Antologia Olimpiadi di filosofia L`etica

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LA FILOSOFIA COME STILE DI VITA.
Approfondimenti e documenti.
*IL CANE DI CRISIPPO. L’ETICA STOICA.
Il saggio stoico deve accettare senza battere ciglio quel che il destino gli
riserva, visto che nell’ordinata armonia del cosmo non c’è posto per il
caso. Ma come conciliare questo “fatalismo” e “determinismo” con la
libertà? (Tale problema riguarderà anche la futura discussione all’interno
del Cristianesimo del concetto di libero arbitrio). C’è un’immagine
interessante per illustrare la soluzione: il saggio deve comportarsi come un
cane incatenato al carro. Il cane può scegliere di seguire volontariamente il
carro, ma se decidesse di resistere il risultato non cambierebbe; sarebbe
comunque costretto (magari torcendosi il collo) a seguire la via segnata dal
carro. La differenza sta nel fatto che nel primo caso si sceglie liberamente
quel che il fato impone. La libertà consiste dunque nell’accettare e nel
piegarsi alla necessità del proprio destino.
*LA LETTERA A DIOGNETO (IISEC.).
V. 1. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da
distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano
un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3. La
loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né
essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4.
Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e
adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto,
testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente
paradossale. 5. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a
tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria
straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6. Si sposano come tutti e
generano figli, ma non gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa,
ma non il letto. 8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9.
Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10.
Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11.
Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12. Non sono conosciuti, e
vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13. Sono poveri, e
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fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14. Sono
disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati
giusti. 15. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16.
Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono
come se ricevessero la vita. 17. Dai giudei sono combattuti come stranieri,
e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il
motivo dell'odio.
***Kant. L’Illuminismo come uscita dallo stato di minorità.
L'intelletto quale guida
L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da
imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio
intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità
se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla
mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto
senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti
della tua propria intelligenza - è dunque il motto dell'illuminismo. La
pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che
la natura li ha da lungo tempo affrancati dall'eterodirezione (naturaliter
maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l'intera vita e per
cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E' tanto comodo essere
minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha
coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi
conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io
sia in grado di pagare, non ho bisogno dì pensare: altri si assumeranno per
me questa noiosa occupazione. A far si che la stragrande maggioranza
degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di
maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei
tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l'alta sorveglianza sopra
costoro. […] Che invece un pubblico si illumini da sé è cosa
maggiormente possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, è quasi
inevitabile.
***Kant: LA TERZA FORMULAZIONE DELL'IMPERATIVO
CATEGORICO.
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Il concetto che ogni essere ragionevole deve considerarsi autore, in virtù
delle massime della sua volontà, di una legislazione universale affinché
possa, da questo punto di vista, giudicare se stesso e le sue azioni, conduce
a un concetto assai fecondo che si connette a questo, cioè al concetto di un
regno dei fini. [...] La moralità consiste pertanto nel rapporto di ogni
azione con quella legislazione che è la condizione del regno dei fini. Ma
questa legislazione deve valere per ogni essere ragionevole e deve poter
derivare dalla sua volontà, secondo questo principio: non compiere alcuna
azione secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come
legge universale, cioè tale che la volontà, in base alla massima, possa
considerare contemporaneamente se stessa come universalmente
legislatrice.
(I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi)
***KANT: LA LEGGE MORALE DENTRO DI ME.
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova
e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse:
il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io
non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero
avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io
le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della
mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo
sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una
grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi
ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio
e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia
personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma
che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari
tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione
non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il
primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la
mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un
semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere
stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il
secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una
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intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi
manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo
sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme
ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione
non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende
all’infinito.
(Kant, Critica della ragion pratica, Conclusione)
*** Kant: il regno dei fini.
Cosa si intende per dignità della persona umana?
Si riporta di seguito un brano del libro I diritti umani oggi (Laterza, 2005,
cap. 3) di Antonio Cassese.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) Kant osservò
Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un
prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al
contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette
equivalenti, è ciò che ha una dignità […] Ciò che permette che qualcosa
sia un fine a se stesso non ha solo un valore relativo, e cioè un prezzo, ma
ha un valore intrinseco, e cioè una dignità […]
L’umanità [l’essere uomo] è essa stessa una dignità: l’uomo non può
essere trattato dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un
semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine. In
ciò appunto consiste la sua dignità (personalità), ed è in tal modo che egli
si eleva al di sopra di tutti gli esseri viventi che non sono uomini e
possono servirgli da strumento.
Nella Metafisica dei costumi (1797) ribadisce il concetto con queste
parole:
L’uomo considerato nel sistema della natura (homo
phaenomenon [elemento del mondo sensibile], animale razionale), è un
essere di importanza mediocre ed ha un valore modesto (pretium vulgare)
che condivide con tutti gli altri animali che produce la terra. Ma
considerato come persona, e cioè come soggetto di una ragione
moralmente pratica, l’uomo è al di sopra di qualunque prezzo. Perchè da
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questo punto di vista, come homo noumenon [membro del mondo
intelligibile], egli non può essere considerato come un mezzo per i fini
altrui, o anche per i propri fini, ma come un fine in se stesso, e cioè egli
possiede una dignità (un valore interiore assoluto) mediante cui costringe
tutte le altre creature ragionevoli al rispetto della sua persona e può
misurarsi con ciascuna di esse e considerarsi eguale ad esse.
[…] Anzitutto, la concezione kantiana traduce in termini filosofici idee
nobilissime già espresse nei Vangeli, là dove Cristo esorta ad amare “il
prossimo tuo come te stesso” (Matteo, 22,39) e cioè a considerare l’altro
alla stregua del proprio io. Il mio io è il centro del mondo ma così devo
considerare anche l’altro, che diventa quindi soggetto da rispettare,
proteggere, difendere […], [cioè devo] trattare l’altro come se fosse il mio
io.
In secondo luogo, Kant non è così ingenuo da pensare che si possa
richiedere a ciascuno di noi di considerare l’altro solo e sempre come un
fine in se stesso. Sarebbe poco realistico: io ho bisogno del maestro perché
mi insegni un mestiere, ho bisogno del bottegaio che mi vende la sua
merce… Kant lo sa,e perciò chiede solo di considerare anche l’altro come
un fine in se stesso.
Un altro punto che mi sembra necessario sottolineare è che l’etica rigorosa
di Kant esige che la persona usi anche se stessa non solo come un mezzo
ma anche come un fine. In altri termini, Kant ci chiede di rifiutare di
asservirci a chiunque ci usi come strumento nelle sue mani. Io ho il dovere
di vedere in me stesso un fine […] e ciò mi impone di ribellarmi contro il
mio asservimento. È questo il fondamento della proposizione della
Dichiarazione Universale dei diritti umani secondo cui l’uomo può
“ribellarsi all’oppressione e alla tirannide”. Ma Kant va più lontano, in
quanto postula che ciascuno di noi ha non solo un diritto alla ribellione ma
anche un dovere, perché se non mi ribello calpesto la mia dignità umana.
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Infine, notiamo che Kant coerentemente impone di considerare come
disonorevole e immorale punire con pene disumane, contrarie alla sua
dignità, il malvagio che si sia macchiato di gravi crimini. In altri termini,
anche il malvagio va rispettato nella sua dignità di persona umana, benché
egli stesso l’abbia calpestata […]. Vengono in mente le parole che ha
scritto Nelson Mandela alla fine della sua autobiografia : “L'oppressore
deve essere liberato così come l'oppresso. Un uomo che sottrae ad un altro
la sua libertà è prigioniero dell'odio, è serrato dietro le sbarre del
pregiudizio e della pochezza mentale. Sia l'oppresso che l'oppressore sono
privati della loro umanità”.
Il caso del nano e il Consiglio di Stato francese.
Quel che dice Kant può rimanere astratto e remoto. Un caso
giurisprudenziale recente può forse più efficacemente illustrare cosa debba
intendersi per "dignità della persona umana". Nel 1995 la discoteca di un
paese della provincia francese, Morsangsur-Orge, pochi chilometri a sud di
Parigi, decise di inserire nello spettacolo serale il "lancio del nano":
doveva consistere nell'offrire agli spettatori la possibilità di lanciare un
nano, presumibilmente per vedere chi riuscisse a scagliarlo più lontano. Il
sindaco della cittadina vietò lo spettacolo, affermando che era contrario
all'ordine pubblico ed al rispetto della dignità umana. La società che
gestiva lo spettacolo fece appello al tribunale amministrativo di Versailles,
che le diede ragione. Il sindaco della cittadina impugnò però quella
sentenza davanti al Consiglio di Stato, che la annullò con una decisione del
27 ottobre 1995. Proprio questa decisione illustra la nozione di "dignità
umana". Il supremo organo di giustizia amministrativa francese, citando
non solo le leggi francesi, ma anche l'art. 3 della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo (che vieta tra l'altro qualunque trattamento disumano o
degradante) osservò che utilizzare "come proiettile una persona affetta da
un handicap fisico, presentata come tale […] lede la dignità della persona
umana". Il Consiglio ammise che nel caso di specie il nano aveva
liberamente scelto di prestarsi allo spettacolo, e che anzi invocava il
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principio del "diritto al lavoro" e "la libertà dell'impresa e del commercio".
Esso ritenne però che il rispetto della dignità della persona umana dovesse
prevalere sia sulla volontà del nano, sia sui diritti di libertà da lui
accampati. Malgrado l'estrema concisione della decisione, non si poteva
meglio dimostrare come si può applicare il concetto che stiamo
discutendo. Kant avrebbe detto che il nano non doveva accettare di ridurre
se stesso a mezzo di divertimento di altre persone, perché doveva
considerarsi un fine in sé. Il Consiglio di Stato affermò lo stesso concetto,
stabilendo che un essere umano non può volontariamente rinunciare alla
propria dignità. A maggior ragione quella dignità deve essere rispettata
dagli altri.
***Fichte: ognuno sceglie la filosofia in base a ciò che è. Idealismo e
dogmatismo.
Un essere ragionevole finito non dispone di nient’altro all’infuori
dell’esperienza: è l’esperienza che contiene l’intera materia del suo
pensiero. Il filosofo sottostà necessariamente alle stesse condizioni.
Sembra dunque impossibile pensare ch’egli possa elevarsi al di sopra
dell’esperienza.
Ma egli ha la possibilità di astrarre, cioè a dire separare, mediante la libertà
del pensiero, ciò che nell’esperienza è unito. Nella esperienza la cosa, e
cioè ciò che è determinato indipendentemente dalla nostra libertà e a cui la
nostra conoscenza si rivolge, e l’intelligenza, che ha la funzione di
conoscere, sono inscindibilmente unite. Il filosofo può prescindere
dall’una o dall’altra...
Da tutto ciò risulta abbastanza evidente che questi due sono gli unici
sistemi filosofici possibili. [...]
Il contrasto tra l’idealista e il dogmatico consiste propriamente in ciò: se
l’autonomia dell’io debba essere sacrificata a quella della cosa o viceversa.
Che cos’è dunque che induce un uomo ragionevole a decidersi per l’una
cosa piuttosto che per l’altra? [...].
Quale di questi due termini dev’essere fatto primo? La ragione non è in
grado di fornire un principio che risolva l’alternativa, poiché si tratta non
di collegare un membro all’interno d’una serie, per il che principî di
ragione sarebbero sufficienti, ma di cominciare la serie intera, il che,
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essendo un atto assolutamente primo, non dipende che dalla libertà del
pensiero. Tale atto è dunque determinato dall’arbitrio, e, dato che la
decisione dell’arbitrio deve pure avere una ragione, dall’inclinazione e
dall’interesse. La ragione ultima della differenza fra idealista e dogmatico
è perciò la differenza del loro interesse.
L’interesse supremo, principio di ogni altro interesse, è quello che
abbiamo per noi stessi. Il che vale anche per il filosofo. [...]
La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un
sistema filosofico non è un’inerte suppellettile, che si può lasciare o
prendere a piacere, ma è animato dallo spirito che un uomo ha. Un
carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso
raffinato e dalla servitú spirituale, non potrà mai elevarsi all’idealismo.
(J. G. Fichte, Prima introduzione alla Dottrina della Scienza)
***Hans Jonas: l’imperativo ecologico.
(H. Jonas, Il principio responsabilità, 1979)
***Emmanuel Lévinas: il volto dell’Altro.
“Filosofia del potere, l'ontologia, come filosofia prima che non mette in
questione il medesimo, è una filosofia dell'ingiustizia. L'ontologia
heideggeriana che subordina il rapporto con Altri alla relazione con
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l'essere in generale [...] resta all'interno dell'obbedienza dell'anonimo e
porta, fatalmente, ad un'altra potenza, al dominio imperialista, alla tirannia.
[...] L'essere prima dell'ente. L'ontologia prima della metafisica- cioè la
libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. È un
movimento nel medesimo prima dell'obbligo nei confronti dell'altro.”
“Quando mi riferisco al volto, non intendo solo il colore degli occhi, la
forma del naso, il rossore delle labbra. Fermandomi qui io contemplo
ancora soltanto dei dati; ma anche una sedia è fatta di dati. La vera natura
del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge,
domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia”.
Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l'Altro. Questo modo non
consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano
un'immagine. Il volto d'Altri distrugge ad ogni istante e oltrepassa
l'immagine plastica che mi lascia ". Il volto dell'Altro ha significato di per
sé, si impone al di là del contesto fisico e sociale: il senso del volto non
consiste nella relazione con qualcos'altro, esso è senso per sé. Si può dire
che il volto non è visto. Esso è ciò che non può diventare un contenuto
afferrabile dal pensiero; è l'incontenibile, ti conduce al di là. Il volto
dell'Altro ti viene incontro e ti dice: "Tu non ucciderai". Nonostante il
divieto può esserci l'assassinio, ma la malignità del male riapparirà nei
rimorsi della coscienza dell'assassino, nell'accesso al volto c'è anche un
accesso all'idea di Dio. Il volto è responsabilità per Altri: il volto dell'Altro
entra nel nostro mondo; esso è una visitazione; è responsabilità: esso mi
guarda e mi riguarda. Il volto d'Altri mi impone un atteggiamento etico: " è
il povero per il quale io posso tutto e al quale devo tutto ". E' così che il
volto si sottrae al possesso; il volto dell'Altro, afferma Lévinas, " mi parla
e mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che
si esercita ". Il volto dell'Altro, dunque, mi coinvolge, mi pone in
questione, mi rende immediatamente responsabile. La responsabilità nei
confronti dell'Altro viene a configurarsi, nel pensiero di Lévinas, come la
struttura originaria del soggetto. Fin dall'inizio, " l'estraneo che non ho né
concepito, né partorito, l' ho già in braccio ". La mia responsabilità nei
confronti dell'altro arriva fino al punto che io mi debba sentire
responsabile anche della responsabilità degli altri.
“Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania,
nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza
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totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all’apertura di
una nuova dimensione. Infatti la resistenza alla presa non si produce come
una resistenza insormontabile, come durezza della roccia contro cui è
inutile lo sforzo della mano, come lontananza di una stella nell’immensità
dello spazio. L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la
debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa
tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che
significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita ad una relazione
che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche
godimento o conoscenza”. (Lévinas, Totalità e infinito)
“Il libro che più mi ispira è il volto umano, fino al punto che non riesco a
parlare, e nemmeno a formulare un pensiero, se non mi sta davanti
qualcuno: almeno uno, un essere vivente; allora sono sicuro che il discorso
si snoda in tutta abbondanza, come un torrente, a volte in troppa piena. Mi
succede così quando predico, ad esempio: pur dopo anni e anni di
praticaccia. E’ così: non mi viene la parola se non mi rappresento qualcuno
in ascolto o che mi parli. Anzi, è questa la ragione per cui quasi tutto il mio
scrivere si svolge in forma di colloquio: è sul filo dell’io e del tu che si
snoda il discorso. A osservare bene, tutta la mia poesia è un colloquio. No,
non c’è praticaccia che tenga: se non guardo in faccia la gente, non riesco
a parlare. Sì, il mio primo libro è la faccia dell’uomo. Sono uno dal
colloquio a vivo, più che di lettura, anche se il desiderio di leggere mi
perseguita con graffiante nostalgia: uno dei tanti desideri che mi
lampeggiano dentro, da sempre.”
(David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici)
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così
importante".
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