineandosi in ambito pubblicitario una concezione che considera il consumatore come un individuo orientato a un obiettivo, che tenta di soddisfare i propri bisogni attraverso la ricerca di informazioni sul prodotto e l’acquisto finale del migliore a disposizione. Il consumatore è visto come un essere più razionale e complesso di quanto avvenisse nella prospettiva comportamentistica. I cognitivisti focalizzano la propria attenzione sulle variabili che intervengono nella mente del consumatore e che influenzano la modalità attraverso la quale egli risponderà al testo pubblicitario e alle altre attività di promozione75. 1.14 La pubblicità proiettiva Se nelle forme precedenti è possibile identificare una modalità di comunicazione di tipo "funzionale", che decanta cioè le caratteristiche e funzioni del prodotto in oggetto in modo tale da spingere il potenziale consumatore all'acquisto, nel modello di pubblicità "proiettiva" lo spot mostra un luogo, una situazione sociale o un gruppo al quale sarebbe bello appartenere e che presenta caratteristiche assai lontane da quelle dello spettatore. La pubblicità di questo tipo tende a proiettare il potenziale consumatore in un mondo di gente benestante e caratterizzata da elevato tenore di vita, dove tutto è luccicante, bello, elegante. Quasi sempre, perciò, queste pubblicità offrono suggestione, incanto, modelli di uomo e donna verso i quali tendere e ai quali desiderare di assomigliare. Succede, infatti, molto frequentemente che la desiderabilità di una situazione proposta dai media provochi un subconscio meccanismo di identificazione con la situazione proposta, tale da indurre nello spettatore una conseguente ed inconsapevole aspettativa verso se stesso, dalla quale il soggetto riesce a liberarsi soltanto attraverso l'imitazione del comportamento in questione. 75 F. R. PUGGELLI, L’occulto del linguaggio, op. cit., p. 63. 94 La concezione denominata proiettiva considera la pubblicità come un valore aggiunto di tipo sociale al prodotto (di tradizione, di modernità, di elitarismo, di democrazia ecc.). Questa interpretazione ha valorizzato l’influenza dell’ambiente sociale e delle relazioni interpersonali sugli schemi di pensiero e di reazione degli individui e ha portato ad adottare spesso una visione di tipo pedagogico che attribuisce un potente ruolo alle norme di comportamento e alle regole d’integrazione, di partecipazione e d’acculturazione76. 1.15 La pubblicità nell’epoca di Internet77 Una delle novità più interessanti relative alla pubblicità interattiva è legata alla fase creativa: il messaggio è mirato ad uno specifico fruitore e non ad uno spettatore medio. E’ lecito porre questa domanda: così come la pubblicità televisiva ha sottratto parte del mercato a quella cartacea, la pubblicità su Internet farà lo stesso rispetto a quella televisiva? Il dato più significativo ed emergente è che la soluzione più intelligente per le aziende è quella di costruire sempre una campagna pubblicitaria con una finestra televisiva e un sito Internet che raccolga tutte le informazioni relative al prodotto e alla società produttrice. Probabilmente la pubblicità su Internet non sarà pervasiva come quella televisiva e potrà essere largamente più informativa. Nel momento presente la pubblicità via Internet espone il consumatore ad un acquisto impulsivo. Infatti nell’atto stesso in cui si fruisce il messaggio commerciale si può acquistare il prodotto. Occorre altresì aggiungere che per ora si vende ben poco, direttamente, su Internet. Si è investito molto sul problema della sicurezza, sul problema della tutela del copyright e della difesa da infrazioni di tutte le transazioni. Il tema del commercio elettronico (e-commerce) comincia ad "ingranare" adesso. Chi fa pubblicità online è (tenuto) stimolato a creare degli spot ricchi di informazione e di piacevole fruizione e, nello stesso tempo, a indirizzare il messaggio ad un pubblico di cui conosce bene il target. Ciò è molto diverso dal tradizionale modo di fare pubblicità, perché in questo caso bisogna poter progettare, dal punto di vista tecnologico, una pubblicità che cambia a seconda di quale utente singolo può avere davanti; e anche dal punto di vista estetico e artistico cambierà radicalmente, perché è necessario conoscere l'utente, i suoi gusti, la sua provenienza culturale e geografica. L'interattività ottenibile tramite Internet permette di essere più precisi e di cogliere con più precisione l’efficacia: la celebre battuta secondo cui metà di ciò CODELUPPI, Che cos’è la pubblicità, op. cit., pp. 81-82. HERMAN ZAMPARIOLO, su http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio [testo ristrutturato e rielaborato]. 76 77 95 che si investe in pubblicità è da buttare, ma non si sa quale sia la parte buona, consiglia di dimenticare parzialmente questa affermazione. Il problema di come attirare l'attenzione di chi è sottoposto ad uno spot via Internet oscilla sempre: da un lato, non possiamo fermare l'attenzione dell'utente perché lo zapping via Internet, ovviamente, è ancora più facile di quello televisivo. D'altra parte, già oggi, questi piccoli "banner" che segnalano un poco la presenza di un nome, di un marchio, di fatto rallentano lo zapping. Probabilmente non si arriverà ad una forma pubblicitaria pesantemente intrusiva come quella televisiva, certamente la linea di sviluppo sarà quella di individuare modalità espressive e artistiche dotate di grande gusto estetico. Sul piano pratico, una azienda per fare una convincente pubblicità online deve permettere all’utente di poter cogliere informazioni di carattere economicistico (prezzo, catalogo, listino, prestazioni) e nello stesso tempo esercitare un forte richiamo di tipo estetico, tale da premiare l’intrattenimento, l’uso ripetuto e il richiamo. 96 97 SEZIONE 5 LA MICROSOCIOLOGIA 98 99 1. IL TEATRO DEL QUOTIDIANO Nel suo famoso libro La vita quotidiana come rappresentazione78 Goffman analizza la comunicazione interpersonale nella vita quotidiana mutuando dalla rappresentazione teatrale gli elementi per una disamina del comportamento sociale degli individui. Questa sezione si inserisce nell’economia del testo per offrire al lettore la possibilità di riflettere, anche, sugli effetti socializzanti e comportamentali indotti dalla comunicazione ipermediale. Con questa opera Goffman ha voluto scrivere quasi un manuale per illustrare una delle prospettive sociologiche attraverso le quali si può studiare la vita sociale, in particolare quel tipo di vita sociale che si svolge entro i confini fisici di un edificio, di una fabbrica, ma anche nei luoghi della socialità pubblica. Viene descritto un gruppo di caratteristiche che costituiscono uno schema di riferimento nell'analisi di ogni sistema sociale (sia familiare, industriale o commerciale). La prospettiva utilizzata è quella della rappresentazione teatrale e quindi i principi che ne derivano sono di tipo drammaturgico. Goffman prende in esame il modo in cui un individuo, in normali situazioni, presenta se stesso e le sue azioni agli altri; il modo in cui guida e controlla le impressioni che costoro si fanno di lui; il genere di cose che può o non può fare mentre svolge la sua rappresentazione in loro presenza. Il limite di questo modello è costituito dal fatto che il palcoscenico presenta delle finzioni, mentre la vita cose vere. Inoltre in teatro un attore si presenta nelle vesti di un personaggio che si riflette nei personaggi interpretati dagli altri attori e il pubblico costituisce un terzo elemento dell'interazione: un elemento essenziale, che, tuttavia, se la rappresentazione fosse realtà, non avrebbe occasione di esistere. Nella vita quotidiana i tre elementi si riducono a due soli; la parte rappresentata da un individuo è adattata alle parti rappresentate dagli altri, ma questi, a loro volta, costituiscono anche il pubblico. Erving Goffman nacque in Canada nel 1922. Studiò alle Università di Toronto e di Chicago. Condusse ricerche empiriche a Shetland Isle e indirizzò i suoi interessi verso i problemi dell’interazione. Insegnò nelle Università della California e della Pennsylvania. Nel 1956 diede alle stampe il libro The Presentation of Self in Everyday Life, tradotto in italiano con il titolo La vita quotidiana come rappresentazione. In quest’opera l’autore sostiene il punto di vista della “drammaturgia”, secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini 78 E. GOFFMAN, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969. Traduzione italiana di Margherita Ciacci. (Ed. Originale: The Presentation of Self in Everyday Life, Garden City, N.Y., Doubleday, 1959). 100 della rappresentazione teatrale. L’idea non è nuova. Shakespeare, in una sua opera ( A piacer Vostro 1623) aveva fatto dire a un suo personaggio: “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona nella vita rappresenta diverse parti”. L’originalità di Goffman muove dal presupposto che quando un individuo è in presenza di altri abbia molte ragioni per cercare di controllare le impressioni che essi ricevono dalla situazione. Egli definisce la “rappresentazione” come tutta quella attività che un individuo svolge durante un periodo caratterizzato da una sua continua presenza dinanzi a un gruppo di osservatori, tale da avere una certa influenza su di essi”. Siano esse in “buona o in mala fede” le rappresentazioni sono comunque necessarie, sostiene lo studioso. La “facciata”, definita come l’equipaggiamento espressivo di tipo standardizzato che l’individuo impiega intenzionalmente o involontariamente durante la propria rappresentazione, è comunque necessaria.79 1.1 Ruolo, faccia, controllo delle impressioni Dall’ambientazione teatrale ha origine il concetto di “ruolo sociale”, largamente usato in sociologia nello studio dell’interazione e in altri ambiti. Per ruolo, s’intende l’insieme delle aspettative socialmente definite che soggetti collocati in una determinata posizione sociale, o che occupano un determinato status, sono tenuti a rispettare. Essere un docente, per esempio, significa saper rispondere nei fatti, cioè con i comportamenti, a ciò che la società si attende a proposito di tale ruolo. Nel modello drammaturgico la vita sociale è vista come una “commedia” intepretata da attori che recitano su un palcoscenico, anzi, su molti palcoscenici diversi, poiché il comportamento varia dal ruolo che viene interpretato in quel particolare momento e luogo. Gli esseri umani, inoltre, sono molto sensibili a “come vengono visti” dagli altri. A tale scopo, ricorrono a molteplici forme di controllo delle impressioni per suscitare negli astanti, le sensazioni, le considerazioni, gli effetti desiderati; talvolta, si tratta di comportamenti calcolati ma, generalmente, sono privi di partecipazione cosciente: se sono un docente universitario mi abbiglierò secondo certe regole per affrontare l’aula e, in modo diverso, per una festa in campagna. Sono scelte che implicano una certa dose di meccanicità. In modo implicito, poco sopra, si è già accennato al concetto di faccia che, permette di tener conto delle caratteristiche individuali di ogni persona. La faccia è per Goffman l’immagine che ciascuna persona vuol dare di sé nelle sue interazioni quotidiane con gli altri. Per essere presentata con successo, la faccia deve però corrispondere all’idea che gli altri si sono fatti di quella persona durante le precedenti 79 A. IZZO, Storia del Pensiero Sociologico, il Mulino, Bologna 1991, pp. 397-398. 101 occasioni di incontro e di interazione. La faccia, dunque, non fa riferimento tanto e solo alle cose da fare in una certa posizione ma, piuttosto, al modo di farle. Due insegnanti, per esempio, possono svolgere la loro attività con lo stesso successo e soddisfacendo le aspettative di ruolo, ma ciascuno mette in gioco la propria personale faccia: poniamo che in un caso sia autoritaria e nell’altro democratica. In certo senso, tale “faccia” è trasversale ai diversi ruoli che ciascuna persona interpreta; è probabile cioè, che un insegnante autoritario assuma comportamenti di tipo autoritario anche fuori dell’aula, in casa, o in altre situazioni. Al riguardo Goffman sostiene che ciascuno di noi non può mettere in scena numerose facce, ma tende piuttosto a rendere coerente in circostanze differenti l’immagine fondamentale di sé che gli è più congeniale, la propria “faccia” individuale”.80 Nota curiosa: alcuni soggetti sono “specialisti” nel controllo della propria espressione facciale e nell’accorta gestione dell’interazione con gli altri. I diplomatici, per esempio. Un buon diplomatico, deve dare l’impressione di trovarsi a proprio agio anche nell’interazione con soggetti che trova ripugnanti. Saper padroneggiare ad alto livello questa capacità, può influire sul destino di intere nazioni. 1.2 Ribalta e retroscena Secondo l’autore in questione, gran parte della vita sociale può essere divisa fra ribalta e retroscena. La ribalta è costituita da quelle circostanze sociali o incontri in cui gli individui agiscono secondo ruoli formalizzati o codificati: si tratta cioè, di rappresentazioni sceniche. I retroscena sono quegli spazi in cui gli individui approntano gli “arredi scenici” e si preparano all’interazione che dovrà avvenire in contesti più formali. Ricordano ciò che avviene “dietro le quinte” di un teatro o “a macchina spenta” su un set cinematografico. Quando sono al “sicuro fuori scena” le persone possono rilassarsi e dare spazio a sentimenti e modi di comportarsi che tengono sotto controllo quando si trovano “in scena”. Accade così che una cameriera sia la gentilezza in persona quando serve i clienti in sala, per diventare sguaiata e aggressiva una volta oltrepassata la soglia della cucina. Sono probabilmente molto pochi i ristoranti in cui i clienti mangerebbero volentieri se potessero vedere tutto ciò che succede al di là di quella soglia. Nelle parole di Goffman, nei retroscena è consentito: «…imprecare, fare espliciti commenti a sfondo sessuale, mugugnare, borbottare e urlare, dar prova di trascurare la presenza del 80 VOLONTÈ, LUNGHI, MAGATTI, MORA, Concetti, metodi, temi di Sociologia, Einaudi Scuola, Torino 2002, p. 86. 102 prossimo con atti secondari ma potenzialmente simbolici, coinvolgere se stessi in atti fisici come canterellare, fischiare, rosicchiare, ruttare o avere flatulenze». 1.3 L’adozione di ruoli temporanei: l’invasione della sfera intima James Henslin e Mae Briggs hanno studiato un tipo d’incontro molto specifico e delicato, quello tra una donna e un medico nel corso di una visita ginecologica. Tenuto conto che molti ginecologi sono di sesso maschile, l’esperienza in questione è carica di potenziali ambiguità e imbarazzi, poiché nella cultura occidentale, il contatto sessuale e la vista dei genitali rientrano di norma nell’ambito dei rapporti sessuali. Adottando la metafora drammaturgica hanno suggerito che ciascuna fase della visita può essere intesa come una “scena” distinta, in cui la parte svolta dagli attori cambia mano a mano che l’episodio si sviluppa. Il prologo: la donna entra nella sala d’attesa e si prepara ad assumere il ruolo di paziente rinunciando temporaneamente alla propria identità di sempre. Prima scena: la donna entra in ambulatorio e il medico assume toni distaccati e professionali, trattando però la donna affabilmente e ascoltando ciò che riferisce. Se è necessaria una visita, lo comunica alla paziente e lascia la stanza. Seconda scena: uscito il medico entra l’infermiera che svolge l’importante ruolo di “assistente di scena”. Tranquillizza la paziente comportandosi come una confidente ben consapevole delle situazioni che le donne debbono affrontare; svolge cioè il ruolo essenziale nell’aiutare la paziente a trasformarsi da “persona” a “non persona”, vale a dire in un corpo che deve essere esaminato in una sua parte. L’infermiera piega la biancheria e fa in modo di sottrarla alla vista del medico, giacché la maggior parte delle donne non ama esporre la propria biancheria intima alla vista altrui. Poi accompagna la donna al lettino e copre gran parte del corpo. Scena principale: il medico entra nella stanza per esaminare la paziente. La presenza dell’infermiera assicura che l’interazione fra medico e paziente sia priva di implicazioni sessuali e garantisce testimonianza legale nel caso che il medico sia accusato di condotta non professionale. L’esame procede come se la personalità della paziente fosse assente; lo sguardo degli attori è impedito dalla la posizione del medico, sistemato su un basso sgabello, e dal fatto che il lenzuolo copre il corpo della paziente lasciando scoperta solo l’area genitale. La donna collabora a diventare temporaneamente una “non persona”, rinunciando alla conversazione – salvo laconiche risposte alle richieste di tipo sanitario – e limitando al minimo i movimenti. Ultimato l’esame, nell’intervallo fra questa scena e quella finale, l’infermiera aiuta la paziente a ridiventare una persona in senso pieno. Dopo essersi rivestita si prepara per la scena finale. Il medico riferisce i risultati dell’esame trattando la paziente come una persona perfettamente responsabile in tutto e per tutto e si cura, attraverso modi e atteggiamenti appropriati, di far comprendere che il suo atteggiamento verso di lei non è stato in alcun modo modificato dal contatto intimo con il suo corpo. L’epilogo ha luogo nel 103 momento in cui la donna lascia lo studio del medico recuperando la propria identità di sempre.81 81 Tratto da: A. GIDDENS, Sociologia, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 104-106. 104 SEZIONE 6 UNO SGUARDO CRITICO 105 106 1. DALL’HOMO SAPIENS ALL’HOMO VIDENS: UNA PARABOLA DECADENTE 1.1 La televisione come necessità La costruzione dell’Europa, dell’Occidente, ha una radice medievale: la lectio communis dei monasteri benedettini, raffinati custodi della parola, universale primo della civiltà. La parola è, soprattutto, verbo di Dio. Per questo, l’impareggiabile arte degli amanuensi ne cura la trascrizione con la delicatezza e la riverenza che si conviene al Sacro. Ma è anche essenza feconda che istruisce e costruisce la communitas, il sentimento di appartenenza alla comunità. Dopo Gutemberg la parola corre veloce, libera, extra moenia ma, in questa corsa “rompe” il senso della communitas. Che è sentimento sociale già nell’antica accezione aristotelica. Senza Gutemberg la Riforma non avrebbe incontrato rapida diffusione e fortuna. E Riforma protestante, sul piano sociale, significa ascesa della borghesia mercantile europea, portatrice di quei caratteri anticomunitari ravvisabili nell’individualismo e nella competizione capitalistica moderna. La borghesia mercantile europea è annunciatrice della contemporanea cultura del “frammento”, da intendersi non come valorizzazione del particolare in relazione costante con l’universale, ma come affermazione del particolarismo nettamente separato e allontanato dall’universale. E’ la logica dell’immanente, della prevalenza particolaristica del proprio specifico interesse materiale, la logica bassa e solitaria della prevalenza del “proprio orto”, del tutti contro tutti; esasperata dal primato dell’immagine. Soprattutto dell’immagine televisiva che ha soppiantato il primato fecondo e comunitario della parola e, soppiantata la parola, ha provocato lo smarrimento del segno originario della civilitas. Di questo, si proverà a dire. Premessa: l’homo sapiens è un animale simbolico, e la sua capacità simbolica, che abbraccia tutte le forme della vita culturale si esprime attraverso il linguaggio, cioè mediante la capacità di comunicare grazie ad una articolazione di suoni e segni “significanti”, provvisti di significato. La caratteristica che lo distingue da qualsiasi specie di essere vivente, oltre al comunicare, è la capacità di parlare con se stesso, di se stesso; la capacità di riflettere: di pensare. Dicono ancora gli studiosi: “le civiltà si sviluppano con la scrittura, ed è il passaggio dalla comunicazione orale alla parola scritta che sviluppa una civiltà. Leggere e avere qualcosa da leggere era sino alla fine del Quattrocento privilegio di pochissimi dotti. L’homo sapiens che moltiplica il proprio sapere è dunque il cosiddetto “uomo di Gutemberg”… E dunque è con Gutemberg che 107 la trasmissione scritta della cultura diventa potenzialmente accessibile a tutti. Dopo la stampa, con il telegrafo e il telefono, comincia l’era delle comunicazioni immediate…La radio, anch’essa un eliminatore di distanze, aggiunge un nuovo elemento: una voce facile da diffondere in tutte le case. La radio è il primo formidabile diffusore di comunicazioni; ma un diffusore che non intacca la natura simbolica dell’uomo. Siccome la radio “parla”, diffonde pur sempre cose dette in parole. E dunque libri, giornali, telefono, radio, sono tutti – in concordanza – elementi portanti della comunicazione linguistica. La rottura avviene alla metà del secolo XX secolo, con la televisione. La televisione – lo dice il nome – è “vedere da lontano” (tele), e cioè portare al cospetto di un pubblico di spettatori cose da vedere da dovunque, da qualsiasi luogo e distanza. E nella televisione il vedere prevale sul parlare, nel senso che la voce in campo, o di un parlante, è secondaria, sta in funzione dell’immagine, commenta l’immagine. Ne consegue che il telespettatore è più un animale vedente che non un animale simbolico. Per lui le cose raffigurate in immagini contano e pesano più delle cose dette in parole. E questo è un radicale rovesciamento di direzione, perché mentre la capacità simbolica distanzia l’homo sapiens dall’animale, il vedere lo riavvicina alle sue capacità ancestrali, al genere di cui l’homo sapiens è specie”82. Il fatto: un bambino di 6-7 anni “tira” la tonaca del parroco che sta per lasciare la sua abitazione dopo aver impartito la tradizionale “benedizione della casa”. “Facciamo una preghiera per il grande fratello”, implora il piccolo. Il parroco, perplesso risponde, “tuo fratello più grande è qui, ha pregato con noi!” “Ma no, no – incalza il bambino – una preghiera per “quelli della casa, che non hanno la televisione!” Il parroco non coglie il senso della richiesta e, lasciando un sorriso incerto, se ne va. Solo qualche giorno più tardi, riferito il singolare episodio a un confratello, il parroco – che il buon Dio ha preservato da inutili e offensive (offensive per il ben dell’intelletto) frequentazioni televisive – comprende “l’arcano”. L’homo videns va cresciuto con attenzione sin dall’infanzia. Nel caso specifico, il dato sociologicamente interessante – e preoccupante – va letto nella necessità dell’oggetto. La televisione è necessaria, insostituibile, “bene” prezioso e diffuso, di cui non è possibile fare a meno. Perciò si deve pregare per chi ne è privo. E’ un dovere “cristiano”. La necessità irrinunciabile del mezzo televisivo. L’elettrodomestico deificato. E’ questo l’elemento metabolizzato, anche dai bambini, che rappresentano la continuità della ricomparsa specie “dell’uomo che vede”. Ri-comparsa, perché anche i primitivi, anche i progenitori illetterati dell’era pre-gutemberghiana, imparavano vedendo. Ma loro potrebbero vantare una miriade di giustificazioni, giacché 82 G. SARTORI, Homo videns, televisione e post-pensiero, op. cit., pp. 6-8. 108 potevano apprendere, conoscere – solo – per mezzo del “vedere”. Il salto involutivo della nostra epoca è evidente. L’innocente protagonista della vicenda avverte la necessità della superficie visiva. Per sua fortuna il “contenuto” dello specifico programma (se si può chiamare così) gli rimane inconoscibile. E’ ignorato, in fondo, anche dai 18 milioni di italiani – cresciuti nel Paese di Dante, Petrarca…Leopardi, Manzoni… – che hanno assistito, che hanno visto beatamente la celebrazione del vuoto più assoluto. Del resto l’homo videns , che annega nel triviale, vive tale condizione perché è espropriato della facoltà di capire. Ma, procediamo per gradi, osservando la genesi del ri-nato homo videns. Seguiamo lo scorrevole ragionamento di Giovanni Sartori al quale è stata “rubata” la traccia fondamentale di questo capitolo: «…La parola è un “simbolo” tutto risolto in quel che significa, in quel che fa capire. E la parola fa capire soltanto se capìta, e cioè se conosciamo la lingua alla quale appartiene; altrimenti è lettera morta, un segno o un suono qualsiasi. Per contro l’immagine è pura e semplice rappresentazione visiva. L’immagine si vede e basta; e per vederla basta la vista, basta non essere ciechi. L’immagine non si vede in cinese, arabo o inglese. Ripeto: si vede e basta. Mentre la parola è parte integrante e costitutiva di un universo simbolico, l’immagine non lo è. E’ chiaro, allora, che il caso della televisione non può essere trattato per analogia, e cioè come se la televisione fosse una prosecuzione e un mero ampliamento degli strumenti di comunicazione che l’hanno preceduta. Con la televisione ci avventuriamo in un nuovo radicalmente nuovo. La televisione non è un’aggiunta; è soprattutto una sostituzione che ribalta il rapporto tra capire e vedere. Fino ad oggi il mondo, gli eventi del mondo, ci venivano raccontati (per iscritto); oggi ci vengono fatti vedere, e il racconto (la loro spiegazione) è quasi soltanto in funzione delle immagini che appaiono sul video. Ma se questo è vero ne discende che la televisione sta producendo una permutazione, una metamorfosi, che investe la natura stessa dell’homo sapiens. La televisione non è soltanto strumento di comunicazione; è anche, al tempo stesso, paidèia, uno strumento “antropogenetico”, un medium che genera un nuovo ànthropos, un nuovo tipo umano. Una tesi che si fonda, in premessa, sul puro e semplice antefatto che i nostri bambini guardano la televisione, per ore e ore, prima di imparare a leggere e a scrivere. Curiosamente, questa esposizione è messa sotto accusa soprattutto perché (si dice) abitua il bambino alla violenza e lo rende, da adulto, più violento. Dico curiosamente perché qui uno spicchio del problema sostituisce e nasconde il problema. L’argomento che un bambino sotto i tre anni non capisce quel che sta vedendo ma a tanta maggior ragione “assorbe” la violenza, come un modello eccitante e magari vincente di vita adulta, è sicuramente vero. Ma perché limitarlo alla violenza? La verità più grande, e di 109 insieme, è che il bambino la cui prima scuola (la scuola divertente che precede la scuola noiosa) è la televisione, è un animale simbolico che riceve il suo imprint, il suo stampo formativo, da immagini di un mondo tutto centrato sul vedere. In questa paidèia la predisposizione alla violenza è, dicevo, soltanto uno spicchio del problema. E il problema di fondo è che la televisione ha allevato e sta allevando l’uomo che non legge, la torpidità mentale, il “rammollito da video”, l’addetto a vita ai videogames. “In principio era la parola”: così il Vangelo di Giovanni. Oggi si dovrebbe dire che “in principio è l’immagine”. E con l’immagine che scavalca la parola si insedia una cultura giovanile descritta benissimo da Alberoni (1997): I ragazzi camminano nel mondo adulto della scuola, dello Stato , della professione come clandestini. A scuola ascoltano pigramente lezioni… che lestamente dimenticano. Non leggono i giornali…Si barricano nella propria camera coi poster dei loro eroi, guardano i propri spettacoli, camminano per strada immersi nella propria musica. Si risvegliano soltanto quando si ritrovano in discoteca la notte. Quando, finalmente, assaporano l’ebbrezza di assieparsi l’un sull’altro, la beatitudine di esistere come un unico corpo collettivo danzante. Non saprei raffigurare meglio il video-bambino, e cioè il bambino allevato dal video-vedere. Questo bambino diventa mai adulto? In qualche modo, per forza. Ma si tratta pur sempre di un adulto che resta sordo, a vita, agli stimoli del leggere e del sapere trasmessi dalla cultura scritta. Gli stimoli ai quali continua a rispondere, da grande, sono quasi soltanto audio-visivi. E dunque il video-bambino non cresce più di tanto. A trent’anni si ritrova ad essere un adulto impoverito, educato dal messaggio “la cultura che barba” di Ambra Angiolini (l’enfant prodige che anima il grande villaggio vacanze televisivo), e quindi un adulto segnato a vita da atrofia culturale”. Il termine cultura possiede due significati, chiarisce il noto sociologo. “Nella sua accezione antropologico-sociologica sta per dire che qualsiasi essere umano vive nella sfera di una sua cultura. Se l’uomo è, come è, un animale simbolico, ne deriva eo ipso che vive in un contesto connettivo di valori, credenze, concezioni e, insomma, di simbolizzazioni che ne costituiscono la cultura. In questa accezione generica, quindi, anche il primitivo o l’analfabeta possiedono cultura. Ed è in questa accezione che oggi parliamo, ad esempio, di una cultura dello svago, di una cultura dell’immagine e di una cultura giovanile. Ma cultura è anche sinonimo di “sapere”: una persona colta è una persona che sa, di buone letture o comunque bene informata. In questa accezione stretta e apprezzativa la cultura è dei “colti”, non degli ignoranti. E questa è l’accezione che ci consente di parlare (senza contraddizioni) di una “cultura dell’incultura” e così di atrofia e povertà culturale. E’ esatto che le società sono sempre state plasmate dalla cultura dei media mediante i quali comunicano più che dal contenuto della comunicazione. L’alfabeto per esempio, è una tecnologia 110 assorbita dal bambino… per osmosi, per così dire. Ma è inesatto che “l’alfabeto e la stampa hanno promosso un processo di frammentazione, di specialismo e di distacco, mentre la tecnologia elettronica promuove unificazione e coinvolgimento”. Semmai è vero il contrario. Né queste considerazioni possono dimostrare una qualsiasi superiorità della cultura audiovisuale sulla cultura scritta. Il messaggio, con il quale la nuova cultura si raccomanda e auto-elogia, è che la cultura del libro è dei pochi (elitista), mentre la cultura audio-visiva è dei molti. Ma il numero dei fruitori – pochi o molti – non modifica la natura e il valore di una cultura. E se il costo di una cultura di tutti è il declassamento in una sotto-cultura che è poi – qualitativamente – “incultura” (ignoranza culturale), allora l’operazione è soltanto in perdita. Tutti incolti è forse meglio di pochi colti? Vogliamo una cultura nella quale nessuno sa nulla? Insomma, se il maestro sa più dell’allievo, allora dobbiamo ammazzare il maestro; e chi non ragiona così è un elitista. Ma questa è una logica di chi non ha logica»83. Sartori evidenzia il segno dominante di una illogicità che, diversamente, potremmo leggere come il trionfo del relativismo culturale assoluto. In altre parole, una sottocultura capace di ingenerare un nuovo ànthropos, un nuovo tipo umano, tutto proiettato e risolto dentro ai registri dell’innovazione, di ciò che muta, e completamente oscurato della e nella dimensione fondamentale del suo stesso farsi uomo: quella delle sue proprie specificità culturali, che riassumono significati,conoscenze, saperi e, soprattutto, sicuri valori di riferimento, traghettati nel movimento perenne e “naturale” della tradizione da altre generazioni di esseri umani che lo hanno preceduto, nella consapevolezza della relazione indisgiungibile e indissolubile fra chi c’è stato, chi c’è e chi ci sarà; fra ciò che resta e ciò che viene. Detta con verso più sociologico: il tradere che si perpetua grazie alla irrinunciabile congiunzione dinamica e dialettica fra persistenze culturali e mutamenti sociali. Il nuovo tipo umano della “terza rivoluzione tecnologica”, già espropriato della dignità di persona e ridotto a individuo da consumo (consumato e consumante) dalle propaggini del mai sopito positivismo scientista iniettate di un liberismo troppo spesso becero e inumano, rischia pure di cedere la propria figliolanza storica e culturale alle effimere astrazioni di una virtualità multimediale, invasiva e innaturale. In sostanza, la temperie culturale delineata dal sociologo toscano inaugura il dispiegarsi di una weltanschauung dominata dal virtuale e indirizzata a rescindere i vincoli comunitari che orientano l’uomo nelle vie della realtà sociale indicando i termini del senso ultimo e necessario dell’umano esistere. Ne deriva il rischio, questo sì, reale, 83 G. SARTORI, Homo videns…op. cit., pp.13-7. 111 della perdita d’identità, che conduce allo smarrimento del senso della vita con tutto ciò che ne consegue: dai crescenti e diffusi disturbi della personalità all’accelerazione di comportamenti devianti che, troppo spesso, rievocano un’età primigenia e terribile (genitori che uccidono i figli e viceversa), fino alla decostruzione dei nessi che garantiscono la dignità della persona umana, provocata dal consumo di droghe e dalla pratica di varie “prostituzioni”, materiali e morali; per non dire dell’autoannientamento, il suicidio che, notoriamente, interessa i segmenti più indifesi della società: giovanissimi e anziani. Circa le modalità che attentano alla pur faticosa quanto necessaria ricerca del senso dell’umano exsistere nell’epoca dell’ultramodernità, è chiarificatrice l’accorta lettura di Ulderico Bernardi, antropologo e sociologo veneto, esponente di primo piano di una sociologia qualitativa, che non esiterei a definire sociologia personalista. Profondo conoscitore delle dinamiche socioculturali, il pensatore veneto avverte: «Nell’analisi sociale del quotidiano va ricercato l’equilibrio o lo squilibrio delle relazioni tra le istituzioni, con il loro interesse al mutamento, con il loro tempo lineare di “progresso”, con la loro logica pianificatrice, razionalizzante, egalitarista, unificante; e la comunità, vocata alla continuità, fatta di persone che hanno una visione circolare del tempo, con le sue mediazioni, con la sua socialità extra-istituzionale, con forme di solidarietà spontanea, con le loro percezioni della gerarchia fondata sul valore morale, della diversità come principio di armonia. Questa tensione comunitaria è destinata ad accrescersi quanto più il tempo sociale del lavoro obbligato si restringe. Di là dal riprodurre se stesse, le persone acquistano sempre maggiore coscienza della impossibilità di comprendere il senso della vita individuale fuori dal complesso inestricabile di relazioni che travalicano il presente per comporsi nei mille fili intrecciati delle generazioni, a formare la solida fune che dalla Origine è lanciata a superare l’abisso del nulla individualistico, l’angoscia mortale del vuoto egoistico, dove nessuna cultura alligna. Nei bisogni emergenti l’uomo contemporaneo, l’Homo tecnologicus della società telematica, si scopre ancora Homo simbolicus, bisognoso di agganci all’invisibile mediante segni, riti, gesti che inverano il suo legame con la comunità di ogni tempo. E’ la visione religiosa dell’eterno presente, così come è stata proposta da Agostino: “E’ una improprietà dire, ci sono tre tempi, il passato, il presente, il futuro. Avremmo piuttosto ragione di dire, ci sono tre tempi: il presente degli avvenimenti passati, il presente degli avvenimenti presenti, il presente degli avvenimenti futuri. In effetti queste tre cose sono nell’anima e non le vedo altrove. Il presente del passato o memoria, il presente del presente o intuizione, il presente del futuro o attesa ». (Sant’Agostino, Confessiones, Liber XI, caput XX). 112 Memoria, intuizione e attesa, compresenti, nel divenire. Una esigenza che il nostro tempo non considera, mostrando di apprezzare in maggior luogo il pensiero fondato sull’idea del trasformare, nel pragmatismo che permea l’educazione, la comunicazione, l’informazione. Tutto concorre a richiamare l’attenzione sul mutamento, mentre trascura l’idea del conoscere, del meditare, del contemplare, che ha nutrito millenni di pensiero centrato sul valore di continuità, su ciò che persiste, che non muta. Nella realtà sociale contemporanea, la carenza di autorità morale fa insorgere anche in molta parte delle giovani generazioni la domanda di conoscenza sulla trasformazione. Affiora il bisogno di senso, quello che nel linguaggio dei Media si definisce “qualità della vita”: ambito complesso, che si estende all’insieme delle relazioni esistenziali con il visibile e l’invisibile, con il presente storico e il dominio simbolico. In uno sforzo che per taluni è motivo di scoramento, di sfiducia e di abbandono, così che finiscono per trasferire il senso delle ore, da quelle che esauriscono gran parte delle proprie giornate, nella vita familiare, nel lavoro, a quella manciata di ore del fine settimana, votate alla smemoratezza, all’ammazzamento del tempo e di se stessi, nel rumore ossessivo di una musica che porta a godere la schiuma dei giorni e non il loro vero sapore. E come la schiuma, è effimero il significato esistenziale di questi atti, così che non di rado la tragica consapevolezza porta alla cancellazione dell’essere».84 La nozione di individuo è il risultato delle tracce culturali che, pur su direzioni divergenti, assommano positivismo scientista e materialismo storico. Differisce dal concetto di persona, poiché espulge dal proprio sé, la dimensione fondamentale che fa di uomo, appunto, una persona, cioè l’anima, o spirito o, ancora, solo laicamente, il principio vitale. L’individuo, in sostanza, è un essere abbandonato al proprio presente che, nella logica dell’ultramodernità tecnoeconomica, va vissuto hic et nunc, senza legami al passato o rimandi al futuro. E’deprivato della possibilità di una relazione intima e feconda con il radicalmente altro, esigenza presente negli esseri umani di ogni tempo e spazio. L’età che segna il primato del secolo, spoglia gli individui della tensione primeva ed escatologica (spesso surrogata attraverso forme arcaiche di superstizione) che ha guidato l’umanità nella realizzazione di leggi morali, opere d’arte, splendide civiltà e… perfino sogni, in nome di una rassicurante promessa e/o percezione d’eternità. Reso monco dell’anima, l’individuo viaggia in solitudine, arrancando fra modalità comportamentali figlie di un’economia sempre più asservita alle nuove tecnologie; modalità difficili da raggiungere, e da spiegare, anche nei termini dell’economia classica. “L’uomo nuovo”, costruito dal totalitarismo 84 U. BERNARDI, La nuova insalatiera etnica, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 77-78. 113 della techne, non ha radici. E’ sradicato. E’affidatario e confidante in una materialità che, da sempre, non basta e non dà risposte significanti alla ricerca di senso. E’ un individuo globale, fatto di caratteri troppo diversi, eccessivamente visibili, superficiali, incapaci di corroborare in profondità. E non è mai un olismo. E’ “troppi”, virtualmente vicinissimi e in realtà lontanissimi, quando non in aperta competizione fra loro; e non è nessuno. E il vuoto d’identità, il vuoto d’anima, lascia spazio alle derive – troppo spesso tragiche – indicate, peraltro senza enfasi catastrofiche, dagli intellettuali qui interrogati. 1.2 Il verso subdolo del “persuasore”: come l’homo videns diventa merce Il video-bambino dello “stadio” tecnologico-televisivo subisce pure uno svezzamento innaturale. Basti pensare che, a Roma, 6 bambini su 10 “crescono” con la televisione in camera. Il pensiero logico è il risultato delle umane capacità di astrazione, del capire per concetti, che non si vedono. Anche un cieco può astrarre, può pensare. La soluzione virtuosa, semmai, è data dal “sapere vedendo” congiunto al “sapere per concetti”. L’illogicità stabilizzata sul “visibile” è caratteristica dominante del tipo umano che si va affermando. Ancora nel lontano 1962 il solito Giovanni Sartori, nella “Rassegna Italiana di Sociologia”, scriveva: «Tanto il propagandista, quanto l’educatore, influenzano e persuadono. Ma l’educatore valorizza la potenzialità umana dell’uomo, il propagandista ne sfrutta la debolezza. L’educatore parla “sopra la testa” dei discenti per elevarli a sé, il propagandista aggiusta il suo messaggio, potremmo dire, all’altezza della cintura dei riceventi: l’educatore cerca la verità, il propagandista no»85. Pochi anni prima, certo professor Bryson della Columbia University si trovò a presiedere una speciale équipe di ricerca sull’orientamento dei consumi: «se voi siete dei Social Engineers – scriveva ai collaboratori – tengo ad avvertirvi che è indispensabile una analisi preliminare dei tre livelli in cui, in una società come la nostra, si manifesta l’assenso. Esclusa la natura umana, dove ben poco si può fare per manipolare la gente, restano: il livello culturale, dove si formano e si modificano le idee del pubblico ma, soprattutto, il terzo livello, vale a dire la zona in cui l’individuo opera le proprie scelte, le quali, sono spesso determinate da impulsi che non hanno alcun fondamento razionale. A questo G. SARTORI, Sociologia della propaganda, “Rivista Italiana di Sociologia”, III, 4, (1962), p. 189. 85 114 livello – sostiene Bryson – è relativamente facile manipolare gli uomini»86. Nell’età industriale, il primo a ricorrere a codici comunicativi capaci di stimolare le pulsioni inconsce, specie quella libidica, fu Benjamin Day, un giovane tipografo di New York che offrì ai “lavorati”, agli alienati della neonata società industriale di massa, un paradiso artificiale sotto le spoglie del suo giornale, il “New York Sun” introducendovi il “gossip”, il pettegolezzo, il sensazionalismo, la notizia capace di suscitare curiosità morbosa. Insomma, quella che noi oggi chiamiamo, cronaca “rosa e nera”. Tutt’ora le più lette. Benjamin Day garantì queste “dis-trazioni” alle masse alienate da un modello lavorativo disumanizzante e fino ad allora sconosciuto, inventando la “penny press”, il giornale che proponeva il paradiso artificiale, venduto dagli strilloni a un penny, e perciò acquisibile da chiunque. La stampa divenne sottosistema del sistema economico-industriale che ne sosteneva i costi e, per mezzo della stessa, pubblicizzava i propri prodotti. L’operaio, l’impiegato, nello stesso tempo in cui “ricomponevano” la loro frustrazione grazie alla distrazione sensazionalistica, diventavano – inconsapevolmente – potenziali acquirenti e consumatori dei prodotti delle aziende che garantivano la vita del giornale. Un’inconsapevole trasformazione in merce di consumo e di scambio. Così è stato. E così è. L’Europa, il giornalismo europeo ha appreso e affinato la lezione di Benjamin Day. Tutt’ora, infatti, la carta stampata impiega le collaudate tecniche sensazionalistiche di “rosa” o di “nera”, molto spesso “gonfiando” o letteralmente costruendo notizie “incerte”, per mezzo dei menzionati codici di attivazione delle leve di sicuro effetto manipolatorio. Dopo la rivoluzione elettronica, travasare le metodologie di manipolazione sul video del televisore o del computer è stato un gioco da ragazzi. Al punto che, persino le guerre, nella loro atroce e assurda realtà (purché distanti), diventano un evento mediatico. Lo si è visto nell’ultimo decennio e lo si sta vedendo ancora. L’Europa, l’Italia, copiano gli Stati Uniti – la “madre” di tutte le società di massa – prendendo il peggio, ovviamente. Non Carlo Marx, ma gli Stati Uniti hanno realizzato il “comunismo”, attraverso l’omologazione culturale, la globalizzazione dei consumi, dei costumi, degli stili di vita. Più indietro, Giovanni Sartori segnalava che «il propagandista aggiusta il suo messaggio all’altezza della cintura dei riceventi». Al riguardo, diverse voci sostengono, per esempio, che il controllo strumentale della componente libidica sia sempre stato esercizio della Chiesa. Può darsi che sull’argomento della sessualità, la 86 E. MASCILLI MIGLIORINI, La Comunicazione istantanea, Guida editori, Napoli 1989, p. 51. 115 Chiesa non sempre abbia adoperato codici comunicativi adeguati al messaggio evangelico. Ma ben altro e ben altri sono i controllori della sessualità che si traduce in valore di mercato. Ne tracciò un profilo nitido in tempi maturi per la società di massa statunitense, e attualissimo per l’Europa che ne è l’inseguitrice, un grande pensatore della Scuola di Francoforte, Herbert Marcuse. Scrive il filosofo tedesco in L’uomo a una dimensione, la “bibbia” dei giovani del sessantotto europeo: «…E’ stato spesso notato che la civiltà industriale avanzata opera con un grado più elevato di libertà sessuale, “opera” nel senso che quest’ultima diventa un valore di mercato ed un fattore di costumi sociali. Senza che cessi di essere uno strumento di lavoro, si permette al corpo di esibire i propri aspetti sessuali nella vita quotidiana come nelle relazioni di lavoro. E’ questo uno dei risultati unici della società industriale, reso possibile dalla riduzione del lavoro fisico sporco e pesante; dalla disponibilità di capi d’abbigliamento belli e a buon mercato, di cure di bellezza, di igiene fisica; dalle esigenze dell’industria pubblicitaria, ecc. La segretaria e la commessa sessualmente attraenti, il giovane dirigente ed il sorvegliante belli e virili sono merci che vanno benissimo sul mercato, ed il fatto di avere un’amante come si conviene – prerogativa un tempo di re, principi e signori – facilita la carriera persino dei funzionari di minor grado nella comunità degli affari. Il funzionalismo, indossati panni d’artista, giova a promuovere detta tendenza. Negozi ed uffici si aprono alla vista con immense vetrate e pongono in mostra il loro personale; nell’interno, i banconi alti e le divisioni non trasparenti stanno scomparendo. L’erosione della privacy nei mastodontici edifici d’abitazione come nelle case suburbane spezza la barriera che prima separava l’individuo dall’esistenza pubblica e rende più visibili le attraenti qualità delle altre mogli e degli altri mariti. Questa socializzazione non contraddice ma anzi completa la deerotizzazione dell’ambiente. Il sesso è integrato nelle relazioni di lavoro come nelle relazioni pubbliche, e per tal via gli si permette di trovar più facilmente soddisfazione (controllata). Il progresso tecnico ed una vita più confortevole permettono di includere sistematicamente certe componenti libidiche nel regno della produzione e dello scambio di merci. Ma per quanto possa essere controllata la mobilitazione dell’energia istintuale (in certi casi si tratta di “organizzazione scientifica del lavoro” applicata alla libido), per quanto possa servire a sostenere lo status quo, - prosegue il filosofo tedesco essa rappresenta pur sempre una gratificazione per gli individui amministrati, così come li diverte far scattare il fuoribordo, spingere sull’aiuola la falciatrice a motore e guidare l’auto ad alta velocità. Questa mobilitazione ed amministrazione della libido può valere a spiegare in gran parte l’ossequio volontario, l’assenza di terrore, l’armonia prestabilita tra bisogni individuali e desideri, scopi ed aspirazioni socialmente richiesti. La conquista tecnologica e 116 politica dei fattori trascendenti nell’esistenza umana, così caratteristica della civiltà industriale avanzata, si afferma nella sfera degli istinti, offrendo soddisfazioni tali da indurre alla sottomissione e indebolire la razionalità della protesta. La gamma delle soddisfazioni socialmente permesse e desiderabili è stata molto ampliata, ma per loro tramite il principio di piacere viene ridotto, privato delle istanze inconciliabili con la società stabilita. Grazie a questo processo di adattamento, il piacere genera sottomissione. In contrasto con i piaceri della desublimazione ben adattata, la sublimazione conserva la coscienza delle rinunce cui la società repressiva costringe l’individuo, e per tal via conserva il bisogno di liberazione. La perdita di coscienza dovuta alle libertà di gratificazione concesse da una società non libera dà origine ad una coscienza felice che facilita l’accettazione dei misfatti di questa società. E’ un indice del declino dell’autonomia e della comprensione. La sublimazione richiede alto grado di autonomia e di comprensione, essendo una mediazione tra il conscio e l’inconscio, tra processi primari e processi secondari, tra l’intelletto e l’istinto, tra la rinuncia e la ribellione. Nelle sue forme più compiute come nell’opera artistica, la sublimazione diventa il potere cognitivo che sconfigge le forze repressive nel mentre cede ad esse. Alla luce della funzione cognitiva di questa forma di sublimazione, la desublimazione che si sparge con tanta rapidità nella società industriale avanzata rivela la sua funzione veramente conformista. Codesta liberazione di sessualità (e di aggressività) libera gli impulsi istintuali da gran parte dell’infelicità e dello scontento che riflettono il potere repressivo dell’universo di soddisfazioni stabilite. Esiste certo una diffusa infelicità; e la coscienza felice è piuttosto precaria, crosta sottile che copre paura, frustrazione, disgusto. Tale infelicità si presta facilmente ad essere mobilitata per fini politici; senza spazio per uno sviluppo consapevole, essa può divenire una riserva d’energia istintuale disponibile per la rinascita di un modo di vivere e di morire di tipo fascista. Vi sono però molti modi in cui l’infelicità sottesa alla coscienza felice può venir trasformata in fonte di forza e di coesione per l’ordine sociale. I conflitti dell’individuo infelice sembrano ora assai più suscettibili di cura di quanto non fossero quelli che produssero quel “disagio della civiltà” di cui parla Freud, e sembra si possa definirli in modo più adeguato nei termini della “personalità nevrotica del nostro tempo” anziché nei termini dell’eterna lotta tra Eros e Thanatos»87. 1.3. Quanto è vera la tv – verità? Marcuse, una delle figure più autorevoli della famosa Scuola di Francoforte, non si stupirebbe nell’apprendere che la civiltà industriale del 87 H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1991, pp. 93-5. 117 postmoderno avanzato si affaccenda nella costruzione di strategie per “curare la personalità nevrotica del nostro tempo”. Con risultati soddisfacenti, nei termini del controllo sociale. Una di queste “cure” è la Tv-verità o Tv-realtà. Umberto Folena con occhiata precisa e radente ci aiuta a capire il “tipo italico televisivo”, catturato dalla tv-verità e dalle terapie “curative” messe in atto da questa: «il Grande Fratello è stata l’apoteosi della cosiddetta tv-verità, traduzione italiana, anche se approssimativa, dell’inglese reality-tv. La tv della realtà. La tv che afferma di dire la realtà, rappresentare la realtà, raccontare la realtà. Realtà fatta di gente normale. La gente davanti alla tv, la gente – soprattutto – dentro la tv. Fin qui nulla di strano. E’ quello che tutti vediamo, o abbiamo sentito, e sappiamo. Perché parlare ancora di tv? Non diciamo spesso che dovremmo parlarne di meno, per aiutarla a superare il suo delirio di onnipotenza? Certo. Ma qui parleremo di tv per parlare di noi. Dei nostri comportamenti. E di ciò che li determina. Da dove arriva la tv-verità? E’ figlia diretta, legittima, prediletta della neotv, quella che trionfa tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, con l’affermazione, anche in Italia, della tvcommerciale, della concorrenza, dell’ingresso massiccio degli inserzionisti pubblicitari. La paleo-tv, quella per capirci del Canale Nazionale, della tv dei ragazzi, di Studio Uno, raccontava soltanto la realtà. E neppure tutta… Quanto alla gente, per la paleo-tv è un soggetto distinto: la tv narra, la gente guarda e ascolta. Emittente e destinatario della comunicazione sono ben separati. La neo-tv, invece, non solo accorcia le distanze, ma le annulla. Perché? La neo-tv ha un bisogno disperato di telespettatori. Più ne ha, più acquistano valore i suoi spazi pubblicitari. Un segnale interessante: ai tempi della paleo-tv c’era l’indice di gradimento. Era sì importante sapere quanti telespettatori seguissero un programma, ma soprattutto se quel programma era loro piaciuto. Un alto ascolto, infatti, non era prova automatica di un alto gradimento. La neo-tv non elimina il gradimento, no. Ma lo riduce all’indice di ascolto, al cosiddetto audience (la quantità di telespettatori sintonizzati) e allo share (la percentuale di telespettatori sintonizzati su un programma sul totale dei telespettatori). Da anni diamo per scontato, del tutto arbitrariamente, che un alto ascolto sia indice di alto gradimento. Il pubblico, poverino, viene trattato a un tanto al chilo. Ai signori della tv non interessa che cosa tu pensi, basta che tu ci sia. Meglio: è quello che interessa ai signori della pubblicità. Dimmi quanti contatti hai, e ti dirò quanti soldi vali. E la realtà? E’ vero che l’unica realtà è quella che finisce dentro la tv? Vero o falso che sia, è ciò di cui pare fermamente convinta una fetta consistente di italiani. Sono gli italiani che cercano spasmodicamente, freneticamente, ossessivamente di finire dentro la tv. Come protagonisti di un talk-show o di un quiz, come semplici figuranti, come banalissimo pubblico docile al direttore di scena che suggerisce applausi e risate. Sarebbe interessante 118 seguire il pubblico, quello che fa semplicemente massa, le comparse insomma, minuto per minuto, dal momento in cui entrano negli studi. Lo sguardo, il passo…Una riverenza, un rispetto, una beatitudine, la consapevolezza di vivere un momento storico di cui narreranno per anni a parenti e amici, anche loro in religioso ascolto Fatto sta che fanno di tutto per andarci. Anche le cose meno nobili. Ad esempio, vediamo un numero inesauribile di italiani che vanno in tv a litigare, a insultarsi, a riconciliarsi tra lacrime e abbracci, raccontando di fronte a milioni di sconosciuti i fatti propri, anche i più intimi e scabrosi, senza un filo di pudore. Perché lo fanno? E perché lo fanno fare ad altri? Ci sono infatti dei genitori che si servono dei figli per conquistarsi il loro ritaglio di “realtà”, esibendoli in tv, e riservando a se stessi solo una breve inquadratura tra il pubblico. Li riconosci subito, i genitori del pargolo che sembra una foca ammaestrata, per l’occhio tronfio e compiaciuto. Trionfa l’impudicizia. Ed eccoci al Grande Fratello. Potrebbe essere letto anche come l’affronto più sfacciato della neo-tv, che dice: la realtà la creo io, dal nulla. Volete la prova? Prendo dieci perfetti sconosciuti, assolutamente privi di qualità, e solo grazie alla mia forza ne faccio dieci divi popolarissimi. La realtà reale non è sempre così interessante, e gli italiani – quanti saranno? Tanti o pochi, sono sempre troppi – lo sanno. Sanno di non vivere vite appassionanti, esistenze da romanzo capaci di tenere incollati i telespettatori. E allora esagerano. O inventano. Non ci toglieremo mai di dosso il dubbio se i dieci del Grande Fratello, nel loro appartamento di Cinecittà, fossero del tutto liberi e spontanei o ricevessero dei “suggerimenti” da parte degli autori del programma. O perfino recitassero a soggetto, seguendo un copione che per ciascuno di loro prevedesse precise caratteristiche. Il palestrato, la gatta morta…Ma di dubbi non dovremmo averne. I giornali lo dicevano da anni. Avevano mosso denunce precise, almeno quelli meno farciti di pubblicità. Ma c’è voluta un’altra trasmissione televisiva, Striscia la Notizia, perché tutti lo vedessimo e sentissimo: signori che si presentano in tv con confessioni diverse, nomi diversi, biografie diverse, ma sempre lo stesso signore… La tv-verità – è più che un sospetto – è “in verità” una solenne patacca. Eppure loro, i signori della tv, dall’alto dei loro scranni, negano. Negano tutto. Negano l’evidenza. In qualsiasi azienda se sbagli paghi. Non in tv. Sempre che gli ascolti tengano. Ed ecco il punto dolente. La gente sa. Ben dieci milioni di telespettatori seguono Striscia la notizia. Eppure la tv-patacca non conosce calo di ascolti. E’ tutta una bufala, ma milioni di italiani continuano a godersela. Perché? Difficile dirlo. Forse, ma è solo un’ipotesi, finiamo per credere a ciò che desideriamo credere. E gli italiani che ci vanno in tv? Perché? Altra domanda difficile. Forse, ed è un’altra ipotesi, è in continuo aumento la percentuale di drogati. Non solo né soprattutto di sostanza. No, drogati di eccezionalità. A troppi italiani la vita 119 appare squallida, banale, troppo lontana da quella – e sappiamo quanto sia finta – dei divi, della gente qualunque gettata dentro lo schermo che ne emerge ricca di denaro e notorietà. La televisione droga chi la guarda, e richiede dosi sempre più massicce. E chi la fa. Chi la fa è anche chi la guarda, ed ecco il Dna della neo-tv. A che pro? Ecco, a questa domanda non è poi difficile rispondere. Lo scopo della neo-tv è avere più telespettatori il più a lungo possibile. Ma perché aspira agli ascolti sempre più alti e prolungati? Perché i telespettatori, e il loro tempo, sono merce. Merce che le tv vendono agli inserzionisti pubblicitari. E poi ci dicono che le televisioni sono gratuite… Ci succhiano anni della nostra vita, di cui fanno commercio (dieci milioni di telespettatori, compri questo spazio, conviene!), potrebbero almeno darci programmi belli, educati, intelligenti. E invece ci rifilano patacche, che noi ci godiamo beati. Noi… Diciamo molti italiani. Troppi. E la chiamano tv-verità. Finiamo in bocca al lupo, e dobbiamo pure sorridere, se no il lupo diventa triste»88. Drogati di eccezionalità e affetti da dipendenza dal “paradiso artificiale”, che ci regala un’immaginifica irrealtà che siamo disposti a considerare reale. Incapaci di distinguere vero da falso, al punto che abbiamo annientato anche la feconda voce del dubbio; che è sussurro di criticità, di libertà. Ma è pur vero che la tv fa compagnia ai vecchi, distrae i bambini, e non solo. Assolve cioè un importante ruolo sociale nell’epoca individualistica e frammentata; è una sorta di dama di compagnia videoelettronica. E sa offrire al pubblico, senza dubbio, anche buona informazione e programmi di sicuro interesse (magari a orari irraggiungibili). Salvo poi tributare riconoscimenti di prestigio a trasmissioni demenziali e ai loro protagonisti. Ma, come ci ha spiegato Folena, sono le trasmissioni più gettonate. Il primato – al solito – spetta alla merce che ha maggior valore. Nel caso della tv, i programmi d’intrattenimento, privilegiati dai palinsesti delle diverse reti. E l’individuo della terza cultura tecnologica sembra contagiato da una forma insaziabile di festa e divertimento, dalla voglia continua di essere “intrattenuto e distratto”. Ed ecco che il “persuasore”, chi fa la tv, s’insinua con pervasiva invadenza sul tempo libero della gente, presentandosi come il “gran giullare” della fiera dei divertimenti, pronto a saziare l’inesauribile bisogno di evasione e di “paradiso”. E, de-vertere, significa, regalare agli individui un mondo irreale, virtuale panacea per dolori, frustrazioni e insoddisfazioni. Allontanandoli però – in pari tempo – anche dalla riflessione impegnata, dall’attenzione critica… dalla libertà. Così facendo, il “persuasore” contribuisce alla fluida perpetuazione dei sistemi dominanti, evitando possibili e salutari “perturbazioni”; se è vero che l’uomo non è solo un animale da consumo, videodeterminato. 88 U.FOLENA, Finta come la tv-verità, “San Francesco”, LXXXI, 5, (2001), pp. 34-38. 120 1.4 L’ansia del paradiso artificiale risolta nel grigio paradosso della festa solitaria Il “gran giullare” somministra l’illusione che la vita sia una festa ininterrotta, partecipata da tante personcine belle, eleganti, sempre sorridenti e mai affaticate. Tanto che, figli e nipoti di generazioni di operai e contadini si sono trasformati in “raffinati” frequentatori – e “consumatori” – di centri commerciali, dove anche il cibo sa di pubblicità. Sofisticati come sono, “schifano” l’arcaico odore del fritto e del pesce fatto in casa e optano sicuri per il preconfezionato e il “già cotto”. Tutti carini e delicati come tante eleganti scatoline infiocchettate (ma vuote), adesso credono che, grazie a scienza e tecnologia, anche le mucche odorino di caramella! Il “gran giullare” è garante dell’esistenza del paradiso artificiale dove trovano riposo angosce, frustrazioni, insoddisfazioni; in ultima istanza, le coscienze svuotate di tanti “schiavi sublimati”, per parafrasare Marcuse. I “sacerdoti” di una religiosità laica e libertaria decompongono il senso religioso originario della festa, per ricostruirlo dentro una nuova dimensione, tutta mercantile. Come s’intuisce, per festa, non s’intende l’atteggiamento gioioso verso la vita che dovrebbe distinguere i cristiani, secondo l’esortazione di Paolo di Tarso. Adesso, per fare un esempio, più che celebrare la festa di “tutti i santi”, si celebra la festa pagana – ma globalizzata, perciò ineludibile – di Halloween. Anni addietro – si ricorderà – c’era la festa di “Ognissanti” e il giorno per ricordare i defunti. Il secondo è stato cancellato per le esigenze produttivocommerciali del Paese. Per tradurlo, quand’è possibile, nel tassello indispensabile al classico “ponte” feriale. La giornata in cui si onoravano i defunti – pratica antichissima e non necessariamente solo cristiana – si trasforma, spesso, nell’ennesima occasione “godereccia”. Su questa trasformazione, che si è compiuta, gioco-forza, nel secolo appena sfumato, può dire meglio la penna analitica di Marcello Veneziani: «Il Novecento è stato il secolo ludico per eccellenza. Anzi non si comprende appieno lo spirito del secolo se non si risale al suo desiderio dionisiaco di trasgressione e di scatenamento delle energie “represse”, alla sua pulsione edonistica estesa oltre i limiti della festa tradizionale. La festa come anello di congiunzione tra i sogni solitari e i sogni d’evasione della società opulenta. La festa ha subito nel Novecento un’accelerazione intensiva ed estensiva senza precedenti, sia che si consideri il rapido e contagioso declino di feste con tradizioni anche millenarie, sia che si consideri il rapido e contagioso fiorire di nuove feste secolari e profane. Da un lato nel giro di pochi anni numerose feste che avevano rappresentato per secoli una valvola rituale di espressione comunitaria, di integrazione e riconoscimento simbolico, sono state soppresse (soprattutto 121 nella prima metà del secolo), hanno subìto un rapido declino o addirittura sono scomparse (soprattutto nella seconda metà del secolo), sopravvivendo solo a volte e riemergendo come carcasse turistiche prive di anima: feste in larga parte di origine religiosa e segnatamente cristiano-pagana hanno subìto in pochi decenni un declino che non ha precedenti, o un rilancio improvviso nel segno del folclore più artificioso. Dall’altro lato il Novecento ha prodotto la più alta concentrazione di feste di origine politica, civica, spettacolare e infine mercantile. Non dimentichiamo che il Novecento è il secolo del cinema, della tv e dello sport di massa, ovvero delle occasioni ludiche al di fuori della cornice tradizionale o territoriale. Proviamo allora a stabilire alcune differenze tra la festa come era stata concepita nei secoli precedenti e la festa come si presenta nel Novecento. La distinzione originaria nasce con il passaggio nell'epoca della secolarizzazione, come la definisce Del Noce: ovvero la festa, fino al compimento della secolarizzazione, segnava la continuità tra la dimensione religiosa e la dimensione profana; era l’anello di congiunzione tra vitalismo e trascendenza. Le feste della rivoluzione francese nascevano come imitazioni della simbologia religiosa, come tentativi di emulazione e di sostituzione del calendario tradizionale e dei riti religiosi, nel tentativo di riannodarsi alle tradizioni pagane e precristiane. Comunque, nonostante l’esperienza rivoluzionaria francese, la festa aveva conservato fino al nostro secolo un senso etimologicamente religioso, nel senso appunto di re-ligare. Anche laddove persistevano tradizioni pagane, anche laddove la festa aveva origini civiche e profane, persino nelle feste che ritualizzavano tendenze anomiche e orgiastiche, prevaleva l’idea di complementarietà con il sacro, ove la stessa trasgressione era giocata all’interno di una comunità e del suo orizzonte di valori condivisi. Nel nostro secolo la festa assume invece progressivamente un significato sostitutivo della religione, o di aperta liberazione dal sacro. Ma nella seconda metà del secolo – precisa Veneziani avviene anche un altro sostanziale rovesciamento della concezione della festa rispetto al modo di intenderla dei secoli precedenti: la festa non è più concepita come l’interruzione periodica di una consuetudine, l’eccezionale che ritempra l’ordinario e l’ordinato; ma al contrario si tende a viverla come la dimensione propria, autentica, quotidiana della vita, rispetto a cui la vita ordinaria, il lavoro, i rapporti sociali e famigliari appaiono come alienanti. La festa viene intesa come il tempo dell’autenticità, una specie di aletheia gioiosa che disvela il senso della vita; il resto appare come il tempo della noia, della ripetitività e della coazione. Questo rovesciamento comporta una sostanziale rivoluzione: la perdita dei giorni, dei riti, degli spazi e dei luoghi della festa e la loro confusione con gli altri giorni. Si perdono così le ultime tracce di irruzione dell’eccezionale, di inserzione della trascendenza nell’immanenza del fluire ordinario della vita, e scompare l’ultima frattura del tempo lineare nella 122 ripetizione circolare di un tempo mitico. Lo sviluppo tecnologico e l’eclisse del sacro hanno ormai travolto in Occidente la dimensione propria della festa. La televisione, lo spettacolo sportivo, la festa usata come attrattiva e linguaggio pubblicitario, prolungano lo stato ludico, debordando dai luoghi e dai tempi istituzionali della festa, tendono a far perdere, fino a invertire, il rapporto tra l’evento festivo e la vita ordinaria. Un esempio attinto dalla cronaca più bassa è il prolungamento della spettacolarizzazione calcistica fuori dai luoghi e dai giorni previsti: il calcio si prolunga fuori degli stadi e la sua festa esce ormai dal confine domenicale per diventare appuntamento quasi quotidiano. Tutto questo produce una banalizzazione della festa, la perdita della dimensione rituale catartica e anche del suo ruolo di integrazione comunitaria. Panem et circenses finisce col diventare panis est circenses. La festa alla fine del Novecento non è più intesa come un veicolo di integrazione comunitaria ma come un veicolo di integrazione nei consumi. Attraverso la festa si promuove il consumo di alcune merci, si vende l’oggetto della festa ma attraverso una forma di individualismo di massa, di narcisismo di massa; la festa non fa comunità, ma la disgrega, induce a svincolarsi. Esempio residuale della festa come integrazione di massa è lo stadio, che ripercorre le forme di integrazione ludica tradizionali, che andavano dal teatro al certame, dal colosseo alla corrida. Figurazione della festa come luogo di solitudine di massa è la discoteca, tempio profano del Novecento (con i suoi riti e, al limite, i suoi sacrifici umani ottenuti attraverso l’ebbrezza della droga e della velocità) ove gli altri regrediscono ad ombre ed ove ci si balla addosso; la collettività si riduce a sfondo con cui non si comunica, il massimo d’apertura è la tribù, il clan. La festa contemporanea non produce solo integrazione nella tribù ma omologazione e standard globali, non esalta l’appartenenza comunitaria ma l’uniformarsi a una tendenza. Non rafforza il legame sociale ma il vincolo temporale, omologa alla moda, cioè al conformismo del momento. Esempio compiuto della festa come gioco solitario in cui l’altro, ma anche l’io, regredisce a uno stadio virtuale o larvale è la festa vissuta attraverso la televisione. Rispetto alla festa di cui si è passivi spettatori, la “festa” via internet risulta essere già un passo avanti, una presenza più attiva e interattiva e non solamente voyeurista. I media sono luoghi che producono compagnia per chi è solo, ma producono solitudine tra chi è in compagnia. Dal punto di vista dello spettacolo, il Novecento è il secolo che nasce con la festa collettiva del cinema e finisce con la festa solitaria della videocassetta. O della coralità invisibile nella rete internet. Una moltitudine di solitudini. Che si incrociano occasionalmente nei siti»89. 89 M.VENEZIANI, Il Secolo sterminato…op. cit. pp. 224-237. 123 Dopo un pregevolissimo spaccato storico-sociologico e gnoseologico – sul quale volentieri si è indugiato – da ultimo, Veneziani schiaccia il tasto della festa solitaria via internet. Appena introdotta, la rete che “cambia il mondo” ha fornito a “impegnati” studenti e a “zelanti” impiegati opportunità impensabili di “studio e informazione”. Che lasciamo all’immaginazione del lettore. Ma internet – si dice – è strumento più democratico della tv. Perché la seconda è unidirezionale mentre il primo è interattivo. Il trionfo della democrazia interattiva delle solitudini. Con la complicità dell’invisibile. Internet è talmente democratico che ci salta sopra di tutto, come avverte Giorgio Bocca: «sono saltati su internet i venditori di droga, i pedofili, i pornografi. Riviste in carta patinata ci mostrano Seth Warshavsky, un ventisettenne padrone della Società Internet Entertainment Group, nel suo studio hollywoodiano circondato da biondone formose. A due milioni l’ora offre spettacoli di spogliarello. La diffusione della criminalità nella rete è già materia di romanzi popolari»90. La democrazia dell’invisibile reca nello stesso conio terminologico una contraddizione sostanziale; che allude alla libertà di violare l’altro più che alla libertà nel rispetto dell’altro. Che fare, dunque, dinnanzi all’insopprimibile pervasività multimediale? Dirò un’ovvietà. Un’ovvietà che non diventa mai prassi, però. Nuove tecnologie e media di massa non vanno azzerati ma controllati. Se non altro perché nella nostra epoca hanno acquisito le caratteristiche dell’indispensabile. Non siamo più capaci di fare a meno delle loro articolazioni, anche sul piano dell’utilità sociale e pubblica. Si tratta di utilizzarli per ciò che sono: elettrodomestici al servizio dell’uomo. Il punto dolente, com’è noto, è l’uomo – il tipo di umanità – non i mezzi tecnologici o multimediali. Del resto, lo diceva già Lasarzfeld, la comunicazione multimediale influenza e manipola chi si lascia influenzare e manipolare. L’uomo capace di discernimento dispone degli elettrodomestici multimediali con libertà e distacco. La maggioranza, invece – come si conviene nella cultura di massa – sembra fagocitata dai media e dalle tecnologie, incapace di discernimento e, di conseguenza, incapace di libertà. La maggioranza può essere, allora, tributaria dei media nella decadenza civile in atto. Tributaria della sconfitta della civiltà con ciò che ne consegue. 90 G.BOCCA, Pandemonio…op. cit., p.29. 124 2. SUL CONCETTO DI MASSA Piuttosto che di “masse”, a dire il vero, i primi sociologi parlano di “folle”. Verso la fine del diciannovesimo secolo il tema della folla diventa ricorrente nella sociologia e nella psicologia sociale: in Italia si può citare Sighele, in Francia bisogna senz’altro ricordare Gustave Le Bon con la sua Psicologia delle Folle (1895). Ciò che colpisce gli intellettuali è soprattutto il carattere irrazionale che sembrano assumere gli uomini quando si radunano in folla; la perdita da parte loro dei segni di una personalità autonoma, la violenza di cui diventano capaci. Per una chiarificazione del fenomeno, diviene fondamentale il concetto di “anima superindividuale delle folle”: l’individuo, “assemblato” in una folla, o in una massa, proietta la propria “anima”, la propria essenza o coscienza, oltre se stesso, in una dimensione, potremmo dire, metasociale. Da una parte identificandosi con la personalità autoritaria di un capo, dall’altra, sentendosi parte di un corpo più grande e invincibile”, che funziona da solido “ombrello” protettivo. Esemplificando: l’anima superindividuale svolge la funzione psicologica di garantire l’individuo dalle conseguenze di comportamenti devianti (che, se isolato, difficilmente metterebbe in atto), perseguibili mediante l’esercizio delle sanzioni che, in questi casi, le istituzioni attivano per ristabilire l’ordine sociale. L’anima superindividuale è – per esempio – il paravento psicologico delle orde di teppisti da stadio: la folla li rende difficilmente indentificabili e, di conseguenza, difficilmente perseguibili. Si tratta della stessa sensazione psicologica che accompagnò le folle dei rivoluzionari francesi, allorché persone caratterialmente e normalmente miti, si trasformarono in belve capaci di violenze inaudite; e fu ancora l’anima superindividuale a guidare il comportamento dei partecipanti ai “campi di maggio”, durante il fenomeno nazionalsocialista della nazionalizzazione delle masse, o dell’epopea leninista che preannunciò la “rivoluzione d’ottobre”. Gli eventi storici del novecento hanno dimostrato che il comportamento delle folle o masse è fortemente influenzato dalla figura del leader carismatico - vedi Max Weber - ( e dall’uso dei madia di massa) e dai riferimenti di valore che da questi promanano. Esempio: se in particolari momenti storici, legati a crisi economiche e disorientamenti culturali, i vari Hitler, Franco, Mussolini, Lenin e Stalin lanciano invettive contro i governi tradizionali e contro le minoranze (ebrei, zingari, omosessuali ecc.), facendo ampio uso di un linguaggio violentissimo indirizzato a trasformare queste ultime (le minoranze) nella figura del “capro espiatorio”, è evidente che la massa assumerà comportamenti violenti. E così è stato. Ma se il leader è 125 Giovanni Paolo II, la massa diventa veicolo di fratellanza universale: basti pensare alle giornate mondiali della gioventù. Al di qua delle spiegazioni proposte, ciò che è vero in queste descrizioni è il riconoscimento di una novità nel panorama sociale: da un lato, l’agglomerarsi in città di una folla di persone relativamente anonime le une rispetto alle altre, dall’altro la possibilità che queste folle si organizzino in manifestazioni collettive imponenti. 2.1 La “massa” nelle culture di sinistra e di destra A cavallo fra ottocento e novecento, e per tutto il primo ventennio del nuovo secolo ( e anche oltre) a manifestare, tuttavia, non sono folle indifferenziate: sono piuttosto i lavoratori che, riunendosi in sindacati e spesso sotto la guida di partiti riformisti o rivoluzionari, premono per la soddisfazione di nuovi diritti. Alla nozione di “folla”, gli intellettuali di sinistra (si ricordino almeno Lukacs, ungherese, e Gramsci, italiano) contrappongono così il concetto di “massa”, intendendo con ciò, innanzitutto questo: la presenza nella società industriale di una maggioranza di lavoratori che, per quanto indispensabili alla produzione e riproduzione della società, non vedono riconosciuti i propri diritti alla rappresentanza politica, all’educazione e a standard di vita superiori alla mera sussistenza. (Per quanto riguarda l’Italia, si ricordi a proposito del diritto di voto, che un primo allargamento venne “adoperato” da quel grande statista liberale che fu Giovanni Giolitti con l’introduzione del suffragio universale maschile nel 1912). Se per coloro che si ispirano a Marx o ad altre correnti del pensiero rivoluzionario il problema è quello di organizzare queste “masse” in una forza compatta e autoconsapevole, per i riformisti si tratta essenzialmente di promuovere gradualmente una completa partecipazione dei lavoratori ai meccanismi della democrazia e della condivisione dei vantaggi che derivano dallo sviluppo industriale. Per entrambi, in ogni caso, il richiamo alle “masse” ha una valenza positiva, non disgiunta dal riconoscimento della necessità di un’educazione diffusa: le lotte per l’accesso universale e obbligatorio all’istruzione si affiancano così a quelle per la riduzione degli orari di lavoro, per l’aumento dei salari, per l’estensione del diritto di voto. E’ a tutto ciò, che esplicitamente o implicitamente, si oppongono coloro che sottolineano il carattere “irrazionale” e “violento” delle manifestazioni inedite della vita sociale di cui sono testimoni in quell’epoca ( si pensi, ad esempio, alla più grande insurrezione operaia in Italia – Torino 1920 – di cui fu ispiratore e teorico Antonio Gramsci, arrestato dal regime fascista nel ’26). 126 E’ vero comunque che, anche quando viene usato con una valenza positiva, il termine “massa” conserva alcuni connotati altrettanto problematici, tipici della “folla”. La parola massa rimanda pur sempre all’idea di un insieme di persone indifferenziato e confuso, dove i singoli appaiono privi di legami comunitari, di tradizioni proprie e, in fin dei conti, di capacità di giudizio. Non a caso, sarà in questo modo, che la nozione di massa verrà utilizzata più tardi da chi teorizzerà la “società di massa” (McLuhan, Scuola di Francoforte, Wright Mills, Riesman, Bordieu, Baudrillard, Habermas, solo per citarne alcuni). Quest’ultima espressione, tuttavia, non sarà usata per descrivere la società degli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, quanto per parlare dei decenni successivi: da un lato, in particolare, per descrivere la società posta in essere dal capitalismo avanzato (la nostra), e dall’altro all’interno dei tentativi di rendere conto dell’emergere del fascismo e del nazionalsocialismo. Soffermiamoci sul fascismo. Tra il 1925 e il 1943 il fascismo si costituì in Italia come una dittatura e, nello stesso periodo, movimenti di stampo fascista furono attivi in molti paesi europei: Austria, Ungheria, la Spagna di Franco (al potere nel ’39), la Germania dove con il nazionalsocialismo raggiunse le forme più radicali, senza dimenticare l’esperienza di Salazar in Portogallo, dopo la seconda guerra mondiale. La caratteristica delle dittature moderne è quella di non fondarsi unicamente sulla violenza, ma anche sulla ricerca del consenso popolare. Tale consenso viene ricercato soprattutto attraverso l’instaurazione di un rapporto privilegiato tra il leader e le masse. Si tratta di un rapporto di tipo emotivo, che presuppone da un lato l’utilizzo di rituali e di mezzi di propaganda efficaci ( si pensi al largo uso di simboli, divise e parate militari che ebbero forte valenza nell’accreditare il nazionalsocialismo nell’immaginario collettivo, come forza di massa organizzata), ma dall’altro anche la disponibilità dei soggetti a proiettare sul leader una forte carica affettiva. E’ questa disponibilità che mette in gioco il concetto di “massa”: saltando a piè pari tutte le istituzioni e le associazioni della società civile, il leader si propone a ciascuno come referente unico, unica incarnazione dell’autorità. Ma ciò è possibile solo se gli individui rinunciano effettivamente, tanto alla propria individualità concreta, quanto – almeno in certa misura – al valore del proprio legame con gli altri; e ciò corrisponde appunto, alla loro riduzione a membri di una “massa”. Al tempo stesso, l’appello indifferenziato del leader contribuisce a trasformare i singoli in atomi di una massa anonima, legata soltanto attraverso l’identificazione con il capo. Il discorso è circolare: il fascismo (e non solo) presuppone la massa e, contemporaneamente, la riproduce.91 91 P. JEDLOWSKI, Il mondo in questione, Carocci, Roma 1998, pp. 163-165. 127 2.2 La “massa” nel capitalismo avanzato Per il concetto di “massa” nel capitalismo avanzato, qualche cenno sulla Scuola di Francoforte. La Scuola di Francoforte costituisce una delle imprese collettive più rilevanti del pensiero sociale del XX secolo. Prende il nome dall’Istituto per la ricerca sociale che venne fondato a Francoforte del 1923. Con l’avvento del nazismo l’Istituto venne chiuso. I suoi membri si trasferirono dapprima a Ginevra, poi, definitivamente negli Stati Uniti. I componenti più noti furono: Carl Grunberg, Max Horkheimer, Theodor Wiesengrund Adordo, Herbert Marcuse, Erich Fromm, Walter Benjamin, Friedrich Pollock (l’economista del gruppo) e Leo Lowenthal (interessato alla sociologia della letteratura). L’ultimo esponente famoso è Jurgen Habermas. Questi importanti filosofi sociali, che nacquero con origini marxiane, orientarono i loro interessi di studio alla società di massa e all’industria culturale che la sorregge fino ad elaborare una teoria critica della modernità occidentale: una critica del predominio della “razionalità strumentale” che riprende e radicalizza il pensiero di Weber sulla razionalizzazione. Più tardi la critica non risparmierà né il totalitarismo staliniano, né la società occidentale politicamente e culturalmente bloccata. Dice Marcuse nelle sue opere più famose (Eros e civiltà 1955, L’uomo a una dimensione 1964 “la bibbia dei sessantottini europei”): garantita l’alternanza di governo le politiche non mutano di segno. Considerazione attualissima. Pensiamo alle recenti riforme sulla scuola: governi di colore diverso che producono soluzioni pressoché identiche. Sul versante della critica all’industria culturale – altro tema di forte attualità – i pensatori di “Francoforte”, Marcuse in testa, utilizzano anche gli strumenti della psicanalisi. Freud aveva giustamente osservato che il progresso della civilizzazione ha comportato un forte controllo degli impulsi libidici. La funzione di questo controllo è stata soprattutto quella di permettere lo sviluppo crescente del dominio degli uomini sulla natura. Con il capitalismo, tuttavia, lo sviluppo delle forze produttive è tale da permettere, almeno potenzialmente, di ridurre questo controllo e lasciare spazio a una umanità capace di entrare con la natura in un rapporto non più solo antagonistico, ma “conciliato”: è “l’edonismo” , un termine che viene spesso stravolto, ma che per Marcuse rimanda essenzialmente a questo: la capacità degli uomini di godere della propria vita e di essere felici entro i limiti che la vita stessa pone, all’interno di un quadro sociale sgombrato dall’ingiustizia. Questo l’intendimento. Ma è necessario notare, che l’edonismo marcusiano non corrisponde allo scatenamento della sessualità. A proposito dell’aumento della libertà dei costumi sessuali che caratterizza la società contemporanea, il filosofo tedesco parlerà anzi di una “desublimazione 128 repressiva”. La sublimazione era per Freud il processo con cui l’uomo devia la pulsione sessuale dalla sua meta originaria e la trasforma in energia creatrice di cultura. Parlare di desublimazione repressiva significa, invece, alludere ad un accesso socialmente legittimato alla sessualità che non corrisponde a nulla di creativo, bensì allo sviluppo di una logica della “prestazione” (traslazione delle regole economiche del capitalismo anche in ambito sessuale), che riproduce anche in campo sessuale la logica repressiva dominante. Sulla realistica attualità di tale analisi, è sufficiente ricordare il bailamme che investe l’uso di pilloline varie, atte a garantire prestazioni e controprestazioni alla bisogna. Marcuse non dimentica, peraltro, gli effetti degli status symbol, propinati come modelli ideali da raggiungere e perseguire, dai moderni mezzi di comunicazione (e manipolazione) di massa: l’abitudine a guardare con curiosità quasi morbosa “l’erba del vicino”, la moglie del vicino, l’auto di lusso del vicino, l’abito del vicino ecc. E chi non raggiunge tali obiettivi? ( Si rammenti la “frustrazione per disorientamento” in Norman O. Brown e “l’anomia come causa della devianza” in Robert K. Merton). Non distanti dal professor Marcuse, Bordieu e Baudrillard puntano l’indice sui medesimi effetti prodotti dall’industria culturale dei giorni nostri che, potremmo riassumere con questa intuizione: nella odierna società di massa, gli strumenti della multimedialità, utilizzando le stesse metodologie comunicative di cui si è detto poco sopra (codici erotici, esaltazione della ricchezza materiale, esibizione del denaro ecc.), anziché operare per trasformare la massa in energia, producono sempre più massa; intesa in quell’accezione negativa che rimanda alla mancanza di capacità di giudizio, di spirito critico, in ultima istanza, di vera libertà. 2.3 Televisione e nuovi media: qualche danno pedagogico e sociale Fino agli anni ottanta del novecento, resistevano ancora le appendici del fondamento della cultura europea, ravvisabili nel sentimento della communitas, assai prolifico per la vita sociale, profuso dalla tradizione benedettina. Ogni mamma di quartiere, o del piccolo paese di provincia, conosceva le destinazioni ludiche dei propri figli e dei figli delle altre mamme. Eventuali incidenti, o turbolenze esterne alla “comunità di destino” ( come le diversificate proposte devianti offerte ai giovani da questa ultramodernità) erano facilmente arginabili. Il tempo libero dei ragazzi si consumava fra le scorribande di strada e il campo di calcio della parrocchia, in un rapporto naturale fra uomo e ambiente che, ormai, sembra solo il ricordo di un’età lontanissima e perduta. In caso di pericolo, scattava un’automatica solidarietà fra i membri della comunità, acculturati a una “cordata di sicurezza” che legava 129 a tutto tondo – per ogni attività del vivere sociale – famiglia, parrocchia, scuola, organizzazioni sportive, autorità locali. Gli anni ottanta segnarono l’avvento delle televisioni commerciali, e con esso nuovi orientamenti socializzanti indirizzati all’omologazione culturale, sul terreno della “visione televisiva”, del consumo, della vita sociale e del divertimento. Soprattutto, del divertimento. Le televisioni profusero il modus vivendi dei Paesi economicamente dominanti, in particolare del Giappone e degli Stati Uniti. Accadde così che anche l’Occidente, anche l’Italia, anche il cattolicissimo Veneto, in meno di due decenni abbracciassero i modelli di socialità proprii di altre culture. Una sonnacchiosa acquiescenza – peraltro alimentata dalla velocissima invasione delle nuove tecnologie del comunicare – ha trasformato i cattolici d’Italia sul calco dei protestanti d’America. E, a differenza dei benedettini, l’humus culturale dei padri pellegrini che occuparono il “nuovo continente”, trae radici dal lascito teologico luterano – calvinista che, al sentimento della communitas preferisce quello di individualità. Se poi, per individualità, intendiamo un tipo umano plasmato dalle e sulle regole dell’economia di mercato, possibilmente deprivata di ogni fondamento etico, otteniamo l’individualismo. La coscienza del neo individualista non è comunitaria, è isolata. La mamma del quartiere, in genere, non solo non conosce la destinazione ludica dei figli delle altre mamme ma, fatica ad essere informata su quella dei propri. Ma per “fortuna”, oggi, se succede qualcosa di pericoloso o potenzialmente drammatico, c’è il telefonino. Se un ragazzino ritarda il suo rientro a casa, infatti, non si cerca più dai vicini, dal parroco o nel campo sportivo. Setacciate senza successo le frequentatissime sale pullulanti di videogiochi – altra attività modernissima e completamente innaturale – scatta l’allarme ai carabinieri, alla polizia, al telefono antipedofili e altro ancora. Per fortuna c’è il telefonino…prodotto superfluo degli indotti dell’artificialità tecnologico– economica, che ha assunto la condizione filosofica della necessità, anzi, della indispensabilità. In verità, il telefonino cellulare, divenuto ormai ineluttabilmente irrinunciabile, annuncia il segno profondo di una antropogenesi, l’affermazione dell’individuo “felicemente” isolato, o vista da altra visione del mondo, dell’uomo che finalmente può bastare a se stesso. Quest’idea, che racchiude in sé, germi della presunzione illuministica e potivistico–scientista, come di quella marxiana ed evoluzionista, pare dominante e pervasiva. In realtà si tratta di una frode culturale che regge questa ultramodernità. E’ una pretesa innaturale (se è vero che l’uomo è egoista, è altrettanto vero che è un essere sociale, come insegna il Maestro di color che sanno), antireligiosa e antisociale, anche sotto il profilo laico. Ma intanto è passata, è stata ben digerita, interiorizzata. “Vittime” privilegiate, i giovani (ma non solo), perfino i bambini delle elementari, che addestrati come sono alla 130 scuola “sapiente” della tivù, che precede la scuola noiosa dello studio e della fatica, apprendono con facilità conoscenza e uso delle nuove tecnologie, assieme a qualche anglismo, faticando – per contro – ad apprendere un uso corretto, parlato e scritto, della lingua italiana. Per quanto riguarda l’incidenza pedagogica dei new media e della televisione, un primo avvertimento preoccupante viene da Neil Postman: «Mentre prima dell’era dei media elettronici era consuetudine che i bambini si avvicinassero gradualmente, per passi successivi – ad esempio nell’ambito della scuola – e in maniera confacente al loro grado di sviluppo, ai “segreti” del mondo degli adulti, lo spettacolo offertoci dal mondo dei nuovi media è cambiato radicalmente: per loro tramite i bambini ottengono risposte a interrogativi mai posti e la categoria dell’infanzia, intesa come specifico teatro di esperienze di socializzazione, viene progressivamente meno, amalgamata qual è in un surrogato elettronico del mondo, indistinto dal punto di vista della classe di età e permeato da messaggi pubblicitari».92 La tesi dello scomparire dell’infanzia non va sottovalutata: la pubblicità, la televisione via cavo, la commercializzazione e la privatizzazione del mondo dei media stanno ad indicare che alcuni (troppi) elementi “dell’era americana” sono entrati a far parte dell’ambiente europeo di socializzazione (atteggiamento consumistico, ambienti musicali ecc.). Bambini col cellulare che scimmiottano gli adulti, gli adulti della tivù, soprattutto. Bambini col cellulare che, in un rapporto circolare col medium, come gli adulti – e sospinti dagli adulti – entrano in competizione per entrare nella pancia della tivù. Bambini…e giovani che gareggiano per emulare i “maestri del sapere” che abbondano nella tivù. Giovani indaffarati a emulare codici comunicativi e, ancor più, stili per apparire, propinati dai personaggi televisivi. E chi non ci riesce? Al limite si getta dal terrazzo, o si consuma nel degrado dei surrogati notturni, a base di “ultrasuoni”, alcol, droghe e forme orgiastiche che richiamano un’era remota, sodomitica e pre–civile. Ne conseguono anche morti tragiche, nella follia delle strade della notte. Ma l’individualismo ultramoderno, per sua stessa genesi poco incline al senso dell’altro, raccoglie ogni evento, anche tragico, come conseguenza del fato, come sacrificio ineluttabile sull’altare del divertimento, dell’esigenza – altrettanto innaturale e inumana – della festa continua. Il nuovo ànthropos, incapace di solidarietà e compassione, è funzionale al “reggimento” di questa ultramodernità globalizzante e omologante. E l’effetto più devastante della mistificazione dell’idea di globale si legge nello sradicamento dell’uomo dallo specifico culturale che gli è proprio per nascita, per destino. Ogni essere umano 92 N. POSTMAN, Provocazioni: obiezioni di coscienza in tema di linguaggio, tecnologia, educazione, Armando, Roma 1989, p.86 131 è figlio di un luogo, di una storia, di una comunità di affetti o di destino, non il risultato di un’astrazione globale. Può essere cittadino del mondo, in quanto appartenente all’umanità intera. Ma non sarà un buon cittadino del mondo, non avrà cura dei diversi, se non avrà appreso prima, l’attenzione per i simili, la cura delle radici: in altre parole, il senso di appartenenza. Che il bisogno di radicamento sia indispensabile a una vita sociale capace di produrre senso, significati, lo dimostra “l’avventura” di tanti ex emigranti che, lasciati figli e nipoti nel Paese che li ha ospitati per quasi tutta la vita, decidono di ritornare al luogo natìo. E’ il “cruccio” fecondo della vicenda intellettuale di Ulderico Bernardi, sociologo dell’Università di Venezia, ed è anche il presupposto essenziale a una società multietnica pacifica: conoscere e conservare il patrimonio delle proprie tradizioni, proteggendolo dalle intrusioni multimediali di una globalizzazione strumentale e fasulla. La globalizzazione, l’europeizzazione, sono prima di tutto, e soprattutto, un fatto economico, anzi, finanziario, difficilmente intelligibile – peraltro – con le categorie dell’economia classica. Lo sradicamento è funzionale all’idea del globale a tutti i costi, ed è in pari tempo, il costo peggiore richiesto ad un gruppo umano. Così Simone Weil, brillantissima e altrettanto sfortunata pensatrice francese, tanto cara al sociologo e antropologo veneto: «lo sradicamento induce angoscia e genera aggressività, e costituisce di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, perché si moltiplica da sola»93. Gli sradicati hanno solo due possibilità: o perpetuare lo sradicamento, non avendo altro destino che sradicare, oppure l’annichilimento morale e sociale, come per gli schiavi dell’antica Roma (o gli schiavi sublimati del capitalismo avanzato, come ammonisce Marcuse). Lo sradicamento sottolinea la perdita d’identità propinata dall’omologazione multimediale, indifferente alle differenze, alle diversità, a cominciare dai generi: maschi che “femminizzano”, basti pensare ai centri estetici per le pratiche di abbronzatura o depilazione (per la giustificazione concettuale di tali pratiche applicate ai maschi, qualche imbelle da palestra ha liberamente interpretato perfino Lévi Strauss, magari rielaborando qualche “dotto” commento tratto dalle significative riviste da barberia), e femmine che mascolinizzano, con qualche difficoltà in più; perché dentro a culture a dominanza maschile è oggettivamente più difficoltoso per una donna, raggiungere i presunti successi di un uomo. Allontanato il ruolo identitario di sposa e madre, la donna gareggia con l’uomo per i ruoli “di prestigio”, senza dimenticare, possibilmente, il concetto estetico della bellezza femminile, anche S.WEIL, L’enracinement. Prelude a une declaration des devoirs envers l’etre humain, (1943), Gallimard, Paris, 1949; tr.it. di F. Fortini, La prima radice, Edizioni di comunità, Milano 1973, p. 89. 93 132 questo rimanipolato secondo i modelli propinati dalle varie divette multimediali. Ma non tutte diventano manager, professioniste di successo o veline …alle “sfortunate”, rimane lo sradicamento che, spesso, assume i connotati della bulimia o della anoressia, giusto per fare un esempio. Altro esempio che si inserisce in questo triste solco della sottocultura dell’homo videns – come insegna Sartori – è individuabile nel fenomeno piuttosto diffuso, della ricerca del partner via internet. La rete, per sua stessa funzione, spersonalizzante, consente di rinunciare all’esposizione fisica; al rischio di esposizione fisica, specie se ci si considera poco avvenenti, o non corrispondenti ai criteri dominanti criteri di apparenza. Luogo precipuo dell’irrealtà, concede sogni irreali, almeno fino a quando non viene richiesta la “rivelazione”. A questo punto, sovente, le crisi di identità esplodono, accompagnate da ormai diffusissime crisi depressive. Si alza il sipario, e il “luogo” presentato, venduto come la via del villaggio globale elettronico (altra mistificazione ben pubblicizzata), la strada dove tutti incontrano tutti in un mondo felicemente irreale, mostra la sua faccia – questa sì reale – fatta di miriadi di solitudini, incapaci di comunicare e abbandonate nelle loro angosce. L’uomo di quest’epoca, risultato della sommatoria fra evoluzionismo animale e “rivoluzionismo” elettronico, più individuo che persona, fondamentalmente privo di lucida cognizione e affinato intelletto, perché espropriato di memoria e di futuro, cioè di senso dell’altro, disvela in toto la frode culturale dell’essere umano che può badare a se stesso. 2.4 Media di massa e scuola di massa: alcune considerazioni Si dà per scontato che qualsiasi innovazione tecnologica significhi un progresso. Anche la televisione, anche internet, dunque, significano un progredire, quantomeno se ci riferiamo alla loro diffusione. Ma un progresso che comporta una diffusione, un aumento, una crescita quantitativa, insomma, è sempre un progresso? Giovanni Sartori, erudito professore, formato allo studio d’altri tempi, suggerisce un avvertimento: «un miglioramento che sia soltanto quantitativo non è un miglioramento; è soltanto un’estensione, una maggiore grandezza o inclusione. Il progresso di una epidemia, e cioè la sua diffusione, non è – per così dire – un progresso che aiuta il progresso. L’avvertenza è, dunque, che un aumento quantitativo non migliora nulla se non è accompagnato da un progresso sostanziale. Il che equivale a dire che un aumento quantitativo non è un progresso qualitativo, e cioè un progresso nel senso positivo e apprezzativo del termine. E mentre un progresso qualitativo può fare a meno dell’aumento quantitativo ( e cioè restare nell’ambito dei pochi), non è vero il contrario: la diffusione in estensione di qualcosa è 133 progresso solo se il contenuto di quella diffusione è positivo, o quantomeno non dà perdita, se non è in perdita».94 Ora, se i più intendono la televisione come un medium che garantisce possibilità ludiche, di spettacolo, come un progresso, nulla da obiettare; a patto che non tutto sia trasformato in spettacolo. Ciò che emerge, invece, è la tendenza dei palinsesti televisivi a spettacolarizzare ogni evento mediatico, dalle partite di calcio ai miracoli, con una forza implosiva e distraente che inebria i telespettatori del fascino del “visibile” sottraendoli costantemente al ricordo di una quotidianità, spesso grigia e insoddisfacente. E’ la logica del paradiso artificiale, che promuove la palingenesi dell’homo videns con tutto ciò che consegue – come più volte ha dimostrato Sartori – e, prima di tutto, l’impoverimento delle capacità di capire. Va da sé che meno uno capisce, meno sarà capace di obiezioni critiche e, tale diminuzione, nel complesso, significherà una perdita di libertà. Primo, grave regresso. La televisione spettacolo, inoltre, ha prodotto una mutazione dei comportamenti sociali, annullando tutta una serie di regole e di aspettative socialmente inespresse ma interiorizzate da tutti, come un certo senso del pudore, della discrezione e di quelle che, sicuramente fino ai fatidici anni ottanta, andavano sotto il nome di buone maniere. Oggi, in televisione, si può lavare ogni tipo di panno sporco, anzi, è diventata quasi una moda raccontare a mezzo mondo i fatti propri. Un uso che, con automatica immediatezza, l’homo videns ripropone nella realtà; una realtà quasi sempre meno reale e meno “autorevole” della realtà televisiva. Al proposito è sufficiente rilevare che una notizia trattata sul giornale, gode di un credito due volte inferiore rispetto alla medesima notizia trattata in tivù. Un dato che la dice lunga in ordine all’influenza del mezzo televisivo sull’opinione pubblica. Ma tant’è. Qualche tempo fa, quando – per esempio - si viaggiava in treno, ci si curava di moderare il tono della voce e di non dare segni di esuberanza in mezzo a sconosciuti, né tantomeno di informare i viaggiatori sulla propria situazione sentimentale, o sulle problematiche lavorative, memori, fra l’altro, del segreto d’ufficio. Adesso, appartiene alla normalità raccontare via telefonino a interi vagoni i propri impegni serali, le turbe amorose, vicende di pseudostudio universitario (completamente ignari e indifferenti al fatto che anche qualche docente universitario viaggia treno) e altro ancora. La considerazione più penosa però – anche questa risultato della comunicazione multimediale in genere e non solo televisiva – si ascrive all’uso orripilante della lingua italiana. Dato che fa specie, se gli attori dello spappolamento dell’idioma di Dante e “compagni” sono studenti universitari. Più indietro si è accennato al fatto che i bambini e i 94 G. SARTORI, Homo videns, op. cit. pp. 19-20. 134 giovani preferiscono la “scuola” televisiva alla scuola dei maestri e dei professori. Spesso e volentieri perciò gli insegnanti vengono sostituiti dai più attraenti “nani televisivi”, dai calciatori e dalle ballerine. E i risultati, almeno in ordine all’uso della lingua, si vedono proprio tutti. Ma dire lingua, dire lessico e grammatica, non rimanda solo a un dettaglio formale. Vale la pena di ricordare agli autori delle ultime riforme di scuola e università (europeizzate, cioè distrutte sotto il profilo qualitativo), e alla improvvida pletora di psicopedagogisti , loro consulenti, che povertà di linguaggio significa povertà intellettuale, come ammoniva Vygotskij e, per questa via, povertà culturale. In altre parole: la conoscenza rende liberi, l’ignoranza rende schiavi. Dunque l’incremento dell’istruzione non accresce la libertà dei popoli? Vale quanto detto per la televisione. Se l’aumento dell’istruzione si riferisce ad un aumento del tempo trascorso a scuola o all’università, senza che a questo si accompagni una crescita sostanziale, il risultato sarà positivo in quantità, non certo in qualità. Ma una strana congiuntura storica che mette assieme l’eredità del positivismo scientista (fermo su ciò che è misurabile, quantificabile, appunto) e quella del giacobinismo garantista e internazionalista, ha prodotto in piena linea con i tempi e i metodi dell’Europa Globale, l’opzione quantitativa; sacrificando, alla causa di un improbabile universo culturale europeo, lo specifico della tradizione culturale scolastica e universitaria, italiana. Lontani da infausti nazionalismi, si vorrebbe solo qui ricordare che in Italia è nata la prima Università del mondo, e che mediocri laureati italiani, all’estero ricoprono incarichi di prestigio o sono titolari di cattedre universitarie; i migliori, dirigono i dipartimenti e vincono i premi Nobel. Sembra paradossale: in nome dell’Unione Europea si è pensato di dequalificare la formazione dei diplomati e dei laureati italiani; o, meglio, con la scusa della storiella ormai consunta della specializzazione facilitiamo lo studio universitario adeguandolo al resto dei Paesi Europei (fatta eccezione, forse, solo per la Germania), e otterremo un maggior numero di laureati “specialisti”(che suona anche tanto democratico!), che ci garantiranno pure maggior forza “contrattuale” sul tavolo della casa comune europea. Più laureati e più specialisti. Ma allora è garantita sia la democrazia – le pari opportunità – sia la qualità! Per la qualità manca un pezzetto. E questo pezzetto – sicuramente per le lauree umanistiche ed economico–umanistiche – fa differenza, e non poca. Basti pensare che solo fermandoci alla quantità dello studio, i dottori di precedente “fattura” possono vantare una conoscenza assai più ampia e approfondita dei neolaureati postriforma; non si sono mai sostenuti esami all’università, apponendo crocette su ipotetici test di conoscenza, poiché il presupposto era che un laureato desse prova di saper “leggere, scrivere e far di conto”, dimostrando effettiva elevata istruzione. Non è più così. In ordine alle esigenza di democrazia, ci riserviamo un commento conclusivo. A sostegno delle obiezioni avanzate e a maggior 135 chiarezza del lettore proponiamo un commento di Carlo Sini, filosofo dell’Università di Milano: «Il tentativo dell’Unione Europea è quello di mettersi insieme per costruire una sorta di diga economica: se siamo tanti, possiamo influire in maniera sensibile sul mercato finanziario. L’azione coordinata delle banche centrali dei paesi europei può dar luogo, infatti, a un volume d’intervento paragonabile a quello degli Stati Uniti, del Giappone ecc. Ecco, l’Unione Europea è principalmente e sostanzialmente questo; il resto sono parole e buone intenzioni verbali. Per un altro verso, l’Unione Europea è il tentativo di creare una situazione di stabilità e di riequilibrio di fronte al fenomeno, peraltro inarrestabile, della globalizzazione, così che esso consenta al sistema e alla macchina capitalistica di continuare a essere in Occidente e nel mondo, quello che è. Cioè un sistema che garantisce ai paesi più industrializzati del pianeta un alto ed esclusivo livello di benessere. Per esempio (ed è un esempio non poco significativo), un sistema che consenta di retribuire globalmente moltissimo, cioè troppo, i suoi lavoratori e dipendenti. Anche da noi ci sono situazioni di grande povertà e fasce di retribuzione molto modeste rispetto al costo della vita, ma è un fatto che, mediamente, gli stipendi degli statali, degli operai, degli impiegati dei paesi occidentali sono a dir poco triplicati rispetto a quelli del resto della terra, del cosiddetto terzo mondo, dove peraltro godere di uno stipendio è già un raro privilegio. Se parliamo di diritti umani globali, viviamo quindi, in un regime di totale disequilibrio, e anche di ingiustizia. In termini generali e appunto, globali, i nostri operai guadagnano più di ciò che producono. Ognuno di noi, dipendente, salariato o dirigente che sia, guadagna quello che non produce…Questa è l’Unione Europea; i suoi scopi, facilmente condivisibili, e infatti largamente condivisi da un punto di vista pragmatico, sono però privi di qualsiasi principio ideale, morale, di progresso, d’invenzione, in una parola di civiltà e, meno che meno, di “spirito europeo”. Affermare il contrario è fare delle chiacchiere”. Dopo l’illustrazione lapidaria e precisa circa i reali intendimenti, squisitamente economico–finanziari, che conducono all’Unione Europea e alla globalizzazione mondiale, Carlo Sini toglie la maschera ai ridondanti e frequenti ritornelli sulla tutela delle culture locali, dimostrando, nei fatti e, specificamente, in ordine all’istruzione, che è vero l’esatto contrario». Le nazioni finanziariamente più ricche guidano la locomotiva e impongono poi, oltre al resto, tutta una serie di divieti, spesso anche demenziali (altro che integrazione delle culture e salvaguardia dei valori storici e locali!). Si va dalla proibizione dei forni a legna (cosa possono capire di come si fa una buona pizza dalle parti di Amburgo…) al sistema universitario fondato sui “crediti”, la cui demenzialità, soprattutto per le discipline umanistiche, oltrepassa la soglia del credibile e del comune buon senso. Infatti, non mi è riuscito di crederci 136 sino a che non l’ho letto con i miei occhi (ma quanti in Italia ne sono davvero al corrente, nonostante il gran parlare della stampa sulla famosa riforma dell’università?). In due parole: il sistema prevede che lo studente consegua un certo numero di crediti per laurearsi (già la parola crediti, questo gergo da bancari, è un'altra di quelle invenzioni che parlano da sole). Quindi, ogni esame sostenuto vale un certo numero di crediti. Per esempio; 9 crediti per l’esame di filosofia teoretica. Bene. I crediti sono agganciati a un numero fisso di ore, stabilito in modo convenzionalmente omogeneo. Per esempio: ogni credito è uguale a 25 ore. Ora, cosa credete voi? A 25 ore di lezione, di seminario, di esercitazione? Anche, ma per di più alle ore che lo studente impiegherà per prepararsi all’esame, cioè per studiare. Come? In un’ora si considera possa imparare in media 4 o 5 pagine. Non chiedetemi quale studente, con quali doti di intelletto, volontà o vocazione, e non chiedetemi 4 pagine di che; questo infatti non è previsto e non conta. Credo però che 4 pagine di un romanzo di Liala o della Divina commedia, o della logica di Hegel, faccia una bella differenza. Non interessa. Interessa il conto totale, che anzitutto dà il seguente risultato. Per sostenere un esame di filosofia teoretica non sarà possibile richiedere lo studio di più di 400 pagine circa. Fino all’altro giorno, se ne studiavano obbligatoriamente almeno 1000. E poi, ognuno approfondiva secondo i suoi interessi, le sue necessità, i consigli del docente, le sue curiosità». La troncatura qualitativa si commenta da sola. «Non mangeremo più la pizza, ma qualcosa che le somiglia molto da lontano e che sembra fatta ad Amburgo – incalza Sini – e non avremo laureati in “Scienze umanistiche” (altra dizione esemplare: la parola scienza dà garanzie e ispira serietà e fiducia, come per la pubblicità del dentifricio) che abbiano letto un intero trattato di filosofia o i poemi dell'Ariosto e del Tasso (notoriamente oltre le 400 pagine e francamente un po’ lunghetti), ma solo qualche florilegio antologico, cioè un riassunto espressamente composto per i nostri scienziati umanistici (le case editrici, fiutato l’affare, si stanno scatenando in proposito), notoriamente cagionevoli e delicati soprattutto nell’uso della vista. Se questi sono effetti o conseguenze della nostra entrata nell’Europa della cultura comune, forse non è insensato o peregrino pensare che avremmo avuto molto più vantaggio e interesse a dire: no grazie. Fatevi l’Unione Europea, con tanti auguri; noi ci teniamo le nostre università, i nostri licei, le nostre industrie, le nostre fabbriche, il nostro turismo, la nostra campagna, le nostre pizze con i forni a legna, pronti allo scambio con chiunque, pronti a imparare da chiunque, aperti a chiunque ci sia amico e desiderosi di sempre nuovi amici, nella convinzione che proprio questo sia il nostro modo, per tenere viva appunto, l’Europa, la sua ricchezza multiforme, le sue tradizioni comuni e diverse, la sua storia millenaria di continua trasformazione e confronto con le altre civiltà vicine e 137 lontane; nella convinzione che questa sia l’eredità spirituale e materiale dell’Europa da salvare, e non un’unità astratta e miope, stabilita dai direttori di banca e dal listino dei cambi. Ma per poter fare questa scelta l’Italia avrebbe dovuto ancora possedere una coscienza civile e politica che l’uniformità televisiva dell’informazione idiota e strumentale e l’interesse egoistico dei nuovi ricchi di questo secolo, neppure lontanamente parenti dei mecenati del Rinascimento, hanno largamente cancellato. Forse per sempre».95 Ma non vi è dubbio, che il pessimo coniugio fra “miracolismo” liberista vestito di totalitarismo tecnologico e giacobinismo garantista, rimane e rimarrà completamente indifferente all’indignata e articolata ironia di Carlo Sini. I “reggitori” dell’ultramodernità hanno definitivamente imboccato la via quantitativa della storia, garantendo il perpetuarsi della cultura all’ammasso, in perfetta linea con l’ammonimento hobbesiano: nella società moderna l’uomo vale per il prezzo che ha. Per quanto vale, per quanto ha, non per ciò che sa. Nelle civiltà comunitarie, allorché sopravveniva uno straniero benestante gli veniva chiesto conto del come avesse fatto fortuna, delle ragioni etiche e qualitative della sua ricchezza. Oggi, invece, conta: “quanto ricco sei, quanto soldi hai”. Questa visione del mondo capovolta, deve molto della sua fortuna ai media di massa, televisione in testa che, come è noto, costituiscono il sottosistema di un sistema economico e finanziario, ancor più e ancor prima che politico. Come si è visto, anche i codici comunicativi dell’economia dominante anziché porsi in relazione feconda con i codici dell’istruzione e della cultura alta, vi si sono sovrapposti, riducendo anche l’università a impresa. Ma l’università è (o era ) il luogo dove si formano le menti migliori, e non un opificio industriale. Il verso totalizzante, che sottende all’idea irreale della uniformità e dell’universalità delle culture, plasmato di false garanzie di democraticità, assicura ai giovani un prolungato e sicuro “soggiorno” di studio, incurante della qualità dello stesso. Sarà poi ancora il mercato a decidere quali saranno i migliori laureati; magari quelli “sfornati” dalle migliori università che, sicuramente (guarda caso ancora un dato quantitativo), saranno quelle dove si paga di più. Tutto si tiene. Nel frattempo, si evitano indesiderati aumenti del tasso di disoccupazione e si consente alle università, poste, come le aziende, in concorrenza fra loro, di sopravvivere, visto che (altro dato economico significativo) l’offerta di studio si è moltiplicata e la domanda diminuisce, perché i giovani d’oggi sono davvero pochini rispetto a 20 anni fa ( per una più dettagliata lettura sull’argomento che, accanto alle dinamiche economiche, tocca i ruoli dei docenti e delle famiglie, si rimanda volentieri a un precedente lavoro: Generazioni al Margine, Il Segno dei Gabrielli, S. Pietro in Cariano (VR), 2002). 95 C. SINI, La libertà, la finanza, la comunicazione, Spirali, Milano 2001, pp.29-33. 138 Il dominio tecnoeconomico, che poggia dunque sul verso “quantitativo” della storia, si propone di raggiungere mercati sempre nuovi. Per questo, grazie all’azione dei media di massa, tende all’annientamento di ogni patrimonio culturale locale, alimentando con la mistificazione del globale, il concetto falso e illogico della universalità delle culture. Accanto a Carlo Sini, anche Ulderico Bernardi ribadisce ad ogni piè sospinto che le diversità sono ricchezza e che non esiste una cultura universale (che mondo noioso se fossimo tutti uguali!). Esistono semmai, alcuni valori universali, e una miriade di universi culturali – possibilmente – in relazione fra loro. Non è escluso, perciò, che proprio l’omologazione culturale, filtrata attraverso lo schiacciamento del “sapere alto”, che riduce le capacità conoscitive, cioè critiche e libere degli uomini, costituisca l’esito funzionale di un’idea e a un’idea inesistente; quella della cultura universale, appunto. Al riguardo, è sufficiente pensare alla valenza attribuita all’informatica e all’inglese, presentati con la fastidiosissima quanto tenace tecnica del martellamento pubblicitario, come la nuova quint’essenza dello scibile umano. Più omologazione di così! Lungi dall’apparire come i demonizzatori in toto della tivù (c’è stata anche la televisione pedagogica del maestro Manzi, che diede significativo contributo all’alfabetizzazione del Paese), né come i detrattori a priori delle recenti riforme universitarie (il plurale è d’obbligo per il segno politico diverso, anche se nella sostanza sono pressoché uguali), ci sia solo consentita qualche breve riflessione sulle scelte pedagogiche e sul concetto di democrazia nello studio, di diritto allo studio. La stagione degli “specialismi” – con qualche riserva – si può accogliere per quanto riguarda le facoltà scientifiche e le correlate esigenze del mercato. L’obiezione, a modesto parere di chi scrive, inconfutabile, interessa il terreno delle facoltà umanistiche, oggettivamente dequalificate. Le indicazioni di Carlo Sini e una miriadi di commenti reali ( non di “radio” studentesca), sottolineano una realtà formativa in decadenza. Ora, sorvolando sul fatto – non secondario – che metà dei laureati di quarant’anni di età non svolgono un’attività corrispondete al titolo di studio, e che moltissimi fra i neolaureati, specie nelle “scienze umane”, non troveranno la fortuna professionale nemmeno di qualche buon diplomato di vent’anni fa (non è una pretesa profetica: misureremo il tutto fra pochi anni!), ci permettiamo un cenno sulla tanto decantata equità sociale dell’istruzione di massa, con riferimento preciso, nella fattispecie, all’istruzione universitaria. A costo di sembrare antidemocratici, tocca sottoscrivere le considerazione di Francesco Alberoni a proposito di ricerca e università. Scrive il noto sociologo: Nel delicato passaggio dal centralismo statale al federalismo e alla devoluzione, bisogna che il governo e il Parlamento facciano prevalere il principio secondo cui lo Stato centrale ha il diritto e il dovere di finanziare e tutelare le istituzioni scientifiche, formative e culturali di importanza nazionale e di fama internazionale. Quelle che non possono essere divise, duplicate e che, 139 perdute, sono un danno per tutti…Ricordiamo che la grande scienza e la grande arte sono, per loro natura, d’élite, e non possono essere lasciate in balia dei mediocri e in preda agli appetiti e agli interessi particolari. Nella storia ci sono sempre stati costruttori e predatori. I costruttori hanno edificato città, acquedotti, magnifici monumenti, creato manufatti preziosi. I predatori nomadi non ne capivano nemmeno la funzione. Perciò saccheggiavano rubando quel che potevano portare via e, il resto, lo davano alle fiamme. I tempi sono cambiati, sono cambiati i protagonisti, i metodi, le giustificazioni, ma ci sono sempre costruttori e ci sono sempre predoni. Quel che Alberoni sostiene per la ricerca, vale per l’università. Se questa deve ancora consegnare alla società le menti migliori ( non insuperbite ma capaci di lavorare per un mondo sempre migliore! ), allora dev’essere protetta statualmente, e non abbandonata alle dinamiche troppo spesso perverse del mercato. Avessero fatto almeno questo, i “giacobini”. Ché è proprio della loro cultura! Non si tratta di celebrare l’elogio del classismo: forti motivazioni infatti indirizzate nell’alveo di studio corrispondente alla propria vocazione o proclività e il doveroso impegno richiesto dalla hegeliana fatica del concetto, hanno consentito a migliaia di laureati – figli del Popolo – di raccogliere ottimi risultati nello studio e nell’esercizio delle professioni (non erano richieste particolari genialità!). L’università va “protetta”, sempre – è ovvio – se il verso qualitativo dell’istruzione, come delle relazioni umane, ha ancora un senso. Diversamente, accettiamo con triste rassegnazione il passare di quest’epoca decadente. Per quanto riguarda, infine, l’equità sociale dell’istruzione, bisognerà ancora parafrasare in qualche modo Alberoni, affermando che garantire titoli di studio a chiunque non è un atto di democrazia, ma significa trasformare i luoghi deputati al sapere in agenzie di controllo sociale; nel senso che se allo studio non corrisponde sostanza e sapere critico, la perpetuazione dei sistemi dominanti – giusta o sbagliata che sia – non incontra mai motivi di “turbamento”, di confronto, di dubbio, di crescita (non è che sia proprio questa la morale di tutta la storiella?). L’unico atto di democrazia, consiste nel garantire concretamente, effettivamente, anche ai figli delle classi meno abbienti, dei contadini, degli operai, degli impiegati o del “ceto” medio – se capaci e meritevoli – di diventare parti delle élite. Quelle che hanno prodotto “cose belle”, nelle arti, nelle lettere, nelle scienze e nel pensiero. E, di solito, chi è capace di realizzare “cose belle”, è anche piuttosto umile. Per intanto, sempre parlando di giovani – che sono la realtà sociale emergente, biologicamente prorompente, ma socialmente frammentata e insicura – tocca considerare che il totalitarismo tecnologico, banditore di felicità individuali e collettive, propugnatore di efficaci “medicamenti” per coscienze e corpi, dal positivismo in qua, e rafforzato oggi dall’alleanza con i 140 new media, non “rilascia” i benefici promessi. Paul Virilio, filosofo francese di origine italiana, dipinto come catastrofista ma, a ben vedere, capace di analisi lucida e realista, taglia secco al riguardo, e senza sconti. La catastrofe dell’umanità non è più imminente. E’ e basta. Qui e adesso: un lavoro in corso. Fare finta di niente è la peggiore delle ipocrisie; anzi, no, la peggiore è l’ottimismo: ché oggi non esistono più pessimisti e ottimisti, soltanto realisti e bugiardi, pragmatici e mentitori. Ché questo mondo, dove il futuro non è più un orizzonte praticabile, sta andando al suicidio: a Haifa come a Jenin, nel World Trade Center come nello stupro/omicidio dell’ultimo borgo di provincia. Di tutto ciò dobbiamo ringraziare il progresso senza regole, il “vietato vietare” che ha permesso all’integralismo tecnico e scientifico di imprigionarci (questa è anche l’opinione di Umberto Galimberti), garantendoci l’illusione che si sia noi a utilizzarlo, mentre accade il contrario: ché noi illusi di esserci, in realtà stiamo sparendo dentro il suo totalitarismo. Sono proprio i giovani che trasmettono il sentimento di deriva che pervade questa società. Se la mia generazione aveva di fronte un avvenire ridente e quasi ludico, questi ragazzi hanno un sentimento del tragico che sembra molto in linea con l’oggi”. Giovani malamente adulti, ammorbati da un’apatia coscienziale e affetti da “ictus della conoscenza”, capaci di devianze terrificanti; e adulti infantilizzati, videolesi da pretesa di giovanilismo perpetuo. Circa alcuni delitti in serie di questi anni, gli psichiatri spiegano: i protagonisti agiscono come se non avessero futuro; la distruttività scatta quando il singolo si sente morto socialmente, quando sente di non esistere più. Il delitto è vissuto come una sorta di apocalisse, nella quale tutti devono morire, compresi se stessi. Ancora l’indice accusatore cade sulla tecnologia multimediale e sulla televisione. Marco Lodoli, insegnate e scrittore, comunica un pensiero atroce: “è in corso un genocidio di cui pochi si rendono conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti (basti pensare agli effetti delle droghe chimiche che in discoteca circolano come fossero caramelle alla menta!), il bene di ogni società che vuol distendersi verso il futuro. Troppi giovani sono perduti in una demenza progressiva e spaventosa. Crescono rintronati dalla televisione, dalla pubblicità e dai miti bugiardi, da una promessa di felicità a buon mercato”. Crescono incapaci di distinguere il lecito nel possibile – aggiungerebbe Ulderico Bernardi – poiché la confusione multimediale, si adopera in nome di tutte le libertà, cioè del relativismo assoluto, per propinare paradisi artificiali inesistenti, irrealtà reali solo sul video, azioni coercitive che esaltano ipotetici successi individuali che, comunque apparterranno a pochi (pochi sulla terra possiedono un aereo personale; pochi trascorrono la vita fra colazioni alla “mulino bianco” e campi da golf, e pochi giocano a pallone come Roberto Baggio) e intanto corrompono il sentimento di appartenenza a una comunità di 141 affetti, con l’annuncio falso e strumentale che basta volere, tutto è possibile! Manca perciò il filtro fra ciò che è lecito e ciò che è possibile: perché è possibile correre a 200 all’ora con l’auto ma non è lecito, dato il rischio di mettere in pericolo la vita degli altri e la propria. E’ possibile assumere extasy, ma non è lecito autodistruggersi ( o se volete, cinicamente, diventare un peso sociale), almeno per quella visione del mondo fondata sul ricordo, a dire, su ciò che come esseri umani ci unisce ai predecessori e ai sopravvenuti, a coloro che nascono adesso. A meno che non si decida di cancellare una storia millenaria per la conquista dei diritti civili e sociali, e di inaugurare la riedizione della barbarie primitiva, del bellum omnium contra omnes. Diagnosi di questo tipo, smontano sul nascere il pretestuoso annuncio della moltiplicazione dei canali digitali come evento di grande pluralismo. Senza considerare che anche sulle televisioni “ci salta su di tutto” (pornofili, pedofili, ecc., e se ne ha voglia di invocare le autorità di controllo!), l’unico evento certo, sarà l’accelerazione dell’inebetimento collettivo. Anche questo funzionale alla tecnoeconomia? Il filosofo francese Virilio conferma: «La situazione è grave, perché i ragazzi sono molto sensibili al bluff della propaganda scientifica – non c’è solo la conoscenza scientifica, c’è anche la propaganda – fino a trasformarsi in vere e proprie vittime delle nuove tecnologie, che possiamo chiamare genericamente cybermondo (e il cybermondo è pieno zeppo di orchi! Aggiungiamo). Ne divengono dipendenti. E’ come una droga che spersonalizza. Tu pensi di giocare a un videogame o col telefonino, ma è la tecnologia che gioca con te. Pensi di usarla ma è lei che ti usa. C’è stato il tempo delle rivoluzioni, da quella americana a quella francese, fino a quella russa, passando per quella industriale e dei trasporti: il primo orizzonte della modernità. Poi c’è stato il tempo del terrore, delle guerre mondiali, calde e fredde: il secondo orizzonte. Questo è il tempo dell’incidente, dell’ultimo orizzonte, quello della fine. Non del mondo o della storia, ma del futuro. Di un futuro deciso dall’uomo. Le catastrofi artificiali, attribuibili al progresso senza regole, unica legge di un mondialismo senza legge, superano ormai, per numero, quelle naturali. Scienza e tecnologia sono vittime della loro stessa crescita, ché la quantità l’ha vinta sulla qualità. E scienza e tecnologia sono pure rovina sociale, visto che il controllo globale dell’umanità non ha portato la liberazione, ma piuttosto la divisione dappertutto: tra popoli, regioni, città, Paesi, razze, religioni. Ma anche, e soprattutto, tra sessi, generazioni, fino in seno alla famiglia».96 Il commento non potrà che essere ammonimento. Se non si vorrà che la curva decadente, raggiunga voragini di sradicamento ancor più diffuse e 96 P. VIRILIO, L’incidente del futuro, R. Cortina, Milano 2002, pp. 77-79. 142 pronunciate, se si vorrà risalire la china in cerca di una nuova auspicabile rinascenza, bisognerà adoperarsi con decisione sul versante della qualità. A partire dalla qualità della vita, che significa in primis, tutela e rispetto della stessa, dal suo stadio embrionale al suo tramonto; qualità dell’ecosistema; qualità nella redistribuzione delle risorse, per evitare prospettive conflittuali fra i popoli; qualità della scienza e della tecnologia; qualità delle attività produttive e dei rapporti umani, informati da quella relazione feconda fra realtà sensibile e realtà eterna che, per millenni, ha accompagnato il fare dell’uomo; qualità dell’istruzione e, finalmente, qualità dei nuovi strumenti del “visibile” che, a tutt’oggi, rischiano di espropriarci anche dei sogni. Se non si vorrà che i posteri, raccontino anche di questa, come di un’era primigenia e terribile. Quantomeno, ci riconoscano come appartenenti al genere dell’umanità. 2.5 Per un’etica planetaria del mercato L’individuo competitore di questa nostra ultramodernità, quello che “istintivamente” vede nell’altro un concorrente (quando non un avversario o un nemico) ancor prima che una persona, è il risultato del parossismo positivo – scientista, ancor più che dei lasciti del calvinismo; è l’esito del trionfo totalizzante della tecnoeconomia. Totalizzazione, omologazione, globalizzazione. Termini ricorrenti, adoperati ormai in modo indistinto, che rimandano con decisione all’azione diffusiva e implosiva della tivù e dei nuovi media, incaricati di diffondere il totalitarismo tecnoeconomico attraverso l’omologazione dei consumi e degli stili di vita, con il conseguente annientamento delle specificità culturali, proprie di ogni popolo. Del resto, l’individualista del mondo tecnoeconomico e multimediale, vive proiettato nell’hic et nunc, spesso crasso, volgare e godereccio, dimentico delle proprie radici e delle fatiche dei predecessori e, forse peggio, indifferente al futuro di chi verrà, di chi nasce adesso. Sugli effetti di questa vision du monde interviene ancora il Nostro antropologo e sociologo veneto, Ulderico Bernardi: «Oggi si fa più intensa riflessione sulla memoria collettiva che è poi altro nome per intedere il patrimonio culturale ereditario. Un approfondimento che si allarga al significato della tradizione e al valore cardine della continuità. In ogni società stabile, dove il “consenso attraverso il tempo” si mantiene fra le generazioni, nella coerenza delle innovazioni dentro al mutamento sociale, anche l’elevato tasso di associazionismo e di volontariato altruistico, indica la costanza di riferimento al valore di continuità nella cultura di appartenenza. Al contrario un tasso contenuto manifesta in qualche misura il distacco dall’appartenenza, 143 ed è indice di possibili degenerazioni. Queste possono andare dal “familismo”, come riduzione dello spirito di comunità al breve cerchio della consanguineità (le ricerche di Banfield del primo dopoguerra nel sud italiano, e il degrado successivo), al vero e proprio sradicamento: quel lasciar cadere o lasciarsi sottrarre ( dalle circostanze storiche, da una organizzazione politica ostile al mantenimento della identità culturale nella tradizione e protesa alla costruzione del cosiddetto “uomo nuovo”) il senso della patria, il valore della continuità nel tempo, al di là dei limiti della esistenza umana. Quel valore che costituisce per Simone Weil “il bene più prezioso dell’uomo, nell’ordine temporale”. La continuità nel tempo è memoria incarnata. E a giusto titolo, poiché si traduce in iniziativa personale, coerente alla assunzione di responsabilità soggettive, che garantiscono il radicamento nella propria cultura».97 Qual è il mercato possibile, allora, per ridimensionare il dominio totalizzante della tecnoeconomia e contenere i rischi di una propagazione dello sradicamento, male sociale per eccellenza nella analisi di Simone Weil, capace di accelerare l’infausta frammentazione dei legami sociali, con tutto ciò che ne consegue? Friedrich August Von Hayek (1899-1992) premio Nobel per l’economia nel 1974, maestro del pensiero liberale e critico sulle esasperazioni del liberalismo, nelle sue opere si è battuto fortemente contro l’idea di applicare la tecnica dell’ingegnere alla soluzione dei problemi sociali. Si trattava di contrastare la pianificazione centralizzata che costituiva l’asse portante del totalitarismo, eufemisticamente definito “socialismo reale”. Ma il suo pensiero si rivolge anche contro lo storicismo in economia che porta a ragionare in termini di eventi unici. Riflessioni applicabili a un’attualità segnata dal dominio del mercato tecnologicamente supportato. Nonostante la disfatta del marxismo (siamo certi che le ideologie muoiano anche nel cuore degli uomini?), si fatica ad abbandonare l’assioma che da Saint Simon passa in Lenin, della società immaginata (o realizzata) come una grande azienda. Le tecniche non vanno demonizzate, ma canalizzate da uomini di buona volontà per la vita sociale moderna di altri uomini di buona volontà. La tecnica è un prodotto dell’homo sapiens, e per scongiurare effetti disumani, è il caso che l’homo sapiens non diventi un prodotto della tecnica. Raccomanda Von Hayek: «La società libera si basa sulla divisione del potere. E’ per questo che può utilizzare più sapere di quanto non ne potrebbe contenere il più saggio dei governanti. La sua forza poggia sulla presa di coscienza dei limiti della scienza, (della tecnica e del mercato, si può aggiungere). Il liberale sa – continua il premio Nobel – che il mercato, al pari della scienza, è sempre innocente. Se qualcuno realizza profitti 97 U. BERNARDI, La nuova insalatiera etnica, op. cit. pp. 133-134. 144 vendendo armi o spacciando droga, colpevole non è il mercato, colpevoli sono quelle persone che vendono e comprano armi, o spacciano droga, e disumana è la loro etica. Da riformare in questo caso, non è dunque il mercato ma l’etica; e inefficaci sono stati profeti, maestri e predicatori. Né è da pensare che il mercato neghi la solidarietà. La Grande società, non solo può essere solidale perché è ricca e quindi può permetterselo; essa deve essere solidale perché avendo spezzato i vincoli che tenevano uniti gli individui nel piccolo gruppo, cancella quella relativa sicurezza e quella protezione di cui godeva il debole: da qui il dovere dello Stato di venire incontro ai bisognosi d’aiuto. Mercato e solidarietà sono coniugabili. Non coniugabili sono, invece, mercato e dissipazione delle risorse, mercato e corruzione, vale a dire mercato e statalismo. E, da ultimo, il liberale non è anticlericale: a differenza del razionalismo della Rivoluzione francese, il vero liberalismo non ha niente contro la religione, e io non posso che deplorare l’anticlericalismo militante ed essenzialmente illiberale che ha animato tanta parte del XIX secolo».98 Il problema, dunque, è di natura etica. E politica. Di un’etica capace di rendere il mercato solidale, anzi, compassionevole, nel senso etimologico e cristiano del “patire assieme” ai bisognosi. E di una politica, finalmente capace di governare l’economia; la tecnoeconomia. Specie in una realtà che, piaccia o meno, si farà sempre più, multietnica. Ferruccio Bresolin, erudito economista dell’Università di Venezia riferisce che fino al 1850 il rapporto di crescita popolazione/reddito ha fatto registrare un “encefalogramma piatto”. Dal 1850 a oggi il PIL mondiale è cresciuto di 19 volte e la popolazione di 6. Il 29 per cento che costituisce la popolazione più ricca ha visto aumentare il proprio reddito di 6 volte; il resto della popolazione mondiale di circa 3 volte. L’Occidente ha sviluppato elevatissima conoscenza in ogni ambito del sapere, e umanistico e scientifico, ma dispone di poche risorse naturali. Il cosiddetto Terzo mondo non ha sviluppato conoscenza ma dispone di incommensurabili risorse naturali. Di qui, la “giustificazione” di tutte le imprese coloniali; almeno in parte. Fino ad oggi, l’Occidente, meglio, le multinazionali occidentali o, comunque, del Primo mondo, hanno drenato dal terzo risorse – materie prime e prodotti agroalimentari, pressoché a costo zero – senza curarsi di assicurare lo sviluppo di un tenore di vita dignitoso in quelle aree. Fatta eccezione per i vari sanguinari africani, asiatici, sudamericani ecc. Adesso, succede che al Primo mondo non bastano più le risorse naturali, ma servono le risorse umane, la forza lavoro. Il Primo mondo “invecchia”, e i pochi figli, divenuti tutti dei potenziali manager, “scolarizzano” fino a “tarda età”. Peraltro con esiti paradossali: chi frequenta le scuole professionali – considerate a torto scuole 98 F. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, ed. italiana: La società libera, Vallecchi, Firenze 1969, pp. 166-167. 145 “inferiori” – acquisisce mediamente ottima preparazione professionale, impara a lavorare in buona sostanza; parte dei diplomati, invece, non impara a lavorare e faticano assai nella difficile arte della conoscenza, nel senso che a stento sanno leggere e scrivere. Ebbene, i terzomondiali sono necessari alle nostre industrie ma, per evitare futuribili scenari conflittuali (storia insegna), è indispensabile costruire in fretta dinamiche di integrazione sociale, magari sul modello australiano, che prevede una struttura sovraetnica di valori condivisi da tutti, a cominciare dai diritti fondamentali dell’uomo e da quelli proprii della tradizione Occidentale (democrazia rappresentativa costituzionale, libertà di religione) fino all’accettazione del libero mercato e, in pari tempo, garantire la tutela degli specifici patrimoni culturali. Servono soldi e politiche “comunitarie” ma, la fretta è cattiva consigliera e il tempo è tiranno. Naturalmente, per facilitare un’esigenza così articolata e complessa, è irrinunciabile una politica delle ”quote d’ingresso”. E qui iniziano i problemi veri. L’immigrazione serve ma fa anche paura. Sembra un paradosso ma purtroppo è così. La politica delle quote è importante perché, fra l’altro, serve a contenere la paura del diverso e, con essa, il montare delle xenofobie. Ma è assai difficile regolare i flussi. E’ difficile regolamentare il flusso della miseria e della fame. Specie se prima li hai depredati e dopo hai fatto veder loro un paradiso terrestre; per giunta irreale. Sì, poiché è noto che nel terzo mondo, come nei paesi dell’economia in piano (ex Unione Sovietica), si muore di fame ma non c’è buco abitabile che non disponga di una “parabolica”. Forse, per tempo, bisognerebbe aver considerato i suggerimenti di certe associazioni impegnate sul mondo del lavoro e del volontariato, promanazioni, soprattutto del mondo cattolico (ricordo documenti delle Acli già negli anni settanta, solo per fare un esempio). Lo sviluppo economico in loco, senza sradicare gli uomini dalla propria terra, storia, cultura, tradizioni. La Comunità internazionale avrebbe dovuto prodigarsi con sincero interesse per trasferire democrazia e conoscenza, accettando, se del caso, anche livelli di vita meno opulenti; che per l’Occidente non avrebbero significato povertà. Ora, accanto ai processi di integrazione, che non saranno facili (specie con la cultura islamica), sarebbe opportuno non sciupare il contributo emerso in occasione del recente Forum Mondiale Nord-Sud, svoltosi lo scorso mese di ottobre nella Pontifica Università Regina Apostolorum di Roma e promosso dalle Scuole Mondiali di etica ed economia, filiazioni della Scuola di Etica ed Economia di Bassano del Grappa istituita dai docenti universitari, Ulderico Bernardi e Ferruccio Bresolin e dal professionista Tullio Chiminazzo, che potremmo riassumere con questo avvertimento: o, accanto ai capitali, siamo disposti a trasferire nei paesi poveri anche la conoscenza, al fine di favorirne lo sviluppo, oppure attendiamoci un esodo biblico verso l’Europa, assolutamente non 146 regolamentabile o prevedibile, e che nessun esercito del mondo (Dio non voglia) potrà fermare. A conclusione del paragrafo, quale occasione di riflessione e traccia per una pista forse ancora percorribile, si propone una sintesi del documento finale del Forum, inviato a tutti i Capi di Stato e di Governo del Mondo: I delegati del movimento mondiale delle Scuole di Etica ed Economia, considerato, che per effetto dell’accelerazione della mobilità umana e dell’evoluzione tecnologica diventa fondamentale per ogni cultura del mondo consolidare la propria identità culturale e sociale, ai fini di una feconda partecipazione al dialogo planetario; rifiutando ogni tentazione di autarchia economica che può solo aumentare la povertà e la chiusura localistica; vedono nelle Scuole di Etica ed Economia lo strumento più efficace per la diffusione delle conoscenze e della cultura di responsabilità imprenditoriale, fattore questo che può far decollare sistemi economici altrimenti emarginati, attraverso una crescita endogena ed auto propulsiva, fondata sui valori proposti dalla dottrina sociale della Chiesa, che guarda al lavoro umano come ad un altissimo valore non riducibile alla sola dimensione di necessità. La progettualità etica ha quale presupposto la valorizzazione delle risorse umane e naturali in ogni comunità locale che abbia la volontà di costituire quell’accumulazione primaria di capitale “sociale” che è fattore essenziale, insieme alla moralità delle istituzioni, per realizzare uno sviluppo equilibrato. L’intento collettivo dei partecipanti al secondo Forum mondiale “Nord-Sud”, in una prospettiva di formazione consapevole della complessità dei fenomeni interagenti nella realtà contemporanea, che vede milioni di uomini ed una pluralità di culture sempre più a contatto – per effetto delle migrazioni economiche, della ricerca di rifugio politico, per la fenomenologia turistica – è quello di propiziare non una società mondiale di consumatori ma una realtà planetaria che veda la crescita del tenore di vita di tutti gli esseri umani. 147 148 3. APPENDICE Forse perché ti hanno insegnato a onorare il padre e la madre. Forse perché sei nato in Occidente in un tempo di pace e ti hanno insegnato che la tolleranza, anzi, il rispetto è un valore da vivere ovunque, nei confronti di chiunque, perché tutti gli uomini sono figli di Dio. Forse perché hai compreso che era cosa buona indossare l’uniforme e fare il soldato, non per la guerra, anche se si fatica a crederci, né per i soldi, ma semplicemente per restituire qualcosa a quelli che sono morti per la tua libertà; anche per la tua libertà. Per quel sentimento di legame a una comunità di affetti che sorregge la “continuità attraverso il tempo”, come la chiama Ulderico Bernardi, e che non ti fa sentire solo, e ti fa pensare che non tutto finisce, non tutto passa, e che la stupefacente, benefica invasione di colori delle giornate d’autunno che dagli occhi vanno direttamente al cuore per solleticare la memoria, ha la forza e la gioia dell’Eterno. Forse perché c’è stato un certo Gesù di Nazareth che, fra le altre, ha fatto una fatica imponderabile per divinizzare il corpo, e allora quando lo violentano, lo dissacrano, lo svendono il corpo, fai fatica anche tu a non provare disprezzo. Quando ti dicono che in Parlamento Europeo ci sono voci “possibiliste” circa l’accettazione di una "dose minima di pedofilia”, che potrebbe significare, quantomeno, una riduzione della pena, fai fatica a non montare in collera viscerale, autentica. Certo, Robert K. Merton, brillante sociologo e scrittore americano, specialista dell’analisi funzionale, sosteneva, a ragione, che non tutte le istituzioni svolgono funzioni immutabili e indispensabili e che i fenomeni sociali non sono immutabili.99 Ma se tocchi i bambini fai un salto nel terrore della notte dei tempi e in un batter d’occhio annienti il cammino della civiltà. Ché non è nella civiltà violentare la parte di te che continua. Come non è nella natura affidarli a “coppie di uguali”, dello stesso sesso; capaci d’affetto fin che si vuole. Bisogna fare attenzione al fatto che i fenomeni non sono immutabili e certe istituzioni non indispensabili, perché, su questa strada, fra qualche tempo a qualcuno potrebbe venire in mente che potremmo riproporre la legalizzazione della prostituzione infantile! E mi pare che si sia già “visto”, e che sia appartenuto ad un’età ancora primeva e terribile, nonostante la Firenze del Quattrocento. E, per bandire tale pratica barbara, immorale e pre – civile, ci volle l’opera tenace di una straordinaria figura del Rinascimento, Girolamo Savonarola, uno di quei rari spiriti eletti che fanno della cultura del mondo, un sentiero alto. Altro che prete oscurantista! Perciò, se si parla di civiltà, ci deve pur essere un’istituzione indispensabile, almeno per proteggere i bambini. Non 99 R.K. MERTON, Teoria e struttura sociale (1968), il Mulino, Bologna 1970, pp. 98-100 149 solo per proteggere i cani! Cominciando, magari, a cancellare l’equivoco terminologico: pedofilia, infatti, sta per “amore per i fanciulli, verso i fanciulli”; mentre, come suggerisce Umberto Galimberti, bisognerebbe attribuire alle aberrazioni sessuali “coperte” da tale equivoco, la loro giusta dominazione: pederastia, o pederastìa. Forse per quel Gesù di Nazareth che ha divinizzato il corpo, pensi a quelli morti per la libertà e la democrazia, a quelli che si sono massacrati tra fratelli dimentichi della Sua pietà, della pietas cristiana, ammorbati dall’odio e dalla vendetta. O all’esercito degli straccioni, come li appella Carlo Sgorlon, che esprimendo barbarie inaudite e sconosciute ai soldati italiani hanno riempito le foibe dell’Istria e del Carso di corpi…ancora corpi che, in gran misura, con i fascisti non c’entravano niente. E pensi che quasi tutti quelli nelle foibe, come quelli in Africa, o come i tuoi fratelli Alpini in Grecia, Albania, Russia, sono morti stringendo in mano un pezzo di rosario, o portando sul corpo, sul petto il segno di quel Gesù di Nazareth. E allora ti ricordi che l’Occidente è tollerante e ha rispetto, per via di quella croce. Anche se c’è ancora chi invoca John Locke per escludere i cattolici dal principio generale di tolleranza, come fossero cittadini di uno stato straniero. E ti ricordi che non ci sono i tabù alimentari né si lapidano le adultere; e le donne hanno la stessa dignità degli uomini, anche se c’è voluto del tempo…sempre per via di quella croce. Che tocca sopportare anche il relativismo assoluto che invoca tutte le libertà, comprese le contraddizioni, cioè le violazioni del primo principio etico e laico della cultura Occidentale. Che tocca sopportare, a volte, un senso di abbandono esistenziale, risultato del totalitarismo di tutti gli “ismi”, compresi quelli culturali, economici, tecnologici, delle multinazionali, della multimedialità, della tecnoeconomia. E, accettare, pure coloro che pensano che lo Stato sia un dimensione astorica, astratta, metasociale, dal quale promanano tutte le provvidenze, come in una fiaba… sempre per quella croce. E ti sorge il dubbio che una certa aura decadente che tocca questa parte di mondo, abbia radici nella dimenticanza, nello smarrimento della propria identità. A cominciare da talune confusioni storiche e culturali. Come se il trinomio giacobino: libertà, fraternità, uguaglianza, assunto della modernità laica, fosse un conio originale di Gian Giacomo Rousseau, e non concetti che hanno cambiato la storia dell’umanità proprio perché arrivati direttamente da quello che ci è andato, su quella croce. E la dimenticanza e nell’uomo e ne’ popoli perde e la libertà e la nazione; perché il senso della nazione non è che memoria, scriveva un grande della letteratura italiana, certo Niccolò Tommaseo.100 Forse perché ti hanno insegnato il perdono, sempre per quella croce, ma è davvero dura perdonare i traditori e i rinnegati di questa fantomatica Unione Europea. Ché già ti tocca 100 N. TOMMASEO, Del presente e dell’avvenire, Sansoni, Firenze 1968, Tomo I, p. 8. 150 star zitto quando sai di qualche pseudoinsegnante di religione nel mondo laico, agnostico o ateo, che testimonia poco e striscia molto lungo le pareti della scuola…ché tanto lo stipendio non è male se poi basta fare poco o nulla. Forse perché devi aspettarti un intellettuale laico, un professore come Galli Della Loggia che vada a spiegare perfino ai preti che il simbolo della croce è un simbolo identitario perché simbolo religioso e non viceversa. E sì che i mass media occidentali non li trattano granché bene i preti. Quando poi ne colgono qualcuno in atteggiamento diciamo così, poco morale, si scatenano le false coscienze, si danno grancasse alle dissonanze cognitive, per giustificare le proprie ipocrisie e miserie. I media occidentali in genere, diversamente dalle altre religioni, riservano al Cristianesimo un trattamento assai sprezzante. Dice Ratzinger che c'è un odio di sé dell'Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta, pieno di comprensione di aprirsi a valori esterni, ma non ama più se stesso; così la multiculturalità diventa solo rinuncia a se stessi. Forse perché un laicismo ateo e massonico tenta di cancellare ogni riferimento fondante e ineluttabile dell‘Europa moderna e civile, mentre qualche saggio musulmano afferma che la perdita di identità dell’Occidente fa male anche ai mussulmani perché li rende insicuri. La paura della secolarizzazione? Peggio, del secolarismo? Forse per questa Europa vile e cristofobica… e c’è voluto un ebreo per segnare l’irrinunciabilità della radice cristiana:” Un’Europa che non ha paura né imbarazzo a riconoscere il Cristianesimo come uno degli elementi centrali nell’evolvere della propria civiltà, è un’Europa che nel discorso pubblico sul proprio passato e sul proprio futuro recupera la ricchezza che può essere offerta da un confronto con una delle sue principali tradizioni intellettuali e spirituali: la sua eredità cristiana, particolarmente viva nell’epoca postconciliare, e con un Pontefice che per la profondità del suo magistero non è secondo a nessuno nella circostanza storica attuale”.101 E, a proposito di ebrei, è bastato qualche decennio in questa Europa “televisiva” e smemorata per ridare fiato all’odio antisemita: e allora ti sembra che non sia più finita, e che la storia non sia stata per nulla maestra, e che troppo presto si sia celebrata la fine delle ideologie; mentre sono lì, che allignano nel cuore degli uomini, pronte a riesplodere. Forse perché mi hanno sempre parlato dell’Occidente predone – che è anche vero – ma è anche vero che i Paesi Islamici dispongono del quaranta per cento delle risorse del pianeta con il venti per cento della popolazione mondiale. “E che ciò non ha significato benessere e modernizzazione per i popoli. Le caste al potere si sono ubriacate di privilegi e abusi. Mentre lo scontento delle plebi veniva aizzato contro l’Occidente e contro Israele (unica democrazia in un mare di dispotismi) presentati come causa della miseria e dell’oppressione”. E allora non sono colpevoli solo i predoni occidentali, ma 101 J. H. H. WEILER, Un’Europa cristiana, Jean Monnet Center, New York 2003, p. 14. 151 anche i sanguinari e gli sfruttatori che proclamano la “guerra santa” dalla “Casa dell’Islam”! Forse perché c’è voluto un giornalista coraggioso come Antonio Socci, per ricordarci che dei 70 milioni di cristiani ammazzati in duemila anni, oltre 45 sono stati martirizzati nel XX secolo102, e che forse è diffusa una profonda intolleranza anticristiana di cui diversi rinnegati europei, dalle istituzioni ai media, non danno conto. Forse perché è giusto lasciar pregare i credenti di un’altra religione anche se bloccano una città. Se sei liberale e tollerante, è giusto. Ma ti aspetteresti almeno un po’ di reciprocità. Ti aspetteresti che almeno nei paesi musulmani, definiti “moderati”, attribuzione giornalistica, concettualmente sbagliata, falsa e strumentale, poiché, anche nella scienza politica, il concetto di “moderazione” è legato a quello di democrazia. Ed è piuttosto arduo e scientificamente rischioso attribuire il concetto di democrazia a sistemi di governo che ricordano da vicino le monarchie assolute o gli assolutismi di Stato (salvo poche eccezioni). Al riguardo si consiglia la lettura di Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu (De l’esprit des lois 1748). Ti aspetteresti, insomma, almeno in questi “paesi moderati”, che si esercitasse il principio della reciprocità; per esempio che non ci fossero migliaia di conversioni forzate di cristiani all’Islam (l’Egitto “moderato”), o che un cristiano possa leggere il vangelo a casa propria senza incorrere in un arresto. Nell’Egitto moderato e nella moderata Tunisia, non esiste una sola licenza edilizia per la costruzione di chiese, di luoghi di culto cristiani. E mi pare, che nelle “terre degli infedeli” le moschee si possano costruire! E allora ti viene il dubbio che l’islam della migrazione economica stia “coltivando l’entrismo”, contando sul differenziale demografico. Ma è vero che i fenomeni non sono immutabili. Anche da noi, infatti, i buoni lavoratori, gli immigrati islamici di buona volontà, iniziano ad adattarsi alla nostra natalità; cioè alla denatalità. In Veneto nascono circa 43 mila bambini all’anno (metà rispetto agli anni del baby boom), e solo il 7 per cento sono figli di immigrati, i quali contribuiranno a questa “stabilità”; diversamente, già nel 2015 noi scenderemmo a 30 mila nati per anno. E, forse, ancora una volta per quella famosa croce, penso che ogni musulmano di pace e buona volontà, sia mio fratello, e che possa avere rispetto di quella croce più di tanti Occidentali rinnegati. Certo, i cristiani devono essere ottimisti, costruttori di pace, portatori di pace. Però è necessario che uomini e donne possano contare su effettive pari dignità; che Stato e religione rimangano separati; che non vi sia costrizione alcuna nella religione (lo dice anche il Corano). Però, per essere certo di questa pace, vorrei incontrare gli eredi di una cultura che va da Avicenna a Mahfuz, dai saggi di Cordoba a Ibn Khaldun, ai Sufi; non gli invasati dei campi di Peshawar, plagiati e mentalmente devastati, come hanno riferito più volte le 102 A. SOCCI, I nuovi perseguitati, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2002, pp. 72-73. 152 loro stesse madri; né i portatori di morte di Nassiryia, ché l’idea di un paradiso popolato di sangue e odio, non pare granché mistica. All’Europa dei rinnegati, vale la pena di ricordare che anche questi, nostri ragazzi, avevano la croce sul petto, che è ciò che è sempre stata: un simbolo d’amore, un simbolo di vera pace. Con quella piccola croce sospesa fra spalla e cuore, Teresa di Calcutta ha amato e si è fatta amare da mussulmani e indù. 153 154