Dai diritti naturali ai diritti sociali. Un approccio storico

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Dai diritti naturali ai diritti sociali.
Un approccio storico-costituzionale nella prospettiva comparatistica
di Silvio Gambino
Sommario: 1. Diritti fondamentali e costituzionalismo dallo Stato liberale allo Stato sociale: un approccio storico-costituzionale nella prospettiva comparatistica. – 1.1. Le radici del costituzionalismo del ‘900: affermazione e crisi del liberalismo, un sistema di idee che si fa Stato. – 1.2. Il costituzionalismo di Weimar:
l’inizio della fine di un’epoca. – 1.3. Costituzionalismo razionalizzato e positivizzazione dei diritti fondamentali. – 1.4. Diritti fondamentali, costituzioni e potere costituente: le nuove frontiere della garanzia dei
diritti. – 1.5. La crisi dello Stato sociale. – 2. I diritti sociali in Italia fra Costituzione e realtà. – 2.1. I diritti
sociali fra princìpi fondamentali, positivizzazione costituzionale ed effettività. – 2.2. Diritti sociali e giudici
costituzionali. – 3. Stato sociale e Stato regionale. – 3.1. L’esperienza costituzionale spagnola: asimmetrie
regionali e principio di uguaglianza. – 3.2. Regionalismo differenziato, diritti fondamentali e principio di
uguaglianza nell’esperienza costituzionale italiana. – 3.3. Diritti sociali e forma di Stato: le nuove asimmetrie del regionalismo italiano e il principio di uguaglianza.
1. – Se le trasformazioni costituzionali registrate nel secolo da poco lasciato alle spalle rappresentano il riflesso di un’evoluzione profonda degli assetti economici, sociali e culturali, indotti,
prima, dal procedere della industrializzazione ed in seguito dalla rivoluzione tecnologica, esse
rappresentano anche il volano di un modello di democrazia avanzata che non esaurisce le
nozioni di libertà e di eguaglianza nella mera astrattezza delle formule giuridiche, rivedendo fin
dalle fondamenta, senza tuttavia superarli del tutto, i presupposti teorico-dogmatici e gli assetti
statuali propri del costituzionalismo liberal-democratico.
Il costituzionalismo del ’900, infatti, se cerca di fornire una risposta alla crisi del liberalismo, alle
contraddizioni del suo universo etico-giuridico (popolato da individui solo formalmente liberi ed
eguali), al conservatorismo del suo mondo politico-istituzionale (chiuso alle masse ed aperto ai
totalitarismi), tuttavia, non può essere considerato – come talora si è osservato – la “negazione”
del liberalismo quanto piuttosto il suo “completamento” sotto il profilo dei diritti di libertà e di
eguaglianza, il suo “superamento” sotto il profilo della disciplina dell’attività economica e della
libertà di mercato, in una prima fase, la sua “eclissi” sotto il profilo teleologico delle finalità cui lo
Stato è chiamato a dare attuazione, in seguito. Tale processo evolutivo ha portato le discipline
sociologiche e politologiche a definire le tendenze dello Stato, nella fase attuale, con le categorie
analitiche dello “Stato post-sociale”, caratterizzandosi gli Stati contemporanei, secondo tali
approcci, per un insieme di fenomeni inquadrabili, in via essenziale, come crisi dello StatoNazione, come crisi dello Stato dei partiti, come crisi del Welfare State.
Tra conservazione e mutamento, tra continuità e discontinuità, con il liberalismo, prende forma
un graduale processo di trasformazione dei diritti universali della tradizione ottocentesca in diritti
fruibili universalmente. Oltre a costituire l’autentica innovazione del costituzionalismo del ’900,
tale processo rappresenta anche l’inizio del cammino democratico della società nella direzione
della (almeno tendenziale) effettualità degli stessi1.
1
Sul punto cfr. A.I.C. (Atti Convegno Taormina 30 novembre-1 dicembre 1990), I diritti fondamentali oggi,
Padova, CEDAM, 1995. Nella bibliografia più recente, cfr. almeno G. Volpe, Il costituzionalismo del Novecento,
Roma-Bari, Laterza, 2000; G.F. Ferrari, I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza. Il costituzionalismo dei diritti,
Milano, Giuffrè, 2000; R. Nania, P. Ridola, I diritti costituzionali, Torino, Giappichelli, 2001.
Libertà e diritti civili – 111
Il costituzionalismo del tardo ’800 e del primo ’900, insomma, pur apparendo come la forma
più avanzata del costituzionalismo liberale, ne costituisce, al contempo, il superamento,
rappresentando – con le costituzioni del secondo dopoguerra – la fonte di nuovi impulsi per
un’ulteriore e più ampia epoca dei diritti e delle libertà che si snoda all’insegna di costituzioni
rigide, decise dal popolo sovrano, ma giustiziabili innanzi alle corti costituzionali.
1.1. – Analizzare lo Stato liberale, tracciarne i profili essenziali relativamente alla lenta affermazione dei diritti fondamentali costituisce, certo, impresa ardua e dai risultati incerti, tali e
tanti sono gli aspetti del suo essere e del suo esistere. Cogliere tali aspetti significa non soltanto
giustificarne l’esistenza storica ma anche (e soprattutto) comprenderne le cause del declino e
della dissoluzione nelle forme totalitarie. Lo Stato liberale è vittima, infatti, del suo creato: un
universo di principi etici ristretti in una struttura istituzionale che si rivela funzionale alla
garanzia di determinati assetti economico-sociali e, pertanto, inadeguata ad accoglierne i
processi evolutivi, ad affrontare quelle trasformazioni economiche, sociali e culturali che
investono l’Europa a partire dalla fine del XIX secolo. Non si può non ricordare, sia pure per
cenni, che quello stesso liberalismo economico che cavalca l’intensificazione dei processi di
industrializzazione, che produce il bourgeois (il membro della società civile) emancipando il
citoyen (la creatura politica), produce anche delle “masse” emancipate e “contagiate” dal
germe dell’antiliberalismo, della democrazia e del socialismo, le quali spingono alla deriva
quello Stato liberale che, non conoscendo ancora i diritti sociali e limitando quelli politici,
rende i diritti civili un patrimonio effimero per un largo strato di diseredati.
Il pluralismo crescente della società porta allora alla luce le contraddizioni di uno Stato profondamente legato alle regole e alle leggi della soggettività borghese, al punto da allontanarsi dai suoi
princìpi ispiratori e fondatori: lo Stato liberale si professa come lo Stato degli uomini liberi ed
eguali ma, assumendo come unica diversità quella economico-giuridica tanto nei rapporti
economici come in quelli politici, non riconoscendo altri bisogni sociali che quelli soddisfatti
entro il rapporto di mercato e soggetti riconducibili entro la sola dialettica sociale da questo
costruita, finisce per configurarsi come uno «Stato di diseguali per definizione e per sostanza»2,
cui sottende una società degli eguali in «diritto presuntivo»3.
La libertà e l’eguaglianza, che avevano accompagnato, con la loro universalità, l’emancipazione
dall’assolutismo, diventano, nello Stato liberale, “libertà giuridica” ed “eguaglianza davanti alla
legge”. Ma l’una e l’altra, parvenza di garantismo, non fanno che segnare un cerchio intorno allo
Stato liberale come “Stato borghese”, rendendolo di fatto inaccessibile e lontano da una società
sempre meno borghese, sempre più aperta al rinnovamento democratico (chiesto ed imposto
dalle lotte proletarie e dai partiti che delle stesse si fanno portatrici) ed a tal fine organizzata.
Quel «progressivo organizzarsi sulla base di interessi particolari della società che va sempre più
perdendo il suo carattere atomistico e la deficienza dei mezzi giuridici e istituzionali che la
società medesima possiede per fare rispecchiare e valere la sua struttura in seno a quella dello
Stato»4, che Santi Romano, all’inizio del secolo passato, qualifica come “crisi dello Stato”
moderno, si rivela come qualcosa di più e di diverso da un mero momento di difficoltà
propedeutico alla ristrutturazione dell’architettura dello Stato moderno ed a questo riconducibile.
Nella presenza di masse organizzate in gruppi, capaci di azione e di comportamento politico
2
Cfr. M.S. Giannini, I pubblici poteri, Bologna, il Mulino, 1985, 52.
Cfr. A. Labriola, nel saggio del 1895, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma, 1895.
4
Cfr. S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, Milano, Giuffrè, 1969, 23.
3
112 – Libertà e diritti civili
s’individua – fin dalla fine del XIX sec.5 – un mutamento strutturale del costituzionalismo e dell’affermazione dei diritti non più riconducibile entro gli ambiti della democrazia liberale di stampo
parlamentare. A quest’ultima subentra, come è noto, una democrazia di massa che trova la sua
anima in quelle associazioni di cittadini politicamente attive che fanno dello Stato uno “Stato dei
partiti”, uno Stato della partecipazione politica organizzata, diffusa e continua.
La crisi della democrazia liberale, quindi, scaturisce non tanto dal pluralismo socio-economico
che attraversa l’arena parlamentare e ne intralcia il funzionamento, ma dalla mancanza di quella
omogeneità socio-politica che è ritenuta requisito funzionale della democrazia parlamentare. Se
l’entrata in scena delle masse origina processi di rinnovamento della vita pubblica, che tra nuove
ideologie ed ordinamenti concreti che si trasformano si spinge fino alla transizione di regime,
dissolvendo a poco a poco la democrazia liberale, è opportuno, comunque, rilevare che essa non
esaurisce gli aspetti di tale declino.
La crisi dello Stato liberale, dunque, non è solo la crisi di uno “Stato monoclasse” che adegua al
pluriclassismo indotto dai processi di industrializzazione le proprie strutture istituzionali secondo
un modello politico di democrazia che cerca di compensare le contraddizioni create
dall’economia di mercato6. La crisi dello Stato liberale è, nel fondo, la crisi storica di un
costituzionalismo che – nato per garantire mediante le libertà individuali il potere politico di una
società borghese – finisce per diventare, nello scenario dei primi anni del XX secolo e attraverso
la garanzia dell’eguaglianza sociale, il fondamentale fattore di equilibrio tra forze sociali in
conflitto.
1.2. – Come ogni Costituzione anche quella di Weimar (1919), avvolta nella specificità dei suoi
avvenimenti e permeata dalla peculiarità della sua cultura, ha una storia nella quale riconoscersi
ma, senza dubbio, più di ogni altra Costituzione, quella di Weimar può leggersi come il simbolo
(e comunque un importante tentativo di riforma dello Stato) di un’epoca in transizione che – tra
nuove forme e configurazioni del rapporto tra diritti e potere, tra società e Stato – sperimenta in
modo antesignano un modello di democrazia sostanziale destinato ad infrangere i canoni
concettuali ed i modelli statuali dell’Ottocento ed a schiudere un’ulteriore, quanto feconda,
stagione del moderno costituzionalismo europeo7.
Sancita in una Germania post-bellica piegata ai Diktate di Versailles e lacerata dalle fratture sociali, tra tendenze di restaurazione monarchica e tentativi di sovvertimento socialista, la
Costituzione tedesca del 1919 rappresenta un tentativo ambizioso quanto originale di
modernizzare quello Stato liberale che – astratto ed universale nei princìpi, censitario e ristretto
nelle forme rappresentative – dopo aver consacrato come “generale” la volontà parziale della
5
Il riferimento obbligato per tale approccio è a G.U. Rescigno. Oltre alle chiare pagine di questo Autore nel
suo Corso di diritto pubblico, Padova, CEDAM (ult. ed.), 1999, dello stesso cfr., in particolare, Costituzione italiana
e Stato borghese, Roma, Savelli, 1975. Sia anche consentito rinviare al mio Crisi istituzionale e riforma della
Costituzione, Pisa, ETS, 1983.
6
Essa è anche la crisi di una teoria economica che s’infrange sui processi evolutivi di un mercato lasciato al
libero gioco delle sue forze che sfocia, a causa dell’espansione produttiva, in forme di concentrazione industriale
e di controllo della produzione che urtano con quel “libero progresso economico” esaltato dal liberalismo come
condizione di realizzazione del benessere generale. Essa è, ancora, crisi di una teoria politica che si dissolve sui
processi evolutivi di una società devastata dagli sradicamenti prodotti dalla rivoluzione industriale e dalle fratture
sociali, forzatamente contenuta in uno Stato che, non più “minimo” (perché non può più esserlo), sviluppa ed
estende gli interventi di natura assistenziale a sostegno dei ceti non possidenti, come, più in generale, un suo
intervento in campo economico.
7
Fra gli altri, cfr. anche C. Amirante, Il modello costituzionale weimariano: fra razionalizzazione, leadership
carismatica e democrazia, in S. Gambino (cur.), Democrazia e forma di governo, Rimini, Maggioli, 1997.
Libertà e diritti civili – 113
borghesia e trasformato i citoyen delle costituzioni moderate in sudditi del capitalismo industriale,
si avvia verso processi di ammodernamento istituzionale non sempre lineari e coerenti, tesi a
realizzare la libertà e l’eguaglianza come patrimonio di ciascuno e di tutti.
Il primo tentativo di risolvere le contraddizioni tra individuo e principio democratico proprie
del costituzionalismo borghese, infatti, si risolve in una radicale frattura giuridico-istituzionale e
teorico-politica con la statualità liberale8. Così, la rivoluzione bolscevica del 1917 (la cui prima
traduzione costituzionale si ha nella Costituzione socialista federativa sovietica del 1918, seguita
nel 1924 dalla Costituzione dell’U.R.S.S.) rigetta, in nome dell’eguaglianza sostanziale, la teoria
dell’esternità dello Stato propria dell’idealismo hegeliano e recide, in nome del potere della
classe proletaria, lo storico legame tra sovranità e Stato, annullando l’essenza e le condizioni del
persistere di un ordine giuridico istituzionale solo apparentemente neutrale che, nell’intellegibilità
della sovranità statale, cerca la copertura formale ad un ordine cetuale precario e squilibrato,
certamente lontano dalle concezioni autoritarie e gerarchiche dell’ancien régime, ma anche dagli
ideali egualitaristici e solidaristici del ’700 rivoluzionario. Se la dittatura sovrana del proletariato,
la subordinazione dell’individuo allo Stato, la collettivizzazione dei mezzi di produzione,
rappresentano gli strumenti attraverso cui lo Stato bolscevico anticipa la realizzazione di una
struttura concettuale in cui «al posto della vecchia società borghese con le sue classi e con i suoi
antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è
condizione per il libero sviluppo di tutti»9; tuttavia, il suo sostrato rappresentativo “ristretto e
diseguale” lo pone, paradossalmente, in una sostanziale linea di continuità con il monoclassismo
dello Stato liberale, dimostrando che, in fondo, «il segno distintivo di ogni dittatura consiste
nell’adottare per la realizzazione delle proprie idee di valore misure che stanno in contraddizione
con i valori stessi che si intendono realizzare»10.
Ma l’evoluzione (e la rottura) costituzionale del XX sec., che insegue la democrazia sociale
quale elemento unificante tra una libertà proclamata attraverso i diritti fondamentali e
un’eguaglianza non risolubile in mere proclamazioni di principio, non si esaurisce nelle radicali
rotture del costituzionalismo bolscevico sperimentando, proprio con la coeva esperienza
costituzionale weimariana, un altro itinerario (storico, politico e costituzionale) attraverso cui
colmare i baratri socio-economici aperti dalla rivoluzione liberal-liberista senza ricorrere ad una
rivoluzione politico-giuridica, senza disgregare gli assetti preesistenti, ma democratizzandoli
radicalmente sino quasi a rifondarli in una direzione concorrenziale più che alternativa al
socialismo.
Questa soluzione, in cui la conservazione si fonde al mutamento facendosi innovazione, passa
attraverso una Costituzione che, in un paese militarmente sconfitto, politicamente vulnerabile,
socialmente frammentato – come si ricorderà – diventa fattore di conservazione della nazione
tedesca e di ricomposizione del suo “unitarismus”.
Se può essere vero, quindi, che Weimar rappresenta il frutto di una “unità momentanea degli
sconfitti”, è altrettanto vero che è proprio questo carattere compromissorio a provocarne le
origini e a determinarne i contenuti, segnando l’esordio di una nuova dimensione del
costituzionalismo, in cui la Costituzione cessa di essere una concessione octroyée per diventare la
8
Fra gli altri cfr. anche H. Heller, L’Europa e il fascismo (trad. a cura di C. Amirante), Milano, Giuffrè, 1987.
Cfr. G. Giannantoni, Profilo di storia della filosofia, III, Torino, Giappichelli, 1986, 211 (le citazioni richiamate
rinviano a Marx-Engels, Il manifesto del partito comunista).
10
Così O. Kirchheimer, Sulla dottrina dello Stato del socialismo e del bolscevismo, in A. Bolaffi (cur.),
Costituzione senza sovrano. Saggi di teoria politica e costituzionale, Roma-Bari, Laterza, 1982, 15.
9
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«linea di frontiera tra due gruppi (di classe) in lotta»11, il frutto della rivoluzione legittima di un
popolo che si riappropria della sua sovranità. E proprio in questa rinascita concettuale e materiale
di una sovranità “risalente dal basso” («il potere emana dal popolo», art. 2 Cost. Weimar) si
ravvisa il valore costitutivo di un ordinamento costituzionale in cui la democrazia politica non
s’infrange sui fattori discriminanti del censo e dell’istruzione ma vive e si fertilizza attraverso
moduli istituzionali che integrano democrazia rappresentativa e democrazia diretta.
Il principio democratico che permea la Costituzione di Weimar e sottende i suoi congegni
politico-costituzionali non si esaurisce, tuttavia, nel dominio politico del popolo, ma trova il suo
naturale, quanto indispensabile, fattore di completamento nella creazione di un ordine sociale
giuridicamente e sostanzialmente diverso (da quello borghese e da quello socialista). Un ordine
nuovo, insomma, in cui i diritti delle classi dominanti si coniugano alle pretese soggettive delle
masse proletarie, in cui «i diritti e i doveri fondamentali dei tedeschi» fanno da contraltare ai
«diritti del popolo lavoratore e sfruttato»12. Da qui, la dilatazione del catalogo delle libertà liberali
attraverso nuovi diritti atti a garantire a tutti i membri della collettività statale gli stessi mezzi di
sopravvivenza, le stesse condizioni di partenza, le stesse opportunità, sì da colmare quelle
sperequazioni materiali indotte dai rapporti di produzione che, mortificando la libertà ed
annullando nei fatti l’eguaglianza, determinano, alla fine, la crisi dello Stato liberale e
l’evanescenza della sua democrazia.
I nuovi diritti di Weimar, i diritti sociali, oltre a rappresentare la pre-condizione necessaria per
l’effettivo inveramento delle libertà naturali, rappresentano anche il fondamento di quello “status
positivus” di cui parla Jellinek che infrange la minimalità dello Stato ottocentesco e, con essa,
anche la tradizione delle costituzioni “brevi” che erano finalizzate a garantire le sfere di
autonomia del singolo ed a risolvere la sua eguaglianza nella mera soggezione alla legge.
La democratizzazione dell’ordine sociale che i costituenti tedeschi degli anni ’20 del secolo
scorso intendono realizzare attraverso i diritti sociali, segna, dunque, l’affermazione di una
statualità nuova che combina regolazione politico-giuridica ed intervento economico sociale,
secondo un modello di democrazia sostanziale in cui la conservazione del sistema di produzione
capitalistico si fonde con l’affermazione del principio della priorità del sociale. Nasce, così, quello
che Fraenkel definisce lo Stato del «capitalismo sviluppato illuminato»13, lo Stato che conserva la
proprietà privata ma ne sancisce la socializzazione. Uno Stato ad economia mista, insomma, che
– figlio del compromesso tra borghesia e proletariato – subordina (poi diremo “funzionalizza”) il
diritto di proprietà al perseguimento di fini sociali; una forma di Stato – questa – che sarà
destinata a riespandersi con le costituzioni del secondo dopoguerra, di cui quella italiana del
1948 (artt. 41-43) costituisce un ideale archetipo.
Ma la Costituzione di Weimar, con i suoi importanti contributi in tema di democrazia
economica, non rappresenta solo il tentativo di democratizzare uno Stato liberale che s’incrina
sotto il peso dei conflitti sociali del primo ’900. Essa rappresenta anche il tentativo di
razionalizzare la sua forma di organizzazione politica che si sfalda con l’allargamento della
rappresentanza; ciò attraverso la previsione di una «pluralità di organi posti reciprocamente in
posizione di equilibrio tale da essere in grado di neutralizzarsi a vicenda nella eventualità di abusi
e di arbitrii»14.
11
Cfr. O. Kirchheimer, op. cit., 6.
Cfr. O. Kirchheimer, op. cit., 35.
13
Cfr. O. Kirchheimer, op. cit., LXXXIX.
14
Cfr. C. Mortati, Le forme di governo nella Germania di Weimar, in AA.VV., Le forme di governo, Padova,
CEDAM, 1973, 201.
12
Libertà e diritti civili – 115
Ma, al di là dei suoi ingranaggi e della loro macchinosità, dei suoi equilibri fra gli organi ed i
poteri dello Stato, dei suoi princìpi variegati e giustapposti, se un apprezzamento può essere fatto
sul “laboratorio costituzionale” di Weimar, si può forse dire che esso fu un grande progetto di
modernizzazione di uno Stato liberale fatiscente, discriminatorio e monolitico, attraverso la
pluralizzazione dei centri di potere e l’ampliamento del potere decisionale dello Stato, ma anche
attraverso princìpi e valori nei quali si riflettono le più svariate prospettive sociali e culturali; un
grande progetto ai confini dell’utopia politica, in cui i diritti degli individui si saldano alle idee di
libertà e di giustizia, di pace interna ed internazionale15. Un grande progetto, dunque, ma nulla
più che un progetto di trasformazione istituzionale e sociale che s’infrange sulla continuità delle
strutture amministrative di uno Stato borghese, che si dissolve nella ideologizzazione intensa di
una classe dirigente poco idonea all’attuazione di una politica del compromesso, che s’inceppa
sulla frammentazione di un paese e di un Parlamento che un sistema partitico non troppo
legittimato ed un sistema rappresentativo di tipo speculare riescono a scomporre ma non ad
integrare.
Forma priva della sua sostanza, la Costituzione di Weimar, tuttavia, rappresenta l’inizio della
fine di un’epoca, il tentativo originale di adeguare lo Stato liberale del XIX sec. alle esigenze dello
Stato pluriclasse del XX sec., dimostrando, con il suo traumatico fallimento, che «nessuna
democrazia moderna può poggiare sull’impalcatura caratteristica dello Stato liberale dell’800, ma
esige che l’assetto istituzionale democratico permei tutte le strutture economiche e sociali, perché
è dalla profonda ed intima compenetrazione di queste nel proprio organismo che può trarre le
ragioni della sua solidità»16.
1.3. – Se quella di Weimar, come aveva osservato Kirchheimer, fu una «Costituzione senza
decisione», un progetto, cioè, mai completamente tradotto in un programma politico
d’azione, tale esperienza costituzionale non fu, tuttavia, priva di conseguenze nel secolo da
poco lasciato alle spalle. Come rilevava Costantino Mortati, essa rappresenta pur sempre
l’«espressione di quella fase di transizione tra forme di civilizzazione diverse nelle quali si
svolge il travaglio costituzionale della nostra epoca»17, il punto di riferimento politico-culturale
per tutte quelle costituzioni che si accingono, all’indomani del primo conflitto mondiale, a
risolvere, attraverso un ampliamento costituzionale dello spettro normativo e garantistico, le
contraddizioni socio-economiche e le lacerazioni politico-ideologiche germogliate sul terreno
del liberalismo e delle forme della sua statualità.
Le costituzioni che hanno origine a partire da questo periodo storico, note anche come “costituzioni razionalizzate”, tuttavia, seppur impregnate della specificità delle loro vicende
nazionali, non rappresentano esperienze giuridico-formali isolate; il loro dare risposta alle
medesime esigenze epocali, il loro essere frutto di un interscambio culturale moltiplica, infatti,
quelle analogie tra le diverse esperienze che diventano caratteristiche genetiche di una nuova
quanto più ampia stagione del costituzionalismo europeo.
A differenza delle costituzioni ottriate del XIX sec., le costituzioni degli anni ’20 del secolo
scorso non scaturivano più da una mera concessione unilaterale del monarca ma dall’accordo
compromissorio fra le parti di una società non omogenea che, articolata in gruppi sociali in
15
Significativo il preambolo di questa Costituzione, che assegna al «Popolo tedesco, unito nelle sue stirpi ed
animato dalla volontà di rinnovare e rafforzare, in libertà e giustizia, il suo Reich (il compito), di servire la causa
della pace interna ed internazionale e di promuovere il progresso sociale».
16
Cfr. C. Mortati, Problemi di politica costituzionale, Milano, Giuffrè, 1972, 351.
17
Cfr. C. Mortati, Raccolta di scritti, Milano, Giuffrè, 1985, 343.
116 – Libertà e diritti civili
conflitto, attraverso la Costituzione si ricomponeva come entità politica dotata del potere
sovrano. Ed è proprio questa riaffermazione della “sovranità popolare” a caratterizzare e
connotare le costituzioni del ’900, a fungere da elemento di cesura non solo storico-ideologico
ma anche, e soprattutto, politico-giuridico con le costituzioni moderate del secolo scorso. La
Costituzione, in quanto espressione della volizione cosciente e consapevole del popolo sovrano,
atto solenne e formale che suggella normativamente i contenuti del “pactum societatis”, infatti,
non può essere modificata senza il concorso di maggioranze parlamentari più ampie rispetto a
quelle richieste per l’attività legislativa ordinaria. “Garantita” da una speciale procedura di
revisione, essa diventa una atto “rigido”, idealmente e strutturalmente lontana da quelle leggi
fondamentali del secolo scorso che, pur qualificandosi come “perpetue e irrevocabili” e pur
segnando una rottura con il passato dell’ancien régime, non costruiscono alcun argine all’attività
futura ed onnipotente del legislatore.
L’ampliamento della dimensione garantista della Costituzione, tuttavia, non esaurisce il
potenziale innovativo delle Leggi fondamentali d’inizio secolo che, nella stessa scia di Weimar –
reinterpretando lo storico principio della limitazione del potere attraverso il diritto – estendono la
loro attività regolativa dalla sfera politico-giuridica a quella economico-sociale, intersecando
liberalismo e democrazia, individualismo e solidarismo. Esse si presentano, pertanto, come
combinazioni complesse di princìpi e dimensioni diversi del costituzionalismo che trovano la loro
naturale espansione in quei diritti sociali che – previsti dapprima a Weimar, e pienamente
formalizzati costituzionalmente nelle costituzioni del secondo dopoguerra – dilatano il catalogo
dei diritti fondamentali della tradizione ottocentesca.
Se la distinzione operata fra le costituzioni liberali dell’800 e quelle social-democratiche e
razionalizzate ci consente di tracciare il profilo distintivo ed innovativo del costituzionalismo del
’900 e di evitare confusioni tra i caratteri che sono loro propri e quelli che appartengono
all’epoca precedente, non ci impedisce, tuttavia, di scorgere e di trovare in esse quei princìpi e
quei valori che hanno fatto grande l’800 liberale. Il costituzionalismo di questo secolo, insomma,
nella sua originalità e nella sua innovatività, scorre tra le linee del liberalismo, si fertilizza sui suoi
contenuti e, come avverrà dopo le tragedie del secondo dopoguerra, trae ammaestramento dai
suoi errori. Esso insegna come sia facile, per la democrazia, naufragare nelle tempeste del
totalitarismo quando l’astrattezza della regola si vanifica nel potere reale di una parte e come i
princìpi proclamati e non inverati rappresentino la preda più ambita della diseguaglianza e le
chiavi del regno delle contraddizioni.
Proprio questa storica consapevolezza fa da base a tutte quelle costituzioni che, (soprattutto)
come quella italiana e quella tedesca, diventano, all’indomani del secondo conflitto mondiale,
non solo “l’atto di un popolo che crea un governo”, ma anche la forma politica e giuridica di una
società di “esseri utopici” cementati da princìpi la cui condivisione prescinde da qualsivoglia
posizione, appartenenza o ideologia. In esse, insomma, il diritto, oltre a congiungersi con la
politica, si congiunge con l’etica quasi a voler cercare un «ancoraggio a qualcosa di obiettivo, di
più forte delle ragioni e delle volontà politiche che si sarebbero affermate nella successione del
tempo»18.
Questo bisogno di suggellare normativamente qualcosa di indiscutibile e di inossidabile conduce le costituzioni del secondo dopoguerra a completare l’eredità liberale attraverso la
sanzione di princìpi che, nel loro finalizzarsi al mantenimento di un “ordine generale giusto”19,
distinguono e talvolta contrappongono interessi individuali ed interessi generali e portano lo
18
19
Così G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Giappichelli, 1992, 89.
Così G. Zagrebelsky, Il diritto ..., cit., 90.
Libertà e diritti civili – 117
Stato a fuoriuscire definitivamente dai ristretti ambiti in cui era stato relegato dalla “tradizione
minimale” ottocentesca.
I princìpi cui s’ispirano le costituzioni contemporanee, che sono princìpi di giustizia, dilatano il
catalogo liberale dei diritti di libertà inserendovi una «libertà dal bisogno»20, che esprime qualcosa
di più e di diverso della pretesa del singolo ad esercitare la «signoria del proprio volere»21,
materializzando, così, il suo diritto ad esigere dallo Stato delle prestazioni atte ad assicurargli
almeno un minimo di sicurezza22 e di giustizia sociale, sì da creare quelle perequazioni materiali
che sole possono rendere gli uomini «liberi ed eguali in dignità e diritti»23.
Così, le costituzioni di cui Weimar è stata l’antesignana nel XX sec., ricalcandone le orme, arricchiscono il patrimonio liberale attraverso quei diritti sociali che, impegnando lo Stato nella ricerca
di nuovi equilibri economici e sociali, nel raggiungimento di sempre più ampi orizzonti di
giustizia, rappresentano le radici del suo dinamismo ed offrono alla democrazia del secondo
dopoguerra le premesse della sua solidità.
Proprio in questa saldatura dei “gius-naturali” diritti civili con i diritti sociali e politici risiede
uno degli aspetti più rilevanti del costituzionalismo contemporaneo che inaugura, con quella
“moralizzazione del diritto” – che è destinata a trovare piena affermazione in occasione delle
(ormai non più recenti) esperienze costituzionali della Spagna post-franchista (1978) e del
Portogallo post-salazariano (1976) – una nuova stagione dei diritti umani che inizia proprio
dalla loro proclamazione (cioè dal riconoscimento costituzionale che sottende la preesistenza
degli stessi allo Stato), ossia dalla collocazione degli stessi su un fondamento più saldo rispetto
a quello rappresentato dalla legge dello Stato.
Se, nell’ordinamento dello Stato liberale, i diritti sono garantiti attraverso la legge, nell’ordinamento dello Stato costituzionale essi lo sono attraverso la Costituzione che della legge
rappresenta qualcosa di più e di diverso: essa, infatti, è la fonte prima della produzione giuridica
ed il punto di riferimento di una società che riconosce in essa lo specchio della propria cultura e,
nei suoi dettati, il fondamento delle proprie speranze. I princìpi, i valori, i diritti, che essa
contempla e che la società condivide rappresentano perciò un patrimonio da salvaguardare da
quella mutevolezza di intenti e di interessi che di norma si riflettono nella legge. Ma ciò è
possibile solo nella misura in cui questo patrimonio si pone come una “dotazione giuridica”24 dei
suoi titolari, al di sopra della legge ed al riparo dalle sue contingenze.
Da qui il collocarsi delle costituzioni del secondo dopoguerra nella sfera più alta del diritto
dove lo jus cessa di essere lex e dove i diritti cessano di essere una regola posta dal legislatore per
diventare pretese soggettive assolute, costituzionalmente protette. Dando forma concreta
all’hobessiana aspirazione di distinguere il diritto dalla legge e prediligendo l’aristotelico “governo
della legge al governo degli uomini”, il costituzionalismo contemporaneo, in breve, realizza una
sostituzione della sovranità della Costituzione alla sovranità della legge che trasforma i diritti
fondamentali in diritti inviolabili.
Se la Costituzione crea uno spazio dei diritti umani, la sua sovranità garantisce la certezza di questi
diritti che diventano anche, dopo Auschwitz, il fondamento universalistico della civile convivenza.
Oltre a rappresentare le direttrici dell’agire dello Stato costituzionale ed il fondamento
20
Cfr. N. Bobbio, Sui diritti sociali, in G. Neppi Modona (cur.), Cinquant’anni di Repubblica italiana, Torino,
Giappichelli, 1997, 122.
21
Così G. Zagrebelsky, Il diritto ..., cit., 59.
22
Cfr. N. Bobbio, Sui diritti sociali ..., cit., 122.
23
Art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
24
Così G. Zagrebelsky, Il diritto ..., cit., 63.
118 – Libertà e diritti civili
dell’organizzazione pluralistica della sua società, essi, infatti, definiscono anche i contorni di un
diritto più ampio che li assume quale ineludibile presupposto di convivenza pacifica tra gli stati. Lo
Statuto dell’O.N.U. (1945), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950), confermano e
dilatano l’azione dei singoli Stati costituzionali in materia di tutela della dignità umana, contribuendo
così a segnare i caratteri di questa nuova epoca solennemente celebrata da Bobbio come “l’età dei
diritti”25.
1.4. – Nella rinascita dei diritti umani del secondo dopoguerra, così, è possibile ritrovare le
radici culturali e politiche di un’età che cerca di liberarsi per sempre dai fantasmi del passato.
Nell’assurgere dei diritti umani a nuova lex terrae del XX secolo ritroviamo, altresì, la premessa
per l’affrancamento delle generazioni future che diventa “vincolo” nei processi di riedificazione
degli ordinamenti politici. L’esistenza di diritti inviolabili, in altri termini, escluderebbe
quell’incondizionato potere costituente che fonda e distrugge i sistemi politici ed al quale pur si
lega l’origine delle costituzioni democratiche del secondo dopoguerra.
Ma la Costituzione non è solo un dato formale o una categoria a priori; al di là dei suoi
elementi letterali, e soprattutto prima di essi, esiste una realtà pre-giuridica in cui si profilano le
premesse ideali per l’instaurazione di un novus ordo ed in cui si dispiega la forza che lo
concretizza: il potere costituente del popolo sovrano, ossia la potenza creatrice di un gruppo che
si riconosce e si circoscrive come entità politica.
Emblema di una teoria democratica che rimette al popolo il potere di stilare la Costituzione, il
potere costituente rappresenta un principio cardine della storia costituzionale moderna.
Attraverso di esso, infatti, la sovranità cessa di essere la traduzione di un ordine divino o naturale
delle cose per divenire “potenza creatrice”, fondamento di un ordine nuovo basato su una
legittimazione esclusiva del potere politico, oltreché simbolo del dominio dell’uomo sugli assetti
sociali. Tale potere che diventa l’espressione più alta e più pura della sovranità assurge, così, a
vero e proprio spartiacque della storia umana: nella sua scia si spegne il principio di tradizione26 e
si schiude l’era moderna del costituzionalismo. Attraverso il potere costituente, insomma,
“l’indirizzo” espresso dalla volontà sovrana di un popolo, che si compatta sulla base di alcuni
valori fondamentali, vive e s’inscrive in una Costituzione che, nella sua normatività fondamentale,
rappresenta un argine per i poteri costituiti ed una “garanzia” per i diritti.
Nel nuovo ordine creato dal potere costituente si ricompone, così, quel rapporto tra ratio e
voluntas reciso da un’età liberale che antepone il governo delle leggi al governo degli uomini,
dimostrando che l’una non esclude l’altra e che la volontà politica può legittimamente fondare il
diritto superiore quando la forza in cui essa si estrinseca veicola e suggella normativamente i
princìpi ed i fini che danno unità (politica) al corpo sociale. Il potere costituente, infatti, non è
solo un momento ideale-normativo, un attimo fondante, ma è anche «l’entità e la forza politica
reale che fonda la validità giuridica della Costituzione»27.
Ciò significa che, nella nuova dimensione del costituzionalismo, nessuna Costituzione può
sorgere (e sorreggersi) senza il sostegno delle forze politiche della comunità che si organizza come
Stato e che il potere costituente, anima della Costituzione formale, è anche essenza della
25
Nell’ampia bibliografia sul punto cfr. anche S. Gambino, Diritti fondamentali e costituzioni, in Archivio di diritto costituzionale, 1997, n. 4. In un successivo contributo a questa stessa Rivista approfondiremo i profili della
tutela dei diritti sociali a livello comparato, internazionale e comunitario.
26
Cfr. M. Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna, il Mulino, 1991, 66.
27
Cfr. E. Wolfgan Bockenforde, Il potere costituente del popolo: un concetto limite del diritto costituzionale, in
G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (cur.), Il futuro della costituzione, Torino, Einaudi, 1996, 239.
Libertà e diritti civili – 119
costituzione materiale, che legittima e garantisce quella formale. Chiaramente incastonato tra
l’effettività della forza e l’astrattezza della norma, questo «concetto limite del diritto
costituzionale»28, in un’epoca caratterizzata dalla positivizzazione su doppia scala dei diritti
fondamentali, sembra aver perso i suoi spazi di libertà e di incondizionatezza.
Le costituzioni dell’ultimo dopoguerra, così, collocandosi nella sfera più alta del diritto, diventano, secondo la visione kelseniana, «regole di procedura ma anche regole sostanziali» che riguardano «non già la formazione ma il contenuto delle leggi»29.
E proprio in questo essere della Costituzione direttrice e limite degli atti legislativi prende forma
quella supremazia della medesima che, conferendo immediata vincolatività ai princìpi e alle
norme fondamentali, costituisce senza dubbio l’aspetto più innovativo ed originale del
costituzionalismo contemporaneo. Essa, infatti, oltre a segnare il distacco dalla tradizione
costituzionale ottocentesca, imperniata sulla legge generale ed astratta quale strumento principe
della garanzia dei diritti e dei rapporti giuridici, segna altresì il distacco dal costituzionalismo
razionalizzato degli inizi del secolo scorso, il quale, pur costruendo degli argini tra Costituzione e
legge, non sempre riesce ad essere una garanzia per le libertà ed un presidio della democrazia.
Nel principio della superiorità della Costituzione si riflette, insomma, la storica esigenza di non
lasciare il sistema delle libertà e dei diritti alla mera attuazione del principio di legalità e di fare
della stessa uno strumento di garanzia e di indirizzo, di protezione e di promozione. Da qui
l’affermazione nelle nuove costituzioni del secondo dopoguerra di un “principio di
costituzionalità” che, mettendo in crisi la forza assoluta della legge, la sua intangibilità (la quasi
“sacralità”), appresta quelle nuove forme di tutela della Costituzione senza le quali il principio
della sua supremazia sarebbe rimasto un’affermazione priva di contenuto.
Sulla scia della Costituzione austriaca degli anni ’20, così, le costituzioni contemporanee, rimettono ad un apposito organo il compito di sindacare la legittimità costituzionale della legge, sì da
consentire l’adeguamento del sistema legislativo ai dettati della “legge superiore”. A differenza del
controllo di costituzionalità “diffuso” ed esclusivamente giurisdizionale della tradizione
statunitense (la judicial review che consente ad ogni giudice di disapplicare nel caso concreto la
legge ritenuta in contrasto con la Costituzione), il costituzionalismo europeo dell’ultimo
dopoguerra segue, al contrario, la via kelseniana del controllo “accentrato”, che attribuisce ad un
organo ad hoc, variamente denominato nei diversi paesi, l’importante funzione di annullare, con
efficacia erga omnes, la norma statale e regionale ritenuta illegittima.
Se si fa eccezione per la Francia, in cui il controllo di costituzionalità, seguendo un criterio materialiter “politico”, opera in modo “preventivo” (nella fase che precede la promulgazione della
legge), negli altri paesi europei è il modello kelseniano della Costituzione di Vienna ad essere
ripreso nelle sue linee fondamentali. Qui il controllo di costituzionalità non è parte del processo
legislativo, ma è ad esso successivo, di tipo “incidentale”, essendo rimesso cioè ad
un’impugnativa eventuale della legge in questione, nel corso del processo.
Ma, se nel modello kelseniano la Corte funge da “custode negativo” della Costituzione, che
sanziona giuridicamente, con l’abrogazione della legge, l’inosservanza della legge superiore, nella
nuova dimensione del costituzionalismo e del “diritto per princìpi”, la Corte costituzionale è chiamata a svolgere un’importante opera d’interpretazione della volontà costituente (di deduzione
della “norma giusta”) e quindi d’integrazione della Costituzione. Da tale attività scaturisce un
“diritto vivente” che perpetua e vivifica nel tempo il nucleo dei valori fondamentali normativizzati
nella Carta costituzionale. Per tale motivo, la sua attività si presenta come viva e dinamica, di
28
29
Così E. Wolfgan Bockenforde, op. cit., 239.
Cfr. H. Kelsen, La giustizia costituzionale, Milano, Giuffrè, 1981.
120 – Libertà e diritti civili
conservazione e di sanzione, ma anche di adeguamento della Costituzione allo scorrere della vita
politica, economica e sociale.
Se è vero che il costituzionalismo del ’900 è pianta dalle molte radici, è altrettanto vero che
quella più profonda, alla quale si legano le ragioni del suo essere non la negazione ma il
superamento del liberalismo, va rintracciata nel suo porsi quale elemento di limitazione del
potere in tutte le sue forme. Qualità e quantità del potere diventano, quindi, elementi
qualificativi di un costituzionalismo che si distacca gradualmente dalla tradizione liberale del
potere limitato ma monolitico per trovare la sua meta definitiva in quelle costituzioni del secondo
dopoguerra le quali, nel tentativo di rinsaldare la democrazia senza mettere in questione il
sistema economico, edificano un ordinamento statuale in cui la salvaguardia della proprietà e la
tutela dell’iniziativa privata non inficiano i suoi presupposti egualitari, solidaristici ed
universalistici.
Sorge su queste basi lo “Stato sociale di diritto” o Welfare State, ossia lo Stato pluriclasse del
capitalismo maturo che stabilisce il primato del politico sull’economico secondo un modello di
democrazia sostanziale ed “emancipante”, in cui la libertà non è solo un principio ma anche,
e soprattutto, un “bene” individualmente e socialmente “fruibile”. Alle sue radici, la storica
consapevolezza che mercato e democrazia possono intersecarsi ma non coincidere, in quanto
la “democrazia del mercato” vive e si alimenta di esclusioni, crea sperequazioni ed annulla
valori. Se il mercato non può essere considerato il teatro in cui si dipanano tutti i rapporti della
convivenza umana, spetta allora allo Stato, retto dai princìpi della democrazia sociale
regolarne le forze contrastanti, intervenire sui suoi processi e finalizzarne il corso, senza con
ciò configurare una gestione esclusiva dell’economia, una qualche forma di dirigismo in cui si
annullano e si disperdono l’autonomia e l’iniziativa dei privati. Per tale motivo, lo Stato sociale
appare un’alternativa non troppo distante dal modello socialista “dell’economia di Stato” e dal
modello liberista “dell’economia di mercato”30: una terza via al rapporto tra Stato e mercato,
insomma, in cui il primo diventa il soggetto attivo di uno sviluppo che, pur realizzandosi
attraverso tecniche e modalità diverse d’intervento, tende verso il fine esclusivo del benessere
di tutti i membri della collettività organizzata statualmente. Ciò è possibile attraverso
l’introduzione di meccanismi di giustizia redistributiva a favore dei ceti e delle categorie sociali
economicamente più deboli, sì da livellare quelle sperequazioni materiali che ostacolano i
processi di ricomposizione pacifica ed ordinata dei conflitti nell’ambito unitario di riferimento
rappresentato dallo Stato. Nessuna società può, infatti, reggersi in unità senza un qualche
criterio di giustizia redistributiva, in special modo una società pluriclasse e policentrica quale
quella contemporanea, che sviluppa una conflittualità diffusa ed intensa, difficilmente sanabile
senza l’intervento mediatore, equilibratore e regolatore dello Stato. Da qui il suo porsi quale
soggetto attivo dei processi di distribuzione del prodotto sociale, cioè di quella ricchezza netta
«non riconducibile all’attività organizzatoria dell’imprenditore»31.
L’espletamento della funzione redistributiva-perequativa da parte dello Stato, che si sostanzia
in tutta una serie di interventi di politica sociale, è del resto possibile solo nella misura in cui esso
svolga una parallela funzione di appropriazione della ricchezza prodotta, attraverso interventi di
politica fiscale. Le politiche economiche, così, offrono allo Stato la possibilità di realizzare i propri
fini e di legittimare le proprie funzioni, ma anche d’intervenire nei circuiti della produzioneconsumo e del risparmio-investimento. Manovrando le leve del funzionamento del sistema
30
Cfr. anche il mio Stato sociale e Stato socialista in Costantino Mortati, in M. Galizia (cur.), Le forme di Governo nel pensiero di Costantino Mortati, Milano, Giuffrè (in corso di pubblicazione).
31
Cfr. C. Mortati, Le forme di Governo. Lezioni, Padova, CEDAM, 1973, 63.
Libertà e diritti civili – 121
economico, lo Stato diventa (nel senso che è un suo compito farlo) promotore dello sviluppo,
fattore di stimolo per la produzione e per l’occupazione secondo i canoni di un keynesismo che
consente di imbrigliare il capitalismo nella rete della democrazia.
È evidente che questa riappropriazione dell’economico da parte del politico, che moltiplica i
fini e le funzioni dello Stato, troncando definitivamente la tradizione astensionista del liberalismo,
dilata, con gli ambiti spaziali, anche quelli temporali d’intervento. Lo Stato che “promuove” il
benessere collettivo agisce, in un’ottica prospettica e progressiva, secondo un’idea di democrazia
sociale che non esaurisce l’eguaglianza nell’astrattezza delle formule e non considera la
democrazia da un punto di vista sostanziale come una meta, ma come un traguardo di tappa. Si
scopre così che libertà, eguaglianza e democrazia vivono proprio attraverso lo Stato sociale, figlio
di un costituzionalismo che fonde, talvolta fino a confondere, il politico con l’economico e il
sociale.
1.5. – La complessa architettura del costituzionalismo contemporaneo alla quale si legano gran
parte delle presenti conquiste in termini di civiltà e di giustizia sociale nonché delle concrete
aspettative in termini di organizzazione dei poteri e di tutela dei diritti, alla soglia del nuovo
millennio, tuttavia, sembra scomporsi ed incrinarsi sotto l’influsso di una moltitudine di forze e di
tendenze che fanno vacillare quelle forme e quei modi d’essere dello Stato costituzionale apparse
mezzo secolo fa salde e definitive perché appropriate ad una democrazia concepita come
patrimonio di ciascuno e di tutti.
Lo “Stato sociale”, lo “Stato sovrano”, lo “Stato dei partiti”, manifestazioni storiche di questa
forma di Stato e di questa democrazia che coniuga libertà ed equità, pluralismo sociale e
pluralismo dei poteri, manifestano oggi i segni della loro decadenza coinvolgendo inevitabilmente
nel suo disfacimento quei princìpi e quei valori che rappresentano l’impalcatura di tutto il
costituzionalismo del ‘900 e che solo in queste forme contemporanee della statualità riescono a
trovare il loro naturale quanto armonioso campo d’espansione.
La crisi dello Stato contemporaneo si rivela, pertanto, una crisi profonda e complessa perché
variegata e poliedrica; una crisi di forme e di sostanza, di strumenti e di obiettivi, di princìpi organizzativi non sempre rivedibili e di princìpi ispiratori inderogabili. Questa discrasia tra mezzi e fini
che corrode la schiusa architettura ideale del costituzionalismo democratico risulta
particolarmente evidente ed intensa nel processo di destrutturazione del Welfare State.
La crisi dello Stato sociale, infatti, non rappresenta solo il fallimento di un modello politico dell’economia che vanta il merito storico di aver consentito l’equilibrio sociale in regime
capitalistico, ma rappresenta anche l’appannamento di uno Stato costituzionale che assume la
dignità dell’uomo come suo punto di partenza storico-culturale e che fissa una scala di valori
dominanti come base di questa dignità e come linea direttrice del proprio sviluppo funzionale.
Nella crisi del Welfare si legge, quindi, la difficoltà materiale dello Stato di continuare a concretizzare i suoi princìpi ideali attraverso il governo dell’economia e di continuare ad adempiere
alle sue promesse, attraverso una politica economica che assume il livello della domanda
aggregata quale pungolo di un sistema volto ad utilizzare tutte le risorse mediante variazioni delle
imposte e della spesa pubblica32. Lo Stato del pieno impiego e dello sviluppo della produzione,
delle prestazioni pubbliche, tende a presentarsi oramai come lo Stato delle contraddizioni che,
sovraccarico di domande, opera con costi sociali sempre più elevati che finiscono per
neutralizzare o per distorcere gli effetti di un suo intervento sempre più selettivo, che non si
32
Fra gli altri cfr. anche L. Chieffi, I diritti sociali tra regionalismo e prospettive federali, Padova, CEDAM, 1999.
122 – Libertà e diritti civili
esime dallo scadere nella logica assistenzial-clientelare e dal creare non troppo limpidi legami tra
il mondo della rappresentanza politica e l’universo dei poteri economici secondo una logica del
do ut des che porta «la competizione politica (a decadere) in lotta di mercato»33.
Lo Stato sociale, speranza per molti, mezzo di sopravvivenza per tanti, privilegio per alcuni,
rivela, così, con la crisi del sistema economico e del mercato del lavoro, una sua caratteristica
genetica molto importante: quella di uno Stato che proclama i diritti di tutti ma senza poterne
assicurare l’effettività.
I diritti sociali, principio e fine del Welfare State, pur qualificandosi come “diritti costituzionalmente protetti” non sono azionabili per via giurisdizionale alla stregua dei diritti soggettivi ma
conoscono la sola tutela accordata agli interessi legittimi e «le prestazioni ad esso corrispondenti
non si configurano come adempimenti di obblighi tassativi, bensì come misure discrezionali e
spesso fortemente potestative o addirittura come benefici octroyés»34.
Se la destrutturazione della sovranità e la decadenza del Welfare hanno alterato profondamente i
tratti originari dello Stato costituzionale, questa diminuita capacità d’intervento e di controllo
dell’economia – ormai pressoché completa come conseguenza del processo d’integrazione
comunitaria – finisce pure per privare partiti e parlamenti dei «tradizionali bersagli verso cui dirigere i
loro colpi per indirizzare e correggere la crescita economica sulla base di interessi e visioni del
mondo non prettamente economicistiche»35, accentuando, così, in questo scorcio di inizio secolo,
quella crisi degli attori e degli istituti della rappresentanza nella quale è possibile leggere anche il
declino dello Stato contemporaneo come “Stato dei partiti” e del modello di democrazia
partecipativa che ne sta alla base; una democrazia, cioè, che consente a tutte le forze sociali
politicamente organizzate di concorrere alla determinazione delle politiche nazionali, pur nel
rispetto delle logiche di maggioranza e di opposizione.
Mutate le condizioni politiche, economiche e sociali del secondo dopoguerra, è difficile
stabilire quanta parte resti di quello Stato del pluralismo politico commisurato ad una
«democrazia che per essere politica e soltanto politica non fu economica e per essere borghese e
soltanto borghese, nonostante la forza numerica dei partiti socialdemocratici, non fu popolare»36.
La crisi della sovranità, la decadenza del Welfare, il ridimensionamento del Parteienstaat, infatti,
hanno alterato profondamente i tratti di questa forma di Stato e di questa democrazia con ovvie
ed evidenti conseguenze per il positivo perseguimento delle finalità statali, per il reale
funzionamento delle istituzioni formali, per l’effettiva realizzabilità delle libertà individuali e
collettive.
Ora che anche le corti costituzionali si distaccano «dal modello giurisdizionale di garanti e di
custodi di presunti valori costituzionali stabili e relativamente permanenti per divenire mediatrici
e moderatrici di conflitti sociali, e soprattutto di quelli che non riescono a trovare nelle sedi istituzionali di formazione della volontà politica un’effettiva ed incontrastata soluzione»37, venendo a
svolgere un ruolo di “legislatore positivo parallelo e complementare” a quello parlamentare, ora,
cioè, che questo ruolo integrativo e dinamico svolto dalle corti nell’ordinamento costituzionale
sembra condurre verso una “costituzione dei custodi”, superando gli ultimi residui del
33
Cfr. L. Ferrajoli, Stato sociale e Stato di diritto, in Pol. dir., 1982, 1, 44.
Ibidem.
Cfr. A. Cantaro, Dopo la democrazia dei partiti, in Dem. e dir., 1995, n. 2.
36
Cfr. N. Bobbio, Tra due Repubbliche, Roma, Donzelli, 1996, 40.
37
Cfr. F. Modugno, La Corte costituzionale oggi, in G. Lombardi (cur.), Costituzione e giustizia costituzionale,
Rimini, Maggioli, 1985.
34
35
Libertà e diritti civili – 123
costituzionalismo rivoluzionario legicentrico, appare lecito interrogarsi sul futuro di questo Stato e
della sua Costituzione.
La crisi della statualità contemporanea rappresenta, infatti, qualcosa di più e di diverso di un
momento di difficoltà dello Stato comparabile a ciò di cui parlava Santi Romano all’inizio del
secolo scorso, in quanto ha posto in gioco aspetti della presente civiltà e della stessa cultura
considerati a lungo come un patrimonio definitivamente acquisito: essa ha infranto la storica
pretesa di limitare il potere attraverso il diritto ed ha riaperto, con l’evanescenza dei diritti sociali,
vecchie questioni di libertà e nuovi problemi di democrazia.
Questa trasformazione dello Stato, che procede nel tempo tra poteri non (sempre) limitati e
princìpi non (sempre) realizzati, tende insomma a creare una “costituzione materiale” sempre più
distante dalla Costituzione formale ed a trasformare quest’ultima in un «ordinamento parziale»38,
in una rete che imbriglia solo una parte dei poteri e delle tendenze che determinano il reale
funzionamento dello Stato ed il concreto rendimento del sistema democratico.
La stessa prestazione fondamentale della Costituzione, così, sarebbe venuta meno: da «atto
creativo» essa si sarebbe trasformata in «testo responsivo»39, in un testo, cioè, nel quale cercare le
soluzioni ai problemi che sorgono nel corso della vita costituzionale; quasi un archivio storicoideale, in grado di fornire informazioni ed indicazioni, di provenienza e di direzione.
Se è vero che la crisi dello Stato contemporaneo ha aperto una crisi profonda della Costituzione
nel suo aspetto progettuale quanto in quello garantistico, è altrettanto vero, tuttavia, che non è
venuto a mancare quel bisogno di ordine e di sicurezza che ne ha giustificato (e ne giustifica)
l’esistenza storica. La necessità di pervenire ad un giusto equilibrio tra conservazione ed innovazione
costituzionale, i richiami ad una Costituzione mondiale o anche solo europea, dimostrano che, nello
scenario di inizio secolo e delle sovranità concrete, la Costituzione continua ad essere vista e vissuta
come momento integrante della società e principio ordinatore dei poteri e delle istituzioni.
Si scopre così che la decostituzionalizzazione non è l’unica tendenza in atto e che ad essa si
associano anche tendenze al conservatorismo (“patriottismo”) costituzionale ed alla
ipercostituzionalizzazione40; tendenze diverse e contrastanti, certamente, ma anche tendenze
che lasciano intravedere un futuro per la Costituzione e quindi per il governo democratico della
società. La democrazia, infatti, non è solo governo del popolo, ma governo del popolo entro
determinati canali, regole, procedure41.
Il ’900, secolo delle costituzioni e dei diritti, iniziato tra grandi speranze e grandi traumi, attraversato da una profonda “crisi delle ragione e da traumatiche rotture totalitarie”, si è chiuso così
tra i dubbi e le incertezze con cui la società contemporanea affronta, nell’era globale e dei poteri
non limitati, la necessità storica di muoversi verso l’avvenire senza disfarsi del passato42.
38
163.
39
Cfr. D. Grimm, Il futuro della costituzione, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (cur.), Il futuro ..., cit.,
Cfr. G. Zagrebelsky, Storia e costituzione, G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (cur.), Il futuro ..., cit., 74.
Cfr. sul punto P. Portinaro, Il grande legislatore e il custode della Costituzione, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (cur.), Il futuro ..., cit.
41
Cfr. S. Holmes, Vincoli costituzionali e paradosso della democrazia, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (cur.), Il futuro ..., cit.
42
Per uno sviluppo di queste riflessioni cfr. anche S. Gambino, M. Rizzo, Le costituzioni del ’900, in. L. López
Guerra (cur.), Estudios de derecho constitucional. Homenaje al Profesor Dr. D. Joaquín Garcóa Morillo, Valencia,
Tirant Lo Blanch, 2001.
40
124 – Libertà e diritti civili
2. – 2.1. – Dalla Costituzione weimeriana in poi, nel costituzionalismo contemporaneo43, si
evidenzia una nuova concezione del concetto di eguaglianza, che, da una parte, recupera la
tradizione classica (che ritiene intollerabili le discriminazioni fondate sulle differenze di sesso, di
religione e di razza), dall’altra introduce elementi innovativi (assumendo come intollerabili le
differenze che si fondano sul rapporto economico e sociale)44. In questa ottica, l’uguaglianza, come
si fa ben osservare, «è tale solo se comprende uguaglianza ed effettività dei diritti sociali»45; i diritti
sociali, unitamente a quelli classici di libertà, sono, dunque, assunti come “condizioni costitutive” ed
indefettibili del principio costituzionale di eguaglianza ed al contempo del valore della persona (art.
2 Cost.).
Tale concetto di eguaglianza, che valorizza le differenze personali come un momento di ricchezza, ma rende intollerabili le differenze sul piano economico-sociale, costituisce il filo conduttore del costituzionalismo del secondo dopo-guerra e di quello italiano, in particolare, sia nella
parte relativa ai princìpi fondamentali della Costituzione sia nella positivizzazione delle nuove
tutele che su tale principio si fondano, quelle che portano ad arricchire la tipologia dei diritti
fondamentali accolti e protetti costituzionalmente (dalle classiche libertà negative, a quelle
positive – i diritti sociali appunto – ed a quelle politiche ed economiche)46.
A partire dall’affermazione costituzionale del principio di eguaglianza formale e sostanziale, i
costituenti italiani hanno delineato i diritti sociali come un antecedente non discutibile, non
legato a condizioni economiche e politiche, impegnando in tal modo i pubblici poteri, ed
innanzitutto il legislatore nazionale ma anche quelli regionali, a realizzare valori e princìpi che la
Costituzione assume come indefettibili.
43
Per una bibliografia essenziale sul punto cfr. almeno L. Ferrajoli, Stato sociale e Stato di diritto, in Pol. dir.,
1982, 1; S. Bonfiglio, Lo Stato sociale in trasformazione: un problema attuale, in Il Politico, 1993, 4; P.G. Grasso,
Stato di diritto e Stato sociale nell’attuale ordinamento italiano, in Il Politico, 1961, 1; A. Cantaro, M. Degni (cur.),
Il principio federativo. Federalismo e Stato sociale, Molfetta, 1995; AA.VV. (I.S.R.-C.N.R.), Regionalismo, federalismo e welfare state, Milano, Giuffrè, 1997; C. Colapietro, La giurisprudenza costituzionale nella crisi dello Stato
sociale, Padova, CEDAM, 1996; G. Corso, I diritti sociali nella Costituzione italiana, in Riv. trim. dir. pub., 1981; A.
Massera, Individuo e amministrazione nello Stato sociale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 5; F. Modugno, La
tutela dei ‘nuovi diritti’, in AA.VV., Nuovi diritti dell’età tecnologica, Milano, Giuffrè, 1991; M. Luciani, Salute. I)
Diritto alla salute – Dir. cost., in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991; F. Trimarchi Banfi, Pubblico e privato nella sanità,
Milano, Giuffrè, 1990; A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enc. giur., XI, Roma, 1989; M. Luciani, Nuovi diritti fondamentali e nuovi rapporti fra cittadino e pubblica amministrazione, in Riv. crit. dir. priv., 1985; M. Luciani, Sui diritti
sociali, in Dem. e dir., 1994, 4 e 1995, 1; A. Anzon, L’altra “faccia” del diritto alla salute, in Giur. cost., 1979; C.
Marzuoli, Note in tema di diritti sociali, privatizzazioni, tutela, in AA.VV., Contenuto della spesa pubblica ed efficienza dell’amministrazione nella crisi dello Stato sociale: il caso della sanità, Pisa, Pacini, 1997. Da ultimo cfr. anche L. Chieffi (cur.), I diritti sociali tra regionalismo e prospettive federali, Padova, CEDAM, 1999. Nella letteratura
spagnola cfr., almeno, M.A. García Herrera (cur.), El constitucionalismo en la crisis del Estado social, Bilbao, Servicio Editorial Univesidad del Pais Vasco, 1997.
44
Nell’ampia bibliografia, sul punto cfr. almeno A. Cerri, Uguaglianza (principio costituzionale di), in Enc. Giur.
Treccani. Di recente, cfr. anche A. Saccomanno, Eguaglianza sostanziale e diritti sociali nel rapporto fra ordinamento interno ed ordinamento comunitario, in S. Gambino (cur.), Costituzione italiana e diritto comunitario, Milano,
Giuffrè, 2002.
45
Cfr. R. Greco, Diritti sociali, logiche di mercato e ruolo della Corte costituzionale, in Quest. Giust., 1994, n. 23; A. Di Giovine e M. Dogliani, Dalla democrazia emancipante alla democrazia senza qualità?, in Quest. Giust.,
1993.
46
Per una rielaborazione, più di recente, della classificazione dei diritti sociali cfr. E. Cheli, Classificazione e
protezione dei diritti economici e sociali nella Costituzione italiana, in AA.VV., Scritti in onore di L. Mengoni. Le
ragioni del diritto, Milano, Giuffrè, 1995, il quale ritiene proponibile un’articolazione nella quale si distinguono
norme programmatiche (che sono dirette ad indirizzare il legislatore futuro), norme vincolati condizionate o ad
applicazione differite e norme immediatamente vincolanti o ad applicazione immediata (1789).
Libertà e diritti civili – 125
La differenza fra le classiche libertà dello Stato liberale ed i nuovi diritti resi possibili dall’intervento dei pubblici poteri risiede essenzialmente nel fatto che, mentre i primi tutelano una sfera
dell’individuo nella quale egli può operare liberamente, i secondi – i diritti sociali – mirano ad
ottenere l’intervento delle autorità pubbliche «per soddisfare a talune esigenze essenziali dei
cittadini»47 e trovano, quindi, la propria giustificazione teorica nel «diverso concetto di liberazione
da determinate forme di privazione», avendo come scopo la realizzazione dell’eguaglianza «o più
precisamente una sintesi fra libertà ed eguaglianza, o in una parola della libertà eguale»48.
Dei diritti sociali la dottrina costituzionalistica parla inizialmente come di norme dirette a destinatari speciali, in particolare di diritti condizionati o imperfetti in quanto fondati su norme che
presuppongono l’esercizio di una discrezionalità legislativa49, benché altra autorevole dottrina
coglie, fin da subito, come tale discrezionalità del legislatore concerna non tanto il se ed il quid,
cioè il contenuto sostanziale del diritto, bensì il come ed il quomodo e comunque, come bene
osserva Mortati, «non in modo tale da comprimere il contenuto minimo necessario a non rendere
illusoria la soddisfazione dell’interesse protetto»50.
Sulla base di tale primo approccio dottrinario che, come si osserva, valorizza il profilo programmatico delle disposizioni costituzionali in materia di diritti sociali e la natura, più che
costituzionale, “legale” che li regola, la dottrina costituzionale, a partire dagli anni ’70, propone
tipologie più articolate, tra cui rileva, in particolare, quella che distingue fra diritti
sociali“condizionati” (artt. 38; 34; 32; 38, III comma; 46) e diritti sociali“incondizionati” (artt. 36,
I, II e III comma; 32, II comma; 37; 29; 30; 4): i primi presuppongono un intervento del
legislatore, del potere politico, sul quando, sul quomodo e sul se; gli altri, invece, hanno una
struttura ed una natura tale per cui non occorrono ulteriori interventi per realizzarli.
Il catalogo dei diritti sociali, come si vede, ha una sua inusuale ampiezza e sistematicità e la
relativa tutela è quella propria dei diritti costituzionali e non di quelli “legali”, benché autorevole
dottrina sottolinei come, a ben vedere, le forme giurisdizionali della relativa tutela non sono
quelle apprestate ai diritti soggettivi (con la forza propria della tutela risarcitoria nei confronti di
atti lesivi degli stessi) ma quella degli interessi legittimi, dal momento che fra il relativo esercizio e
la previsione legale opera un facere amministrativo, che coinvolge la pubblica amministrazione
con la sua supremazia speciale51.
Pur in assenza di una clausola generale sui diritti sociali (come nella LFB, art. 20), la
Costituzione italiana appare ricca di disposizioni costituzionali che toccano la materia dei diritti
sociali anche se si ha l’impressione “che la categoria del diritto sociale sia inadeguata ad
esprimere la ricchezza delle indicazioni fornite dai titolo I e II della Costituzione”52 relativamente
ai rapporti etico-sociali ed ai rapporti economici.
47
Cfr. M. Mazziotti, Diritti sociali, in Enc. dir., 805.
Cfr. A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enc. giur., 6.
49
Cfr. V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Torino, 1970; G. Lombardi, Poteri privati e
diritti fondamentali, Torino, Giappichelli, 1970. Per una recente, approfondita, discussione di tale approccio dottrinario cfr. almeno C. Salazar, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali, Torino, Giappichelli, 2000 e B.
Pezzini, La decisione su diritti sociali, Milano, Giuffrè, 2001.
50
Cfr. C. Mortati, Appunti per uno studio sui rimedi giurisdizionali conto comportamenti omissivi del legislatore,
in Foro it., 1970, V, 257.
51
Cfr. A. Pace, La garanzia dei diritti fondamentali nell’ordinamento costituzionale italiano: il ruolo del legislatore
e dei giudici “comuni”, in AA.VV., Scritti in onore di P. Barile. Nuove dimensioni nei diritti di libertà, Padova, CEDAM, 1993.
52
Cfr. G. Corso, I diritti sociali ..., cit., 757.
48
126 – Libertà e diritti civili
Unitamente al principio già ricordato dell’eguaglianza sostanziale, è il principio personalista
(art. 2 Cost.) a porsi, nella Costituzione italiana, come concetto unificante dei classici diritti di
libertà e di quelli sociali, per assicurare pienamente le stesse libertà classiche. E così, come
osserva G. Corso, i diritti sociali, “nati, in Italia, come diritti dei pochi e dei molti ma non come
diritti di tutti”, in quanto posti a superamento delle condizioni di diseguaglianza che incidono
sulla stessa pienezza del principio personalista, diventano, soprattutto, a partire dagli anni ’60/’70
– in un contesto sociale caratterizzato dalla crescita economica – diritti di tutti, con
l’universalizzazione dei servizi di protezione sociale53.
Ma, se dalla definizione teorico-costituzionale dello Stato sociale e più in particolare dall’inquadramento dei diritti sociali come diritti inviolabili del soggetto, passiamo ora a verificare il
grado di effettività degli stessi, è giocoforza constatare lo stridente contrasto tra la loro costruzione
come diritti universali ed assoluti ed il relativo, deprimente, grado di effettività.
Diverse sono le opinioni offerte per argomentare una simile situazione; esse vanno dai condizionamenti economici a quelli politici, dalle capacità del sistema giudiziario a quelle del sistema
politico. Costituisce in ogni caso un dato fattuale l’evidente contraddizione esistente tra
l’assolutezza e l’universalità dell’enunciato costituzionale ed il basso livello di effettività di tali
diritti.
L’argomento centrale, tuttavia, che tutti in qualche modo riassume, è dato dal fatto che i diritti
sociali (soprattutto: istruzione, salute, previdenza) costano e lo Stato (in Italia come altrove)
conosce seri problemi di fiscalità, che in alcune situazioni si propongono perfino come esplicita
“ribellione fiscale”54.
La questione del costo dei diritti sociali costituisce, così, un punto di vista privilegiato per lo
studio sulla struttura stessa di tali diritti. La risposta che ne dà il diritto ma soprattutto la
giurisprudenza costituzionale55 porta ad osservare come il costo dei diritti sociali non è tale da
poter incidere sulla struttura di diritti costituzionalmente garantiti. La più autorevole dottrina,
peraltro, ha bene sottolineato come il costo dei diritti costituisca un falso problema dal momento
che esso è un elemento intrinseco a tutti i diritti costituzionali, anche ai diritti classici di libertà56.
2.2. – Il tema dei diritti sociali, nel dibattito dottrinario italiano fino alla revisione del Titolo V
della Costituzione, si limita, così, soprattutto, alle funzioni svolte in tema di garanzia e di
effettività degli stessi da parte del giudice ordinario e soprattutto da parte di quello costituzionale.
Nella nuova stagione di dibattito e di analisi scientifica, l’analisi dovrà incentrarsi (come ha già
iniziato a fare) sulle problematiche costituzionali poste dall’attuazione del nuovo ordinamento
(“neoregionale” con tensione fattualmente federalistica), con particolare riferimento ai contenuti
delle novellate disposizioni di cui agli artt. 114, 116, 117 e 119 Cost. e della loro interpretazione
53
Sul punto cfr. almeno U. Allegretti, Globalizzazione e sovranità nazionale, in Dem. e dir., 1998; G. Zagrebelsky, I diritti fondamentali oggi, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1992, 1; L. Carlassare, Forma di
Stato e diritti fondamentali, in Quad. cost., 1995, 1.
54
Cfr. fra gli altri, sul punto, A. Badassarre, A. Cervati (cur.), Critica dello Stato sociale, Roma-Bari, Laterza,
1982.
55
Per un’attenta ricostruzione di tale giurisprudenza cfr. C. Colapietro, La giursprudenza costituzionale nella
crisi dello Stato sociale, Padova, CEDAM, 1996.
56
Cfr. G. Lombardi, Diritti di libertà e diritti sociali, in Pol. dir., 1999, 1, 13 [«Non sono» – come si fa osservare – «le
caratteristiche strutturali a separare i diritti di libertà dai diritti sociali ma sono le modalità di tutela a rendere diversi i meccanismi di garanzia … entrambi sono diritti individuali (come entrambi possono essere, a seconda dei
rapporti, diritti collettivi), e tanto agli uni quanto agli altri può riconoscersi una portata che non tocca solo i rapporti con l’ente pubblico ma si individua anche a livello di rapporti interprivati»].
Libertà e diritti civili – 127
che assicuri il rispetto dei princìpi fondamentali della Costituzione (con particolare riferimento al
principio di eguaglianza ed a quello personalista-solidarista). Tuttavia, nell’ottica del presente
contributo, si continuerà, ad analizzare le forme (e l’intensità) delle tutele accordate dai soggetti
costituzionali nei cui confronti ricade l’onere di attuazione dell’ordinamento (legislatore) e di
garanzia del principio di costituzionalità (giudice costituzionale).
L’intervento del giudice costituzionale nella materia dei diritti sociali è stato richiesto prevalentemente con riferimento alla violazione del principio di eguaglianza e dunque in presenza di
comportamenti omissivi da parte del legislatore.
Dopo un’iniziale prudenza, l’orientamento del giudice costituzionale si è affermato nel senso di
riconoscere rango pienamente costituzionale di diritti costituzionali ai diritti sociali, ponendo una
serie di criteri guida a cui lo stesso giudice costituzionale conforma la propria azione; essi vanno
dal riconoscimento di un principio di gradualità delle riforme legislative relative ai diritti di
prestazione (sentt. n. 173 del 1986 e n. 205 del 1995) ad un principio di costituzionalità
provvisoria di una data disciplina (sent. n. 826 del 1988), ad un principio di attuazione parziale
incostituzionale di un diritto sociale (sent. n. 215 del 1987), alla necessità di apprezzamento,
infine, dei limiti finanziari posti dal bilancio e dalla necessaria considerazione della discrezionalità
del legislatore circa la definizione del quantum delle prestazioni sociali che la Corte deve
comunque valutare secondo un necessario parametro di ragionevolezza (sentt. 180 del 1982 e
455 del 1990 in tema di prestazioni sanitarie). Come si può vedere, lo sforzo della Corte
costituzionale a dare affettività ai diritti sociali, pur accompagnandosi con il riconoscimento della
necessaria gradualità delle scelte legislative, porta ad assicurare l’effettività dei diritti sociali,
riconoscendoli come “diritti perfetti” ed assicurandone una protezione immediata pur in quelle
ipotesi in cui difettasse ancora un intervento protettivo del legislatore.
Lo strumento elettivo da parte dei giudici costituzionali per assicurare tale effettività è dato dal
ricorso a tipologie innovative di sentenze costituzionali, come, in particolare, per quanto
concerne la presente analisi, le sentenze c.d. “additive (di prestazione e di principio)”, mediante
le quali, il giudice costituzionale, pur in assenza di una disciplina legislativa specifica, assicura
protezione a taluni diritti sociali, come è avvenuto in particolare in materia di assistenza e di
previdenza sociale, allorché la Corte ha applicato più volte l’art. 38 Cost. nel dichiarare
l’illegittimità costituzionale di quelle leggi che precludevano in modo ingiustificato l’estensione a
tutte le categorie di soggetti la possibilità di avvalersi dei servizi previdenziali ed assistenziali
riconosciuti dal legislatore solo a limitate categorie di soggetti.
Per la Corte, dunque, anche i diritti sociali, ed a fortiori quelli a prestazione positiva legislativamente condizionati, assurgono, al pari degli altri diritti fondamentali, al rango di «diritti
inviolabili e irretrattabili della persona, in quanto espressione di valori o principi costituzionali
supremi»57.
In breve, ad un’indagine sistematica, di cui qui possono prodursi le sole conclusioni, si deve
dire che la giurisprudenza della Corte costituzionale evidenzia come ai diritti sociali venga
assicurata una protezione costituzionale pienamente comparabile a quella assicurata ai diritti
fondamentali; in quanto tali, dunque, anche i diritti sociali sono irrinunciabili, inalienabili,
indisponibili, intrasmissibili, inviolabili. Ciò non toglie, tuttavia, che l’immediata operatività di
tali diritti, come diritti dei soggetti a prestazioni pubbliche – anche di quelli che richiedono
«prestazioni positive per l’ottenimento delle quali occorrono leggi e concreti istituti am57
È il caso appunto della tutela della salute (sentt. 1011 del 1998, 294 e 184 del 1986 e 88 del 1979), del diritto alla casa (sent. 19 del 1994, 404 e 217 del 1988), del diritto al lavoro (sent. 108 del 1994 e 232 del 1989). Cfr.
anche F. Modugno, “I ‘nuovi diritti’ nella ..., cit., p. 66.
128 – Libertà e diritti civili
ministrativi che le rendano applicabili» – possa e debba «essere accertata caso per caso, senza
confondere ciò che è possibile in virtù della sola efficacia normativa della Costituzione con ciò
che è storicamente possibile», a seguito di leggi o regolamenti che abbiano assicurato una data
disciplina della materia58.
La tecnica del bilanciamento fra gli interessi costituzionalmente protetti – fra cui rileva lo stesso
limite dell’equilibrio finanziario ai sensi dell’art. 81 Cost. – cui la Corte deve ricorrere per
assicurare una simile effettualità dei diritti sociali non è evidentemente scevra da incertezze ed
equivocità, risentendo «delle condizioni politico-economiche del momento»59. Come si fa ben
osservare in dottrina, quando è applicata ai diritti fondamentali e più in generale al diritto
costituzionale, tale tecnica «rischia di compromettere ogni significato della Costituzione: in
termini di prevalenza gerarchica del sistema delle fonti, in termini di decisione o accordo
fondamentale politico-istituzionale, in termini di garanzia stabile per gli individui e sotto ogni
profilo legato ad un ordinamento sociale che si è dotato di una legge fondamentale scritta»60.
Le conclusioni che si possono trarre da una simile ricostruzione delle tecniche utilizzate e dell’evoluzione seguita dalla Corte costituzionale nell’assicurare effettività ai diritti sociali ci portano
ad osservare come l’utilizzazione di una serie di criteri guida da pare dei giudici costituzionali è
tale da rendere in qualche modo mutevole ed instabile il grado di effettività assicurato a tali
diritti. Le tecniche di bilanciamento fra interessi egualmente meritevoli di tutela portano, infatti, il
giudice costituzionale a dover operare una comparazione continua fra diversi princìpi e valori
costituzionali e ciò sulla base dell’assunto che il principio della ponderazione o del bilanciamento
fra beni costituzionali rappresenta il parametro in base al quale devono essere determinati i limiti
ed il contenuto dei diritti fondamentali e tramite il quale vengono risolti i conflitti che possono
insorgere tra beni costituzionalmente contigui. Una prospettiva – quest’ultima – che porta a
cogliere la Corte costituzionale come legislatore negativo, le cui ambiguità tuttora preoccupano la
più attenta dottrina in Italia, come più in generale la dottrina costituzionale, quando si pone
l’interrogativo sul quis custodiet custodes.
Qualche ultima considerazione può proporsi prima di concludere su questo punto. Ci si deve
cioè chiedere se, a fronte dell’evoluzione registrata dallo Stato contemporaneo, con le molte crisi
che lo riguardano, la ricostruzione dottrinaria e giuriprudenziale in materia di tutela dei diritti
sociali – sia pure misurata e “mite”61 – sia capace di assicurare un’irreversibilità allo statuto
58
Cfr. A. Pace, La garanzia dei diritti fondamentali nell’ordinamento costituzionale italiano: il ruolo del legislatore
e dei giudici ‘comuni’, in AA.VV., Scritti in onore di P. Barile. Nuove dimensioni nei diritti di libertà, Padova, CEDAM, 1986, 61 ss.
59
Cfr. R. Greco, Diritti sociali ..., cit., 261.
60
Cfr. R. Bin, Diritti e argomenti, Milano, Giuffrè, 1993, 154.
61
Cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, nel quale sono approfondite le problematiche poste
dalla “trasformazione della sovranità” nell’evoluzione dal modello statuale originario, come “Stato di diritto”, a quello
contemporaneo, come “Stato costituzionale”. In esso l’Autore sottolinea i connotati necessari della “coesistenza” e del
“compromesso” come «condizione delle costituzioni democratiche nel tempo del pluralismo»; essi esprimono, al contempo, la consapevolezza della necessità metodologica e teorica di una “mitezza costituzionale”, con il superamento
della rigida dogmatica tradizionale a favore di una dogmatica giuridica “liquida”, “fluida”, che «possa abbracciare le
componenti del diritto costituzionale della nostra epoca, per quanto esse siano eterogenee, comprendendole in una
costruzione necessariamente non rigida, in modo da consentire le combinazioni che deriveranno non più dal diritto
costituzionale ma dalla politica costituzionale ... L’unico contenuto ”solido” che la scienza di una Costituzione pluralista dovrebbe difendere ... è quello della pluralità dei valori e dei princìpi. L’unico valore “semplice” è quello del contemperamento necessario e l’unico contenuto costituzionale che non si presta ad essere “integrato” in altri più comprensivi ... è quello della necessaria coesistenza dei contenuti ... Potrà essere una conclusione che non soddisfa le
esigenze di chiarezza, purezza, coerenza del pensiero, ma la convivenza umana non è affare di puro pensiero».
Libertà e diritti civili – 129
costituzionale di tali diritti o se piuttosto, come una parte del pensiero politico e sociologico
assume, non bisogna piuttosto pensare a tali diritti come mere “opportunità” esercitabili in
condizioni di compatibilità con le esigenze del sistema economico e fiscale.
Alla questione della “reversibilità” dello Stato sociale si è risposto, fin qui, in modo
differenziato, anche in ragione dei diversi approcci culturali e scientifici della questione.
In un atteggiamento moderatamente ottimista, da parte di alcuni (soprattutto giudici e
costituzionalisti) si assegna alla Corte costituzionale la funzione di presidio contro ogni
arretramento dello Stato sociale verso forme tradizionali di tipo liberali, sottolineandosi che
«spetta alla Corte ribadire che non tutto può essere regolato dal mercato e che affermare un
diritto sociale come diritto fondamentale della persona è cosa diversa dall’affermare il diritto del
singolo ad acquistare sul mercato, secondo le proprie possibilità, quote di prestazioni sociali
(salute, istruzione, pensioni, ecc.) ... giacché questa specie di welfare individuale, proposto come
conquista di libertà, si trasformerebbe inevitabilmente in una sorta di “democrazia censitaria”»62.
A tale orientamento, che è, nel fondo, ottimistico sulle chances e sulle prospettive future dello
Stato sociale, si obietta – con atteggiamento cui non manca certo né realismo né pessimismo –
che «è difficile negare, almeno sul piano teorico, che le critiche più serie rivolte contro lo Stato
sociale sono motivate proprio dalla sua incapacità di produrre eguaglianza nonostante
l’eccezionale volume di risorse che formalmente destina a questo fine»63.
A tale affermazione si ricollega un convincimento secondo cui, a partire dalla
considerazione per cui «i diritti sociali, così come sono stati concepiti e si sono affermati entro
il welfare state keynesiano e beveridgeano, debbono essere piuttosto qualificati come delle
conditional opportunities»64, si oppone la necessità di un più corretto inquadramento teorico
dei diritti sociali che deve portare a prendere atto come solo «un “reddito di cittadinanza”
corrisposto a tutti i cittadini indipendentemente dalle condizioni economiche e
dall’occupazione potrebbe avvicinarsi alla figura del diritto sociale in senso più rigoroso, per
quanto alcuni autori segnalino i latenti rischi assistenzialistici e paternalistici di questo istituto
ed altri ne mettano in dubbio l’efficacia redistributiva»65.
A fronte di tale degradazione pessimistica dei diritti sociali all’ottica della mera natura di
“servizi sociali” discrezionalmente offerti dal sistema politico per esigenze di integrazione, si
replica correttamente che, pur a fronte della perfettibilità delle tecniche di garanzia dei diritti
sociali, non può disconoscersi correttamente il loro riconoscimento come diritti66.
Il tema dell’effettività dei diritti, cioè, ritorna ad essere consegnato – nella necessaria considerazione della “mitezza” del diritto – a quegli attori istituzionali cui, in assenza o a fronte delle inadempienze o violazioni da parte del legislatore ordinario (e regionale), si assegna la responsabilità
di far vivere la Costituzione e con essa i princìpi che la innervano, dei quali i diritti sociali
costituiscono appunto una delle più significative modalità di perseguimento del progetto
costituzionale dell’eguagliamento dei soggetti e della tutela della persona da parte dei pubblici
poteri.
62
Cfr. R. Greco, Diritti sociali ..., cit., 276.
Cfr. D. Zolo (cur.), La cittadinanza, Roma-Bari, Laterza, 1994, 29 ss.
64
Cfr. D. Zolo, op. cit., 29.
65
Ibidem, 31.
66
Cfr. L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo (cur.), La cittadinanza ..., cit., 279
(«più in generale, la qualificazione costituzionale di queste aspettative come “diritti” equivale, oltre che all’obbligo
costituzionale del legislatore di riempire le lacune di garanzia con interventi normativi e politiche di spesa finalizzate alla loro soddisfazione, alla stipulazione di altrettante direttive dotate di rilevanza decisive nell’autorità interpretativa della giurisprudenza ordinaria e soprattutto in quella delle supreme corti»).
63
130 – Libertà e diritti civili
Rimane indubbiamente aperta la questione sul carattere universale o meno dei diritti sociali;
una questione che, indubbiamente, occorre riprendere nel prossimo punto con riferimento
particolare alla questione della distribuzione territoriale delle competenze e delle eventuali
violazioni del principio di eguaglianza.
3. – Preliminarmente deve sottolinearsi come l’indagine costituzionale dal punto di vista
comparatistico delle esperienze statuali di decentramento politico pare mettere in questione la
stessa possibilità di utilizzazione delle categorie tipologiche utilizzate dalla dottrina in ragione
della scarsa capacità ermeneutica delle stesse a fronte delle declinazioni nazionali dei modelli di
Stato analizzati (Stato federale, Stato regionale, ecc.)67.
Il tema su cui occorre soffermarsi riguarda i rapporti esistenti fra modelli di decentramento politico (federalismo/regionalismo competitivo vs. federalismo/regionalismo cooperativo) e princìpi
fondamentali posti a base degli Stati costituzionali contemporanei. Il profilo che risulterà
illuminato da tale indagine appare quello relativo ai rapporti fra decentramento politico e
problematiche costituzionali poste dalla compatibilità dell’esercizio dei poteri pubblici ai diversi
livelli territoriali con i princìpi costituzionalmente posti a fondamento dello Stato costituzionale
contemporaneo, nel loro porre il principio di eguaglianza formale e sostanziale (art. 3, commi I e
II, Cost.) ed il principio personalista (art. 2 Cost.) come fondamentali per l’intero ordinamento (la
repubblica), estendendosi come limite, nella relativa estrinsecazione dei poteri, alle autonomie
territoriali (ma anche a quelle politiche e alle formazioni sociali).
3.1. – In tale ottica, il principio di uguaglianza – come è stato bene sottolineato di recente, per
l’esperienza costituzionale spagnola –, oltre a costituire un diritto fondamentale dei cittadini,
costituisce «un principio di articolazione dello Stato autonomico, senza il cui rispetto non sarebbe
possibile l’esistenza dello Stato costituzionale»68. Una volta assunta la centralità di tale principio
come costitutivo dello Stato democratico, si tratta, cioè, di cogliere quanto dell’essenzialità di tale
diritto possa rendersi disponibile alle esigenze costituzionali poste dal principio di autonomia
politico-territoriale (e alle relative esigenze di differenziazione), con la connessa titolarità da parte
delle Comunità Autonome della potestà di dotarsi di un indirizzo politico-legislativo proprio, pur nel
rispetto dei princìpi di unità nazionale e della legislazione di principio posta con legge dello Stato,
“in armonia” con la Costituzione, come sancisce, di recente, lo stesso legislatore italiano di revisione
costituzionale.
Le esigenze poste, in particolare, dal carattere inviolabile ed inderogabile dei diritti
fondamentali – e fra questi dei diritti sociali, in accordo con la prevalente dottrina costituzionale
nonché con gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale – pongono in rilievo, dunque,
per un verso, il limite dell’eguaglianza quale principio di articolazione dello Stato e, per altro, la
problematica connessa al diritto all’autonomia politica riconosciuta alle Comunità Autonome e,
dunque, la possibilità di darsi un proprio indirizzo politico. In ciò assume una speciale rilevanza il
diverso grado di decentramento conosciuto dai livelli di governo territoriali accolti nelle rispettive
forme di Stato, e, quindi, nell’articolazione territoriale del sistema dei poteri pubblici.
Sotto tale profilo, lo Stato delle autonomie spagnolo, a partire dalle asimmetrie sul piano delle
competenze, offre un paradigmatico modello della loro tensione, riconducibile al bilanciamento
67
Sul punto cfr. anche S. Gambino (cur.), Stati nazionali e poteri locali, Rimini, Maggioli, 1998.
Cfr. J. García Morillo, Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza: il caso spagnolo, in S. Gambino
(cur.), Stati nazionali e poteri locali, Rimini, Maggioli, 1998, 103.
68
Libertà e diritti civili – 131
tra valori, princìpi e diritti costituzionali e, nel caso di specie, alla relazione tra autonomia,
eguaglianza e solidarietà.
In tal senso, si può osservare come il costituente spagnolo, analogamente a quello italiano, ha
espressamente riconosciuto il principio ed il diritto all’eguaglianza in più disposizioni
costituzionali. Tuttavia, a prescindere dalla struttura statale, se si considerano le differenziate
condizioni materiali delle autonomie territoriali, la tensione tra eguaglianza ed autonomia non si
esaurisce nella sua mera accezione formale; cioè, «il diritto all’autonomia conduce
necessariamente ad una differente posizione giuridica dei cittadini di fronte alla legge a seconda
della Comunità Autonoma in cui gli stessi risiedono e, pertanto, ciò induce diseguaglianze formali
tra i cittadini»69, peraltro accentuate dall’asimmetria esistente nel modello delle autonomie a
“geometria variabile”70.
Nell’esperienza spagnola, come è stato sottolineato, una prima forma di disuguaglianza attiene
all’asimmetria tra le Comunità Autonome quale risultato delle scelte politico-organizzative,
benché, concretizzandosi sul solo piano delle competenze, la relativa titolarità non si esplichi
necessariamente nell’esercizio delle competenze e, pertanto, non si riflette direttamente sul
cittadino. In altri termini, se il soggetto titolare, ad es., in materia d’istruzione o di salute è lo Stato
o la Comunità Autonoma, ciò non implica, necessariamente, che le risorse assegnate a tali
finalità, o la stessa potestà normativa, siano necessariamente differenziate tra le diverse regioni.
Altro è, invece, qualora alle competenze si accompagni un differenziato modello di
finanziamento o l’esercizio di una concreta potestà legislativa.
Tale principio di eguaglianza interterritoriale, configurato sul piano teorico come elemento
strutturale dell’assetto territoriale statale, è suffragato dalla giurisprudenza del Tribunale
costituzionale, allorquando lo qualifica come principio che vincola «tutti i poteri pubblici
nell’esercizio delle rispettive competenze» (sent. n. 150/1990). D’altra parte, lo stesso giudice
costituzionale, nell’avvertire le esigenze poste dal principio autonomistico, segnala come «il
principio costituzionale dell’eguaglianza non imponga che tutte le Comunità Autonome
assumano le stesse competenze, né, tanto meno, che debbano esercitarle in modi e con
contenuti e risultati identici e somiglianti» (sent. n. 37/1987, poi ribadita nella sent. n. 186 del
1993), sottolinea, altresì, che «… (le diverse disposizioni relative all’eguaglianza) assicurano, con
diverse tecniche, una data uniformità normativa su tutto il territorio nazionale, preservando, così,
anche una posizione eguale o comune di tutti gli spagnoli, al di là delle differenze di regime
giuridico che appaiono irrinunciabilmente connesse all’esercizio dell’autonomia …» (sent.
319/1993).
Da altra prospettiva, inoltre, bisogna ricordare come l’asimmetria implichi l’esistenza di diversi
livelli di competenze materiali che si traducono in differenti necessità di finanziamento. Se si
assumono posizioni costituzionalmente eguali che si vogliono effettive – e non potrebbe essere
altrimenti – ciò obbliga a configurare un sistema di finanziamento uniforme che s’informi a
princìpi e a valori costituzionali quali l’eguaglianza dei diritti e dei doveri dei cittadini, l’unità del
mercato e del sistema tributario ed un equilibrio economico-territoriale solidale, posti come
limite e garanzia dell’effettività dei diritti. In tal senso, il Tribunale costituzionale (nella sent. n.
19/1987) afferma il carattere dell’omogeneità e dell’unità del sistema tributario su tutto il
territorio nazionale quale «ineludibile esigenza di eguaglianza di tutti gli spagnoli. Se così non
fosse, l’identità delle condizioni fondamentali di esercizio dei diritti dei cittadini, a prescindere
69
Ibidem, 103.
Cfr. L. López Guerra, El modelo autonomico come modelo variable, in AA.VV., El Estado de las autonomias,
Madrid, Civitas, 1991.
70
132 – Libertà e diritti civili
dal luogo di residenza, risulterebbe pregiudicata, finendo, pertanto, con l’incidere sulla posizione
costituzionale delle autonomie territoriali e degli stessi cittadini.
L’esperienza spagnola, dunque, sottolinea come l’asimmetria nella distribuzione territoriale
delle competenze, nel tempo e nello spazio, fra le Comunità Autonome (disuguaglianza
materiale), coinvolga la stessa prospettiva dell’eguaglianza formale, creando “diverse posizioni
giuridiche tra i cittadini dinanzi alla legge».
Il principio di autonomia politica e quello di eguaglianza, pertanto, appaiono in concorrenza e
ciò tanto più quanto maggiormente appare l’asimmetria delle competenze fra Comunità
Autonome, favorendo, in tal modo, una forma di regionalismo concorrenziale, che è – nei fatti –
federalismo, come sottolinea la prevalente dottrina spagnola.
Tale affermazione deve, tuttavia, accompagnarsi con il rilievo secondo cui le Comunità Autonome, nel loro esercizio del principio dispositivo (artt. 143 e 151 CE), hanno conseguito tutte le
competenze, limitandosi, pertanto, le problematiche dell’asimmetria, nella fase attuale, se non
proprio esclusivamente, soprattutto, all’esperienza registrata in tema di fiscalità pubblica.
Le esigenze poste, in particolare, dal carattere fondamentale (inviolabile ed inderogabile) dei diritti fondamentali (e fra questi dei diritti sociali, in accordo con la prevalente dottrina costituzionale
e gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale), portano, sotto tale profilo, a sottolineare che
la diversità nella distribuzione territoriale dei poteri (asimmetria competenziale), nello Stato costituzionale spagnolo, conosce il limite dell’eguaglianza, talché nessuna diversità (pure prevedibile e/o
anche astrattamente ipotizzabile) pare giustificare la compressione (se non il vero e proprio sacrificio)
dell’eguaglianza “in ciò che è sostanziale”. Tema – quest’ultimo – che è qui solo richiamato,
rinviando per il suo approfondimento all’indagine ricostruttiva degli orientamenti seguiti dal giudice
delle leggi nel sindacato della discrezionalità del legislatore, alla ricerca dei parametri e degli
standard relativi alle componenti essenziali dei diritti fondamentali, come è noto, indisponibili allo
stesso.
Ciò significa, dunque, che il diritto alla differenziazione, che è proprio del modello della distribuzione territoriale dei poteri, in base al quale la posizione giuridica dei soggetti può essere diversa nelle varie Comunità Autonome, non può estendersi all’ambito dei diritti in ciò che degli
stessi è sostanziale, nonché degli stessi doveri costituzionali.
In tale ambito, come è stato bene sottolineato da García Morillo, «l’uguaglianza deve essere
assoluta; non vi può essere differenziazione nel godimento dei diritti fondamentali o
nell’adempimento dei doveri costituzionali»71.
Pur se mediante formule costituzionali differenziate, nella disciplina dei diritti e soprattutto di
quelli sociali, l’esperienza costituzionale spagnola, sotto tale profilo, si caratterizza per la
sottrazione ai diversi livelli territoriali (Comunità Autonome) della materia dei diritti fondamentali
(in quanto elemento costitutivo fondamentale dello Stato democratico e sociale nonché del
relativo statuto della cittadinanza) e di quella connessa alla garanzia delle «condizioni di base che
garantiscono l’uguaglianza» di tutti i cittadini, opponendo, in tal modo, limiti costituzionali ad
ogni disuguaglianza di fatto originabile in ragione dell’appartenenza territoriale. A tali princìpi
rispondono, come è noto, le disposizioni costituzionali spagnole, che assegnano alla competenza
statale la «disciplina delle condizioni di base che garantiscono l’uguaglianza di tutti gli spagnoli
nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento dei doveri costituzionali» (art. 149.1.1 CE).
71
Cfr. J. Garcia Morillo, Autonomia, asimmetria ..., cit., 107.
Libertà e diritti civili – 133
3.2. – Altri punti di vista sono egualmente meritevoli di considerazione nell’affrontare il
binomio diritti sociali/federalismo. Uno è certamente dato da quello che porta ad interrogarsi (in
Italia ma più in generale negli Stati sociali contemporanei), dall’ottica dei diritti sociali e della loro
effettività, se la forma federale dello Stato come modello di organizzazione territoriale dei poteri
non appaia maggiormente stabile, efficiente e solida nella garanzia e nella qualità degli stessi72,
pur osservandosi come, dal punto di vista storico, l’affermazione del Welfare State ha evidenziato
nell’accentramento statale una migliore garanzia della stabilità e della universalizzazione delle
prestazioni sociali (salute, istruzione, previdenza, assistenza).
La risposta che ne offre la dottrina costituzionale si accompagna alla preoccupazione se non
perfino ad un esplicito scetticismo quando la questione riguardi l’adeguatezza o meno del federalismo a salvaguardare il Welfare State; meno dubbi si pongono invece quando la questione concerne più direttamente la soluzione federalistica come spinta alla razionalizzazione/modernizzazione amministrativa e, più in generale, come modalità e tecnica di avvicinamento
della funzione pubblica ai suoi destinatari, nell’ottica propria del principio di sussidiarietà73.
L’analisi delle relazioni esistenti fra forma di Stato (federale e/o regionale) e diritti sociali rileva,
così, soprattutto per le problematiche costituzionali relative all’eguaglianza delle condizioni di vita
fra i cittadini che concretizzano lo statuto della cittadinanza (secondo una formula di orgine
anglosassone accolta ormai nella stessa ricerca costituzionale).
Pur se mediante formule costituzionali differenziate, nella disciplina dei diritti sociali (per
clausole generale, come nel caso tedesco, oppure per positivizzazione costituzionale delle
relative tutele, come nel caso italiano e spagnolo), le esperienze costituzionali ora richiamate,
sotto tale profilo, – ancorché relative a forme di Stato tipologicamente differenziate (nella natura
e nel grado) – sottraggono ai diversi livelli territoriali (länder, comunità autonome, regioni, ecc.) la
materia dei diritti fondamentali (in quanto elemento costitutivo fondamentale dello statuto della
cittadinanza) e quella connessa alla garanzia delle “condizioni di base che garantiscono
l’eguaglianza” di tutti i cittadini, opponendo, in tal modo, limiti costituzionali ad ogni
diseguaglianza di fatto originabile dall’appartenenza territoriale.
A tali princìpi rispondono le disposizioni costituzionali della LFB (art. 72) quando sanciscono
la competenza della Federazione ogni qualvolta sia necessario “creare” condizioni di vita
equivalenti nel territorio federale e l’art. 149.1.1 della Costituzione spagnola, che riconosce
alla competenza statale la «disciplina delle condizioni di base che garantiscano l’uguaglianza di
tutti gli spagnoli nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento dei doveri costituzionali».
L’ordinamento costituzionale italiano, nella sua recente revisione costituzionale che ha
previsto, fra l’altro, sia una riformulazione degli ambiti della potestà concorrente e residuale delle
regioni a statuto ordinario (art. 117, soprattutto c. 4) sia forme di regionalismo asimmetriche
(nelle forme dell’art. 116, c. 3), si è preoccupato di disciplinare (art. 117, c. 2, lett. m) la
competenza esclusiva in capo allo Stato di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Tale
disposizione non può che limitare la potestà legislativa (esclusiva, concorrente ma anche quella
residuale delle regioni ordinarie) nel suo concreto esercizio al rispetto dei limiti positivizzati al c.
1 dell’art. 117. Se le novellate disposizioni costituzionali in materia dischiudono esplicitamente
72
Sul punto cfr. in particolare l’analisi di L.M. Diez Picazo, Diritti sociali e federalismo, in Pol. dir., 1999, 1 e
dello stesso Federalismo, regionalismo e welfare state, in Il Mulino, 1996, n. 368, 1120 ss., nonché Federalismo,
regionalismo e welfare state: profili comparati, in AA.VV., Regionalismo, Federalismo e welfare state, Roma, Editori
riuniti, 1997.
73
Cfr. L.M. Diez Picazo, Federalismo, regionalismo ..., cit., 1129.
134 – Libertà e diritti civili
anche alle regioni il campo dei diritti, nella stessa materia dei diritti sociali, deve tuttavia
assumersi, in accordo con autorevole dottrina74, che allo Stato deve riconoscersi una
«competenza idonea a spingersi anche oltre la soglia (pur se incertamente tracciata) dei
“princìpi”: la funzione o lo scopo (di garanzia del bene dell’unità) giustificano il mezzo, che qui
bene potrebbe, in tesi, concretarsi anche in regole (e non soltanto in princìpi), sempre che –
beninteso – ne sia documentata la necessità ed idoneità al fine, nonché la congruità rispetto al
“fatto” (e, dunque, riassuntivamente, la “ragionevolezza”)75».
L’analisi della giurisprudenza della Corte costituzionale italiana conferma pienamente tale
assunto. L’indirizzo dell’Alta Corte è chiaro, risalente e ribadito nel tempo76. Già a partire dai
primi anni ‘70 (pronunciandosi sulla legittimità costituzionale di una legge della Regione Sicilia),
la Corte costituzionale aveva avuto modo di sancire che «il principio di eguaglianza sancito
dall’art. 3 Cost. consente al legislatore ordinario di dettare norme differenziate per disciplinare
situazioni ritenute obiettivamente e ragionevolmente diverse»77. Tale giurisprudenza viene estesa
dall’Alta Corte per affermare la riferibilità del principio di eguaglianza anche ad associazioni,
gruppi e persone giuridiche78. In questa direzione, con sua sentenza n. 87 del 1992, la Corte
costituzionale estende la riferibilità del principio di eguaglianza anche alla normativa statale
concenente le regioni, ritenendo censurabili in tal modo leggi che, senza base costituzionale,
introducano differenze fra regioni e regioni79.
L’eguaglianza può, ovviamente, convivere con forme di organizzazione statali che prevedano
asimmetrie e differenziazioni nelle forme di governo e nella distribuzione territoriale delle competenze. È appunto, in Italia, il caso della previsione costituzionale, accanto alle regioni a statuto
ordinario, di regioni a statuto speciale (cinque), il cui statuto, come si ricorda, è approvato con
legge costituzionale, nonché del regime differenziale introdotto con il nuovo art. 116, c. 3, Cost.
Questo ripropone, anche per l’Italia, la questione del divieto di ogni discriminazione fra soggetti
in ragione della loro appartenenza territoriale, fatte comunque salve le garanzie costituzionali
assicurate alle minoranze linguistiche (art. 6 Cost.).
Una (non più) recente sentenza della Corte costituzionale (n. 109 del 1993)80 potrà molto
utilmente guidare questa analisi relativamente alla trattazione dei profili relativi ai rapporti fra gli
ambiti delle competenze materiali assegnate alle regioni (nel caso di specie relative alla
competenza sia di tipo esclusivo che di tipo concorrente delle Province autonome, secondo le
74
Così A. Ruggeri, Neoregionalismo e tecniche di regolazione dei diritti sociali, in Dir. e soc., 2001, n. 2.
Ult. op. cit., 204.
76
Sentt. Corte cost. nn. 11 del 1969; 2 del 1972; 243 del 1974; 243 del 1985; 192 del 1987; 31 del 1983;
219 del 1984; 114 del 1985; 165 del 1986; 210 e 433 del 1987; 532, 633, 1000, 1133 del 1988; 234, 447,
623, 829, 924, 1066 del 1988; 372 del 1989; 49 del 1991; 75 del 1992; 3 del 1991. In dottrina, cfr. S. Bartole,
In tema di rapporti fra legislazione regionale e principio di eguaglianza, in Giur. cost., 1967, 670; A. Cerri,
L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, Giuffrè, 1976, 67; F. Sorrentino, Considerazioni su riserva di legge, principio di eguaglianza ed autonomia regionale nella giurisprudenza costituzionale, in M.
Occhiocupo (cur.), La Corte costituzionale fra norma giuridica e realtà sociale, Bologna, il Mulino, 1978, 471; A.
D’Atena, Regioni, eguaglianza e coerenza dell’ordinamento, in Giur. cost., 1978, I, 1255.
77
Cfr. sent. Corte cost. n. 57 del 1967 sulla quale cfr. anche la Nota a cura di S. Bartole, In tema di rapporti fra
legislazione regionale e principio costituzionale di eguaglianza, in Giur. cost., 1967, 669.
78
Sentt. Corte cost. nn. 40 del 1965; 25 del 1966; 2 del 1969; 15 del 1975; 68 del 1980; 975 del 1988; 11
del 1969; 2 del 1972; 243 del 1974; 243 del 1985; 64 del 1987; 961 del 1988; 407 del 1989; 381 del 1990;
192 del 1987; 482 e 483 del 1991; 242 e 243 del 1985.
79
In dottrina cfr. almeno L. Paladin, Un caso estremo di applicazione del principio di eguaglianza, in Giur. cost.,
1965, 620 e A. Reposo, Eguaglianza costituzionale e persone giuridiche, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 360.
80
In Giur. cost., 1993, 873 ss. con note di A. Anzon, L’additiva “di principio” nei giudizi in via principale e di M.
Ainis, L’eccezione e la sua regola.
75
Libertà e diritti civili – 135
previsioni dello Statuto speciale per il Trentino Alto Adige nella materia economica: artigianato,
turismo, agricoltura e foreste, formazione professionale) e l’intervento pubblico (governativo) in
campo economico, finalizzato ad assicurare (nella fattispecie mediante “azioni positive” destinate
a favorire l’imprenditoria femminile) l’effettività di un principio costituzionale, quale quello
stabilito dall’art. 3 Cost, consistente appunto nel superamento della discriminazione fattuale in
ragione della condizione sessuale.
La sentenza pare a noi centrale ai fini della presente analisi relativa, corrispettivamente, al ruolo
dello Stato e delle regioni in tema di effettività dei diritti. Per il giudice delle leggi italiano, nessun
dubbio deve esistere circa la conformità a Costituzione della legge statale (l. n. 215 del 1992, di
disciplina delle «Azioni positive per l’imprenditoria femminile») contenendosi in tale legge un’illegittimità nella sola parte «in cui non prevede un meccanismo di cooperazione fra Stato, Regione
e Provincia Autonoma in relazione all’esercizio del potere del Ministro dell’Industria, Commercio
e Artigianato, concernente la concessione delle agevolazioni alle imprese condotte da donne»,
allorquando queste ultime operino nell’ambito dei settori materiali affidati alle competenze delle
regioni e delle province autonome. Una sentenza, come si vede, di illegittimità costituzionale
parziale della legge, nella quale, tuttavia, la Corte ha modo di riaffermare, in sede di motivazione,
la questione centrale della indefettibile funzione statale a tutela dei soggetti deboli, nella
fattispecie individuata nella disciplina di “azioni positive” dirette a superare il rischio che diversità
di carattere naturale o biologico si tasformino arbitrariamente in discriminazioni di destino
sociale. A tal fine, l’adozione di un trattamento di favore nei confronti delle donne (imprenditrici)
viene motivata dalla Corte costituzionale sulla base della ragionevolezza della scelta legislativa a
favore di soggetti – le donne – che hanno subìto in passato discriminazioni di ordine sociale e
culturale e sono tuttora soggette al pericolo di analoghe discriminazioni.
Come argomenta la Corte, si tratta, più precisamente, «di interventi di carattere positivo diretti
a colmare o comunque ad attenuare un evidente squilibrio a sfavore delle donne, che a causa di
discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata, per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile nell’occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente di azienda» (sent. Corte cost. 109 del
1993).
La questione che è oggetto della nostra analisi viene esplicitamente affrontata e risolta dal
giudice delle leggi italiano quando, nella sentenza in esame, sottolinea come l’esercizio del
potere statale di concedere agevolazioni alle imprese a prevalente conduzione femminile trova la
sua giustificazione nella «necessità di assicurare condizioni di uniformità su tutto il territorio
nazionale»81 in ordine all’attuazione di un valore costituzionale primario, come la realizzazione
dell’eguaglianza effettiva delle donne e degli uomini nel campo dell’imprenditoria.
Trattandosi, così, di misure (“azioni positive”) dirette a superare condizioni di diseguaglianza fra
soggetti (discriminazioni in ragione del sesso), esse «comportano l’adozione di discipline
giuridiche differenziate a favore della categorie sociali svantaggiate, anche in deroga al generale
principio di parità formale di trattamento, stabilito nell’art. 3 Cost.». Tali differenziazioni esigono
che «la loro attuazione non possa subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree
geografiche e politiche del paese»82. Infatti, se ne fosse messa in pericolo l’applicazione uniforme
su tutto il territorio nazionale, il rischio che le “azioni positive” si trasformino in fattori aggiuntivi
di disparità di trattamento non più giustificate dall’imperativo costituzionale di riequilibrare
81
82
Il corsivo è nostro.
Il corsivo è nostro.
136 – Libertà e diritti civili
posizioni di svantaggio sociale legate alla condizione personale dell’essere donna sarebbe di tutta
evidenza (sent. Corte cost. 109 del 1993).
L’indirizzo giurisprudenziale ora richiamato relativamente alle c.d. azioni positive in rapporto al
principio di eguaglianza e di autonomia conferma una giurisprudenza costante nella quale la
Corte esclude o limita le competenze regionali (sia delle regioni ordinarie che di quelle speciali)
ogni qualvolta queste vengano ad incidere su interessi o diritti fondamentali83.
La tecnica seguita nella sentenza – come si è osservato in via generale per le modalità seguite
dalla Corte costituzionale per assicurare, con gradualità e ragionevoli bilanciamenti fra princìpi e
valori costituzionali, i diritti sociali – è quella della sentenza c.d. “additiva di principio“ nei giudizi
in via principale. Secondo tale orientamento giurisprudenziale l’attuazione di valori costituzionali
primari, come nella fattispecie richiamata la “pari dignità sociale”, compete allo Stato, ancorché il
suo concreto esercizio – soprattutto con riferimento alle regioni speciali –, interferendo con lo
svolgimento delle competenze regionali, deve coniugarsi con adeguati strumenti di
collaborazione fra autorità statali e autorità regionali.
Questo costituisce una conferma di quanto già si è osservato in precedenza rispondendo alla
questione di chi sia nello Stato autonomico/regionale il garante dell’effettività dei diritti sociali.
Ancora una volta, cioè, è il giudice delle leggi ad essere chiamato a far valere, nella distribuzione
territoriale delle competenze, l’effettività di valori e di beni costituzionalmente protetti,
comprimendo l’autonomia politica delle regioni (ordinarie ma anche speciali) ogniqualvolta il
legislatore nazionale, nell’esercizio del suo potere e delle sue responsabilità, attui forme di tutela
destinate ad assicurare l’eguaglianza e la pari dignità dei soggetti su tutto il territorio.
Si potrebbe discutere dell’adeguatezza dello strumento utilizzato (sentenza additiva di principio), in quanto, nella fattispecie, come bene si osserva, “rimarrebbe priva di efficacia
immediata e resterebbe rivolta esclusivamente al legislatore”84, ma ciò che maggiormente ora
ci interessa sottolineare è che tale giurisprudenza risolve in modo chiaro e definitivo – nella
stessa prospettiva de jure condendo – la questione della titolarità delle competenze statali in
uno Stato sociale, che è un tutt’uno con lo Stato democratico, nel quale, come si è potuto
vedere, le forme di distribuzione territoriale del potere conoscono il limite inderogabile del
rispetto dei princìpi e dei diritti fondamentali.
È su tali questioni che ha cominciato a misurarsi la riforma costituzionale nel Paese e che, nella
fase attuale, registra un fallimento del tentativo di revisione della Costituzione a cui fa da
pendant, tuttavia, un rilevante processo di riforme costituzionali e legislative orientate a
razionalizzare/democratizzare l’azione amministrativa (l. n. 241/90), a semplificare le procedure,
a rivedere il regime dei controlli (l. n. 127/97), a riformare la disciplina del pubblico impiego
(d.lgs. n. 29/1993 e succ. mod. e integr.) e a devolvere – mediante conferimento e non più
mediante la sola delega – poteri amministrativi dal centro (Stato) alla periferia (regioni-autonomie
locali) secondo criteri di omogeneità, completezza, sussidiarietà e adeguatezza, seguito, da
ultimo, dalla revisione dell’intero Titolo V Cost. e dall’avvio di ulteriori processi di devoluzione di
materie alla competenza esclusiva delle regioni (c.d. devolution).
3.3. – Le essenziali considerazioni fin qui svolte portano anche ad osservare come le
autonomie regionali e locali non costituiscano, dal punto di vista dell’ordinamento costituzionale,
83
Sent. Corte cost. n. 40 del 1993 sul rapporto fra azioni positive e principio di eguaglianza. Ma sul tema in
generale cfr. anche G. Grottanelli de’ Santi, Perequazione, eguaglianza e principi dell’ordinamento, in Giur. cost.,
1978, 710.
84
Cfr. A. Anzon, op. cit., 891.
Libertà e diritti civili – 137
almeno fino alla recente revisione del Titolo V Cost., il terreno elettivo per un’indagine sulle
tematiche relative alle modalità seguite per rendere effettivi i diritti sociali85.
La più attenta dottrina, in Italia, aveva fatto osservare come l’indagine sulle filosofie istituzionali
sottese al dibattito costituente in materia di diritti e di forma di Stato portava a cogliere come il
costituente, nella distribuzione dei poteri e delle responsabilità fra centro e periferia, avesse assegnato allo Stato nelle sue istanze centrali la funzione di garanzia dei diritti negativi (giurisdizione,
legislazione, polizia, ecc.) mentre, per quanto concerne i diritti positivi (diritti sociali), era alle
regioni che il costituente assegnava (art. 117 Cost.) competenze eminentemente attuative, capaci
di assicurare, al contempo, l’erogazione delle prestazioni legislative e amministrative relative a tali
diritti, assicurando le stesse forme della partecipazione dei destinatari dell’attività amministrativa.
Un’anticipazione ante litteram del principio della sussidiarietà verticale, che troverà più compiuta
attuazione nell’ordinamento comunitario e, per quanto concerne l’Italia, nel corso degli anni ’90,
nella legislazione sul c.d. “federalismo amministrativo” e nella già richiamata revisione del Titolo
V. Cost.
Le modalità complessive seguite dal legislatore italiano nell’attuazione di un simile modello
costituzionale, come è noto, hanno portato a registrare, per alcuni decenni, un evidente
“congelamento” della Costituzione in parti essenziali della medesima (regioni, Corte
costituzionale, Consiglio superiore della magistratura, ecc.). Per circa 25 anni dalla previsione
costituzionale, infatti, le regioni – pur essendo previste nel Titolo V della Cost. come
un’articolazione essenziale, necessaria, dell’ordinamento repubblicano – non vengono istituite e,
quando lo saranno, nei primi anni ’70 e più compiutamente a partire dal 1977 (con i dd.PP.RR.
616-7-8), la loro è un’attuazione fortemente svalutativa della previsione costituzionale soprattutto
per quanto concerne l’interpretazione delle competenze regionali assegnate che, a giudizio della
dottrina, fa scadere la potestà legislativa a poco più che una potestà amministrativa di esecuzione.
Le regioni diventano, nella prassi, poco più che enti territoriali di decentramento amministrativo;
sia la legislazione che, e forse ancor più, la giurisprudenza costituzionale confermano
pienamente, a loro volta, lo scenario istituzionale di un “regionalismo senza regioni”.
Se, dunque, il regionalismo in Italia costituisce un’esperienza sostanzialmente fallimentare, sia
perché intervenuta in ritardo rispetto alla previsione del costituente, sia perché ha seguito una
logica di forte dipendenza dal centro, non possiamo che trarne prime conclusioni sull’inesistenza
di una peculiarità dello Stato regionale italiano e di una sua capacità a proporsi, come pure
avrebbe potuto essere nell’ottica costituzionale, come centro attivo di riferimento per una politica
istituzionale di rivendicazione di competenze attive nel campo dei diritti sociali (almeno nei
campi definiti dalla distribuzione costituzionale delle competenze stabilita dall’art. 117 Cost.) e di
una corrispondente organizzazione delle medesime a livello regionale, in modo da valorizzare lo
stesso principio partecipatorio in campo politico (elettività degli amministratori regionali-locali) ed
in quello amministrativo (secondo le indicazioni di riforma del procedimento amministrativo, che
ha portato a parlare, correttamente, di “democratizzazione” dell’amministrazione pubblica).
Rimane, allora, che al quesito – ormai di stringente attualità politico-costituzionale – sui
rapporti fra autonomismo, regionalismo ed effettività dei diritti sociali, non può che rispondersi,
almeno dall’ottica analitica del regionalismo antecedente la revisione costituzionale (ora
introdotta con l. cost. n. 3/2001), nel senso della perdita di un’occasione, almeno nel senso che
le regioni non hanno costituito quella opportunità di avvicinare la funzione pubblica al cittadino
né l’occasione per rendere, a questo livello, maggiormente effettivo, partecipato e controllato,
85
Sul punto, fra gli altri, cfr. anche il mio Il diritto costituzionale europeo: princìpi strutturali e diritti fondamentali, in S. Gambino, Costituzione italiana ..., cit., nonché F. Puzzo, Il federalismo fiscale, Milano, Giuffrè, 2002.
138 – Libertà e diritti civili
l’esercizio di quelle competenze costituzionali assegnate al livello regionale, capaci di rendere
maggiormente effettivi i diritti sociali. Ma discorso omologo potrebbe anche farsi per quanto
concerne quei diritti c.d. della terza generazione, come, ad es., il diritto all’ambiente salubre, la
tutela del territorio dagli inquinamenti, ecc., per i quali sempre più evidente appare lo scarto fra
aspettative sociali, c.d. interessi diffusi, ed esercizio adeguato e responsabile delle competenze
in materia ambientale ed urbanistica da parte del sistema regionale ed autonomistico.
Al fine di modificare l’assetto costituzionale regionale e locale nell’ottica della valorizzazione
ulteriore dei livelli territoriali, nell’ultimo ventennio, sono intervenuti in Italia diversi, infruttuosi,
tentativi di revisione costituzionale della forma dello Stato e, di recente, una legislazione di
revisione costituzionale che ha previsto, come si è ricordato, la stessa revisione dell’intero Titolo
V Cost. in materia di ordinamento regionale86.
Le incertezze sulla natura delle soluzioni di decentramento politico prospettate caratterizzano
diffusamente il testo di revisione costituzionale. Esso, in realtà, si limita a disciplinare solo
“qualche embrione” di federalismo, peraltro con modalità discontinue (e talora di dubbia
costituzionalità) nelle forme della sua organizzazione istituzionale-costituzionale87.
La riflessione, tuttavia, in questa sede, appare meno interessata all’analisi delle sue forme istituzionali-costituzionali (ed alla logica sistemica che le ispira), incentrandosi sui relativi
“contenuti”, soffermandosi, in particolare, sull’impatto che il nuovo assetto delle competenze
regionali ha (ed avrà sempre più in sede di attuazione) nella materia dell’eguaglianza giuridica e
dell’effettività dei diritti sociali, che, in una forma di Stato sociale, costituisce requisito
indefettibile di “coesione sociale” e garanzia della stessa unità nazionale88.
Queste considerazioni portano a sottolineare la necessità di una definizione di campo della discussione, che, qualora non ben operata, rischierebbe di comportare pericolosi sbilanciamenti fra
la nuova disciplina costituzionale ed i princìpi supremi che ne sono alla base, princìpi – questi
ultimi – che il giudice delle leggi ha più volte inquadrato come indifettibili in uno Stato
democratico89.
In breve, ed anche a rischio di apparire ispirati a forme di costituzionalismo di conservazione, si
vuole sottolineare – sotto tale profilo – che la Costituzione non consente, né rende negoziabile, la
discussione sui princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale, il cui mantenimento, come è
stato ricordato, è essenziale per la conservazione della stessa «identità dell’ordine costituzionale
86
Sul punto cfr. anche, nell’ampia bibliografia, C. Fusaro, La redistribuzione territoriale del potere politico nel
dibattito parlamentare dalla Commissione Bozzi alla Commissione D’Alema (1983-1998), in S. Gambino (cur.),
Stati nazionali ..., cit.; G. D’Ignazio, G. Moschella, Il federalismo amministrativo in Italia tra princìpi e attuazione
regionale, in Civitas Europa, 2000, n. 4.
Alle più recenti riforme costituzionali (l. cost. 1/99 e l. cost. 3/2001) ed a quelle tuttora in itinere fa da pendant,
nel corso della precedente legislatura, un rilevante processo di riforme legislative che s’ispira, in generale, ad una
filosofia istituzionale di valorizzazione delle autonomie locali e ad un processo di razionalizzazione e di democratizzazione dell’amministrazione pubblica (soprattutto l. n. 142/90, l. n. 241/90, l. n. 127/97, l. n. 59/1997,
d.lgs. n. 29/1993 e succ. mod. e integr.).
87
Cfr. in tal senso l’Introduzione di L. Elia in T. Groppi, M. Olivetti (cur.), La repubblica delle autonomie,
Padova, CEDAM, 2001.
88
Cfr. anche la mia nota I diritti sociali e la riforma federale, in Quad. cost., 2001, n. 2.
89
Sentenze Corte cost. n. 18/1982; n. 203/1989; n. 1146/1988; n. 366/1991; n. 232/1989, su cui cfr. fra gli
altri, in particolare, M. Cartabia, Princìpi inviolabili ..., cit., 194 ss.
Libertà e diritti civili – 139
vigente»90. La Corte costituzionale, come è noto, ha reiteratamente confermato l’esistenza di
limiti impliciti alla revisione della Costituzione91.
Egualmente centrali, ai fini di questa riflessione, sono gli interrogativi sulle forme e i contenuti
dell’autonomia regionale a seguito della recente riforma costituzionale operata con la l. cost. n. 1
del 199992. Allo stato, pochi sono ancora i supporti normativi di applicazione della riforma, se si
fa eccezione, fra i pochi altri, per la “Proposta di Statuto della Regione Veneto”, del 31 ottobre
2000, il cui art. 13, in particolare, evoca scenari che sono stati opportunamente qualificati di
«anarco-federalismo»93, imponendo tale quadro normativo di ricercare nelle tradizioni
costituzionali europee, e nella stessa prospettiva de jure condendo, le soluzioni necessarie (o solo
opportune) per assicurare forme di governo regionali rispettose del principio democratico,
nonché responsabili ed efficienti, nelle quali, come per il sistema autonomistico infra-regionale,
devono prevedersi forme adeguate di tutela per le minoranze e per l’opposizione consiliare, pur
nell’ambito di forme di governo che s’ispirano al rafforzamento degli esecutivi.
Un siffatto approccio, tuttavia, rischierebbe di lasciare in un cono d’ombra le più significative
problematiche del regionalismo italiano, potendosi perfino pervenire a non cogliere le ragioni di
fondo della crisi che lo hanno attraversato, con poche eccezioni, nell’ultimo trentennio e che
tuttora lo attraversano (“le regioni senza regionalismo” di cui hanno parlato autorevolmente, fra
gli altri, Pastori, Cammelli e Barbera), pur nel quadro di un dibattito politico e parlamentare poco
approfondito, che passa da vere e proprie omissioni nell’attuazione degli spazi di federalismo
disponibile (il c.d. federalismo amministrativo) alla rivendicazione di forme di
autodeterminazione, più orientate a «sollecitare le pruderie secessive di taluni leaders politici o di
qualche vandea territoriale»94 che ad affrontare con adeguatezza le questioni dei rapporti
istituzionali fra ruoli e responsabilità del centro e gradi di autonomia esercitabili dai livelli
regionali.
Lo snodo fondamentale del dibattito da cui deve muovere la riflessione sul tema, dunque, e
per le ragioni richiamate, è quello dei rapporti fra “unità politica della nazione”, forme della
distribuzione territoriale del potere, anche asimmetriche (di tipo regionali o federali) e “diritti di
cittadinanza”. Solo a partire da un simile approccio, infatti, si può essere certi che l’indagine e la
valutazione delle soluzioni ipotizzate non degradi nella pura prospettiva di un
regionalismo/federalismo (più o meno latamente) funzionalista, ma parta, s’ispiri e si radichi
nell’armonia dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica (princìpi indisponibili, come si è detto,
allo stesso procedimento di revisione costituzionale), nonché del principio personalista e
90
Cfr. M. Luciani, Diritti sociali e integrazione europea, in Pol. dir., 2000, n. 2.
Lo aveva fatto, fra le altre, con la sent. 203/1989, affermando il principio di laicità dello Stato; lo ha fatto in
modo più organico con la sent. 1146 del 1988. Lo ha ribadito di recente, nella sent. 496 del 2000, con
riferimento alla questione dell’ipotizzata derogabilità delle procedure di revisione costituzionale, prevista
dall’iniziativa legislativa della Regione Veneto (approvata l’8 ottobre 1998) recante “Referendum consultivo in
merito alla presentazione di proposta di legge costituzionale per l’attribuzione alla Regione Veneto di forme e
condizioni particolari di autonomia”; su cui cfr. anche G. Tarli Barbieri, Il referendum previsto nel procedimento
di formazione dello Statuto regionale, in M. Carli (cur.), Il ruolo delle assemblee elettive, Torino, Giappichelli,
2001.
92
Cfr. S. Gambino, D. Loprieno, Autonomia statutaria e governo della regione alla luce della l. cost. 1/99 (con
particolare riferimento allo statuto dell’opposizione), in AA.VV. (Regione Balilicata, CRS, Ministero Pari
Opportunità), Elezione diretta del Presidente e nuova forma di governo delle regioni, Matera (in corso di stampa).
93
Così P. Ciarlo, in AA.VV. (Regione Balilicata, CRS, Ministero Pari Opportunità), Elezione diretta ..., cit.
94
Cfr. A. Barbera, La ‘elezione diretta’ dei Presidenti delle Giunte regionali: meglio la soluzione transitoria?, in
Quad. cost., 2000, n. 1.
91
140 – Libertà e diritti civili
dell’uguaglianza (formale e sostanziale). A tale approccio non risultano certo conformi le scelte di
regionalismo asimmetrico previste dall’art. 116 Cost. (nuovo testo).
Una questione – quest’ultima – che porta in primo piano il “compito” assegnato alla
“Repubblica” di non discriminare fra i cittadini delle diverse regioni ma di farsi parte attiva – al
centro come in ogni singola Regione – per il perseguimento di tale “missione” costituzionale95.
Solo conformandosi ad un simile inquadramento e sulla scorta della sussunzione di tale
prospettiva come limite formale e sostanziale, il testo di revisione della forma dello Stato in
Italia potrà giuridicamente (ma anche politicamente) restare nei binari della “armonia”
costituzionale, senza rischiare forme di rottura della Costituzione o, peggio ancora, forme di
autodeterminazione/secessione che l’esperienza della vicina ex-Jugoslavia dimostra quanto
siano difficili e dolorose da ricomporre96.
Letto dalla prospettiva delle regioni “deboli”, in particolare, un simile testo di revisione costituzionale se, da una parte, apre le porte alla prospettiva di un nuovo processo di
responsabilizzazione e di protagonismo delle comunità territoriali e dei relativi ceti politici97,
dall’altra, sottolinea tutti i rischi di un regionalismo/federalismo nel quale, rispetto all’esperienza
costituzionale previgente, ciò che la Costituzione unicamente assicurerà è la mera
«determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
dovranno essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 3, II comma, lettera m) del novellato
Tit. V Cost.)
Stabilire il contenuto dei “livelli essenziali” dei diritti da garantirsi a livello regionale costituisce,
così, la nuova frontiera della riflessione costituzionale in materia di diritti. L’esperienza di
attuazione dei diritti sociali, da una parte, la nuova concezione teorica degli stessi, come diritti
costituzionalmente condizionati nella loro “essenzialità”, dall’altra, impone di riprendere l’analisi
della loro effettività sia a partire dalla considerazione delle problematiche della loro
implementazione legislativa a livello regionale sia dalla prospettazione della nuova e più
complessa funzione cui è chiamata il governo regionale, sia, ed infine, nell’ottica del processo
d’integrazione comunitaria, soprattutto dopo i trattati di Maastricht e di Amsterdam98. L’analisi
della disciplina costituzionale degli Stati europei e delle relative giurisdizioni costituzionali
costituisce, in tal senso, un percorso obbligato della ricerca costituzionale e comparatistica99.
95
Per una riflessione critica sul punto, a partire dalle soluzioni accolte nel nuovo art. 114 Cost., secondo il
quale «la Repubblica è un mero nome riassuntivo a cui non corrisponde alcun soggetto, perché la Repubblica è
data dalla sommatoria dei comuni, delle province, delle città metropolitane, delle regioni e, si badi bene, dello
Stato» cfr., di recente, G.U. Rescigno, La riforma da riformare, in La rivista del manifesto, 2001, n. 16, 16, il quale
correttamente sottolinea come, per tale profilo, «la riforma si pone in netto contrasto con i princìpi ispiratori della
prima parte (della Costituzione)», in quanto «il popolo italiano non ha più uno strumento specifico di direzione
unitaria, a cui affidare la responsabilità delle trasformazioni sociali di cui parla l’art. 3, II co».
96
Cfr. anche S. Gambino (cur.), Europa e Balcani: stati, culture, nazioni, Padova, CEDAM, 2001.
97
Cfr. anche G. Corso, Federalismo e Mezzogiorno, in Le Regioni, 1996, n. 2, 209 ss.
98
Sul punto cfr., almeno, l’Introduzione di L. Elia in T. Groppi, M. Olivetti (cur.), La Repubblica delle
autonomie, Torino, Giappichelli, 2001, nel quale cfr. anche R. Bifulco, Federalismo e diritti.
99
Sul punto ritorneremo con una riflessione nel prossimo numero di questa Rivista. Oltre al già citato
contributo di A. Ruggeri, cfr. anche, almeno, L. Violini, Prime considerazioni sul concetto di “costituzione
europea” alla luce dei contenuti delle vigenti carte costituzionali, in Riv. it. dir. pub. com., 1998. Per un’analisi
organica della questione cfr. inoltre J. Iliopoulos-Strangas (ed.), La protection des droits sociaux fondamentaux dans
les Etats membres de l’Union européenne, Bruxelles, Bruylant, 2000.
Libertà e diritti civili – 141
Abstract
The article deals with the theme of the establishment of the fundamental rights from the point
of view of the doctrine of natural law and their evolution in the different stages of development of
the modern and contemporary State. The attention is particularly focused on the constitutional
debate as far as social rights and the model of the welfare state in the experience of the
Weimarian Republic and in the democratic constitutions of the First World War are concerned.
There’s then an analysis of the peculiarities of the Italian constitution as for social rights. In the
end the theme of social rights, with regard to the territorial distribution of legislative competences,
is taken into consideration. In this field, concerning the relationships between social rights and the
different forms of State (up to the recent revision of the fifth Title of our constitution), differently
from what might have been legitimately predicted, the attention is focused on an above all
executive form of regionalism, which is one of the cause of a substantial failure of the Italian
regionalism. Such a situation is deemed to change significatively, as a consequence of the choices
made by the legislator of the constitutional revision.
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