Appunti di Corso Corso di laurea in Giurisprudenza a cura della Dott. Bernardina Algieri Hai suggerimenti per migliorare gli appunti? Scrivi a [email protected] arzo--Aprile 20 20111 Marzo Appunti di Politica Economica CAPITOLO I ELEMENTI DI POLITICA ECONOMICA 1.1 Introduzione La politica economica è una parte della scienza economica che prende in esame l'azione compiuta in economia dall'autorità pubblica, in ambito sia macroeconomico che microeconomico. In un sistema economico che presenta un livello di disoccupazione elevato, un intervento da parte dell’autorità pubblica volto a sanare o quanto meno a mitigare il fenomeno mettendo in campo strategie atte a contrastarlo è un’azione di politica economica. L’intervento pubblico nell’economia è giustificato dalla presenza di fallimenti di mercato, quali la disoccupazione, l’inflazione, gli squilibri di bilancia dei pagamenti e il sottosviluppo. Storicamente l'esigenza di una politica economica si manifesta allorché appare chiaro che l'economia, lasciata in mano agli interessi egoistici dei singoli operatori, non è in grado di evitare squilibri e diseguaglianze economiche, anzi spesso finisce per rendere instabile l'economia stessa, oltre che il tessuto sociale di un paese e i rapporti tra nazioni. Adam Smith, fondatore della scienza economica, riteneva che nel Mercato operasse una “mano invisibile”, in virtù della quale l'interesse privato si trasformava in interesse collettivo. Nessuno avrebbe potuto fare meglio di quanto facesse per conto suo il mercato, capace di stabilire in modo continuo equilibri tra le forze in gioco. L'interazione della domanda e dell'offerta genererebbe di continuo prezzi di equilibrio capaci di soddisfare entrambe le parti, garantendo ad esempio condizioni di pieno impiego. Le politiche economiche liberiste, che al pensiero di Smith si ispirano, tendono quindi a promuovere la rimozione di ogni vincolo al libero dispiegarsi delle forze di mercato e a tracciare un ruolo il più possibile ridotto per lo Stato, il cui comportamento deve essere quello di non intervenire o di intervenire il meno possibile nell'economia, dove devono prevalere gli "spiriti animali". Le posizioni liberiste di Smith sono state successivamente da molti criticate, man mano che si prendeva coscienza che esse richiedono condizioni di mercato che difficilmente si trovano nella realtà. In particolare, in seguito alla grave crisi del ’29, molti economisti si resero conto dell’impossibilità da parte del mercato di raggiungere da solo il pieno impiego. Infatti, la profonda crisi nei consumi, che caratterizzò quel periodo, portò alla fame una gran parte della popolazione e questo succedeva perché la produzione era ben lontana dal pieno impiego. In questo contesto nasce la teoria economica di John Maynard Keynes (1936), destinata ad avere molti sostenitori (sia pure con varie rielaborazioni, soprattutto ad opera dei cosiddetti post-keynesiani). I punti salienti delle osservazioni di Keynes erano i seguenti: 2 Appunti di Politica Economica l’insufficienza della domanda: era, secondo Keynes, il basso livello della spesa per consumi ed investimenti (delle imprese) ad aver causato la crisi del 1929 e l’allontanamento del sistema dalla piena occupazione; l’intervento statale: era evidente la necessità di un intervento statale per uscire dalla crisi e per evitarla in futuro. Si imponeva una manovra pubblica di Politica economica che rialimentasse la domanda di consumo, sia quella dei consumatori, sia quella delle imprese (per i beni d’investimento); modalità di intervento: l’intervento poteva realizzarsi sia in termini di politica monetaria, sia in termini di politica fiscale. Secondo Keynes la manovra migliore risiedeva in una operazione di politica fiscale, e in particolare, la sua attenzione si concentrava sulla politica di spesa pubblica (ovvero l’aumento delle spese dello Stato nel sistema economico, per la costruzione di opere pubbliche, per offrire ai cittadini maggiori servizi d’istruzione, di difesa, di assistenza sanitaria, e così via). L’aumento della spesa pubblica in economia era per Keynes la manovra di politica economica più efficiente, ai fini del ritorno alla piena occupazione, perché la spesa pubblica costituisce essa stessa una domanda di consumo (proveniente dall’apparato pubblico, e non dai cittadini o dalle imprese). Attraverso la spesa pubblica in economia, quindi, lo Stato può aumentare la domanda (aggregata) di beni e la conseguente ripresa dei consumi porta il sistema verso una maggiore occupazione e lontano dalla crisi da insufficienza di domanda. In breve, secondo John Maynard Keynes poiché i sistemi economici non sono sempre in grado di raggiungere l'equilibrio di pieno impiego in modo automatico, anzi è possibile che essi si attestino su posizioni di disequilibrio, determinate da carenze nella domanda aggregata, la politica economica ha il ruolo di stimolare la domanda e permettere di raggiungere il pieno impiego delle risorse. In Italia, uno dei maggiori interpreti del pensiero keynesiano è stato Federico Caffè. Secondo l’economista scomparso nel 1987 l’intervento pubblico in economia è auspicabile, esplicitamente: « Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore. » « ...i limiti intrinseci all’operare dell’economia di mercato, anche nell’ipotesi eroica che essa funzioni in condizioni perfettamente concorrenziali. È molto frequente nelle discussioni correnti rilevare un’insistenza metodica sui vantaggi operativi del sistema mercato, e magari su tutto ciò che ne intralci lo “spontaneo” meccanismo, senza alcuna contestuale avvertenza sui connaturali difetti del meccanismo stesso. » DEFINIZIONE TECNICA di Politica Economica Vi sono due definizioni di Politica Economica che possono ricondursi una ad una visione classica e una relativamente moderna. 1) Visione classica È dovuta all’economista Lionel Robbins che nel 1935 riprese l’idea di Jeremy Bentham secondo cui La politica economica è il corpo di principi dell’azione o dell’inazione del Governo rispetto all’attività economica. 3 Appunti di Politica Economica Laddove l’azione è qualunque intervento da parte di un’autorità pubblica diretto a influire sui comportamenti degli agenti allo scopo di ottenere determinati risultati economici. L’azione è la cosiddetta AGENDA di Governo L’inazione è la NON AGENDA 2) Visione relativamente moderna È stata proposta da Federico Caffè nel 1978, secondo cui La politica economica è quella disciplina che ricerca le regole di condotta tendenti a influire sui fenomeni economici in vista di orientarli in un senso desiderato. « La politica economica è quella parte della scienza economica che usa le conoscenze dell’analisi teorica come guida per l’azione pratica. » Le due definizioni sono similari in quanto fanno entrambe riferimento a PROGRAMMI DI INTERVENTO che sono definiti Principi dell’azione Regole di condotta La definizione di Caffè risulta più completa in quanto indica esplicitamente che i programmi dipendono dagli obiettivi che si desiderano raggiungere. Le due definizioni sono differenti in quanto a) Nella definizione di Robbins, rientrano nella politica economica anche le decisioni di non intervento, la suddetta non agenda, e quindi risultano scelte programmate non solo le azioni che si devono fare, ma anche quelle che si sceglie di non fare. In questi termini, allora, la politica del “lasciare fare al mercato” non è la negazione della politica economica, ma solo un modo suo di essere. Nella definizione di Caffè si considerano invece solo le azioni di intervento. b) Nella definizione di Caffè rientrano nella politica economica sia le decisioni del Governo sia quelle di altri soggetti economici singoli quali consumatori, imprese, sia quelle di altri soggetti economici aggregati come sindacati, confederazioni di produttori che si pongano un problema di strategia. Nella definizione di Robbins invece si parla propriamente di esclusive azioni di Governo. In termini riassuntivi La politica economica studia l’azione economica compiuta dall’autorità pubblica, in ambito sia macroeconomico che microeconomico. 4 Appunti di Politica Economica Differenza fra la Politica Economica e l’Economia Politica La politica economica differisce dall’economia politica perché mentre quest’ultima mira allo studio di “ciò che è”, la politica economica mira allo studio di ciò che dovrebbe essere, o “ciò che si desidererebbe fosse”. Mentre l’economia politica tratta fenomeni nel loro contenuto positivo (ossia riguarda la costruzione di schemi e modelli per spiegare i fenomeni, come ad esempio la disoccupazione), la politica economica analizza fenomeni economici nel loro contenuto NORMATIVO, ovvero individua ed esplicita norme di comportamento per trattare i fenomeni (ad esempio interventi atti a ridurre la disoccupazione). Un esempio di lettura dati per discipline distinte. Nella media del decennio 1994-2003, il PIL degli USA è cresciuto del3.3% l’anno. Nello stesso periodo nell’Area Euro la crescita è stata in media del 2% e in Italia dell’1.7%. Vi sono tre modi di guardare questi dati: - La Statistica economica si chiede come si costruiscono questi numeri. - L’Economia Politica si domanda perché si arriva a questi numeri. -La Politica Economica si interroga su cosa si può fare per cambiare questi numeri. 1.2 Gli attori della Politica Economica Gli attori coinvolti nei processi decisionali di natura politica sono: il decisore pubblico (o teoricamente il Comitato), il policy maker, e il policy advisor. Essi per affrontare un problema di politica economica definiscono e predispongono modelli economici di riferimento, che vengono identificati nella fase iniziale dal Decisore. I soggetti che propriamente pongono in essere la politica economica sono i: Policy Makers Essi non sono altro che i responsabili della politica economica che perseguono determinati obiettivi sulla scorta dell’ideologia del Decisore Pubblico (che può essere il partito di Governo, un capo politico come Mao Zedong, Lenin, un capo religioso come l’ayatollah Khomeini, ma anche opinioni di esperti come Bill Gates). L’ideologia del Decisore è detta ideologia interna. I policy maker possono essere coadiuvati da Policy advisor, esperti di analisi e calcolo con elevate capacità tecniche. In altri termini, essi sono tecnocrati e consulenti di cui le amministrazioni pubbliche e politiche spesso si dotano per risolvere modelli di politica economica. 5 Appunti di Politica Economica Per essere più schematici Il Decisore Pubblico (Partito di Governo) detta gli obiettivi e il modello economico di riferimento sulla base della propria ideologia Il Policy maker è responsabile della messa in atto delle azioni di politica sulla base delle linee di Governo Il Policy Advisor, tecnico di strategie e fattibilità, risolve i modelli Il policy maker, l’autorità di politica economica, può essere vista come un unicum o come un insieme di enti differenti fra loro con compiti specifici. L’economista Musgrave (1959) suggerisce di rappresentare il policy maker come l’insieme di tre uffici: allocation, stabilization e distribution buerau, che verranno analizzati successivamente. 1.3 Il programma e le azioni di Politica Economica Per fare politica economica bisogna programmare. Un programma include gli OBIETTIVI, GLI STRUMENTI e un MODELLO DI ANALISI. Gli Obiettivi Gli obiettivi sono i traguardi che la politica economica vuole raggiungere. Esempio: portare la disoccupazione ad un livello più basso dell’anno precedente, ridurre l’evasione fiscale, aumentare il reddito nazionale. Gli obiettivi definiti dal Decisore pubblico e trasmessi al policy maker possono essere FISSI e FLESSIBILI. Sono FISSI gli obiettivi il cui valore è stabilito numericamente. E’ il caso in cui il governo mirasse a un livello di pieno impiego del 6%, oppure la Banca Centrale mirasse ad un tasso di inflazione del 2%. Sono FLESSIBILI gli obiettivi espressi in modo non strettamente definiti, cioè viene stabilito dal decisore, ad esempio, il raggiungimento di un livello massimo di reddito o un livello minimo di disoccupazione senza identificare numericamente il livello massimo o minimo, viene indicata una funzione obiettivo e un ordinamento delle preferenze sui possibili risultati 6 Appunti di Politica Economica Naturalmente gli obiettivi possono esprimere: Ideologie conservatrici; Ideologie riformiste; Ideologie rivoluzionarie, sulla base dei programmi di Governo e delle diverse visioni del Mondo. Di conseguenza è chiaro che un problema di politica economica può essere affrontata secondo modelli diversi. Ciò fa sì che alcuni obiettivi politici possono essere in conflitto. Definiti gli obiettivi si predispongono gli strumenti per raggiungere tali obiettivi. Gli Strumenti Gli strumenti sono una “LEVA” di cui dispongono i policy maker per raggiungere dati obiettivi, in altri termini si tratta di grandezze che possono essere manovrate dai responsabili in grado di influenzare la variabile-obiettivo. Gli strumenti possono essere DIRETTAMENTE MANOVRATI (ad esempio un intervento sulla spesa pubblica G, oppure sulla tassazione T). Per diminuire la disoccupazione, il policy maker può pensare alla realizzazione di grandi opere, aumentando la spesa pubblica e impiegando un numero più elevato di persone. Oppure INDIRETTAMENTE MANOVRATI (ad esempio incentivando gli Investimenti con politiche ad hoc). Riduzione della pressione fiscale per le imprese in modo da stimolare gli investimenti e quindi l’occupazione. Modelli di analisi Per poter raggiungere gli obiettivi attraverso l’uso di strumenti appropriati il responsabile di politica si serve di modelli di analisi. Il modello non è altro che una rappresentazione semplificata della realtà generalmente espresso in termini matematici. All’interno del modello vi sono delle variabili, o meglio delle equazioni che esprimono relazioni fra variabili. I policy makers quindi devono avere un modello dell'economia che metta in relazione gli strumenti e gli obiettivi per poter scegliere i valori ottimali degli strumenti. Ad esempio considerando un modello semplice a cui è applicata l’equazione fondamentale della macroeconomia Y=C+I+G 7 Appunti di Politica Economica Se il policy maker ha l’obiettivo di raggiungere un determinato reddito, conoscendo C e I deve agire sulla spesa pubblica....In questo caso G è lo strumento, Y è l’obiettivo. la regola di Tinbergen Il teorema di Tinbergen afferma che in caso di obiettivi fissi se le autorità di politica economica si propongono di raggiungere “n” obiettivi, devono poter disporre di almeno “n” strumenti. Naturalmente le ricette di politica economica sono fortemente condizionate dalle ideologie interne tipiche del Decisore/policy maker e quelle incorporate nel modello di riferimento ossia le ideologie esterne. UN PROBLEMA DI POLITICA ECONOMICA E MODELLI ECONOMICI DI RIFERIMENTO Si ipotizzi che l’obiettivo del policy maker sia quello di ridurre la disoccupazione giovanile tramite l’aumento dell’occupazione in proprio, cioè divenire imprenditori. Che fare? Il policy maker dovrà adottare una teoria/modello di riferimento, ossia si potrà rifare ad una delle seguenti visioni: 1) Modello di Walras. Prevede che l’ imprenditore abbia capacità di coordinare l’attività produttiva, e quindi gli uomini e i mezzi necessari all’attività produttiva. In questo senso la strategia adottabile dal policy maker di ispirazione walrasiana è quella di promuovere la formazione professionale, e attuare quindi interventi in questa direzione. WALRAS => PROMOZIONE DI INTERVENTI DI FORMAZIONE PROFESSIONALE 2) Modello di Knight. L’imprenditore è colui che ha una alta propensione al rischio, per cui il policy maker di ispirazione knightiana ha il compito di facilitare l’informazione affinchè i soggetti propensi non si sentano bloccati da una difficoltosa e non corretta valutazione dei rischi dell’attività. La strategia di politica economica è quindi quella di programmare interventi a livello del sistema informativo. KNIGHT => PROMOZIONE DI INTERVENTI SUL SISTEMA INFORMATIVO 3) Modello di Schumpeter. L’imprenditore è colui che ha la capacità di creare. In questo senso il policy maker di ispirazione schumpeteriana dovrebbe agire per stimolare le vocazioni all’innovazione. SCHUMPETER => PROMOZIONE DI INTERVENTI SULL’AMBIENTE SOCIALE 4) Modello di Kalecki. L’imprenditore diviene tale grazie alla disponibilità di capitali propri. In quest’ottica il policy maker dovrebbe allentare il vincolo al capitale proprio, per cui la sua strategia potrebbe essere quella di organizzare interventi al livello del settore del credito. KALECKI=> PROMOZIONE DI INTERVENTI A LIVELLO DI CREDITO 8 Appunti di Politica Economica AZIONI DI POLITICA ECONOMICA Le azioni di politica economica si distinguono in 1) Azioni di breve periodo verso azioni di lungo periodo; 2) Azioni di natura qualitativa verso azioni quantitative. Il criterio alla base della prima distinzione fa riferimento alla prospettiva temporale in cui si colloca l’azione del policy maker e questa è dettata - dagli obiettivi che si pone; -dai tempi di efficacia degli strumenti che usa. La distinzione fra la politica economica qualitativa e quantitativa fa riferimento: -alla natura degli interventi attuati -alla rilevanza delle modificazioni strutturali prodotte. La politica delle riforme è l’espressione più compiuta di politica economica qualitativa, essa include scelte di privatizzazioni di un’industria, devolution federalismo ecc. che determina ripercussioni profonde nel sistema economico, modificando a volte gli stessi modelli di comportamento degli agenti economici e il quadro istituzionale. I Governi generalmente utilizzano con più frequenza provvedimenti di politica economica quantitativa, che consistono nella modificazione dei valori degli strumenti normalmente in funzione nel sistema economico per raggiungere determinati obiettivi. 1.4 Tipologie di Politica Economica Gli interventi di politica economica possono essere di natura microeconomica e macroeconomica. In ambito macroeconomico si individua: POLITICA FISCALE POLITICA MONETARIA POLITICA COMMERCIALE In ambito microeconomico si individuano: POLITICHE REDISTRIBUTIVE POLITICHE INDUSTRIALI POLITICHE REGIONALI POLITICHE ANTITRUST 9 Appunti di Politica Economica POLITICA FISCALE POLITICA FISCALE ossia l’insieme delle misure concernenti le entrate e le spese del settore pubblico. In termini più specifici la politica fiscale è la linea di azione adottata dal governo riguardo l'entità della spesa pubblica per beni e servizi, l'ammontare dei trasferimenti e il sistema fiscale. Le variabili manovrabili dallo Stato sono: • • • G = spesa pubblica TR = trasferimenti (quota di denaro che lo Stato eroga gratuitamente a vario titolo alle famiglie) t*Y = T = imposte riscosse (dato da una aliquota t calcolata sul reddito Y) Con queste tre variabili si può, inoltre, evidenziare la composizione del bilancio di uno Stato (BS): BS = T − (G + TR) e come si può agire. In generale possiamo affermare che le manovre attuabili dallo Stato sono di due tipi: manovre espansive e manovre restrittive. Una manovra espansiva consiste nell'aumento della spesa pubblica o dei trasferimenti, oppure in una riduzione delle imposte. Tale manovra, come risulta evidente, può generare un disavanzo nel bilancio dello Stato. Una manovra restrittiva invece, consiste nella riduzione della spesa pubblica o dei trasferimenti, oppure in un aumento delle imposte. POLITICA MONETARIA La politica monetaria è l'insieme degli strumenti, degli obiettivi e degli interventi, adottati dalla Banca Centrale per modificare e orientare la moneta, il credito e la finanza, al fine di raggiungere obiettivi prefissati di politica economica, di cui la politica monetaria fa parte. La politica monetaria assume il compito di garantire la stabilità dei prezzi interni ed esterni. Tale obiettivo non può essere raggiunto attraverso il controllo diretto dei prezzi, ma con operazioni che, influendo sulla domanda e l'offerta di beni e servizi, spinga i prezzi nella direzione desiderata. In particolare se, come spesso accade, il problema da affrontare è l'eccessivo aumento dei prezzi, il compito della politica monetaria è di rallentare le dinamiche della domanda in modo da contenere l'aumento dei prezzi nei limiti desiderati. Poiché le autorità monetarie non possono influenzare direttamente gli obiettivi finali (crescita del PIL, inflazione, tassi di cambio) devono puntare a raggiungere obiettivi intermedi (tassi di interesse, circolazione monetaria espressa attraverso gli aggregati monetari) che a loro volta influenzano gli obiettivi finali. Per raggiungere tali obiettivi, le banche centrali, cui viene affidata solitamente la politica monetaria, compiono operazioni di mercato aperto che, attraverso la compravendita di titoli, modificano i tassi di interesse. A loro volta le modifiche dei tassi influiscono sulla domanda e l'offerta di moneta e credito e per questa via, sulla domanda e l'offerta di beni e servizi. 10 Appunti di Politica Economica Le banche centrali possono poi influire sulla riserva obbligatoria e sul tasso di sconto che, attraverso il meccanismo del rifinanziamento delle banche, serve a regolare il credito concesso dalle banche alla clientela. Si definisce espansiva una politica monetaria che, attraverso la riduzione dei tassi di interesse, voglia stimolare l'offerta di moneta delle banche alle imprese, e quindi gli investimenti e la produzione di beni e servizi. Al contrario si definisce restrittiva una politica monetaria che, attraverso l'aumento dei tassi di interesse, riduca l'offerta di moneta e quindi renda meno conveniente investire e produrre. Le politiche monetarie restrittive hanno l'obiettivo di ridurre l'inflazione, o far calare il disavanzo pubblico, facendo rallentare la crescita dell'economia. POLITICA COMMERCIALE Le politiche commerciali sono realizzate per intervenire e influenzare il commercio internazionale e generalmente agiscono nelle relazioni commerciali fra Paesi. Esse possono essere poste in essere o da singoli Governi dei Paesi o da gruppi di Paesi in concerto. Per esempio, a livello europeo vi è un’unica politica commerciale, mentre la Cina, Stati Uniti, Canada gestiscono singolarmente la propria politica. Fra gli strumenti di politica commerciale vi sono: Accordi bilaterali/multilaterali per stimolare il commercio Dazi Sussidi Quote Standard sanitari e fitosanitari. A livello europeo la politica commerciale comune costituisce uno dei principali strumenti delle relazioni esterne dell'Unione europea. Tale politica rientra nella sfera di competenza esclusiva della Comunità (articolo 133 del trattato che istituisce la Comunità europea). Essa costituisce la contropartita dell'Unione doganale fra gli Stati membri. La politica commerciale comune implica una gestione uniforme delle relazioni commerciali con i paesi terzi, segnatamente tramite una tariffa doganale comune e tramite regimi comuni che regolano le importazioni e le esportazioni. La Comunità persegue l'eliminazione delle restrizioni agli scambi, nonché delle barriere doganali. Per proteggere il mercato comunitario, la Comunità dispone di strumenti quali le misure antidumping e antisovvenzioni, il regolamento sugli ostacoli al commercio e le misure di salvaguardia. La Commissione negozia e conclude accordi internazionali a nome della Comunità nel quadro delle sue relazioni bilaterali e multilaterali. Essa partecipa attivamente all'Organizzazione mondiale del commercio. L'Unione europea sostiene un commercio liberalizzato, equilibrato e favorevole agli interessi di tutti gli operatori internazionali e in particolare dei paesi meno favoriti. In tal senso, le misure preferenziali generali e specifiche in favore di questi ultimi costituiscono un aspetto importante della politica commerciale comune. In ambito microeconomico si individuano: POLITICHE REGIONALI POLITICHE INDUSTRIALI 11 Appunti di Politica Economica POLITICHE ANTITRUST POLITICHE REGIONALI Sono politiche che hanno come obiettivo la redistribuzione geografica del reddito fra le aree territoriali di una economia. Esse quindi mirano a ridurre gli squilibri di quelle economie cosiddette duali, quali l’Italia che si caratterizza per il forte divario in termini economici, di occupazione, produzione e reddito fra il Nord e il Mezzogiorno, divario che si è andato sviluppando già con l’Unità d’Italia. Altri esempi di economie duali sono la Germania con i Länder dell’Est e dell’Ovest, il Regno Unito con la questione del Nord (povero) e Sud (ricco). Le politiche regionali possono essere stabilite a livello nazionale e locale. POLITICHE INDUSTRIALI La Politica Industriale è intesa come un complesso di interventi più o meno coerenti nel settore secondario. L’Obiettivo della politica industriale è quello di creare le condizioni affinché la produzione possa essere realizzata con costi competitivi in modo da soddisfare la domanda sia interna sia estera. Le forme di intervento sono di tipo settoriale, possono incidere sulle forme dei mercati, sulle relazioni con i sindacati, sulle componenti dei costi, e della domanda pubblica, con nuove tecnologie per assicurare una maggiore competitività dei prodotti. In Italia la politica industriale si attua mediante le agevolazioni creditizie destinate alle produzioni nel settore industriale o in particolari aree geografiche del Paese; ci sono anche altre forme di sostegno della produzione, come le commesse pubbliche e le agevolazioni fiscali. L’industria include i sottosettori: 1) Manifatturiero; 2) delle Costruzioni; 3) Energia (nucleare, eolica, gas) Le politiche realizzate nel settore industriale spesso mirano a rafforzare determinati settori, ad esempio in Italia sono state sostenute le industrie automobilistiche. Possiamo distinguere 3 fasi distinte del comportamento dei governi riguardo alla Politica industriale, dovute al mutamento delle regole del commercio tra i singoli paesi e della progressiva globalizzazione dell’economia. Fase 1) La politica industriale nazionale (tradizionale) – dal dopoguerra ai primi anni Ottanta. Gli stati nazionali intervenivano in sostituzione o opposizione al mercato favorendo specifici settori produttivi attraverso politiche interventiste attive. L’obiettivo principale era l’aumento della competitività internazionale attraverso i “campioni nazionali”. Con le crisi degli anni Settanta gli scopi diventarono soprattutto difensivi. Nella fase 1 gli strumenti di politica economica variarono a seconda del paese: gli Stati Uniti ad esempio usarono la domanda pubblica protezionistica; il Giappone adottò la pratica del piano settoriale; l’Europa si servì soprattutto di sussidi alle imprese. 12 Appunti di Politica Economica Fase 2) La politica industriale come politica di aggiustamento strutturale (dall’inizio degli anni ‘80 all’inizio dei ’90) – lo Stato interviene assecondando il mercato senza sostituirlo. Si mantengono gli scopi difensivi con l’attuazione di politiche per i settori in declino. In Italia si punta alla politica per la concorrenza. In Inghilterra cominciano processi di deregolamentazione e privatizzazioni. Fase 3) La Politica Industriale come garanzia di condizioni-quadro - Inizia con l’avvio del Mercato Unico Europeo e la trasformazione della Comunità in Unione Europea, e la nascita del World Trade Organization. La UE resta la sola organizzazione dotata di poteri di intervento sia nella politica per la concorrenza sia nella politica industriale. La Commissione europea presenta una politica industriale al fine di realizzare un quadro più adeguato per l'industria europea. La realizzazione di una base industriale solida e dinamica favorisce la crescita dell'Unione europea e sostiene la sua leadership tecnologica ed economica in un contesto di globalizzazione crescente. POLITICHE ANTITRUST Le politiche antitrust sono quelle politiche economiche volte a combattere accordi e intese fra imprese finalizzati a limitare la concorrenza; contrastare gli abusi di posizioni dominanti; impedire acquisizioni e fusioni di imprese che determinerebbero minore concorrenza. Le prime politiche antitrust vennero attuate negli USA, con il noto Sherman Antitrust Act del 1890. Successivamente, la normativa antitrust si diffuse in Europa e precisamente nel 1957 in Germania, nel 1968 nel Regno Unito, nel 1977 in Francia e nel 1990 in Italia con l’istituzione dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato. Perché la politica antitrust in Europa nasce in ritardo rispetto agli USA? Per due motivi: A fine Ottocento, sia gli USA che i Paesi europei iniziano a sperimentare processi di industrializzazione pesante, con episodi di concentrazione industriale e con la nascita di cartelli industriali. Gli USA e i Paesi europei scelgono di seguire due strade di intervento correttivo differenti: - Negli USA lo Stato ricopre un ruolo di “arbitro”, quindi non era direttamente presente nel mercato, ma lo sorvegliava dall’esterno e lo svolgimento di tale compito si ripercosse sull’attuazione delle normative antitrust. - Le Autorità di politica economica europee scelsero invece di fare intervenire direttamente lo Stato nel mercato, soprattutto incidendo sull’offerta, lo Stato, quindi, esercitava il ruolo di “giocatore”; il ruolo interventista dello Stato portò alla creazione di monopoli pubblici, il cui esercizio, almeno in astratto, si ispirava più all’ottimizzazione del benessere sociale, che a quella del profitto. Ciò portava l’Autorità di politica economica a disinteressarsi delle normative antitrust. L’economia statunitense era chiusa e poco propensa agli scambi internazionali, mentre in Europa gli scambi con l’estero erano frequenti ed avevano come conseguenza una spiccata concorrenzialità, il che escludeva fisiologicamente la necessità di norme esterne. 13 Appunti di Politica Economica CAPITOLO II POLITICA ECONOMICA E CRESCITA 2.1 Introduzione "Il 2011 sarà un anno decisivo per l’economia. E la direzione in cui essa andrà dipenderà in modo cruciale dalla politica. Sono un convinto liberista e so che non sono i governi che possono determinare da soli la crescita economica. Ma vi sono fasi della storia in cui i mercati aspettano segnali dalla politica e l’anno che si apre non permetterà alla politica di seguire il detto inglese ’wait and see’. Questo vale sul piano globale, sul piano europeo e sul piano nazionale". Inizia così il lungo intervento del ministro della Pubblica Amministrazione, pubblicato su Il Sole 24Ore. Con l’agenda internazionale attualmente in discussione si mira a dare i segnali attesi e a conseguire i due obiettivi principali. Il primo e’ quello del consolidamento fiscale, e cioè come assicurare la convergenza rapida di tutti paesi europei verso una politica di bilancio che consenta la sostenibilità di lungo periodo dei debiti pubblici e l’equilibrio macroeconomico. In discussione vi è una nuova regola europea diretta ad accelerare il processo di riduzione del debito e che prevede un obiettivo annuale di riduzione del rapporto debito/pil pari al 5 per cento del divario di questo rapporto dal valore di riferimento del 60 per cento. Il secondo obiettivo e’ quello di poter attuare politiche di sostegno alla crescita economica non basate sulla spesa in deficit, ma evitando politiche fortemente deflattive e con gli spazi necessari ad attuare le riforme necessarie ad aumentare la competitività dell’Europa nel suo complesso e dei singoli paesi membri. Fra gli obiettivi più importanti di politica economica vi sono gli interventi per favorire crescita e sviluppo. Il concetto di crescita è un concetto essenzialmente quantitativo: con questa parola si designa il processo di aumento del reddito nazionale di un Paese. Il concetto di sviluppo è più esteso e necessita di importanti qualificazioni relativamente ad altri aspetti del cambiamento dell’economia e della società, quali la distribuzione del reddito; le condizioni di vita; la speranza di vita; il grado di istruzione ed altro. Può esserci crescita senza sviluppo. Indicatori di Crescita e di Sviluppo Il principale indicatore del livello di crescita raggiunto da un’economia è il PIL e più specificatamente il PIL pro capite. Il ritmo di crescita è misurato dal tasso annuo di variazione 14 Appunti di Politica Economica del PIL. Il livello dello sviluppo è solitamente analizzato integrando gli indicatori precedenti con altri indicatori qualitativi. L’indicatore sintetico di sviluppo più utilizzato e diffuso è l’Indice di Sviluppo Umano elaborato dall’ONU. Iniziamo la trattazione con l’analisi del Pil per individuare il livello di crescita e il ritmo di crescita economica di un Paese per poi individuare gli strumenti di politica economica che lo influenzano. Infine si passerà in rassegna l’indicatore sintetico del livello di sviluppo. 2.2 Il Prodotto Interno Lordo Una delle variabili macroeconomiche che rende in maniera più immediata l’attività economica di un paese è il PIL, prodotto interno lordo. Il PIL è “interno” in quanto comprende il valore dei beni e servizi prodotti all'interno in un paese, indipendentemente dalla nazionalità di chi li produce. Il PIL è “lordo” perché include gli ammortamenti (cioè la misura del deprezzamento dello stock di capitale). Se vengono esclusi gli ammortamenti cioè si tiene conto del deprezzamento, si parla di prodotto interno netto (PIN). In breve PIN=PILammortamenti. Il PIL può essere riferito all’intero sistema economico, si parla di PIL complessivo, oppure può essere riferito ai singoli individui, in questo caso si parla di PIL in termini procapite (questo è calcolato dividendo il PIL per il numero di abitanti). Il PIL complessivo esprime la misura della ricchezza nazionale, il PIL pro-capite misura, invece, la ricchezza individuale e permette di quantificare il tenore di vita di un dato paese. Se il PIL complessivo cresce a un tasso superiore a quello della popolazione, il tenore di vita del paese (e quindi il PIL pro-capite) registra un miglioramento, e viceversa. Per confrontare i tenori di vita tra i diversi paesi, si può pensare di convertire il PIL pro capite in un’unica valuta, per esempio esprimere tutto in dollari statunitensi. In altri termini significherebbe utilizzare i tassi di cambio correnti per esprimere tutto in una valuta internazionale come ad esempio il dollaro americano e poi procedere alla comparazione. Questo metodo, tuttavia, non tiene conto delle differenze del costo della vita nei vari paesi, (ad esempio il prezzo di un’abitazione di uguali caratteristiche non è lo stesso fra i diversi paesi, così il prezzo per un taglio di capelli in India è molto differente da quelli registrati in Italia o in Ingliterra) per cui molti economisti ritengono opportuno tener conto dei prezzi interni di ciascun paese, quando ciò viene fatto il PIL pro capite si dice che viene espresso in termini di parità dei poteri d’acquisto, o semplicemente PIL alla PPP (“purchasing power parity”). I calcoli basati sulla PPP sono misure più ragionevoli che cercano di trasformare una valuta in un’altra a un tasso che preservi il potere d’acquisto medio e quindi tenga conto anche dell’inflazione1. La parità dei poteri d’acquisto, in altri termini, è un indicatore che elimina le differenze fra Paesi nel livello generale dei prezzi permettendo confronti in volume del Prodotto interno lordo. Il PIL pro capite alla PPP dà quindi una valutazione del tenore di vita di un paese più rappresentativa rispetto al semplice PIL pro capite ai tassi di cambio corrente. In base a dati relativi al 2007, il PIL pro capite italiano alla PPP è di 30.365 dollari statunitensi, quello del Giappone di 35.484,30, quello statunitense di 45.725. Le significative differenze di reddito fra le economie mondiali riflettono differenze di produttività (efficienza), quest’ultima è definita come il rapporto fra la produzione o PIL e il numero di lavoratori occupati. Nella seguente tabella è riportato un confronto del reddito pro-capite lordo valutato alla parità dei poteri d’acquisto per i 27 Paesi dell’Unione Europea. 1 In termini analitici la parità dei poteri di acquisto si calcola PPP2011 = tasso di cambio2011*(indice prezzo paese A/indice prezzo paeseB) 15 Appunti di Politica Economica Fonte: ISTAT, 2009 Box 1. Esempio, parità dei poteri di acquisto «PPP, chi era costui?», avrebbe detto don Abbondio. Ma ai suoi tempi le parità di potere d'acquisto non esistevano. O, per meglio dire, avevano un'esistenza virtuale, nel senso che la realtà statistica esisteva, e sarebbe stato anche interessante indagarla, quando l'Italia era divisa in vari Stati con varie monete. Allora, che cos'è la PPP? Il concetto è semplice. Supponiamo di dover confrontare lo stipendio di due postini, uno che vive a Milano e uno che vive a Matera. Lo stipendio è eguale, ma i prezzi a Milano sono più alti che a Matera. Quindi lo stipendio del postino lucano ha più potere d'acquisto di quello del postino milanese. Insomma, quando si confrontano due quantità monetarie bisogna tenere conto di quello che si può comprare con quei soldi, indipendentemente dal livello nominale dei redditi. Lo stesso principio vale per il confronto fra i redditi medi – Pil pro-capite – di due diversi Paesi. Traducendo la moneta del Botswana in euro, si vede che i redditi medi di quel Paese povero sono, mettiamo, un ventesimo di quelli della Germania. Vuol dire che anche il potere d'acquisto degli abitanti del Botswana è un ventesimo di quello dei tedeschi? No, perché in quel Paese africano la roba costa di meno. Quindi, per fare un vero confronto bisogna adottare un particolare tasso di cambio, diverso da quello di mercato: un cambio che prenda in conto la diversità del livello dei prezzi nei diversi Paesi. Per fare questo bisogna rilevare i prezzi in moneta locale nei diversi Paesi e usare poi le quattro operazioni per calcolare questi particolari tassi di cambio: appunto, le parità di potere d'acquisto. Glossario Sole24ore 16 Appunti di Politica Economica 2.3 Definizioni e metodi di misurazione del PIL In economia per analizzare lo stato di salute di un Paese, il primo passo da fare è misurare il prodotto interno lordo. Esistono quattro modi equivalenti di definire e misurare il Pil di una economia: 1. Secondo il metodo del prodotto, il PIL è il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali nuovi prodotti in un paese in un dato periodo di tempo, generalmente l’anno o il trimestre 2. Sulla base del metodo del valore aggiunto, il PIL è la somma del valore aggiunto in una economia in un dato periodo di tempo 3. Secondo il metodo del reddito, il PIL è la somma dei redditi dell’economia in un dato periodo di tempo 4. Usando il metodo della spesa, il PIL è la somma della spesa aggregata dell’economia in un dato periodo di tempo (). Il metodo del prodotto Si analizzi la prima definizione: “Il PIL è il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali nuovi prodotti in un paese in un dato periodo di tempo”. Per valore di mercato si intende il valore dei beni e i servizi misurato ai prezzi di mercato, cioè ai prezzi a cui i prodotti vengono venduti sui mercati. Il vantaggio di utilizzare il valore di mercato è che esso permette di sommare beni e servizi eterogenei. Si immagini di voler misurare il prodotto di una economia che produce 3.000 scooter e 10.000 panini, i cui prezzi medi sono 2.000 euro per ogni scooter e 1 euro a panino, il valore del PIL ammonta a: 3.000*2.000 + 10.000*1=6.010.000 euro Ossia il PIL è il risultato della somma del prodotto fra il prezzo dei beni e servizi (P), e la quantità di essi scambiata (Q). Il PIL include beni e servizi nuovi, vale a dire prodotti nel periodo considerato, e finali, ossia quelli ottenuti nella fase terminale del processo produttivo. Le brioches vendute da un bar sono beni finali, e vengono contabilizzati nel PIL, la farina, il lievito e il burro impiegati per fare le brioches sono beni intermedi e per questo non inclusi nel calcolo del PIL. Box 2. Esempio, beni finali & beni intermedi Si supponga che un allevatore di bovini venda una mozzarella a “Pizza Hut” per 1 euro e che questa venda una pizza a 4 euro. Il computo del PIL dovrebbe includere sia la mozzarella che la pizza per un totale di 5 euro o solo la pizza per 4 euro? Nel calcolo del PIL secondo il metodo del prodotto vengono inclusi solo i beni e servizi finali, quindi viene considerata esclusivamente la pizza e non la mozzarella: il PIL aumenta di 4 euro e non di 5 euro, perché il valore del bene intermedio è già compreso nel prezzo di mercato del bene finale che ha concorso a produrre. Aggiungere il valore del bene intermedio a quello finale significherebbe effettuare una doppia contabilizzazione, cioè calcolare due volte il valore della mozzarella. I beni e servizi devono essere prodotti all’interno del paese per essere contabilizzati nel PIL di quel paese. Il PIL italiano misura tutto ciò che è prodotto in Italia, sia da italiani che da 17 Appunti di Politica Economica soggetti stranieri. Dal PIL italiano viene invece, escluso quello che è prodotto da soggetti italiani all’ estero. Ad esempio mentre il valore di mercato dei servizi venduti dal Club Med (multinazionale francese) in Italia rientra nel calcolo del PIL italiano, il valore di mercato dei beni prodotti da un italiano che ha una pasticceria in Francia, viene contabilizzato nel PIL francese. Accanto al PIL esiste un’altra variabile che permette di misurare la ricchezza nazionale e che viene adottata dal sistema di contabilità nazionale dei paesi dell’ONU, il Prodotto Nazionale Lordo (PNL). Il PNL valuta la ricchezza di un Paese (ad esempio l’Italia) prendendo in considerazione la produzione realizzata dai cittadini di quel Paese (gli italiani), indipendentemente dal fatto che essi si trovino nel Paese o all’estero (nel caso dell’Italia è quindi il valore della produzione degli italiani). Nell’esempio precedente, il valore di mercato dei beni del produttore italiano che ha una pasticceria in Francia viene contabilizzato sia nel PNL italiano che nel PIL francese. Si ribadisce che, bisogna valutare il PIL in un determinato arco temporale. Il metodo del valore aggiunto Secondo il metodo del valore aggiunto, il PIL è la somma dei valori aggiunti in tutti gli stadi di produzione in una economia in un dato arco temporale. Il valore aggiunto non è altro che il valore del prodotto finale meno il valore dei beni intermedi utilizzati per produrlo. Si riprenda l’esempio dell’allevatore di bovini che vende una mozzarella a “Pizza Hut” per 1 euro e che quest’ultima venda la pizza prodotta a 4 euro. Nel caso della mozzarella il valore aggiunto dell’allevatore è di 1 euro, supponendo che non abbia acquistato alcun bene intermedio per produrla. Il valore aggiunto di “Pizza Hut” è di 3 euro (4 euro-1 euro). Il valore aggiunto totale è pari a 4 euro (ossia 1 euro + 3 euro). Il metodo del reddito Il PIL è dato dalla sommatoria di tutti i redditi generati nell’economia in un anno, esso include: i redditi da lavoro i redditi da capitale o profitto le imposte indirette I redditi da lavoro sono i salari pagati ai lavoratori dipendenti; i redditi da capitale o profitto sono quelli che rimangono alle imprese dopo avere pagato i lavoratori; le imposte indirette sono quelle pagate al governo sotto forma di imposte sulle vendite. Il metodo della spesa Secondo il metodo della spesa il PIL (Y) o prodotto o reddito o offerta aggregata, si compone di cinque elementi: Y = C+I+G+E-X (1) 18 Appunti di Politica Economica dove C=consumi, I=investimenti, G=spesa pubblica, E=esportazioni X=importazioni. L’espressione (1) rappresenta l’equazione fondamentale dell’economia. La differenza fra esportazioni ed importazioni costituisce le esportazioni nette, NX, per cui la (1) si può anche formalizzare come Y = C+I+G+NX (1.1) La sommatoria, C+I+G+NX rappresenta la spesa aggregata. Quando un’economia è chiusa, ossia di tipo autarchico, le esportazioni nette sono nulle (NX=0) perciò vale la relazione: Y = C+I+G offerta domanda aggregata aggregata (1.2) La produzione o PIL, indicata con Y, rappresenta l’offerta aggregata del sistema economico, il secondo membro indica la domanda aggregata. L’equazione 1.2 esprime quindi l’equilibrio nel mercato dei beni e servizi poiché la domanda aggregata è pari all’offerta aggregata. Si analizzi nel dettaglio ciascuna delle componenti della spesa aggregata. I Consumi I consumi delle famiglie (C), rappresentano la spesa in beni e servizi finali, dall’abbigliamento alle lezioni di tennis, effettuata sul territorio italiano. I beni e servizi consumati possono essere stati prodotti nel paese o importati. Nei consumi italiani sono inclusi anche i consumi dei turisti stranieri in Italia, mentre sono escluse le spese per turismo all’estero degli italiani. Il consumo è la componente più rilevante del PIL e in Italia contribuisce con più del 60% alla sua formazione. Si possono individuare quattro tipologie di consumo: 1) beni durevoli, destinati ad un uso prolungato nel tempo, come ad esempio automobili, mobili, televisioni; 2) beni semidurevoli, aventi di solito una durata media superiore all’anno, ma di gran lunga inferiore a quella dei beni durevoli. Appartengono a questo gruppo il vestiario e le calzature, la biancheria e gli pneumatici; 3) beni non durevoli, acquistati e consumati nel periodo di riferimento, come generi alimentari, medicinali; 4) servizi come ad esempio i servizi finanziari, le spese per alberghi e ristoranti. Il reddito disponibile (che si indica con YD) è il fattore principale da cui dipendono le decisioni di consumo degli individui. Esso è il reddito al netto delle imposte, ossia dopo avere pagato le imposte T, per cui risulta in termini analitici, YD=Y-T. È possibile assumere che la forma funzionale della relazione tra il consumo e il reddito disponibile sia lineare: 19 Appunti di Politica Economica C = C + c ⋅ YD con C > 0 0 < c < 1 (2) dove C è il consumo, C è la componente autonoma dei consumi2, YD il reddito disponibile e c è la propensione marginale al consumo, ossia evidenzia di quanto varia il consumo in seguito ad una variazione unitaria di reddito3. c rappresenta graficamente l’inclinazione della funzione di consumo. La propensione marginale al consumo è compresa fra 0 e 1, in quanto gli individui tendono ad aumentare i propri consumi all’aumentare del reddito, ma non nella stessa misura in cui il reddito aumenta. Se un soggetto guadagna un euro in più, normalmente ne consuma una parte e ne risparmia la parte restante. L’equazione (2) è la funzione consumo di matrice keynesiana, ed evidenzia la relazione positiva che sussiste fra consumo e reddito disponibile, ossia al crescere di quest’ultimo i consumi aumentano, e viceversa. In un piano cartesiano la funzione di consumo può essere rappresentata nel modo che segue: Figura 1 La funzione consumo keynesiana C Funzione consumo, C = C + c ⋅ Y C d c Yd reddito disponibile Nel piano cartesiano sull’asse delle ascisse è riportato il reddito disponibile, su quello delle ordinate i consumi. Data l’ipotesi di linearità, la funzione è rappresentata da una retta che ha inclinazione positiva; il segmento intercettato dalla retta sull’asse delle ordinate rappresenta la componente autonoma dei consumi, inoltre la pendenza della retta dà la propensione marginale al consumo. La grandezza è detta “autonoma” in quanto non dipende dal reddito. Oltre alla propensione marginale al consumo, vi è la propensione marginale al risparmio. Quest’ultima rappresenta l'aumento del risparmio determinato da un incremento del reddito disponibile pari ad una unità di moneta (ad esempio un euro). La propensione marginale al risparmio è il complemento a 1 della propensione marginale al consumo, ossia s = 1 − c dove s = propensione marginale al risparmio e c = propensione marginale al consumo. 2 3 20 Appunti di Politica Economica Box 3. Risparmio privato e risparmio pubblico Il risparmio è l’altra faccia della medaglia dei consumi. Per capire meglio la natura del risparmio è necessario distinguere fra risparmio privato e pubblico. Il risparmio privato é reddito che rimane agli individui dopo aver soddisfatto i propri bisogni di consumo e aver pagato le tasse, ossia: Sprivato= (Y – C – T) Il risparmio pubblico è differenza tra entrate pubbliche e la spesa pubblica, in particolar se T > G avremo un avanzo pubblico (entrate maggiori delle uscite), se invece T < G avremo un deficit di bilancio (uscite maggiori delle entrate): Spubblico= (T – G) Il risparmio nazionale o risparmio totale è dato dalla somma del risparmio pubblico e privato. S= Sprivato + Spubblico S = (Y – C – T) + (T – G) S = (Y – C – G) Modo alternativo per esprimere l’equilibrio nel mercato dei beni e servizi Un modo alternativo all’equazione 1.2 per descrivere l’equilibrio nel mercato dei beni e servizi in un’economia chiusa è considerare gli investimenti e i risparmi di un paese. In particolare, partendo dall’uguaglianza Y = C + I + G e isolando il termine investimenti, si ottiene: Y-C-G=I Sapendo che se dal reddito complessivo vengono sottratte la spesa per i consumi correnti e la spesa pubblica (spesa corrente dello stato) si ottiene il risparmio nazionale ossia S = Y – C – G , allora in un sistema economico in equilibrio il risparmio deve essere quindi uguale agli investimenti: S=I L’ equazione 1.2, ossia Y = C+I+G e l’uguaglianza S=I sono, pertanto, due modi equivalenti per formalizzare l’equilibrio macroeconomico di un paese in condizioni di autarchia. Gli Investimenti La componente “I” nella precedente relazione (1) rappresenta gli investimenti, questi si distinguono in: investimenti fissi delle imprese (ad esempio impianti, attrezzature e fabbricati), investimenti residenziali (ad esempio immobili abitativi) e investimenti in scorte, ossia beni rimasti invenduti. Generalmente per acquistare beni di investimento le imprese prendono denaro in prestito. Maggiore è il tasso di interesse su tali prestiti, minori sono i profitti che le imprese si aspettano di realizzare perciò minori sono i capitali destinati all’acquisto di nuovi macchinari e fabbricati, e quindi inferiore sarà la disponibilità a prendere a prestito per fare investimenti. Viceversa, in presenza di tassi di interessi più bassi le imprese saranno maggiormente disposte ad investire. 21 Appunti di Politica Economica Gli investimenti e il tasso di interesse La funzione della spesa per investimenti (I) può essere espressa dalla seguente relazione: I = I −b⋅i b>0 (3) dove la variabile i rappresenta il tasso di interesse, il coefficiente b misura la sensibilità degli investimenti al tasso di interesse e la variabile Ī indica la spesa autonoma in investimenti, ossia quella che non dipende né dal livello del reddito né dal tasso di interesse. L’equazione (3) indica che quanto minore è il tasso di interesse, tanto maggiore è l’investimento; se il valore del coefficiente b è elevato, un aumento relativamente modesto del tasso di interesse provoca una riduzione notevole della spesa in investimenti. La Figura 2, rappresentazione della curva di investimento espressa dall’equazione (3), indica l’ammontare della spesa che le imprese programmano di destinare agli investimenti in corrispondenza di ogni livello del tasso di interesse. La curva ha pendenza negativa, a conferma dell’ipotesi secondo la quale una riduzione del tasso di interesse porta le imprese a investire di più. Figura 2 La curva di domanda per investimento i, tasso di interesse nominale I, investimento Bisogna notare che il tasso di interesse può essere nominale o reale: il tasso di interesse nominale, si indica con i , include l’inflazione (π); il tasso di interesse reale si indica con r ed esclude l’inflazione, per cui in termini analitici quest’ultimo è pari a r =i-π. L’andamento del tasso di interesse in termini reali e nominali sui BOT a tre mesi in Italia è riportato in Figura 3. Il confronto rende evidente il livello di inflazione. 22 Appunti di Politica Economica Figura 3 Andamento dei tassi di interesse sui BOT a tre mesi. Fonte: Istat, 2008 Nella contabilità nazionale vengono inclusi esclusivamente gli investimenti in capitale fisso (macchinari e infrastrutture), investimenti residenziali e scorte, non vengono considerati gli investimenti intangibili, ossia gli investimenti in R&D (research & development), in software, in educazione, e le spese sostenute dalle imprese per riorganizzare la produzione, migliorare un prodotto, portarlo sul mercato e consolidarne la reputazione. Gli investimenti intangibili sono quella componente degli investimenti che permette di accrescere il capitale umano. Studi economici recenti per gli Stati Uniti e il Regno Unito indicano che da circa dieci anni l’accumulazione di capitale “intangibile” ha superato o raggiunto per dimensioni gli investimenti in capitale fisso. Si stima che essi abbiano superato il 10% del PIL, per cui le statistiche ufficiali tenderebbero a sottostimare il quadro aggregato (il livello del reddito e il suo tasso di crescita). È probabile che il peso degli investimenti intangibili sia cresciuto nel tempo, insieme alla terziarizzazione delle economie avanzate. Quanto sono rilevanti gli investimenti intangibili in Italia? Le stime non appaiono attendibili. Sembra tuttavia che questi siano meno significativi nel nostro Paese rispetto ad altre economie. Sommando spesa in R&D, software, istruzione avanzata in percentuale del reddito nazionale, l’Italia è in fondo alla classifica dei Paesi OCSE, poco davanti al Portogallo e Grecia (Tabellini, il Sole 24 ore, 6-52007). La Spesa Pubblica G esprime la spesa pubblica o consumi collettivi, ossia l’acquisto di beni e servizi da parte dello Stato e degli Enti pubblici. In questa voce rientrano, quindi, i consumi delle Amministrazioni pubbliche (dalla manutenzione delle strade agli stipendi dei dipendenti pubblici) e delle Istituzioni sociali private (es. sindacati, partiti politici, associazioni religiose). La voce principale di spesa pubblica italiana è costituita dalla spesa sanitaria, seguono la spesa previdenziale e le retribuzioni ai dipendenti pubblici. 23 Appunti di Politica Economica Le Esportazioni Nette Con NX si indicano le esportazioni nette (o saldo commerciale) ossia la differenza fra esportazioni ed importazioni. Le esportazioni sono i beni e servizi prodotti in un paese e venduti all’estero. Le importazioni sono i beni e servizi che un paese compra dall’estero. Se si verifica che le esportazioni superano le importazioni l’economia presenta un avanzo commerciale. Viceversa se sono le importazioni a superare le esportazioni si è di fronte a un disavanzo commerciale. Il PIL valutato secondo i quattro metodi Il PIL misurato secondo i quattro metodi, ossia il metodo del prodotto, il metodo del valore aggiunto, il metodo della spesa e il metodo del reddito deve coincidere. In altre parole, a meno di problemi di completezza o errori nella trascrizione dei dati, i metodi forniscono un’identica misura del livello dell’attività economica. Proprio per questo, deve essere vero che in ogni specifico periodo di tempo, prodotto totale=valore aggiunto totale=reddito totale=spesa totale (4) dove prodotto, valore aggiunto, reddito e spesa sono misurati in termini monetari. L’equazione 4 è detta identità fondamentale di contabilità nazionale. Nella seguente tabella si riportano le componenti del PIL italiano relativo al 2009. Le componenti del PIL in Italia nel 2009, contributi % % Consumi 60,9% Spesa delle P.A. 21,8% Investimenti fissi lordi 19,2% Esportazioni nette -1,9% PIL 100% Fonte: Banca d’Italia, 2010 24 Appunti di Politica Economica 2.4 Distinzione fra PIL reale e PIL nominale Come ogni variabile economica, il PIL può essere misurato in termini reali o termini nominali. Il PIL nominale è il valore della produzione espresso in termini di moneta, ossia la somma delle quantità di beni e servizi finali prodotti moltiplicata per il prezzo corrente. Per questo Il PIL nominale si chiama anche PIL a prezzi correnti. Il PIL nominale, varia nel tempo o perché varia la produzione o perché variano i prezzi, o entrambi. Quindi il PIL nominale descrive l’andamento della produzione includendo sia le variazioni delle quantità prodotte, sia le variazioni dei prezzi dei beni prodotti. Yt=qt*pt Il PIL reale, è il valore della produzione espresso in termini di beni, ossia la somma delle quantità di beni e servizi finali prodotti moltiplicata per un prezzo costante. Per questo si chiama anche PIL a prezzi costanti. Il PIL reale, varia nel tempo solo perché varia la produzione. Quindi esso esprime l’andamento della produzione di beni e servizi frutto solo delle variazioni delle quantità. Il PIL reale è quindi depurato dagli effetti delle variazioni di prezzo (o inflazione). È una grandezza più significativa rispetto al PIL nominale, perché esso misura la produzione in termini di effettivo potere d’acquisto della collettività e valuta quindi, il benessere economico di un paese. Yt=qt*p PIL nominale PIL reale 25 Appunti di Politica Economica Nel seguente grafico sono messi a confronto il PIL reale e nominale in Italia dal 1987 al 2011. Si nota che il PIL nominale è cresciuto di più del PIL reale e questo si è verificato soprattutto dopo il 2000. Figura 4 Andamento del PIL nominale e reale in Italia in miliardi di euro. 1800 1600 1400 1200 1000 PIL reale PIL nominale 800 600 400 200 2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 1990 1989 1988 1987 0 Fonte: Elaborazioni su Economist Intelligence Unit Secondo i dati ISTAT, nel 2006 il PIL reale dell’area Euro4 è stato pari a 13.000 miliardi di euro, i Paesi che hanno maggiormente contribuito alla sua formazione sono stati, la Germania, la Francia, l’Italia e la Spagna (Figura 5). Figura 5 Contributi % dei Paesi alla formazione del PIL dell’area Euro, 2006 Francia 16% Altri paesi 42% Germania 20% Italia 13% Spagna 9% Fonte: ISTAT, 2008. 4 Quando si parla di “Area dell’Euro” o di “Eurozona” o di di “Eurolandia” si intende l’area che comprende i paesi dell’Unione Europea che hanno adottato l’Euro come moneta ufficiale. L’Area euro dal 1° gennaio 2001 è costituita da Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Si aggiungono dal 1° gennaio 2007 la Slovenia, dal 1° gennaio 2008 Cipro e Malta, dal 1° gennaio 2009 la Slovacchia e dal gennaio 2011 l’Estonia. L’Unione europea è costituita da 27 Paesi, i 17 dell’area euro e Bulgaria, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Regno Unito,Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Ungheria. L’Area euro è quindi un “sottoinsieme” dell’Unione Europea. 26 Appunti di Politica Economica 2.5 Determinazione del PIL reale e nominale Per passare dal PIL nominale al PIL reale è necessario eliminare gli effetti delle variazioni dei prezzi sulla produzione, ciò si fa selezionando un anno base, ossia un anno di riferimento, e utilizzando poi i prezzi di quell’anno per valutare la produzione di beni e servizi in altri periodi. A titolo di esempio, si consideri un paese che produce quattro beni: pane, latte, mele e barrette di cioccolata. Nella tabella sono riportate le quantità prodotte di ciascun bene e i relativi prezzi nell’anno 1 e nell’anno 2. Supponendo l’anno 1 come anno base, è possibile trovare il PIL nominale e reale nei due periodi. Anno 1 Anno 2 quantità prezzo (euro/kg) quantità prezzo (euro/kg) pane 100 1,20 pane 108 1,50 latte 80 1,30 latte 85 1,70 mele 120 0,90 mele 130 1,20 cioccolata 76 0,50 cioccolata 85 1,00 Il PIL nominale nell’anno 1 è 370 euro, ossia 100 *1,20 + 80 *1,30 + 120 * 0,90 + 76 * 0,50 = 370 Il PIL nominale nell’anno 2 è 547,50 euro, ossia 108 *1,50 + 85 *1,70 + 130 *1,20 + 85 *1,00 = 547,50 Il PIL reale nell’anno 1 è uguale al PIL nominale dell’anno 1, ossia 100 *1,20 + 80 *1,30 + 120 * 0,90 + 76 * 0,50 = 370 Il PIL reale nell’anno 2 è 399,60 euro, ossia 108 *1,20 + 85 *1,30 + 130 * 0,90 + 85 * 0,50 = 399,60 Dal confronto si rileva che il PIL reale nell’anno 2 è minore del PIL nominale relativo allo stesso anno, questo perchè il PIL reale è privato dell’inflazione. Si ricava inoltre che nel passaggio dall’anno 1 all’anno 2 il PIL reale è aumentato: l’economia presenta una crescita di produzione. 27 Appunti di Politica Economica 2.6 Il ritmo della crescita: il tasso di crescita del PIL Per valutare il ritmo della crescita economica di un paese si utilizza il tasso di crescita del PIL. Quando si sente parlare ad esempio di aumenti del PIL dell’ 1,5% fra il 2003 e il 2004, oppure si registra fra il primo e secondo trimestre del 2010 una contrazione della produzione dello 0,6%, si sta argomentando di tassi di variazione o tassi di crescita (in positivo o negativo) del prodotto interno lordo. L’utilizzo dei tassi di crescita è piuttosto efficace perché permette di confrontare, in maniera immediata, l’attività economica di un paese in momenti di tempo diversi. In termini analitici si ha: Tasso di var iazione % = Yt − Yt −1 ⋅ 100 Yt −1 Il tasso di variazione percentuale può essere espresso in termini nominali e reali. Il tasso di crescita o tasso di variazione nominale indica di quanto è cresciuto o diminuito in termini nominali il PIL dal periodo t-1 al periodo t. Il tasso di crescita o tasso di variazione reale denota di quanto è variato in termini reali il PIL nell’arco temporale t-1, t. La differenza tra i due tassi di crescita si spiega con la variazione nei prezzi intervenuta tra i periodi considerati. Qui di seguito si riporta il tasso di crescita reale del PIL italiano negli ultimi anni e le previsioni per il 2010 e 2011. Figura 6 Variazione % del PIL reale italiano. 3 2 2 1.5 1 0.8 0.7 0 -1 1.6 1.1 0 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 -1 2010 2011 -2 -3 -4 -5 -5.1 -6 Valori in %. Fonte: IMF, WEO Aprile 2010. Previsioni per il 2010-2011 Si nota che il nostro Paese è stato colpito da una severa recessione fra il 2008 e la metà del 2009. Nel primo semestre 2009 il prodotto interno lordo italiano ha segnato una contrazione del 5,1 per cento, la più marcata del dopoguerra. Nel secondo semestre si è avviata una moderata ripresa, soprattutto a seguito del graduale miglioramento delle esportazioni (Banca d’Italia, 2010). Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale l’economia italiana il PIL reale crescerà dell’1.1% nel 2011 e dell’1.3% nel 2012. 28 Appunti di Politica Economica 2.7 Determinanti dei tassi di crescita economica fra Paesi Il livello del PIL e la crescita economica di un paese sono strettamente correlati alla capacità produttiva del sistema economico del paese stesso. In altre parole, il tenore di vita di una economia dipende dalla sua capacità di produrre beni e servizi. Più i paesi sono produttivi, più sperimentano elevati tassi di sviluppo e ricchezza economica. Produttività e crescita sono quindi strettamente legate. Per produttività si intende la quantità di beni e servizi che un lavoratore può produrre in un’unità di tempo. La produttività dipende dalle seguenti determinanti: capitale fisico: disponibilità di attrezzature e di strutture che vengono utilizzate per produrre beni e servizi; capitale umano: conoscenze e abilità che il lavoratore acquisisce attraverso l’istruzione, l’addestramento e l’esperienza professionale. Specificatamente si designa col termine di ‘capitale umano' la popolazione in età lavorativa di un Paese e il complesso del "saper fare" (istruzione, abilità, formazione) incorporato nei lavoratori. A differenza del capitale fisico, il capitale umano è intangibile, ma non meno reale. Le moderne teorie dello sviluppo mettono ormai l'accento sul capitale umano come fattore essenziale dello sviluppo, man mano che il sistema economico si inoltra nell'"economia della conoscenza". Risorse naturali e trasformazione grezza sono molto meno importanti di prima (malgrado i vantaggi che oggi affluiscono ai Paesi produttori di petrolio e altre materie prime) e i vantaggi comparati oggi risiedono soprattutto nella qualità e nella quantità del human capital. Sistema educativo, formazione sul luogo di lavoro, ricerca e sviluppo, e riaddestramento di quanti sono costretti a passare da settori in declino a settori in espansione sono i principali strumenti per il miglioramento del capitale umano. risorse naturali: i fattori della produzione di beni e servizi che vengono forniti dalla natura, quali terra, fiumi, giacimenti minerari; conoscenze tecnologiche: l’insieme di conoscenze di cui la società dispone sulle modalità di produzione di beni e servizi. I governi nazionali possono intervenire sulla crescita economica aumentando la produttività del proprio sistema paese. In particolare, la politica economica può cercare di agire sulle determinanti della produttività attraverso: l’istruzione: provvedendo ad un buon sistema scolastico e incoraggiando la popolazione ad utilizzarlo proficuamente; la ricerca e lo sviluppo: promuovendo la ricerca tesa anche a favorire il progresso in campo tecnologico. l’accumulazione del capitale: stimolando gli investimenti e la propensione al risparmio; l’accumulazione del capitale estero: stimolando gli investimenti esteri diretti e gli investimenti esteri di portafoglio; la stabilità politica: garantendo un sistema giudiziario efficiente, stabile e non corrotto; i diritti di proprietà: proteggendo la possibilità da parte degli individui di esercitare la potestà sulle risorse che loro appartengono; il libero scambio: favorendo la libera commercializzazione dei beni e dei servizi; 29 Appunti di Politica Economica 2.8 Critiche al PIL e la Commissione Sarkozy Tra gli indicatori economici più contestati vi è senz’altro il Prodotto Interno Lordo. Il Pil fu l´unità di misura utilizzata per uscire dalla Grande Depressione del ‘29, in un periodo in cui la produzione di acciaio veniva considerata un indicatore universale di buona salute economica di un Paese. Il PIL risulta tuttavia un misuratore impreciso in quanto, per esempio, mette all´attivo anche gli esborsi monetari per riparare le catastrofi derivanti dal malgoverno del territorio o vede in un terremoto che distrugge una città un arricchimento collettivo. Già nel lontano marzo del 1968 Robert Kennedy pronunciava, presso l'Università del Kansas, un discorso nel quale evidenziava -tra l'altro- l'inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate. Tre mesi dopo veniva ucciso durante la sua campagna elettorale che lo avrebbe probabilmente portato a divenire Presidente degli Stati Uniti d'America. “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.”(Robert Kennedy). Da tempo gli economisti cercano un’alternativa al PIL. Il dibattito ha fruttato una ricca letteratura economica e si è ampliato con il diffondersi di movimenti no e new global a cavallo del 2000. Le proposte lanciate sono state molte. Nel gennaio 2008, il presidente francese Nicolas Sarkozy incaricò una commissione, composta da una trentina di economisti di rilevanza mondiale e presieduta dai premi Nobel Joe Stiglitz e Amartya Sen, di studiare e proporre alternative al Pil. Il lungo rapporto conclusivo è stato presentato nel settembre 2009. Il risultato è deludente per coloro che si aspettavano un nuovo indicatore sintetico che sostituisse completamente il Pil. Le attese erano forse eccessive: ci si aspettava una nuova misura semplice e diretta come il Pil ma allo stesso tempo più complessa, per cogliere i tanti aspetti – prodotti e non prodotti – che influenzano il nostro benessere. La commissione ha, invece, dato dodici raccomandazioni piuttosto generali: il benessere materiale deve essere valutato al livello di nucleo familiare, tenendo in considerazione il reddito e il consumo e non tanto la produzione come accade ora con il Pil. Si deve dare una maggiore enfasi alla 30 Appunti di Politica Economica distribuzione del reddito, del consumo e della ricchezza: un aumento medio non corrisponde per forza a un aumento per tutti, come Trilussa già notava a inizio Novecento. La commissione chiede, inoltre, di estendere la misura ad attività non di mercato. Questo punto riguarda il calcolo delle attività e servizi in famiglia, per esempio la cura degli ammalati e degli anziani, un tema sempre più di attualità. Raccomanda, inoltre, di prendere in considerazione la multidimensionalità della misura del benessere che tocca le condizioni economiche ma anche l’educazione, la salute, la qualità della democrazia, le reti sociali, l’ambiente, la sicurezza. Una gran parte del rapporto si occupa poi delle questioni di sostenibilità ambientale per misurare la crescita al netto della distruzione di risorse e i rischi del cambiamento climatico. 2.9 L’indice di Sviluppo Umano Si è evidenziato che il PIL è un indicatore di crescita, ma non dà alcuna notizia circa lo sviluppo di un paese, che può avere crescita, ma non sviluppo. L’indicatore che permette di valutare il tenore di vita e quindi il grado di benessere è l’Indice di sviluppo umano (ISU), proposto per la prima volta nel 1990 dal Programma delle nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). L’indice si costruisce considerando sia il PIL pro capite, sia parametri nuovi quali l’alfabetizzazione della popolazione adulta e la durata media della vita. Secondo i dati recentemente pubblicati, nel 2010 il valore dell’indice per l’Italia era 0,854, minore dello 0,885 della Germania e dello 0,902 degli Stati Uniti. Rispetto a questi due paesi, un reddito pro capite da noi più basso viene in parte compensato da una speranza di vita più alta. La graduatoria e le distanze fra i tre paesi che si evincono dall’indicatore dipendono tuttavia crucialmente dal fatto che alle sue tre componenti viene attribuito lo stesso peso. Molto spesso la difficoltà di optare per un indicatore oggettivo del livello di benessere (come il PIL o l’ISU) ha indirizzato la ricerca verso misure soggettive, basate su questionari e quindi, sulla valutazione individuale: si chiede alle persone quanto siano soddisfatte della vita che conducono. Questo tipo di domanda appare anche nell’Eurobarometro, un sondaggio di opinione condotto dalla Commissione europea fin dagli anni Settanta tra i cittadini della comunità. La quota di italiani che si dichiarano abbastanza o molto soddisfatti cresce dal 58 per cento nel 1975 all’80 nel 1991; da allora oscilla intorno a un trend costante. Questa dinamica è allineata con quella del PIL pro capite fino alla metà degli anni Novanta; dopo, l’indice di soddisfazione piega verso il basso, più della decelerazione del prodotto per abitante. Non è agevole spiegare questa divergenza. Essa potrebbe riflettere il “paradosso di Easterlin”, secondo cui la crescita del reddito, oltre un certo livello, cessa di associarsi a un aumento del benessere soggettivo; ma la validità empirica di questa ipotesi è controversa; inoltre, il fenomeno è osservabile solo in Italia fra i maggiori paesi europei. Gli indicatori di percezione soggettiva della qualità della vita hanno un valore informativo autonomo rispetto alle misure quantitative di reddito e ricchezza; è certamente eccessivo dire che essi soli costituiscano una misura attendibile del progresso umano. Come le preferenze nei consumi possono essere influenzate da fattori esterni, quali la pubblicità, così le valutazioni individuali sul grado di soddisfazione possono non rivelare alienazione, frustrazione: possono essere il frutto di una rassegnata, ma errata convinzione che non possa esistere un mondo più desiderabile, se conosciuto. La politica economica che deve rispondere alle vere aspirazioni dei cittadini non può non tenere conto di tutti gli indicatori: soggettivi, oggettivi. Nel grafico che segue viene confrontato l’andamento del PIL pro-capite con la quota percentuale di persone 31 Appunti di Politica Economica soddisfatte della propria vita. Da esso si rileva che al crescere del PIL non corrisponde sempre una crescita della soddisfazione della propria vita. 32 Appunti di Politica Economica CAPITOLO III POLITICA ECONOMICA, DEBITO & DEFICIT PUBBLICO 3.1 Introduzione Accanto alle politiche di sostegno alla crescita economica, i governi mirano ad avere bilanci in attivo e a ridurre il debito pubblico. 3.2 Il bilancio pubblico: deficit e avanzi Il bilancio pubblico è il documento giuridico contabile previsto dall'art. 815 della Costituzione da approvare con scadenza annuale che evidenzia il bilancio (entrate verso uscite) di tutti gli enti e le amministrazioni pubbliche (Stato, Regioni, Province e Comuni). Tale documento contabile è essenziale in quanto è attraverso il bilancio che si attuano le scelte operate dal governo circa gli obiettivi di politica economica. Il bilancio dello Stato può essere anche in versione pluriennale se si riferisce ad un arco temporale più lungo (in Italia un triennio) o di previsione se riporta le entrate e le uscite previste nell’arco temporale considerato. Il bilancio è di consuntivo se registra le uscite e le entrate già effettuate. Come tutti i bilanci, quello pubblico registra: – – – Entrate Uscite Saldo Le entrate del bilancio sono suddivise in categorie: Imposte dirette, ossia le imposte prelevate sul reddito e sul patrimonio, si applicano -sul reddito delle persone fisiche (Irpef) -sul patrimonio delle imprese (Irap6) I redditi personali soggetti al regime d'imposta Irpef sono tutte le entrate economiche derivanti da: 5 « Le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati dal governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. » 6 Imposta regionale sulle attività produttive. 33 Appunti di Politica Economica - attività di lavoro dipendente - attività di lavoro autonomo e d’impresa - pensioni e assegni assimilabili - immobili (terreni, edifici, appartamenti, ...) - redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria (plusvalenze). Al reddito complessivo (imponibile) si applicano le aliquote di imposta progressive secondo il sistema a scaglioni. Per il 2011 sono previsti cinque scaglioni di reddito con un’aliquota che varia dal 23% al 43%. Scaglioni di reddito Aliquota Irpef lordo 2011 da 0 a 15.000 euro 23% 23% del reddito da 15.000,01 a 28.000 euro 27% 3.450 + 27% sulla parte eccedente i 15.000 euro da 28.000,01 a 55.000 euro 38% 6.960 + 38% sulla parte eccedente i 28.000 euro da 55.000,01 a 75.000 euro 41% 17.220 + 41% sulla parte eccedente i 55.000 euro oltre 75.000 euro 43% 25.420 + 43% sulla parte eccedente i 75.000 euro Imposte indirette, colpiscono la ricchezza nel momento in cui viene trasferita (es. la vendita di un bene) o viene consumata (es. fruizione di un servizio o di una prestazione) o viene prodotta . Esempi di imposte indirette sono: - le imposte sul consumo (Iva) - le imposte sulla produzione (Accise) - le imposte di registro - le imposte catastali - le imposte ipotecarie - le imposte di bollo Contributi sociali (che rappresentano circa 1/3 del totale entrate) sono dei tributi pagati dai lavoratori e dai datori di lavoro per finanziare il sistema di sicurezza sociale (pensioni, sussidi di disoccupazione e assegni familiari). Altre entrate correnti (ad esempio proventi delle lotterie e dei giochi) Figura 7 Pressione Fiscale in alcuni Paesi Europei. Anni 2003-2007, incidenza percentuale sul PIL Fonte: ISTAT, 2009. Nel linguaggio corrente i termini tassa e imposta vengono spesso utilizzati in modo equivalente, ma in realtà, in sede giuridica, tali espressioni individuano tributi tra loro molto diversi. 34 Appunti di Politica Economica La tassa è un tributo che il singolo soggetto è tenuto a versare quale corrispettivo per la prestazione a suo favore di un servizio offerto da parte di un ente pubblico. Si basa cioè sul principio della controprestazione. A titolo esemplificativo si possono menzionare la tassa per la raccolta dei rifiuti, la tassa scolastica, tasse portuali ed aeroportuali, la tassa sulle concessioni governative, la tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche ecc. L'imposta è un tributo o prelievo coattivo di ricchezza non connesso ad una specifica prestazione da parte dello Stato o degli altri enti pubblici. L’IVA o le imposte sul reddito ne sono un esempio. Tra le voci uscita rientrano: la spesa pubblica i trasferimenti gli interessi La spesa pubblica (G) consiste nelle spese sostenute per la produzione di servizi pubblici non destinabili alla vendita, quali l’istruzione, la sanità, la difesa nazionale, e la spesa per stipendi pagati ai dipendenti pubblici. In questa categoria di uscite sono inclusi anche gli investimenti pubblici (opere stradali, dighe, porti e ponti). I trasferimenti sono pagamenti effettuati dallo Stato a favore di famiglie e imprese, in cambio dei quali le pubbliche amministrazioni non ricevono alcun bene o servizio. Le principali componenti della spesa per trasferimenti sono le prestazioni sociali ossia l’erogazione di pensioni, interventi di sostegno al reddito, sussidi di disoccupazione, assegni familiari. Gli interessi sono quelli che si formano sul debito pubblico, che devono essere pagati dallo Stato ai detentori di titoli di debito pubblico. La spesa per gli interessi corrisposti ai detentori dei titoli statali viene indicata come servizio del debito. Il saldo del bilancio pubblico è la differenza fra entrate ed uscite. Da esso si rileva la situazione dei conti pubblici, per cui se le uscite pubbliche superano le entrate pubbliche lo Stato presenta un deficit o disavanzo; se le uscite pubbliche sono inferiori alle entrate pubbliche lo Stato presenta un avanzo o surplus. Fra le uscite non vengono contabilizzati i trasferimenti (TR) che vengono direttamente decurtati dalle tasse. In termini ufficiali si distingue fra il deficit in senso stretto dato da: deficit = uscite − entrate = spesa pubblica + interessi nominali sul debito passato - entrate = G + i ⋅ Bt -1 − T > 0 E il deficit primario, ossia il disavanzo che non include gli interessi nominali sul debito passato: deficit primario = spesa pubblica - entrate = G − T > 0 I due concetti di deficit forniscono informazioni differenti: il deficit primario ci dice se le amministrazioni pubbliche sono in grado di far fronte al costo dei propri programmi correnti di 35 Appunti di Politica Economica spesa. Il deficit in senso stretto, includendo i pagamenti per interessi, presenta sia la situazione delle spese correnti che di quelle passate finanziate con l’indebitamento. Per valutare la situazione effettiva delle finanze pubbliche bisogna distinguere fra i deficit causati da andamenti sfavorevoli del ciclo economico (deficit congiunturali) e i deficit di natura strutturali vale a dire i disavanzi che l’economia registra in condizioni di pieno impiego. Mentre i primi rappresentano un problema meno grave, i secondi, se elevati, costituiscono un serio pericolo per le economie. 3.3 Differenza fra debito pubblico e deficit pubblico Fra debito pubblico e deficit pubblico esiste una importante distinzione, il deficit pubblico (che è una grandezza di flusso) è la differenza fra le uscite e le entrate delle amministrazioni pubbliche in un dato anno. Il debito pubblico (che è una grandezza di stock) è il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese, banche o soggetti stranieri, che hanno sottoscritto obbligazioni (come BOT e CCT) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale. In breve, il debito è rappresentato dal valore dei titoli emessi dalle amministrazioni pubbliche ed è costituito dalla somma del deficit di bilancio del periodo attuale più gli interessi che si stanno pagando per i titoli emessi nei periodi precedenti allo scopo di finanziare i precedenti disavanzi di bilancio. L’eredità dei disavanzi del passato quindi consiste in un maggior debito corrente. Il debito pubblico in Italia viene contratto a livello nazionale dal Governo Centrale, a livello locale dagli organi amministrativi regionali, provinciali e comunali. Appare chiaro che, se anno dopo anno, il bilancio dello Stato chiude sempre con un deficit, ossia le uscite (spesa pubblica) superano sempre le entrate (essenzialmente gettito fiscale), alla fine viene a realizzarsi una situazione insostenibile, pari a quella di un individuo che sistematicamente spende più di quanto guadagna ed è quindi costretto ad indebitarsi con un meccanismo a spirale. In termini analitici, il deficit relativo ad un qualsiasi anno equivale alla variazione del debito registratosi in quello stesso anno rispetto all’anno precedente. Se definiamo con Bt7 il debito pubblico nell’anno t e con Bt-1 il debito pubblico nell’anno t-1, il deficit è dato dalla variazione fra il debito nei due periodi: Deficit = Bt − Bt −1 = ∆Bt (3.0) per cui possiamo riscrivere l’equazione del deficit come: B − Bt − 1 = Gt − Tt + 1t424 3 1 424 3 deficit deficit primario i ⋅ Bt − 1 123 int eressi sul debito (3.1) Spostando il termine Bt-1 sul lato destro dell’equazione otteniamo il livello del debito pubblico corrente: Bt = Gt − Tt + { 1 424 3 debito deficit primario ( 1 + i ) ⋅ Bt − 1 14 4243 4 debito passato + int eressi sul debito 7 (3.2) B deriva dall’inglese “Bond”. Il bond è un’obbligazione, un titolo emesso da persona giuridica che contrae un prestito per un ammontare e data determinati, garantendo un rendimento a chi lo acquista e la restituzione della somma alla scadenza. 36 Appunti di Politica Economica 3.4 Perché gli Stati si indebitano Storicamente gli Stati si sono indebitati per finanziare le guerre, ad esempio nel 1800 la Francia si indebitò per sostenere le spese belliche napoleoniche, in Italia il debito crebbe nella seconda metà dell’ ‘800 per realizzare l’unificazione del 1861, e proprio in quel periodo venne stilato il Grande Libro del Debito Pubblico in cui si riportavano le posizioni debitorie italiane. Gli Stati si sono indebitati inoltre per effettuare spese straordinarie, ossia finanziare grandi opere pubbliche. Il debito moderno è causato prevalentemente da spese ordinarie, scarso rigore delle Amministrazioni Pubbliche che causa significativi sprechi, evasione fiscale, costi della politica e sostegno delle aziende in crisi (caso Alitalia). Le conseguenze del debito sono notevoli in quanto si riducono le risorse per finanziare scelte strategiche quali investimenti in ricerca, scuola, infrastrutture, aumenta la pressione fiscale, si registra un possibile calo nel rapporto quantità/qualità dei servizi erogati, peggiorano le valutazioni delle agenzie di rating, aumenta la disoccupazione (↓S → ↓I → ↓Y→ ↑u), il debito rappresenta inoltre un onere a carico delle generazioni future. 3.5 L’andamento del rapporto debito/PIL e deficit/PIL Dal momento che i paesi caratterizzati da un reddito nazionale più alto dispongono di maggiori risorse con cui far fronte al proprio debito pubblico e ai pagamenti per interessi su di esso, un’utile misura dello stato di indebitamento di un paese è il rapporto fra lo stock di debito pubblico e il prodotto interno lordo (PIL). Questo permette di rilevare in maniera più immediata se il debito pubblico è troppo elevato. Infatti se due paesi, A e B, registrano lo stesso livello di debito es. 15 milioni di euro, ma PIL differenti ad esempio PILA=300 milioni di euro e PILB=10 milioni di euro i rispettivi rapporti debito/PIL percentuali sono 5% e 150%, per cui mentre il debito del paese A è contenuto quello del paese B è eccessivo. Allo stesso modo è più utile valutare il rapporto deficit/PIL rispetto al solo livello del deficit. L’andamento dei rapporti debito/PIL e deficit/PIL è stato alla base della definizione dei criteri di Maastricht. In particolare il Trattato di Maastricht del 1992 stabiliva che per entrare a far parte dell’Unione monetaria i paesi dovessero avere un rapporto debito/PIL inferiore al 60% e allo stesso tempo un rapporto deficit/PIL sotto il 3%. Successivamente col trattato di Amsterdam del 1997 e l’adozione del Patto di Stabilità, i due criteri che si configuravano come condizioni di entrata sono diventati condizioni vincolanti che devono essere rispettate in maniera permanente. Ai paesi che superano il limite del 3% e non attuano rapidamente misure correttive si applicano le sanzioni previste dall’Ecofin8. Queste consistono in un deposito infruttifero pari allo 0,5% del PIL. Se la violazione perdura per oltre due anni il paese perde definitivamente il deposito. Le sanzioni non si applicano solo se il paese supera il limite del 3% a seguito di una recessione particolarmente grave. 8 Con il termine Ecofin si indica il “Consiglio Economia e Finanza” formato dai Ministri dell'Economia e delle Finanze dei 27 stati membri dell' Unione Europea riuniti in seno al Consiglio dell'Unione Europea. L'Ecofin si riunisce una volta al mese a Bruxelles o a Lussemburgo; e inoltre si riunisce in via informale, una volta ogni sei mesi nel paese che in quel momento detiene la presidenza del Consiglio dell'UE. L'Ecofin ha il compito di preparare e adottare ogni anno, insieme al Parlamento europeo, il bilancio dell'Unione europea e inoltre si occupa di monitorare le politiche di bilancio e le finanze pubbliche dei Paesi membri, coordinare le politiche economiche, sorvegliare la situazione economica e l’andamento dei mercati finanziari e, infine, si occupa delle relazioni economiche con i paesi terzi. 37 Appunti di Politica Economica Per valutare analiticamente il rapporto debito/PIL, dividiamo entrambi i lati dell’equazione 3.2 per la produzione reale Yt, si ottiene: Bt G − Tt ( 1 + i ) ⋅ Bt − 1 = t + Yt Yt Yt (3.3) moltiplicando e dividendo per il PIL dell’anno passato, Yt-1, l’ultimo termine della (3.3) si ottiene: Bt G − Tt Y ( 1 + i ) ⋅ Bt − 1 = t + t −1 ⋅ Yt Yt Yt − 1 Yt Indicando con g il tasso di crescita della produzione, Inoltre, utilizzando l’approssimazione Yt − 1 Yt 1+ i =1+ i − g 1+ g (3.4) può essere scritto come 1 1+ g . possiamo scrivere l’equazione precedente come: Bt G − Tt B = t + ( 1 + i − g ) ⋅ t −1 Yt Yt Yt − 1 (3.5) Questa equazione indica i fattori che influenzano il debito pubblico: il disavanzo primario (se G-T>0, il debito pubblico aumenta, se invece G-T<0 il debito pubblico diminuisce); il tasso di interesse (i) sul debito passato (tassi di interessi più elevati rispetto al tasso di crescita del PIL implicano un aumento del debito corrente); il tasso di crescita della produzione (maggiore è il tasso di crescita del PIL, g, rispetto ad i, minore è il debito corrente). Box 4 Il debito e deficit pubblico in Italia L’Italia ha registrato tre periodi di debito pubblico elevato. Negli ultimi decenni dell’ ‘800 il debito (in rapporto al PIL) fu alimentato dallo sforzo dell’unificazione dell’Italia (1861), ma in seguito, la rapida crescita economica degli anni dei governi Giolitti lo ridusse rapidamente. Il debito crebbe di nuovo a a durante la 1 guerra mondiale e poi durante la 2 e in effetti i debiti sono stati storicamente causati dai conflitti bellici, proprio per le ingenti spese di guerra e in armamenti sostenute. Negli ultimi anni 70’ il rapporto debito/PIL italiano crebbe di nuovo raggiungendo anche valori del 120%, questa volta però il debito fu causato da un aumento della spesa sociale (pensioni, sanità, istruzione) non finanziato da un parallelo aumento delle imposte. È necessario il trattato di Maastricht nel 1992 e la pressione esercitata dalle condizioni di ammissione all’Unione economica e monetaria, perché il debito ritornasse su valori più contenuti, dell’ordine del 105%. Le proiezioni attuali mostrano che la riduzione del debito/PIL italiano proseguirà nei prossimi anni, anche se la velocità del rientro è strettamente legata all’andamento della crescita economica nazionale. Secondo i dati Eurostat, l'Italia ha chiuso il 2006 con un debito pubblico al 106,5% del PIL e un deficit al 4,4% del PIL. Nella zona euro e nei Ventisette il disavanzo è sceso, rispetto al 2005: in Eurolandia è passato dal 2,5% all'1,6% lo scorso anno, mentre nell'UE nel suo insieme dal 2,4% all'1,7%. “Nel 2006 - scrive l'Ufficio europeo di statistica - i disavanzi maggiori rispetto al PIL sono stati registrati da Ungheria (-9,2%), Italia (-4,4%), Polonia e Portogallo (entrambi -3,9%) e Slovacchia (-3,4%). Undici paesi hanno invece concluso il 2006 in surplus, in testa Danimarca (+4,2%) e Finlandia (+3,9%). A seguire poi Estonia (+3,8%), Bulgaria (+3,3), Irlanda (+2,9%), Svezia (+2,2) Spagna (+1,8%), Paesi Bassi (+0,6%), Lettonia (+0,4%), Belgio (+0,2%) e Lussemburgo (+0,1%). »In tutto - scrive ancora Eurostat - 22 paesi membri hanno registrato un miglioramento del 38 Appunti di Politica Economica deficit, rispetto al 2005, solo in 5 stati è stato osservato un peggioramento”. Nel 2007 il debito pubblico si è attestato a 103,5% del PIL per poi tornare a salire negli anni successivi. Debito Pubblico Anni 1998-2011, incidenza percentuale sul PIL. 118.9 118.2 120 115.8 114.9 115 110 106.5 105.8 valori % 106.1 103.5 105 100 95 1998 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Fonte: Elaborazioni su dati Commissione Europea, 2010. Stime per glianni 2010-2011 L’andamento di lungo periodo del rapporto debito/PIL italiano è mostrato nel seguente grafico. Andamento del Debito/PIL italiano 1984-2007 130 120 110 % 100 90 80 70 60 19 84 19 85 19 86 19 87 19 88 19 89 19 90 19 91 19 92 19 93 19 94 19 95 19 96 19 97 19 98 19 99 20 00 20 01 20 02 20 03 20 04 20 05 20 06 20 07 50 Per quanto riguarda il rapporto deficit/PIL l’Italia ha superato il limite previsto dal trattato di Stabilità e Crescita. Deficit Pubblico Anni 2006-2011, incidenza percentuale sul PIL. 5.3 5.3 6 5 5 4 3.3 2.7 Valori % 3 1.5 2 1 0 2006 2007 2008 2009 2010 Fonte: Elaborazioni su dati Commissione Europea, 2010. Stime per glianni 2010-2011 39 2011 3.6 Perché si deve ridurre il debito L'esigenza di tenere sotto controllo l'espansione del debito pubblico ha due principali motivazioni. La prima risiede nel fatto che l’indebitamento dello Stato provoca un trasferimento dell’onere del rimborso sulle future generazioni di contribuenti, si parla di trasmissione intergenerazionale del debito. Le generazioni future potrebbero perciò subire i contraccolpi di un elevato indebitamento pagando più tasse e beneficiando di minori servizi. La seconda è connessa al fatto che il debito e i deficit producono effetti macroeconomici negativi. Il deficit pubblico, in altri termini un risparmio pubblico negativo, provoca una contrazione degli investimenti e un aumento dei tassi di interesse. Minori investimenti, a loro volta, conducono a una minore disponibilità di capitale e, in conseguenza, una contrazione della produttività del lavoro e della produzione di beni e servizi dell’economia. Box 5 I PIGS Il termine PIGS è stato utilizzato a partire dagli anni novanta dagli analisti economici come acronimo dispregiativo (Pigs in inglese significa maiali) per indicare quattro paesi dell'Europa meridionale: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna con cattive situazioni economico-finanziarie. C' è anche chi inserisce nella «categoria», se così si può definire, l' Irlanda, un tempo «tigre celtica», oggi nazione dall' economia un po' malmessa, per cui il termine diventerebbe PIIGS. Fatto sta che i Pigs, nella formazione ristretta o allargata che sia, con la crisi economica stanno registrando un debito pubblico in veloce risalita e un rapporto deficit-pil in progressiva crescita. C' è un parametro cui gli addetti ai lavori guardano per indagare la salute dei PIGS: lo spread, cioè la differenza tra i rendimenti dei titoli di stato dei paesi in questione e i bund tedeschi. Più la forbice si apre maggiore è il rischio di default dei Paesi. A marzo 2011 lo spread dei bond decennali ellenici con il bund tedesco è salito a 963 punti, vicino al record di 974 punti del 7 gennaio. A ruota segue il rendimento dei titoli decennali irlandesi con 617 punti di spread, i rendimenti portoghesi con uno spread pari a 439 punti e quello dei bond spagnoli con 218 punti di spread. Più contenuto l'impatto sui titoli italiani, con 168 punti di spread. Appunti di Politica Economica 3.7 Strumenti per ridurre il debito pubblico elevato Se il rapporto debito/PIL raggiunge un livello troppo elevato la situazione economica può degenerare a tal punto che si sfocia in una crisi finanziaria, come quella greca del 2010. Per quanto riguarda il nostro Paese, il debito pubblico è tra i più alti al mondo, arrivando alla gigantesca cifra di circa 1850 miliardi di euro, pari a oltre 30 mila euro per ciascun cittadino nel 2010. Le opzioni che ha un governo per ridurre o stabilizzare il rapporto debito/PIL sono: generare avanzi primari sufficientemente ampi. A questo scopo il governo può tagliare le spese, oppure aumentare le imposte; promuove più crescita economica; ripudiare il debito pubblico, interamente o anche parzialmente, questo significa che il governo cancella il debito in essere, oppure che introduce imposte sui titoli pubblici che non erano previste quando gli investitori avevano acquistato i titoli; attuare una politica di signoraggio, ossia stampare moneta ricorrendo al finanziamento monetario della banca centrale Generare avanzi primari è la strada più virtuosa per ridurre un elevato debito pubblico. Tuttavia è anche la più ardua. Tagliare le spese è politicamente costoso, e a volte non è socialmente proponibile; imporre nuove tasse è una scelta impopolare ed esiste comunque un limite massimo al carico tributario, oltre il quale il costo (soprattutto politico) dell’esazione di maggiori imposte diventa troppo alto. Per incamerare più introiti soprattutto in Italia, si sono fatte una serie di proposte: il policy maker potrebbe innanzitutto condurre una dura lotta contro l’evasione. Il nostro Paese, infatti, è al primo posto in Europa, con il 54,5 per cento del reddito imponibile evaso (in crescita del 10,1 per cento, nei primi 11 mesi del 2010). Le imposte sottratte all’erario ammontano a 159 miliardi di euro l’anno. E proprio dalla lotta agli evasori, con tutte le difficoltà che comprende una tale operazione, potrebbe provenire una somma da destinare all’abbassamento del debito. Per generare avanzi primari si è poi proposto di tassare i redditi da capitale (interessi su titoli, conti correnti e dividendi su azioni) oltre la media attuale del 12,5 per cento. Tuttavia, tassando le rendite finanziarie si andrebbe a colpire anche quella forma di investimento con funzione “previdenziale” adottato dalle fasce medio - basse, visto che gran parte dei titoli di Stato (oltre il 40 per cento) e di azioni, fondi comuni e altri titoli (oltre il 30 per cento) è in mano di famiglie che fanno capo a un impiegato e un operaio. Inoltre si è proposta la patrimoniale su tutte le famiglie o sui cittadini più ricchi. L’istituzione di una imposta patrimoniale (per tutti) è stata avanzata dall’ex premier Giuliano Amato. Secondo Amato, lo Stato dovrebbe prelevare in media a ogni italiano (a seconda del patrimonio) circa 10.000 euro (pari a un terzo del debito pubblico pro capite) e in modo graduale, al fine di abbassare il debito dal 118% all’80% del Pil. Questa ipotesi, oltre che un pesante costo politico per chi la varasse, trova però una contestazione di merito: chi ci garantisce che, una volta pagata questa sovrattassa, il debito non torni a salire? Secondo Susanna Camusso, leader della Cgil occorre “varare una patrimoniale sulle grandi ricchezze per mettere il Paese al riparo dalla speculazione finanziaria”, accanto a una ”riforma fiscale che riesca a ridare fiato innanzitutto ai redditi da lavoro dipendente e alle pensioni”. Ma c’è anche chi ha rilevato come questa proposta sia inattuabile, perché spesso i patrimoni intestati fisicamente alle persone con un reddito di fascia alta risultano minimi e occorrerebbe un preciso vaglio su tutte le società (spesso all’estero) che possono essere ricondotte ai medesimi soggetti e non solo sulle persone fisiche. Una strada alternativa può esser quella della maggior crescita che ha il pregio di aumentare il PIL e quindi di aumentare il denominatore della frazione riducendo il debito percentuale. 41 Appunti di Politica Economica Infatti a parità di debito, ma a PIL crescente il debito percentuale diminuisce. Ma a parte il debito, la crescita può influire su un altro parametro che sta a cuore ai tutti i paesi, ovvero la riduzione della disoccupazione. Un’altra via che il governo può perseguire è quella di convincere la banca centrale a stampare moneta e finanziare il disavanzo tramite signoraggio. L’aumento dell’offerta di moneta, tuttavia porta ad un aumento del tasso di inflazione che potrebbe risultare vorticoso. L’inflazione se da un lato erode il valore della moneta posseduta dai cittadini e riduce il valore reale dei titoli di Stato da loro posseduti, dall’ altra favorisce la condizione del debitore e quindi quella dello Stato. Infine il governo può adottare una soluzione più traumatica, ripudiando totalmente o parzialmente il debito pubblico, ossia non rimborsando o rimborsando solo minimamente i titoli di Stato. L’esito di questa soluzione è principalmente una rottura del rapporto di fiducia fra il governo e i cittadini, i quali potrebbero essere non più disposti a sottoscrivere ulteriore debito pubblico. Casi di insolvenza e conseguente ripudio del debito si sono verificati, in tempi più o meno recenti, in Spagna e Argentina. La Spagna dichiarò bancarotta per 16 volte fra metà ottocento e il novecento. Nel 2001 il governo argentino ha rifiutato di pagare i detentori di titoli ed ha tolto al pesos argentino corso legale. Con questo atto l'Argentina, rifiutandosi di pagare i vecchi creditori, ha azzerato il debito pubblico nella vecchia valuta. Dopo la bancarotta il Paese ha attraversato un periodo molto difficile, oggi si sta risollevando e i bond argentini hanno di nuovo un largo mercato nelle borse internazionali. 3.8 Il livello di tassazione: la curva di Laffer Nei Paesi democratici esiste un dibattito sulle modalità di prelievo e sull'impiego delle tasse. Le tasse servono a ripagare il debito pubblico, finanziare servizi come scuole, sanità, assistenza. Alcuni Paesi hanno adottato un sistema di flat tax, ad aliquota unica o con poche aliquote per le principali imposte. Alcuni ritengono che la semplificazione fiscale, la riduzione delle aliquote riducano l'elusione e l'evasione e al limite che, in base alla curva di Laffer, un'aliquota unica, opportunamente scelta, massimizzi il gettito fiscale. Altri ritengono l'aliquota unica e la riduzione degli scaglioni profondamente iniqua verso i ceti medi e contro il principio di progressività del prelievo fiscale, affermato in varie Costituzioni. La curva di Laffer è una curva a campana che mette in relazione l'aliquota di imposta t (asse delle ascisse) con le entrate fiscali T (asse delle ordinate) (vedi figura seguente) che l'economista dell'University of Southern California impiegò per convincere l'allora candidato repubblicano alle presidenziali del 1980, Ronald Reagan, a diminuire le imposte dirette. Laffer ipotizzò che esiste un livello del prelievo fiscale oltre il quale l'attività economica non è più conveniente, il gettito diminuisce fino ad azzerarsi se il prelievo raggiunge il 100% del reddito, e quindi che le due grandezze sono legate da una curva continua a forma di campana. In particolare, spostandosi verso destra, all'aumentare delle aliquote, il gettito dapprima cresce (tratto t0 Tmax), una volta raggiunto il massimo, inizia a decrescere (tratto Tmax tmax). In particolare si può verificare che si riesce ad avere lo stesso gettito (T1) con aliquote diverse, in particolare t1 <t3. La spiegazione è semplice: all'aumentare dell'aliquota, poiché il debito di imposta aumenta, il beneficio di cui un soggetto gode lavorando per un'ora al netto di imposta si riduce sempre di più. 42 Appunti di Politica Economica Figura 8 La curva di Laffer In altri termini, secondo Laffer esisteva un'aliquota t* che massimizzava il gettito fiscale Tmax, oltre Tmax un aumento delle imposte avrebbe disincentivato l'attività economica e quindi ridotto il gettito, in misura crescente, fino al punto in cui il prelievo fiscale, se raggiungesse il 100%, causerebbe l'azzeramento del gettito. È noto l'andamento qualitativo della curva, mentre esiste un dibattito fra economisti riguardo al valore dell'aliquota che ottimizza le entrate pubbliche. La riduzione del gettito è a sua volta interpretabile come cessazione delle attività economiche a causa di una pressione fiscale eccessiva, o come aumento dell'evasione ed elusione fiscale. Oltrepassata l’aliquota ottimale t* il gettito fiscale tende a diminuire per tre fenomeni: evasione, elusione, sottrazione. L’evasione consiste nel dichiarare un imponibile minore rispetto a quello reale con lo scopo di pagare meno imposte. L’elusione consiste nel “truccare” la natura dell’operazione con lo scopo di beneficiare di minori imposte. A differenza dell’evasione l’elusione non si presenta come illegale; essa infatti formalmente rispetta le leggi vigenti, ma le aggira nel loro aspetto sostanziale frustrando il motivo per il quale sono state approvate. Ad esempio, se le imposte sulla vendita di un immobile sono del 35% e quelle sulla vendita di azioni del 20%, il possessore dell'immobile può conferirlo in una società per azioni al solo scopo di vendere poi le azioni della società proprietaria dell'immobile con fortissimo risparmio fiscale. Qui l'elusione sta nell'utilizzazione dello strumento società per azioni non per svolgere un'attività d'impresa, ma solo per trasferire la proprietà sostanziale dell'immobile, infatti in questo caso l'acquirente delle azioni in realtà ha acquistato l'immobile, ma in questo modo il venditore ha beneficiato di un'aliquota impositiva fortemente ridotta. La sottrazione consiste nel sottrarre l’imponibile dalla tassazione eliminandolo o spostandolo. È l'effetto di cui gli economisti della supply side economics (cioè politica dell’offerta) più si preoccupavano. L’offerta è composta dalla produzione delle imprese, il reddito derivante dall’allocazione di tale produzione è soggetto ad imposta. Per sottrarre l’imponibile è necessario non produrre più questo reddito, o produrlo altrove. In entrambe i casi l’effetto è un calo della produzione globale e cioè della crescita del paese in questione. 43 Appunti di Politica Economica Alcuni fiscalisti, in base a questa curva, propongono il ritorno ad un sistema di tassazione ad aliquota unica (flat-tax), pari al valore ottimo che massimizza il gettito fiscale. Il problema, però, è duplice: 1. La flat-tax, dove tutti pagano la stessa aliquota, appare ingiusta, in quanto obbliga i meno abbienti a pagare in proporzione quanto i ricchi. 2. Calcolare a priori quale sia l'optimum per un dato sistema fiscale richiede una conoscenza troppo dettagliata delle psicologie individuali, ossia quanto ognuno ritiene "giusto" pagare, e non è detto che un sistema ad aliquota unica sia più valido di uno a più aliquote. Gli USA si trovavano nel 1980, secondo Laffer e secondo gli economisti della supply side economics, a destra del punto t*, e pertanto una riduzione delle aliquote avrebbe prodotto un aumento dell'attività economica e quindi delle entrate fiscali. Mancava tuttavia una qualsiasi evidenza empirica di tale tesi. Quando il presidente USA Ronald Reagan ridusse le imposte, coerentemente con le previsioni, le entrate fiscali diminuirono in rapporto al Pil, e avendo contemporaneamente aumentato spropositatamente la spesa pubblica, esplose il deficit pubblico degli Stati Uniti. Va precisato tuttavia che l'esplosione della spesa pubblica non ha niente a che fare con la curva di Laffer e che, in valore assoluto, le entrate fiscali sono in effetti aumentate in quel periodo. Altri economisti sono scettici e sostengono che questa teoria non abbia avuto nessuna conferma empirica. Il premio Nobel per l'economia Joseph E. Stiglitz l'ha definita, nel suo libro I ruggenti anni Novanta, "una teoria scarabocchiata su un foglio di carta". 44 Appunti di Politica Economica CAPITOLO IV IL RUOLO DELLO STATO NELL’ECONOMIA 3.1 Introduzione Il ruolo che deve rivestire lo Stato in Economia è stato soggetto ad ampi dibattiti. Generalmente si distinguono due visioni diametralmente opposte, la visiona liberista e quella interventista. Fanno parte della VISIONE LIBERISTA: la scuola classica (Adam Smith) la scuola neoclassica (Friedman, Lucas, Alesina, Giavazzi) Fanno parte della VISIONE INTERVENTISTA: la scuola Keynesiana la scuola neo-Keynesiana (Modigliani, Minky, Stigliz) 3.2 La visione liberista e il pensiero classico Il liberismo è la dottrina economica del pensiero filosofico e politico liberale. Il principio economico liberista si ispira alla cosiddetta “mano invisibile” di Adam Smith secondo cui i privati perseguendo i propri interessi individuali realizzano indirettamente l’interesse della collettività. In particolare, le relazioni economiche tra privati sono regolate dalla legge economica della domanda e dell’offerta e il meccanismo dei prezzi di mercato garantisce che non rimangano risorse inutilizzate e permette il contemporaneo raggiungimento dell’equilibrio in tutti i mercati (beni, lavoro e capitale). Ciò è reso possibile dalla flessibilità dei prezzi, ossia dal fatto che questi ultimi variano con una rapidità sufficiente a riportare in equilibrio i mercati in situazioni di eccesso di domanda e offerta. Si ricordi che per domanda di un bene si intende la quantità richiesta di un certo bene da parte della collettività a un dato prezzo e in un determinato momento. Per offerta di un bene si intende la quantità di prodotto offerta dalle imprese alle famiglie a un certo prezzo in un dato momento. La domanda collettiva varia in funzione inversa del prezzo (se il prezzo aumenta la domanda diminuisce e viceversa). L’offerta varia in funzione diretta del prezzo. Da un punto di vista grafico la domanda e l’offerta nel mercato dei beni si rappresenta come segue: 45 Appunti di Politica Economica Figura 9 Equilibrio fra domanda e offerta di mercato Prezzo unitario QS P1 Equilibrio P* P2 QD Quantità Q* Il meccanismo di mercato agisce in maniera tale che i prezzi tendono ad aggiustarsi finché non sia raggiunto l’equilibrio. Supponiamo che il prezzo sia inizialmente superiore a quello di equilibrio, ad esempio al livello P1 rappresentato in Figura 9, nel mercato ci sarebbe eccesso di offerta, ossia i produttori offrirebbero più di quanto i consumatori siano disposti ad acquistare. A causa dell’accumulazione di prodotto invenduto, i produttori inizierebbero allora a diminuire i prezzi con l’intento di vendere l’eccedenza. Il processo continua fino a quando, il prezzo scende al livello di equilibrio. Se, ad esempio, in una nota località turistica il prezzo della granita artigianale fosse al di sopra di quello di equilibrio, ciò potrebbe ridurre l’acquisto di granite artigianali da parte dei turisti a favore di quelle confezionate o di altri beni. In seguito all’accumulazione di scorte, e per stimolare la domanda di mercato, i venditori potrebbero decidere di ridurre progressivamente il prezzo del loro prodotto fino a portarlo a quello di equilibrio. Allo stesso modo, se il prezzo fosse al di sotto di quello di equilibrio, ad esempio ad un livello pari a P2, si genererebbe una carenza di produzione ed un eccesso di domanda poiché non tutti i consumatori verrebbero soddisfatti. Il meccanismo di aggiustamento dei prezzi prodotto dal libero mercato, di conseguenza, spingerebbe i prezzi verso l’alto fino al raggiungimento del livello di equilibrio. Poiché il sistema dei prezzi permette di ottenere equilibri automatici, nella visione classica lo Stato non deve intervenire nelle relazioni economiche per cui non vi è alcun ruolo per la politica economica. Il filosofo Norberto Bobbio evidenzia come il liberalismo sia un movimento di idee che accomuna diversi autori, i quali, dal punto di vista economico, sono fautori dell’economia di mercato e, dal punto di vista politico, di «uno Stato che governi il meno possibile o, come si dice oggi, dello Stato minimo (cioè ridotto al minimo necessario)». Lo Stato liberale si presenta come laico e non interventista in campo economico; esso ha permesso l’attuazione dei diritti civili, contro il monopolio ideologico, e la libera circolazione dei beni, contro il monopolio 46 Appunti di Politica Economica economico. In pratica lo Stato è «ridotto a puro strumento di realizzazione dei fini individuali», poiché è nel "non Stato" che l’individuo perfeziona la sua personalità. LO STATO MINIMALE Nonostante i disaccordi sui “fallimenti del mercato” e sui “fallimenti dello Stato” esiste ampia convergenza fra le scuole di pensiero sul fatto che la funzione pubblica (Stato) debba assicurare: a) il diritto di proprietà e in generale il quadro normativo (diritti e doveri dei soggetti e delle istituzioni) b) l’amministrazione della giustizia c) la difesa del territorio e delle persone. Uno Stato che garantisce almeno queste funzioni si definisce “Stato minimale”. 3.3 La visione interventista e il pensiero keynesiano In concomitanza alla Grande Crisi del 1929-’39, si assistette, ad una significativa svolta nello sviluppo della teoria economica che portò alla crisi dell’Economia Classica (di mercato o marshalliana) e Marginalista e contestualmente alla nascita e sviluppo della Teoria Generale Keynesiana e del Welfare State di Beveridge9. La nuova “filosofia sociale collettiva”di Keynes10 (1936) proponeva, in alternativa alle teorie economiche classiche, una riqualificazione dell’intervento dello Stato nell’economia, necessario per l’impossibilità del meccanismo di libero mercato di raggiungere e garantire l’equilibrio, la stabilità monetaria e la piena occupazione. La crisi della macroeconomia "classica", come la chiamava Keynes, fu decretata dalla sua incapacità di spiegare e trovare soluzioni alla crisi economica mondiale che iniziò nella seconda metà degli anni 1920, culminò con la Grande Depressione del 1929 e si protrasse fino alla metà degli anni '30. Uno dei punti di attacco di Keynes riguardava il non funzionamento della flessibilità di prezzi e salari. Se c'è un eccesso di produzione, una diminuzione di prezzi e salari può ristabilire l'equilibrio tra domanda e offerta su tutti i mercati? La risposta a questa domanda è la parte più controversa della teoria di Keynes e che più ne ha condizionato le interpretazioni successive. Keynes è scettico sull'idea che la flessibilità di prezzi e salari sia la risposta giusta sia per ragioni empiriche che teoriche. Le ragioni empiriche - "di fatto" imprese e lavoratori sono restii ad accettare tagli di prezzi e salari durante una recessione - sono quelle più largamente utilizzate per sostenere che la teoria di Keynes è una teoria "basata su prezzi e salari rigidi". Per la verità, sia in Inghilterra che in America, durante la Grande Depressione, ci fu una spettacolare caduta di prezzi e salari, senza alcun effetto apprezzabile sull'economia. Quindi, Keynes dedicò molte energie per argomentare il suo scetticismo teorico sull'idea che una diminuzione di prezzi e salari nel corso di una recessione riuscisse a riequilibrare il sistema. Fra le argomentazioni: a) Il mercato del 9 Il piano Beveridge, presentato al governo inglese nel ‘42 e attuato nel dopoguerra, viene considerato come atto di fondazione del moderno Welfare State. Alla sua base c’è il diritto sociale del cittadino di avere dei livelli minimi di sussistenza garantiti dallo Stato che quindi deve tutelare e garantire una vasta gamma di diritti (“from the cradle to the grave”). 10 John Maynard Keynes nacque a Cambridge nel 1883. Studiò dapprima ad Eton, poi a Cambridge, dove si laureò in matematica nel 1905. Divenne un importante ed influente funzionario del Ministero del Tesoro, professore d’economia a Cambridge, nel 1941 fu nominato governatore della Banca d’Inghilterra, consigliere della corona e nel 1944 lord. 47 Appunti di Politica Economica lavoro può non essere in grado di determinare in ogni circostanza il salario reale di piena occupazione (per esempio per un eccesso di pressione al ribasso sul salario), b) una forte caduta del salario può peggiorare anziché migliorare l'effetto recessivo di una caduta della domanda aggregata. Egli concludeva che le imprese avrebbero scelto di tagliare la produzione e l'occupazione per riequilibrare l'offerta rispetto alla domanda insufficiente, producendo così un secondo meccanismo di amplificazione dell'impulso recessivo: il cosiddetto "moltiplicatore" che si trasmette attraverso il meccanismo disoccupazione, riduzione dei consumi, ulteriore riduzione della domanda. Keynes spiegò che per superare la depressione e rimediare ai suoi effetti occorre sostenere la domanda, favorendo la spesa privata e, se questa fosse insufficiente espandere quella pubblica. Ma soprattutto invitava i governi ad elevare il livello degli investimenti al fine di utilizzare le risorse produttive disoccupate, anche ricorrendo ad ingenti prestiti. I mercati del lavoro e di tutti i fattori produttivi in genere non sono in grado di riequilibrarsi automaticamente, come avevano sempre sostenuto i neoclassici; è quindi necessario l’intervento esterno da parte dello Stato di sostenere la domanda globale. Il grande merito di Keynes fu quello di provocare un profondo rinnovamento non solo della scienza economica ma anche della politica economica. Il raggiungimento del benessere generale per Keynes doveva essere il risultato di una continua e pacifica evoluzione della società. In sintesi, nella visione Keynesiana lo Stato assume un ruolo attivo e un compito importante, ossia quello di assicurare lo sviluppo, la stabilità e l’equilibrio del sistema economico e di indirizzare a tal fine le attività dei privati. Keynes mirava ad accrescere l’intervento dello Stato al fine di correggere gli squilibri dell’economia di mercato e svolgere un'azione compensatrice sull’andamento dei cicli economici, cercando di garantire la stabilità del sistema. In una situazione di recessione economica nella quale si assiste ad un ristagno e ad una diminuzione di consumi e di investimenti, lo Stato deve intervenire con una spesa pubblica aggiuntiva. In tale scenario la finanza pubblica viene ad assumere un ruolo decisivo: le manovre dell’erogazione della spesa e del prelievo fiscale consentono di incentivare o scoraggiare l’attività dei privati, a seconda degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Il ruolo attivo dell’ente statale porta così ad intervenire ogni qual volta ci si trova in presenza di fallimenti macroeconomici e microeconomici del mercato. 3.4 La crisi finanziaria del 2008-2011 La crisi finanziaria in atto ha scatenato l’ennesimo dibattito sul rapporto tra politica ed economia. La dicotomia “Stato-mercato” in realtà non è mai passata di moda. Tuttavia, per varie ragioni, a partire dagli anni ’80 in tutto l’Occidente sembrava aver prevalso, in maniera pressoché indiscutibile, l’opzione neoliberista del laissez-faire. Stato minimo, privatizzazioni, liberalizzazioni, deregulation, sussidiarietà orizzontale sono state le parole d’ordine che hanno imperversato – a partire dalle politiche reaganiane e thathceriane – negli Usa e nell’Europa occidentale per diversi anni. La crisi in corso è in grado di mettere in discussione l’opzione neoliberista? A giudicare dall’ultimo libro di Alesina e Giavazzi (La crisi. Può la politica salvare il mondo?), questo “pericolo” sussiste eccome. La tesi di fondo del libro, infatti, è che l’intera classe politica occidentale stia usando la crisi finanziaria come pretesto per nascondere le responsabilità politiche della stessa e per riappropriarsi di un potere di intervento nel settore economico, ad avviso degli autori fortemente deleterio. A supporto di tale tesi, Alesina e Giavazzi partono da un’analisi della crisi del ’29, mettendo in evidenza tutte le responsabilità politiche che l’hanno trasformata da una “semplice” crisi di liquidità nella “grande depressione”. In particolare, gli errori compiuti nel ’29 furono: 1. togliere la liquidità alle banche, anziché aumentarla; 2. approvare una legge protezionistica che portò al collasso le esportazioni americane; 48 Appunti di Politica Economica 3. adottare una strategia punitiva contro gli speculatori, introducendo regole pesanti che limitavano le operazioni finanziarie, col risultato di ostacolare la stabilizzazione dei mercati; vietare alle imprese di tagliare le retribuzioni salariali, portando a numerosi fallimenti; non sfruttare il deficit pubblico per stimolare la domanda e reagire alla crisi e puntare invece ad un innalzamento delle imposte che diede il colpo di grazia all’economia. Premesso che molti di questi errori oggi non si ripeterebbero, come dimostrano ad esempio le iniezioni di liquidità già garantite a sostegno delle banche e le politiche in deficit spending11 già decise da tutti i governi occidentali, e premesso altresì che l’errore della Fed di togliere liquidità alle banche non fu propriamente un errore “politico”, quanto piuttosto una cattiva interpretazione di un fenomeno finanziario compiuto da attori economici, gli autori parlano di “errori interventisti” del presidente Hoover come artefici della “grande depressione”, senza considerare che proprio grazie ad una grande manovra pubblica, il new deal di Franklin Delano Roosvelt, gli Usa uscirono dalla crisi. Sulla scia di questa premessa, anche relativamente alla crisi attuale gli autori sostengono che le responsabilità maggiori (se non uniche) siano politiche. In particolare, gli errori commessi dal governo Usa sono stati due: 1. l’adozione della legge che ha cancellato la separazione tra banche commerciali e banche di investimento e che ha sottoposto gli istituti al controllo della Sec (l’omologa della nostra Consob), per definizione “corrotta” dai politici; 2. l’approvazione della legge che ha liberalizzato i prodotti derivati, consentendo alle banche di investire in derivati anche in assenza di capitale sufficiente per assorbire le eventuali perdite. Secondo gli autori «la responsabilità della crisi è di chi ha concesso di correre rischi così elevati con un capitale tanto scarso». Negano quindi qualunque responsabilità agli attori finanziari che hanno rischiato senza capitale e attribuendo tutte le colpe ai decisori politici. Ma se la politica deve stare fuori dal mercato, limitandosi a dettare le regole, non è corretto sostenere che ogni volta che c’è una crisi è sempre e solo colpa delle regole sbagliate: ci sarà almeno un concorso di colpa tra chi decide le regole e chi si comporta in maniera deontologicamente sbagliata, senza considerare le conseguenze e le responsabilità delle proprie azioni. Nessuno oggi mette in discussione il paradigma dello Stato Regolatore, ossia quel paradigma che prevede che lo Stato si limiti a dettare le regole al mercato, intervenendo poco come attore economico (Stato Interventista) ed evitando di lasciare il mercato privo di regole (Stato Minimo). I fallimenti del mercato e i fallimenti dello Stato interventista sono ben noti alla letteratura economica da tempo e proprio a partire da questi si è formulata l’opzione dello Stato Regolatore. Ma nessuno può sostenere che lo Stato sia infallibile nel dettare le regole medesime, così come nessuno può mettere la mano sul fuoco sulla correttezza e la bontà delle scelte e dei comportamenti degli attori economici. Da regole sbagliate possono derivare comportamenti virtuosi, così come da regole apparentemente impeccabili possono discendere comportamenti negativi per l’economia e la società. 11 Manovra finanziaria pubblica tendente a stimolare l`attività economica attraverso la formazione di un disavanzo nel bilancio dello Stato. 49 Appunti di Politica Economica CAPITOLO V INTERVENTO DELLO STATO ED EQUITA’ 5.1 Motivazioni dell’intervento dello Stato Abbiamo visto che esistono visioni discordanti sul ruolo dello Stato in economia alcuni economisti sono a favore dell’intervento, altri contrari, tutti comunque, se pure con qualche distinguo, sono favorevoli alla presenza di uno Stato minimale, uno Stato cioè che si limiti a garantire il diritto di proprietà, il diritto alla difesa, e il funzionamento della giustizia. Per l’economista classico il mercato non ha inefficienze in quanto, essendo garantito in esso il diritto di proprietà ai suoi attori, questi possono effettuare accordi, privi di costi, e quindi scambi senza problemi; se pure ve ne fossero è il mercato stesso ad essere in grado di superarli (INUTILITA’ DELLA CORREZIONE). Per l’economista neoclassico il mercato può produrre inefficienze e quindi costi per la società, tuttavia l’intervento “correttivo” dello Stato comporterebbe costi persino maggiori, per cui anche in questo caso il suo ruolo deve essere minimale (INEFFICIENZA DELLA CORREZIONE). Per Milton Friedman, così come per altri esponenti della visone liberista, l’economia è naturalmente stabile e la colpa delle ampie fluttuazioni e delle inefficienze è da attribuirsi a provvedimenti di politica economica errati. Per questo motivo la politica economica non dovrebbe tentare “di mettere a punto” l’economia12. Per l’economista keynesiano e neokeynesiano, l’economia è intrinsecamente instabile, poiché subisce frequenti shock della domanda e offerta aggregata. Se i responsabili della politica economica non cercassero di stabilizzare l’economia con gli strumenti della politica monetaria e fiscale, questi shock provocherebbero contrazioni di reddito, occupazione e crescita dei prezzi. In quest’ottica le politiche attive dovrebbero “contrastare il vento”, stimolando l’economia quando è depressa e frenandola quando si surriscalda. Secondo la scuola interventista si richiede l’intervento dello Stato per 1) garantire l’equità (per spiegare ciò si farà ricorso alla scatola di Edgeworth); 2) evitare che l’individualismo sfrenato possa arrecare danni alla collettività (teoria dei giochi); 3) risolvere problemi di coordinamento (anche in questo caso si ricorrerà alla teoria dei giochi); 12 Friedman nel 1963, presentando una rilettura della “Grande Depressione”, interpreta la crisi come il comportamento errato delle autorità di politica economica che, in quell’occasione, perseguirono politiche monetarie restrittive, facendo mancare al sistema bancario e finanziario la liquidità necessaria. 50 Appunti di Politica Economica 4) tramandare alle generazioni future regole e comportamenti che creano le istituzioni (teoria dei supergiochi). In particolare, interventi dello Stato possono migliorare l’efficienza delle attività economiche nei casi di fallimenti del mercato di tipo microeconomico, vale a dire nei casi in cui il mercato non è in grado di organizzare le attività economiche nel modo più efficiente possibile. I fallimenti di mercato di tipo microeconomico si riscontrano in presenza di monopoli (e in generale quando si registra carenza di concorrenza), di beni comuni e pubblici, di esternalità negative e di asimmetrie informative. Allo stesso modo si richiede l’intervento dello Stato quando la dinamica dell’economia di mercato è accompagnata dal comparire (e spesso dal permanere) di fenomeni “macro” che non appaiono spiegabili e/o non sono compatibili con l’idea di equilibrio che deriva dalla teoria neoclassica e con l’idea smithiana di “mano invisibile”: la disoccupazione, inflazione, squilibri di bilancia dei pagamenti e sottosviluppo. Queste sono manifestazioni dell’instabilità delle economie di mercato capitalistiche, cioè non solo la mancata convergenza del sistema economico verso un determinato equilibrio, ma anche la possibilità che l’economia evolva secondo criteri non ottimali dal punto di vista dell’efficienza e/o equità e permanga in tali posizioni non ottimali. 5.2 Politica economica per garantire l’equità I mercati possono condurre a una distribuzione non equa dei beni fra le diverse persone. Lo Stato tipicamente interviene per ridurre tale l’iniquità prelevando una parte dei redditi relativamente più elevati (attraverso il sistema della tassazione che, per quanto stabilito dalla Costituzione italiana13, è di tipo progressivo) per consentire a tutti sia la possibilità di poter utilizzare gratuitamente alcune categorie di beni, i beni pubblici14, ma anche beni economicamente “privati”15 come quelli connessi con l’istruzione e la tutela della salute, sia di ottenere un reddito minimo da spendere in modo autonomo per acquistare altri beni. Per spiegare l’intervento da parte dello Stato al fine di ridistribuire le risorse fra gli individui e assicurare l’equità si utilizzerà la scatola di Edgeworth, un modello stilizzato che prende in considerazione un’economia di puro scambio, in cui due soggetti devono decidere di scambiare fra loro beni sulla base delle rispettive preferenze e risorse a disposizione. 13 “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”Art. 53 14 I beni pubblici sono caratterizzati da non-rivalità nel consumo e non escludibilità. Un bene è nonrivale nel consumo se il consumo del bene da parte di un individuo non riduce le possibilità di consumo (della stessa unità del bene) di un altro individuo (non rivalità = “assenza di congestione”). Un bene è non-escludibile se il possessore/produttore non è in grado di escludere dal consumo i soggetti che non corrispondono un prezzo (che non contribuiscono alla produzione del bene). Esempi di beni pubblici sono la difesa nazionale e l’ordine pubblico, l’illuminazione di una città, le piazze ecc. 15 I beni perfettamente rivali nel consumo ed escludibili (a “costi nulli”) sono invece denominati beni privati puri. Da un punto di vista economico l’istruzione non è un bene pubblico. Essa, infatti, non è caratterizzata dall’assenza di rivalità ed escludibilità: il bene risulta peraltro congestionabile e ciò potrebbe generare inefficienza nell’offerta dei servizi [Bosi 2000]. Si può quindi affermare che l’istruzione universitaria è un bene privato [Hansmann 1995]. L’istruzione rientra, anche, nella definizione di bene di merito o meritori [Musgrave e Musgrave 1982], ossia quei beni o servizi cui la collettività attribuisce un particolare valore sociale perché ritenuti funzionali allo sviluppo morale e sociale della collettività stessa (istruzione, cure sanitarie, …..) 51 Appunti di Politica Economica 5.3 Economia di Puro Scambio Una economia di puro scambio è il contesto più semplice nel quale analizzare l'efficienza della distribuzione delle risorse e lo scambio e quindi valutare il ruolo dello Stato. Infatti, prescindendo da questioni che riguardano le scelte produttive, essa permette di considerare come una data quantità di risorse totali si distribuisce tra i consumatori e valutare se l'allocazione ottenuta è efficiente, o meno. Un modello semplice di economia di puro scambio è un sistema economico in cui non esiste produzione, che è composto da due soli individui (A e B) e due soli beni (x1 e x2). Non essendoci produzione, nel sistema esiste una quantità complessiva data di ciascun bene, detta dotazione. Dotazioni e Preferenze Le dotazioni non sono altro che ciò che possiede un soggetto. Se, prima di scambiare, un individuo ha una certa quantità di due beni, si dice che egli possiede un paniere iniziale di beni, o dotazione iniziale. Il paniere iniziale di beni del soggetto A che indichiamo con PA, è composto da (x1; x2). Allo stesso modo il secondo individuo, B, ha un paniere iniziale di beni PB=(x1; x2). Nel modello considerato il paniere quindi non è altro che una coppia di beni, una coppia di panieri invece è detta allocazione, per cui la coppia PA e PB costituisce una allocazione iniziale. ALLOCAZIONE (PA; PB) Lo scambio di beni fra consumatori determina l’allocazione finale. Gli individui scambiano sulla base delle proprie preferenze, o gusti. Questi ultimi variano da individuo ad individuo e sono, oltre al reddito a disposizione, un fattore che condiziona le scelte di consumo dei soggetti. Infatti, ogni individuo decide di consumare sulla base della quantità di denaro che ha a disposizione e sulle base delle sue specifiche preferenze. Le curve di indifferenza e le funzioni utilità Graficamente le preferenze di un soggetto si rappresentano attraverso le cosiddette curve di indifferenza, o curve della felicità. Una curva di indifferenza rappresenta tutte le combinazioni dei panieri di beni (o coppia di due beni) che garantiscono al consumatore lo stesso livello di utilità, soddisfazione o felicità. Per fare un esempio molto semplice, si potrebbe immaginare che quattro serate in pizzeria e due serate al cinema forniscano la stessa soddisfazione di tre serate in pizzeria e tre serate al cinema, oppure ancora di due serate in pizzeria e quattro al cinema e così via. In questo esempio i tre panieri (4 sere pizzeria; 2 cinema); (3 sere pizzeria; 3 cinema); (2 sere pizzeria; 4 cinema) danno all’individuo lo stesso livello di gradimento. Analiticamente le preferenze vengono descritte da funzioni di utilità (U). Queste ultime associano un valore numerico a ciascun paniere di mercato in modo tale che ai panieri giudicati migliori venga assegnato un numero più elevato rispetto ai panieri giudicati inferiori. In termini formali, una generica funzione di utilità è del tipo: U=f(x1;x2) 52 Appunti di Politica Economica U rappresenta l'utilità e xi il generico bene i-esimo. Ad ogni livello di utilità corrisponde dunque una diversa curva di indifferenza. La rappresentazione grafica della curva di indifferenza è la rappresentazione della sua funzione utilità. Il grafico che segue mostra una delle possibili curve di indifferenza associabile ad un consumatore. Sugli assi del diagramma cartesiano sono misurate le quantità dei due beni, mentre i punti rappresentativi dei panieri in grado di fornire il medesimo livello di utilità costruiscono la curva di indifferenza. Il paniere A e il paniere B nella figura danno al consumatore la medesima soddisfazione o utilità o felicità. Punti situati su una diversa curva di indifferenza esprimono un diverso livello di utilità, a curve più alte corrispondono gradimenti più elevati. Le proprietà delle curve di indifferenza sono tre, e precisamente: 1) Le curve di indifferenza hanno pendenza negativa e sono convesse verso l’origine 53 Appunti di Politica Economica La convessità verso l’origine della curva implica che fra i due beni vi sono prevalentemente rapporti di sostituibilità imperfetta, vale a dire che se si vuole mantenere un certo livello di benessere è possibile compensare la riduzione del consumo di un bene (esempio x1) con un aumento nel consumo dell’altro bene, ma che man mano che si va avanti in questo processo, la sostituzione diventa sempre più costosa. 2) Le curve di indifferenza più in alto garantiscono livelli di utilità maggiori. Dalla seguente figura si può chiaramente notare che più ci si allontana dall’origine maggiori livelli di utilità si raggiungono in quanto si dispone di più di uno o di entrambi i beni. Ad esempio dati 10 quantità del primo bene (vedi figura sull'asse delle ordinate) la terza curva di indifferenza è compatibile con 15 quantità del bene 2 rispetto alle 5 quantità della prima curva e alle 10 della seconda. Possiamo quindi affermare che: le curve di indifferenza più esterne forniscono un maggiore livello di utilità poichè sono compatibili con panieri dotati di maggiori quantità dei beni. Un insieme di curve di indifferenze è chiamata mappa o famiglia di curve di indifferenza. 3) Le curve di indifferenza non si intersecano. Per cui non si può verificare la seguente situazione: 54 Appunti di Politica Economica Si osservi la figura. L’individuo è indifferente al consumo tra il paniere espresso da v e quello espresso da y. Inoltre è indifferente tra il consumo in v e in z. Per la proprietà transitiva questo consumatore dovrebbe essere indifferente anche tra y e z: ciò è però in contraddizione col fatto che il paniere y contiene di più di entrambi i beni rispetto al paniere z e, che per definizione il consumatore è più soddisfatto se consuma molto piuttosto che poco. 5.4 Scatola di Edgeworth Sulla base dei concetti precedenti si può costruire la scatola di Edgeworth, un diagramma che consente di rappresentare contemporaneamente: • la dotazione complessiva dei beni x1 e x2 nell’economia (lunghezza assi della scatola) • le preferenze degli individui, A e B, per i beni x1 e x2 (mappa delle curve d’indifferenza); • la dotazione iniziale dei beni x1 e x2 (punto iniziale d’intersezione curve d’indifferenza dei due consumatori); • tutte le possibili allocazioni dei beni x1 e x2, ossia le allocazioni realizzabili di questa economia. Rappresentazione grafica Per semplicità, ipotizziamo che in un’economia 2X2, due beni e due individui, vi siano abiti e cavalli e due individui Gio e Luca. Si supponga che Giò sia dotato di 15 cavalli e 3 abiti e Luca di 5 cavalli e 14 abiti. La scatola si costruisce riportando sugli assi cartesiani la quantità TOTALE di ciascun bene nell’economia, ossia la somma della quantità posseduta dal primo e di quella posseduta dal secondo individuo di ciascun bene. La dotazione complessiva dell’economia è di 17 abiti e di 20 cavalli, tali valori rappresentano la dimensione della scatola. 55 Appunti di Politica Economica La quantità di cavalli posseduta da Giò (15C) corrisponde alla distanza sull’asse orizzontale dall’origine degli assi in basso a sinistra e la quantità posseduta di abiti (3A) corrisponde alla distanza dall’origine sull’asse verticale. Il punto W (15C; 3A) rappresenta la dotazione iniziale di Giò. Per posizionare i beni di Luca si fa riferimento all’origine opposta in alto a destra. La sua quantità di cavalli è la distanza sull’asse orizzontale rispetto all’origine e la quantità posseduta di abiti la distanza sull’asse verticale rispetto all’origine in alto a destra. Le due coordinate indicano la dotazione iniziale di Luca W (5C; 14A). Il punto W fornisce la distribuzione delle risorse prima dello scambio. I punti all’interno della scatola rappresentano le allocazioni REALIZZABILI di questa semplice economia. All’interno della scatola sono rappresentate le preferenze dei due individui attraverso le curve di indifferenza, nella loro tipica forma. Si tenga presente che quelle di Luca sono rappresentate riferendosi all’origine posta in alto a destra. Partendo dall’origine di Giò e spostandosi verso l’alto e a destra ci muoveremo verso allocazioni maggiormente preferite da Giò. Allo stesso modo e in maniera contraria, partendo dall’origine di Luca e muovendosi verso sinistra ci si avvicina alle allocazioni maggiormente preferite da Luca. Lo scambio Ci si chiede come avvengono gli scambi? Si considerino la dotazione iniziale di beni e le curve di indifferenza di Luca e Giò che passano per la dotazione iniziale stessa. L’area in cui Giò è in una situazione migliore rispetto alla sua dotazione iniziale è formata dai panieri di beni al di sopra della sua curva di indifferenza passante per W. L’area in cui Luca è in una situazione migliore di quella corrispondente alla sua dotazione iniziale è costituita da tutte quelle allocazioni al di sopra della sua curva di indifferenza passante per W. 56 Appunti di Politica Economica L’area in cui entrambi realizzano una SODDISFAZIONE maggiore è rappresentata dall’area lenticolare nella precedente figura, che viene detta Area del Vantaggio Reciproco. Durante le loro trattative, i due contraenti troveranno uno scambio reciprocamente vantaggioso all’interno dell’area, ad esempio il punto M. L’allocazione M non ha caratteristiche particolari, qualsiasi allocazione all’interno dell’area darebbe una soddisfazione maggiore rispetto all’allocazione iniziale. Gli scambi potrebbero continuare partendo da M, e quindi tracciando nuove curve di indifferenza passanti per quel punto, si potrebbe costruire un’ulteriore area del vantaggio reciproco e immaginare che i contraenti si spostino verso un nuovo punto e così via…., il processo di scambio continuerà fino a che non vi saranno più scambi preferiti sia da Giò che da Luca. Allocazioni Pareto-efficienti In particolare, il processo di scambio continuerà fino al punto in cui risultano tangenti le curve di indifferenza relative ai due agenti, ossia il punto E, questo punto è detto Pareto efficiente. Il punto Pareto efficiente indica quella situazione per cui qualsiasi spostamento migliori la soddisfazione di uno dei due contraenti necessariamente peggiorerà quella dell’altro, in altri termini spostandosi da E non vi sono in corrispondenza allocazioni con scambi reciprocamente vantaggiosi. 57 Appunti di Politica Economica Un’allocazione Pareto-efficiente è tale che: - Non si può aumentare la soddisfazione di tutti i contraenti contemporaneamente; - Non si può aumentare la soddisfazione di qualche individuo senza diminuire quella di qualcun altro; - Tutte le opportunità vantaggiose derivanti dallo scambio sono state sfruttate; - Non è possibile effettuare ulteriori scambi reciprocamente vantaggiosi. 5.5 La curva dei Contratti Da un punto di vista geometrico, è possibile individuare all’interno della scatola di Edgeworth, vari punti in cui le curve di indifferenza sono tangenti e che prescindono dall’allocazione iniziale. Infatti data una qualsiasi curva di indifferenza di Giò è facile trovare un’allocazione Pareto-efficiente, basta che essa sia tangente alla curva di Luca. Congiungendo tutti i punti di tangenza tra le curve di indifferenza dei due individui si ottiene l’Insieme di Pareto o Curva dei Contratti. La Curva dei Contratti unisce i due vertici degli angoli opposti della scatola di Edgeworth, ossia va dall’origine di Giò a quella di Luca attraversando i punti Pareto-efficienti all’interno della scatola, come rappresentato nella seguente figura. 58 Appunti di Politica Economica Poiché la curva dei contratti include tutti i possibili esiti di scambi reciprocamente vantaggiosi, a partire da un punto qualsiasi della scatola, essa non dipende dalla dotazione iniziale, se non nella misura in cui essa determina le dimensioni della scatola. Ci si chiede • Perchè si chiama “curva dei contratti”? Il termine deriva dal fatto che tutti i “contratti finali” di scambio devono trovarsi nell’insieme di Pareto, altrimenti non sarebbero finali, poiché sarebbe possibile qualche miglioramento. • Cosa succede negli angoli della scatola? L’origine di Giò corrisponde ad una situazione in cui Giò non ha niente e Luca ha tutto. Tale situazione è Pareto efficiente, poiché la sola possibilità per Giò di aumentare la sua soddisfazione consiste nel prendere qualcosa a Luca. Spostandoci verso l’alto lungo la curva dei contratti, la soddisfazione di Giò continua ad aumentare fino a che non si arriva all’origine di Luca. • Che legame c’è tra curva dei contratti e il core? La curva dei contratti o insieme di Pareto è dato da tutti i punti di tangenza nella scatola. Il core (tratto AB) è un sottoinsieme dell’insieme di Pareto delimitato dalle curve di indifferenza che passano dalle dotazioni iniziali. 59 Appunti di Politica Economica Box 6 Efficienza allocativa ed efficienza produttiva L’efficienza è l’abilità ad utilizzare in maniera economica le risorse a propria disposizione ed è distinta in efficienza allocativa (o efficienza esterna) ed efficienza produttiva (o efficienza interna) statica e dinamica delle imprese. C’è efficienza allocativa quando la quantità prodotta/offerta di beni e servizi viene massimizzata e i prezzi vengono minimizzati, ossia quando i prezzi sono proprio pari ai costi marginali. Una più intensa concorrenza promuove il raggiungimento di una più efficiente allocazione delle risorse scarse disponibili in quanto una maggiore concorrenza fra le imprese riduce il loro potere di mercato, ossia la loro capacità di fissare prezzi superiori al loro costo marginale, e permette di ottenere il massimo benessere sociale. La formalizzazione e dimostrazione di ciò è data dal primo teorema fondamentale dell’economia del benessere: un equilibrio concorrenziale è Pareto-efficiente, nel senso che l'allocazione delle risorse è tale che non è possibile migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro. Si ha efficienza allocativa quando non è possibile alcuna riorganizzazione della produzione che migliori le condizioni di almeno una persona senza diminuire quelle degli altri. In tale situazione, l'utilità di una persona può essere aumentata soltanto da una diminuzione dell'utilità di qualcun altro; vale a dire che nessuna persona può migliorare la propria condizione senza che qualcun altro peggiori la sua. L’efficienza produttiva statica o semplicemente efficienza produttiva, fa riferimento alla caratteristica riconosciuta ad un processo produttivo quando è in grado di ottenere un output maggiore, a parità di input, rispetto ad altri processi produttivi, ovvero quando è l’unico ad conseguire la stessa quantità di output comparato ad altri processi produttivi impiegando meno inputs. Semplicemente, l’efficienza produttiva si ottiene se non si effettuano sprechi (di materie, di lavoro, di energia, di tempi ecc.), consumando solo le risorse strettamente necessarie. Si ritiene che un’impresa dotata di potere di mercato oltre a fissare prezzi troppo alti, generando inefficienza allocativa, avrà minori incentivi ad adottare tecniche produttive più efficienti fra quelle a sua disposizione e ad organizzare il suo sistema produttivo in maniera efficace, perché non esposta alla pressione concorrenziale. Tutto ciò genera inefficienza produttiva (statica). L’efficienza produttiva dinamica fa riferimento all’abilità di un’impresa a mettere in atto attività di innovazione che implicano un significativo miglioramento dei processi produttivi e/o nuovi prodotti e servizi. 60 Appunti di Politica Economica 5.6 I Teoremi Fondamentali dell’Economia del Benessere La scatola di Edgeworth e lo scambio mettono in evidenza che i due individui lasciati liberi di agire, ossia in presenza di libero mercato, raggiungono in modo spontaneo la pareto-efficienza. Tuttavia, un equilibrio efficiente può risultare non equo, qualora le dotazioni iniziali siano distribuite in modo iniquo. Questi concetti si affermano nel primo e nel secondo teorema dell’economia del benessere che sanciscono la corrispondenza tra equilibrio economico generale di concorrenza perfetta e ottimo paretiano nonché chiariscono il ruolo del mercato e dello Stato nel raggiungimento di quel particolare equilibrio. Primo teorema Sotto certe condizioni (in particolare in assenza di esternalità) ogni equilibrio di concorrenza perfetta è un ottimo paretiano. In altri termini, il primo teorema dell’economia del benessere afferma che l’equilibrio di concorrenza perfetta è Pareto-efficiente, perciò non possono esistere ulteriori scambi tra gli agenti che siano vantaggiosi per entrambi. Il primo teorema stabilisce quindi che, date le dotazioni iniziali, se lasciamo gli agenti comportarsi secondo le regole del mercato l’esito sarà una allocazione pareto efficiente. Da quanto detto innanzitutto si comprende che il mercato concorrenziale sfrutta tutte le opportunità vantaggiose derivanti dallo scambio ed è quindi un meccanismo non-wasteful (non spreca risorse). Si rileva inoltre che il ruolo dello Stato avrebbe carattere Minimale (di stampo neoclassico) visto che il mercato, lasciato a sé stesso, è in grado di raggiungere uno stato di efficienza non ulteriormente migliorabile. Infine, si intuisce che le forze di mercato portano ad un equilibrio socialmente ottimo secondo il principio di Pareto, ossia esse permettono di raggiungere l’efficienza allocativa senza però garantire l’equità, infatti il primo teorema non consente di prevedere in che modo saranno distribuiti i vantaggi, e quindi l’equilibrio di mercato potrebbe non essere un’allocazione equa. Se, ad esempio inizialmente Giò avesse tutto, continuerebbe ad avere tutto anche dopo aver effettuato gli scambi. Si deve notare che il 1° teorema è di natura DESCRITTIVA e non vale in presenza di fallimenti di mercato (es: mercati non concorrenziali, esternalità e beni pubblici) Secondo teorema Il primo teorema dell’economia del benessere afferma che l’equilibrio di un mercato concorrenziale è Pareto efficiente. Vale anche il contrario? A tale domanda risponde il secondo teorema dell’economia del benessere che afferma: sotto certe condizioni ogni posizione di ottimo paretiano può essere realizzata come un equilibrio di concorrenza perfetta, previa un’opportuna redistribuzione delle risorse che crei un minimo di equità sociale. In altri termini, attraverso un’opportuna ridistribuzione di risorse è possibile conseguire qualsiasi ottimo paretiano come equilibrio competitivo. Il teorema afferma quindi che, modificando opportunamente le dotazioni iniziali con particolari strumenti di redistribuzione, imposte o sussidi in somma fissa (lump sum tax), un’economia concorrenziale consente di raggiungere qualsivoglia stato sociale Pareto efficiente sulla frontiera massima dell’utilità. Di conseguenza, qualora ci fosse efficienza , ma non equità lo Stato dovrebbe attuare delle politiche redistributive (come quelle di bilancio), usando strumenti come imposte progressive e trasferimenti, lasciando poi la funzione allocativa al mercato. 61 Appunti di Politica Economica Considerazioni e implicazioni: - il 2° teorema del benessere è di natura prescrittiva; - è possibile realizzare qualsiasi stato sociale, ottimale in senso paretiano, data una certa distribuzione iniziale delle risorse; - lo Stato può avere un ruolo distributivo (significa re-distribuire le proprietà). Un limite concretamente molto rilevante degli interventi “equitativi” è la presenza di un tradeoff tra efficienza e equità: gli interventi volti a garantire a tutti un tenore di vita adeguato indeboliscono gli incentivi delle persone a sforzarsi per guadagnarselo mediante il meccanismo dei mercati, vale a dire contribuendo a produrre beni utili per gli altri. Da quanto espresso si intuisce che il sistema di mercato è un sistema EFFICIENTE per aggregare le preferenze individuali, tuttavia l’insieme delle scelte è limitato dalle dotazioni iniziali e quindi alle allocazioni che sono nel CORE; se si vuole estendere la scelta all’intero insieme di Pareto è necessario integrare il sistema di mercato con le scelte pubbliche che permettono di individuare le allocazioni finali nell’insieme di Pareto. Il Mercato permette di trovare le allocazioni finali nel CORE. Lo Stato consente di trovare le allocazioni nell’Insieme di Pareto. Il sistema di mercato rispetta le dotazioni iniziali delle risorse, il mitico Robin Hood attua trasferimenti che consentono allocazioni diverse. La giustizia distributiva rimane, quindi, uno dei grandi limiti delle economie di mercato, come affermano Cozzi e Zamagni: “Le economie di mercato sono macchine straordinariamente efficienti nella produzione della ricchezza, ma assai poco capaci di distribuirla equamente tra coloro che hanno preso parte al processo della sua creazione.” 5.7 Sintesi L’equilibrio competitivo, oltre a poter generare una distribuzione non equa, potrebbe anche condurre ad una configurazione del sistema economico Pareto sub-ottimale. In altri termini, il primo teorema fondamentale potrebbe non realizzarsi in presenza di Fallimenti del Mercato. Proprio per questo, secondo l’economia del benessere, il ruolo dello Stato si esplica nel garantire la redistribuzione delle risorse, secondo quanto viene sancito dal secondo teorema; e nell’allocare le risorse in caso di fallimenti di mercato (asimmetrie informative, mercati incompleti, oligopoli e monopoli, esternalità, beni pubblici) (1 teorema). Con i due teoremi dell’economia del benessere si definisce una sorta di corrispondenza biunivoca tra concorrenza perfetta e ottimo paretiano e si afferma una dicotomia funzionale tra efficienza ed equità, produzione e distribuzione in cui mercato e Stato svolgono rispettivamente: • la mission allocativa (torna la metafora smithiana della “mano invisibile”) • la mission redistributiva (attraverso trasferimenti lump-sum). Con i due teoremi pur rimanendo nell’ambito dell’approccio tipico del liberismo economico, si attribuisce un ruolo determinante allo Stato che integra il criterio paretiano con un criterio di giustizia distributiva, possibile proprio perché di ottimi paretiani ce ne sono infiniti. Si assiste, 62 Appunti di Politica Economica così, ad una giustificazione ideologica, politica ed analitica del laissez faire e, quindi, ad una combinazione ottimale tra principi liberisti e ideali etici sociali. L’economista Sen affermava che: Una società o un’economia possono essere ottimali in senso paretiano e, tuttavia essere perfettamente disgustose (Sen 1970). Illustrazione intuitiva L'intuizione sottostante ai due teoremi fondamentali è che il normale funzionamento di un mercato perfettamente concorrenziale consente di raggiungere un equilibrio in cui le risorse dell'economia (beni di consumo, fattori di produzione) sono allocate in maniera ottimale tra tutti gli agenti che vi operano. In questo contesto, un'allocazione si considera ottimale nel senso dell'efficienza Paretiana, se a partire da tale allocazione, non è possibile redistribuire le risorse in maniera tale da incrementare l'utilità di almeno un agente, senza ridurre quella di almeno un altro agente. Se da un lato, in linea teorica, lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto da un pianificatore centrale — ad esempio, lo Stato — che distribuisca le risorse sulla base delle preferenze e delle produttività dei singoli agenti economici, è anche chiaro che in condizioni realistiche nessun pianificatore centrale potrebbe mai disporre di sufficienti informazioni per attuare una tale soluzione. E se anche il pianificatore sociale centrale fosse "benevolo" e "pienamente informato", non potrebbe rimpiazzare l'allocazione competitiva dei beni con un'altra capace di aumentare il benessere di ogni singolo consumatore (Tirole 1988, 6). Sarebbe dunque preferibile affidarsi a soluzioni decentralizzate, quale il meccanismo di mercato in concorrenza perfetta, che raggiungono un equilibrio in condizioni di ottimalità Paretiana senza richiedere che alcun agente disponga di una quantità non realistica di informazioni. Secondo Vilfredo Pareto, dal quale prende le mosse la Nuova Economia del Benessere e il cui criterio ha sostituito la sum-ranking utilitaristica (ordinamento per Somma), poiché l'utilità non è una proprietà fisica dei beni, ma è l'attitudine di un bene a soddisfare determinati bisogni, ossia una grandezza soggettiva e psicologica, non solo non è possibile misurarla, ma non è neppure necessario farlo. Tutto ciò che occorre è che il consumatore sia in grado di confrontare diverse alternative di consumo e di esprimere delle preferenze rispetto a queste alternative. Tale approccio, alla base della costruzione delle curve di indifferenza, risulta abbastanza singolare se consideriamo che nonostante i suoi studi ed il suo percorso, Pareto abbia rifiutato un’applicazione matematica al calcolo della felicità diventando, invece, uno degli esponenti più convinti del liberismo (forse per gli influssi di riformismo liberale che hanno sempre caratterizzato la Svizzera dove ha passato tutta la sua vita). Il sistema di mercato concorrenziale è, infatti, per Pareto, il mezzo più idoneo in quanto perfettamente coerente con il principio soggettivista: date le risorse economiche a disposizione di ciascun individuo, il mercato consente a ciascuno di realizzare il proprio benessere personale producendo, comprando e vendendo i beni 63 Appunti di Politica Economica preferiti. Ma l’ottimo paretiano può trascurare i criteri di distribuzione e i diversi stati del mondo, la libertà e i diritti personali (Sen 1982). Oltre alla netta separazione tra efficienza allocativa e giudizio di equità, il principio paretiano incorpora in sé alcuni limiti: – E' neutrale rispetto alla distribuzione della ricchezza: uno stato di estrema disparità può essere Pareto superiore ad uno di equità distributiva, a patto che almeno un individuo stia meglio e nessuno stia peggio in termini di utilità. – Consente solamente un ordinamento parziale: non riesce ad ordinare tutti i possibili stati del mondo. Si può stabilire solo se un soggetto sta meglio in una situazione rispetto ad un’altra, ma non di “quanto” sta meglio. – Non preserva la sfera delle preferenze individuali, incoerente con il principio delle 'libertà minime'. – Non si considera la presenza dei fallimenti del mercato. 64 Appunti di Politica Economica CAPITOLO VI LA TEORIA DEI GIOCHI E L’INTERVENTO DELLO STATO 6.1 Introduzione La Teoria dei Giochi è la disciplina che analizza situazioni di conflitto e ne ricerca soluzioni competitive e cooperative. È usata per lo studio delle situazioni di interazione strategica, vale a dire le situazioni in cui l'utilità di un individuo dipende non solo dalla sua azione, ma anche dalle azioni scelte dagli altri agenti. Nella teoria dei giochi si suppone che i giocatori sono tutti ugualmente razionali. “Razionale” significa che il giocatore ha piena coscienza dei suoi obiettivi ed è capace di operare le sue scelte in modo coerente coi suoi criteri di preferenza e coi vincoli derivanti dalla presenza degli altri decisori. La nascita della Teoria dei Giochi si fa coincidere con la pubblicazione nel 1944 del saggio “Theory of Games and Economic Behaviour” di Oskar Morgestern e John von Neumann16, in cui i due autori esaminavano i giochi cooperativi. L'estensione della teoria ai giochi non cooperativi è dovuta in gran parte al matematico John Nash, che nel 1994 vinse il premio Nobel per l’Economia. In particolare nel 1951 egli introdusse il concetto di equilibrio di Nash, che è, come si vedrà, la "soluzione tipica" di un gioco. Inizialmente un ampio campo di applicazione della Teoria dei Giochi è stato quello militare, ad esempio si è utilizzata tale teoria per effettuare l’attacco di Pearl Harbour durante la Seconda Guerra Mondiale e per valutare gli effetti della corsa agli armamenti durante il periodo della Guerra fredda. A questo proposito, un tratto tipico dello sviluppo della Teoria dei Giochi nello scorso secolo è stata la sua applicazione alla Crisi dei missili di Cuba (15 ottobre 1962) tra Stati Uniti e Unione Sovietica17, non solo per quanto riguardava la dotazione degli armamenti 16 Von Neumann (1903-1957) era un matematico presso l’Institute for Advanced Study di Princeton e Morgenstern (1902-1977) era un economista presso la Princeton University. 17 In quell’anno l’amministrazione Kennedy dovette prendere una decisione critica riguardo al comportamento da tenere nei confronti dell’Unione Sovietica, che stava installando a Cuba missili a testata nucleare in grado di colpire in pochi minuti quasi tutto il territorio metropolitano degli Stati Uniti. Kennedy scelse la via dell’escalation, cioè il danneggiamento della controparte, attraverso il blocco navale di Cuba, prospettando a Kruscev la possibilità concreta del confronto nucleare che sarebbe sfociato nella distruzione reciproca. Al culmine della crisi, il tredicesimo giorno l’Unione Sovietica indietreggiò, accettando di ritirare i missili in cambio del ritiro dei missili statunitensi Jupiter dalla Turchia anche se quei missili erano obsoleti e già prossimi al “pensionamento”. 65 Appunti di Politica Economica strategici, ma anche per quanto concerneva l’atteggiamento reciproco in merito all’effettiva intenzione di utilizzarli. Successivamente la Teoria dei Giochi si è estesa a vari campi fra cui la politica e a quelle discipline che riguardano le scelte individuali, come la sociologia, la psicologia, l’informatica e la biologia, oltre naturalmente che all'economia e alla finanza. La Teoria dei Giochi viene adoperata, per esempio, in Economia Industriale, quando le imprese hanno interessi contrastanti, oppure in Politica Economica per individuare le ragioni dell’intervento dello Stato in economia. In quest’ultimo caso, la teoria permette di spiegare l’intervento dello Stato nelle situazioni in cui l’interesse individualistico possa andare a scapito della collettività, nonché per risolvere problemi di coordinamento e sovra sfruttamento dei beni comuni. 6.2 Tipologia di giochi Le determinati chiave dei giochi sono: 1) I Giocatori, cioè l'insieme dei decisori che interagiscono strategicamente; 2) Le Strategie, ossia l'insieme dei possibili piani di azione e, quindi, l’insieme delle mosse che un giocatore intende compiere; 3) I Pay-off, l'insieme degli esiti del gioco per ciascun giocatore. In breve, un GIOCO è un modello stilizzato che delinea contesti di interazione strategica, in cui il risultato ottenuto di ciascun giocatore dipende • dalla propria scelta strategica • dalle scelte degli altri giocatori I giochi possono essere classificati A) in base alla loro natura in: Giochi cooperativi (studiati da Von Neumann) e giochi non cooperativi (studiati da Nash). Nel gioco non cooperativo ogni giocatore gioca da solo e punta a massimizzare la sua utilità. In un gioco cooperativo, invece, l’utilità afferisce a una coalizione di giocatori, fra cui vengono ripartiti i guadagni, e il problema tipico è quello di come si formano le coalizioni vincenti. I problemi di scelta di strategie parlamentari, per esempio, vengono spesso studiati con modelli di giochi cooperativi. Il problema della formazione delle coalizioni fa sì che anche i giochi cooperativi sono in astratto riconducibili a giochi non cooperativi. Tecnicamente un gioco si dice cooperativo se c’e’ la possibilità per i giocatori di sottoscrivere accordi vincolanti, che possono essere di vantaggio ai singoli giocatori. Invece, esso risulta essere non cooperativo quando il meccanismo delle decisioni riguarda i singoli giocatori sulla base di ragionamenti individuali, senza la presenza di accordi vincolati fra le parti. B) in base all’orizzonte temporale di riferimento in: -giochi one-shot; -giochi ripetuti; 66 Appunti di Politica Economica -giochi evolutivi. Un gioco si definisce one-shot quando è a colpo secco, ossia quando la situazione di interazione si propone una sola volta e, quindi, il gioco ha una natura atemporale. Un gioco è ripetuto quando gli agenti giocano più di una volta e la situazione di interazione si ripete nel tempo così che il pay-off diviene una sequenza di pay-off. Questo tipo di gioco favorisce le cooperazioni. Un gioco è evolutivo quando l’interazione si svolge nel tempo e cambia il contesto istituzionale di gioco. C) in base all’ordine con cui i giocatori prendono le proprie decisioni in Giochi simultanei e giochi sequenziali I giochi sono simultanei se i giocatori scelgono le azioni simultaneamente. Esempi: Morra cinese. Due giocatori contemporaneamente devono scegliere tra sasso, forbice e carta. Se i due giocatori scelgono lo stesso la partita è pari. Sasso vince su forbice, forbice vince su carta e carta vince su sasso. Vendite all’asta. In una gara d’asta per un appalto le ditte fanno un’offerta simultaneamente, senza conoscere le offerte fatte dagli altri concorrenti. I giochi sono sequenziali se i giocatori scelgono le azioni secondo una successione particolare. Esempi: Il Gioco degli scacchi, dama e le contrattazioni. D) in base alle informazioni a disposizione dei giocatori in Giochi a informazione completa e incompleta; In un gioco a informazione completa ogni giocatore conosce le regole del gioco, le strategie dell'altro o degli altri, le funzioni di utilità, i corrispondenti guadagni suoi e altrui, a che punto del gioco è, se il gioco ha più mosse e infine, sa che l'altro ha le stesse informazioni; non sa necessariamente cosa l'altro sta facendo nella mossa in questione. In un gioco a informazione incompleta queste condizioni non sono tutte rispettate. Gli scacchi, per esempio, sono un gioco a informazione completa; il poker non lo è. E) in base alla loro rappresentazione in Giochi in forma strategica o matriciale e giochi in forma estesa o ad albero, la prima si usa prevalentemente per giochi simultanei la seconda per giochi sequenziali. In forma strategica, il gioco si rappresenta facendo ricorso ad una matrice nel modo seguente: 67 Appunti di Politica Economica In forma estesa o albero si tratta di costruire un grafo che, partendo dalla radice, descriva il gioco mossa per mossa, fino ad arrivare a presentare tutte le situazioni finali, ciascun esito univoco di una serie di mosse ( forma introdotta da von Neumann e Morgenstern (1944) e formalizzata da Kuhn (1953)). La struttura ad albero si compone di un insieme finito di nodi e di rami che li collegano, e offre una descrizione esplicita del gioco e dell’informazione disponibile per ciascun giocatore al momento della decisione. Ciascun nodo rappresenta il turno per un giocatore e i rami rappresentano le mosse che può effettuare. Una successione di nodi collegati corrisponde, quindi, ad una successione ordinata di mosse ed individua un sentiero che può condurre ad un nodo finale al quale è associato un guadagno (o una perdita se il guadagno è in negativo). Solitamente la rappresentazione in forma estesa si utilizza nei giochi ad informazione completa e, individuata la strategia ottimale (nei nodi finali), si procede a ritroso o per “backward induction”. 68 Appunti di Politica Economica 6.3 Le Strategie Per quanto riguarda le strategie è possibile individuare strategie dominanti e dominate. Strategia dominante Dominante è la strategia strettamente migliore di ogni altra, indipendentemente dalle scelte degli altri giocatori. Se si considera un individuo A che ha a disposizione le strategie s1 e s2. La strategia s1 è dominante se: U(s1)> U(s2) Dove U è l’utilità, il guadagno detto anche pay-off. Se risulta che U(s1) ≥ U(s2), allora s1 risulta debolmente dominante. In altri termini, una strategia è debolmente dominante se conduce a vincite non minori rispetto alle altre strategie indipendentemente da cosa faccia l’altro giocatore. Strategia dominata Dominata è la strategia strettamente peggiore rispetto ad almeno un’altra strategia, indipendentemente dalla scelta degli altri giocatori Se si considera un individuo B che ha a disposizione le strategie s1 e s2. La strategia s1 è dominata se U(s1) < U(s2) La strategia può essere una strategia pura e una strategia mista. Un giocatore persegue una strategia pura se sceglie sempre la stessa mossa tra le azioni strategiche possibili di ogni partita. Una strategia pura specifica un piano di azione deterministico per un giocatore. Un giocatore persegue una strategia mista se sceglie una mossa tra le azioni strategiche possibili di ogni partita con una certa probabilità. Una strategia mista di un giocatore specifica che una scelta di strategia pura viene fatta casualmente dall’insieme delle strategie pure di quel giocatore, con specifiche probabilità. Una strategia mista quindi è una distribuzione di probabilità assegnata ad ogni strategia pura. 6.4 La risoluzione dei giochi La soluzione dei giochi fa riferimento al cosiddetto outcome o esito finale derivante dalle azioni dei giocatori. L’economista che si occupò di sistematizzare in modo specifico la soluzione dei giochi fu Nash, il quale individuò il così chiamato EQUILIBRIO dei GIOCO. Si ha l’equilibrio di Nash quando un giocatore attua la migliore strategia dato il comportamento ottimale dell’avversario, ossia la strategia di ogni giocatore è la miglior risposta alle strategie giocate dagli altri. In stato di equilibrio ciascun giocatore sta giocando la strategia che risulta la “migliore risposta” alle strategie degli altri giocatori. Nessuno è disposto a cambiare tale strategia date 69 Appunti di Politica Economica le scelte strategiche degli altri. L’equilibrio di Nash gode della proprietà della stabilità: ciascun giocatore conferma la sua scelta, una volta osservata la mossa dell’avversario. Nash mise in evidenza che è sempre possibile trovare un equilibrio in un gioco con strategie miste, invece nel caso di strategie pure si può verificare che non esista equilibrio, oppure ve ne siano due simultaneamente. Si può anche verificare che un equilibrio di Nash non sia una situazione migliore per tutti per cui si può verificare che un equilibrio di Nash non sia Pareto efficiente, per cui non si ha la maggiore soddisfazione per i due giocatori. IL DILEMMA DEL PRIGIONIERO Il dilemma del prigioniero è un gioco proposto negli anni ’50 da Albert Tucker come problema di Teoria dei Giochi. Due criminali vengono accusati con prove indiziarie di aver compiuto una rapina. Gli investigatori li arrestano entrambi per il reato di favoreggiamento e li chiudono in due celle diverse impedendo loro di comunicare. Ognuno di loro si trova di fronte a due scelte: confessare l'accaduto, oppure non confessare. Viene inoltre spiegato loro che: 1. se solo uno dei due confessa, chi ha confessato evita la pena; l'altro viene però condannato a 12 anni di carcere. 2. se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a 10 anni. 3. se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno per un reato minore. Questo gioco può essere descritto con la seguente matrice: Prigioniero 2 Non Conf Confessa Non Conf 1,1 12 , 0 Confessa 0 , 12 10 , 10 Prigioniero 1 dove il primo numero di ciascuna cella è il pay-off del prigioniero 1, mentre il secondo numero è il pay-off del prigioniero 2. La soluzione del gioco si determina individuando l’equilibrio di Nash, ossia una coppia di strategie per cui nessun giocatore ha incentivo a deviare unilateralmente (cioè a giocare una strategia diversa) data la strategia ottimale scelta dagli avversari. Consideriamo il prigioniero 1. Se il prigioniero 2 sceglie di confessare, il prigioniero 1 preferisce confessare, in quanto se confessa ottiene 10 anni, mentre se non confessa sarà condannato a 12 anni. Se invece il secondo prigioniero non confessa, la strategia di confessare dà un payoff al prigioniero uno pari a 0, mentre negare dà 1. Per il prigioniero uno, quindi, la strategia confessa è strettamente dominante rispetto alla strategia non confessa. 70 Appunti di Politica Economica Il ragionamento simmetrico vale anche per il prigioniero 2: confessare è la sua strategia migliore sia che il prigioniero 1 confessi sia che taccia. Infatti, se il prigioniero uno sceglie di non confessare, il prigioniero 2 preferisce confessare, in quanto se confessa verrà scarcerato (pay-off pari a 0), mentre se non confessa dovrà scontare 1 anno di carcere. Se invece il primo prigioniero confessa, la strategia di non confessare dà al prigioniero 2 un payoff pari a 12, mentre negare darà 10 anni. Anche per il prigioniero due la strategia del confessare è dominante, per cui l'unico equilibrio del dilemma del prigioniero è nel quarto quadrante (confessare, confessare), in cui vi è l’incrocio delle strategie dominanti dei due giocatori. Si noti peraltro che l’equilibrio di Nash nel gioco del dilemma del prigioniero rappresenta un esito non ottimale in assoluto per entrambi i giocatori: se infatti avessero potuto comunicare e sapere cosa l’altro stava facendo avrebbero scelto di non confessare, in quanto ciò avrebbe comportato un pay-off maggiore per entrambi. La maggior parte dei giochi non ammette strategie dominanti: Inoltre per alcuni giochi non esiste nemmeno un equilibrio di Nash e per altri invece più di un equilibrio di Nash. Per sintetizzare Nel Caso del Dilemma del prigioniero: l'azione confessa per entrambi i giocatori è l’equilibrio di Nash di questo gioco questo equilibrio però non è Pareto-efficiente ad entrambi i giocatori converrebbe non confessare Questo evidenzia il problema dovuto alla interazione strategica. I giocatori si troverebbero meglio se collaborassero, ma l'incentivo a deviare fa sì che non vi sia cooperazione. Molte situazioni strategiche presentano questa caratteristica. LA BATTAGLIA DEI SESSI Si consideri ad esempio il seguente gioco, detto la Battaglia dei Sessi. Lui e Lei devono cenare insieme. Lui è incaricato della scelta del vino, mentre Lei del piatto principale. Lui può scegliere tra Bianco e Rosso, mentre Lei tra Carne e Pesce. Si ipotizza che i due non possano comunicare prima della scelta e della cena. Entrambi preferiscono la combinazioni (Rosso, Carne) e (Bianco, Pesce) alle due rimanenti combinazioni, ma Lui preferisce in assoluto (Rosso, Carne), mentre Lei preferisce in assoluto (Bianco, Pesce). Quali sono le strategie ottimali per Lui? Supponiamo prima che Lei scelga carne: data questa scelta di Lei, per Lui sarà ottimale scegliere Rosso; sottolineiamo allora il pay-off 2 per lui nella cella (Rosso, Carne). Se invece Lei sceglie Pesce, la scelta ottima di Lui è Bianco; sottolineiamo 71 Appunti di Politica Economica quindi il pay-off 1 per Lui nella cella (Bianco, Pesce). Attraverso la sottolineatura, abbiamo così evidenziato la risposta ottima di Lui, cioè le strategie migliori per lui data la strategia scelta da Lei. Ripetiamo ora lo stesso procedimento per Lei, individuando la risposta ottima di Lei: la strategia ottimale per Lei è carne, se Lui sceglie Rosso (1>0), mentre è Pesce se lui sceglie Bianco (2>0). Sottolineiamo allora il pay-off 1 per Lei nella cella (Rosso, Carne) e il pay-off 2 per lei nella cella (Bianco, Pesce). Quando entrambi i pay-off di una cella sono sottolineati, ciascun giocatore sta scegliendo la sua strategia ottimale data la scelta dell'avversario: il che è la condizione perché si abbia un equilibrio di Nash. Vi sono dunque due equilibri di Nash in una Battaglia dei Sessi (Rosso, Carne) e (Bianco, Pesce). La Battaglia dei Sessi ci illustra che un gioco può ammettere più di un equilibrio di Nash. Questo gioco, inoltre, è interessante sotto l’aspetto del coordinamento. Infatti, se il telefono non funzionasse e quindi Lui e Lei dovessero scegliere senza conoscere le scelte dell’altro (cioè se fossimo nel contesto di un gioco simultaneo a informazione imperfetta), le probabilità che fosse raggiunto uno qualsiasi dei due equilibri di Nash sarebbero pari al 50%. Perché rischiare con probabilità del 50% di arrivare a una delle due combinazioni peggiori per entrambi (Carne, Bianco o Pesce, Rosso)? E’ meglio cercare di contattarsi a tutti i costi, anche se resta aperto il problema di quale delle due soluzioni sarà scelta. In altre parole un gioco di questo tipo incentiva al coordinamento. Si noti che in questo caso, a differenza che nel dilemma del prigioniero, chi dichiara apertamente la propria scelta, se riesce a farla accettare dall’altro, non corre comunque il rischio di “defezione”. Se Lui sa che Lei sceglie Pesce, perché questo è l’accordo, non gli conviene poi tradire scegliendo Rosso (e viceversa). INDUZIONE A RITROSO In maniera intuitiva, per risolvere un gioco in forma estesa l’idea è la seguente: • • • Si osservano gli ultimi nodi nei quali un giocatore è chiamato a giocare (nodi finali) e si suppone (coerentemente con l’ipotesi di razionalità) che in questi nodi il giocatore scelga la strategia che gli offre la vincita maggiore. Nei nodi precedenti, il giocatore che è chiamato a giocare sa cosa farà l’ultimo giocatore in quanto egli conosce il gioco e sa che l’ultimo giocatore è razionale. Così si comporta come se fosse l’ultimo a giocare in quanto la vincita che ottiene da ciascuna strategia gli è nota perché sa quali saranno le conseguenze della sua scelta. In questo modo si procede passo dopo passo … In conclusione, il giocatore che è chiamato a scegliere nel primo nodo sa già cosa succederà in corrispondenza di ogni sua scelta. 72 Appunti di Politica Economica La strategia dominante per il giocatore 2 è R sia al secondo che terzo nodo poiché 6>5 e 4>3. Per il giocatore 1 la scelta ottimale sarà B, poiché conduce ad un pay-off di 4 invece che 3. L’equilibrio di Nash è perciò la combinazione B-R. 6.5 Teoria dei giochi e politica economica Si può estendere l’applicazione della teoria dei giochi alla politica economica. Si considerino, due individui Giò e Luca posseggono rispettivamente due panieri di beni composti da 15 cavalli e 3 abiti e 5 cavalli e 14 abiti: GIO’ (15C; 3A) LUCA (5C;14A) La dotazione totale dell’economia è DT(20C;17A) Essi devono decidere se effettuare o meno scambi. Nell’eventualità di scambi i due individui si accordano di dare un cavallo in cambio di due abiti. In particolare, Giò cede un cavallo ricevendo due abiti da Luca, per cui i panieri finali saranno: GIO’ (14C; 5A) LUCA (6C;12A) DT (20C; 17A) Si supponga che GIO’ abbia preferenze descritte dalla funzione utilità: U=C*A Mentre Luca abbia un’utilità espressa da: U=2C*A Per rappresentare il gioco in forma matriciale si devono considerare le strategie messe in campo dai due giocatori, ossia scambiare o non scambiare, e si devono calcolare i pay-off da inserire nelle caselle della matrice considerando le funzioni utilità dei due soggetti. Per cui i pay-off valutati in termini di utilità in assenza di scambi risultano: 73 Appunti di Politica Economica Gio U=C*A=15*3=45 Luca U=2C*A=2*5*14=70 Dopo lo scambio saranno pari a: Gio U=C*A=14*5=70 Luca U=2C*A=2*6*12=144 La matrice quindi si può esplicitare come segue: Luca Scambia Non Scambia Scambia 70 , 144 45 , 70 Non Scambia 45 , 70 45 , 70 Gio Per la soluzione di questo gioco è sufficiente fare riferimento all’equilibrio della risposta migliore, definito dalla combinazione delle strategie dominanti in senso forte o come in questo caso in senso debole. Per cui per effetto della dominanza debole, ad entrambi conviene sempre accettare lo scambio. Gioco di Scambiare e Rubare Se si complica il gioco e si considera la possibilità di rubare gli esiti del gioco si modificheranno. Si ipotizzi che A) Gio prima scambi e poi rubi 6 abiti a Luca. I nuovi panieri dei due soggetti e le loro utilità diventeranno: GIO’ (14C; 11A) LUCA (6C;6A) DT 20C; 17A Giò U=C*A=14*11=154 Luca U=2C*A=2*6*6=72 B) Luca prima scambi e poi rubi 4 cavalli a Giò. I nuovi panieri dei due soggetti e le loro utilità, nel caso in cui vi è solo Luca a rubare saranno pari a : GIO’ (10C; 5A) 74 Appunti di Politica Economica LUCA (10C;12A) Gio U=C*A=10*5=50 Luca U=2C*A=2*10*12=240 La dotazione complessiva DT 20C; 17A rimane immutata. C) Entrambi rubino le precedenti quantità, e in aggiunta si supponga che nella fuga ciascuno perda un cavallo e un abito. In questo caso se entrambi rubano avranno un paniere così composto: GIO’ (14C; 5A) LUCA (6C;12A) Poiché sia Giò che Luca rimangono senza un cavallo e un abito, i loro panieri si modificheranno nel seguente modo: GIO’ (13C; 4A) LUCA (5C;11A) E le loro rispettive utilità saranno pari a: Gio U=C*A=13*4=52 Luca U=2C*A=2*5*11=110 La dotazione complessiva risulterà ridotta e uguale a DT (18C; 15A). La matrice del gioco si può esplicitare come segue: Luca Scambia e NN ruba Scambia & Ruba Scambia e NN ruba 70 , 144 50 , 240 Scambia & Ruba 154 , 72 52 , 110 Gio L’equilibrio di Nash si raggiunge con il pay-off (52,110) e risulta essere non Pareto efficiente. Il comportamento opportunistico non ha determinato la situazione migliore. Applicando il principio della dominanza strategica così come nel gioco del dilemma del prigioniero il risultato appare piuttosto paradossale: se ciascun giocatore adottasse la strategia dominata otterrebbe un risultato in termini di pay-off superiore a quanto realizzato da ciascuno di essi adottando la strategia dominante. 75 Appunti di Politica Economica In termini diversi, se gli individui agiscono in maniera autonoma finiscono per cadere in un equilibrio in cui i soggetti non si comportano in modo etico e dove i pay-off sono inferiori alla situazione eticamente giusta, da ciò deriva che l’equilibrio di Nash non è Pareto efficiente. Da quanto espresso si evince che l’individuo che agisce in base ai propri interessi causa una perdita per tutti e che quindi quando si lede l’interesse collettivo attraverso azioni individuali c’è bisogno dell’intervento dello Stato, che spinge verso comportamenti eticamente giusti ed efficienti. Adam Smith afferma che se un individuo persegue il suo interesse personale apporta un vantaggio alla collettività; quindi l’ottimo individuale porta all’ottimo sociale. Qui, invece, l’ottimo individuale porta ad un valore sub-ottimale e non all’ottimo sociale. L’intervento dello Stato si giustifica per evitare che i comportamenti dannosi riducano le dotazioni complessive. Tale conclusione economica, coincide sul piano filosofico con la tesi alla quale giunse Thomas Hobbes nel 1651, il quale, partendo dall’ipotesi della natura malvagia dell’uomo, “ homo homini lupus”, sostenne che l’unica possibilità di convivenza civile fosse la nascita del “Leviatano”, un essere immaginario, descritto come un mostro marino, che avesse la forza di imporre la legge e un sistema di punizioni per i trasgressori. L’azione dello Stato può estrinsecarsi in tre modalità: 1) Porre in essere leggi che eliminino le soluzioni asimmetriche. In modo tecnico significa eliminare i pay-off equivalenti della matrice, come nel seguente caso: Luca Scambia e NN ruba Scambia & Ruba Scambia e NN ruba 70 , 144 - - 52 , 110 Gio Scambia & Ruba 2) Imporre delle sanzioni per condannare il comportamento non etico, penalizzando i giocatori “devianti”, ad esempio, si potrebbe spogliare chi ruba dei propri beni: Luca Scambia e NN ruba Scambia & Ruba Scambia e NN ruba 70 , 144 50 , 0 0, 72 0,0 Gio Scambia & Ruba 76 Appunti di Politica Economica 3) Dare premi per favorire e promuovere comportamenti virtuosi. Ad esempio si potrebbe erogare una ricompensa di 100 per comportamenti eticamente corretti, in modo da modificare la matrice nella seguente maniera: Luca Scambia e NN ruba Scambia & Ruba Scambia e NN ruba 170 , 244 150 , 240 Scambia & Ruba 154 , 172 52 , 110 Gio Con gli interventi, nei tre casi, gli equilibri di Nash diverranno Pareto-efficienti. 6.6 Intervento dello Stato per coordinamento L’intervento dello Stato è importante anche per garantire il coordinamento fra azioni. Per rendere immediato il concetto si fa riferimento alla situazione già definita come “Battaglia dei sessi”, in cui due soggetti hanno preferenze discordi, ma volontà analoghe. In relazione a Giò e Luca entrambi vogliono attuare uno scambio, ma ciascuno desidera realizzarlo in un luogo differente, e non vuole assolutamente perdere l’opportunità di scambiare. Giò preferisce scambiare al maneggio e Luca al mercato. Si ipotizza che i due non possano comunicare il luogo degli incontri, per cui si consideri un gioco con i seguenti pay-off: Luca Maneggio Maneggio MKT 80 , 40 0,0 0, 0 40 , 80 Gio MKT Consideriamo Luca: Se Giò è al maneggio; a Luca conviene andare al maneggio. Se Giò è al mercato; a Luca conviene andare al mercato. Consideriamo Giò: Se Luca è al maneggio; a Giò conviene andare al maneggio. Se Luca è al mercato; a Giò conviene andare al mercato. 77 Appunti di Politica Economica Luca preferisce scambiare al mercato dove vi sono maggiori opportunità di compravendita (80) rispetto al maneggio (40); l’altro preferisce scambiare al maneggio dove vi sono migliori possibilità di scambiare (80) rispetto al mercato (40). Se, però, non dovessero incontrarsi i payoff di entrambi saranno pari a (0). Si evidenzia che in questa situazione vi sono due equilibri, ma quale dei due prevale non è possibile saperlo. Agendo individualmente e razionalmente si presenterà il rischio di perdere l’opportunità di scambio. Si presenta così un problema di coordinamento. Si eviterà la soluzione indesiderabile del mancato scambio solo se interverrà un’autorità esterna che fissi una “priorità sociale”. Anche se la priorità in tal caso è indeterminata poiché finirà per avvantaggiare l’uno o l’altro soggetto, essi preferiscono che venga dettata pur di evitare situazioni peggiori. Tale gioco conferma che un’ulteriore ragione di intervento dello Stato attraverso strumenti di politica economica è quella di risolvere un problema di coordinamento. In particolare, l’intervento dello Stato si estrinseca nella definizione di PRIORITA’ in modo tale da creare delle convenzioni. Prime conclusioni: Questo esempio e quello della Battaglia dei Sessi dimostrano che 1) l'equilibrio di Nash potrebbe non essere unico 2) potrebbe non esistere. 6.7 Il ruolo dello Stato con azioni ripetute In molte situazioni strategiche l’elemento temporale ha un ruolo rilevante, nel senso che le scelte vengono ripetute nel tempo. Tale ripetizione può avvenire un numero finito di volte (si parla di gioco ripetuto con orizzonte temporale finito) oppure infinite volte (si parla di supergioco). I supergiochi comprendono una sequenza di mosse e una sequenza di pay-off, per cui i giocatori non scelgono una strategia semplice, ma una strategia intertemporale, ossia un modello di comportamento che governa la loro condotta durante tutta l’interazione. La scelta viene così a dipendere non solo dalla razionalità individuale, ma anche dalla storia pregressa del gioco e dalle diverse aspettative sui suoi possibili esiti. Una variabile fondamentale nei giochi ripetuti è rappresentata dal fattore di sconto (1/1+i), definito come variabile che attualizza i valori monetari futuri, ossia permette di calcolare il valore attuale di una somma monetaria percepita in futuro. Se fra un anno, ad esempio il mio deposito in conto corrente mi frutterà 1000 euro, per sapere quanto vale quella somma X oggi ed eventualmente ritirala immediatamente dovrò attualizzarla utilizzando il tasso di sconto ciò significa che X = 1.000/1+ i. Ad esempio, se i = 0.05 (quindi il 5%), allora andando oggi in banca otterrò 1.000/1,05 ossia € 952,38. In un gioco ripetuto la presenza del fattore di sconto è fondamentale dato che rende in valore attuale le vincite future. 78 Appunti di Politica Economica Nei giochi con orizzonte temporale infinito il risultato principale è il cosiddetto TEOREMA DEL FOLK18 (Teorema Popolare), che postula che “ i comportamenti ottimali ovvero virtuosi, leali o cooperativi si possono verificare, spontaneamente ogni qual volta il tasso di sconto è sufficientemente piccolo, inferiore cioè ad una soglia data, il cui valore dipende dai pay-off del gioco”. In questi giochi è possibile che la situazione ottimale possa “sorgere endogenamente” senza l’intervento dello Stato, in quanto può emergere un fenomeno di apprendimento dei soggetti economici che li conduce ad apprezzare certi tipi di comportamento socialmente desiderabili. Ciò significa che se vi sono due individui che scambiano e un individuo ruba, in un gioco semplice si raggiunge un equilibrio inefficiente; mentre, in un gioco ripetuto è possibile che il soggetto che ruba può decidere di cambiare il suo comportamento, quindi agire in modo corretto perché sa che verrà a contatto con il derubato tante volte. Il soggetto confronta l’utilità del comportarsi male oggi con l’utilità derivante dal comportamento virtuoso per lungo tempo. Se l’utilità che gli deriva dal comportamento virtuoso è maggiore dell’utilità derivante dal comportamento non virtuoso il soggetto adotterà il comportamento virtuoso. Per chiarire ciò supponiamo che vi siano due individui che debbano decidere se pagare le tasse o evadere il fisco. B NE E NE 150 ;18 60 ;24 E 200 ;12 70 ; 16 A (EQUILIBRIO DI NASH SECONDO IL GIOCO ONE SHOT). Il gioco con soluzione one-shot cade nell’ equilibrio 70;16 (quarto quadrante). Si finisce dunque, in un equilibrio che non è Pareto efficiente e quindi si richiede l’intervento dello Stato con l’emanazione di leggi sanzionatorie o con erogazioni di premi. Nei giochi ripetuti ad infinitum un soggetto deve valutare se conviene evadere o non evadere per illimitati rounds. Ipotizziamo che l’individuo B si comporta in maniera virtuosa, e quindi non evade, mentre l’individuo A tende all’evasione. In questo caso, il soggetto A deve tener conto e deve confrontare i guadagni presenti e futuri dell’evasione con quelli della non evasione. A si comporterà spontaneamente in modo corretto quando capisce che il guadagno di oggi e quello futuro attualizzato ad oggi di evadere è inferiore al pay-off di oggi più quello futuro attualizzato ad oggi di non evadere. 18 Generalmente, si associa a Friedman (1971) la prima dimostrazione di tale teorema. Tuttavia, il teorema è noto come Folk Theorem, proprio perché la sua argomentazione è stata avanzata da una moltitudine di studiosi, ed è dunque arduo attribuirne la prima paternità in modo certo. 79 Appunti di Politica Economica A deve considerare che, dato il comportamento corretto di B, se dovesse evadere ha immediatamente dei vantaggi (200>150), ma poiché il gioco si ripete nel futuro l’individuo B vedendo il precedente comportamento di A, cambierà strategia e tenderà ad evadere anche lui (essendo 16>12). Per cui A avrà un pay-off futuro pari a 70. A se non ruba oggi il suo pay-off è 150, nel futuro l’individuo A guadagnerà di nuovo 150, ma deve attualizzare il valore futuro ad oggi, quindi bisogna scontare il valore 150/i19. Si deve notare che il soggetto B corretto non devia strategia. In termini analitici, sulla base del teorema del FOLK, l’individuo A si comporterà spontaneamente in modo corretto quando risulta che: Se l’individuo A si comporta male oggi e in futuro. Se l’individuo A si comporta bene 200 + 70/i < 150 + 150/i Se il pay-off di sinistra è minore del comportarsi bene oggi e domani, allora il soggetto A deciderà di comportarsi spontaneamente in maniera virtuosa. Ossia quando il guadagno di oggi ottenuto non evadendo più “il pay-off futuro attualizzato ad oggi“ risulta essere maggiore del comportarsi male oggi e in futuro attualizzato ad oggi. Risolvendo per i 200 + 70/i < 150 + 150/i 200 – 150 < 150/i – 70/i 50 < 80/i 50 i < 80 i < 80/50 i < 1,6 La strategia del comportarsi bene nasce spontanea quando il tasso d’interesse è inferiore a 1,6 Il soggetto decide di rubare ripetutamente per valori maggiori di 1,6, ossia quando la strategia 150 + 150/i è minore di 200 + 70/i. 19 Per approssimazione usiamo il fattore di attualizzazione 1/i invece che 1/1+i 80 Appunti di Politica Economica Nei giochi ripetuti all’infinito lo Stato non deve mai intervenire visto che di solito l’equilibrio si raggiunge spontaneamente? Lo Stato nei supergiochi può intervenire qualora il tasso d’interesse non è basso e quindi c’è spazio per esso, oppure lo Stato interviene per consentire la gestione dell’alternanza (nel caso di situazioni del tipo Battaglia dei Sessi) e per tramandare le regole del gioco da generazione a generazione (tramanda il sistema istituzionale). Le Istituzioni, in un’accezione più ristretta, sono l’insieme delle regole, delle norme, leggi e convenzioni aventi carattere durevole che regolano la vita di ogni individuo all’interno di uno Stato. Le Istituzioni possono nascere in modo spontaneo, tramite consuetudini, codici morali e comportamenti automatici e in questo caso si parla di “Istituzioni informali” oppure possono nascere perché introdotte da un’autorità pubblica e in questo caso si parla di “Istituzioni formali”. In un’accezione più ampia per Istituzione si intendono “non solo il complesso di norme che durano nel tempo, ma anche le persone che pongono in essere leggi, gestiscono e amministrano la vita di uno Stato”. In questo contesto l’Istituzione fa riferimento all’intera organizzazione burocratica dello Stato che include i Partiti politici, le Università, i Sindacati. Le Istituzioni possono essere pubbliche o private. • ISTITUZIONI PUBBLICHE: perseguono un interesse collettivo, hanno potere d’imperio (dettano i comportamenti da seguire) Regioni, Province e Comuni. • ISTITUZIONI PRIVATE : perseguono interessi del singolo o di un gruppo ristretto, Imprese Mercato in generale. 81 Appunti di Politica Economica 82