1 Abbazia di Fontanella, 24 settembre 2016 IL TEMA DELLA CURA NEL CRISTIANESIMO Introduzione Ha scritto papa Francesco: “Si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri, né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete” (Evangelii gaudium 53). “Globalizzazione dell’indifferenza”; ma altro è il progetto di Dio sull’uomo. Luigi Zoja in un libro dal titolo emblematico, La morte del prossimo (Einaudi, Torino 2009), ha evidenziato come la nostra società tecnologica elimina sempre più la dimensione della prossimità e crea una distanza sempre più grande tra gli esseri umani. “Impugnando un bastone posso sentire se tocco leggermente il mio vicino o se lo percuoto facendogli male. Ma se impugno i comandi di un aereo posso bombardare masse di cittadini senza avvertire niente della loro sofferenza” (Ibid. pp. 20-21). 2 Diventando estranei agli altri finiamo per diventare estranei anche a noi stessi. Come prendersi cura di sé, come prendersi cura dell’altro? Chi è per noi l’altro di cui siamo chiamati a prenderci cura? 1. Chi è il mio prossimo? Parto da una parabola conosciutissima, quella che viene usualmente chiamata “parabola del buon samaritano”, l’unico passo del vangelo in cui appare (due volte) il verbo greco epimeléomai che significa “prendersi cura di” (lo troviamo anche in 1Tm 3,5: “Se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?). La parabola viene raccontata da Gesù a un dottore della Legge, uno che conosceva bene la Scrittura e tutte le sue interpretazioni. È importante considerare il contesto immediato in cui l’evangelista ha collocato questo episodio. Gesù ha appena riconosciuto (non: “ringraziato”) che l’evangelo è nascosto ai sapienti e agli intellettuali ed è rivelato ai piccoli. Subito dopo entra in scena lo scriba, uno che sa (e infatti Gesù non corregge quello che dice; anzi, lo approva). La sua domanda è subdola – Luca dice che “si alzò per tentarlo” -; vorrebbe coglierlo in fallo, forse spera che si lasci sfuggire un parere in contrasto con la tradizione. “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù risponde a sua volta con una domanda, vuole che sia lo scriba a rispondere: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Lo scriba dà una risposta che ci aspetteremmo di trovare soltanto sulla bocca di Gesù, come accade ad esempio nel passo di Mc 12,2834. Lo scriba coglie l’essenziale della Legge: l’amore per Dio e l’amore per il prossimo e Gesù gli dice: “Hai risposto bene. Fa’ questo e vivrai”. Fa’ ciò che sai così bene, mettilo in pratica, traducilo nella tua esistenza quotidiana. A questo punto Luca pone un’altra domanda dello scriba introdotta dall’annotazione: “Quello volendo giustificarsi”; sa di non essere “un giusto”, sa che in lui non vi è coerenza tra parola e vita, cerca di “addomesticare” il comandamento di Dio, di abbassarlo a propria misura. “Chi è mio prossimo?”. Era, a quei tempi, una 3 questione dibattuta nelle scuole rabbiniche. Il prossimo che deve essere oggetto dell’amore dell’ebreo è innanzitutto il fratello ebreo (cf. Lv 17,8.10.13; 19,34). Nelle cerchie rabbiniche di più ampie vedute era considerato prossimo chiunque abitasse la terra di Israele, anche l’immigrato dunque (“Quando un immigrato sta nella vostra terra, non opprimetelo, ma sia tra voi come un fratello e lo amerai come te stesso, perché voi foste immigrati in Egitto”, Lv 19,33-34). Ma ancora di più, secondo alcuni testi dell’Antico Testamento, l’amore si estende al nemico: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, tu ricondurrai al nemico l’animale, e quando vedrai l’asino del tuo nemico venir meno sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso, ma mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,4-5). Lo scriba vorrebbe che Gesù si pronunciasse apertamente. Fino a dove si estende il precetto dell’amore del prossimo? Gesù in risposta racconta una storia, una storia che conoscete tutti. C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico e lungo la via incappa nei briganti che gli portano via tutto quello che ha, lo maltrattano e lo lasciano a terra mezzo morto. Passa un sacerdote; probabilmente aveva appena finito il suo turno di servizio al tempio; aveva vegliato sulla casa di Dio, ma non si piega a vegliare su Dio che dimora in quell’uomo ferito e bisognoso. “Lo vide e passò oltre”, (lett. “passò dall’altra parte”; “girò alla larga”). Non vuole rendersi impuro toccando un moribondo (Lv 21,1-4: “Un sacerdote non si esporrà a diventare impuro per il contatto con un morto, a meno che si tratti di uno dei suoi parenti più stretti”). Anche un levita di passaggio sulla stessa strada “vide e girò al largo”. Luca non spreca molte parole per descrivere il comportamento delle due prime figure che mette in scena. Si ferma invece sulla terza: quella del samaritano. “Vide e ne ebbe compassione”; dovremmo tradurre “le sue viscere furono mosse a compassione”. Il verbo greco splanchnízomai viene usato per parlare della compassione che prova Gesù al vedere la vedova di Nain in pianto per la morte del suo unico figlio (cf. Lc 7,13) e per descrivere l’atteggiamento del padre misericordioso che da lontano vede il ritorno del figlio minore (“le sue viscere furono mosse a compassione, gli corse incontro e lo abbracciò”, Lc 15,20). Il suo vedere è diverso da quello del sacerdote e del levita. Vede e scende vicino a lui come il Signore dopo aver sentito il grido del suo popolo in Egitto (cf. Es 3,7-9). Il suo è il vedere di Dio che è sempre com-passionevole, è capace di divenire compassionevole come Dio è compassionevole (cfr. Lc 6,36). “Gli si avvicinò, gli 4 fasciò le ferite versandovi sopra olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui”. Il racconto si dilunga a descrivere le azioni del samaritano quasi a indicare che non si tratta di un singolo atto di generosità, ma di un atteggiamento che è frutto di attenzione all’altro, di un amore intelligente che sa prevenire i bisogni del sofferente, di un interessamento colmo di amorosa sollecitudine (le sue azioni vengono descritte con sei verbi in due versetti). Dopo aver provveduto ai bisogni immediati pensa al suo futuro; dà una somma all’albergatore e gli raccomanda: “Abbi cura di lui, ciò che spenderai in più te lo darò al mio ritorno”; viene impiegato di nuovo il verbo epimeléomai. Il samaritano non solo si prende cura in prima persona di quell’uomo sofferente, ma coinvolge anche altri, in questo caso l’albergatore. A differenza del sacerdote e del levita che, visto l’uomo ferito, passano dall’altra parte della strada, il samaritano accetta di incontrare l’uomo moribondo e di lasciarsi scomodare da lui, non è indifferente, riconosce in lui un fratello, fratello anche nella sofferenza. Ci vuole coraggio per accettare di incontrare l’altro, soprattutto quando è nel bisogno … il coraggio di guardarci in faccia, il coraggio di riconoscere che la sofferenza dell’altro fa da specchio alla nostra, che la debolezza, la solitudine dell’altro ci rinvia alla nostra solitudine, alla nostra impotenza. La cura dell’altro: forse saremmo disposti a praticarla a patto che fosse un atto di onnipotenza che risolve tutto come per magia, e invece ci scontriamo con i nostri limiti, con la nostra fatica. Per ascoltare l’altro, occorre aver imparato ad ascoltare il primo altro che incontriamo: noi stessi. Per arrivare a “fare compassione” (Lc 10,37; non “provare” o “sentire”, ma mettere in pratica la compassione: fecit misericordiam, traduce Girolamo), occorre riconoscere tutto ciò che dentro di noi si oppone alla solidarietà. Per saper aver cura degli altri occorre saper aver cura di noi (ma su questo ritorneremo più avanti). 5 “Chi di questi tre ti sembra sia diventato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. La domanda non è più: “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Di chi sei disposto a diventare prossimo?”. Dipende da te, non dall’altro. Sei tu che devi farti prossimo all’altro. È una parabola che sfida ogni nostro particolarismo ed esclusivismo. Dicendo: “Hai risposto bene (“correttamente”, in greco: orthôs); fa’ questo e vivrai” (Lc 10,28), Gesù incita il dottore della Legge a passare da un sapere sterile alla realizzazione della parola di Dio. Cerca di essere tu una parola di Dio nel mondo. 2. “Beato chi discerne il Povero” (Sal 41,1) L’altro ci dà fastidio, ci interroga, mette in discussione le nostre sicure abitudini, i nostri pretesi diritti. Incontrare l’altro è morire per rinascere; è una ricchezza se accetto di morire al mio egoismo, alla mia pretesa di essere il centro della realtà. L’altro è altro da me, è un simile dissimile. Il dono più grande che possiamo fargli è riconoscere che esiste e che è altro da me. Il salmo 41 al v. 1 nella versione ebraica suona: “Beato chi ha cura del povero”, ma nella traduzione greca dei LXX si dice una cosa un po’ diversa: “Beato chi discerne il povero”, e dovremmo scrivere il Povero con la maiuscola. Beato cioè chi sa riconoscere nel povero il volto del Signore. A volte ci limitiamo, come dice Ignazio di Antiochia, a essere cristiani “apparenti”; a proposito dei doceti, gruppi di cristiani i quali affermavano che in Gesù Dio si era fatto uomo soltanto “in apparenza”, dice: “A costoro non importa dell’amore, né della vedova, né dell’orfano, né di chi è nel dolore, né di colui che è in catene o che è stato liberato, né di colui che ha fame e sete! Si tengono lontani dall’eucarestia e dalla preghiera, perché non confessano che l’eucarestia è carne del Salvatore nostro Gesù Cristo” (Lettera agli smirnesi 6,2-7,1). “Si tengono lontani dall’eucarestia”: in greco “si tengono lontani dall’agape”, che significa sia l’amore che l’eucarestia. C’è una confusione intenzionale tra i due termini. L’eucarestia è un magistero di amore, è il luogo in cui impariamo che cosa significa amare l’altro come il Signore ci ha amati, un amore 6 gratuito fino al dono per della vita. Non dimentichiamo che nel vangelo di Giovanni al posto dell’eucarestia viene narrata la lavanda dei piedi. Ireneo di Lione chiedeva con forza che l’eucaristia e la vita non fossero disgiunte, ma armonizzate: “Il nostro modo di pensare sia in accordo con l’eucaristia e l’eucaristia plasmi il nostro modo di pensare” (Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,18,5). E oggi? Abbiamo questa consapevolezza? Dove troviamo la forza di amare, di prenderci cura dell’altro? Attingendo all’amore che abbiamo ricevuto. La chiesa, ha detto un giorno papa Francesco, è “un ospedale da campo”, un luogo di rifugio per chi è ferito, bisognoso, un luogo in cui si sperimenta l’accoglienza, l’amore gratuito, e si impara a riversare quest’amore sugli altri. Giovanni Crisostomo nel V secolo diceva che la chiesa è “una farmacia”, nella quale ciascuno può trovare la medicina adatta al suo male. Ma anche nella chiesa di Bergamo si parla di “curato” per indicare il presbitero che coadiuva il parroco (“parroco” = straniero, è colui che presiede la comunità di cristiani, stranieri in questo mondo, viandanti e pellegrini verso il Regno). Si chiama “curato” perché deputato a esercitare il ministero della cura della vita. Chi ha sperimentato e conosciuto l’amore, un amore che viene da Dio è inviato a riversarlo sugli altri. Quest’amorosa cura del prossimo non è buonismo, non è un singolo gesto di buon cuore. L’abbiamo visto nella parabola di Luca; esige vedere, pensare, agire. Nel più antico catechismo cristiano (entro la fine del I secolo) troviamo questo ammonimento: “Sudi la tua elemosina nelle tue mani finché tu non sappia a chi darla” (Didachè 1,6). Origene nel III secolo invitava l’oikónomos della comunità cristiana ad andare a cercare i poveri, perché, faceva osservare, molti si vergognano e non hanno il coraggio di presentarsi a chiedere aiuto. Richiederebbe troppo tempo enumerare anche solo i testi più significativi dei padri della chiesa sul tema della cura dei poveri. Ne ricordo soltanto alcuni. La Didascalia degli Apostoli (inizio III secolo) al c. 4,5 ammonisce: “Vescovi e diaconi, abbiate cura dell’altare di Cristo, cioè delle vedove e degli orfani”. Gregorio di Nissa esorta a non disprezzare i poveri con queste parole: “Considera chi sono e scoprirai la loro grandezza: hanno il volto del Salvatore” (Discorso 1). Da vedere a volte c’è solo il dolore, la miseria materiale e spirituale, un’estrema povertà declinata in tutte le sue forme. Solo nella fede possiamo credere che nel povero regna il Signore e che siamo 7 chiamati a servirlo e ad amarlo. “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non tollerare che sia ignudo! Dopo averlo ornato qui, in chiesa, con stoffe d’oro, non permettere che fuori muoia di freddo … Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di un cuore puro quello che sta fuori, invece, ha bisogno di molta cura” (Om. su Matteo 50,3), dice Giovanni Crisostomo. Infiniti sono anche i testi della tradizione patristica che ricordano che “la terra è di Dio”. “Il mio e il tuo sono fredde parole che introducono nel mondo infinite guerre” (Om. su 1Cor 11,19). “Non abbiamo la proprietà di alcun bene, né il dominio assoluto, ma soltanto l’uso … Il termine (greco) “ricchezze” proviene dal verbo ‘usare’, non dall’espressione ‘essere padroni’; i beni li abbiamo in uso, non in proprietà” (Giovanni Crisostomo, Om. su 1Tm 11,2-3). Basilio quando cita il testo di 1Cor 7,31 che nelle nostre versioni suona: “Il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero … quelli che usano i beni di questo mondo, come se non li usassero”, segue un manoscritto diverso (oppure cita a memoria variando il testo originale) e dice: “usino di questo mondo senza abusarne” (Regola diffusa 20,3). Si aprirebbe qui il tema della cura del creato; usare la terra senza farne un cattivo uso. Aver cura dell’altro è anche non sfruttare in modo iniquo le risorse della sua terra, custodire il creato per le generazioni future … Nel corso del tempo si sono moltiplicate all’interno della tradizione cristiana delle liste di opere di misericordia “corporali” e “spirituali” che sono giunte a una sistematizzazione verso il XII secolo. Queste liste non sono esaustive, ma soltanto indicative, intendono essere delle sollecitazioni indirizzate alla creatività e all’intelligenza dei cristiani; in ogni tempo, in ogni situazione vi è un gesto di cura profetico. 3. Veglia su di te Per aver cura dell’altro occorre innanzitutto saper avere cura di sé. Ascolto e cura di sé, cioè ascolto e cura della prima persona con la quale ci incontriamo! 8 In certo senso noi siamo un dono che Dio ha fatto a noi stessi e di cui dobbiamo avere cura. Io non sono “mia”; sono stata donata a me stessa da Dio attraverso mediazioni umane (mio padre, mia madre); ho ricevuto la cura, più o meno intelligente e premurosa, di insegnanti, di preti o di altri adulti, ma a un certo punto devo assumermi la cura di me per collaborare con quel Dio che mi ha pensato, voluto, inviato nel mondo in un luogo e in un tempo preciso della storia per essere trasparenza del suo amore con la mia esistenza, con la mia carne. Origene afferma: “A che serve confessare che Cristo nasce nella carne, se non nasce nella tua carne?” (Om. sulla Genesi 3,7). “Il Creatore ha assegnato all’uomo come compito il corpo”, ha detto Giovanni Paolo II (Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Roma 19872, p. 255). Vegliare su di sé, aver cura di sé per diventare uomini e donne secondo il progetto di Dio, uomini e donne che vivono nella loro carne l’amore per l’altro. Sono creato a immagine e somiglianza di Dio. L’Antico Testamento proibisce di produrre immagini di Dio perché l’immagine di Dio c’è già: l’essere umano. Siamo chiamati a collaborare con Dio per diventare uomini e donne in pienezza; quando JHWH dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen 1,26), secondo alcuni esegeti, si rivolge all’essere umano. Si tratta di un plurale; non è soltanto Dio che lavora, ma anche l’uomo/la donna deve fare la propria parte per portare a compimento se stesso. È creato a immagine di Dio: l’immagine c’è e non viene mai meno, può essere nascosta, offuscata dal peccato, dall’ignoranza, dalla stupidità, ma resta comunque. Siamo chiamati a portare a compimento la somiglianza: questo dipende da noi, è la nostra parte di lavoro; se vogliamo, se collaboriamo possiamo poco per volta diventare un po’ più somiglianti a Cristo, l’unica vera, perfetta immagine del Padre. Aver cura di sé significa anzitutto conoscere se stessi: è un cammino che non finisce finché si è in vita. Ogni fase della vita mi impone un ri-aggiustamento della mia conoscenza di me stesso. L’essere umano è capace di interrogarsi. Si interroga nel rapporto con se stesso: “Chi sono io in verità? Che cosa voglio? Dove vado? Perché sono? Che cosa mi sta a cuore?”. Si interroga sul rapporto con gli altri: “Perché agisco così? Perché 9 quella persona mi incute soggezione o mi fa arrabbiare o desta in me sentimenti di ostilità? Perché provo invidia o gelosia?”. Si interroga dinanzi agli eventi: “Perché è accaduto questo? Come mi devo comportare? Perché ho reagito in questo modo? Come posso viverlo bene, integrarlo nel mio cammino umano anche se è un evento spiacevole, negativo? Che devo fare delle mie delusioni, del fallimento, dello scacco, della malattia?”. Chi impara a interrogarsi non subisce la vita in modo passivo, ma la accoglie, la orienta. Certamente oltre a interrogarsi di fronte agli eventi personali, l’essere umano si interroga anche dinanzi agli eventi della storia: “Perché la guerra? La fame, le carestie? Perché l’ingiustizia?”. Aver cura di sé e dell’altro è atto eminentemente “politico”, nel senso che riguarda la pólis, la comunità umana. Non m limito all’aiuto concreto e immediato al povero, ma mi impegno per una società in cui non vi siano più poveri! Ma non ci si interroga soltanto sul negativo. Si cerca un perché e un come anche per l’amicizia, l’amore, le cose bellezze, l’arte ... Come farle durare, come goderne? L’arte in tutte le sue forme – musica, arti visive, letteratura, ecc. – sono espressione di una vita interiore, di una ricerca di senso, di contemplazione del bello. Queste domande sempre ripetute ci accompagnano in certa misura per tutto il corso della nostra vita e che si pongono con più forza nei momenti di “svolta”, nelle tappe che segnano la nostra esistenza. Fanno parte di un cammino di “umanizzazione”. Una risposta occorre cercare di darla, o per lo meno occorre imparare a convivere con queste domande, a lasciare che ci inquietino, che ci tengano svegli. Il rischio dell’assopimento è grande. Chi si conosce è padrone di sé e allora può mettersi liberamente e per amore a servizio di Dio e degli altri. Il sal 119,109 nella versione greca della LXX suona: “La mia anima è sempre nelle mie mani”, cioè vigilo su di me, sul mio cuore. In una splendida omelia a commento dell’ammonimento di Dt 15,9: “Veglia su di te”, Basilio dice: “Veglia su te stesso, veglia non su quello che è tuo, o su quello che sta attorno a te, ma su te stesso soltanto … Poiché ciascuno di noi è più facilmente incline a interessarsi delle cose altrui invece che meditare sulle proprie, affinché non abbiamo ad ammalarci di questa malattia il Signore ci dice: ‘Smetti di interessarti della 10 cattiveria del tale o del tal altro; non dar tempo ai tuoi pensieri di esaminare le debolezze altrui, ma veglia su di te, cioè volgi gli occhi del cuore a scrutare te stesso’” (Veglia su di te 3.5). Conoscere se stessi non è sempre facile, non è sempre “bello”. A volte facciamo di tutto per non vederci, per fuggire da noi stessi, per non riconoscere che costantemente ci perdiamo e costantemente abbiamo bisogno di essere salvati. La via di fuga per eccellenza secondo la tradizione cristiana è cedere all’acedia, alla sonnolenza spirituale, lasciarsi vivere invece che vivere. Si cede alla routine, senza farsi troppe domande e, poco a poco, ci sia lascia vincere dall’indifferenza. Diventiamo incapaci di ascoltare noi stessi (ci fa paura); diventiamo incapaci di ascoltare gli altri (ci fa molta paura). Interrogarci sulle motivazioni che ci spingono ad agire per non far da padroni sugli altri magari con la scusa di far loro del bene (cf. 2Cor 1,24). Un’adeguata conoscenza di sé ci consente di non fare da padroni sugli altri (2Cor 1,24), magari con la scusa d far loro del bene; di non seducere, cioè di non “trascinare verso di sé, legare a sé, con un’azione che imprigiona (“i miei poveri”, “i miei malati”, “i miei giovani”, con una forte accentuazione di quell’aggettivo possessivo). Finiamo per diventare come Marta padroni del nostro servizio (Lc 10, 38-42). Si tratta invece di educere, cioè di far uscire verso la relazione con Dio, con gli altri, con la realtà. Serafino di Sarov amava dire: “Trova la pace e migliaia di uomini presso di te troveranno salvezza”. È questo il primo modo di venire in aiuto all’altro; essere uomini e donne di pace, uomini e donne che hanno fatto pace con se stessi. 4. Un’opera di carità possibile a tutti 11 Abbiamo parlato di liste di opere di carità. Molto presto (già con Origene, prima metà del III secolo) alle liste di opere corporali si aggiunsero le liste di opere spirituali. La lista tradizionale delle opere di misericordia corporali è la seguente: 1. Dare da mangiare agli affamati 2. Dare da bere agli assetati 3. Vestire gli ignudi 4. Dare ospitalità ai pellegrini 5. Visitare gli infermi 6. Visitare i carcerati 7. Seppellire i morti E la lista delle opere di misericordia spirituali è la seguente: 1. Consigliare i dubbiosi 2. Insegnare agli ignoranti 3. Ammonire i peccatori 4. Consolare gli afflitti 5. Perdonare le offese 6. Sopportare pazientemente le persone moleste 7. Pregare Dio per i vivi e per i morti Non possiamo fermarci a commentare queste liste, ma vorrei ricordare quello che dice Cesario di Arles: “Ci sono due forme di elemosina: una del cuore, l’altra del denaro … A volte tu vorresti dare qualcosa a un povero, ma non hai niente; invece perdonare lo puoi sempre fare, se solo lo vuoi” (Discorsi al popolo 38,5). L’amore cristiano non è soltanto simpatia, amicizia, non è l’amore passionale che posso provare per qualcuno. L’amore cristiano discende dall’alto, è dono di Dio, è un carisma, è quell’amore che Dio ha per noi, che si riversa nei nostri cuori e che da noi trabocca all’esterno. La cura dell’altro giunge all’amore per il nemico; l’amore non è aggressivo, non tiene conto del male ricevuto, ma sa andare oltre, sa perdonare. Già nell’Antico Testamento troviamo l’invito a perdonare il nemico. Si pensi alla storia di Giuseppe. 12 È una storia di rapporti fraterni “sbagliati”, se così si può dire. Giuseppe non è un modello di santo; provoca i fratelli con i suoi sogni in cui si vede come il più grande di tutti, davanti al quale tutti si devono piegare. È il più amato dal padre e sa sfruttare questo amore a suo vantaggio contro gli altri. E gli altri fratelli non hanno pazienza, non lo sopportano più, fino a decidere di ucciderlo. Poi interviene un fratello e li convince a venderlo come schiavo invece di ucciderlo. E Giuseppe in Egitto attraversa una serie di vicende dolorose che vincono il suo orgoglio; grazie alla sua abilità e alla sua intelligenza fa strada fino a diventare viceré dell’Egitto. Quando la carestia si abbatte sulla terra di Canaan, il vecchio Giacobbe manda i suoi figli in Egitto a cercare del grano e Giuseppe riconosce i suoi fratelli. Poco tempo dopo si farà riconoscere, svelerà: “Io sono Giuseppe, vostro fratello che voi avete venduto come schiavo in Egitto” e farà venire in Egitto tutta la sua famiglia. Dopo la morte di Giacobbe, i fratelli temono che ora, in assenza del padre che in qualche modo li difendeva, giunga per Giuseppe l’ora della vendetta per tutto il male che gli hanno fatto patire. Hanno paura, ma Giuseppe dice loro: “Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Se voi avevate pensate del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,19-20). Giuseppe non tiene conto del male ricevuto dai suoi fratelli, anzi sa trasformarlo, trasfigurare il male che ha patito da parte dei fratelli, ricavando da quella storia che è stata così dolorosa, qualcosa di buono, di positivo, sa trarre il bene anche dal male. A volte è proprio così; se viviamo tutto con bontà e pazienza scopriamo che anche da quello che è andato male, dal dolore, dalla sofferenza possiamo ricavare un insegnamento, imparare un po’ di bontà. L’Antico Testamento, l’abbiamo ricordato all’inizio del nostro incontro, esorta all’amore per lo straniero, alla compassione per il nemico. Nel Nuovo Testamento Gesù dona il comandamento nuovo: “Amatevi come io vi ho amati. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). Il modello dell’amore, il maestro dell’amore è Gesù stesso, è la sua vita. Se il cristiano, vivendo lo spirito delle beatitudini, conosce opposizioni, rifiuti, persecuzioni, d’altro lato non deve essere lui a entrare in conflitto con gli altri, crearsi dei nemici. È nemico di nessuno, ma ha molti nemici. Il suo amore per chi gli ha fatto del male è generato dall’amore che Dio ha avuto per lui “mentre ancora gli era nemico” (Rm 5.8.10). Dobbiamo amare fino alla fine, come ha amato Gesù. 13 Occorre uscire dalla demonizzazione dell’altro: il pagano, lo straniero, l’ebreo, l’eretico, il musulmano sono alcuni dei visi storici in cui i cristiani hanno incarnato il nemico. Nella Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II ricordava “l’acquiescenza manifestata specie in alcuni secoli a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità”. Il vero nemico è in noi e non fuori di noi e la lotta che dobbiamo ingaggiare è quella contro l’assolutizzazione del nostro io. I padri giungono a dire che il nemico può diventare nostro maestro (Zosima, pp. 103. 124125). Quando qualcuno ci fa del male, noi che ci credevamo tanto buoni, scopriamo di avere dentro di noi desideri di vendetta, tanta rabbia, il desiderio cattivo di farla pagare all’altro. In questo il nemico ci fa da maestro: ci fa toccare con mano che non siamo buoni, ci fa conoscere i sentimenti che abbiamo nel cuore, ci offre un’occasione per convertirci. “L’amore non tiene conto del male ricevuto … tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,5.7). Perdonare è qualcosa di gratuito, è un dono che noi facciamo a chi ci ha fatto del male. É un atto creativo che ci trasforma da prigionieri del passato in uomini liberi, in pace con le memorie del passato. Solo chi è libero sa perdonare, perché il perdono non è una re-azione, una risposta vincolata, predeterminata, ma è un atto nuovo, non condizionato da ciò che l’ha provocato; è spezzare la logica del taglione, il desiderio di vendetta. Il perdono è una risposta a una sofferenza che si subisce per mano di qualcun altro. Essa esige, dunque, l’onesto riconoscimento che stiamo soffrendo a motivo di un altro dal quale aspettavamo amore. “Proprio da lui! Proprio da lei!”. Ci è più difficile perdonare le persone che amiamo di più. Se patiamo ingiustizia da parte di un estraneo, la sopportiamo più facilmente. Il perdono è rivolto a coloro che non scusiamo, perché capiamo che in qualche modo sono responsabili dell’offesa che stiamo subendo. Siamo disillusi, ci attendevamo molto da alcune persone, e invece ... Ci sentiamo vittime di gesti di slealtà e di tradimento. Il perdono è un atto intenzionale. Dobbiamo volerlo, porre dei gesti, fare un cammino. Non è un atto, è un processo, un cammino che richiede ripetuti atti di volontà. Tante volte non abbiamo perdonato il passato, anche un lontano passato: i nostri genitori, un torto subito nell’infanzia ... Perdonare significa ricordare il passato, che non vuol dire ripetere mentalmente il passato, ma far riemergere la memoria dell’atto per convertirla. L’oblio non cancella, bensì seppellisce il ricordo indesiderato 14 nella profondità della memoria, dov’è inaccessibile alla coscienza e produce distruzioni tanto più gravi quanto più nascoste. Dimenticare è un modo per non affrontare un ricordo fastidioso o relegarlo nel passato. Gesù non chiede di dimenticare, chiede molto di più. Ci sono ferite che non è possibile dimenticare, perché dopo anni sanguinano ancora. C’è il rischio di essere dominati dall’odio, dall’avversione, ma proprio in quest’odio per chi mi ha fatto del male gli consento di diventare signore e padrone della mia vita. La tragedia più grande dell’essere oggetto del male è il fatto che facilmente la vittima viene trasformata in peccatore, e per questa via si accresce la spirale della violenza. Non c’è da meravigliarsi se i giudei dissero che Gesù stava bestemmiando quando perdonò i peccati. Umanamente il perdono sincero e incondizionato sembra al di là delle nostre possibilità naturali. E allora, come perdonare? Cessando di guardare a ciò che mi ha fatto l’altro per guardare a ciò che ha fatto per me l’Altro, il Signore. Cristo che abita in me può perdonare, lui che ha concluso la sua vita terrena perdonando (Lc 23,34: “Padre, perdona loro; non sanno quello che fanno”). Hanno ucciso Gesù, ma non il potere dell’amore sconfinato. Gesù non chiede il risarcimento delle offese fatte contro di lui, infrange la legge del taglione e va incontro alla morte liberamente, vivendola non come condanna, ma come dono d’amore. È iniziata una nuova via per far fronte al male. La base del rapporto non è più costituita dalle offese che ci procuriamo reciprocamente, ma dall’amore che è capace di vincere il dolore e l’amarezza delle offese. A volte uno non perdona altri perché non sa perdonare a se stesso di aver permesso che l’altro lo offendesse. Perdonarsi: accettare di essere persone fragili, limitate, che sbagliano, accettare i propri errori con serenità senza rabbia contro di sé, avere comprensione e misericordia per se stessi, aver cura delle nostre ferite e delle nostre fragilità. 5. Ancora sulla parabola del buon samaritano: un personaggio di cui si parla poco 15 Ritorniamo per un momento alla parabola del buon samaritano dalla quale abbiamo cercato di lasciarci interrogare. La tradizione patristica ha visto nel buon samaritano Gesù, che si è chinato da fratello sull’uomo ferito, sull’Adamo ferito dal peccato, per curarlo. I padri facevano dunque una lettura cristologica della parabola. Il buon samaritano è Cristo e il discepolo è chiamato a imitare il suo atteggiamento così come al momento della lavanda dei piedi nel vangelo di Giovanni Gesù dice: “Se io che sono maestro ho lavato i piedi a voi che siete i miei discepoli, quanto più dovete lavarveli voi gli uni gli altri” (Gv 13,1-20). Ma io vi propongo un’altra lettura che può essere accostata a quelle che già abbiamo fatto. C’è nella parabola un personaggio di cui non si parla mai e di cui la parabola stessa dice molto poco. Certo, al centro del racconto vi è il buon samaritano, figura positiva, che attira i nostri sguardi e che ci è proposto come modello da imitare. Vi sono poi le due figure negative del sacerdote e del levita, due figure che in qualche modo ci abitano. Dobbiamo saperci riconoscere in esse e iniziare un movimento di conversione per diventare buon samaritano, per diventare prossimo – è un cammino, un movimento, una dinamica che non si risolve una volta per tutte -. Ma in realtà tutta la parabola ruota intorno a quell’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico e che fu lasciato privo di tutto e moribondo da una banda di malviventi. Di quest’uomo non conosciamo il nome, non sappiamo nemmeno se fosse ebreo, non è detto se si trattava di una vittima innocente o se quello che è accaduto è semplicemente un regolamento di conti. Quell’uomo anonimo sembra ridotto a oggetto, preso, gettato, trasportato. È semplicemente un uomo che è nel bisogno, un uomo che soffre. Io vorrei ripercorrere la parabola dal punto di vista di quest’uomo, in cui si potrebbe rispecchiare ciascuno di noi. A un certo punto del suo cammino, della sua storia, della sua vicenda umana, potremmo dire, vede delle mani tese su di lui per derubarlo, per fargli del male, per togliergli un po’ della sua vita fino a lasciarlo mezzo morto. Chissà quanto si sarà spaventato! Mani ostili, mani nemiche. Probabilmente senza un motivo. La vita, a volte, si presenta con queste mani ostili che ci gettano a terra: giunge la malattia, la morte di una persona cara, situazioni avverse … Mani ostili che si abbattono su di noi. E quell’uomo è a terra, nel bisogno. Vede passare il sacerdote e il levita, o meglio, mi verrebbe da dire, vede i tacchi delle loro 16 scarpe che se ne vanno via rapidamente! Forse li conosceva, forse si salutavano quando lui stava ritto in piedi. Adesso è prostrato a terra, fagotto di sangue e di stracci; non è dignitoso fermarsi a parlare con lui; è una perdita di tempo, c’è altro da fare di più importante, ci penserà qualchedun altro. Perché dovrei occuparmene proprio io? E poi quelle ferite da dove vengono? Forse è un poco di buono, non è così innocente come vuol farci credere. E quell’uomo è solo, solo nel momento del bisogno, della sofferenza, come spesso ci troviamo noi nel momento del nostro bisogno. Spesso la tentazione in questi casi è quella di non fidarsi più di nessuno; di concludere che tutti sono come il sacerdote e il levita, tutti sono ipocriti e bugiardi. Tentazione di chiudere le porte a chiunque … E invece quell’uomo si fida di quelle mani tese su di lui, crede che non si tratta più di mani tese per fargli del male, mani ostili; spera, crede che possono essere mani tese per aiutarlo, per venirgli incontro. Ha fede, fa fiducia, si lascia aiutare. Ha quella fede/fiducia che tante volte noi non riusciamo più ad avere; si lascia toccare là dove è ferito, lascia che sia versato olio e vino per lenire le sue piaghe e si lascia portare. Non esiste soltanto la cura che siamo chiamati ad avere per gli altri; noi sani verso i malati; noi ricchi verso i poveri; noi giusti verso i peccatori … Chi di noi può affermare di non avere ferite, di non conoscere forme di povertà, di solitudine, di peccato? Anche noi non possiamo fare a meno della cura degli altri, ma non sempre sappiamo riconoscere che il Signore ci invia “mani” premurose per sostenerci e aiutarci, non sempre sappiamo accettare la cura che gli altri ci offrono con umiltà e gratitudine. Forse nel corso della nostra vita abbiamo avuto cura di chi era nel bisogno, ma sappiamo diventando anziani, malati, accettare di essere bisognosi? Anche questo, credo, ci sia suggerito da questa parabola, anche questo discorso fa parte di una riflessione sul tema della cura. 17 Chi porta chi? Questa è la storia di abba Sisoés e del suo discepolo, monaci nel deserto di Scete, in Egitto, nel IV secolo. Abba Sisoés, padre spirituale di una colonia di monaci, era molto anziano; ormai le gambe non lo reggevano più e gli era molto faticoso percorrere il cammino che dalla sua cella lo conduceva alla chiesa, dove ogni sabato si intratteneva con i fratelli sulla vita spirituale. Il suo giovane discepolo decise allora di costruire una galleria che congiungeva la cella di Sisoès alla chiesa; ogni sabato, si caricava sulle spalle l’anziano e lo trasportava in chiesa senza che nessuno lo vedesse. Abba Sisoés poteva così continuare il suo ministero di guida spirituale senza perdere la sua autorevolezza; nessuno infatti si accorgeva della debolezza e fragilità del suo corpo. Chi porta chi? L’icona rappresenta il giovane che porta l’anziano, sua guida spirituale. Ma è tutta la verità? Il giovane, portando la sua guida, è portato e condotto e non si smarrisce nel cammino. Ma è tutta la verità? Il Signore, lui che è la guida e la via, l’uno e l’altro ha portato e guidato perché, nel portarsi a vicenda (cf. Gal 6,2), non si smarrissero dalla via.