LEZIONI A DISTANZA N. 7. COME INSEGNARE A STUDIARE. PROMUOVERE AUTONOMIA E METODI DI STUDIO N.8. APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO AI COMPORTAMENTI PROBLEMA, DEVIANZA E BULLISMO A cura di PROF. MAURO COZZOLINO DOCENTE DI PSICOLOGIA GENERALE E INTEGRAZIONE MENTE-CORPO DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE, FILOSOFICHE E DELLA FORMAZIONE Con la collaborazione di Dott.ssa Elisabetta Martorano Dott.ssa Silvia Re Lezione a distanza 7: Come insegnare a studiare (promuovere autonomia e metodo di studio) (2 ore) Premessa Perché alcuni studenti imparano con facilità e piacere raggiungendo alti livelli di prestazione, mentre altri hanno carriere scolastiche decisamente più stentate? Esistono almeno quattro livelli o componenti che interagiscono fra loro e che spiegano queste differenze in termini di risultati: § Abilità innate: le abilità innate possono essere definite come capacità o dotazioni che, presenti fin dalla nascita, emergono, crescono e modificano per effetto di numerosi elementi, alcuni più controllabili (ambienti favorevoli, istruzione, esperienze, riflessioni) e altri meno controllabili dal singolo (maturazione, sviluppo cognitivo, influenze socio-culturali). Alcuni autori come Gardner (1999) hanno interpretato le abilità come forme di intelligenza. Nel caso specifico come forme di intelligenza multipla. Le abilità non sono sufficienti a determinare buone prestazioni scolastiche, ma che a volte, addirittura, abilità particolarmente spiccate possono ostacolare l'apprendimento per effetto della mancanza di stimoli adeguati o di un confronto sociale troppo serrato. § Strategie di apprendimento: le strategie di apprendimento costituiscono un aspetto ulteriore che può contribuire a spiegare le differenti prestazioni di studenti con abilità normali e a interpretare in modo più critico i casi di abilità eccezionali. Esse sono un insieme di operazioni cognitive che si pongono scopi, quali la comprensione, il ricordo e che sono potenzialmente attività consapevoli e controllabili. Le strategie di apprendimento e i metodi di studio consentono il raggiungimento di buone prestazioni scolastiche, ma i contenuti imparati non devono soltanto essere appresi, ma anche fissati e mantenuti in memoria per lungo tempo o quantomeno per il tempo necessario prima della prova da sostenere. Le strategie di memoria possono essere definite come quelle procedure che, enfatizzando i normali principi di funzionamento della memoria, quali l’organizzazione del materiale o l’uso di immagini, facilitano il ricordo. L’utilizzo delle strategie di memoria consente di accrescere le conoscenze delle propria memoria. Capacità metacognitive: Il termine metacognizione può quindi essere definito come quell’insieme di attività psichiche che presiedono al funzionamento cognitivo (Cornoldi, 1995). Un ulteriore aspetto è quello che riguarda le stime metacognitive ovvero i giudizi soggettivi che diamo alle nostre personali capacità. Ad esempio, la stima che facciamo della facilità di apprendimento di un certo materiale, essa può essere fatta prima dell’esecuzione del compito (come previsione), durante il compito o dopo l’apprendimento del materiale. Ad una maggiore livello metacognitivo corrisponde una migliore prestazione, nel senso di una maggiore competenza e un impegno prolungato nel tempo (De Beni, 1991). Gli stili cognitivi di elaborazione dell’informazione possono spiegare differenze di ordine qualitativo piuttosto che quantitativo, cioè riguardano i percorsi fatti o le modalità usate per affrontare i diversi compiti di apprendimento piuttosto che i risultati raggiunti. Abbiamo uno stile cognitivo quando si manifesta una tendenza costante e stabile nel tempo ad usare una determinata classe di strategie. Generalmente, le persone si collocano a metà strada all’interno degli stili cognitivi estremi. Lo stile cognitivo di ognuno tende a stabilizzarsi nel tempo attraverso un processo circolare per cui l’adozione dello stile preferito conduce a risultati migliori che, a loro volta, stimolano la § § motivazione e portano a riutilizzare le stesse strategie, adottate in conformità allo stile, per affrontare, in futuro lo stesso compito. Esistono, però, situazioni più facilmente risolvibili con uno stile diverso dal proprio, allora entra in gioco la propria capacità di riconoscere le specifiche situazioni in cui si è coinvolti (entra in gioco il nostro livello metacognitivo). Le prestazioni tendono ad essere migliori se il compito si presta ad essere svolto con una procedura confacente allo stile preferito dal soggetto. In tal senso, nell’apprendimento è opportuno che i ragazzi conoscano e adottino preferibilmente il proprio stile individuale, ma anche facciano esperienza con uno stile alternativo più adatto a certe situazioni o a certi materiali ovvero sapere quando utilizzare uno stile piuttosto che un altro. Motivazione: la motivazione all'apprendimento può essere definita come una configurazione organizzata di esperienze soggettive che consente di spiegare l'inizio, la direzione, l'intensità e la persistenza di un comportamento diretto a uno scopo. La motivazione all'apprendimento non è un processo unitario, ma un insieme di esperienze soggettive sia di natura intrinseca sia estrinseca. Per motivazione intrinseca si intende quel movimento che direziona l'azione verso un certo oggetto, suscitato da fattori come l'interesse, la curiosità, il successo e il potere. Secondo le teorie della motivazione intrinseca esiste un bisogno di apprendere svincolato dai rinforzi ottenuti od ottenibili. Per motivazione estrinseca intendiamo quel movimento che direziona l'azione verso un certo oggetto, suscitato da fattori come i premi, gli elogi, gli incentivi, l'approvazione sociale. Secondo le teorie della motivazione estrinseca, le azioni sarebbero mosse dal bisogno di ottenere successi personali e dai personali livelli di aspirazione (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). Per concludere, si può affermare che i legami fra aspetti strategici e metacognitivi, abilità, stili cognitivi e motivazioni sono molteplici. Si tratta, in realtà di diverse componenti che interagiscono fra di loro all’interno di uno stesso processo che è quello dell’apprendimento. STILI E STRATEGIE DI APPRENDIMENTO Gli stili di apprendimento sono concordemente definiti come le tecniche preferite o prevalenti di funzionamento del cervello nel momento in cui ci si trova ad affrontare l’acquisizione di nuove informazioni. Più in generale, grazie agli esperimenti condotti da psicologi e studiosi dell’apprendimento si è potuto notare come ciascun individuo tenda ad acquisire e a gestire informazioni in modo diverso (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). Per fare alcuni esempi pratici, alcuni studenti si trovano immediatamente a loro agio con dati ed informazioni concrete, mentre altri gestiscono con impressionante facilità teorie e modelli astratti. Oppure, alcuni recepiscono più agevolmente informazioni presentate mediante un supporto visivo (immagini, diagrammi, schemi) mentre altri preferiscono le spiegazioni orali. Anche concetti propri del linguaggio quotidiano come l’introversione e l’estroversione hanno un corrispettivo negli studi sugli stili di apprendimento: si è notato infatti come alcuni studenti ricavino un notevole beneficio dall’interazione con il resto della classe, mentre altri hanno bisogno di lavorare in modo individuale. Questi aspetti, che a prima vista potrebbero sembrare marginali, hanno in realtà una grande influenza sull’effettivo apprendimento degli studenti durante un corso, sull’efficacia delle lezioni ed anche sul clima della classe. Un problema a cui di solito non si dedica abbastanza attenzione, per esempio, è il fatto che, nonostante la maggior parte delle persone siano notoriamente più a loro agio con l’apprendimento di tipo visivo, la maggior parte delle lezioni scolastiche sono strutturate in modo esclusivamente verbale. Si capisce quindi come anche solo un piccolo accorgimento per venire incontro agli apprendenti visivi potrebbe migliorare di molto i risultati di un corso. Si tratta di comportamenti o tecniche di studio che vengono comunemente definiti strategie di apprendimento. Il termine strategia, originario del lessico militare, è impiegato per designare “specifiche azioni intraprese dall’apprendente per rendere l’apprendimento più facile, più veloce, più piacevole, più efficace, più adatto alla propria individualità, più efficace e più facilmente trasferibile a nuove situazioni”. Lo stile di apprendimento individuale, insieme con le altre caratteristiche psicologiche di ogni singolo soggetto, influenza quindi la scelta delle strategie che ciascuno ritiene più confacenti alla propria personalità. E’ quindi molto importante che l’insegnante conosca non solo l’esistenza di vari stili di apprendimento, ma anche sia il più possibile a conoscenza delle caratteristiche individuali di ciascuno studente. Conoscere i punti deboli e i punti di forza degli studenti, rivolgersi a ciascuno secondo le modalità che gli sono più congeniali e modulare lo stile d’insegnamento per centrarlo il più possibile sul discente possono migliorare molto la didattica ed il clima di classe. La vera meta educativa è infatti quella di rendere gli studenti il più possibile in grado di utilizzare un ampio spettro di strategie, pur nei limiti imposti dal loro stile d’apprendimento personale. In questo senso diventa centrale il tema della didattica delle strategie: sotto la guida costante del docente, lo studente deve non solo scoprire quali strategie sono più consone al suo stile cognitivo, ma anche come allenarsi ad utilizzare quelle che gli creano più difficoltà. Lo studio degli stili e delle strategie deve essere in sostanza uno dei tanti aspetti di una didattica che metta l’apprendente al centro del processo educativo e che sia finalizzata allo sviluppo dell’autonomia del discente. A volte le persone usano più di uno stile di apprendimento, a volte una persona dovrebbe cambiare il modo in cui impara a seconda della situazione in cui si trova. La definizione del termine “stile di apprendimento” è, come si è visto, univoca. Esistono invece differenti modelli per osservare e descrivere gli stili di apprendimento. Il modello VARK di Fleming e Mills Il Modello Sensoriale si basa sui tre principali recettori sensoriali, cioè la vista, l’udito e le funzioni legate al movimento, e ha lo scopo di determinare la funzione prevalente. VARK è l’acronimo delle modalità sensoriali Visivo, Auditivo, Verbale/Non Verbale e Cinestesico, così come definito da Fleming and Mills (1992). In una situazione di apprendimento si usano tutti e tre gli strumenti, ma uno solo, o a volte una combinazione di due di essi, tende a prevalere sugli altri. Lo stile dominante, tuttavia, può non essere sempre lo stesso, ma può variare a seconda della situazione o del compito da affrontare. Si elencano di seguito alcune brevi descrizioni dei tre tipi di stili di apprendimento: • Stile Visivo: gli allievi che preferiscono lo stile visivo in generale ricordano meglio ciò che possono vedere. Sono comunque suddivisi in due ulteriori categorie: visivo-linguistico e visivospaziale. Chi preferisce lo stile visivo-linguistico impara attraverso il linguaggio scritto, cioè con attività di lettura o scrittura. Chi preferisce lo stile visivo-spaziale, invece, impara attraverso grafici, tabelle disegni e videoproiezioni. • Stile Auditivo: gli studenti con prevalenza dello stile auditivo hanno bisogno di ascoltare ciò che devono imparare. Amano la lettura ad alta voce e a volte ripetono a voce alta o parlano tra sé e • • sé mentre studiano. Possono avere difficoltà con i compiti scritti, mentre lavorano molto bene nelle situazioni di dialogo con altri studenti. Amano registrare e riascoltare le lezioni. Stile Verbale/Non Verbale: la nozione di apprendimento Verbale/Non Verbale deve essere applicata solo ad una preferenza per immagini, mappe, diagrammi, film e simili, e non può comprendere il linguaggio scritto. Stile Cinestesico: chi è orientato verso lo stile cinestesico ha bisogno di toccare oggetti e di essere in movimento. Questi studenti non riescono a concentrarsi se sono costretti a stare immobili per lungo tempo, amano prendere appunti ed essere coinvolti in varie attività durante le lezioni. Hanno spesso necessità di pause frequenti. Il questionario VARK è stato sviluppato e utilizzato alla Lincoln University per identificare le preferenze degli studenti per particolari modalità di presentazione delle informazioni. Utilizzato con gli studenti, è in grado di fornire un punto di riferimento per lo sviluppo di strategie che sono su misura per gli individui. In questo modo si aiuta a superare la predisposizione di molti educatori per il trattamento di tutti gli studenti in un modo uguale. Utilizzato con gli insegnanti, il questionario li può motivare per passare dal loro modo/i preferiti ad altri. Così facendo, raggiungono più studenti a causa della migliore corrispondenza tra docente e gli stili del discente. Alcuni studenti imparano, mentre altri si sono sintonizzati fuori o hanno difficoltà. Osservando il migliore degli insegnanti a quanto pare non esiste un unico modo migliore per insegnare, ma gli insegnanti che per soddisfare le diverse esigenze degli studenti utilizzano una varietà di metodi di insegnamento vengono premiati con l'apprendimento migliore. Sappiamo da molto tempo che le persone imparano in modi diversi e non vi è alcuna carenza di libri sulle abilità di studio. Il questionario messo a punto alla Lincoln University fornisce agli insegnanti e agli studenti uno stimolo per riflessione e un cambiamento nei loro metodi per prendere informazioni (studenti) e sui loro metodi di presentazione (insegnanti). Evita etichettatura diagnostica, ma fornisce una base per la selezione di strategie pratiche che gli studenti e gli insegnanti possono utilizzare. E 'facile da usare, non protetto da copyright e non in franchising, e viene fornito con una serie di utili strategie per insegnanti e studenti. Non è stato concepito per superare una carenza di questionari su vari aspetti dell'apprendimento. [Fleming, N.D. & Mills, C. (1992). Not Another Inventory, Rather a Catalyst for Reflection. To Improve the Academy, 11, 137-155] Il ciclo dell’apprendimento di Kolb e Fry David A. Kolb, oltre al suo lavoro sull’apprendimento esperienziale, è anche conosciuto per il suo contributo al pensiero comportamento organizzativo (1995). Egli in collaborazione con Roger Fry creò il suo famoso modello composto da 4 elementi: l’esperienza concreta, osservazione e riflessione, formazione di concetti astratti e sperimentazione in nuove situazioni. Egli rappresentò questi elementi nel famoso circolo dell’apprendimento esperienziale. Kolb e Fry sostengono che il ciclo dell’apprendimento può avere inizio da uno qualsiasi dei 4 punti - e che esso dovrebbe in realtà essere considerato come una spirale continua. Questi quattro stadi si sostengono a vicenda, nessuno, preso singolarmente, è efficace per il processo di apprendimento, da qualsiasi punto del ciclo perché ogni stadio alimenta quello successivo. Ciascun stadio ha la medesima importanza all’interno del processo globale e richiede abilità e competenze che gli studenti devono saper applicare a seconda della situazione. Ad ogni modo, si suggerisce che il processo di apprendimento spesso cominci con una persona che mette in atto una particolare azione, che ne vede poi l’effetto nella situazione contingente. A seguito di ciò, il secondo passo è di comprendere gli effetti del caso particolare così che, se la stessa azione venisse intrapresa nelle medesime circostanze, sarebbe possibile anticipare ciò che seguirebbe all’azione stessa. In questo schema, il terzo passo sarebbe la comprensione del principio generale al quale sotto sottostà il caso particolare. [D.A. Kolb (1984), Experiential Learning: Experience as the Source of Learning and Development. Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall] Una persona che ha appreso in questa maniera potrebbe, a giusta ragione, possedere diverse regole pratiche o generalizzazioni su cosa fare in differenti situazioni. Sarà capace di dire quale azione intraprendere nel momento stesso in cui parla, nel momento in cui c’è tensione tra due persone in un gruppo ma non è capace di verbalizzare le proprie azioni in termini psicodinamici o sociologici; che potranno esservi delle difficoltà sulla trasferibilità dell’apprendimento in altri setting e situazioni. Due aspetti appaiono come particolarmente degni di nota: l’uso dell’esperienza concreta “qui ed ora” per sperimentare le idee e l’uso di feedback per cambiare le pratiche e le teorie. Essi misero a punto un questionario sullo “stile di apprendimento” (Kolb 1976) che fu designato per posizionare le persone su una linea (che corre) tra l’esperienza concreta e la concettualizzazione astratta; e tra la sperimentazione attiva e l’osservazione riflessiva. Usando questo questionario Kolb e Fry procedettero nell’identificare 4 stili di apprendimento di base. [Kolb, D. A. (1976), The Learning Style Inventory: Technical Manual, Boston, Ma.: McBer] Stadio dell’esperienza concreta Questo stadio rappresenta la componente del “fare” del ciclo di apprendimento. L'apprendimento si focalizza sul coinvolgimento personale nelle esperienze. In un’ottica di formazione, si utilizzano laboratori, attività sul campo, letture, simulazioni. Le persone che impararono in questo stadio tendono ad essere socievoli, di larghe vedute, estroversi. È il momento cardine, in cui si fanno nuove esperienze o si fa pratica. Stadio della osservazione riflessiva Lo stadio dell’Osservazione Riflessiva si focalizza sull’analisi degli eventi, la comprensione dei significati attraverso l’osservazione imparziale e la descrizione di concrete esperienze. Gli strumenti per l’apprendimento sono la discussione in classe o la lettura o la tenuta di un diario o di un’agenda. Le persone che apprendono in questo stadio sono alquanto meditative. In questo momento l’osservazione si riflette su quanto operato e sulle conseguenze che abbiamo ottenuto. Stadio della concettualizzazione astratta Questa parte del ciclo di apprendimento si focalizza su ciò che è stato studiato, partendo dall’analisi e dall’elaborazione di teorie su ciò che dovrebbe essere concluso e ciò che dovrebbe essere svolto in futuro. Le persone che imparano meglio in questa fase tendono ad essere logiche. In questo stadio l’apprendimento coinvolge l’uso della logica e di idee piuttosto che emozioni per capire problemi o situazioni. È il momento della pianificazione sistemica e dello sviluppo di teorie e di idee per risolvere i problemi. Stadio della sperimentazione attiva In questo stadio della sperimentazione attiva, l’allievo è arrivato a pianificare e trovare nuove idee. Queste nuove idee, a loro volta, fanno parte del ciclo della “concreta esperienza”: si enfatizzano, infatti, le applicazioni, il pragmatismo, l’attenzione a ciò che funziona. Le persone che imparano durante questa fase sono pratiche e concrete. L’ apprendimento diventa attivo tramite la sperimentazione influenzando o cambiando le situazioni. Se le 4 fasi vengono contrapposte due a due, dagli incroci delle coordinate bipolari si evidenziano 4 stili di apprendimento che corrispondono a 4 topologie di soggetti. I quattro tipi di allievi in questo schema di classificazione sono: 1. Tipo 1 (adattivo o produttivo): una questione caratteristica di questo tipo di apprendimento è "Perché?". Lo studente di tipo 1 risponde bene alle spiegazioni di come il materiale didattico si riferisce alla sua esperienza, ai suoi interessi e sue carriere future. Per essere efficace con lo studente di tipo 1, l’insegnante dovrebbe funzionare come un “facilitatore”. L’alunno che predilige esperienza concreta e sperimentazione attiva, sa mettere in atto la tecnica del problem solving. Lo stile di apprendimento di tale tipologia di apprendente è improntato su una partecipazione attiva alle dinamiche della classe, inoltre, preferisce che le teorie vengano introdotte dopo la descrizione delle loro possibili applicazioni. 2. Tipo 2 (divergente o sensibile): una questione caratteristica di questo tipo di apprendimento è "Che cosa?". Lo studente di tipo 2 risponde alle informazioni presentate in modo logico e organizzato e ne beneficia se ha tempo per la riflessione. Per essere efficace, l'insegnante dovrebbe funzionare come un “motivatore”. Delinea la figura di un apprendente che predilige l'osservazione e la riflessione, la cui sensibilità ed emotività sono molto accentuate. Tale profilo è quello di un discente portato per il ragionamento, per il questionarsi sui tanti “perché”, ma senza che tutto ciò gli precluda rapporti interpersonali, scambi di idee. Viene stimolato dalla tecnica del brainstorming per la formulazione di idee. La tipologia del discente è quella di chi è predisposto verso gli studi umanistici. 3. Tipo 3 (convergente o decisionale): una questione caratteristica di questo tipo di apprendimento è "Come?". Lo studente di tipo 3 risponde alle opportunità di lavorare attivamente su compiti ben definiti e di imparare per tentativi ed errori in un ambiente che permette lui di arrestarsi in sicurezza. Per essere efficace, l'insegnante dovrebbe funzionare come un “coach”, che fornisce pratica guidata e feedback. Si caratterizza per l'uso della concettualizzazione astratta e della sperimentazione attiva, valutando in ogni cosa il rapporto costi-benefici. Meno creativo ed emotivo del Divergente, preferisce pianificare e fissarsi delle mete. Il suo stile d'apprendimento lo porta a lavorare per il raggiungimento degli obiettivi specifici ed impara per prove ed errori. Tale tipologia predilige le scienze fisiche. 4. Tipo 4 (assimilatore o teorico): una questione caratteristica di questo tipo di apprendimento è "E se?". Lo studente di tipo 4 applica il materiale didattico in situazioni nuove per risolvere i problemi reali. Per essere efficace, il docente deve essere “l’esperto” a cui fare riferimento, in modo da massimizzare le opportunità per gli studenti di scoprire le cose autonomamente. Lo studente di questa tipologia è portato per le scienze pure, in lui predominano osservazione riflessiva e concettualizzazione ed il ragionamento induttivo, che lo porta a costruire delle ipotesi e a dare soluzioni di tipo teorico. L' Assimilatore tende ad essere obiettivo, razionale, logico, più interessato ai fatti che alle persone. L'impiego del modello di Kolb, da parte del docente è anch'esso finalizzato alla considerazione delle differenze individuali, per potere valorizzare inclinazioni ed attitudini del discente attraverso la decodifica della modalità con cui esso apprende. Per ogni profilo descritto, vi è una tipologia di docente “privilegiato”. Il modello di Honey e Mumford Anche Honey e Mumford (1986) hanno identificato quattro stili di apprendimento, collegati al ciclo dell’apprendimento, simile a quello identificato da Kolb. Secondo Honey e Mumford, il ciclo dell’apprendimento è rafforzato dall’interazione tra il processo di acquisizione e quello di trasformazione della conoscenza, ossia dall’interazione tra esperienze concrete e concetti astratti che è la modalità con la quale acquisiamo nuove conoscenze. Non c’è un punto ottimale da cui partire per apprendere o sviluppare nuove conoscenza. I diversi stili di apprendimento delle persone si differenziano per la preferenza che ciascuno ha nel partire da un punto o dall’altro del cerchio per sviluppare la propria conoscenza. Le tipologie di apprendimento sono quattro: attivista, riflessivo, teorico e pragmatico. Attivista Rappresenta la fase del “fare” dell’apprendimento: preferisce acquisire nuove conoscenze trovando sempre nuovi campi in cui sperimentare. Il suo modo per far evolvere il proprio sapere è procedere per prova ed errore. All’attivista piace lavorare in gruppo nel problem solving e nel roleplaying. Riflessivo Il riflessivo preferisce acquisire nuove conoscenze partendo da esperienze concrete piuttosto che da modelli e teorie astratte, e per migliorare e far evolvere le proprie conoscenze utilizza la riflessione sulle esperienze. Apprende meglio quando viene messo in condizione di osservare esperienze concrete e di sviluppare su questi argomenti. Ama stare in seconda fila rispetto agli eventi, non intervenire per primo in una discussione, poiché ha bisogno di tempo per assimilare le cose prima di prendere proprie iniziative e assumere decisioni. Teorico Il teorico è un ragionatore introverso, preferisce acquisire nuove conoscenze partendo da teorie piuttosto che da esperienze concrete e utilizza la riflessione su concetti, teorie e modelli per migliorare e far evolvere le proprie conoscenze. Apprendono meglio quando hanno la possibilità di esplorare le associazioni e le interrelazioni tra idee, eventi e situazioni, quando le cose da apprendere sono parte di un sistema, un modello o una teoria. Amano analizzare situazioni complesse e trovarsi ad operare in situazioni strutturate con obiettivi chiari. Pragmatico Il pragmatico preferisce acquisire nuove conoscenze a partire da concetti ben formulati, ma il suo modo per migliorare e far evolvere le proprie conoscenze è l’utilizzo della sperimentazione attiva. Apprendono meglio quando c’è un chiaro legame tra l’oggetto dello studio e un problema o una situazione pratica in cui applicarlo. Ama assistere alla presentazione di tecniche che siano applicabili e presentino chiari vantaggi per migliorare il proprio lavoro. Si trovano a proprio agio se hanno la possibilità di sperimentare e utilizzare tecniche potendo contare sulla guida e sul feedback di persone che valutano capaci ed esperte. L’indice degli Stili di Apprendimento di Felder e Silverman Questo modello è stato elaborato da Richard Felder, docente di Ingegneria Chimica alla North Carolina State University, e da Linda Silverman, dell’Institute for the Study of Advanced Development. Si propone innanzitutto come una proposta pratica di miglioramento dei corsi universitari, in particolare quelli di ingegneria, nei quali, secondo gli autori, troppo spesso lo stile d’insegnamento dei docenti non tiene conto degli stili d’apprendimento degli studenti, con un conseguente calo del rendimento delle classi. Lo strumento elaborato, che comprende anche un test online (Index of Learning Styles) per individuare il proprio stile d’apprendimento, ha ottenuto un immediato successo negli Stati Uniti. Il modello Felder-Silverman (1993) si propone come integrazione e riorganizzazione di modelli precedenti, in particolare prende spunti dal modello di David Kolb. Si suddividono infatti gli studenti in base a cinque coppie dicotomiche: Sensoriale/Intuitivo, Visuale/Verbale, Induttivo/Deduttivo, Attivo/Riflessivo e Sequenziale/Globale. Apprendimento Sensoriale / Apprendimento Intuitivo: Gli apprendenti Sensoriali (Sensors) tendono alla concretezza e alla metodicità, amano i fatti concreti, i dati e la sperimentazione, amano risolvere i problemi attraverso procedure note e standardizzate, sono pazienti nell’analisi dei dettagli ma non amano le complicazioni. Essi sono di solito lenti ma precisi. Gli apprendenti Intuitivi (Intuitors) invece amano la varietà e le novità, sono abili nel risolvere problemi in modo creativo e nell’afferrare nuovi concetti, sono veloci nell’apprendimento ma possono essere imprecisi. Secondo gli autori, la maggior parte degli studenti dei corsi di Ingegneria si collocano nella categoria dei Sensors, mentre i professori sono per la maggior parte Intuitors. Si comprende chiaramente come questa differenza possa creare una non corrispondenza tra lo stile d’insegnamento preferito dai docenti e lo stile di apprendimento della maggior parte degli studenti, con conseguenti ricadute sul livello dell’apprendimento. Apprendimento Visivo / Apprendimento Verbale: Il modello Felder riprende questa dicotomia dal modello VARK, eliminando tuttavia la categoria cinestetica, che nell’opinione degli autori non può essere considerata una vera forma di preferenza per un tipo di input sensoriale. La preferenza o necessità per forme di attività fisica durante l’apprendimento può infatti essere compresa nelle dicotomie attivo/riflessivo secondo il modello di Kolb. La distinzione tra apprendimento visivo e verbale è stata introdotta nel modello Felder in un secondo momento, in sostituzione della precedente dicotomia Visuale/Auditivo. Secondo l’autore, infatti, la nozione di apprendimento visivo deve essere applicata solo ad una preferenza per immagini, mappe, diagrammi, film e simili, e non può comprendere il linguaggio scritto, il quale deve invece essere inserito nella categoria verbale, insieme al linguaggio parlato. All’interno della categoria Verbale vengono poi introdotte le ulteriori categorie visivo/verbale, relativa ad una preferenza per la lingua scritta e le attività di lettura, e auditivo/verbale, riferita invece alla preferenza per i suoni della lingua e le attività orali. Secondo Felder è relativamente a questa categoria che si verifica la maggiore incongruenza tra stili di apprendimento e stili di insegnamento: nonostante numerosi studi indichino infatti che la maggior parte degli studenti possono essere considerati apprendenti visivi, o comunque visivo/verbali, lo stile d’insegnamento accademico è uniformemente ancora basato sul modello quasi esclusivamente auditivo/verbale della lectio ex cathedra. Apprendimento Induttivo / Apprendimento Deduttivo: l’induzione è il processo mentale che procede dal particolare al generale, partendo da osservazioni, dati ed esperimenti per ricavarne principi e teorie. La deduzione va nella direzione opposta: si parte dai principi generali di cui si traggono le conseguenze per arrivare all’analisi dei casi specifici. Felder ritiene che l’induzione sia il modo di imparare più naturale per gli esseri umani: fin dall’infanzia, infatti, ci abituiamo a risolvere specifici problemi e a trarne indicazioni di carattere generale. D’altra parte, la deduzione è invece il modo di insegnare che risulta più immediato, soprattutto nel campo delle materie tecnicoscientifiche. Anche in questo caso, quindi, si verifica un’incongruenza; inoltre, è noto come l’insegnamento con metodo deduttivo possa risultare demotivante per gli studenti e non condurre ad una vera e propria acquisizione. Apprendimento Attivo / Apprendimento Riflessivo: Felder ha elaborato questa categoria partendo dalle nozioni di sperimentazione attiva e osservazione riflessiva di Kolb, ed integrandole con la categoria di apprendimento cinestetico del VARK (l’apprendente attivo ha infatti, secondo l’autore, molto in comune con il cinestetico). Gli studenti attivi imparano meglio in situazioni che permettono loro di agire e sperimentare e sono molto versati per il lavoro di gruppo; non danno il meglio, invece, nelle situazioni di staticità e passività. Gli studenti riflessivi, al contrario, preferiscono lavorare da soli e hanno bisogno di tempo per pensare e analizzare con calma ogni nuovo input. Da queste indicazioni si deduce che la lezione frontale tradizionale, in cui gli studenti devono semplicemente ascoltare quanto detto dal docente e prendere appunti non si adattano né all’apprendente attivo, perché gli viene impedita la sperimentazione, né all’apprendente riflessivo, a cui viene negato il tempo per pensare. Apprendimento Sequenziale / Apprendimento Globale: gli studenti sequenziali imparano passo dopo passo, via via che il materiale viene presentato, seguendo ragionamenti lineari e andando dal più facile al più difficile. Dal punto di vista della classe di lingua, sembrano versati per l’apprendimento delle strutture grammaticali e per l’analisi contrastiva. Gli studenti globali invece hanno bisogno di vedere prima il quadro generale per poi ricostruirlo nei particolari, e di procedere in modo anche non lineare, saltando spesso a cose difficili per poi ritornare ad analizzare materiale più facile. Per quanto riguarda la lingua sembrano più dotati per le strutture fonetiche e ritmiche. Gli studenti portati per un apprendimento globale devono essere considerati con particolare cautela. Possono infatti rimanere bloccati anche per lungo tempo su strutture apparentemente semplici, per poi ripartire all’improvviso, raggiungere e spesso anche superare il resto della classe una volta che hanno elaborato la visione d’insieme di cui hanno bisogno. I curricola tradizionali, inoltre, sono strutturati per un apprendimento sequenziale, e di conseguenza coloro che hanno una preferenza per l’apprendimento globale possono essere facilmente demotivati. [Felder R.M., Silverman L.K. (1988), Learning and teaching styles in engineering education, in Engr. Education] STILI COGNITIVI La personalizzazione dei percorsi di apprendimento costituisce uno degli elementi più rilevanti degli attuali sistemi di e-learning sul quale convergono la ricerca pedagogica e quella sulle tecnologie informatiche per l’insegnamento. Questo lavoro propone un modello per l’adattamento dei contenuti multimediali basato sugli stili cognitivi dello studente, ovvero sulle modalità tipiche che ciascun individuo utilizza per affrontare lo studio o risolvere un problema. Per la determinazione degli stili cognitivi è stato utilizzato un questionario teso al riconoscimento degli stili globale, analitico, verbale e visuale dello studente. L’avvento dei sistemi digitali ha introdotto nella scuola, con grandi investimenti e altrettante aspettative, le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC). Si è avviato così un processo che considera le nuove tecnologie come un elemento, seppur non indispensabile all’interno di un determinato percorso didattico, capace di offrire uno stimolo motivazionale, di fornire dati aggiuntivi o organizzati in modo diverso, di rafforzare la rilevanza e la significatività del processo di apprendimento [Calvani A. (2007), Tecnologia, scuola, processi cognitivi. Per una ecologia dell'apprendere, Franco Angeli, Milano] Poiché l’apprendimento è frutto dell’interazione dell’individuo con l’ambiente circostante, le nuove tecnologie, con la loro capacità di incidere sul modo di comunicare e di interagire tra le persone, hanno modificato profondamente i processi di apprendimento, ponendo l’esigenza di creare paradigmi e sistemi didattici in grado di rispondere alle esigenze poste dalla società dell’informazione [Gilli D., Grimaldi A. (1990), Interazione con il computer e processi formativi: ipotesi di lavoro, Franco Angeli, Milano]. Nell’attuazione di un processo formativo è necessario tenere fortemente in considerazione le differenze individuali, in modo tale che l’apprendimento si sviluppi secondo le modalità proprie di ciascuno studente, individuando le sue inclinazioni e adattandosi per facilitare il superamento delle difficoltà che si potrebbero incontrare in determinati contesti. Ancor prima di erogare un corso è, quindi, particolarmente utile riconoscere la specifica modalità con la quale un individuo apprende, la sua predisposizione ad adottare una o più strategie piuttosto che altre in modo indipendente da quanto specificatamente richiesto dal compito, così da creare le condizioni migliori affinché l’obiettivo possa essere raggiunto. Le differenze individuali possono essere quantitative, riferendosi a soggetti più o meno abili, e qualitative, che si presentano quando i soggetti manifestano le medesime abilità ma nel dettaglio si distinguono per differenti profili di sotto abilità (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). In questo quadro si colloca il concetto di stile cognitivo. Secondo le definizioni riportate in “The role of cognitive style in e-learning: a discussion of literature” [Bartomeus, 2003] gli stili cognitivi sono “modelli per l’elaborazione dell’informazione che rappresentano delle modalità tipiche della persona di percepire, pensare, ricordare e risolvere i problemi” (Griggs) ed esprimono “il modo in cui le persone cominciano a concentrarsi sul processo, interiorizzare e conservare le informazioni nuove e difficili” (Dunn e Dunn). Pertanto, come sottolineato da De Beni, Moè e Cornoldi (2003), si ha “uno stile cognitivo tutte le volte in cui si manifesta una tendenza costante e stabile nel tempo a usare una determinata classe di strategie, nell’ambito di una serie di strategie tutte ugualmente applicabili per affrontare il compito specifico”. Per fare degli esempi, colui che si pone di fronte a un problema in modo sistematico piuttosto che intuitivo adotta un determinato stile cognitivo, così come colui che predilige partire da una visione di insieme per scendere poi nei dettagli. Si tratta ovviamente di situazioni estreme. Nella realtà, pur tendendo a consolidarsi sulla base del principio del rinforzo – più un modo di porsi porta ad un risultato positivo più spesso sarà adottato – gli stili cognitivi “presentano la caratteristica della plasticità” [De Beni et al., 2003]. Non tanto e non solo perché esistono una serie di sfumature tra i diversi estremi con cui può essere identificato un determinato stile, ma anche e soprattutto perché non è escluso che un soggetto, in determinate condizioni o posto di fronte ad un determinato compito, ritenga più opportuno adottare uno stile diverso dal proprio se non addirittura opposto. Per questo “nell’apprendimento, è opportuno che i ragazzi conoscano e adottino preferibilmente il proprio stile individuale, ma anche che facciano esperienza con lo stile alternativo, loro meno confacente, imparando a riconoscere le situazioni, ad esempio il tipo di materiale/o di compito, in cui è preferibile utilizzare uno stile piuttosto che un altro” [De Beni R., Moè A., Cornoldi C. (2003), Test AMOS. Abilità e motivazione allo studio: valutazione e orientamento. Questionario sugli stili cognitivi, Erickson, Trento] Un valido aiuto per riconoscere alcune modalità fondamentali di apprendimento viene dalla ricerca psicopedagogica che ha sviluppato l’approccio degli stili cognitivi. Il riconoscimento di stili cognitivi differenziati favorisce, da un lato, una diversificazione delle metodologie di insegnamento, dall’altro, una attenzione particolare ai casi specifici in cui lo stile è scarsamente compatibile con le procedure adottate. Tale approccio sposta, infatti, l’attenzione da un sistema di insegnamento centrato sulla prestazione ad un sistema che sottolinea, a parità di efficienza, gli aspetti qualitativi del processo di apprendimento nel suo svolgersi [Cornoldi, De Beni, 1997]. Esistono diversi modelli per il riconoscimento degli stili di apprendimento, tra i quali ad esempio quello di Felder e Silverman [Felder, 1993]. Sebbene questi stili di apprendimento non siano stati pensati per corsi supportati dalle nuove tecnologie, essi possono essere facilmente adattati a questi ambienti, facendo adeguati parallelismi tra le caratteristiche di ogni stile e i comportamenti adottati dagli utenti durante l’apprendimento supportato da una determinata tecnologia. In particolare, il modello ILS - Index of Learning Style proposto da Felder e Silverman fa riferimento a quattro dimensioni: sistematico/intuitivo, visivo/verbale, impulsivo/riflessivo, analitico/globale [Felder R.M., Silverman L.K. (1988), Learning and teaching styles in engineering education, in Engr. Education.]. Nel lavoro in oggetto, che si basa sul modello proposto da Cornoldi e De Beni, sono state prese in considerazione due delle quattro dimensioni previste: quella globale/analitico e quella verbale/visuale. Gli individui con uno stile globale hanno la tendenza ad organizzare e ad elaborare l’informazione come un insieme; mentre gli individui che si collocano sul versante analitico tendono ad approcciarsi all’ambiente come costituito dalla somma di singole unità separate. Questi ultimi partono dai dettagli, dal particolare e utilizzano pochi aspetti per volta, al contrario dei soggetti definiti globali, che tendono a vedere una situazione nel suo insieme [Cornoldi, De Beni, 1997]. Dall’altra parte il soggetto verbale è colui che preferisce leggere, ascoltare o considerare le informazioni come parole e solo successivamente passa a guardare eventuali illustrazioni, mentre il soggetto visuale legge, ascolta o considera le informazioni che fluiscono alla sua esperienza come immagini mentali. Egli è attratto da rappresentazioni grafiche, mappe nella quali le informazioni di natura visuospaziale hanno un’interfaccia con le parole [Cornoldi, De Beni, 1997]. Considerata la difficoltà oggettiva di individuare lo stile cognitivo di un soggetto – gli stili cognitivi sono, infatti, per loro natura flessibili e osservabili da diversi punti di vista –, nel caso del modello elaborato e applicato al sistema ipermediale “Adaptive Multimedia Learning Content” si è fatto ricorso ad uno strumento collaudato e accreditato: il questionario sugli stili cognitivi (QSC) elaborato da De Beni, Moè e Cornoldi [De Beni, Moè, Cornoldi, 2003]. Il questionario, suddiviso in due parti, indaga le due dimensioni considerate contrapponendo lo stile globale a quello analitico e lo stile verbale a quello visivo. Per misurare lo stile cognitivo globale o analitico il questionario utilizza una figura che include una configurazione globale ed elementi di dettaglio. Si tratta in pratica di un disegno analizzabile sia globalmente, sia nei dettagli sulla base del quale vengono poi poste nove domande per indagare la preferenza dell’utente verso un approccio globale piuttosto che analitico. Per lo stile verbale o visivo viene utilizzata una lista di item espressi visivamente (disegni) o verbalmente (parole) disposti su due colonne in una stessa pagina. Anche in questo caso sono presenti nove domande che vengono proposte agli utenti per evidenziare la preferenza per il codice verbale o visivo sia rispetto al compito proposto, sia in una pluralità di situazioni. Lezione a distanza 8: Approccio psicopedagogico ai comportamenti problema, devianze e bullismo (1 ora e 30 minuti) Comportamenti-problema Il comportamento è l'insieme delle azioni, osservabili e quantificabili, di un organismo nel suo contesto. Definire in modo operazionale un comportamento significa descrivere le azioni, tenendo presente variabili di interesse come frequenza (quante volte in un'unità di tempo emerge), durata, intensità e latenza. Il comportamento problema è qualsiasi forma di comportamento che inibisce oppure interferisce in modo significativo con gli apprendimenti e le attività funzionali al vivere quotidiano (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). Esso nella maggior parte dei casi, non è parte della patologia, è conseguenza dei deficit dovuti alla patologia, ed è plasmato inavvertitamente dall’ambiente circostante, quindi sensibile al cambiamento. Molto spesso la relazione con le persone con ritardo mentale grave o autismo è resa particolarmente difficile e stressante dalla presenza di comportamenti-problema: in alcuni casi la gravità è tale che sembra quasi impossibile stabilire con loro un rapporto produttivo sul piano affettivo, sociale e didattico. In queste situazioni, gli insegnanti, gli educatori ed i familiari riescono con estrema difficoltà a trovare modi efficaci per controllare i comportamenti-problema, e spesso sono in grado solamente di limitare il più possibile i danni, imparando faticosamente a convivere con la problematicità del soggetto. I comportamenti-problema possono assumere le forme più disparate e strane, anche se ne esistono di tipiche e ricorrenti. Alla base della definizione di «comportamento-problema» c’è un vissuto di disagio, preoccupazione, difficoltà, fastidio o paura da parte dell’educatore o del genitore, dovuto a qualcosa che fa il soggetto con handicap. Quest’ultimo compie dei comportamenti strani, diversi da quelli che ci aspettiamo, comportamenti che viviamo, appunto, con disagio o peggio. Possono essere comportamenti-problema estremi, come gli atti autolesionistici, che provocano danni e lesioni al soggetto stesso: mordersi le mani, le braccia, picchiarsi, battere contro i mobili, strapparsi i capelli, oppure forme più strane, come ad esempio l’iperventilazione o crisi di apnea, ecc. Un tipo particolare di autolesionismo è la «pica», ovvero l’abitudine di mettere in bocca e ingerire sostanze e oggetti non commestibili, con gravissimi rischi per la salute del soggetto. In questi casi egli esercita una chiara violenza su se stesso, provocando non poca preoccupazione e sconcerto, mentre con atti aggressivi egli attacca, fisicamente o verbalmente, altre persone, oppure distrugge oggetti o altro. Anche in questo caso abbiamo la possibilità di verificare oggettivamente un danno ad altre persone o cose. Un altro tipo di comportamento-problema, meno grave ma ben più diffuso, è la stereotipia, e cioè l’emettere ripetutamente, per lunghi periodi di tempo, dei comportamenti irrilevanti, come agitare le mani, dondolarsi ritmicamente, ciondolare il capo, girare su se stessi, manipolare oggetti e pezzetti di carta o plastica, e tanti altri comportamenti simili. In questi casi, il comportamento in sé non crea danni o lesioni accertabili al soggetto stesso o ad altre persone o cose, ma in genere lo si ritiene ugualmente problematico. Si ritiene generalmente che le stereotipie siano un comportamento-problema per il fatto che esse producono al soggetto un ostacolo, anche grave, allo sviluppo, all’apprendimento e alla socializzazione. Le persone rischiano di essere assorbite all’interno di una serie di giochi autostimolatori, piacevoli e nell’immediato molto gratificanti, che le distolgono dallo sforzarsi di ricevere stimoli dall’ambiente e dall’eseguire altri tipi di risposte. Vari altri comportamenti si possono considerare ostacoli per lo sviluppo del soggetto; pensiamo ad esempio all’opposizione sistematica e al rifiuto delle richieste dell’adulto, alla rigidità di certe abitudini e rituali ed al fatto di non accettare nessun cambiamento nei programmi stabiliti. In questa categoria potrebbero essere inserite anche le reazioni emozionali eccessive di paura, ansia (ad esempio le fobie per l’acqua, per alcuni animali) e di collera e rabbia anche a lievi frustrazioni, che possono dare origine a lunghissimi episodi di pianto, chiusura in sé e rifiuto delle attività. Come risulta evidente, la categoria dei comportamenti strani, che diventano un «problema» perché costituiscono oggettivamente un ostacolo al soggetto stesso, è amplissima. Per quanto riguarda i comportamenti verbali, si pensi all’ecolalia nell’autismo, alle verbalizzazioni bizzarre, agli insulti, parolacce e bestemmie. Esistono però dei comportamenti strani che percepiamo come problematici, eppure non producono al soggetto né danno né ostacoli rilevanti al suo sviluppo o socializzazione. Sono particolari bizzarrie, come ad esempio il dover assolutamente chiudere sempre tutte le porte di casa, oppure camminare per la città parlando con maghi e folletti immaginari e facendo magie e incantesimi, oppure toccare molto frequentemente il naso della madre, e così via. Descrizione operazionale dei comportamenti-problema e la decisione di problematicità Abbiamo visto che la tipologia dei comportamenti-problema è molto varia e sono diversi i motivi per cui si ritiene che un comportamento sia problematico. Nell’intervento educativo comportamentale le prime due operazioni che si dovrebbero eseguire riguardano appunto la chiarificazione oggettiva della situazione comportamentale del soggetto e la valutazione della reale problematicità dei suoi comportamenti che riteniamo inizialmente strani. Tutte le persone che, a vario titolo, interagiscono con una certa regolarità con il soggetto (insegnanti, educatori, familiari, terapisti, ecc.) dovrebbero collaborare nella stesura della descrizione operazionale dei comportamenti-problema, che consiste nel dettagliare in modo preciso tutte le forme specifiche di comportamento che, per i motivi più vari, creano disagio e preoccupazione e che si vorrebbero conseguentemente ridurre attraverso un intervento educativo. Tra queste persone vi può essere un accordo generico sulla necessità di porre sotto controllo l’“aggressività” di un soggetto oppure la sua “tendenza all’autostimolazione”, ma è necessario che ognuno specifichi, per iscritto e riferendosi solo ad una descrizione di comportamenti osservabili (senza tentare per il momento nessuna interpretazione, anche se può essere evidente la dinamica causale che spiega quel comportamento), cosa si intenda in quel caso per “aggressività” e “autostimolazione”. In genere ne nasce un confronto interessante, dal momento che alcune persone possono ritenere alcuni comportamenti aggressivi e altre essere invece di opinione del tutto opposta. Alla fine di questa fase collettiva di chiarificazione dell’effettiva ed attuale realtà comportamentale del soggetto dovrebbe essere disponibile un elenco di comportamenti ritenuti problematici dalle varie persone, espressi e descritti chiaramente, in modo condiviso ed inequivocabile. All’“aggressività”, si saranno allora sostituite espressioni come ad esempio “dare calci”, “lanciare sedie”, “urlare contro” o “sputare in faccia”. Questi sono i precisi comportamenti ritenuti problematici per quel soggetto: su queste descrizioni si è raggiunto un accordo pieno, nel senso che ognuno riconosce che quel soggetto, con maggiore o minore frequenza, emette qualcuno di quei comportamenti. Questo livello di decisione è importante sia per la ricerca comune di un punto d’accordo da parte del gruppo di persone che poi dovranno allearsi nel progetto di intervento educativo e sia per fornire una base chiara e oggettiva da cui partire per prendere le decisioni su quali saranno gli obiettivi prioritari dell’intervento e perché serve a costruire un sistema di osservazione sistematica e di registrazione dei comportamenti realmente adeguato e definito su misura per le peculiarità di quella situazione. Come noto, la prima fase del processo di problem-solving ci impone di rispondere alla domanda: “Qual è esattamente il problema?” e solo successivamente potremo immaginarci varie ipotesi di azione e soluzione del problema stesso (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). A questo punto il gruppo di persone che condivide la responsabilità educativa su quel soggetto dovrà passare alla seconda fase di questa analisi preliminare, che potremo definire decisione di reale problematicità. Alcune persone riterranno qualche comportamento-problema poco significativo, oppure lo considereranno normale se non addirittura da incoraggiare. Altri invece proveranno molto disagio e preoccupazione per lo stesso comportamento e si sentiranno spinti e legittimati ad intervenire in senso educativo al massimo delle loro capacità. Chi deve decidere se un comportamento strano è realmente un «comportamento-problema» compie infatti questa valutazione attraverso parametri di giudizio che sono costituiti, per la parte soggettiva, delle sue idee e convinzioni su ciò che è normale, utile e positivo e su ciò che invece non lo è. Le persone che hanno la responsabilità educativa nei confronti del soggetto si troveranno dunque a dover decidere se un certo comportamento strano «è un problema o no», e dovranno farlo tenendo ben presente e chiaro il vantaggio e il benessere psicologico e sociale della parte più debole del sistema. La seconda domanda a cui siamo tenuti a rispondere con un accordo educativo sarà dunque: “Quel comportamento strano, anche se non è dannoso, è però un ostacolo al suo sviluppo e benessere?”. In caso affermativo, dovremo decidere che quel comportamento è realmente problematico. L’intervento educativo comportamentale si basa sempre su un’analisi rigorosa e puntuale dei dati oggettivi che vengono raccolti sulle variabili dipendenti, e cioè principalmente sulla frequenza, intensità o durata di emissione dei comportamenti-problema. A questo scopo, durante tutto l’intervento, vengono compiute osservazioni sistematiche del comportamento-problema e altre variabili significative (ad esempio, della frequenza di emissione di comportamenti positivi alternativi a quello problema). I dati raccolti attraverso l’osservazione diretta dei comportamenti andranno riportati su grafici ad assi cartesiani, per chiarezza e praticità di analisi dell’andamento della situazione. Subito dopo la decisione di problematicità, ma prima di compiere l’analisi funzionale del comportamento, si devono raccogliere i dati della linea di base (baseline), che ci forniscono i valori iniziali sulla manifestazione di quei comportamenti, come si presentano prima di iniziare ogni tipo di intervento, fissando così la situazione di partenza naturale. Dalla decisione di problematicità saranno emersi alcuni comportamenti nei confronti dei quali è necessario intervenire. L’analisi funzionale di un comportamento non si limita a osservare il comportamento problema ma allarga l’osservazione anche alla relazione con gli stimoli antecedenti e con le conseguenze. In questo tipo di analisi risulta particolarmente utile una scheda di osservazione organizzata su tre colonne, dove la colonna centrale riporta la risposta, ossia il comportamento messo in atto dalla persona, quella di sinistra gli stimoli antecedenti e quella di destra le conseguenze. Questo tipo di struttura permette di scoprire una certa regolarità nei comportamenti problema. Lo scopo dell’analisi funzionale è quindi quello di cercare di capire il “significato” di un comportamento, la sua possibile funzione. Alla base di questo tipo di analisi vi è una convinzione, banale se si vuole, ma non sempre riconosciuta come valida, e cioè che è quasi impossibile intervenire su un comportamento-problema con buone probabilità di successo e con profondo rispetto della persona se non si è capito perché quella persona si comporta in quel modo. L’analisi funzionale ricerca dunque delle ricorrenze, delle regolarità nelle interazioni soggetto altri significativi del suo ambiente (ma anche soggetto effetti sensoriali dei propri comportamenti problema). In modo molto schematico, sono state individuate tre categorie di effetti, o conseguenze dei comportamenti-problema, che corrispondono ad altrettante funzioni psicologiche. 1. Effetto «arricchimento» di stimoli sociali positivi: il soggetto viene rinforzato positivamente (attraverso il suo comportamento-problema) da altre persone che gli si avvicinano, gli parlano, lo toccano, lo bloccano fisicamente, lo consolano, magari lo rimproverano, ecc. Oppure altri soggetti o bambini ridono, lo imitano, urlano. In questi casi il soggetto può imparare, con il passare del tempo, ad usare i suoi comportamenti-problema per ottenere rinforzi positivi dall’ambiente relazionale più immediato. Più in generale, l’ipotesi funzionale del rinforzamento positivo sociale assume che l’effetto gratificante consista nell’acquisizione, da parte del soggetto, di un qualche grado di controllo, e di determinazione su ciò che accade nell’ambiente circostante, soprattutto a livello delle relazioni interpersonali. 2. Effetto «allontanamento» di situazioni avversive: il soggetto viene rinforzato negativamente, attraverso il suo comportamento-problema, in quanto una situazione spiacevole viene a cessare o si riduce. Il comportamento-problema esercita questa funzione quando il soggetto lo usa, più o meno consapevolmente, per ridurre un vissuto di disagio o di fastidio. Il soggetto può vivere ansia, paura, noia, frustrazione, fatica, senso di incapacità e stati negativi simili: emettendo il comportamento-problema tali vissuti si riducono o spariscono del tutto, perché chi esercita una pressione sul soggetto cambia orientamento e riduce il suo flusso di stimolazioni che producevano il disagio del soggetto. Si pensi al comportamento autolesionistico che il soggetto emette quando l’insegnante gli chiede di impegnarsi a fondo in faticosi esercizi di motricità e che sparisce quando invece queste richieste si ridimensionano o cessano del tutto. In queste due funzioni del comportamento-problema l’effetto prodotto è “esterno”, è qualcosa che avviene nell’ambiente sociale e interpersonale. Mentre nella terza funzione l’effetto è “interno”, nel senso che è il soggetto che con il proprio corpo si produce la conseguenza rinforzante. 3. Effetto stimolazione sensoriale: il soggetto emette dei comportamenti che automaticamente gli producono sensazioni, presumibilmente piacevoli, di tipo cinestesico (dondolarsi, girare su se stesso), tattile (strofinare le mani su mobili lisci, rotolare tra le dita palline di carta, ecc.), olfattivo (annusare giornali o le mani), uditivo (giocare con la carta, sentire lo scricchiolio della plastica) e gustativo (leccare oggetti). In questo caso i comportamenti rinforzati positivamente possono essere veramente diversissimi tra di loro e questa ipotesi funzionale afferma sostanzialmente che al soggetto non interessa nulla dell’ambiente sociale attorno a lui, e di cosa gli viene detto o fatto dopo il comportamentoproblema, dal momento che l’effetto è parte integrante del comportamento stesso. Che l’adulto sia presente o assente no non fa differenza alcuna, oppure che abbia un dato atteggiamento o un altro. Ciò che può invece fare una notevole differenza è il livello di stimoli e di attivazione sensoriale che il soggetto riceve prima di iniziare questi comportamenti-problema con funzione autostimolatoria. È stato dimostrato che se il soggetto si trova in una situazione di inattività, senza coinvolgimento diretto, con basse frequenze di input sensoriali, aumenta di molto la possibilità che emetta comportamenti-problema autostimolatori, i quali in questo caso avrebbero una funzione omeostatica, e cioè di autoregolazione del flusso di stimoli in entrata nel Sistema Nervoso Centrale. Il modello del trattamento meno restrittivo Il “modello del trattamento meno restrittivo” (Foxx, 1982) impone (negli USA anche attraverso la legge 99-457 del 1986) che l’educatore usi dapprima le tecniche positive e proceda nella gerarchia verso quelle più restrittive e punitive solo se i dati che raccoglie nell’applicazione delle procedure positive dimostrano inequivocabilmente la loro inefficacia. In questa valutazione egli dovrà essere affiancato dai colleghi e dai familiari del soggetto. Questi vincoli forzano gli educatori a rivolgersi a fondo dapprima ad una programmazione positiva, a cui si potranno aggiungere tecniche negative solo se la situazione realmente lo richiede. [Foxx R. M. (1995), Tecniche base del metodo comportamentale, Erickson, Trento]. Livello 1: tecniche positive A questo primo livello di intervento l’operatore si rivolge esclusivamente allo sviluppo di abilità e comportamenti incompatibili e funzionalmente analoghi a quello problematico. Queste alternative comportamentali, siano esse forme di comunicazione o attività esploratorie e di gioco, possono essere già presenti nell’attuale repertorio comportamentale del soggetto, anche se molto probabilmente egli le usa molto di rado. In questo caso l’intervento di sviluppo tenderà ad incrementarne la frequenza d’uso principalmente attraverso il rinforzamento positivo di ogni emissione di comportamento corretto. Nel caso invece in cui questi comportamenti non siano presenti, l’operatore dovrà utilizzare anche una tecnica di aiuto diretto (prompting) per insegnare ex novo l’abilità richiesta. Questa guida diretta deve essere esercitata in modo preciso, fermo e convinto, in modo che possa vincere eventuali (e probabili) resistenze del soggetto e un possibile avvio dei comportamenti problema. Inizialmente il soggetto è quasi forzato nell’emissione della risposta corretta dall’uso massiccio del prompting fisico, ma progressivamente questi aiuti tenderanno a ridursi. La durata massima dell’intervento solo al livello 1 è da valutare caso per caso: è un giudizio particolarmente difficile ed affrettarsi al livello 2 o attardarsi più del necessario al livello 1 sono entrambi errori in cui è facile cadere. Livello 2: tecniche positive + frustrazione In questa modalità di intervento l’operatore aggiunge a quelle precedenti, che ovviamente non devono venire interrotte, la procedura detta di “estinzione” del comportamento-problema, che psicologicamente si può considerare una frustrazione del comportamento stesso. In termini operativi, si deve fare in modo che il comportamento-problema non riesca più a produrre le conseguenze rinforzanti che normalmente lo motivavano e lo mantenevano attivo. L’analisi funzionale ci dovrebbe aver dato tutte le informazioni necessarie su queste dinamiche di rinforzamento e così dovremmo essere in grado di applicare correttamente la tecnica di estinzione. La procedura di estinzione può essere relativamente semplice per quei comportamenti che portano a rinforzi sociali, ma è complessa e spesso impossibile nel caso dei comportamenti-problema rinforzati dai loro effetti sensoriali. L’operatore dovrà inoltre essere attento a possibili effetti collaterali dell’estinzione: un atteggiamento frustrante può diventare, anche inavvertitamente, punitivo e produrre rifiuto della situazione di apprendimento o altri comportamenti aggressivi. Per contrastare questi effetti negativi l’operatore ha a disposizione le procedure del livello 1, che dovrebbero “convincere” il soggetto che non sta perdendo l’unico suo modo di esprimersi e di controllare le relazioni, ma che lo si sta aiutando a sostituirlo con altri modi, che sono attualmente gli unici efficaci. Con il livello 2 l’operatore ha posto in essere le principali motivazioni al cambiamento: la gratificazione del comportamento positivo alternativo e la frustrazione di quello problematico. Accade abbastanza spesso però che ancora permangano degli episodi di comportamento-problema e che la loro gravità sia tale da portare il gruppo di operatori e familiari alla decisione di introdurre anche le tecniche punitive del livello 3. Livello 3: tecniche positive + frustrazione + punizione La decisione di usare tecniche punitive non va presa in modo affrettato: forse la costanza e la tenacia sul livello 2 di intervento possono essere sufficienti. In altri casi però, questa decisione è giustificata dalla gravità dei comportamenti e dai danni e ostacoli che ancora essi creano al soggetto. A questo punto, su questa decisione si misura la compattezza e la profondità degli accordi presi inizialmente dal gruppo degli educatori/familiari nel momento della decisione di problematicità. Il primo tipo di intervento punitivo è definito time-out e consiste nell’interrompere per pochi minuti immediatamente dopo il comportamento-problema una qualche situazione gratificante che il soggetto sta vivendo. Un’altra tecnica punitiva va sotto il nome di ipercorrezione, in cui l’operatore “costringe” il soggetto a compiere una serie di azioni per lui fastidiose, come immediata conseguenza del suo comportamento-problema. Questo intervento richiede un contatto attivo da parte dell’educatore, che in qualche caso dovrà forzare il soggetto; anche in questa tecnica è importante fornire al soggetto una spiegazione di cosa non deve fare e del perché deve subire la conseguenza negativa. In molti altri casi però questo rapporto non è possibile e si dovrà ricorrere alla terza tecnica punitiva: il blocco fisico. Nel blocco fisico l’operatore, immediatamente dopo l’emissione del comportamento-problema, immobilizza il soggetto per alcuni minuti (anche con l’aiuto di altri colleghi se necessario), facendolo sedere su una poltrona o sdraiare su un materassino. Questo periodo di blocco dovrebbe durare fino a quando il soggetto, passato il primo momento di ribellione, si rilassa ed accetta il blocco. Attenzione però ai possibili effetti rinforzanti del blocco fisico; alcuni soggetti trovano gratificante essere bloccati e costretti, anche se l’operatore lo fa in modo assolutamente neutrale, senza dir nulla oltre la spiegazione del perché il soggetto è stato bloccato. In questi casi il blocco fisico andrà sostituito con un time-out o ipercorrezione. Come si può immaginare, l’uso delle tecniche del terzo livello non è affatto semplice, dal momento che deve integrare la parte positiva dell’intervento (l’aiuto e la gratificazione) con la parte negativa (la punizione che a volte può essere anche molto impegnativa). Teniamo comunque ben presente che le tecniche punitive saranno sempre utilizzate su una base ben stabilizzata di rinforzamento positivo differenziale dei comportamenti alternativi (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). L’approccio TEACCH Con il termine "Programma TEACCH" (Treatment and Education of Autistic and Communication Handicaped Children), si intende indicare una strutturazione globale dei servizi per l’autismo creato negli anni ‘60 da Eric Schopler nella Carolina del Nord. Il programma ha come fine lo sviluppo del miglior grado possibile di autonomia nella vita personale, sociale e lavorativa, attraverso strategie educative che potenzino le capacità della persona autistica. Uno degli obiettivi essenziali è che nell'età adulta la persona autistica possa vivere con gli altri membri della società in un contesto meno segregante possibile, e di permettergli di gestire al meglio la propria vita quotidiana. Esso si basa su alcune caratteristiche generali. Globalità, durata e individualizzazione dell’intervento: i deficit interpersonali, comunicativi e cognitivi del bambino richiedono un intervento che offra i significati che da solo il bambino non è in grado di organizzare; il fatto che il disturbo, pur migliorando, duri tutta la vita, richiede un’offerta di servizi per l’intero ciclo di vita e di educare il bambino di oggi alle necessità dell’uomo di domani; il fatto che ogni persona con autismo sia diversa dall’altra come caratteristiche e punti di forza impone un’estrema individualizzazione dell’intervento. Collaborazione con le famiglie: secondo Schopler, i genitori sono i migliori esperti del loro bambino [Schopler E., Autismo in famiglia, Erickson, 1998]; essi sono capaci di individuare per lui le priorità e scoprire forme di educazione efficaci. Gli operatori professionali e gli insegnanti, d’altro canto, sono esperti di bambini in generale, di autismo e di trattamenti educativi. I migliori risultati quindi provengono da un’efficace collaborazione tra i due tipi di esperti. La collaborazione tra genitori e operatori è inoltre fonte di reciproco sostegno, necessario quando il lavoro e la vita hanno caratteristiche di impegno gravoso, come nell’autismo, e quando serve esercitare un’adeguata pressione presso le amministrazioni per ottenere servizi migliori. Obiettivo generale è lo sviluppo di abilità: nel bambino, nel genitore, ma anche nelle persone che costituiscono l’ambiente di quel bambino e di quella famiglia, e nell’operatore che ha il compito di aiutarli. L’incremento di abilità, così inteso, porta al miglioramento della qualità della vita, permette il miglior adattamento possibile, da un lato insegnando al bambino abilità adattive, e dall’altro adattando l’ambiente alle necessità del bambino. Personalizzazione. L’approccio TEACCH non ci impone un percorso rigido da applicare tappa per tappa a tutti i bambini con autismo. Ci mostra modi e strumenti per individuare priorità, obiettivi, punti di forza e stili di apprendimento tipici di un singolo bambino, così come priorità e punti di forza di una singola famiglia; modi e strumenti per insegnare a quel specifico bambino aggirando le sue difficoltà. Flessibilità. Questi modi e strumenti non sono definiti una volta per tutte, ma si modificano in base all’esperienza, ai risultati della ricerca, alle buone idee formulate da operatori e genitori. Le modalità tecniche vanno messe al servizio del progetto, che è il miglioramento della qualità della vita. Principio di autonomia e uso spontaneo delle abilità. Il punto di equilibrio tra l’incremento delle abilità del bambino e il cambiamento necessario dell’ambiente è l’esercizio indipendente e spontaneo, cioè senza guida o aiuto, delle abilità possedute. Tale punto di equilibrio è la base per successivi passi in avanti. Gli sforzi di educatori, terapisti e genitori non sono quindi limitati all’insegnamento di nuove abilità, ma concentrati anche sulla facilitazione dell’uso indipendente, utile, significativo, il più possibile flessibile e spontaneo delle abilità possedute. Valutazione continua delle capacità del bambino. E’ necessaria una valutazione sistematica delle abilità del bambino, attraverso la quale si definisce il suo profilo di sviluppo in aree essenziali: imitazione, percezione, motricità globale, motricità fine, coordinazione occhio-mano, performance cognitiva, performance cognitivo-verbale; e la valutazione formale dei comportamenti autistici, in cui si valuta la presenza di comportamenti devianti nelle aree: sensoriale, affettivo-relazionale, uso degli oggetti e del materiale, linguaggio. Programmazione concreta. Gli obiettivi che si sono definiti sulla base delle valutazioni non saranno finalità astratte di sviluppo ma abilità che saranno concretamente utili al bambino nel suo ambiente e che saranno utili alla vita dell’uomo autistico di domani; abilità cioè che la persona potrà esercitare in modo indipendente. Compiti semplici, necessari, utili, nelle aree fondamentali dell’autonomia, della comunicazione, del lavoro, del tempo libero. Concentrarsi su obiettivi in aree tradizionali dello sviluppo infantile è utile solo se questo può contribuire all’uso indipendente di un’abilità con significato e rilevanza funzionale, cioè concretamente utile nell’ambiente di vita della persona. Per esempio: prima di dedicarsi all’abilità emergente «Copiare le lettere maiuscole», conviene dedicarsi all’apprendimento dell’abilità emergente «Chiedere aiuto con un gesto», data la maggiore rilevanza funzionale del secondo obiettivo in molti contesti di vita del bambino. È importante qui tener conto delle priorità dei genitori, condividere con loro le scelte di programma. Strutturazione degli interventi. Insegnare abilità al bambino autistico è un’attività che si svolge secondo i criteri comuni dell’insegnamento: presentazione del compito, aiuti, rinforzo e motivazione, esercizio. Le caratteristiche della patologia autistica ci obbligano però a offrire al bambino un aiuto che aggiri o compensi le sue tipiche difficoltà ad apprendere. La difficoltà fondamentale per l’autistico è quella di ricavare e riconoscere un significato socialmente condiviso nelle varie attività: è questo significato che spesso funziona da «molla» per l’apprendimento dei bambini a sviluppo normale. La sua assenza o la difficoltà della sua costruzione ci costringe a progettare attentamente la struttura del nostro insegnamento per permettere al bambino autistico di utilizzare, per apprendere, le sue caratteristiche di memoria meccanica, ripetitività, adesione a routine, oltre alla buona motricità fine e globale, capacità percettive spesso fuori del comune, abilità visive che compensano quelle uditive spesso carenti. Lo spazio fisico deve essere quindi progettato per aiutare il bambino a capire dove si svolgono determinate attività; uno schema della giornata va definito e comunicato adeguatamente al bambino con mezzi adatti alla sua comprensione. Questi mezzi sono spesso visivi, come sequenze di fotografie o disegni, spesso visivo-tattili, come sequenze di oggetti; a volte parole scritte o agende, a seconda delle necessità del bambino. Egli può dunque comprendere quando è il momento di svolgere determinate attività, e quindi, una volta terminate, cosa fare dopo. Per ogni bambino viene quindi approntato uno schema di lavoro che con mezzi di facilitazione gli permetta di imparare a lavorare in modo indipendente. Ogni compito su cui il bambino dovrà esercitarsi per raggiungerne la padronanza potrà essere organizzato per presentargli con chiarezza i suoi aspetti rilevanti, in modo da permettergli di svolgerlo in modo del tutto indipendente, sganciato dai suggerimenti dell’insegnante, che nel caso del bambino autistico possono diventare una trappola, distraendolo dalle variabili del compito. È bene quindi che i compiti «parlino da soli», suggerendo al bambino cosa fare e come. Lo schema di lavoro permetterà al bambino una chiara visualizzazione anche della quantità di lavoro da svolgere: per esempio i materiali di lavoro possono essere preparati in una vaschetta posta a sinistra del bambino, e messi in una vaschetta a destra quando sono stati completati: in questo modo il bambino ha rapidamente l’idea di quanto tempo avrà da lavorare. La difficoltà (e la sfida) per l’insegnante è in questo caso quella di fornire al bambino il minimo di suggerimenti visivi o tattili sufficiente perché possa lavorare in modo indipendente, per permettergli di organizzarsi progressivamente il lavoro con maggiore completezza (pur sapendo che forse un certo grado di dipendenza da un’organizzazione del lavoro di tipo protesico sarà necessaria per tutta la vita); e inoltre quella di organizzare lavori che si modifichino continuamente fornendo difficoltà graduate superabili dal bambino, in modo da permettergli di svolgere il compito senza annoiarsi ma anche senza incontrare difficoltà per lui insormontabili [Micheli E., Introduzione a La comunicazione spontanea nell’autismo di Schopler E. et al., Erickson, 1998]. Il lavoro educativo nelle aree dell’intersoggettività (riconoscere l’esistenza dell’altro e di sé come soggetti in interazione), della comunicazione (inviare e ricevere messaggi) e delle abilità interpersonali (saper vivere in relazione alle diverse situazioni sociali) ovviamente non potrà svolgersi come lavoro indipendente, richiedendo l’interazione tra più soggetti; ma tener conto della necessità di inserire la pratica degli obiettivi scelti in queste aree all’interno di una chiara struttura, organizzando con chiarezza spazi, tempi, suggerimenti visivi o tattili, permetterà al bambino autistico di imparare qualcosa anche in queste che sono per lui le aree più difficili. Il principio generale quindi è che l’organizzazione di una chiara struttura e l’utilizzo di modalità visive o tattili per comunicare al bambino compiti o momenti della giornata, o sequenze di azioni, sono da considerare strumenti di facilitazione che permettono al bambino autistico di compiere quelle esperienze che a lui, come a tutti i bambini, sono necessarie per apprendere. Intervento educativo sui comportamenti problema. La presenza nel bambino autistico di comportamenti che disturbano o preoccupano le persone intorno a lui è cosa purtroppo ben nota: aggressività, comportamenti pericolosi, fughe, problemi dell’alimentazione e del sonno, stereotipie motorie e routine ossessive fanno tutte parte delle comuni descrizioni della patologia. È interessante il fatto che buona parte di questi problemi nascono dalla confusione che l’ambiente presenta per il bambino autistico, dalla eccessiva difficoltà delle richieste che gli vengono rivolte e dalla mancanza di abilità comunicative e interpersonali che gli impediscono di tener conto degli interessi delle altre persone. Buona parte dei problemi di comportamento sono quindi ridotti quando il bambino incontra un ambiente organizzato secondo i principi dell’educazione strutturata. Quando incontriamo comportamenti problema, è necessario chiederci prioritariamente quali abilità sostitutive bisogna insegnare al bambino, e quali accorgimenti sono necessari nell’ambiente perché esso risulti al bambino più leggibile. In aggiunta a questo principio, quello della prevenzione, possiamo ricorrere, per sconfiggere o ridurre il disturbo derivato da determinati comportamenti, alle tecniche psicoeducative neocomportamentali: l’analisi funzionale, il rinforzo differenziale di forme alternative di comunicazione, l’estinzione, il timeout, ecc. [Ianes D., Autolesionismo, stereotipie, aggressività, Erickson, 1995]. Specifici punti di forza dell’approccio TEACCH utilizzabili in un contesto scolastico integrato 1. Strutturazione dello spazio L’alunno autistico, per le sue caratteristiche nell’elaborazione dell’informazione, ha bisogno di una forte e chiara strutturazione dello spazio in cui vive e svolge le attività: gli accorgimenti utili a questo proposito sono estendibili, a vari gradi, anche alla generalità degli altri alunni. a. Definizione chiara e riconoscibile delle funzioni di un certo ambiente o parti di esso e di cosa si fa in quel contesto. Gli ambienti devono essere suddivisi chiaramente per funzioni (tempo liberoriposo; lavoro-apprendimento; mensa; WC-igiene; ecc.) e ciò che si fa in questi ambienti va segnalato con chiarezza attraverso segnali evidenti, stabiliti, appresi e costanti (oggetti tipici dello svolgimento di quell’attività, oppure immagini, oppure qualcosa di scelto dall’alunno). b. La definizione e le marcature degli spazi devono rimanere costanti nel tempo. c. Un ambiente o una parte di esso deve avere solo una funzione specifica. d. All’interno di uno spazio va definito il posto esclusivo per l’alunno, che rimanga sempre quello e che sia immediatamente riconoscibile. e. In generale, la ricchezza di stimoli e la varietà sono distraenti e disorganizzanti e va scelta anche in base a questo la collocazione nei banchi. 2. Strutturazione del tempo a. Le attività vanno scandite in modo prevedibile, costante e regolare. Le novità e le improvvisazioni possono creare difficoltà e disorganizzazione. Dovrebbero essere create delle routine il più possibile regolari a dimensione giornaliera e settimanale. b. È fondamentale costruire e usare sistematicamente uno strumento di gestione dei passaggi da un’attività a quella successiva. Le forme che può assumere questa «Agenda», possono essere molte (con fotografie, stimoli, oggetti concreti tratti dalle varie attività, ecc.), ma la gestione dell’agenda dovrà comunque prevedere alcune tappe precise che l’alunno fa in sequenza: 1. va all’agenda e prende il simbolo della prossima attività; 2. va al luogo dell’attività; 3. la svolge fino al termine; 4. riporta il simbolo dell’attività all’agenda ricollocandolo nello spazio delle «cose fatte»; 5. prende il simbolo della prossima attività e così via, nei modi più diversi. c. È importante rispettare con accuratezza i tempi di inizio e fine di un’attività, per costruire il senso di routine regolari e prevedibili anche nella loro durata. 3. Strutturazione delle attività Le attività giornaliere dovrebbero configurarsi come una miscela armonica di interventi in aree diverse e con modalità diverse (individuali e di gruppo). 1. All’interno della sequenza dell’attività, inserire spesso periodi di «riposo», anche tra un’attività e l’altra. Non è necessario che siano particolarmente lunghi, l’importante è la regolarità e la prevedibilità. 2. Alternare regolarmente attività individuali ad attività integrate con il gruppo degli alunni. 2.1 Attività individuali, da definire, per quanto riguarda gli obiettivi e i livelli di difficoltà, sulla base delle valutazioni iniziali nel Piano Educativo Individualizzato. In questa parte di attività, si dovrebbe dare priorità alle seguenti aree di sviluppo: • Autonomia personale – autonomia sociale • Abilità cognitive • Comunicazione 2.2 Attività integrate con la classe. Per quanto riguarda questa parte dell’attività, in cui si lavora con l’alunno integrato con gli altri alunni del gruppo classe, ci si può muovere su due strategie, che possono essere seguite in modo consequenziale o contemporaneo, in funzione delle risposte dell’alunno e della classe. a. Strategia dei «piccoli gruppi»: – Si parte dalle attività individuali, nelle quali si inseriscono 1 o 2 alunni del gruppo classe, quelli che più hanno capito la logica di questo tipo di attività e i bisogni e le caratteristiche del loro compagno autistico. – Questo piccolo gruppo lavora per un periodo in uno spazio specifico, finché ha raggiunto dei buoni livelli di stabilità e di collaborazione. – Il piccolo gruppo si trasferisce in aula, a contatto con gli altri alunni, in un nuovo spazio dedicato a questo gruppo per tale attività. – Si differenziano progressivamente e in modo graduale le attività del piccolo gruppo, introducendone di nuove, sempre più vicine a quelle che svolge la classe nel suo insieme. – Si differenzia progressivamente e in modo graduale la composizione del piccolo gruppo, cambiando qualche alunno. Questa strategia si armonizza particolarmente bene con attività didattiche della classe organizzate secondo la metodologia dell’«apprendimento cooperativo» in gruppi di ¾ alunni. b. Strategia dei «tutor»: – Si parte dalle attività che normalmente svolge l’intera classe, integrando l’alunno autistico nel pieno delle attività: • scegliendo quelle attività più «compatibili» con le caratteristiche di quell’alunno; • adattando qualche aspetto dell’attività sulle caratteristiche dell’alunno (utilizzando anche le modalità della strutturazione dello spazio e del tempo); • affiancando sistematicamente all’alunno autistico uno o due tutor, alunni che siano in grado di aiutarlo con regolarità e costanza, ad agire nel contesto dell’attività integrata. Questi alunni tutor dovranno essere scelti accuratamente, più sulla base delle loro capacità di porsi in una corretta relazione di aiuto che non sulla competenza scolastica, nel senso del rendimento. 4. Gestione della comunicazione e del comportamento a. Il linguaggio verbale che utilizziamo, sia nelle comunicazioni informali, sia in quelle più formali, legate alle attività, dovrà essere il più possibile semplice e ridondante, quasi fino alla ripetitività. b. Il linguaggio verbale può essere affiancato da un sistema di segni e simboli chiaro e costante: oggetti, immagini, fotografie, gestualità. c. È estremamente utile definire in modo individualizzato e peculiare un sistema di gratificazioni e di premi da utilizzare in modo costante e ritualizzato, per valorizzare l’impegno, la costanza nel lavoro e l’apprendimento. In alcuni casi può essere utile usare come gratificazione anche il lasciar fare all’alunno autistico un po’ dei suoi comportamenti stereotipati e ripetitivi. d. I comportamenti problematici, se vi sono, vanno gestiti come «crisi» che ogni tanto accadono e che, quando avvengono, devono essere gestite alla meno peggio, limitando i danni, ricorrendo, se possibile, all’opera dei compagni tutor. Alla classe andrebbe spiegato che queste «crisi» di comportamento strano (aggressivo, autolesivo, distruttivo, ecc.) possono avere dei significati: possono essere dei modi di comunicare qualche bisogno, desiderio o stato emotivo negativo, come paura o disagio per qualcosa. Oppure possono essere forme di gioco autostimolatorio particolarmente forte, che non ha funzione comunicativa. In questo modo si stimola la classe a cercare di «leggere» i significati di questi comportamenti, al di là dello spiegarli in modo semplicistico attribuendoli all’«autismo». 5. Acquisizione e mantenimento delle abilità Le caratteristiche cognitive dell’alunno autistico gli rendono difficile estendere le nuove acquisizioni a materiali, contesti, pensare a situazioni nuove. La sua rigidità lo porta ad agganciarsi rigidamente alle situazioni in cui ha lavorato. Per questo si dovrà cercare, con gradualità e cautela, di introdurre nelle situazioni delle varianti, dapprima deboli e poi via via più forti, in modo che le capacità si estendano ad un numero sempre maggiore di variabili della situazione, aumentando l’autonomia reale e, in prospettiva, il mantenimento della capacità acquisita. Procedure per l’acquisizione di nuove competenze § Prompting (aiuto): con i suggerimenti, possiamo gradualmente costruire un comportamento che non era già presente nel repertorio del bambino. Possono essere di vari tipi: fisico, visivo, verbale, gestuali (indicazione, sguardo), testuale, modello (imitativo) (Kazdin, 1975, Foxx, 1982). Dare livello di prompt che garantisca il successo. Devono essere sfumati sistematicamente e rapidamente per evitare la dipendenza. I prompts sono scelti in base a quello più efficace per quel particolare individuo e abilità. Prevedere già come si potranno sfumare. Attenzione a non dare prompt inavvertiti (sguardo, movimento del corpo, movimento delle labbra). § Fading (sfumare): sfumare il suggerimento significa passare da risposte dipendenti a risposte indipendenti diminuendo il livello di prompt fino a fare emergere risposte autonome mantenendo il livello di successo. Le regole per un uso efficace di un suggerimento e di una sfumatura sono: definite il comportamento target; identificate la strategia di suggerimento; stabilite la gerarchia di suggerimento; presentate la richiesta; date il prompt; rinforzate il comportamento corretto; sfumate il prompt; continuate a rinforzare risposte non suggerite o con minor livello di suggerimento. § Shaping (approssimazione all’obiettivo): il processo per cui un nuovo comportamento viene appreso attraverso il rinforzo differenziato delle approssimazioni successive (gioco “acquafuoco, fuocherello”). E’ una tecnica finalizzata a promuovere un graduale miglioramento nell’abilità partendo da una situazione iniziale lontana. Quando il comportamento non si manifesta non posso mai rinforzarlo. § Chaining (concatenamento): una catena stimolo-risposta è una sequenza di stimoli discriminativi (SD) e di risposte (R) in cui ciascuna risposta, tranne l’ultima, fornisce l’SD per la risposta successiva e l’ultima risposta è tipicamente seguita da un rinforzatore (Martin & Pear, 2000). La concatenazione è utile per insegnare abilità che possono essere suddivise in steps (microobiettivi). Task Analysis (analisi del compito): La scomposizione in obiettivi semplici di un compito/attività/ obiettivo complesso. Ogni obiettivo viene poi individualmente rinforzato per raggiungere l’esecuzione dell’intera sequenza o obiettivo complesso. Le componenti devono essere sufficientemente semplici da poter essere apprese senza difficoltà. La scelta dello shaping (modellaggio) o il chaining (concatenamento) dipende dall’obiettivo finale. Metodi di insegnamento di una catena: si svolge una valutazione iniziale rispetto al compito e si verifica se la persona già possiede o no alcuni passi della catena e poi si sceglie il metodo di insegnamento. § Compito intero: vengono presentati ogni volta tutti gli step dall’inizio alla fine della catena fino a che lo studente non ha imparato tutti i passi. § Concatenamento anterogrado: viene rinforzato il primo step e per gli altri viene dato l’aiuto, poi vengono insegnati il primo e il secondo e concatenati l’uno all’altro e poi i primi tre fino all’acquisizione dell’intera sequenza. § Concatenamento retrogrado: il primo step ad essere rinforzato è l’ultimo nella sequenza e poi si insegna il penultimo e così via a ritroso. § Modeling (imitazione) o Apprendimento osservativo: un soggetto apprende un determinato comportamento osservando un’altra persona che manifesta questo comportamento e attraverso le conseguenze mediate e osservate sulle altre persone (apprendimento mediato). Presuppone che la persona sia in grado di imitare e la presenza necessaria di un modello competente e con caratteristiche simili a quelle della persona se il comportamento dell’osservatore viene modificato in funzione del comportamento del modello allora si può parlare di modellamento. Il Video Modelling è un metodo di insegnamento dove le persone imparano guardando un modello su un video che dimostra l’abilità target. Dopo aver visto il video la persona deve riproporre quella situazione imitando il modello. La Token Economy è un sistema di gestione del rinforzo attraverso lo scambio di rinforzatori simbolici, ai quali vengono attribuiti dei punti a seguito di comportamenti adeguati e tolti a seguito di comportamenti inadeguati. E’ applicabile sia a soggetti singoli che a gruppi ed è efficace solo se il comportamento può essere monitorato sempre. I token sono stimoli originariamente non rinforzanti, ma che sono stati condizionati con rinforzatori per cui hanno acquisito proprietà rinforzanti. (es. soldi- rinforzatori condizionati che permettono l’acceso ad altri rinforzatori). Si utilizzano fiches, X su un foglio, asterischi, adesivi e timbri (a seconda del cliente). I vantaggi sono: § § § § può essere immediatamente consegnato dopo un comportamento adeguato e scambiati in un secondo momento (per dilazionare il rinforzo). per rinforzatori difficili da elargire nel momento (es. comprare un gioco). gestione più facile ed efficace dei rinforzi con gruppi di soggetti (rinforzatori diversi). può essere utile nell’aumento dell’autonomia del soggetto dal rinforzo e dalla presenza/lode dell’adulto. Linee guida per l’uso: § § § § definire il comportamento che dovrà essere cambiato e che riceverà il token o che verrà sanzionato attraverso la rimozione del token. identificare il rinforzo con cui verranno scambiati i tokens. coinvolgere il soggetto (es. 5 minuti di pausa, una passeggiata in giardino) e stabilire il numero di token necessari per raggiungere il rinforzatore. scelta (creazione) dei token: gettoni, X, smile… stabilire il momento dello scambio e la modalità di distribuzione: non troppo dilazionato per evitare che perda l’efficacia ma dilazionarlo gradualmente. Devianza e bullismo Generalmente si definisce con il termine “devianza” quell’insieme di comportamenti che infrangono il complesso di valori che, in un dato momento storico e in un determinato contesto sociale, risultano validi e fondanti in base alla cultura del gruppo dominante. Tuttavia bisogna tener conto del fatto che le risposte della collettività ad uno stesso atto variano nello spazio e nel tempo, per queste ragioni si parla di “relatività” dell’atto deviante rispetto al contesto storico, politico e sociale, rispetto all’ambito geografico e rispetto alla situazione. Il comportamento “deviante” è, allora, quello che viola le aspettative legittime e condivise entro un dato sistema sociale e le cui motivazioni sono ravvisabili in due fattori fondamentali: 1. le caratteristiche personali del soggetto (“Fattori Interni”), sia di ordine psicologico (tipo di personalità o livello di maturazione della stessa) sia di ordine psico-sociale (con riferimento all’età, al sesso, al tessuto socio-professionale del soggetto); 2. la situazione socioculturale (“Fattori Esterni”), riconducibile essenzialmente a: l’esperienza di vita collegata alla realtà familiare, scolastica ed economica; l’atteggiamento societario che identifica il comportamento e lo stigmatizza come deviante; le norme, le ideologie; l’“occasione favorevole” connessa agli elementi ambientali e al gruppo amicale; la struttura sociale in quanto tale, con il suo sistema di valori culturali e chiamata in causa come uno dei poli di reazione anomiche, sotto o contro culturali. Il verbo inglese “to bully” significa letteralmente "angariare, opprimere, tiranneggiare", così come il sostantivo “bully” indica una persona prepotente, un bullo. Pertanto, con il termine italiano "bullismo" si definiscono quei comportamenti offensivi e/o aggressivi che un singolo individuo o più persone in gruppo mettono in atto, ripetutamente nel corso del tempo, ai danni di una o più persone con lo scopo di esercitare un potere o un dominio sulla vittima. In questa definizione è implicito il concetto di intenzionalità da parte dell'autore delle offese, che costituiscono delle vere e proprie forme di abuso e che creano un disagio e un danno nelle vittime. Tuttavia, possono essere evidenziate forme diverse di bullismo a seconda del tipo e dell'intensità del comportamento aggressivo. Sharp e Smith (1994) evidenziano le seguenti forme di abuso da bullismo: 1. fisiche 2. verbali (ingiurie, ricatti, intimidazioni, vessazioni) 3. indirette (tra le quali possono rientrare i pettegolezzi fastidiosi e offensivi, l'esclusione sistematica di una persona dalla vita di gruppo, eccetera). Le caratteristiche distintive di questa tipologia di condotta che si vengono a delineare, secondo Menesini, Fonzi e Caprara (2007), sono pertanto: l’intenzionalità, la persistenza nel tempo, l’asimmetria di potere e la natura sociale del fenomeno. Partendo dal pensiero degli autori, proviamo a descrivere queste dimensioni integrandole con alcune riflessioni (Cuzzocrea, 2010): a. Intenzionalità. Un’azione viene definita offensiva quando una persona infligge intenzionalmente o arreca un danno ad un’altra (Olweus, 1978; 1993; Olweus et al., 1999): il bullo agisce deliberatamente, con il preciso scopo di dominare sull’altra persona e di arrecarle disagio. In tal senso, non è bullismo la vittimizzazione casuale o agita inconsapevolmente, come non è bullismo quella agita da un bambino che non è in grado di controllare il suo comportamento (pensiamo ad esempio al caso di soggetti con delle disabilità che potrebbero rendere difficile o assente l’assunzione di consapevolezza o controllo delle proprie azioni). b. Persistenza nel tempo. Sebbene anche un singolo episodio grave possa essere considerato una forma di bullismo, solitamente le prevaricazioni hanno un carattere di cronicità. Nel cyber-bullismo, questo aspetto, però, non è dato tanto dalla frequenza e ripetitività delle prevaricazioni come nel bullismo tradizionale, ma soprattutto dalla possibilità di accedere ad un numero illimitato di volte ad un contenuto offensivo pubblicato on line o diffuso tramite cellulare, di cui è impossibile mantenere il controllo La Barbera, Sideli, Maniscalco, 2008). c. Asimmetria di potere. Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare (Farrington, 1993; Smith, Sharp, 1994). Per parlare di bullismo è necessario che vi sia una asimmetria nella relazione (Olweus, 1993, p. 12) tra il soggetto che agisce le prepotenze – intenzionalmente e con lo scopo di ferire e mettere in difficoltà un compagno più debole – e la vittima che subisce la prepotenza senza avere la forza di reagire e di porre fine alla situazione di disagio. d. Natura sociale del fenomeno. Come testimoniato da molti studi, la condotta prevaricatoria avviene frequentemente alla presenza di altri coetanei che possono assumere un ruolo di rinforzo del comportamento del bullo o semplicemente legittimare il suo operato, ad esempio non intervenendo in aiuto della vittima o non parlandone con gli adulti. Oltre alle quattro dimensioni evidenziate, sentiamo però che sia necessario dotare la definizione di bullismo di altre caratteristiche distintive, al fine di renderlo ancora più comprensibile e distinguerlo da altre forme di vittimizzazione che coinvolgono soggetti in età evolutiva: a) età: il bullismo è una forma di prevaricazione tra coetanei (bambini e adolescenti) che va differenziata da fenomeni di altro tipo che vedono ad esempio coinvolti degli adulti o un adulto e un minore; b) altre problematiche giovanili come ad esempio la devianza minorile, espressione di varie tipologie di condotte che presuppongono, a differenza del bullismo, la commissione di un fattoreato; c) contesto: il bullismo nasce e si sviluppa, direttamente o indirettamente, nel contesto scolastico. Possiamo considerare bullismo oltre alle prevaricazioni che avvengono all’interno della scuola, anche quelle che avvengono all’esterno (nel cortile; nel tragitto scuola-casa; in rete, pensando al caso specifico del cyber-bullismo etc.) se comunque coinvolgono un gruppo di coetanei che condividono/hanno condiviso lo stesso contesto scolastico. [Cuzzocrea V. 2010, (Al di là del) Bullismo. Analisi, traiettorie evolutive e spazi di azione, Alpes, Roma] Secondo Cullingford e Morrison (1995), infatti, tre sono gli aspetti caratteristici di tale fenomeno: la ripetizione (e la reiterazione del comportamento), l'intenzionalità e l'affermazione della supremazia (in termini di età, forza fisica, numerosità, eccetera). È implicito un tratto sadico tipico di tali comportamenti e, inoltre, esiste quasi sempre uno squilibrio di tipo fisico o numerico tra il bullo e la sua vittima. La maggior parte di questi atti si verificano nelle scuole, in particolare nei corridoi e nei cortili di queste, ma anche nei pressi degli istituti scolastici o comunque nei luoghi frequentati dai gruppi di bambini. Coloro che mettono in atto questi comportamenti violenti risultano essere caratterizzati da un modello reattivo aggressivo associato alla forza fisica (Olweus, 1993), oppure possono aver appreso tale stile comportamentale violento in famiglia o nel contesto di provenienza (Sharp, Smith, 1994). Tra gli stili genitoriali che possono caratterizzare la famiglia del bullo sono stati rintracciati: atteggiamenti emotivi caratterizzati da scarso coinvolgimento emotivo, distacco affettivo e anaffettività; difficoltà nella gestione delle emozioni; comportamenti violenti di diverso tipo (verbale, psicologico, morale e fisico); stili educativi permissivi incapaci a contenere e porre dei limiti all'aggressività dei figli che durante la loro crescita non saranno in grado di elaborare strategie funzionali di autocontrollo. Le forme di bullismo: § bullismo diretto, si manifesta in attacchi relativamente aperti nei confronti della vittima, quindi è più esplicito e visibile; § bullismo indiretto, consiste in una forma di isolamento sociale e in un’intenzionale esclusione dal gruppo, è più subdolo e ugualmente pericoloso, se non più pericoloso. Infine, sembrerebbero esistere delle differenze di genere significative: i bulli sono prevalentemente maschi, ma anche una notevole percentuale di femmine possono mettere in atto comportamenti di bullismo. Tuttavia, queste ultime sembrerebbero agire il bullismo non nella sua forma fisica, quanto piuttosto nella forma verbale e ancor più in quella indiretta. Secondo Smith e Brain (2000) i comportamenti tipici del bullismo potrebbero essere considerati un fenomeno fisiologico e, dunque, normativo nella vita di un gruppo, dal momento che atti di aggressività nei confronti dei membri più deboli si verificano in tutti i gruppi (nei luoghi di lavoro, negli istituti penitenziari, nelle caserme, eccetera); tuttavia, non per questo devono essere accettati o considerati "normali". Le vittime del bullismo sono di due tipologie: § le vittime passive o sottomesse soffrono di scarsa autostima, hanno un’opinione negativa di sé e della propria situazione, spesso si considerano fallite e si sentono stupide, timide e poco attraenti, hanno pochi amici e si sentono abbandonate da tutti; § le vittime provocatrici sono ansiose e non sicure di sé ma hanno anche comportamenti aggressivi (hanno spesso problemi di concentrazione e si comportano in modo da causare irritazione, tensione e reazioni negative da parte di molti compagni o di tutta la classe). La prevenzione della devianza è possibile, a condizione che esista un sistema familiare, sociale e giudiziario attento ai segnali del disagio e capace di promuovere risorse, potenzialità, competenze e occasioni di benessere (Cuzzocrea, 2007, Imparare a riconoscere i segnali di malessere per prevenire il disagio, in “Famiglia e minori”, 1; Patrizi et al., 2010). Tale benessere si costruisce attraverso l’acquisizione di tutte le abilità necessarie ad affrontare la crescita e le difficoltà insite nella vita quotidiana: le abilità sociali, di comunicazione e di risoluzione dei problemi, l’acquisizione di punti di riferimento e valori che consentano di prevedere l’esito delle proprie azioni e quindi di ipotizzare il futuro, prossimo e lontano. La mancanza di un sistema di significati può portare, infatti, a una perdita della dimensione progettuale e alla costruzione di un senso solo nel contingente del qui ed ora, perdendo di vista la propria storia, oltre che la dimensione futura della vita (Patrizi, Cuzzocrea, 2012; Cuzzocrea, 2010a). Un programma di intervento adeguato e soprattutto efficace dovrebbe pertanto prevedere la messa a punto di strumenti operativi in grado di garantire la rilevazione e il monitoraggio del fenomeno, un buon livello di supervisione delle attività degli studenti dentro e fuori la scuola e soprattutto in grado di promuovere il riconoscimento degli adulti da parte dei ragazzi come autorevoli. Siano essi genitori, insegnanti, dirigenti, collaboratori scolastici o altre persone a contatto con i bambini e gli adolescenti, è importante che gli adulti imparino ad essere consapevoli del loro ruolo, che richiede un’attenzione ed una sensibilità educativa. Essi devono promuovere un’azione educativa comune nei contesti dove operano, nella convinzione di svolgere un ruolo centrale nell’azione di contrasto e di prevenzione del bullismo. Adulti che devono essere più vicini al percorso evolutivo del bambino e dell’adolescente, più impegnati a dare un senso, un significato, anche affettivo, al rapporto con loro, ma anche più impegnati a definire il proprio ruolo di guida e di garanti delle regole. L’adulto deve impostare con il più giovane una relazione educativa basata sul rispetto reciproco, sulla crescita e sullo scambio individuale. Solo l’azione sinergica di tutti gli adulti significativi per i ragazzi e la definizione di modelli e procedure di prevenzione e presa in carico condivise rendono possibile intervenire tempestivamente ed efficacemente in situazioni complesse come il bullismo, pensare e implementare dei percorsi efficaci di tutela e responsabilizzazione del gruppo classe e del più ampio sistema scuola-famiglia (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). Dall'analisi della letteratura specializzata (Baldry, Farrington, 1998), emerge che gli interventi focalizzati sui genitori e sul loro stile educativo sembrano avere un impatto positivo nei casi di bambini "bulli/vittime", laddove gli interventi focalizzati sulle caratteristiche personali, quali i corsi per incrementare le capacità empatiche nei "bulli" o la popolarità nelle vittime, potrebbero avere un impatto rilevante solo sui bulli o solo sulle vittime. [Baldry A.C. (2001), Bullismo a scuola e comportamenti devianti negli adolescenti: possibili fattori di rischio, in "Rassegna Italiana di Criminologia", pp. 3-4] Ad ogni modo, investire risorse in programmi preventivi finalizzati alla promozione dei comportamenti prosociali nelle varie fasi dello sviluppo concorre alla creazione di relazioni interpersonali positive e ad un miglior adattamento dell'individuo al suo ambiente. Infatti, gli atteggiamenti e i comportamenti prosociali contribuiscono all'attivazione di processi di mediazione utili per la costruzione di un buon adattamento scolastico e sociale. Pertanto, la prosocialità non solo incentiva le relazioni scolastiche e le preferenze sociali dei bambini, ma riduce anche la vulnerabilità alla depressione, sostiene i meccanismi di autoriprovazione a fronte di una condotta colpevole e mitiga la tendenza alla trasgressione o ad altri comportamenti problematici [Bandura A. (1991), Social cognitive theory of sef-regulation, in "Organizational Behavior and Human Decision Processes", 50, pp. 248-287.Carr E.G. (a cura di) (1998), Il problema di comportamento è un messaggio. Interventi basati sulla comunicazione per l’handicap grave e l’autismo, Trento, Erickson] Inoltre, un ulteriore obiettivo significativo da perseguire in un'ottica preventiva è la responsabilizzazione dei ragazzi nella vita della comunità, attraverso il loro coinvolgimento attivo come risorsa utile per il benessere sociale. I nostri giovani, infatti, dovrebbero rappresentare una risorsa e non un problema da fronteggiare (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). In questa prospettiva, bisognerebbe renderli fruitori e organizzatori attivi dei programmi di prevenzione e di intervento che li riguardano, utilizzando metodologie formative e di sostegno innovative, quali ad esempio la peer education, la mediazione volta alla gestione del conflitto, gruppo di discussione, rappresentazioni e attività di role-play sull’argomento del bullismo. Tali interventi sono molto utili per comprendere le dinamiche affettive che hanno originato i comportamenti disfunzionali. Inoltre consentono l’elaborazione del fenomeno e la ricerca di modelli nuovi applicabili, volti a modificare le regole instaurate e gli atteggiamenti informali, impliciti ed espliciti, del gruppo che supporta il bullo. Laddove vi siano accertate situazioni di bullismo può essere utile anche intraprendere percorsi individualizzati di sostegno alle vittime, volti ad incrementarne l’autostima e l’assertività e a potenziarne le risorse di interazione sociale. Anche i prevaricatori possono essere destinatari di interventi mirati a smuoverne le competenze empatiche e a favorire una loro condivisione delle norme morali. Peraltro, gli interventi mirati sul gruppo classe non dovrebbero essere sporadici, isolati dal contesto della vita quotidiana della classe, ma piuttosto ascriversi in un quadro complessivo di attenzione che interessi tutte le persone, le relazioni, le regole, le abitudini del contesto scolastico. Sarebbe opportuno promuovere l’attivo coinvolgimento di tutte le componenti dell’Istituzione Scolastica, contribuendo così a creare un ambiente scolastico caratterizzato da empatia, interessi positivi e coinvolgimento emotivo degli alunni. I programmi di intervento, ai vari livelli (individuale, gruppale, scolastico, familiare, sociale) devono valorizzare, potenziare e promuovere conoscenze, competenze e abilità personali dei ragazzi (Cozzolino, 2007; 2009; 2013). In questa prospettiva gli interventi di prevenzione del bullismo implicano la promozione di life skills, ovvero di capacità adattive e positive e il potenziamento di fattori di protezione con riferimento alle competenze individuali quali, ad esempio, lo sviluppo di un buon livello di autostima, la capacità di assumere uno stile comunicativo e comportamentale assertivi, le abilità di problem solving. BIBLIOGRAFIA § § § § § § Baldry A.C. 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